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Queste sezioni coprono il periodo storico compreso tra la scoperta vera e propria, nel 1492, e la fine del XVI°

secolo,
presentando alcuni personaggi emblematici di queste fasi: nella sezione Scoprire, il protagonista è Colombo, di cui
l'autore cerca di scoprire l'universo mentale e le sue idee circa la nuova terra ed i suoi abitanti; in Conquistare, i
protagonisti diventano due, cioè Moctezuma e Cortés, attraverso i quali vengono analizzati i due contrapposti
schieramenti, indiani e spagnoli, che si affrontano nella conquista del Messico.
La sezione Amare vuole invece presentare il periodo storico successivo alla conquista, dominato dal problema
dell'eguaglianza o ineguaglianza tra spagnoli e indiani; oltre a questo dibattito, è presentata la figura di Las Casas, il
grande difensore degli indiani; in Conoscere poi, il Todorov effettua una interessante analisi della "tipologia dei
rapporti con l'altro", presentando anche due figure di studiosi degli indios, Duràn e Sahagùn, che hanno raccolto le
conoscenze, la storia, la cultura e tutto ciò che era possibile trovare sul popolo azteco, prima che finissero per sempre
nell’oblio. Il loro gigantesco lavoro di raccolta, durato in entrambi i casi fino alla morte, ci permette oggi di conoscere
qualcosa, praticamente tutto quello che sappiamo viene da queste fonti, sulla civiltà azteca e sui suoi costumi.
Infine, nella sezione La profezia di Las Casas, il Todorov, partendo da una profezia-maledizione del frate domenicano,
ci conduce ad una profonda riflessione sul nostro modo di rapportarci all'altro, al diverso; questo argomento, secondo
l'autore, è per il nostro mondo assolutamente vitale, giacché ormai ci stiamo tutti avviando, volenti o nolenti, ad una
globalizzazione totale.
L'altro, conclude il Todorov, "deve essere scoperto", poiché, nel caso contrario, la storia delle conquista dell'America
dovrebbe mostrarci, con sufficiente chiarezza, le conseguenze di questo mancato riconoscimento.

1.Scoprire.

Il primo personaggio presentato da Todorov è Colombo, lo scopritore dell’America, paradossalmente mai accortosi di
averla scoperta, l’uomo che per primo osò sfidare le radicate credenze che descrivevano il tragitto tra Europa ed Asia
come immenso, ed il mare popolato di sirene e mostri di ogni tipo.
I primi dubbi su Colombo li abbiamo non appena cerchiamo di capire perché è partito, quali scopi aveva e quali teorie
lo hanno convinto a lasciare la Spagna per una terra la cui esistenza appariva ai suoi contemporanei quanto meno
dubbia.
Scorrendo le pagine del suo diario di bordo, abbiamo l’impressione che Colombo abbia un unico obiettivo nella
spedizione, e cioè l’oro, e che tutto il suo agire abbia questo esclusivo fine; citeremo due passi dal suo diario –la gamma
degli esempi è sterminata, ma ci limiteremo, in questo caso come nel resto del lavoro, ad una o due citazioni- il primo
dei quali è datato 13 ottobre 1492, il giorno successivo alla scoperta: "Facevo attenzione e cercavo di comprendere se
avessero dell’oro"; e ancora: "Decise di andare all’isola che chiamavano Baneque, dove aveva capito da informazioni
ricevute che c’era molto oro" (13 novembre 1492).

E’ però sufficiente leggere per intero i suoi scritti per accorgersi che è vero semmai il contrario: a Colombo le ricchezze
interessano in quanto ne conosce il valore di esca per gli altri, e sa utilizzarle per tenere legati a sé i suoi uomini durante
tutti i viaggi; ad essere interessati alle ricchezze sono i suoi uomini, ma non solo i marinai, anche i gentiluomini che lo
accompagnano nei viaggi successivi e gli stessi sovrani spagnoli che hanno finanziato la spedizione.
Malgrado la controversia scoppiata poi tra gli eredi del navigatore e la Corona, a Colombo il denaro interessava
relativamente, e solo in quanto faceva parte del riconoscimento del suo ruolo di scopritore: ciò che gli stava davvero a
cuore, era la diffusione della fede cristiana in tutto il mondo, come dice egli stesso nel febbraio del 1502: "Spero di
poter diffondere il santo nome di Nostro Signore e il Suo vangelo in tutto l’universo".
La religiosità di Colombo non è solo di facciata, ma è autenticamente vissuta, tanto che, ad esempio, egli non viaggiava
mai la domenica, e il suo bisogno di denaro è anch’esso al servizio della diffusione del vero Dio: Colombo coltiva il
sogno, in ritardo di diversi secoli, di bandire con i denari guadagnati nelle Americhe una nuova Crociata per liberare i
luoghi santi di Gerusalemme.
Questa idea è ben documentata dagli scritti personali del navigatore, e ci dà notizie di un uomo niente affatto moderno,
ed ancora legato ad un’idea ormai morta nei suoi conterranei europei almeno dal XIII^ secolo: può suonare paradossale
che l’America sia stata scoperta da un uomo che ci è difficile definire moderno, a cui i contatti con Dio interessano più
di quelli con gli uomini, e con una forma di religiosità ancora di tipo medioevale, e che sia proprio tale scoperta, fatta da
un medioevale, a proiettarci nell’età moderna.

La figura di Colombo è però troppo complessa per poter essere abbracciata tutta da un unico aggettivo: da un lato,
infatti, egli subordina tutto a un ideale esteriore ed assoluto, la religione cristiana, mentre dall’altro la scoperta della
natura, l’attività in cui meglio è riuscito, diviene per lui non un mezzo, ma un fine: per Colombo, come per noi moderni,
"scoprire" è un’azione intransitiva: "Voglio vedere e scoprire più terre possibili" (19 ottobre 1492); "Ciò che più
desiderava era, a quel che diceva, di fare altre scoperte" (riportato in Las Casas, Historia, I, 146).
Pare perfino che i profitti interessino a Colombo solo secondariamente: ciò che conta sono le terre e la loro scoperta, e
si direbbe quasi che tale scoperta sia a sua volta subordinata al resoconto del viaggio stesso: la cosa non ci sorprenda, in
un uomo che è partito per l’ignoto per aver letto il racconto di Marco Polo.

Per conoscere meglio la controversa personalità di Colombo, è interessante è un episodio raccontato da Las Casas nella
sua Historia, in cui è riportato il diario del terzo viaggio del navigatore: per dimostrare che la terra che aveva scoperto
era il continente, e non un’altra isola, dice infatti "Sono convinto che questa è una terraferma […]. Ciò che mi
conferma saldamente in questa opinione è questo fiume così grande, e il mare che è così dolce. Sono anche parole di
Esdra, libro IV capitolo sesto, là dove si dice che sei parti del mondo sono di terraferma e una parte è acqua […]. Me
lo confermarono anche i discorsi di molti indiani cannibali da me catturati in altra occasione, i quali dicevano che a
sud del loro paese c’era la terraferma" (Historia, I, 138).
La convinzione di Colombo si fonda dunque su tre argomenti, cioè l’abbondanza di acqua dolce, l’autorità dei libri santi
e l’opinione di altri uomini da lui incontrati, e questi argomenti rivelano che il suo mondo si articolava in tre sfere, una
naturale, una divina ed una umana, sfere che corrispondono, niente affatto casualmente, ai tre moventi all’origine della
conquista: uno umano (cioè la ricchezza), un altro divino (l’espansione del cristianesimo) ed infine uno legato al
godimento della natura.
Per noi queste tre sfere non possono essere messe sullo stesso piano, e per giunta Colombo, in questa specifica
circostanza, se ha ragione, ce l’ha soltanto in relazione al primo argomento, poiché non capiva nulla di quanto gli
indiani dicessero, né questi capivano lui, e per quanto riguarda Dio, noi non consideriamo questo rapporto, come invece
chiaramente faceva Colombo, facente parte del mondo della comunicazione; questa "comunicazione" con Dio è però
assai importante nel suo mondo concettuale, come dimostra, ad esempio, il suo credere all’esistenza del paradiso
terrestre.
Egli ha infatti letto, nell’Imago mundi dello scrittore Pierre d’Ailly che il paradiso terrestre deve trovarsi in una zona
temperata oltre l’equatore, e, specie durante il terzo viaggio, continua ad annotare particolari che dimostrano il suo
approssimarsi ad esso; riportiamo un brano per noi particolarmente spassoso: "Trovai che il mondo non era rotondo
così come viene descritto, ma aveva la forma di una pera, tutta rotondeggiante salvo là dove si trova il picciolo, che è il
punto più elevato; oppure aveva la forma di una palla rotonda, su un punto della quale fosse posata una mammella
femminile; la parte dove si trovava la mammella era la più elevata e la più vicina al cielo, ed era situata sotto la linea
equinoziale in questo mare Oceano, all’estremità dell’Oriente" (Lettera ai sovrani, 31 agosto 1498).
Questa elevazione, descritta come un capezzolo su una pera, diventa un argomento in più per affermare che si tratta del
paradiso terrestre; Colombo si comporta analogamente nel caso delle sirene, vedendo che in realtà non si tratta di belle
donne, ma rifiutandosi di concludere che esse non esistono, e concludendo invece che in realtà non sono belle come si
racconta.

Il modo con cui Colombo interpreta ciò che si trova di fronte, è analogo al modo adottato dai Padri della Chiesa
nell’interpretare la Bibbia: il senso finale è dato subito, di primo acchito, e ciò che si cerca è il percorso che collega il
senso iniziale (il significato apparente delle parole, nel caso del testo biblico) con quel significato ultimo; egli non è
affatto un empirista moderno, poiché l’argomento decisivo non è certo dato dall’autorità, bensì dall’esperienza.
Egli sa già in anticipo cosa troverà, e l’esperienza concreta non viene interrogata per ricercare la verità, ma
semplicemente per illustrare una verità che già si possiede prima.

Colombo, tuttavia, non applica sempre questa strategia finalistica, e nell’osservazione della natura rivela, come abbiamo
osservato prima a proposito del suo concetto di "scoprire", alcuni aspetti incontestabilmente moderni: egli, anzitutto, è
curiosissimo, e per accorgersene è sufficiente leggere qualche pagina del suo diario, in cui si dilunga spesso e volentieri
in elaborate descrizioni degli animali visti e dei loro comportamenti, ed anche in una situazione assai delicata, cioè
mentre la sua nave è arenata sulle coste della Giamaica, trova il tempo di descrivere il combattimento di un pecari ed
una scimmia.
Se egli è molto attento agli animali ed alle piante, lo è ancora di più a tutto ciò che riguarda la navigazione, e ciò gli
permette di compiere delle vere e proprie prodezze, scoprendo nozioni fino ad allora sconosciute, quali la declinazione
magnetica, ed inaugurando il sistema di navigazione con le stelle.

Quando però Colombo cessa di essere il navigatore o il naturalista dilettante, ecco che subito la strategia finalistica ha il
sopravvento, e tutta la ricerca serve a cercare conferme ad una verità giù conosciuta in anticipo: egli infatti, sebbene
impieghi circa un mese a raggiungere l’America una volta lasciate le Canarie, trova già a partire dal 16 settembre gli
indizi di cui è alla ricerca, che gli indichino cioè la prossimità della terra: "Qui essi cominciarono a vedere grande
quantità d’alghe molto verdi che, come sembrava, non si erano staccate molto tempo prima da terra"; ancora il 18, il
19, il 20 ed il 21 settembre, e poi sempre, tutti i giorni, Colombo avvista segni della presenza della terra, malgrado essa
sia ancora distante centinaia di miglia, tanto che vi giungerà solo il 12 ottobre: in mare, tutti i segni indicano la
prossimità della terra poiché tale è il suo desiderio.
Analogamente, a terra tutti i segni rivelano la presenza dell’oro, anche se questo non si trova; uno dei suoi
corrispondenti, poi, gli aveva scritto nel 1495 che "la maggior parte delle cose buone proviene dalle regioni molto
calde, abitate da negri o da pappagalli", e dunque non ci stupiamo che egli faccia sempre notare l’abbondanza di
pappagalli, il colore nero della pelle degli indiani e l’intensità del calore: "Dal caldo che dice di aver provato qui
l’Ammiraglio arguì che in queste Indie, e là dove si trovava, ci doveva essere molto oro" (Giornale, 21 novembre
1492).

Si può notare lo stesso tipo di comportamento anche nella ricerca del continente: quando gli indigeni gli dicono che
Cuba è un’isola, e non il contrario, come egli invece credeva, prima mette in dubbio l’attendibilità della testimonianza
("E poiché sono uomini bestiali, i quali pensano che il mondo intero è un’isola e non sanno neppure cos’è la
terraferma, e sono senza lettere e memorie del passato, e non trovano altro piacere che nel mangiare e nello star con le
donne, dicevano che quella terra era un’isola […]"), e poi fa giurare a tutti i suoi compagni che "quella era senza
subbio alcuno la terraferma e non un’isola, e che, continuando a navigare lungo la detta costa, dopo non molte leghe si
sarebbe giunti a un paese abitato da gente civile e conoscitrice del mondo […]", promettendo a chiunque avesse detto il
contrario la pena del taglio della lingua.

Questo atteggiamento non paia strano, poiché se Colombo è giunto a scoprire l’America, è soltanto perché egli "sapeva"
che essa ci doveva essere, come testimoniano Las Casas, che dice come egli "aveva sempre pensato in fondo all’animo,
quali che fossero le ragioni di questa opinione, che […] alla distanza di settecentocinquanta leghe avrebbe finito con
lo scoprire la terra" (Historia, I, 139), e gli stessi sovrani spagnoli, che, in una lettera del 16 agosto 1494, scrivono
che "quel che ci avevate annunciato si è realizzato come se l’aveste visto prima di parlarne con noi"; se poi Colombo,
nel corso del terzo viaggio, finisce per scoprire il continente vero e proprio, ciò accade perché sta cercando quella che
noi chiamiamo America meridionale, convinto che, per ragioni di simmetria, vi debbano essere sulla Terra quattro
continenti, divisi in due coppie, la prima formata dall’Europa e dall’Africa, mentre l’Asia è l’elemento settentrionale
della seconda.

Ognuno si avvede che questo tipo di interpretazione, fondata sulla prescienza e sull’autorità non ha nulla di moderno,
ma tale atteggiamento è compensato, come dicevamo sopra, da un altro a noi più famigliare, cioè l’ammirazione
intransitiva della natura, un godimento della natura che non obbedisce ad alcuna finalità: il verde degli alberi diviene
così talmente intenso da non essere più verde, ed ogni isola è la cosa più deliziosa che esista al mondo e "tanta era la
gioia nel vedere quella vegetazione e quegli alberi e nell’udire il canto degli uccelli, che non avrebbe più voluto
allontanarsene per fare ritorno" (28 ottobre 1492).

Per riassumere, dunque, l’osservazione attenta della natura conduce Colombo a tre diversi esiti, cioè all’interpretazione
pragmatica nel caso di questioni di navigazione, all’interpretazione finalistica quando i segni confermano le credenze e
le speranze già possedute, e a quel rifiuto di ogni interpretazione che è l’ammirazione intransitiva.

Occupandoci ora, invece, della comunicazione umana, dobbiamo premettere che, a differenza dei segni della natura, che
sono associazioni stabili, i segni umani, cioè le parole di una lingua, non collegano direttamente un suono (il
significante) e l’oggetto (il referente, per intenderci), ma passano attraverso la mediazione del significato.
Colombo, che abbiamo detto essere più portato alla comunicazione con la natura, presta infatti un’attenzione pressoché
esclusiva ai nomi propri, cioè a quanto vi è di più simile agli indizi naturali.
Egli poi, nel corso di tutta la sua vita, dedicò al suo nome ed alla sua firma una attenzione quasi feticistica: non solo
infatti cambiò il suo cognome in Colòn (che significa ripopolatore) ed il suo nome in Cristòbal (cioè portatore di
Cristo), convinto che, come diceva Aristotele, i nomi dovessero convenire alle qualità e agli usi delle cose, ma
addirittura impone la sua firma, così complessa che non siamo ancora giunti a penetrarne il segreto, ai suoi discendenti.

È perciò assai naturale che Colombo si dedichi con grande vigore, quasi da novello Adamo nel paradiso terrestre, ad
assegnare ai luoghi che incontra i nomi "giusti": il battesimo dei luoghi segue l’ordine di importanza degli oggetti
assegnati a quei nomi, e dunque, se la successione è Dio, la Madonna, il re di Spagna, la regina, l’infanta erede al trono,
la prima isola è chiamata San Salvador, la seconda Santa Maria de la Concepciòn, la terza Fernandina, la quarta Isabela
e la quinta Juana.
Colombo sa benissimo che quei luoghi hanno già dei nomi, che sono in un certo senso più naturali, ma egli vuole
attribuire i nomi "giusti", e contemporaneamente, attraverso il battesimo, prenderne possesso; la sua furia nominatrice
raggiunge in certi giorni livelli incredibili: "Navigò verso est verso un capo che chiamò "Bel Prado", a quattro leghe di
distanza. Da qui verso sud-est c’è una montagna che chiamò "Monte de Plata" […] il capo che chiamò "del
Àngel" […] il promontorio che chiamò "del Hierro" […] il promontorio che chiamò "Punta Seca" […] il capo che
chiamò "Redondo", e da lì, verso est c’è Capo Francés" (11 gennaio 1493).

Se egli pare preoccuparsi molto dei nomi propri, vediamo che invece è assai poco interessato agli altri settori del
vocabolario, e mostra la sua concezione ancora ingenua del linguaggio, confondendo sempre i nomi con le cose che essi
designano, senza che gli si riveli, per un attimo solo, tutta la dimensione della intersoggettività, del valore reciproco
delle parole, cioè del carattere umano, e dunque arbitrario dei segni; non a caso, infatti, appena appresa la parola indiana
"cacicco", Colombo non cerca di capire che cosa esattamente significa nella gerarchia degli indiani, ma si preoccupa di
trovare a quale parola spagnola essa corrisponda: "L’Ammiraglio sino ad allora non era stato in grado di capire se con
questa parola intendessero re o governatore. Essi usano poi un’altra parola per dire "grande", cioè "nitayno", ma egli
non capì se in tal modo chiamassero un hidalgo, un governatore o un giudice": egli non dubita che anche gli indiani
distinguano, come gli spagnoli, tra un gentiluomo, un governatore o un giudice.

Una volta mostrato come gli uomini, nella concezione della comunicazione di Colombo, non abbiano un ruolo a parte,
non desta affatto meraviglia la scarsa attenzione che egli dedica alle lingue straniere: la sua convinzione della vicinanza
dell’Europa all’Asia, e dunque circa la praticabilità della sua impresa, è anzi basata proprio su un malinteso linguistico,
cagionato dal fatto che, Colombo, mentre tutti quanti pensano, peraltro giustamente, che la distanza sia insuperabile per
via occidentale, prende come autorità un celebre astronomo arabo, che fornisce una misura della circonferenza terrestre
abbastanza esatta, esprimendola però in miglia arabe: esse sono superiori di un terzo alle miglia italiane cui egli è
abituato, e dunque la distanza gli appare non eccessiva.
Ecco ancora una dimostrazione di come Colombo non riesca a concepire che neppure le misure siano un fatto
convenzionale, così come le parole di una lingua.
Trovatosi di fronte ad una lingua diversa, egli non può fare altro che riconoscere che è una lingua e rifiutarsi di credere
che sia diversa, o ritenerla diversa ma negare che si tratti di una lingua: è proprio quest’ultima la sua reazione
all’incontro con gli indiani, tanto che scrive nel suo diario, il 12 ottobre, che "A Nostro Signore piacendo, al momento
della partenza porterò sei di questi uomini alle Vostre Altezze, così che possano imparare a parlare"; in seguito
ammette che gli indiani abbiano una lingua, rifiutandosi però di crederla diversa, e continuando a trovare nei loro
discorsi parole famigliari e rimproverandoli per la loro cattiva pronuncia.

Il risultato di tutto ciò fu che, durante il primo viaggio, vi fu una totale incomprensione fra spagnoli ed indiani, fatto
peraltro non scandaloso e che non ci sorprenderebbe affatto, se però Colombo non pretendesse di capire quanto gli
veniva detto fornendo contemporaneamente le prove della sua incomprensione: ad esempio, egli scrive il 24 ottobre
1492: "A mezzanotte salpai l’ancora […] per raggiungere l’isola di Cuba, che questa gente mi dice essere molto
grande ed avere molto commercio; dicono anche che in essa si trova molto oro e spezie e grandi navi e molti mercanti",
per poi aggiungere poche righe dopo "Io non conosco la loro lingua": ciò che egli sente dire, dunque, non è altro che il
riassunto dei libri di Marco Polo e Pierre D’Ailly.

Gli esiti negativi nella comunicazione umana non sono però attribuibili solo all’ignoranza della lingua, dato che le cose
non migliorano nei rapporti con gli europei: Colombo, ad esempio, commette sulla via del ritorno l’errore di fidarsi di
un capitano portoghese, trovandosi così con la ciurma messa agli arresti e non riuscendo, da grossolano dissimulatore
qual era, ad attirare sulla sua nave quel capitano, per arrestarlo a sua volta; egli commette gli stessi errori circa gli
individui che lo circondano, fidandosi di persone che presto gli si rivolteranno contro e diffidando invece di quanti gli
sono seriamente devoti.

La comunicazione umana non riesce bene a Colombo perché non gli interessa, così come bene si evince da questo
passo: "Neppure li capiva bene né loro capivano bene lui, e dice anche che essi avevano la più gran paura del mondo
del popolo di quest’isola. Per parlare con essi l’Ammiraglio avrebbe dovuto fermarsi qualche giorno in questo porto,
ma non lo fece, perché voleva esplorare molte terre e temeva che il bel tempo non continuasse" (6 dicembre 1492): in
queste frasi sono espresse tutte le sue idee, a cominciare dalla sommaria percezione che egli ha degli indiani, alla
incomprensione che ha della loro lingua, fino alla preferenza che egli ha per le terre rispetto agli uomini, uomini che
sono nominati solo perché sono anch’essi, in fondo, parte del paesaggio, come dimostra il fatto che i suoi accenni agli
abitanti delle isole sono inframmezzati alle sue notazioni sulla natura, come ad esempio in questo passo, scelto tra un
gran numero di altri: "Continuamente in queste scoperte fino ad allora era andato di bene e in meglio, tanto per le
terre, gli alberi, i frutti e i fiori quanto per gli abitanti" (25 novembre 1492).
Gli indiani, che si presentano come fisicamente nudi, sono anche privi di ogni proprietà culturale, e sono caratterizzati
dalla mancanza di costumi, di riti e di religioni: "Questa gente è molto mite e timida, nuda, come ho detto, senza armi
né legge" (4 novembre 1492); l’atteggiamento di Colombo nei confronti di questa cultura è, nel migliore dei casi, quello
del collezionista di curiosità, tanto che, trovando per la prima volta delle costruzioni in pietra in occasione del suo
quarto viaggio, si accontenta che ne venga staccato un pezzo per ricordo.
È naturale che questi indiani si somiglino tutti fra loro, privi come sono di ogni identità culturale: "Vennero molti di
questi abitanti, che sono simili a quelli delle altre isole, nello stesso modo nudi e dipinti"; la cultura degli indiani è
quindi misconosciuta, ed essi sono assimilati alla natura, venendo perciò ammirati, analogamente a quanto Colombo
faceva con le piante, i fiori e gli animali, e tale ammirazione, decisa a priori, si estende anche al campo morale: egli, ad
esempio, mai si stanca di lodare la generosità degli indiani, che danno tutto per niente: "Diedi ad alcuni di loro qualche
berretta rossa e qualche collanina di vetro che essi si misero al collo, e molti altri oggetti di poco valore. Essi
gradirono molto questi doni" (11 ottobre 1492).
Colombo non capisce che, come le lingue e le unità di misura, anche i valori sono convenzionali, e che, in sé, l’oro non
è più prezioso del vetro; sulla base di questi scambi, però, egli conclude che gli indiani sono la gente più generosa del
mondo, fornendo così un notevole contributo al mito del buon selvaggio.

Dopo che abbiamo osservato come Colombo vedeva gli indiani, cerchiamo di capire se attraverso le sue note possiamo
intuire come gli indiani vedessero a loro volta gli spagnoli: l’informazione è però, anche in questo caso, viziata dal fatto
che egli ha deciso tutto a priori, e che se il suo tono è di ammirazione, allora anche gli indiani debbono
ammirarli: "Molte altre cose mi dissero ma io non potei capir tutto, e tuttavia mi accorsi che essi guardavano ogni cosa
con meraviglia".

Colombo, nell’atteggiamento che ha verso gli indiani, non riesce a superare queste due posizioni: o gli indiani sono
degli esseri umani completi, con gli stessi suoi diritti, ma sono visti non come uguali ma come identici, e dunque egli
sbocca nell’assimilazionismo, cioè nella proiezione dei propri valori sugli altri, oppure parte dalla differenza, ma questa
viene subito tradotta in inferiorità.
Il proposito di fare adottare i costumi spagnoli alle popolazioni indigene, pur continuamente ribadito, non viene mai
giustificato, poiché è una cosa che viene da sé, così come il desiderio di cristianizzarle; in questo secondo caso, poi, il
discorso è più complesso, e si fonda sull’equilibrio tra il dare la religione e il prendersi l’oro, equilibrio che appare però
piuttosto precario, dato che diffondere la religione presuppone che gli indiani siano considerati, almeno di fronte a Dio,
come uguali, mentre per prendere l’oro, se essi non vogliono darlo, sarà necessario sottometterli per poterglielo
prendere con la forza, ponendoli così in una chiara posizione di inferiorità.

Colombo però, gradatamente, passa dall’assimilazionismo all’ideologia schiavista, che parte dall’affermazione di
principio della inferiorità degli indiani, anche se egli continua a fare distinzioni, per una sorta di coerenza con sé stesso,
tra indiani buoni, potenzialmente cristiani ed indiani bellicosi da sottomettere: resta però il fatto che coloro che non
sono già cristiani non possono essere altro che schiavi, senza che esista una terza possibilità.
Egli, come è noto, fu un fermo sostenitore della schiavitù degli indiani, ma, anche quando non si trattava di schiavi, il
suo comportamento nei confronti degli indiani indica che egli li considera, in fondo, una sorta di oggetti viventi: nella
sua passione naturalistica, Colombo, vuole riportare in Spagna esemplari di ogni genere, alberi, uccelli, animali e
indiani, ma anche nel caso di questi ultimi non si pone neanche il dubbio di chiedere il loro parere: "Dice che avrebbe
voluto far prigionieri una mezza dozzina di indiani per portarli con sé; […] il giorno dopo dodici uomini si
avvicinarono alla caravella su una barca, e furono tutti catturati e trasferiti sulla nave dell’Ammiraglio, che ne scelse
sei e rispedì a terra gli altri sei" (Las Casas, Historia, I, 134).
La cifra è già stata decisa in anticipo, una mezza dozzina, e gli individui, se ci è permesso il gioco di parole, non
contano, ma vengono contati.

Come può dunque Colombo essere associato alla nascita di due miti apparentemente così contraddittori, come quello in
cui l’altro è il "buon selvaggio" e quello in cui, invece, l’altro è uno "sporco cane", cioè uno schiavo potenziale? Il
legame tra posizioni così diverse è dato dal fatto che, in realtà, entrambe si fondano sul disconoscimento degli indiani e
sul rifiuto di considerarli un soggetto con i nostri stessi diritti, ma diverso da noi.
Bene ha osservato chi ha detto che Colombo, in fondo, ha scoperto l’America, ma non gli Americani.

2.Conquistare.

Limitando la nostra attenzione alla conquista del Messico, vediamo anzitutto le tappe della definitiva sconfitta
dell’impero azteco.
La spedizione di Cortés, iniziata nel 1519, è la terza che tocca le coste messicane, e vi partecipano alcune centinaia di
uomini; Cortés è inviato dal governatore di Cuba, che però, ad un certo momento, dopo la partenza, cambia idea, e cerca
di farlo tornare indietro, ma Cortés, di fronte a questo tentativo,  si rifiuta di obbedire, dichiarandosi sotto la diretta
autorità del re di Spagna; venuto a conoscenza della esistenza dell’impero azteco, decide di sottometterlo ed inizia a
penetrare verso l’interno, guadagnando alla sua causa le popolazioni di cui attraversa i territori, in particolare i
tlxcaltechi, che diverranno i suoi migliori alleati, ed arrivando infine a Città del Messico; dopo essere stato ben ricevuto,
decide di far prigioniero il sovrano azteco Moctezuma, riuscendovi; venuto a conoscenza dell’arrivo di una spedizione
spagnola inviata sulla costa contro di lui da parte del governatore di Cuba, Cortés lascia una parte dei suoi soldati nella
capitale, e con gli altri muove contro i suoi compatrioti, sconfiggendoli e prendendo il loro capo Narvàez prigioniero;
viene però a sapere che a Città del Messico è scoppiata la guerra, a causa del massacro di alcuni messicani compiuto
dalle sue truppe, rimaste sotto il comando di Alvarado; ricongiuntosi con le sue truppe assediate, ed in seguito alla
morte di Moctezuma prigioniero, Cortés decide di abbandonare nottetempo la città, a causa della intensità degli attacchi
aztechi, ma viene scoperto e metà del suo esercito annientata: è la cosiddetta Noche triste; egli allora si ritira tra i suoi
alleati a Tlaxcala e ricostruisce il suo esercito, tornando ad assediare la città, e tagliando inoltre tutte le vie di accesso
alla capitale grazie a veloci brigantini (la città all’epoca si trova, infatti, in mezzo ai laghi); Città del Messico, dopo
alcuni mesi d’assedio cade: la conquista è durata poco più di due anni.

Circa la controversa questione della conquista, la prima domanda che sorge spontanea è il modo in cui un numero assai
ridotto di uomini, non più di alcune centinaia, ha avuto ragione di quello che probabilmente era lo Stato più potente del
continente, che poteva disporre di centinaia di migliaia di guerrieri, che per giunta si battevano sulla loro terra, in luoghi
a loro famigliari, sconosciuti invece ai conquistadores spagnoli.

Vengono date a questa domanda diverse risposte: una prima ragione è sicuramente il comportamento esitante di
Moctezuma, che, fino al momento della sua morte, non oppone quasi nessuna resistenza a Cortés; in molte cronache il
sovrano azteco è rappresentato come un uomo malinconico e rassegnato, che probabilmente sente di espiare di persona
un episodio poco glorioso della storia azteca: gli aztechi, infatti, malgrado amino presentarsi come i legittimi successori
della precedente dinastia dei toltechi, in realtà sono degli usurpatori, ed è plausibile che questo "senso di colpa"
collettivo abbia fatto immaginare a Moctezuma che gli spagnoli fossero i legittimi discendenti dei toltechi, venuti a
riprendersi i loro domini.
Il comportamento di Moctezuma diviene veramente singolare all’arrivo dei soldati di Cortés a Città del Messico: non
solo egli si lascia imprigionare, ma, una volta prigioniero, cerca soltanto di evitare ogni spargimento di sangue, senza
cercare di approfittare della situazione per sbarazzarsi degli spagnoli neanche quando Cortés è costretto ad allontanarsi
con una parte delle sue truppe per affrontare la spedizione di Narvàez: ci mancano purtroppo i documenti per meglio
comprendere l’universo mentale di Moctezuma, ed è quindi impossibile esprimere un giudizio definitivo.

L’operato del sovrano azteco ebbe sicuramente la sua grande importanza in questa mancata resistenza agli invasori, ma
non dimentichiamo che egli morì nel bel mezzo della guerra, e che i suoi successori dichiararono immediatamente una
guerra totale contro gli spagnoli: in questa seconda fase del conflitto, però, un ruolo decisivo viene giocato dai contrasti
tra le diverse popolazioni che abitano il Messico, contrasti che Cortés sa sfruttare con grande abilità, tanto da avere,
nella fase finale della campagna, un esercito di alleati indiani numericamente equivalente a quello azteco, in cui gli
spagnoli svolgono solo un ruolo logistico e di comando.

Dopo aver mostrato che alcune popolazioni messicane, invece di combattere con tutte le energie contro gli invasori, li
appoggiano e ne rendono possibile la vittoria, possiamo legittimamente domandarci per quale ragione essi non hanno
resistito di più, invece di consegnare la loro terra ad una dominazione che si dimostrerà foriera di misfatti incredibili.
Ma in realtà, il comportamento degli spagnoli non è affatto atipico, ed essi, anzi, si comportano esattamente come gli
aztechi, a cui queste altre popolazioni sono sottomesse; per farlo vediamo due episodi raccontati da Bernal Dìaz: dopo
la caduta di Città del Messico "[…] egli fece osservare che molti capitani e soldati […] si erano portati via parecchie
figli e mogli di ricchi messicani" (142); ma è esattamente di questo che si lamentano gli indiani delle altre parti del
Messico quando parlavano dei misfatti degli aztechi: "Gli abitanti di quei villaggi […] elevarono le più vive lamentele
contro gli esattori che rubavano tutto ciò che essi possedevano, e, se le loro moglie e le loro figlie sembravano degne di
attenzione, le violavano in presenza dei mariti e dei genitori e talvolta le rapivano; per loro erano obbligati a lavorare
come schiavi […]" (86).
Le donne, l’oro e le pietre preziose, che attirano la rapacità degli spagnoli, erano già prelevati dai funzionari di
Moctezuma, e Cortés, per delle popolazioni che già hanno subito la colonizzazione azteca, non incarnerà certo il male
assoluto, ma anzi il male minore, quasi un salvatore in grado di liberare dal giogo della tirannia presente.

Vi sono dunque moltissime somiglianze tra vecchi e nuovi conquistatori, così come ve ne sono sempre, anche se
implicite, tra ogni conquistatore ed il suo predecessore: gli spagnoli, ad esempio, bruceranno i libri dei messicani e
distruggeranno i loro monumenti per eliminare ogni ricordo della passata grandezza, ma anche gli aztechi avevano
distrutto i libri antichi, per poter riscrivere a modo loro la storia; gli aztechi poi, mostrano spesso di considerarsi i
continuatori dei toltechi, ed allo stesso modo gli spagnoli manifestano una certa fedeltà al passato, conservando, ad
esempio, la stessa capitale, Città del Messico, e utilizzando i registri fiscali dell’impero azteco: Cortés pare quasi
cercare una legittimità agli occhi della popolazione locale, conservando anche gli stessi luoghi di culto, e limitandosi a
sostituire gli idoli con statue cristiane: "I maggiori di quegli idoli […] io li abbattei e li scaraventai giù dalle scale e
feci pulire le cappelle in cui stavano e misi in esse statue della Madonna e di altri Santi" (Cortés, 2); un’altra
testimonianza dice anche che "Fu allora dato l’ordine di incensare con l’incenso indigeno l’immagine di Nostra
Signora e la Santa Croce" (Bernal Dìaz, 52).

Tornando alle cause della sconfitta azteca, aggiungiamo, oltre alle esitazioni di Moctezuma nella prima fase della guerra
ed alle divisioni in campo messicano nella seconda, anche la superiorità degli spagnoli in materia di armi, giacché gli
aztechi non conoscono la lavorazione dei metalli, e dunque le loro spade e le loro corazze sono poco efficaci, così come
non conoscono archibugi e cannoni; essi poi sono sempre più lenti, a terra perché gli spagnoli hanno i cavalli, e
sull’acqua perché hanno i brigantini; senza saperlo poi, gli spagnoli conducono una sorta di guerra batteriologica,
diffondendo tra gli indiani il vaiolo, che compie nelle file nemiche delle stragi enormi.
Ma tale superiorità, per quanto innegabile, non è ancora sufficiente a spiegare tutto, poiché la potenza delle armi da
fuoco non è neanche lontanamente paragonabile a quella cui siamo abituati a pensare noi oggi, le polveri sono spesso
bagnate, e poi il rapporto numerico tra i due campi non può essere riequilibrato da questi fattori.

I racconti indiani danno alla domanda sulle ragioni della sconfitta una risposta diversa: tutto è avvenuto perché gli
aztechi hanno perso il controllo della comunicazione, e la parola degli dei è divenuta inintelligibile, come dice il libro
delle profezie indiano, il Chilam Balam: "La comprensione è perduta, la saggezza è perduta" (22), e ancora "Non c’era
più nessun gran maestro, nessun grande oratore, nessun gran sacerdote […]" (5): leggendo queste parole, viene
dunque il sospetto che, tra le ragioni della vittoria degli spagnoli, vi sia anche la loro padronanza dei segni.
Analizzando questo aspetto, vediamo subito che spagnoli ed indiani praticano la comunicazione in modo diverso:
guardiamo prima alla comunicazione indiana, e poi andremo ad esaminare quella degli invasori spagnoli.

Dobbiamo anzitutto premettere che, malgrado si sia precedentemente detto che una delle ragioni della sconfitta indiana
è stata la padronanza spagnola dei segni, non possiamo parlare sic et sempliciter di inferiorità indiana nel campo della
comunicazione, né tantomeno di scarso interesse nella comunicazione, almeno nella comunicazione umana, come era
invece nel caso di Colombo.
Gli indiani dedicano, infatti, moltissimo tempo ed energia alla interpretazione dei messaggi, con tecniche notevolmente
elaborate e legate ad una specie di divinazione: gli aztechi possiedono un calendario religioso composto di tredici mesi
di venti giorni ciascuno, ed ognuno di questi giorni ha un suo carattere, fasto o nefasto che si trasmette, ad esempio, alle
persone nate in quel giorno, tanto che, sapere il giorno in cui qualcuno è nato, significa conoscere il suo destino, ed ecco
che comprendiamo il perché, appena nasce un bambino, egli venga portato da un professionista dell’interpretazione, in
genere il sacerdote.
A questa forma di divinazione, data dalla interpretazione di ciascun giorno del calendario, si affiancano i presagi: è
sufficiente leggere qualche cronaca indiana per vedere che molti personaggi affermano di essere stati in comunicazione
con gli dèi e profetizzano l’avvenire, e che, addirittura, tutta la storia degli aztechi è considerata come la realizzazione
di profezie antecedenti, quasi come se un evento non potesse aver luogo senza essere stato prima profetizzato.

Non sorprendiamoci, dunque, che il mondo sia posto fin da principio come determinato, e che gli uomini si adeguino a
tale determinazione regolamentando la loro vita sociale nel modo più minuzioso: la parola chiave delle società indiana è
"ordine", come si legge in una pagina del Chilam Balam: "Essi conoscono l’ordine dei loro giorni. Completo era il
mese, completo l’anno, completo il giorno, completa la notte. […] In buon ordine recitavano le preghiere, in buon
ordine cercavano i giorni fasti […]" (5); ed ancora in Duràn è raccontato questo aneddoto: "Un giorno chiesi ad un
vecchio perché seminava una specie di piccoli fagioli negli ultimi mesi dell’anno, dato che abitualmente c’era il
gelo […]. Mi rispose che tutto era regolato, che tutto aveva la sua ragione ed il suo giorno particolare" (Duràn, II, 2):
tale regolamentazione investe dunque anche i minimi particolari della vita quotidiana.

Gli aztechi poi non apprezzano certo l’opinione personale e l’iniziativa individuale, come si evince dalla importanza
attribuita alla famiglia, importanza che permette bene di capire la preminenza del sociale sull’individuale; anche la
solidarietà famigliare non è però il valore supremo, poiché la famiglia non è ancora tutta la società: i legami famigliari
passano in secondo piani rispetto agli obblighi verso la società, tanto che i genitori accettano di buon grado le punizioni
che colpiscono le infrazioni dei figli, che pure essi amano sopra ogni cosa: "I genitori, pur essendo afflitti nel vedere
maltrattati i figli che tanto amavano, non osavano lamentarsi, anzi riconoscevano che la punizione era stata giusta e
buona" (Duràn, I, 21).
Possiamo dire che, date le due forme di comunicazione, una tra uomo e uomo e l’altra tra uomo e mondo, gli spagnoli
coltivano soprattutto la prima e gli indiani la seconda? L’affermazione del Todorov è maggiormente accettabile se
intendiamo per "comunicazione tra uomo e mondo" la comunicazione tra individuo e gruppo sociale, individuo e natura
ed individuo e mondo religioso: questo secondo tipo di comunicazione è dunque predominante nella vita dell’uomo
azteco, il quale interpreta il divino, il naturale e il sociale attraverso indizi e presagi, con l’ausilio di un professionista, il
sacerdote-indovino.

Non bisogna però pensare che il predominio di tale forma di comunicazione escluda la conoscenza dei fatti, cioè la
raccolta di informazioni: è vero semmai il contrario, poiché per gli indiani una guerra deve essere sempre preceduta
dall’invio di spie, e lo stesso Moctezuma, dopo l’arrivo degli spagnoli, non manca mai di inviare le sue spie nel campo
nemico ed è sempre al corrente dei fatti, e conosce l’arrivo delle spedizioni mentre esse ancora non sanno nulla della
sua esistenza; anche quando Cortès si trova a Città del Messico, Moctezuma è informato dell’arrivo della spedizione di
Narvàez, mentre gli spagnoli ancora la ignorano.
I pur notevoli e costanti buoni risultati nella raccolta delle informazioni, non vanno però di pari passo con la padronanza
della comunicazione interumana, come si vede, ad esempio, dal costante rifiuto di Moctezuma di comunicare con gli
spagnoli: in lui, infatti, si associano la paura dell’informazione ricevuta e la paura dell’informazione richiesta dagli altri,
specie quando essa riguardava la sua persona; egli inoltre, quando riceve l’informazione, il più delle volte punisce
coloro che gliela recano, fallendo così costantemente sul piano dei rapporti umani.
Quand’anche poi l’informazione arrivi a Moctezuma, la sua interpretazione avviene nel quadro della comunicazione col
mondo, non di quella con gli uomini: egli infatti, per avere consigli su come comportarsi con gli spagnoli, cioè in
questioni che noi riteniamo totalmente umane, si rivolge ai suoi dèi.

Perché questo modo inspiegabile di comportarsi? Moctezuma sapeva bene informarsi sui suoi nemici quando essi erano
taraschi o tlaxcaltechi (cioè due delle popolazioni che abitavano il Messico all’epoca dell’impero azteco), poiché in
questo caso si trattava di un sistema di informazioni definito; l’identità degli spagnoli è, invece, così diversa ed il loro
comportamento così imprevedibile, che l’intero sistema di comunicazione azteco è sconvolto, ed essi falliscono in pieno
proprio nel campo nel quale prima ottenevano ottimi risultati, cioè la raccolta di informazioni: Bernal Dìaz si chiede più
volte cosa sarebbe stato di loro se gli indiani avessero saputo quanto erano pochi, deboli e spossati.
Una conferma di questo atteggiamento la vediamo nella costruzione, da parte degli indiani, dei racconti della conquista:
esse cominciano tutte invariabilmente con l’enumerazione dei molti presagi che annunciano la venuta degli spagnoli,
così invariabilmente che si sospetta fortemente che siano tutte posteriori agli effettivi anni della conquista: ma proprio il
fatto che tali cronache siano state scritte a cose avvenute, ci permette di capire molte cose, cioè che gli aztechi devono
percepire la conquista, perché essa risulti spiegabile, inserendola in una rete di rapporti sovrannaturali, di modo che il
presente, annunciato già dal passato, divenga intelligibile e meno inammissibile: ma proprio queste profezie sortiscono
un effetto paralizzante sugli indiani e ne indeboliscono la resitenza.

Questo comportamento contrasta fortemente con quello di Cortés, come poi vedremo, ma è invece assai vicino a quello,
ad esempio di Colombo, che, come Moctezuma, raccoglie attentamente informazioni concernenti le cose ma fallisce
nella comunicazione con gli uomini: Colombo inoltre, subito dopo il ritorno dal primo viaggio, si affrettò a scrivere una
sorta di Chilam Balam, il Libro delle profezie, costituito da formule estratte dalla Sacre Scritture che predicevano la sua
scoperta.
Per la sua struttura mentale, dunque, Colombo è assai più vicino agli uomini da lui scoperti che non ad alcuni dei suoi
compagni, ma non è di sicuro il solo: anche il Machiavelli, per molti altri aspetti così straordinariamente moderno e
vicino al nostro modo di pensare, scrive qualche tempo dopo nei suoi Discorsi sopra la prima deca di Tito
Livio: "Donde ei si nasca io non so, ma ei si vede per gli antichi e per gli moderni esempli che mai non venne alcuno
grave accidente […] che non sia stato, o da indovini o da rivelazioni o da prodigi o da altri segni celesti,
predetto" (Discorsi, I, 56); persino Las Casas dedica un intero capitolo della sua Historia de las Indias agli infiniti
esempi di come "la Provvidenza Divina non permette mai che degli avvenimenti importanti […] avvengano senza che
sino stati prima annunciati e predetti […]" (I, 15).

Al modo di comunicare degli aztechi, che trascura la comunicazione interumana per privilegiare il contatto con il
mondo, è da ricondurre l’immagine che essi ebbero degli spagnoli, ed in particolare l’idea che essi fossero degli dèi.
La cosa ci stupisce, anche perché siamo abituati a pensare che la prima reazione spontanea nei confronti dello straniero
sia di immaginarlo come inferiore, cioè come un "non-essere umano" o, al più, come un barbaro inferiore, che, se non
sa la nostra lingua, non ne parla alcuna e non sa parlare, come pensava Colombo; per questo gli slavi europei chiamano
il vicino tedesco nemec, cioè "il muto", e i maya dello Yucatàn chiamano gli invasori toltechi nunob, cioè "i muti", e la
nostra stessa parola barbaro, indicava in origine chi non sapeva pronunciare la lingua greca e dunque si esprimeva con
un incomprensibile "bar-bar".

Mentre gli aztechi riuscivano senza fatica a percepire le differenze tra loro stessi e i tlaxcaltechi, cioè li giudicavano i
sottomessi, l’alterità degli spagnoli è terribilmente radicale, come mostrano tutte le testimonianze dei racconti
indiani: "Dobbiamo dire a lui [cioè a Moctezuma] quello che abbiamo veduto, ed è terrificante: nulla di simile è mai
stato visto" (CF, XII, 6).
[Con l’abbreviazione CF si intende Codice fiorentino, cioè la massa di informazioni raccolte da Bernardino de Sahagùn,
di cui parleremo nell’ultima parte di questo lavoro].

Non riuscendo ad assimilare gli spagnoli agli altri popoli di cui avevano conoscenza, gli aztechi rinunciano al loro
sistema di alterità umane e si sentono spinti a ricorrere all’unico altro dispositivo possibile, cioè la comunicazione con
gli dèi: l’errore degli indiani non durerà a lungo, ma abbastanza da far perdere loro la battaglia in modo irrimediabile, e
rendere l’America sottomessa all’Europa; bene si era espresso al riguardo proprio il Chilam Balam: "Chi non saprà
comprendere morrà; chi capirà, vivrà" (9).

Dicevamo sopra che gli aztechi dedicano grande importanza e spazio alla interpretazione dei segni, ma essi fanno
altrettanto anche per ciò che riguarda la produzione degli stessi, come dimostra il fatto che imparare a parlar bene fa
parte dell’educazione impartita dalla famiglia ed è la prima cosa a cui pensano i genitori: ci sono rimaste infinite
testimonianze della attentissima cura riservata a tale educazione, che non viene certo lasciata ai soli genitori, ma viene
impartita anche in scuole speciali, dette calmecac; gli alti funzionari aztechi, poi, sono scelti in funzione delle loro doti
di eloquenza.
Il legame tra potere e padronanza del linguaggio è infatti ben chiaro agli indiani, che chiamano il loro capo di
Stato tlatoani, parola che letteralmente significa "colui che possiede la parola", analogamente alla nostra
parola dittatore; la abilità oratoria che raggiungono, è così grande che gli spagnoli, anche dopo la conquista, non
possono fare a meno di ammirarla.

Il tipo di discorso privilegiato dagli aztechi è, però, quello rituale, memorizzato, che assume il più delle volte le forme
degli huehuetlatolli, cioè di discorsi imparati a memoria che coprono un vasto arco di temi e di situazioni sociali: essi
hanno la funzione di conservare, in una società priva di scrittura, le leggi, le norme e i valori che vanno trasmessi alle
future generazioni.

È proprio la mancanza di scrittura l’elemento forse più importante della situazione, tanto che le tre grandi civiltà
americane incontrate dagli spagnoli non si trovano allo stesso livello di evoluzione della scrittura (gli incas ne sono
completamente privi, ed usano un elaborato sistema di cordicelle, gli aztechi usano i pittogrammi ed i maya hanno
qualche rudimento di scrittura fonetica), ed infatti non reagiranno nello stesso modo alla credenza che gli spagnoli
fossero degli dèi: gli incas vi credono fermamente, mentre gli aztechi vi credono solo in un primo momento ed i maya si
pongono la domanda ma vi rispondono negativamente; i maya poi, sono l’unica fra queste tre civiltà ad avere subito una
invasione, quella dei messicani, e sanno cosa sia una civiltà diversa e superiore.

Tornando però al discorso sugli huehuetlatolli, possiamo dire che la loro caratteristica essenziale è, dunque, la loro
provenienza dal passato, e la subordinazione del presente al passato, così come quelle già esaminate dell’individuo
rispetto alla famiglia e della famiglia alla società, è una delle caratteristiche della mentalità azteca dell’epoca.
Questa subordinazione del presente al passato si vede, ad esempio, da un interessante racconto datato 1524 ed inserito
in un documento titolato Dialoghi e dottrina cristiana, in cui si racconta di una disputa teologica avvenuta tra un gruppo
di frati francescani e gli esperti indiani di "cose divine": ora, l’argomento usato dei religiosi aztechi per giustificare la
loro persistenza nel seguire la religione pagana, è la sua antichità: "È una nuova parola quella che ci dite […]. I nostri
antichi padri che hanno vissuto su questa terra, non avevano l’abitudine di parlare così" (7, 950-56).
Ed ancora, un racconto di Duràn, di cinquant’anni posteriore, ci dà sempre le stesse notizie: "Interrogai alcuni vecchi
sull’origine delle loro conoscenze intorno al destino umano, ed essi mi risposero che gli antichi gliele avevano
insegnate […]" (II, 2).
In questo mondo che abbiamo definito rivolto al passato e dominato dalla tradizione, sopraggiunge la conquista, cioè un
evento imprevedibile ed unico, e di fronte a tale imprevisto tutta la conoscenza rituale degli aztechi è assolutamente
inutile, ed essi non sanno adattarsi ad una situazione che richiede molta capacità di improvvisazione piuttosto che di arte
rituale.
Le comunicazioni rivolte dagli aztechi agli spagnoli, infatti, colpiscono a prima vista per la loro inefficacia: per
convincerli a lasciare il paese, ad esempio, Moctezuma invia agli spagnoli dell’oro, che era proprio ciò che più di ogni
altra cosa poteva indurli a restare; per scoraggiare gli invasori, poi, i guerrieri aztechi dichiarano che essi saranno tutti
sacrificati o mangiati, e, per dimostrarlo, quando prendono dei prigionieri, si apprestano a sacrificarli sotto gli occhi dei
soldati di Cortés: ma proprio questa azione non può sortire altro effetto sugli spagnoli che quello di spingerli a battersi
con una determinazione ancora maggiore, poiché l’alternativa alla vittoria è una non invidiabile morte "in pentola".

Accanto a questi messaggi volontari, che sortiscono effetti decisamente diversi da quanto i loro autori avrebbero voluto,
ve ne sono altri non volontari, ma che producono effetti altrettanto sgradevoli: ci riferiamo in sostanza alla incapacità
degli aztechi di dissimulare la verità.
Questa incapacità si vede bene, ad esempio, dal fatto che essi, prima di impegnarsi in battaglia, lanciano un grido di
guerra, che ottiene in pratica solo l’effetto di rivelare la loro presenza, o dalle circostanze dell’arresto di Cuauhtemoc,
succeduto a Moctezuma sul trono azteca, arresto avvenuto solo perché egli tentò la fuga su una nave riccamente ornata
con le insegne reali.
Il gesto di Cuauhtemoc non è dovuto alla ingenuità di un singolo, tanto che un intero capitolo del Codice fiorentino è
dedicato agli ornamenti portati dai sovrani in battaglia, ornamenti invero tutt’altro che modesti; non desta meraviglia,
dunque, che Cortés, poco dopo la sua fuga da Città del Messico, riesca a vincere una battaglia decisiva proprio grazie a
questa incapacità di dissimulazione degli indiani: "Cortés, aprendosi un cammino tra gli indiani, riusciva a meraviglia
ad individuare e ad uccidere i loro capi, riconoscibili per i loro scudi d’oro […]" (F. de Aguilar).

Tutto questo avviene come se i segni, per gli aztechi, derivassero in modo automatico e necessario dal mondo che essi
designano, anziché essere un arma di manipolazione degli altri; tale caratteristica della comunicazione azteca è
all’origine della leggenda secondo la quale gli indiani sono un popolo che ignora la menzogna: Las Casas, per citare un
nome, insiste sulla totale mancanza di doppiezza da parte degli indiani.

Un esempio del diverso modo di comportarsi di indiani e spagnoli si vede da questo racconto: gli spagnoli, quando
entrano per la prima volta in contatto con gli indiani, dichiararono ipocritamente loro che non cercavano la guerra, ma la
pace, e gli indiani "non si curarono di risponderci con parole, ma lo fecero con un nugolo di frecce" (Cortés, I): gli
indiani non si rendono conto del fatto che, in realtà, le parole possono essere un’arma pericolosa almeno quanto le
frecce, se non di più, e questo si vede anche alcuni giorni prima della caduta di Città del Messico, quando Cortés, ormai
inevitabilmente vincitore, formula proposte di pace ai pochi superstiti aztechi, ed essi rispondono di non parlare più di
pace, in quanto "le parole vanno bene per le femmine; agli uomini convengono solo le armi" (Bernal Dìaz, 154). La
divisione concettuale azteca è chiara: le parole alle donne e le armi agli uomini.

La guerra poi, è in fondo soggetta agli stessi principi che si possono osservare in tempo di pace, e dunque non stupisce
che gli aztechi conducano, almeno all’inizio, una guerra soggetta alla ritualizzazione e al cerimoniale, con il
combattimento che inizia ad una certa ora e finisce ad un’altra: gli aztechi, dunque, non sono in grado neppure di
concepire la guerra totale di assimilazione che gli spagnoli conducono nei loro confronti, poiché per loro la guerra deve
terminare con un trattato che fissi la misura del tributo che il vinto dovrà pagare al vincitore.

Gli spagnoli vincono la guerra, in quanto indiscutibilmente superiori agli indiani nella comunicazione interumana:
l’incontro tra Moctezuma e Cortés, tra indiani e spagnoli, è un incontro umano, e dunque non vi è da stupirsi se gli
specialisti della comunicazione umana riportano la vittoria; ma tale vittoria arreca contemporaneamente un grave colpo
alla nostra capacità di sentirci in armonia con il mondo, e di appartenere ad un ordine prestabilito.

Vincendo da un lato, gli europei perdevano dall’altro, ed imponendo il loro dominio su tutto il globo in forza della loro
superiorità, schiacciavano in loro stessi la capacità di integrazione col mondo: nei secoli successivi l’europeo sognerà il
buon selvaggio, ma il selvaggio era morto o era stato assimilato, e quel sogno era destinato a restare sterile: "la vittoria
era già gravida della sconfitta", ma Cortés non poteva saperlo.

Parlando ora della comunicazione degli spagnoli, diciamo anzitutto che non si può dire che tutti loro comunichino in un
modo completamente diverso da quello azteco: Colombo, come abbiamo visto, in molte circostanze andrebbe posto
sullo stesso piano degli indiani, e lo stesso discorso si potrebbe fare per quei gruppi di spagnoli che cercano di
raccogliere la maggior quantità d’oro nel minor tempo possibile, senza preoccuparsi di che cosa siano gli indiani.
Juan Dìaz, cronista della seconda spedizione sbarcata nel Messico, ci ha lasciato questo racconto: "C’era sul fiume una
moltitudine di indiani che portavano degli stendardi, che alzavano ed abbassavano per farci segno di andarli a
trovare: ma il comandante non volle. […] Il nostro comandante disse loro che volevamo soltanto l’oro".

Questi spagnoli ci ricordano appunto Colombo

3.Amare.

Cortés comprende il mondo azteco certamente meglio di quanto Moctezuma comprenda quello spagnolo, ma pare
proprio che questa comprensione abbia avuto come conseguenza la conquista e la distruzione della civiltà messicana e
non certo rispetto per essa. Questa terribile concatenazione dal comprendere al prendere, e dal prendere al distruggere,
non pare ineluttabile ma è stata responsabile del più grande genocidio della storia dell’umanità; questo non ci stupirebbe
se in realtà gli spagnoli avessero espresso un giudizio critico totalmente negativo sugli aztechi, ma basta leggere
qualche testimonianza dell’epoca per accorgersi che era esattamente il contrario: lo stesso Cortés dice infatti: "Nel
comportamento e nei modi della gente c’è quasi la maniera di vivere che c’è in Spagna, e con tanto ordine e disciplina
che in Spagna; e considerando che questa è gente barbara e lontana dalla conoscenza di Dio e dalla comunicazione
con altre nazioni civili, è cosa ammirevole vedere quell’ordine che hanno in tutte le cose".

Lungi dal dissiparsi, dunque, il mistero si infittisce: gli spagnoli non solo comprendevano piuttosto bene gli aztechi, ma
addirittura li ammiravano, e tuttavia li hanno annientati; rileggendo le frasi di Cortés, una cosa ci colpisce, cioè che le
sue esclamazioni di ammirazione riguardano quasi tutte degli oggetti. Egli va in estasi davanti alle produzioni azteche,
ma non riconosce i loro autori come individui umani da porre sul suo stesso piano: quando fa ritorno in Spagna, infatti,
mette insieme un campionario di tutto ciò che vi era di notevole nel paese conquistato, e nell’elenco vediamo scritti
insieme tigri, uccelli, botti di balsami, ed indiani danzatori, gobbi e nani.
Rispetto a Colombo, che riportava in Spagna indiani a gruppi di mezze dozzine, sei uomini e sei donne qualunque,
riducendoli così al rango di oggetto, le cose sono cambiate, dato che Cortés considera che occupino uno statuto
intermedio, cioè sì dei soggetti, ma ridotti al ruolo di produttori di oggetti, e non certo dei soggetti paragonabili all’io
che li concepisce

Per riassumere, dunque, nel migliore dei casi gli autori spagnoli parlano bene degli indiani ma non parlano mai agli
indiani, non riconoscendo loro la qualità di soggetto, cosa che si può fare solamente parlando all’altro; in mancanza di
tale riconoscimento, il comprendere diventa solo uno strumento del prendere.

L’esistenza del genocidio degli indiani non può essere ormai assolutamente negata, e le sue proporzioni, circa 70
milioni di individui, lo fanno diventare il più grande della storia: le sue cause sono fondamentalmente di tre tipi, cioè
per uccisione diretta, durante le guerre o al di fuori di esse, con responsabilità diretta, in seguito a maltrattamenti, e per
malattie, causa della morte della maggioranza della popolazione.

Per quanto riguarda poi la seconda relazione, dal prendere al distruggere, analizziamo qualche racconto riportato da Las
Casas nella sua Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie: il frate domenicano racconta di come un gruppo di
spagnoli "si fermarono al mattino per far colazione nel letto prosciugato di un torrente, disseminato ancora qua e là da
alcune piccole pozze d’acqua e pieno di pietre da molare: ciò suggerì loro l’idea di affilare le spade"; arrivati al
villaggio dopo la colazione sull’erba, gli spagnoli hanno una nuova idea: verificare se le spade sono così affilate come
sembrano: "All’improvviso uno spagnolo (nel quale si può pensare fosse entrato il demonio) trae la spada dal fodero, e
subito gli altri cento fanno altrettanto; e cominciano a sventrare, a trafiggere e a massacrare pecore e agnelli, uomini
e donne, vecchi e bambini che se ne stavano seduti tranquillamente lì vicino, guardando pieni di meraviglia i cavalli e
gli spagnoli. In pochi istanti non rimase vivo nessuno. Entrati allora nella grande casa vicina gli spagnoli si misero ad
uccidere, colpendoli di taglio e di punta, tutti coloro che vi si trovavano: il sangue colava dappertutto come se fosse
stata scannata una mandria di vacche".

Vediamo ora un racconto del vescovo dello Yucatàn, Diego de Landa: "…un grande albero ai rami del quale un
capitano aveva impiccato un gran numero di indiane; e alle loro caviglie aveva appeso per la gola i loro
figlioletti. […] commisero crudeltà inaudite, mozzando mani, braccia e gambe, tagliando i seni alle donne, gettandole
in laghi profondi e trafiggendo con la spada i bambini perché non camminavano abbastanza svelti insieme alle madri.
E se gli indiani trascinati con la corda al collo non camminavano abbastanza svelti, tagliavano loro la testa per non
fermarsi a slegarli".
Quali sono le motivazioni di questo comportamento? Una è incontestabilmente il desiderio di arricchirsi presto e molto
senza curarsi del benessere e della stessa vita altrui; questo perché il denaro può tutto.
Il desiderio di arricchirsi non è certo una novità, e la passione per l’oro non ha nulla di moderno; lo è invece questa
subordinazione ad essa di ogni altro valore: il conquistador non ha cessato di aspirare ai titoli nobiliari agli onori e alla
stima, ma ha capito perfettamente che tutto può essere ottenuto col denaro.

Comunque il desiderio di arricchirsi non spiega tutto, e si potrebbero richiamare alcune caratteristiche immutabili della
natura umana, che la psicanalisi definisce con i termini di "aggressività", "pulsione di morte", "istinto di
padronanza". Si potrebbe anche sostenere che ogni popolo possiede le sue vittime e conosce la follia omicida, e
discriminare tra società del sacrificio e società del massacro: è ormai indubbio che gli aztechi compissero sacrifici
umani di proporzioni anche notevoli, ma il sacrificio è un delitto religioso e pubblico, mentre i delitti degli spagnoli
sono diversi, sono massacri, delitti atei, non rivendicati, la cui esistenza viene negata, e la cui giustificazione si trova
negli stessi: si maneggia la sciabola per il piacere di maneggiarla, così come si mozzano il naso, la lingua e il sesso
degli indiani.

Lontani dal potere centrale, tutti i divieti cadono, ed il legame sociale si sfalda e rivela non una natura primitiva ma un
essere moderno, che non ha alcuna morale e che uccide perché e quando gli piace.
Il desiderio di arricchirsi e l’istinto di padronanza sono dunque all’origine del comportamento degli spagnoli, ma esso è
condizionato dall’idea che i conquistatori si fanno degli indiani, idea secondo la quale questi ultimi sono degli esseri
inferiori, delle creature a mezza strada tra gli uomini e gli animali: senza questa premessa essenziale la distruzione non
avrebbe potuto aver luogo.

Andiamo ora ad esaminare più da vicino il dibattito, scoppiato già all’indomani della scoperta, tra i sostenitori
dell’eguaglianza e quelli dell’ineguaglianza tra indiani ed europei.
Il primo documento interessante in proposito è il celebre Requerimiento, un’ingiunzione indirizzata agli indiani, opera
del 1514 del giurista regio Palacios Rubios, testo nato dalla necessità di regolamentare le conquiste: da allora, prima di
conquistare un paese, sarebbe stato necessario dare ai suoi abitanti lettura di questo testo. Esso comincia con una breve
storia dell’umanità, il cui punto culminante è rappresentato dall’apparizione di Gesù Cristo, definito "capo della stirpe
umana"; Gesù ha trasmesso il suo potere a San Pietro e questi ai papi suoi successori, uno degli ultimi dei quali ha fatto
dono del continente americano parte agli spagnoli, parte ai portoghesi (il riferimento è qui al trattato di Tordesillas
stipulato nel 1494 con la benedizione del papa Alessandro VI).

Dopo aver così stabilito le ragioni giuridiche della dominazione spagnola, resta da assicurarsi che gli indiani siano
informati della situazione, e a questo scopo, è prevista la lettura del Requerimiento, fatta in presenza di un funzionario
regio, mentre non viene menzionato neppure un interprete; se gli indiani non si fossero sottomessi dopo questa lettura,
gli spagnoli avrebbero potuto costringerli con le armi "con l’aiuto di Dio" e ridurli in schiavitù.
C’è un’evidente contraddizione tra l’essenza della religione su cui gli spagnoli fondano i loro diritti e le conseguenze di
questa pubblica lettura: il cristianesimo è una religione egualitaria e in suo nome gli uomini sono ridotti in schiavitù.
Il testo di Palacios Rubios non sarà mantenuto come base giuridica della conquista, ma tracce del suo spirito si trovano
anche negli avversari dei conquistadores.

Ad esempio, vediamo l’opinione del de Vitoria: egli demolisce le giustificazioni correnti delle guerre condotte in
America, ma ritiene tuttavia che delle guerre giuste siano possibili: nel caso in cui venga violato il "diritto naturale di
socievolezza e comunicazione", oppure qualora l’intervento venga fatto per proteggere degli innocenti contro la tirannia
dei capi e delle leggi indigene, che consiste ad esempio "nel sacrificare uomini innocenti o addirittura nel mettere a
morte persone non colpevoli per mangiarle". Non vi è ancora, naturalmente, una vera eguaglianza fra spagnoli e
indiani, come si vede dalla giustificazione ultima della guerra nelle americhe: "Benché questi barbari non siano affatto
pazzi, non sono tuttavia lontani dalla follia […]; Non sono più capaci di governarsi da sé di quanto lo siano i pazzi, gli
animali e le bestie feroci, visto che il loro cibo non è più gradevole ed è appena migliore di quello delle belve".
È dunque lecito intervenire nel loro paese per esercitarvi un diritto di tutela; si vede così che Vitoria, a lungo
considerato un difensore degli indiani, in realtà fornisce una base legale alle guerre di colonizzazione.

Accanto alle formulazioni giuridiche della dottrina dell’ineguaglianza se ne trovano moltissime d’altro genere che
tendono tutte a presentare gli indiani come esseri umani imperfetti. Due testimonianze esplicano a pieno questo
atteggiamento, testimonianze tra l’altro di un religioso e di un uomo di lettere e di scienze, cioè i rappresentanti dei due
gruppi sociali che, in generale, sono più benevoli nei confronti degli indiani: la prima è del domenicano Tomàs Ortiz, la
seconda di Oviedo: Ortiz scrive al Consiglio delle Indie che gli indiani "Mangiano, sulla terraferma, carne umana.
Sono sodomiti più di qualsiasi altro popolo. Non vi è giustizia fra di loro. Vanno tutti nudi. Non rispettano l'amore né
la verginità. Sono stupidi e sbadati [...] sono brutali [...] mangiano pidocchi, ragni e vermi ovunque li trovino, senza
farli cuocere [...]. Posso dunque affermare che Dio non ha mai creato una razza così ricolma di vizi e di bestialità,
senza alcune tracce di bontà e di cultura" (Pietro Martire, VII, 4); Oviedo poi, non abbassa gli indiani al livello dei
cavalli o degli asini, ma li considera più o meno simili a materiali da costruzione, come dimostrano alcuni suoi
scritti: "Quando si fa la guerra contro di loro e si viene al combattimento faccia a faccia, bisogna stare molto attenti a
non colpirli con la spada sul capo, perché ho visto molte spade spezzate in questa maniera [...]" (V, Prefazione); non
desta meraviglia che egli sostenga che molto presto Dio stesso verrà a distruggere questa razza, e che scriva "Chi vorrà
mai negare che usare la polvere da sparo contro i pagani è come offrire incenso a Nostro Signore?".

Il dibattito tra sostenitori dell'uguaglianza e i partigiani dell'ineguaglianza tra indiani e Spagnoli tocca il culmine e al
tempo stesso trova un'incarnazione concreta nella celebre controversia di Valladolid, che oppone, nel 1550, Bartolomé
de Las Casas, abate domenicano e vescovo di Chiapas, e Ginés de Sepùlveda, erudito e filosofo.
A Sepùlveda era stato negato il diritto di stampare il suo trattato che ha per argomento le giuste cause delle guerre
contro gli indiani, e quindi pensò di cercare una sorta di giudizio di appello; alla fine, dopo aver ascoltato un discorso di
Las Casas durato cinque giorni, i giudici non prendono alcuna decisione e a Sepùlveda, dunque, è ancora negato
l'imprimatur.
Egli si appoggia, nelle sue argomentazioni ad Aristotele, precisamente all’Aristotele della Politica, il quale stabilisce
una netta distinzione tra coloro che sono nati padroni e quelli che invece sono nati schiavi (1254b); una analoga
posizione era riscontrabile nel trattato De regimine, opera di Tolomeo da Lucca ma attribuito all'epoca a san Tommaso
d'Aquino.
Sepùlveda crede che non l’eguaglianza ma la gerarchia sia lo stato naturale della società umana, e l'unica relazione
gerarchica che egli conosce è la semplice relazione superiorità-inferiorità; ispirandosi alla Politica, egli dichiara che
tutte le gerarchie si basano su un unico e medesimo principio, cioè "il dominio della perfezione sull’imperfezione, della
forza sulla debolezza, della virtù eminente sul vizio" (p. 20), e che il corpo dev’essere sottomesso all’anima, la materia
alla forma, i figli ai genitori, la donna all'uomo e gli schiavi ai padroni (cioè gli indiani agli spagnoli); in un pensiero
così schematico, non ci stupisce vedere gli indiani e le donne accanto ai corpi e agli animali, poiché l'altro è anzitutto il
nostro corpo.

Egli ci fornisce inoltre quattro argomentazioni a favore della guerra giusta condotta dagli spagnoli:

1. è legittimo assoggettare uomini la cui condizione naturale è quella di dover obbedire agli altri, e se essi
rifiutano tale obbedienza non vi è altro rimedio cui ricorrere
2. è legittimo mettere al bando il crimine abominevole consistente nel mangiare carne umana, e mettere fine al
culto dei demoni e al rito mostruoso dei sacrifici umani
3. è legittimo salvare gli innumerevoli innocenti che quei barbari immolavano ogni anno per placare l’ira dei loro
dèi con l’offerta dei loro cuori
4. la guerra contro gli infedeli è giustificata perché apre la via alla propagazione della religione cristiana e facilita
il compito dei missionari

Le quattro proposizioni, riassunte, dicono: gli indiani hanno una natura subalterna, praticano il cannibalismo,
sacrificano esseri umani, ignorano la religione cristiana: ergo, noi abbiamo il diritto, anzi il dovere, di imporre agli altri
il bene, cioè quello che noi consideriamo il bene, senza chiedere loro se lo sia anche dal loro punto di vista.
Per Sepùlveda esiste chiaramente un valore assoluto, cioè la religione cristiana e la sua appartenenza ad essa, e
l'acquisizione di tale valore pesa molto di più di quello che la persona singola considera il suo bene.
Per quanto riguarda poi la sua percezione dei tratti specifici della società indiana c’è da dire che egli è sensibile alle
differenze ed anzi le ricerca: da lui veniamo a sapere molte cose riguardo ai riti e alle credenze azteche, e sarebbe
allettante vedere in lui i germi di una descrizione etnologica degli indiani, facilitata dall'attenzione che egli rivolge alle
differenze, ma la sua descrizione perde molto del suo interesse, poiché la differenza si riduce sempre in lui in inferiorità:
le sue informazioni sono dunque falsate da giudizi di valore, dall’identificazione della differenza con l’inferiorità, ma,
nonostante ciò, il suo ritratto degli indiani non è privo di interesse.

Se la concezione gerarchica di Sepùlveda risente delle influenze del pensiero aristotelico, la concezione egualitaria di
Las Casas dev’essere presentata come una derivazione dall’insegnamento di Cristo: è lo stesso Las Casas che ce lo dice,
nel suo discorso di Valladolid: "Addio Aristotele! Il Cristo, che è verità eterna, ci ha lasciato questo comandamento:
amerai il tuo prossimo come te stesso. […] Benché fosse un filosofo profondo, Aristotele non era degno di essere
salvato e di giungere a Dio attraverso la conoscenza dell’antica fede" (Apologia, 3).
Infatti, anche se il cristianesimo non ignora le opposizioni e ineguaglianze, le riduce tutte alla opposizione fondamentale
tra il cristiano e il non cristiano, e chiunque può diventarlo; al contrario, nel caso dell’opposizione tra padrone e schiavo
in Aristotele, lo schiavo è un essere intrinsecamente inferiore, dato che gli manca la ragione, che non si può acquisire,
come invece può avvenire con la fede.
Las Casas non è comunque il solo a difendere i diritti degli indiani e a proclamare che essi non possono essere ridotti in
schiavitù, anzi, anche gli stessi documenti ufficiali della corona si pronunciano in questo modo; parimenti, il pontefice
Paolo III, in una bolla del 1537, afferma che "La Verità […] inviando i predicatori della fede ad adempire questo
precetto, dice: và e fà dei discepoli in tutte le nazioni. Dice tutte le nazioni, senza distinzione alcuna, poiché tutti sono
idonei a ricevere la disciplina della fede. […] Gli indiani, essendo uomini come tutti gli altri, non possono essere in
alcun modo privati della loro libertà e del possesso dei loro beni": questa affermazione deriva dai fondamentali princìpi
cristiani, poiché, se Dio a creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, offendere l’uomo significa offendere Dio stesso.
Las Casas adotta questa posizione, arrivando ad affermare non solo una eguaglianza astratta, ma precisando persino che
si tratta di una eguaglianza tra noi e gli altri, cioè tra spagnoli e indiani: nei suoi scritti si trovano frequenti formule
come questa: "Tutti gli indiani devono essere considerati liberi: perché in verità lo sono, in base allo stesso diritto per
cui io stesso sono libero" (Lettera al principe Filippo, 20 aprile 1544).

Quest’affermazione dell’eguaglianza di tutti gli uomini, però, è fatta in nome di una religione particolare, il
cristianesimo, senza che questo particolarismo sia riconosciuto: vi è dunque il pericolo di vedere affermare non solo la
natura umana degli indiani, ma anche la loro natura cristiana; il pericolo dell’assimilazione è sempre costante, poiché
l’identità biologica porta quasi ad una sorta d’identità culturale dinanzi alla religione.
Egli infatti, inizia con il constatare che la religione cristiana può essere adottata da tutti, ma afferma subito dopo che
tutte le nazioni sono destinate alla religione cristiana, ripetendo poi instancabilmente che gli indiani sono già dotati di
caratteristiche cristiane, sono obbedienti e pacifici.
La percezione di Las Casas non è dunque più sfumata di quella di Colombo, quando questi credeva all’esistenza del
"buon selvaggio": "Mi sembrava di vedere in lui il nostro padre Adamo, quando viveva ancora in stato di
innocenza" (Historia, II, 44).
La sua Apologetica Historia contiene invero una massa d’informazioni sulla vita materiale e spirituale degli indiani, ma
se essa ha il valore di un documento etnografico, si ha la sensazione che ciò avvenga contro le intenzioni dell’autore,
sempre impegnato a distruggere ogni differenza: il ritratto degli indiani che possiamo ricavare dalle opere di Las Casas
è in realtà molto più povero di quello lasciatoci da Sepùlveda.

Infatti egli, nella maggior parte dei casi disconosce le differenze tra indiani e spagnoli, e quand’anche le riconosca,
subito le riconduce ad un unico schema evolutivo (essi sono ora come noi eravamo una volta): il postulato
d’eguaglianza sbocca così in un’affermazione d’identità, e la seconda grande figura "dell’alterità", sebbene più
simpatica, ci fornisce una conoscenza dell’altro ancora minore di quella fornitaci dalla prima.

Las Casas ama gli indiani ed è cristiano, ed ama gli indiani proprio perché è cristiano, senza che le due cose siano in
contrasto: il suo amore illustra la sua fede, ma la questione non è proprio così semplice: proprio perché cristiano, Las
Casas non aveva una buona percezione degli indiani, e viene spontaneo chiedersi se si può davvero amare qualcuno se
si ignora la sua identità, oppure se non si rischi di voler trasformare l’altro in nome della propria personalità, e quindi
sottometterlo.
Il titolo del primo trattato da lui dedicato alla causa indiana, De unico vocationis modo omnium gentium ad veram
religionem, bene esprime l’ambivalenza della posizione del suo autore: l'unico modo è naturalmente la dolcezza, e Las
Casas rifiuta la violenza dei conquistadores, che giustificano le guerre in considerazione del fine perseguito,
l’evangelizzazione, ma nello stesso tempo per lui esiste una vera religione, cioè la sua, che non è solo personale ma
universale.
Tutta la sua vita è ricca di iniziative a favore degli indiani, ma alcune di queste ci appaiono quanto mai ambigue, come
ad esempio il massacro di Caonao, di cui fu testimone quand'era al seguito delle truppe di Narvàez: per alleviare il
dolore degli indiani massacrati egli, mentre un indios ha subito un colpo al fianco che "gli mette a nudo gli intestini",
gli parla "seduta stante delle cose della fede, per quel tanto che l'angosciosa situazione lo permetteva, facendogli
capire che, se voleva essere battezzato, sarebbe andato in cielo a vivere con Dio" (Historia, III, 29): agli occhi di un
credente non è indifferente sapere se un'anima andrà in paradiso, perché battezzata, o all'inferno, ma quel battesimo in
extremis, come riconosce in più occasioni lo stesso Las Casas, ha qualcosa di derisorio.
Dopo la conversione poi, Las Casas si lancia nella colonizzazione pacifica della regione di Cumanà, in Venezuela: al
posto dei soldati dovevano esserci dei religiosi e dei contadini venuti dalla Spagna, ma la spedizione si dimostra un
fallimento completo, poiché da un lato egli è costretto a dover fare concessioni sempre maggiori agli spagnoli e,
dall’altro, gli indiani non si mostrano così docili come egli aveva sperato: la spedizione, quindi, si conclude nel sangue,
ma ciò non lo dissuaderà dal fare un altro tentativo analogo, quindici anni più tardi, che finirà allo stesso modo.

Las Casas dunque non vuole porre fine all'annessione degli indiani, ma vuole soltanto che sia compiuta da religiosi e
non da soldati: il suo sogno è quello di uno Stato teocratico, nel quale il potere spirituale sovrasti il potere temporale.
E' illuminante un paragone che egli stesso fa, in una lettera al vescovo di Santa Maria: "bisogna strappare questa terra
al potere dei padri snaturati e darle un marito che la tratterà in modo ragionevole e secondo i suoi meriti": la colonia è
dunque come una donna, e non si parla affatto di emancipazione, ma di sostituire il padre, dimostratosi crudele, con un
marito che si dimostrerà ragionevole.
La colonizzazione e la sottomissione devono restare, ma gestite altrimenti, di modo che a guadagnarci saranno sia gli
indiani, che non verranno più torturati o sterminati, sia il re di Spagna, che potrà godere di utili maggiori: questo non
significa dare un giudizio totalmente negativo su Las Casas, anzi, se vi è qualcuno che ha contribuito a migliorare la
sorte degli indiani, è stato proprio lui.
Non toglie nulla alla grandezza del personaggio riconoscere che l'ideologia di Las Casas e di altri difensori degli indiani
è colonialista, mentre quella di altri indiani è schiavista: la differenza non è di poco conto, giacché nel secondo caso
l'altro è soltanto un oggetto, un essere inferiore, che può essere ucciso per nutrire degli altri indiani o addirittura i cani,
oppure per estrarne il grasso, a cui si mozzano tutte le estremità, dal naso, alle mani, ai seni, alla lingua, al sesso, così
come si pota un albero, di cui si usa il sangue per innaffiare i campi come fosse l'acqua di un fiume.
Questo modo di utilizzare l'uomo non è però il più redditizio: se anziché ridurre l’uomo al rango di oggetto lo si ritiene
un soggetto intermedio capace di produrre oggetti, diventerà allora possibile moltiplicare all’infinito il numero degli
oggetti appropriabili, e dunque il profitto crescerà: il soggetto deve rimanere intermedio e gli deve essere vietato di
diventare come noi, ed a ciò penserà l'esercito, e il soggetto sarà tanto più produttivo quanto meglio sarà curato, scopo a
cui sono preposti i religiosi: l'efficacia del colonialismo è superiore a quella dello schiavismo.

Se Colombo è da annoverare tra le fila degli schiavisti, possiamo dire che due personaggi tra loro diversissimi (come
dimostra anche questo affresco, conservato al Palazzo Nazionale di Città del Messico) come Cortés e Las Casas, sono
legati entrambi alla ideologia colonialista: anche se molte cose li dividono, a cominciare dal fatto che Las Casas ama gli
indiani ma non li conosce e Cortés invece li conosce ma non prova per loro alcun amore particolare, entrambi sono
d’accordo su un punto essenziale: la sottomissione dell’America alla Spagna, l’assimilazione degli indiani alla religione
cristiana, la preferenza per il colonialismo a danno dello schiavismo.
Si potrebbe dire che è scorretto definire con il termine colonialismo, che oggi ha assunto valenza negativa, tutte le
forme assunte dalla presenza spagnola in America, anche se queste hanno eliminato i sacrifici umani, il cannibalismo, la
poligamia, hanno introdotto il cristianesimo, le usanze europee, animali domestici ed utensili: è innegabile che, sebbene
certi doni siano stati pagati a caro prezzo, alcuni di tali apporti siano stati positivi.
Se il colonialismo, da un lato, si contrappone allo schiavismo, dall'altro si oppone ad una pura e semplice
comunicazione, il diritto della quale è sancito dal principio di Vitoria, secondo cui bisogna permettere una libera
circolazione degli uomini, delle idee e dei beni

È però possibile stabilire un criterio etico in base al quale esprimere un giudizio sulla forma delle influenze, basandosi
sul fatto che esse siano imposte o proposte, cioè, alla lunga, riconoscano o rifiutino di riconoscere agli altri una libera
volontà e la stessa umanità: non è dunque necessario rinchiudersi nella sterile alternativa della giustificazione delle
guerre coloniali nel nome della superiorità della civiltà occidentale, o del rifiuto di ogni comunicazione con lo straniero
nel nome della propria identità: esiste sempre, secondo il Todorov, e va difesa come un valore, la comunicazione non
violenta, di modo che la triade schiavismo-colonialismo-comunicazione possa essere non solo uno strumento di analisi
concettuale, ma anche una successione nel tempo.

4.conoscere.

Abbiamo detto nella sezione precedente che il comportamento di Las Casas e quello di Cortés nei confronti degli
indiani, possono essere assimilati: ciò suona paradossale solo se non si comprende che il rapporto con l'altro non si
costruisce entro una sola dimensione, giacché si possono individuare almeno tre assi: il giudizio di valore  o piano
assiologico (l'altro mi piace o non mi piace, è mio pari o è un mio inferiore), l'azione di avvicinamento o di
allontanamento nei confronti dell'altro o  piano prasseologico (io abbraccio i valori dell'altro e mi identifico con lui
oppure assimilo l'altro a me stesso), e la conoscenza o la non conoscenza dell'identità dell'altro o piano
epistemologico (conosco o ignoro l'identità dell'altro).
Las Casas conosce gli indiani meno di Cortés e li ama di più, ma entrambi si riconoscono in una stessa politica di
assimilazione, poiché la conoscenza non implica amore né questo quella: conquistare, amare, conoscere sono
comportamenti del tutto autonomi.
Per quanto riguarda il primo di questi assi, il piano assiologico, la figura emblematica è Las Casas, anche se bisogna
premettere che, nel corso della sua lunga vita, egli attraversò una serie di crisi e trasformazioni, che lo portarono ad
assumere posizioni tra loro distinte nei confronti degli indiani: il suo atteggiamento nei loro confronti non è lo stesso
prima o dopo la sua rinuncia agli schiavi che possedeva, nel 1514, ma neppure prima e dopo il 1523, anno in cui diventa
domenicano, ed ancora, cambia nel 1550, dopo il fallimento di molti dei suoi progetti politici, in seguito allo studio dei
sacrifici umani presso gli aztechi.
E' interessante aggiungere che, per Sepùlveda, erano proprio questi riti che dimostravano nel modo più inequivocabile
la inferiorità degli indiani.

Il suo ragionamento, in un un primo lo porta a dire che, sebbene il cannibalismo ed i sacrifici umani fossero
condannabili, ciò non significava che si dovesse muovere guerra a coloro che li praticavano, affermando poi che è
necessario anche considerare il rispetto per le leggi, uguale sia per gli spagnoli sia per gli indiani, che evidentemente
imponevano, nella civiltà indiana, il sacrificio: se la legge imponeva il sacrificio, ovviamente non si poteva biasimare il
singolo per questo; egli ricorda inoltre che il sacrificio umano non è poi così estraneo neppure alla religione cristiana,
come dimostra il comando dato da Dio ad Abramo di sacrificare suo figlio Isacco (Apologia, 37), o il sacrificio della
figlia di Jefte in Giudici, 11, 30-40.Analogamente, Las Casas rendeva più vicino agli spagnoli il cannibalismo
ricordando i casi in cui gli stessi soldati di Cortés, a causa della fame, erano stati costretti a mangiare chi il fegato chi la
coscia di un compatriota.
Las Casas poi, dopo aver mostrato la non eccezionalità sia dei sacrifici sia del cannibalismo, si spinge a dire che il
sacrificio umano è accettabile non solo per ragioni di fatto, ma anche per ragioni di diritto: il suo ragionamento si
articola in tre punti:

 Ogni essere umano ha una conoscenza intuitiva di Dio


 Gli uomini adorano Dio secondo le loro capacità e a modo loro, cercando sempre di fare il meglio che possono
 La più grande prova d'amore che si possa dare a Dio, consiste nell'offrirgli ciò che si ha di più prezioso, e cioè
la stessa vita umana
 Il sacrificio, dunque, esiste per una legge naturale, e le sue caratteristiche saranno regolate, per quanto
concerne la natura dell'oggetto sacrificato, dalle leggi umane

Las Casas finisce, con tali ragionamenti, per adottare una nuova posizione, inventando quello che oggi si chiama
"prospettivismo" religioso: ciò che è ora in comune non è il dio cristiano, ma l'idea di divinità, quella che noi
chiameremmo religiosità, più che religione.
Egli, dunque, pur affermando l'esistenza di un unico Dio, non privilegia a priori la via cristiana a Dio, e l'eguaglianza
non si paga più, come invece capitava nelle fasi precedenti della sua vita, al prezzo dell'identità, poiché ciascuno ha il
diritto di avvicinarsi a Dio per la strada che più gli si confà.

Una volta applicato questo principio alla religione, risulterà assai facile a Las Casas provare la relatività della nozione di
"barbarie", poiché ognuno è il barbaro di un altro, se parla una lingua che l'altro ignora: "Come dice San Paolo nella
sua Prima epistola ai Corinzi (14, 10-11), per quanto numerose possano essere al mondo le diverse lingue, non ve n'è
alcuna che non sia una lingua; se dunque non conosco il senso di una certa lingua, sarò un barbaro per colui che la
parla, e colui che la parla sarà un barbaro per me" (Historia, III, 254): in questa affermazione dell'eguaglianza a
danno della gerarchia, Las Casas si ricollega ad un tema cristiano classico, come dimostra il riferimento a san Paolo.
Giova notare però che questo tema dell'egualitarismo cristiano era all'epoca assai ambiguo, poiché tutti si richiamavano
allo spirito del cristianesimo, sia i cattolici, lo stesso Las Casas in primis, che partendo da questo presupposto vedevano
gli indiani come propri uguali e dunque tentavano di assimilarli, sia i protestanti, che mettevano in luce le differenze ed
isolavano le loro comunità da quelle degli indigeni: questi casi, benché antitetici, negano una identità all'altro, sul piano
dell'esistenza, per i cattolici, o sul piano dei giudizi di valore, per i protestanti.
Las Casas invece, negli ultimi anni della sua vita, scopre quella forma superiore di egualitarismo che è il
prospettivismo, nel quale ognuno è messo in rapporto con i propri valori, anziché essere commisurato ad un ideale
unico.

E' interessante, per meglio capire lo spirito di un epoca, occuparci della disputa sulla natura finita o infinita del mondo,
e, di conseguenza, sull'esistenza o meno di una gerarchia interna al mondo: Giordano Bruno, domenicano come Las
Casa, nel suo trattato De l'infinito, universo e mondi, contrappone le due concezioni, la prima, di matrice aristotelica,
che affermava il carattere finito del mondo e la necessità della gerarchia (difesa, in questo dialogo, da un aristotelico
come Supùlveda), e la seconda che affermava la relatività delle posizioni nello spazio fisico, e negava l'esistenza di
qualsiasi posizione privilegiata: "Cossì non è più centro la terra che qualsivoglia altro corpo mondano [...]" (De
l'infinito, II): non solo la terra non è il centro dell'universo (come già aveva detto, quarant'anni prima, l'astronomo
Copernico), ma nessun punto fisico lo è, ed anzi, la stessa nozione di centro ha senso solo in relazione ad un punto di
vista particolare, e sia centro sia periferia sono nozioni puramente relative, ancora più di quanto lo siano quelle di civiltà
e barbarie: "Nell'universo non è mezzo né circonferenza, ma, se vuoi, in tutto è mezzo [...]" (De l'infinito, V).
Mentre Giordano Bruno, non dimentichiamolo, pagò con la vita queste sue affermazioni, Las Casas non ebbe fastidi,
neppure nei suoi ultimi anni: i suoi progetti politici non suscitano obiezioni, anche se consigliavano al re di Spagna di
rinunciare ai suoi possessi oltre l'Atlantico, lasciando agli Stati indiani i loro vecchi governanti, predicandovi il Vangelo
senza l'appoggio degli eserciti: Las Casas arriva così ad affermare che gli indiani devono decidere autonomamente del
loro destino, così come già aveva detto della loro vita religiosa.

Riguardo al secondo asse, quello dell'assimilazione o di identificazione con l'altro, la prima figura che prendiamo in
esame è quella di Vasco de Quiroga, membro della seconda Udienza del Messico, ed appartenente cioè al potere
amministrativo: egli resta fermo in una posizione assimilazionista, ma non vuole assimilare gli indiani alla Spagna del
suo tempo, ma ad una terza realtà, ricreando una sorta di età dell'oro sulla base degli insegnamenti dell'Utopia di
Tommaso Moro: il suo assimilazionismo, dunque, è incondizionato, anche se originale.
Gli esempi invece di identificazione totale con la cultura e la società indiane sono assai rari, ed il più puro è quello di
Gonzalo Guerrero, naufragato sulle coste del Messico nel 1511 e divenuto, come ci racconta Diego de Landa, un capo
militare indiano: "Egli riportò numerose vittorie sui nemici del suo signore e insegnò agli indiani a combattere, a
costruire forti e bastioni [...]. Si coprì il corpo di pitture, si lasciò crescere i capelli, si forò gli orecchi per portare gli
orecchini come gli indiani, ed è anche possibile che diventasse idolatra come loro" (III); sposato con una donna indiana
d'alto rango, egli si rifiutò di raggiungere le truppe di Cortés quando questi sbarcò nello Yucatàn, e si dice anche che
egli combatté a lungo con gli eserciti dei conquistadores.
Il caso di Alvar Nùnez Cabeza de Vaca è invece più complesso: anch'egli, come Guerrero, si trova ad essere isolato e
senza possibilità di contatto con la Spagna, in seguito ad un naufragio in Florida: con alcuni compagni, allora, si trova
costretto a vivere fra gli indiani e come gli indiani, intraprendendo un viaggio a piedi durato otto anni, al termine del
quale riuscirà a raggiungere il Messico.
I suoi giudizi sugli indiani non sono originali, e appaiono simili a quelli di Las Casas: egli li stima e non vuole far loro
dei torti, ritenendo che l'evangelizzazione deve avvenire senza violenza; la sua diversità dal frate domenicano sta nel
fatto che egli ha una conoscenza precisa e diretta del modo di vivere indiano, e la sua narrazione dei paesi che via via
attraversa, è per noi assai ricca di notizie sulla vita spirituale e materiale delle popolazioni.
Il piano che però ci interessa di più, nei suoi riguardi, è quello della identificazione, poiché egli, per sopravvivere, è
costretto ad esercitare due mestieri, il primo di venditore ambulante, che percorre incessantemente l'itinerario tra la
costa e l'interno, portando a ciascuno gli oggetti che gli mancano e che sono invece disponibili presso gli altri, ed il
secondo di guaritore: egli dunque adotta i mestieri degli indiani, si veste o resta nudo come loro, mangia come loro, ma
l'identificazione non è mai completa, poiché c'è una giustificazione europea che gli rende gradevole il mestiere di
guaritore (il potere, con questo sistema, proseguire il viaggio e raggiungere i suoi compatrioti) e vi sono preghiere
cristiane nei riti di guarigione da lui operati; egli, inoltre, tiene un diario, prassi tipicamente occidentale, e si dimostra,
malgrado la forte integrazione con gli indiani, straordinariamente felice di incontrare altri spagnoli: "Quel giorno, dopo
tante disgrazie, fu il più felice della nostra vita" (I, 17).
Egli non ha nulla di un Guerrero, e quando riuscirà a raggiungere il Messico, non rimetterà più piede in quelle terre; è
però assai interessante l'episodio, raccontato da Cabeza de Vaca, dell'incontro tra indiani, che lo accompagnano, ed un
gruppo di spagnoli: egli, dopo aver assicurato agli indiani che i suoi compatrioti non avevano alcuna intenzione ostile, si
vede ingannato da questi, ed arriva a scrivere: "Costoro, infatti, avevano deciso di assalire gli indios che noi, invece,
avevamo lasciato con parole di pace. I cristiani non ebbero alcuno scrupolo a mettere in atto il loro piano [...]" (I, 34):
in questo caso non ci sono più due parti, noi (i cristiani) e loro (gli indiani), ma tre, cioè i cristiani, gli indiani e noi, che
non sappiamo chi esattamente siano, se esterni ad entrambi i mondi per averli entrambi vissuti dall'interno.
Un altro ottimo esempio di come si possa andare lontano sulla strada della conoscenza degli indiani, rimanendo però
assai distanti dalla identificazione, ce lo dà Diego de Landa, che deve infatti la sua fama ad un duplice gesto: egli è, da
un lato, l'autore della Relaciòn de las cosas de Yucatàn, il più prezioso documento sul passato dei maya che noi
possediamo, e, dall'altro lato, è l'istigatore di numerosi autodafé, nel corso dei quali furono bruciati tutti i libri maya
esistenti all'epoca, come egli stesso riferisce, proprio nella sua Relaciòn (41).

Due personaggi, che meritano una trattazione più ampia, ci paiono assai significativi di questo interesse per la
conoscenza degli indiani affiancato però da un totale disconoscimento di ogni identificazione: Diego
Duràn e Bernardino Sahagùn.

Diego Duràn nacque in Spagna verso il 1537, ed andò a vivere in Messico all'età di cinque o sei anni, ed acquisì una
comprensione della cultura indiana, data la sua lunghissima permanenza sul continente americano, che nessuno poté
eguagliare nel XVI° secolo.
Qualche anno prima della sua morte, avvenuta nel 1588, Duràn compilò, per il periodo compreso tra il 1576 ed il 1581,
una monumentale Historia de las Indias de Nueva Espana e Islas de Tierre Firme, composta di tre sezioni, le prime due
sulla religione azteca e la terza sulla loro storia; quest'opera fu pubblicata sono nel XIX° secolo.

Le motivazioni della stesura di un'opera di tale mole sono molteplici: da un lato, Duràn è il convinto evangelizzatore,
che sostiene che la conversione degli indiani deve passare attraverso una migliore conoscenza della loro antica
religione, dato che, secondo lui, per imporre la religione cristiana bisogna estirpare ogni traccia di paganesimo, e per
farlo è necessario anzitutto conoscerlo bene: "Se vogliamo seriamente cancellare la memoria d'Amalech, non potremo
mai riuscirci se non avremo prima considerato tutte le modalità della religione nella quale essi
vivevano" (I, Introduzione).
Per potere estirpare le idolatrie, dunque, bisogna conoscerle, ma il clero dell'epoca è ignorante, e spesso i preti si
accontentano di una conoscenza della lingua estremamente superficiale: Duràn racconta che, ad esempio, i monaci
scambiavano un certo tipo di tonsura, legato alle pratiche pagane, con un omaggio nei loro riguardi, perché simile alla
loro tonsura.
Egli dunque rimprovera aspramente coloro che avevano bruciato i libri antichi, poiché essi non avevano fatto altro che
rendere più difficile il lavoro di evangelizzazione: "Coloro che, all'inizio, con fervido zelo ma scarso discernimento,
hanno bruciato e distrutto tutti i disegni contenenti le antiche tradizioni degli indiani, hanno commesso un errore. Ci
hanno lasciato senza una luce che ci guidi; in questo modo, gli indiani adorano gli idoli in nostra presenza e noi non
comprendiamo nulla" (I, Introduzione).
Egli non è contrario in linea di principio agli autodafé, cioè ai roghi dei libri degli indiani, e dubita invece che siano il
mezzo più adatto per lottare contro il paganesimo; Duràn, poi, nella lotta tra domenicani e francescani, sceglie il partito
rigorista e sostiene l'idea di una conversione totale.

Quello fino ad ora descritto è uno dei volti di Duràn, quello del cristiano rigido, intransigente, difensore della purezza
religiosa, contrario ad ogni forma di sincretismo: ma vi sono moltissimi passi, nella sua opera, in cui, con meraviglia dei
lettori, egli si dilunga nell'elencare tutti i numerosi punti di contatto tra spagnoli ed indiani: Duràn arriva a scoprire,
negli antichi riti pagani, un numero di elementi cristiani così numeroso da apparire sconcertante: così, la festa di
Tezcatlipoca assomiglia al nostro giovedì santo, il sacrificio in onore di Chicomecoatl "sembrava quasi la notte di
Natale" (I, 14), la purificazione azteca per mezzo dell'acqua corrisponde al nostro battesimo, e Tezcatlipoca, con le sue
molteplici incarnazioni, altro non è che un travestimento della Trinità: "Veneravano il Padre, il Figlio e lo Spirito
Santo, e li chiamavano Tota, Topiltzin e Yolometl. Queste parole significavano Padre Nostro, Figlio Nostro e Cuore
degli dèi: [...] ecco la prova che questa gente sapeva qualcosa della Trinità" (I, 8).
Duràn dunque si appellava alla Inquisizione e scagliava anatemi contro coloro che mescolavano i riti, proprio mentre
esprimeva in lungo e in largo le infinite somiglianze tra la religione indiana e quella cristiana.

Di tante somiglianze non potevano che esistere due spiegazioni: o gli indiani hanno ricevuto, in un lontano passato, un
insegnamento cristiano, ad opera di un qualche predicatore, oppure è stato il demonio stesso a fare loro conoscere i riti
cristiani, travestendoli e facendo così adorare lui stesso.
Chiaramente Duràn propende per la prima ipotesi, individuando addirittura l'immaginario predicatore in san Tommaso,
ed arrivando infine, all'epoca in cui scrive il suo libro di storia, a stabilire che gli aztechi, in realtà, altro non sono se non
una perduta tribù di Israele: il primo capitolo della sua storia si apre infatti con queste parole: "In fin dei conti
potremmo affermare che, per natura, essi sono ebrei ed appartengono al popolo ebraico. [...]" (III, 1): le prove di tale
origine comune sono ancora delle analogie, a cominciare dal fatto che sia gli ebrei e sia gli aztechi si moltiplicano in
gran numero, entrambi hanno avuto un profeta e dei terremoti, entrambi hanno ricevuto la manna dal cielo e conoscono
i sacrifici umani.
Proveniente forse da una famiglia di ebrei convertiti, Duràn doveva già aver cercato di conciliare religione cristiana e
religione ebraica, e dunque vi è già forse in lui una predisposizione all'ibridazione delle culture, che lo renderà un luogo
di incontro tra civiltà europea e civiltà indiana, l'esempio più compiuto, secondo il Todorov, di "meticcio culturale del
XVI° secolo".

La sua ibridazione culturale si manifesta in vari modi, dei quali il primo e più evidente è il fatto che egli condivide il
modo di vita degli indiani, le loro privazioni e le loro difficoltà, e vivendo quella vita, gli capita di accettare e persino di
adottare quei comportamenti di cui sospetta il carattere idolatrico; inoltre, Duràn è uno dei pochi individui in grado di
comprendere veramente l'una e l'altra cultura, ed in grado cioè di tradurre i segni dell'una in quelli dell'altra: il risultato
di questa comprensione è l'inestimabile opera scritta da Duràn sulla religione azteca, inestimabile perché è praticamente
l'unica a non accontentarsi di una descrizione dall'esterno, ma che cerca di capire il perché delle cose.
Un'altra dimostrazione della sua ibridazione culturale è data dalla evoluzione del punto di vista in base al quale è scritta
la sua opera: nei suoi libri sulla religione, ad esempio, i due punti di vista, quello spagnolo e quello azteco, sono distinti,
ma il naturale sincretismo di Duràn mette sempre in pericolo ogni netta differenziazione; nel libro di storia poi, il
discorso è ancora più complesso, dato che Duràn ha sott'occhio un manoscritto in lingua nahuatl e lo sta traducendo in
spagnolo, confrontandolo se necessario con altre fonti; questo progetto, però, di compiere una pura e semplice
traduzione, non viene mantenuto nel corso del libro, tanto che egli scrive: "Il mio unico desiderio è di parlare della
nazione azteca, delle sue grandi imprese e del triste destino che l'ha condotta alla rovina" (III, 77), e ancora "In questa
mia storia ho voluto anch'io narrare la loro gloria e perpetuare la loro memoria, affinché esse durino quanto durerà il
mio libro" (III, 11): evidentemente qualcosa di più di una semplice traduzione, giacché Duràn rivendica per sé il ruolo
di storico, il cui compito è perpetuare la gloria degli eroi.

Duràn, da un lato, si è completamente identificato con il punto di vista azteco, ma dall'altro lato, non è così, dato che
non rimette mai in causa la sua fede cristiana: egli non è né spagnolo né azteco, ma uno dei primi messicani, così come
la Malinche.
Non bisogna dunque stupirsi se il giudizio da lui espresso sugli indiani e la loro cultura sia profondamente
contraddittorio: egli di sicuro non vede in essi né i buoni selvaggi né i bruti sprovvisti di ragione, ma dice che, malgrado
possiedano una mirabile organizzazione sociale ed una notevole intelligenza, tuttavia persistono nella loro fede pagana,
decidendo in tutta onestà di conservare l'ambivalenza dei suoi sentimenti: "Costoro erano, da un lato, bene organizzati
e amministrati, ma erano, dall'altro, tirannici e crudeli" (I, Introduzione): egli resta per noi una figura esemplare di ciò
che egli stesso chiama "il desiderio di sapere" (I, 14).

Bernardino de Sahagùn nacque in Spagna nel 1499, divenne, dopo gli studi all'università di Salamanca, un frate
francescano e, nel 1529, giunse in Messico, dove rimase fino alla morte, avvenuta nel 1590.
La sua attività segue due grandi direttrici: l'insegnamento e lo scrivere. Appena giunto in Messico impara a fondo la
lingua nahuatl e diventa professore di latino al collegio francescano di Tlateloco; il livello degli studi diventa, in breve
tempo molto alto, ed è lo stesso Sahagùn a dirci che, già intorno al 1540, dopo pochi anni di studi, i nobili messicani
sono in grado di parlare, capire e scrivere il latino e persino di comporre versi eroici (X, 27).
La seconda direzione lungo cui si orientano gli sforzi di Sahagùn è l'arte dello scrivere, attività in cui egli sfrutta tutte le
conoscenze acquisite nel corso dell'insegnamento: anche questa attività, così come quella di insegnamento, incontra una
serie di ostacoli, tanto che quasi tutte le sue opere sono andate perdute, ed è quasi un miracolo che la sua Historia si sia
conservata fino ai nostri giorni.

La sua opera principale è la Histora general de las cosas de la Nueva Espana, ed il suo progetto nasce, come per Duràn,
da considerazioni religiose e dal desiderio di facilitare l'espansione del cristianesimo: è necessario, per Sahagùn, se si
vuole estirpare l'idolatria, conoscere a fondo le usanze pagane, così come per un medico è necessario, per guarire una
malattia, conoscere il malato: "Il medico non può prescrivere i giusti rimedi al suo malato se non conosce l'umore e le
cause da cui è derivata la malattia [...]; i predicatori e i confessori sono i medici dell'anima e, per guarire le malattie
spirituale, conviene che essi conoscano queste malattie ed i loro rimedi" (I, Prologo).
Accanto a questo chiaro motivo, però, ne esiste un altro, e cioè il desiderio di conoscere e conservare la cultura nahuatl,
e tale desiderio, ben più che in Duràn avrà il sopravvento sull'interesse pragmatico, inducendo Sahagùn a prendere
importanti decisioni: il testo della sua Historia sarà redatto in base alle informazioni acquisite dai testimoni più degni di
fede, e sarà scritto in nahuatl.
Sahagùn, dunque, sceglie bene i propri informatori e si assicura della veridicità dei loro racconti, consulta gli antichi
codici e se li fa spiegare, e, solo dopo aver stabilito definitivamente il testo in lingua nahuatl, decide di aggiungervi una
traduzione in spagnolo: contrariamente poi agli altri autori come Motolinia e lo stesso Duràn, il contenuto delle cui
opere proviene dagli informatori, ma il cui punto di vista è sempre quello di loro stessi, Sahagùn sceglie la strada della
fedeltà integrale e riproduce i discorsi da lui effettivamente ascoltati, aggiungendovi e non sostituendovi la sua
traduzione.
Il manoscritto, alla fine, viene illustrato, e tutto questo enorme lavoro dura circa quarant'anni: il risultato è una
enciclopedia della vita spirituale e materiale degli aztechi prima della conquista, il ritratto di una civiltà destinata a
sparire definitivamente nel giro di pochi anni.

Non bisogna pensare, dato che l'opera presenta sia una parte in lingua nahuatl sia una parte in spagnolo, che nella prima
siano solo gli informatori a parlare, e che gli interventi di Sahagùn si possano riscontrare solo nella seconda:
naturalmente la sua presenza è sempre costante, seppur più discreta nella versione in nahuatl, ma è interessante notare le
differenze tra le due versioni, cioè i passi che in una delle due sono riportati e nell'altra mancano.
Nel testo spagnolo, infatti, subito dopo la descrizione del panteon azteco, Sahagùn aggiunge questa apostrofe: "Voi,
abitanti di questa Nuova Spagna, messicani tlaxcaltechi [...] sappiate che avete vissuto nelle grandi tenebre
dell'infedeltà e dell'idolatria, in cui vi hanno lasciato i vostri antenati [...]. Ascoltate ora con
attenzione..." (I, Appendice); a questo punto egli trascrive fedelmente in latino quattro capitoli della Bibbia sulla
idolatria ed i suoi nefasti effetti, a cui segue la vera e propria confutazione del paganesimo.
Questi interventi meritano attenzione soprattutto perché sono assai poco numerosi, e poi perché sono nettamente
separati dal testo che li circonda.
Sahagùn infatti, nella descrizione dei riti aztechi, rinuncia a qualsiasi giudizio di valore, e fornisce soltanto il punto di
vista degli indiani; osserviamo ad esempio come presenta la scena di un sacrificio Motolinia (I, 6), Duràn (III, 23) e lo
stesso Sahagùn (III, 2).

Ecco il racconto di Motolinia: "Su quella pietra essi mettevano, sdraiati sul dorso, i poveri infelici da
sacrificare [...] quando il petto del povero infelice era teso al massimo, lo aprivano a forza con l'aiuto di quel coltello
crudele e gli strappavano rapidamente il cuore; l'officiante di quell'atto vile sbatteva allora il cuore sulla parte esterna
della soglia dell'altare [...]. Nessuno pensi che coloro che venivano sacrificati [...] andassero a morire di propria
volontà; vi erano costretti con la forza e subivano violentemente la morte e il suo tremendo dolore": evidentemente
Motolinia ha sotto gli occhi un racconto azteco, ma introduce, nel racconto del rito, il proprio punto di vista, usando le
parole "crudele", "vile" e "poveri infelici".
Vediamo invece come Duràn descrive una scena analoga: "L'indiano prendeva il suo piccolo carico di doni [...] e
cominciava a salire verso la sommità del tempio, rappresentando così il percorso del sole da est a ovest. Quando
giungeva in cima e si collocava al centro della grande pietra solare [...] i sacrificatori lo raggiungevano e gli
squarciavano il petto. Ne toglievano il cuore e lo offrivano al sole, gettando il sangue in direzione di esso. Poi, per
rappresentare la discesa del sole verso ovest, facevano rotolare il cadavere giù per la scalinata": nessun aggettivo
aggiunto dall'autore, ma una narrazione in tono tranquillo, senza alcun giudizio di valore; fa invece comparsa
l'interpretazione, che era invece assente in Motolinia, con cui Duràn fa partecipe il lettore delle sue conoscenze.
Lo stile di Sahagùn è ancora differente: "Giunti al ceppo, che era una pietra alta tre spanne o poco più e larga due o
quasi, venivano rovesciati sul dorso e cinque persone li afferravano [...]; sopraggiungeva allora il prete che doveva
ucciderli e li colpiva nel petto impugnando a due mani una selce a forma di punta di lancia; nell'apertura così
praticata introduceva una mano e strappava il cuore, poi lo offriva al sole e lo gettava in un recipiente a forma di
zucca [...]": rispetto a Motolinia, sono ancora assenti i giudizi di valore, ma non troviamo più neanche l'interpretazione:
Sahagùn descrive tutto dall'esterno, con molta precisione tecnica.

Abbiamo visto come, nella descrizione di un sacrificio, Sahagùn non aggiunga nessun giudizio di valore, ma quando si
trova di fronte al panteon azteco, la sua scelta si fa ancora più difficile: egli si compromette sia traducendo "dio" sia
"diavolo", e dunque, non esistendo alcun termine neutro, sceglie di usarli alternativamente entrambi: se il titolo del
capitolo suona "L'origine degli dèi", la prima frase di esso è "Ecco ciò che i vecchi indigeni sapevano e ci hanno detto
sulla nascita e l'origine del diavolo chiamato Huitzilopochtli".
Parlando poi dell'acquisizione delle informazioni, ci accade di vedere che i questionari di cui evidentemente Sahagùn si
serviva, chiedendo, ad esempio, i poteri e i riti di un determinato dio, escludono de facto alcuni temi, che non vengono
mai neppure accennati: per fare un esempio macroscopico, non veniamo a sapere nulla sulla vita sessuale degli aztechi,
e, per giunta, fa quasi sorridere come gli editori del XIX° secolo di questo libro, abbiano esercitato una consapevole
censura dei rari passi dell'opera contenenti dei riferimenti alla sessualità: nella prefazione all'edizione francese, il
traduttore si sente obbligato a giustificare i contrasti "tra la purezza dell'anima e la libertà di espressione" dell'autore, e
in alcuni casi sono introdotte alcune note che dicono "Il traduttore ritiene qui necessario sopprimere un passo scabroso
che la delicatezza delle lingua francese renderebbe insostenibile alla lettura", ed il passo è riportato solo in lingua
spagnola, che evidentemente è meno delicata; un'ultima chicca, "la sostituzione della parola nudità alla espressione più
realistica che Sahagùn ritenne opportuno usare...": il testo spagnolo diceva semplicemente miembro genital (III, 5), e
dobbiamo essere felici che Sahagùn non fosse così pudico come i suoi editore trecento anni dopo, poiché altrimenti
brancoleremmo, su questo tema, nell'ignoranza più completa.

Venendo poi alla scelta degli argomenti operata da Sahagùn, gioverà ricordare che, anche se il suo progetto dichiarato
era la evangelizzazione degli indiani attraverso lo studio della loro religione, non più di un terzo dell'opera tratta di
questi argomenti: egli, forse data la ricchezza dei materiali, decise infine di sostituire il suo vecchio progetto con un
altro, cioè la creazione di una enciclopedia del sapere azteco, in cui trovassero posto sia le cose divine sia le cose
umane; se non accettassimo l'esistenza di questa evoluzione degli intenti, dovremmo chiederci l'utilità cristiana di una
lunga ed approfondita descrizione del serpente acquatico (XI, 4, 3).
Sahagùn evidentemente inserisce tutto ciò che viene a sapere, senza pre

Conclusione. La profezia di Las Casas.

In quest'ultima parte del suo libro, il Todorov riprende alcune delle questioni sollevate nei capitoli precedenti,
esprimendo le sue convinzioni circa l'insegnamento che la sua opera può dare, e, più in generale, circa il modo di
rapportarsi all'altro.
Noi, consapevoli che in questo punto, più che in ogni altro del suo lavoro, il Todorov ha espresso convinzioni ed idee
personali, e dunque qualcosa di soggettivo, abbiamo ritenuto opportuno seguire, come nel resto del lavoro, i suoi
ragionamenti e lo sviluppo del discorso, indicando sotto forma di citazioni le affermazioni che abbiamo ritenuto essere
maggiormente "sue".

"Credo che, a causa di queste opere empie, scellerate e ignominiose, perpetrate in modo così ingiusto, barbaro e
tirannico, Dio riverserà sulla Spagna la sua ira e il suo furore, giacché tutta la Spagna si è presa la sua parte, grande
e piccola, delle sanguinose ricchezze usurpate a prezzo di tante rovine e di tanti massacri".

Queste parole, a mezza strada tra la profezia e la maledizione, sono di Bartolomé de Las Casas; se i lettori pensano che
la questione non li riguardi, sostituiamo a "Spagna" le parole "Europa occidentale", e vedremo che in realtà ne siamo
tutti coinvolti.Forse ancora oggi non possiamo giudicare se la profezia si sia avverata in modo univoco, ma possiamo
sempre adottare apertamente la mia visione delle cose senza travestirla in una descrizione delle stesse.
Molti avvenimenti della storia recente paiono dare ragione a Las Casas, la schiavitù è stata abolita da circa cent'anni, e il
colonialismo vecchio stile è scomparso da trenta o quarant'anni. Molte vendette sono state compiute e vengono
compiute ancora, contro i cittadini delle antiche potenze coloniali, spesso colpevoli solo di avere un certo passaporto:
tali atti non potranno mai saldare il bilancio dei crimini perpetrati dagli europei, ma non fanno altro che riprodurre
quanto di più condannabile gli europei hanno compiuto, ed è sempre triste vedere la storia ripetersi.

Scrivo questo libro perché vorrei che venisse ricordato quel che può accadere se non si riesce a scoprire l'altro.
Perché l'altro deve essere scoperto. E poiché la scoperta dell'altro percorre diversi gradi, è possibile trascorrere la
vita senza mai giungere alla piena scoperta dell'altro, sempreché ad essa si possa realmente arrivare.
Ognuno di noi deve sempre ricominciarla personalmente, le scoperte anteriori non ce ne dispensano. Ma la scoperta
dell'altro deve essere assunta in proprio da ciascun individuo.

La storia della conquista dell'America fa notare come sia avvenuto un grande cambiamento, all'inizio del XVI° secolo: a
partire da quell'epoca, per circa trecentocinquant'anni, l'Europa occidentale ha cercato di assimilare l'altro, di far
scomparire l'alterità esteriore, e in gran parte c'è riuscita: i suoi valori ed il suo modo di vita si sono diffusi in tutto il
mondo, e, come voleva Colombo, i colonizzati hanno adottato le nostre usanze e si sono vestiti.
Questo successo straordinario è dovuto, fra le altre cose, ad una specifica caratteristica della civiltà occidentale, cioè
alla capacità degli europei di capire gli altri: Cortés ce ne fornisce un ottimo esempio, consapevole com'era del fatto che
l'arte dell'adattamento e dell'improvvisazione regolava il suo comportamento.
La sua condotta si organizza in due tempi: il primo è l'interesse per l'altro, anche al prezzo di una certa identificazione
provvisoria: Cortés si assicura la comprensione della lingua e la conoscenza della politica, fino ad inviare messaggi in
codice appropriato, facendosi passare per Quetzalcoatl tornato a vivere sulla terra. Comportandosi in tal modo, però,
Cortés non ha mai abbandonato il suo senso di superiorità, che risulta anzi confermato dalla sua capacità di
comprendere l'altro.
Nel secondo momento poi, egli riafferma la propria identità e assimila gli indiani al proprio mondo, così come fanno i
frati francescani, che adottano gli stessi costumi degli indiani, per meglio convertirli alla religione cristiana.
Gli europei dimostrano notevoli qualità di elasticità e di improvvisazione, che permettono loro di imporre dovunque con
facilità il proprio modo di vita; la civiltà occidentale, dimenticando l'estraneità dell'altro esteriore, assimilato o distrutto,
si trovava un altro interiore, scoprendo la bestia nell'uomo, quella che, nell'opera di Melville Pierre, o delle
ambiguità (IV, 2), è definita "misterioso elemento dell'anima che non sembra riconoscere alcuna giurisdizione umana,
ma che, nonostante l'innocenza dell'individuo in cui esso alberga, sogna orribili sogni e mormora i pensieri più
proibiti": l'instaurazione dell'inconscio può essere considerata come il punto culminante di questa scoperta dell'altro in
noi stessi.

Oggi questo periodo della storia europea è, forse, in via di esaurimento, giacché i rappresentanti della civiltà occidentale
non credono più alla sua superiorità, e dunque il movimento di assimilazione si va spegnendo, anche se i paesi
colonizzati continuano a voler vivere come gli europei: qualcuno può vedere in questo la superiorità dei nostri valori,
ma sul piano ideologico abbiamo il dovere di combinare quanto di meglio abbiamo, cercando l'uguaglianza senza
identità e la differenza senza che degeneri in superiorità ed inferiorità.
Vivere la differenza nell'eguaglianza è cosa più facile a dirsi che a farsi, ma, nella storia della conquista dell'America,
molti vi si stavano avvicinando: sul piano assiologico, il vecchio Las Casas era giunto ad amare e stimare gli indiani
non in funzione del proprio ideale, ma del loro, ad un amore "neutro" [l'espressione "neutro" riferita ad amore, rimanda
al pensiero di Blanchot e Barthes]; sul piano invece della assimilazione dell'altro o della identificazione con lui, Cabeza
de Vaca arrivò anche lui ad un punto neutro, non perché indifferente alle due culture, ma perché le aveva vissute
entrambe dal loro interno: senza diventare indiano, egli non era più spagnolo.
La sua esperienza simboleggia quella del moderno esule, che a sua volta personifica una tendenza tipica della nostra
società: è un essere che ha perduto una patria senza acquistarne un'altra, uno che vive in una doppia esteriorità;
parimenti, la nostra società ha perduto o sta perdendo i suoi vecchi valori, senza peraltro acquisirne di nuovi.

Oggi l'esule è colui che incarna meglio, modificandone il senso originario, l'ideale che Ugo di San Vittore così
formulava nel XII secolo: "L'uomo che trova dolce la sua patria non è che un tenero principiante; colui per il quale
ogni terra è come la sua propria è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un
paese straniero" (io che sono un bulgaro che abita in Francia, prendo a prestito questa citazione da Edward Saìd,
palestinese che vive negli Stati Uniti, il quale l'aveva trovata, a sua volta, in Erich Auerbach, tedesco esule in
Turchia)".

Sul piano conoscitivo, invece, Duràn e Sahagùn preannunciavano, senza peraltro realizzarlo pienamente, il dialogo delle
culture caratteristico del nostro tempo: l'etnologia è figlia di questo dialogo in cui nessuna delle due voci ha l'ultima
parola.
L'altro lato della medaglia è che il prospettivismo porta, nella nostra società, alla indifferenza e alla rinuncia a qualsiasi
valore, alla nascita di una società di esiliati, in cui il dialogo delle culture cessa per la morte di queste: ad esso si
sostituiscono l'eclettismo, il comparativismo, la capacità di amare di tutto un po' e di simpatizzare per qualsiasi opzione
senza abbracciarne mai alcuna.

La storia esemplare della conquista dell'America ci insegna che la civiltà occidentale ha vinto, tra le altre cose, anche
grazie alla sua superiorità nella comunicazione umana, ma ci insegna anche che questa superiorità si è affermata a spese
della comunicazione col mondo: usciti dal periodo coloniale, proviamo il confuso desiderio di rivalorizzare questa
comunicazione col mondo, come dimostra il boom della new age, o, per fare un esempio un po' più vecchio, l'epoca
degli hippies americani degli anni sessanta, che, come gli indiani di Sepùlveda, volevano fare a meno del denaro,
dimenticare i libri e la scrittura, mostrare indifferenza per il modo di vestire e rinunciare all'uso delle macchine.
Queste comunità votate al primitivismo, erano destinate all'insuccesso, poiché coniugavano questi aspetti primitivi
materiali con una mentalità individualistica moderna: maggiore successo, ricorda il Todorov, ha una formula offerta dal
Club Méditerranée, che permette di vivere un tuffo nel mondo primitivo, con la mancanza di denaro, libri ed
eventualmente vestiti, senza mettere in discussione la propria vita di esseri "civili". Analogamente, i ritorni alle religioni
primitive od orientali non si contano più, ma il ritorno al passato è sempre impossibile.

Il desiderio di superare l'individualismo della nostra società egualitaria e di accedere alla socialità propria delle società
gerarchiche si ritrova, tra l'altro, negli Stati totalitari.

Essi somigliano al bambino mostruoso che Bernard Shaw temeva sarebbe nato da una sua ipotetica unione con
Isadora Duncan (che ne aveva sondato le intenzioni matrimoniali): brutto come lui e stupido come lei.
Questi Stati, indubbiamente moderni e come tali non assimilabili né alle società del sacrificio né a quelle
del massacro, riuniscono in sé caratteristiche di entrambe, e meritano la creazione di una parola-baule: società del
"massacrificio". Come nelle prime, vi si professa una religione di Stato; come nelle seconde, il comportamento di
ognuno si fonda sul principio karamazoviano del "tutto è permesso"; come nelle società del sacrificio si uccide
anzitutto a casa propria; come nelle società del massacro, si occulta o si nega l'esistenza di queste uccisioni; come
nelle prime si scelgono individualmente le vittime; come nelle seconde, lo sterminio è compiuto senza alcuna idea
rituale".

Circa l'identità della sua opera poi, il Todorov osserva che l'adagio historia magistra vitae si sente ripetere dall'epoca di
Cicerone: se si ignora la storia, dice l'adagio, si rischia di ripeterla, ma, oltre al fatto che noi non siamo più simili a
coloro di cui parliamo, non è conoscendola che sappiamo realmente cosa fare: non possiamo essere sicuri che, non
comportandoci come i conquistadores, non li imiteremo adattandoci alle nuove circostanze.
La loro storia è esemplare nel senso che ci permette di riflettere su noi stessi, di scoprire le somiglianze e le differenze:
ancora una volta la conoscenza di noi stessi passa attraverso quella dell'altro.

Riconoscere la superiorità dei conquistadores non significa elogiarli, poiché è necessario analizzare le armi della
conquista se si vuole che essa un giorno abbia fine: le conquiste non appartengono solo al passato.
Non credo che la storia obbedisca ad un sistema, né che le sue pretese leggi consentano di dedurre le forme sociali
future o presenti. Credo invece che prendere coscienza della relatività, e quindi dell'arbitrarietà, di un segmento della
nostra cultura, significhi già modificarlo un poco; e che la storia (non la scienza, ma il suo oggetto) altro non sia che
una serie di tali impercettibili modificazioni.
A conclusione del lavoro possiamo esprimere la speranza, non sappiamo quanto utopica, che questa storia sia davvero,
come il Todorov si augura, esemplare, e che dunque ciascuno di noi possa arrivare personalmente, ogni giorno, a
scoprire l'altro, ad accettarlo per quello che è, per i suoi valori e le sue convinzioni, anche quelle che ci paiono le più
assurde: sappiamo bene che non è facile, ma crediamo con altrettanta forza che distruggere l'altro significa riconoscerne
la pericolosità, e dunque pensare che le sue idee, in realtà, non siano affatto più sbagliate delle proprie, ma anzi, che
rischino concretamente di soppiantarle; riteniamo sia dovere dell'uomo moderno cercare una strada alternativa, il
dialogo invece della distruzione, quotidianamente e con fatica: auguriamo a tutti noi di riuscirvi.

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