Sei sulla pagina 1di 27

STORIA DELLE AMERICHE

LA SCOPERTA DELL'AMERICA: Nel 1492 avvenne l'incontro più straordinario della nostra storia, un
incontro che segnò l'inizio di una vera e propria epoca: la cosiddetta era moderna. Nella "scoperta" degli
altri continenti e degli altri uomini, infatti, non vi fu un vero e proprio sentimento di estraneità radicale:
gli europei non avevano mai del tutto ignorato l'esistenza dell'Africa, dell'India, o della Cina; il ricordo di
esse fu sempe presente, fin dalle origini. All'inizio del XVI secolo gli indioamericani sono, invece, ben
presenti, ma si ignora tutto di loro. Effettivamente Vasco de Gama o Magellano intrapresero viaggi forse
più difficili, ma è evidente che sapessero dove andavano; nonostante la sua sicurezza, invece, Colombo
non era affatto certo che non vi fosse l'abisso e quindi la caduta nel vuoto; in poche parole non era
affatto sicuro di ritornare.
- Che cosa lo spinse a partire? Leggendo gli scritti di Colombo si potrebbe avere l'impressione che il suo
movente essenziale sia stato il desiderio di arricchirsi, in quanto egli decise il proprio itinerario in base ad
alcuni indizi che riportavano alla presenza dell'oro in tale luogo. Non sono solo i semplici marinai che
sperano di arricchirsi; gli stessi mandanti della spedizione, ovvero i sovrani spagnoli, non si sarebbero
impegnati nell'impresa con determinati finanziamenti se non avessero avuto un profitto. A tal proposito
è noto che una lunga controversia si trascinò fra Colombo e i sovrani spagnoli a causa della decisione
sull'ammontare dei profitti che l'Ammiraglio sarebbe stato autorizzato a ricavare dalle Indie.
Ciò nonostante, la cupidigia non è il vero movente di Colombo, bensì la cosiddetta "intenzione pura".
- Qual era questa intenzione pura? Nel diario del primo viaggio Colombo sostiene spesso che vorrebbe
incontrare il Gran Kahn, l'imperatore della Cina di cui Marco Polo aveva lasciato un ritratto
indimenticabile, al fine di consegnargli una lettera, ricevere risposta e fare ritorno.
Il suo reale obiettivo è, però, poter diffondere il santo nome di Dio e il suo Vangelo.
La vittoria universale del cristianesimo è, infatti, il movemente che anima Colombo, uomo
profondamente religioso che vede nella propria figura l'incaricato di una missione divina; egli, infatti,
vorrebbe intraprendere una crociata e liberare Gerusalemme, ma l'idea e la mancanza di fondi lo
deviano dal suo intento: soltanto con l'aiuto finanziario dei sovrani egli potrà esaudire il suo desiderio. I
sovrani, però, non presero la cosa molto sul serio e si riservarono il diritto di impiegare ad altri fini il
ricavato dell'impresa; proprio per questo, volendo riaffermare il proprio disegno anche dopo la sua
morte, Colombo, istituisce un maggiorasco e dà istruzioni al figlio di raccogliere più denaro possibile
perchè egli possa andarvi da solo e con il maggior spiegamento di forza possibile. La causa religiosa si
rivela dunque una causa a cui Colombo tiene profondamente, poichè desiderava fortemente convertire
le genti, ma, al contempo, scoprire tutto ciò che appariva nascosto ai suoi occhi grazie al suo nuovo
progetto.
Per dimostrare che la terra che ha sott'occhio è proprio il continente e non un'altra isola, Colombo fonda
la sua convinzione su tre argomenti principali:
- l'abbondanza d'acqua dolce, appartenente alla sfera naturale;
- l'autorità dei libri santi, appartenente alla sfera divina;
- l'opinione di altri uomini da lui incontrati, appartenente alla sfera umana;
Di origine cristiana è la credenza più sorprendente di Colombo, quella dell'esistenza del paradiso
terrestre, che secondo lui si trova all'estremità dell'Oriente; l'argomento diventa ossessivo nel corso del
terzo viaggio, con l'approssimarsi di Colombo all'equatore.
E' evidente che Colombo apprezzi maggiormente la natura dell'umanità, in quanto dichiara che la prima
presenta certamente maggiore affinità con Dio di quanto ne possegga la seconda. Gli scritti di Colombo,
e in particolare il diario del suo primo viaggio, infatti, rivelano una costante attenzione per tutti i
fenomeni naturali, per gli animali e per le piante, ma in particolar modo per tutto ciò che attiene alla
navigazione, probabilmente grazie al suo senso pratico di marinaio. Si può dire che la sua attenzione
verso i fenomeni naturali sia talmente costante da condurlo a prendere ogni giorno una notazione sulle
stelle, sull'oceano o sul vento, e mentre il comandante della seconda nave scompare alla ricerca dell'oro,
Colombo passa il tempo a fare ossevazioni geografiche. Del resto, l'unica comunicazione efficace che gli
riesce con gli indigeni, e dunque con l'umanità lì presente, si fonda soltanto sulla sua conoscenza delle
stelle, la quale si rivelerà fondamentale per la sua permanenza con gli indigeni, poichè, stupiti dallo
studio, o, secondo loro, dalla predizione di Colombo sull'eclissi lunare, si vedono costretti ad offrirgli
gratuitamente i viveri.
E' interessante osservare il modo in cui le credenze di Colombo influenzano le sue interpretazioni, in
quanto è una costatazione che si rivelerà in modo estremamente ricorrente in tutto il suo viaggio. In
effetti, in mare, tutti i segni indicano la prossimità della terra perchè tale è il desiderio di Colombo; a
terra tutti i segni rivelano la presenza dell'oro: anche in tal caso la convinzione si è formata ancor prima
dell'esperienza.
L'interpretazione dei segni della natura, così come viene praticata da Colombo, è predeterminata dal
risultato al quale egi vuole pervenire. La sua stessa impresa, la scoperta dell'America, è conseguenza del
medesimo comportamento: egli non la scopre, la trova dove sapeva che avrebbe dovuto essere. A cose
fatte, Colombo attribuisce la sua scoperta a questa conoscnza a priori, che identifica con la volontà divina
e con le profezie. Un altro particolare delle varie peculiarità caratteristiche di Colombo è senz'altro il suo
interesse per i nomi propri, i quali, per certi aspetti, sono ciò che vi è di più simile agli indizi naturali.
Consideriamo dapprima questa attenzione e, per cominciare, la preoccupazione che Colombo ha per il
proprio nome, fino al punto che ne cambiò più volte l'ortografia nel corso della sua vita. La Divina
Provvidenza vuole, di solito, che le persone da essa designate a servirla ricevano dei nomi e dei cognomi
corrispondenti al compito che viene loro affidato, come si può notare dalle Sacre Scrittur, Per questo egli
era chiamato Cristobàl, ossia portatore di Cristo, per poi cambiarlo con Colòn, ossia ripopolatore.
Quest'ultimo nome gli spetta anche perchè fu il primo a far venire gente dalla Spagna per fondare delle
colonie, delle nuove popolazioni che, fissando la loro dimora in mezzo agli abitanti di quei luoghi
dovevano dare origine a una nuova Chiesa cristiana e a uno Stato felice. E' importante, sottolineare,
quindi, che nel suo nome vengano riportate caratteristiche degne della sua figura: quella
dell'evangelizzatore e quella del colonizzatore. I nomi degli altri, tuttavia, lo interessano poco, e vuol
ribattezzare i luoghi in funzione del posto che essi occupano nel quadro della sua scoperta affinchè possa
attribuire dei nomi "giusti".
Il primo gesto che Colombo compie a contatto con le terre appena scoperte (che rappresenta il primo
contatto fra l'Europa e quella che sarà l'America) è una specie di ampio atto di nomina: si tratta della
dichiarazione secondo la quale quelle terre, davanti gli occhi dei presenti, fanno ormai parte delle sue
conquiste e del regno di Spagna.
E' proprio con quei presenti, però, che sorgono i primi problemi di comunicazione: il risultato di questa
mancanza di attenzione per la lingua dell'altro è facilmente prevedibile. Colombo, del resto, non è
sempre vittima delle sue illusione e ammette che non c'è comunicazione a causa dell'incompresione
linguistica e culturale con gli indiani, anche se gli scami con gli europei non hanno miglior successo; in
realtà la comunicazione umana non riesce a colombo perchè non gli interessa minimamente, in quanto,
come accennato precedentemente, egli voleva soltanto esplorare molte terre finchè il tempo glielo
avrebbe consentito. Colombo, infatti, parla degli uomini che vede solo perchè, dopotutto, fanno parte
anch'essi del paesaggio.
Fisicamente nudi, gli indiani, agli occhi di Colombo, sono anche privi di ogni proprietà culturale: sono
caratterizzati in qualche modo dalla mancanza di costumi, riti, reilgione, e soprattutto leggi:
l'atteggiamenti di Colombo nei confronti di questa cultura, dunque, è quello del collezionista di curiosità,
ma non si accompagna mai a un tentativo di comprensione. Nonostante ciò, l'Ammiraglio trova spesso il
modo di descrivere tale popolazione, seppure non in modo dettagliato e soprattutto coerente;
inizialmente, infatti, egli li definisce il popolo più dolce e migliore del mondo, in quanto, in mancanza di
parole, indiani e spagnoli si scambiano piccoli oggetti, e tale baratto non fa altro che sottolineare la
grande generosità di quegli indiani che danno tutto per niente. D'altra parte, però, un diverso sistema di
scambio equivale, per Colombo, a una mancanza di sistema, e ciò lo porta a concludere che gli indiani
sono delle bestie, ma comunque generose. Poco dopo, Colombo dichiara che gli indiani, lungi dall'essere
generosi, sono tutti ladri e uomini vili, che necessitano di essere puniti con l'inflizione di castighi crudeli
che era allora in uso in Spagna; quando poi Colombo alla fine del primo viaggio lascia parte dei suoi
uomini sull'isola di Espanola, egli si accorge che gli indiani non sono altro che degli assassini, che fanno
derivare dalla loro viltà il proprio coraggio, rivelandosi alquanto vigliacchi.
E' possibile individuare, attraverso le note di Colombo, come a loro volta gli indiani percepiscono gli
spagnoli? Pochissimo. E' certo, però, che essi guardavano ogni cosa con meraviglia, ed è possibile che
essi si chiedessero se i nuovi arrivati fossero di origine divina: ciò spiegherebbe abbastanza bene il loro
timore iniziale, e la sua scomparsa dinanzi al comportamento chiaramente umano degli spagnoli,
sottolineato dalla loro sete per i beni terrestri quali l'oro e le donne. Si può dire, infatti, che i
conquistadores spagnoli appartengono storicamente al periodo di transizione fra un Medioevo dominato
dalla religione e l'epoca moderna che mette i beni materiali al vertice della sua scala di valori. Anche in
pratica, la conquista presenterà questi due aspetti essenziali: i cristiani si fanno forti della loro religione,
che recano in dono al Nuovo Mondo; in cambio ne traggono oro e ricchezze. Da un lato, dunque,
Colombo vuole che gli indiani siano come lui e come gli spagnoli, e proprio per questo decide di
prenderne alcuni e di portarli con sè in Spagna. Questo progetto di assimilazione si confonde, di solito,
col desideriodi cristianizzare gli indiani, di diffondere il Vangelo. E' noto che questa intenzione fu alla
base del progetto iniziale di Colombo, anche se all'inizio l'idea era un pò astratta, ma non appena vede gli
indiani, l'intenzione comincia a concretizzarsi; subito dopo aver preso possessodelle nuove terre con atto
notarile debitamente erogato, egli dichiara che si trattava di un popolo che si sarebbe salvato e
convertito alla nostra santa religione più con l'amore che con la forza. Colombo ritorna costantemente
sull'idea che la conversione è lo scopo principale della sua spedizione, e spera che i sovrani spagnoli
accetteranno gli indiani come loro autentici sudditi. Gli indiani, d'altro canto, gli sembrano già portatori
delle qualità cristiane, già animati dal desiderio di convertirsi in quanto vergini di ogni religione.
Nel corso della seconda spedizione, i religiosi che accompagnano Colombo cominciano a convertire gli
indiani; ma ce ne vuole perchè tutti accondiscendano e si mettano a venerare le sacre immagini.
Succede, dunque, che, come già detto, gli spagnoli offrono la propria religione in cambio di ricchezze: ma
se gli indiani non volessero?
Bisognerà sottometterli militarmente e politicamente, per potergliele prendere con la forza; in altri
termini, bisognerà porli, dal punto di vista umano, in una condizione di inferiorità. Senza la minima
esitazione, dunque, Colombo parla della necessità di sottometterli, non accorgendosi della
contraddizione fra l'una e l'altra delle sue azioni, o per lo meno dell'incoerenza fra il suo cristianizzare e
sottomettere al contempo.
La guerra, dunque, subentra alla pace; ma si può pensare che Colombo non avesse mai del tutto
trascurato questo mezzo d'espansione, poichè fin dal primo viaggio lo vediamo interessarsi a un progetto
particolare. Colombo passerà, quindi, dall'assimilazionismo, che presupponeva un'eguaglianza di
principio, all'ideologia schiavista, cioè all'affermazione dell'inferiorità degli indiani. L'Ammiraglio
introduce, poi, delle sottili distinzioni fra indiani innocenti, potenzialmente cristiani, e indiani idolatri che
praticano il cannibalismo; fra indiani pacifici, che si sottomettono al suo potere, e indiani bellicosi, che
meritano di essere puniti. Nella mente di Colombo, la propagazion della fede e la riduzione in schiavitù,
seppur non accettata dai sovrani, erano indissolubilmente legate.
Anche quando non si tratta di schiavi, poi, il comportamento di Colombo nei confronti degli indiani
implica ch'egli non riconosce loro il diritto di avere una propria volontà; li ritiene, insomma, degli oggetti
viventi. Essere indiani, e di sesso femminile per giunta, significa essere trattati come bestiame: se
Colombo si interessava alle donne come naturalista, gli altri membri della spedizione davano invece vita
a delle vere e proprie violenze qualora le donne non volevano avere rapporti sessuali con essi. Già la data
deò 1492 simboleggia, nella storia della Spagna, questo doppio movimento: in quello stesso anno il
paese ripudia il suo Altro interno, riportando la vittoria sui Mori nell'ultima battaglia di Granada e
obbligando gli ebrei ad abbandonare il territorio spagnolo; e scopre l'altro esterno, quella parte
dell'America che diverrà latina. L'unità delle due imprese, nelle quali Colombo è portato a vedere
l'intervento divino, risiede nella propagazione della fede cristiana.

LA STORIA DEL MESSICO: La fase formativa: il Periodo Preclassico (2500 a.C.-200 d.C):
La tradizione culturale mesoamericana ebbe inizio intorno al 5000 a.C. quando i cacciatori-raccoglitori
che avevano popolato l’intero territorio diedero impulso al processo di domesticazione del mais che
avrebbe condotto alla sedentarizzazione di gran parte della popolazione. Una delle conseguenze
dell’edificazione della società agricola fu la comparsa dei primi agglomerati di tipo sedentario che si
evolsero rapidamente in strutture urbane con abitazioni stabili e durature. Man mano che l’agricoltura
raffinava le proprie tecniche, portava con sé la specializzazione dei mestieri; si creava così un sistema
sociale sempre più articolato. Intorno al 2500 a.C. la domesticazione del mais produsse reazioni e
assestamenti culturali molto simili nell’area mesoamericana nonostante la diversità delle condizioni
ambientali. In questo periodo si svilupparono diversi insediamenti che portarono alla nascita delle prime
signorie (chiefdoms) che avrebbero rivestito un ruolo amministrativo, politico e cerimoniale sempre più
rilevante. Dal punto di vista religioso, il Periodo Preclassico produsse un profondo ripensamento della
cosmovisione. Uno dei mutamenti più rilevanti riguarda le tecniche relative all’osservazione degli astri e
la nascita dei primi calendari. Nel Messico centrale, inoltre, apparvero alcuni tra i più straordinari edifici
dell’antichità precolombiana, come le strutture piramidali dedicate al culto pubblico (per esempio la
piramide di Cuicuilco) e il primo sviluppo della città di Teotihuacan (“luogo dove nascono gli dei”) che,
con il sorgere delle piramidi del Sole e della Luna, assumerà un ruolo culturalmente e politicamente
egemonico durante il Periodo Classico. Si era ormai diffuso un modello ideologico secondo il quale le
piramidi, riproducendo l’immagine delle montagne, individuavano il palcoscenico privilegiato per lo
svolgimento dei rituali e il simbolo della relazione inscindibile tra uomo e paesaggio.

Lo splendore del Periodo Classico (200 d.C.-650 d.C.): Nel corso del Periodo Classico le caratteristiche
ereditate dall’epoca precedente si diffusero nell’area e contribuirono a dar vita a una fase di splendore
delle civiltà mesoamericane. Dal punto di vista religioso sembra manifestarsi in tutta l’area una “triplice
ossessione” nei confronti del potere, della pioggia e del destino. Molto importante in questo periodo fu
il controllo sui mezzi espressivi che davano vita a una forma di scrittura utilizzata per scopi celebrativi e a
conoscenze astronomiche che concorsero a edificare un sistema calendariale. Nella zona maya assunse
un ruolo fondamentale il culto degli antenati e nell’area dell’altopiano centrale del Messico si stava
sviluppando invece la città di Teotihuacan, culla di una civiltà che avrebbe profondamente influenzato la
storia della Mesoamerica. La sua crescita ebbe inizio intorno al II secolo d.C. e raggiunse il massimo
splendore intorno al V secolo, quando la città arrivò ad ospitare circa 150 mila abitanti, divenendo il più
importante centro culturale, commerciale e religioso dell’area. . Era nata forse come “zona
diplomatica/città ideale e perfetta”, ma in questa città mancava un sistema di scrittura fonetica
pienamente sviluppato; con il passare del tempo vi fu, però, una vera e propria decadenza.

La transizione del Periodo Epiclassico (650 d.C.-900 d.C.): Con il calo della popolazione teotihuacana e
l’estendersi della crisi in tutta l’area iniziò una fase di transizione. Questo viene proprio definito come un
periodo intermedio caratterizzato da un progressivo riassestamento della tradizione mesoamericana. Era
quindi necessario analizzare le caratteristiche specifiche della transizione verso il Periodo Postclassico,
individuando gli scarti e gli elementi di continuità tra le due epoche. La decadenza di Teotihuacan aveva
prodotto un’instabilità politica che si poteva notare dai movimenti migratori che stavano trasformando
la Mesoamerica in un sistema di relazioni interetniche. In questo periodo notiamo una semplificazione
della scrittura e del sistema calendariale, che ci fanno pensare a una decadenza culturale
mesoamericana. Notiamo invece un notevole rinnovamento religioso favorito dalla riorganizzazione del
commercio che permise la diffusione di un sistema ideologico che dava risposte a nuove esigenze
politiche. Il Periodo Epiclassico rappresenta la fase durante la quale gli elementi del Classico si ripensano
e le forme della convivenza civile si riorganizzano, il Postclassico può essere pensato, invece, come un
suo perfezionamento.

Dal Periodo Postclassico alla Conquista (900 d.C.-1521 d.C.): A partire dal declino delle società del
Periodo Classico, la Mesoamerica aveva ereditato una mobilità sociale che stimolò la nascita di centri
multietnici organizzati in confederazioni, la ristrutturazione delle reti mercantili, l’intensificazione e la
ricostruzione di un sistema commerciale multifocale che rompeva il “monopolio” teotihuacano. Si
elaborò una nuova articolazione tra politica e religione che trovava il suo principale nodo espressivo nel
rapporto tra l’immagine primordiale della città di Tollan e del suo mitico governatore Quetzalcoatl,
“Serpente Piumato”. Nella prima fase del Postclassico emergono centri di potere che condividono la
maggior parte dei tratti di questo innovativo complesso ideologico. Si diffuse in tutta la Mesoamerica
una forma di venerazione del passato tolteco. Fra le protagoniste della vita politica del centro del
Messico, la popolazione più nota fu certamente quella nahua dei mexica (=atzechi). Si raccontava che
dopo una lunga migrazione, i mexica arrivarono nei territori centrali e furono sottomessi per molto
tempo al dominio dei colhua, eredi degli antichi toltechi. I mexica, in questo primo periodo, erano
malvisti dai nobili vicini poiché rappresentavano un elemento di disturbo degli equilibri politici della
valle. La ricerca di una stabilità condusse i mexica presso un isolotto al centro della laguna di Texcoco
dove verso il 1325 fondarono la città di Mexico-Tenochtitlan. Inoltre, iniziava ad acquisire vigore il culto
locale di Huitzilopochtli (oltre al Serpente Piumato), patrono etnico dei mexica e loro guida durante il
percorso di Migrazione. L’arrivo degli spagnoli nel 1519 (Hernán Cortés) interruppe bruscamente il
mutamento del panorama politico e religioso mesoamericano.

IL PROBLEMA DELLE FONTI - I codici pittografici preispanici e coloniali: Con l’arrivo degli spagnoli ci fu
un cambiamento profondo nel panorama politico e religioso della Mesoamerica. Le imprese militari dei
conquistadores e l’opera missionaria contribuirono alla distruzione di molte antiche testimonianze
preispaniche e inaugurarono un processo di sostituzione dei sistemi espressivi nativi con strumenti
europei. Ecco perché abbiamo un numero esiguo di fonti di origine preispanica: solamente quindici
esemplari di quei manoscritti noti come “codici pittografici” sopravvissero alla distruzione. Le immagini
ritratte sulle pagine dei manoscritti nativi preoccupavano i religiosi europei che vi vedevano divinità
idolatriche, scene di sacrifici e immagini di rituali cruenti (“pagine unte di sangue”). Iniziarono così gli
anni delle grandi distruzioni che ebbero inizio con il rogo della “biblioteca” di Texcoco da parte di Hernán
Cortés. La prima fase delle persecuzioni terminò intorno al 1540 quando i missionari iniziarono a
guardare con maggior interesse al passato preispanico, scoprendo nelle pittografie scampate alla
distruzione tantissime informazioni utili alla conoscenza delle religioni indigene e di conseguenza
all’estirpazione dell’idolatria. Alcuni di questi missionari che si interessarono allo studio dei codici furono,
per esempio, Diego Durán e Bernardino de Sahagún ma fu solo nel XIX secolo che lo studio dei codici
assunse una rilevanza scientifica. Nonostante le varianti locali, la scrittura dei codici era formata da tre
tipi di segni o glifi:
- I pittogrammi (rappresentazioni stilizzate di azioni e oggetti);
- Gli ideogrammi (rappresentavano concetti, qualità e attributi);
- I segni fonetici (indicazioni di toponimi, antroponimi ed elementi di cronologie);
Il formato più diffuso dei codici pittografici era realizzato su lunghi fogli arrotolati o ripiegati a
fisarmonica, fatti solitamente con una carta ricavata dalla corteccia, con pelle di cervo o con tele di
cotone e carta di maguey. I codici erano dipinti da pittori specializzati e scelti fin da giovani per
apprendere la lingua, le tecniche e i campi del sapere che dovevano rappresentare. L’utilizzo più
importante dei codici pittografici fu la registrazione e la lettura dei calendari divinatori attraverso i quali
venivano definite le qualità del tempo, si segnalavano i momenti di importanza pubblica e privata, si
pronosticava il destino individuale e collettivo. Anche dopo l’arrivo degli spagnoli, molti pittori
continuarono la loro attività: nuovi formati, materiali, tecniche, sistemi di scrittura ma soprattutto
obiettivi e temi nuovi. Veniva infatti introdotto l’uso della carta europea e questi codici venivano redatti a
scopo amministrativo, per esempio per fornire informazioni demografiche, per dipingere mappe del
territorio ecc.
IL DUALISMO E IL COSMO - La nozione di “cosmovisione”: Uno degli elementi fondamentali e centrali
della cosmovisione mesoamericana è una forma di pensiero dualista che si esprimeva in modo
ridondante in ogni aspetto della realtà. Questo dualismo si esprime sia nella mitologia, sia
nell’organizzazione sociale. Un racconto mitico contenuto nel Códice Vaticano A testimonia l’importanza
di questo modello dualistico tra i mexica. Il racconto narra come, prima che venisse creata la realtà, in
un luogo chiamato Omeyocan risiedesse una coppia di esseri extraumani. La coppia primordiale era
pensata in forma duplice ed era quindi suddivisa in ulteriori entità: una di sesso maschile e una
femminile. In questo codice notiamo la significatività del dualismo: il “due”, ancor prima della creazione,
esiste come “principio primo” che dà senso alla realtà. L’atto sessuale con cui la coppia nel mito darà
vita alla realtà, manifesta la potenzialità originaria del dualismo. Nella società nahua, infatti, le principali
istituzioni politiche e religiose erano pensate in forma duale. Inoltre, due erano le “scuole” della città e
due i principali guerrieri. Per garantire l’aspetto dinamico del dualismo, ogni elemento di una coppia
deve adeguatamente distinguersi dal proprio opposto. Il dualismo, come vero e proprio sistema di valori
determina una sistematica concezione del mondo, ovvero una cosmologia che rende pensabile un
continuo intervento sulla realtà.

Il Templo Mayor come “cosmogramma”: Nel 1978, durante i lavori di scavo nel centro storico di Città del
Messico, vennero alla luce resti monumentali di una struttura piramidale che venne subito riconosciuta
come il Huey Teocalli, la “Grande casa degli dei” di Tenochtitlan. La piramide era nota come Templo
Mayor ed era stata largamente descritta dalle cronache coloniali che riferivano in dettaglio la liturgia
delle cerimonie che vi avevano luogo durante il calendario festivo. L’amministrazione spagnola aveva
deciso di demolirlo per far posto alla cattedrale metropolitana che esiste ancora oggi. Dopo lunghi anni
di scavo, le rovine di questo tempio fiancheggiano attualmente quelle della cattedrale, a memoria del
legame indissolubile tra le due culture. Fin dall’inizio della storia mexica, il Templo Mayor era stato il
simbolo della sedentarizzazione conquistata dopo la Migrazione. Era il luogo privilegiato per svolgere i
sacrifici umani (anche di massa), strettamente legati alla Guerra Fiorita. Il Templo Mayor si inseriva nel
modello urbanistico diffuso in tutta la Mesoamerica nel quale la piramide rappresentava il luogo di
svolgimento delle principali attività politiche e cerimoniali, spesso accompagnate da sacrifici umani che
attirarono la sdegnata attenzione degli osservatori europei. Il tempio non era dedicato a una sola
divinità. Esso presentava due scalinate che conducevano alla sommità della piramide tronca sulla quale
erano ospitati i santuari gemellari dedicati a due tra le più importanti entità extraumane mexica:
Huitzilopochtli, entità solare e guerriera, patrono etnico e guida durante la Migrazione, e Tlaloc, entità
notturna e sedentaria, di antica tradizione mesoamericana e legata alla dimensione agraria. Notiamo
quindi un dualismo che serviva per conciliare le caratteristiche guerriere e sedentarie (agricoltura per
esempio) della Mesoamerica. Il PRINCIPIO DUALE era indispensabilmente alla base di ogni aspetto
dell’esistenza.

L'ORIGINE DEL MONDO MEXICA: Uno dei più interessanti racconti delle origini narra le vicende del
processo creativo instaurato da Tonacatecuhtli e Tonacacihuatl. La coppia primordiale generò quattro
figli. Nel racconto, il processo creativo si configura in prospettiva numerologica come passaggio dal “due”
al “quattro”. Dopo i primi seicento anni senza far accadere nulla, i fratelli decisero che due di loro,
Quetzalcoatl e Huitzilopochtli, avrebbero dato vita alla realtà. I due fecero il fuoco e mezzo Sole, poi
crearono il primo uomo e la prima donna comandando loro di lavorare la terra e di tessere poiché
volevano che fossero l’immagine dell’uomo comune. Diedero quindi loro i grani di mais con cui
avrebbero dovuto praticare la divinazione e organizzare il tempo. Crearono i signori dell’Inframondo, poi
i cieli e l’acqua sulla quale posero un essere anfibio dal cui corpo fecero poi la Terra ed i suoi beni
primari. La creazione del cosmo e dei suoi ambiti appare nuovamente come un’estensione del principio
duale che si proietta sulla realtà attraverso le coppie umane e divine. Quetzalcoatl è apparso finora
come protagonista assoluto dei miti della creazione. Esiste però una serie di racconti che colloca le
vicende di un Quetzalcoatl “terreno” in relazione alle vicende dei toltechi. Egli veniva infatti considerato
l’iniziatore della storia tolteca. La sua vita, il suo isolamento, i digiuni e le penitenze erano state una fonte
di ispirazione per la condotta di molti governanti mesoamericani che dovevano seguire una condotta di
vita retta per poter ottenere le caratteristiche di forza, longevità, potere di profetizzare, di trasformarsi in
animale e di rinascere. Durante il governo di Quetzalcoatl, la città di Tollan ebbe un periodo di immenso
splendore nel quale fiorirono le arti e i saperi dei toltechi.

- Il racconto dei Cinque Soli: Il resoconto mexica inizia con la trasformazione di Tezcatlipoca nel primo
sole. L’alternanza tra soli mette in scena una lotta di dimensione cosmica tra Quetzalcoatl e Tezcatlipoca,
responsabili della distruzione e creazione degli astri. Il dualismo è ancora il motore della trasformazione
del reale che dà vita a una dialettica incessante fino a quando l’innalzamento degli alberi cosmici creerà
una corretta collaborazione. Il racconto trova spiegazione in funzione della creazione del quinto sole,
abitato dall’umanità attuale, rappresenta il coronamento dell’essere al mondo. Il quinto sole rappresenta
la sintesi perfetta delle quattro ere precedenti, il loro perfezionamento. L’ultimo sole organizza lo spazio,
in rapporto ai quattro punti cardinali, e il tempo, attraverso i quattro portatori di anno.

Il ciclo festivo e la cerimonia del Fuoco Nuovo: Il ciclo festivo della città di Tenochtitlan si articolava
intorno alle diciotto ventine che costituivano il calendario dei 365 giorni, vale a dire che ogni periodo di
venti giorni racchiudeva una grande festa posta al termine del ciclo e introdotta da una lunga fase
preparatoria. Grazie a queste festività la comunità festeggiava il frutto delle coltivazioni consumando
insieme un ricco alimento a base di mais e fagioli. Durante i festeggiamenti si apriva anche un nuovo
ciclo di coltivazioni.
Uno degli eventi rituali più critici era rappresentato dal Fuoco Nuovo, la conclusione di un ciclo
completo di 52 anni. Era una festa drammatica in cui tutti i fuochi perpetui della città e quelli domestici si
esaurivano, in ogni casa venivano distrutti gli utensili del lavoro quotidiano. Durante la celebrazione c’era
un’atmosfera di sospensione. L’intero cosmo doveva essere rinnovato poiché un ciclo completo si era
concluso. Al tramonto, nel più assoluto silenzio, i sacerdoti si vestivano come gli dei e iniziavano a
camminare verso Colhuacan. Sulla sommità della collina era collocato un tempio davanti al quale i
sacerdoti attendevano che la costellazione delle Pleiadi superasse lo zenit; a quel punto capivano che la
crisi era stata scongiurata e potevano iniziare con i rituali sacrificali. Uccidevano un prigioniero di rango
elevato e dopo aver aperto il suo petto e tolto il cuore, un sacerdote accendeva un fuoco all’interno del
suo corpo. L’operazione era delicata e il fallimento avrebbe condotto tutta la realtà al disordine. Tutti i
partecipanti alla festa quindi facevano offerte e autosacrifici. Solo in quel momento si poteva distribuire
il Fuoco Nuovo.

L’istituzione della Guerra Fiorita: è una forma di scontro ritualizzato e combattuto con il solo scopo di
catturare prigionieri da destinare al sacrificio. Un’ambasciata veniva inviata verso la città nemica per
stabilire la data del combattimento. Questa “guerra-gioco” garantiva al guerriero (di livello sociale alto)
una “morte fiorita” che rappresentava il più onorevole destino. Il sacrificio umano mostra dunque il
tentativo da parte dei mexica di dare un valore elevato alla morte che altrimenti avrebbe rappresentato il
mero esaurimento dell’esperienza umana.

LA CONQUISTA DEL MESSICO - CORTES: L'incontro fra Vecchio e Nuovo Mondo, reso possibile dalla
scoperta di Colombo, è di un tipo molto particolare: la guerra, o meglio, la Conquista. Un mistero resta
legato alla conquista, e riguarda l'esito stesso del combattimento: perchè quella vittoria folgorante, se gli
abitanti dell'America sono così superiori numericamente ai loro avversari e si battono sul proprio suolo?
Per limitarci alla conquista del Messico: come si spiega che Cortès, alla testa di poche centinaia di
uomini, sia riuscito ad impadronirsi del regno di Moctezuma, che disponeva di centinaia di migliaia di
guerrieri?
Le grandi tappe della conquista del Messico sono ben conosciute. Dal 1517 al 1519, nell'arco di 3
spedizioni, alcuni spagnoli scoprono progressivamente il Messico: incontrano città, templi, e idoli
dovunque, società civilizzate e culture che, in comune con l'austera semplicità delle isole
precedentemente toccate da Colombo, non hanno più nulla. In quelle isole, stando al racconto
dell'ammiraglio e del cronista Pietro Martire d'Anghiera, a un primo contatto non era possibile
riconoscere nè setta nè religione. La spedizione di Cortès, nel 1519, è quindi la terza che tocca le coste
messicane; vi partecipano alcune centinaia di uomini. Cortès è inviato dal governatore di Cuba; ma, dopo
la partenza delle navi, quest'ultimo cambia parere e cerca di far tornare indietro Cortès. Questi sbarca a
Vera Cruz e dichiara di trovarsi sotto la diretta autorità del re di Spagna. Venuto a conoscenza
dell'esistenza dell'impero azteco, comincia una lenta penetrazione verso l'interno, cercando di
guadagnare alla sua causa, con promesse o con la guerra, le popolazioni di cui attraversa i territori. La
battaglia più difficile è quella impegnata contro i tlaxcaltechi, che tuttavia diventeranno, in seguito, i suoi
migliori alleati. Cortès arriva infine a Città del Messico, dove viene ben ricevuto; poco dopo, decide di far
prigioniero il sovrano azteco, e ci riesce. Gli giunge allora notizia dell'arrivo, sulla costa, di una nuova
spedizione spagnola inviata dal governatore di Cuba e diretta contro di lui; i nuovi venuti sono più
numerosi dei suoi soldati. Con una parte di questi, Cortès muove incontro al nuovo esercito, mentre
lascia gli altri a Città del Messico a sorvegliare Moctezuma, sotto il comando di Pedro de Alvarado. Cortès
vince la battaglia contro i suoi compatrioti, fa prigioniero il loro capo Panfilo de Narvaez e convince gli
altri a mettersi ai suoi ordini. Ma viene a sapere che, in sua assenza, le cose sono messe male a Città del
Messico: Alvarado ha massacrato un gruppo di messicani nel coso di una festa religiosa, ed è scoppiata la
guerra. Cortès fa ritorno nella capitale e si ricongiunge alle proprie truppe nella loro fortezza assediata; in
quel momento Moctezuma muore. Gli attacchi degli aztechi sono così insistenti che Cortès decide di
abbandonare la città di notte; ma la sua partenza viene scoperta e, nella battaglia che ne segue, più della
metà del suo esercito viene annientata: è la Noche Triste. Cortès si ritira a Tlaxcala, ricostituisce le sue
forze e torna ad assediare Città del Messico; taglia tutte le vie d'accesso alla capitale e fa costruire dei
veloci brigantini. Dopo alcuni mesi di assedio, Città del Messico cade; la conquista è durata poco più di
due anni.
Consideriamo dapprima le spiegazioni che vengono date correntemente dalla folgorante vittoria di
Cortès. Una prima ragione è il comportamento ambiguo, esitante di Moctezuma, che non oppone quasi
nessuna resistenza a Cortès. A tal proposito i "papas" dissero che in realtà Moctezuma, avendo saputo
che gli spagnoli dovevano recarsi nella sua capitale, inviava quotidianamente le sue istruzioni senza mai
decidere cosa voleva. Quando i messaggeri di Moctezuma annunciano agli spagnoli che il regno azteco è
loro offerto in dono, e, al tempo stesso, chiedono agli invasori di far ritorno in patria, si ha l'impressione
di trovarsi di fronte ad una reale ambiguità: è proprio Cortès ad alimentare questo clima di incertezza.
In alcune cronache Moctezuma è presentato come un uomo malinconimo e rassegnato; si afferma anche
che egli è tormentato dalla cattiva coscienza. Gli aztechi amavano, infatti, presentarsi come i legittimi
successori dei toltechi, la precedente dinastia, mentre in realtà erano dei nuovi venuti, degli usurpatori.
E' possibile che questo complesso di colpa nazionale abbia fatto immaginare a Moctezuma che gli
spagnoli fossero i diretti discendenti degli antichi toltechi, venuti a riprendersi i loro beni? Non appena gli
spagnoli arrivano nella capitale, dunque, Moctezuma si lascia imprigionare da Cortès e dai suoi uomini,
preoccupandosi soltanto di evitare ogni effusione di sangue per non far scatenare una guerra; anche
quando Cortès si allontana per affrontare la spedizione punitiva contro di lui, Moctezuma non ne
approfitta, e anzi, si narra che in punto di morte egli sia pronto per convertirsi al cristianesimo. Egli morì
così nel bel mezzo degli avvenimenti in modo misterioso; i suoi successori alla testa dello Stato azteco
dichiararono immediatamente una guerra spietata e feroce agli spagnoli. Tuttavia, durante la seconda
fase della guerra, un altro fattore comincia a svolgere un ruolo decisivo: lo sfruttamento, da parte di
Cortès, dei dissensi interni fra le diverse popolazioni che vivono sul suolo messicano. Su questo piano
egli ottiene un grosso successo: nel corso della campagna sa approfittare delle lotto intestine tra frazioni
rivali e, nella fase finale, ha ai suoi ordini un esercito di tlaxcaltechi, che per molti anni godono di
numerosi privilegi quali l'esenzione dal pagamento delle tasse, e di altri indiani suoi alleati,
numericamente paragonabile a quello degli aztechi. Il Messico di allora non è uno stato omogeneo, ma
un conglomerato di popolazioni sottomesse dagli aztechi, i quali occupano il vertice della piramide.
Vi sono numerose somiglianza fra conquistatori vecchi e nuovi, come il modo crudele di trattare i sudditi;
gli spagnoli bruceranno i libri dei messicani per cancellarne la religione, infrangeranno i loro monumenti
per far sparire ogni ricordo dell'antica grandezza. Ma, un centinaio d'anni prima, durante il regno di
Itzcoatl, gli stessi aztechi avevano distrutto tutti i libri antichi per poter riscrivere la storia a modo loro.
La differenza sostanziale fra i due popoli risiede, dunque, nello sviluppo culturale, come nel caso della
superiorità spagnola in materia di armi: gli aztechi, infatti, non conoscono la lavorazione dei metalli, le
loro spade e le loro armature sono inferiori ai cannoni spagnoli; così come le loro canoe in confronto ai
brigantini spagnoli; quest'ultimi poi, prediligevano lo spostamento con il cavallo, mentre gli indiani non
avevano alcun mezzo.
I preti e i frati cristiani, comunque, andranno ad occupare esattamente il posto rimasto vuoto dopo la
repressione dei ministri del culto religioso indigeno, che gli spagnoli chiamavano "papas". La fine degli
aztechi sarà descritta come un silenzio tombale: gli dèi non parlano più.

CIEZA DE LEON E LA CONQUISTA DEL PERU': Quando nel 1532, dopo due incursioni sulle coste, gli
spagnoli invasero il Perù, il Messico era già diventato la Nuova Spagna e sulle ceneri di Mexico-
Tenochtitlan andava installandosi una società coloniale.
Possiamo vedere nel Perù una seconda versione della conquista dl Messico? Alcuni elementi
accentuano la corrispondenza tra le due imprese. Ad esempio le figure dei "caudillos", Hernan Cortès e
Francisco Pizarro, che diventano tutt'uno con le prodezze e i crimini che accompagnarono le conquiste; o
ancora il valore simbolico, diremmo anzi emblematico, di gesta degne di eroi da leggenda. Infine, lo
splendore dei re messicani e inca, Moctezuma e Atahulpa, con la loro tragica sorte. In realtà si tratta di
corrispondenze ingannevoli, poichè non sarà mai possibile ridurre l'esperienza peruviana a quella
messicana, neppur per quanto riguarda l'idolatria. Il risultato della conquista delPerù, ad esempio, fu la
guerra civile e l'anarchia, e non come in Messico, il consolidamento di una dominazione coloniale.
La conquista del Perù fu segnata dal tradimento e dall'assasinio dell'Inca Atahualpa da parte di Francesco
Pizarro; seguirono due decenni di guerre civili tra fazioni nemiche, che videro l'organizzazione di una
resistenza indigena nelle Ande orientale. Bisognerà infatti attendere il 1548 perchè sia ristabilita
l'autorità reale e altri anni ancora prima che gli ultimi focolai di insurrezione indigena siano
definitivamente soffocati. L'individuazion delle idolatrie peruviane avvenne in questo agitato contesto. I
primi resoconti della conquista del Perù danno quindi un notevole risalto a questi conflitti. Tra queste
prime fonti vi è l'opera di Cieza de Leòn, autore ossessionato dal timore dell'oblio delle gesta, che si
sente investito di una missione: quella di fissare per scritto non solo i fatti d'arme di tanti spagnoli, ma
anche i riti e i costumi degli indios distrutti dalla cupidigia e dalla brutalità dei conquistatori. In effetti
Cieza non fu il solo a sentirsi dilaniato da due sentimenti contrastanti: l'ammirazione per il coraggio degli
spagnoli, considerati come una sorta di popolo eletto, e l'attrazione che esercita su di lui la sapienza degli
incas. Nella sua opera Cieza riprende, dunque, le informazioni raccolte dagli esploratori e ci regala uno
scorcio di quelle regioni sconosciute viste dal mare. Lungo questo percorso marittimo, gli indios restano
praticamente invisibili: ciò che conta veramente è l'acqua dolce, introvabile o quasi in quel deserto
dall'apparenza inospitale che separa l'impero degli incas dall'Oceano Pacifico. Per descrivere il mosaico
di popoli che Cieza osserva, egli utilizza un termine medievale che gli consente di raggrupparli tutti, al di
là delle differenze linguistiche, vestiarie e culturali: behetrias. L'interpretazione data da Cieza sulle
origine della civiltà incaica risale a tempi antichissimi, quando il Perù era abitato, al pari della Nuova
Granada, da behetrias che si facevano guerra tra loro; a un certo momento, gli incas intrapresero la
conquista delle valli e fondarono un impero stabile in virtù di due apporti fondamentali: la lingua
quechua, imposta a tutte le unità politiche già unite all'impero, e la strada, il famoso camino real
scoperto dagli spagnoli al momento del loro ingresso. Tutti gli indios delle behetrias condividono,
inoltre, un tratto culturale che li distingue radicalmente dagli incas del Perù: non credono
nell'immortalità dell'anima. E' certo, infatti che le quelli delle behetrias credono che l'anima possa
lasciare il corpo in circostanze particolari come il sonno, l'inavvertenza o a morte. Per quanto riguarda gli
incas, egli precisa che per loro l'anima si confonde con il cuore inteso come organo, ma è anche
immateriale, in quanto al momento della morte abbandona il corpo. Insomma le behetrias non sono
vere e proprie società idolatre.
Nei confronti del sacrificio umano, invece, la posizione di Cieza è ambigua, perchè questo tratto culturale
gli sembra meno pertinente del cannibalismo nel contrassegnare la differenza tra l'animalità delle società
senza governo stabile, come le behetrias, e la raffinatezza degli incas sottomessi a un potere centrale e a
un rigoroso corpus di leggi. A nord dell'impero incaico, ma anche agli albori di questa civiltà, il consumo
di carne umana era un fatto tradizionale. Ma il fatto che gli incas non siano dediti all'antropofagia non
significa che ignorino i sacrifici umani. Come avveniva in Messico, questi sacrifici sono organizzati
all'interno del culto di una divinità e richiedono un personale specializzato: i sacrificatori. In Perù
troviamo il medesimo apparato, ma su una scala nettamente inferiore: tutti i cronisti segnalano che in
determinate occasioni venivano immolati degli adulti e dei bambini. Non basta la simpatia che Cieza
prova nei confronti degli incas: non può passare sotto silenzio i sacrifici umani.
Come in Messico, gli spagnoli incontrano in tutta l'America andina dei sacerdoti che parlano con il
demonio. E' un tratto comune agli indios delle behetrias e agli incas, che può perfino essere considerato,
secondo Cieza, come l'elemento caratteristico di tutte le società indigene. La comunicazione con il
demonio, dunque, è stabilita attraverso sostanze inebrianti che procurano deliri; in queste visioni i
demoni assumono form diverse, animali o fantastiche, ma soprattutto parlano. In tutta l'America andina
il ruolo principale di questi sacerdoti ministri o stregoni è infatti di ricevere e interpretare gli oracoli.
Stando a Cieza, i sacerdoti svolgono un ruolo fondamentale nel mantenimento delle idolatrie. Sono dei
bugiardi, dei ciarlatani, degli uomini ingannati dal diavolo, la cui arma migliore è la parola. L'accusa ai
preti cattolici invece è motivata dall'aver lasciato gli indios nell'ignoranza e di aver ceduto alla cupidigia.
Durante questo periodo vi è, inoltre, l'esaltazione di oggetti particolari, come delle piastre dette
"bultos", che, secondo Cieza, possiedono una funziona precisa: conservare, in assenza di una scrittura o
di una pittografia, nel caso dei messicani, la memoria dei tempi antichi.

MOCTEZUMA E I SEGNI: Gli indiani e gli spagnoli praticano la comunicazione in modo diverso. Diciamo
subito che, sul piano linguistico o simbolico, non c'è evidentemente alcuna inferiorità "naturale" da parte
degli indiani: si è visto, ad esempio, che, ai tempi di Colombo, erano loro che imparavano la lingua
dall'altro; e, nel corso delle prime spedizioni verso il Messico, sono ancora due indiani a fungere da
interpreti. Sappiamo, grazie ai testi dell'epoca, che gli indiani dedicano gran parte del loro tempo e delle
loro forze all'interpretazione dei messaggi,e che questa interpretazione ha forme notevolmente
elaborate, legate alle varie specie di divinazione. La prima era la divinazione ciclica. Gli aztechi
posseggono un calendario religioso, composto di 13 mesi di 20 giorni l'uno; ognuno di questi giorni ha il
suo proprio carattere che si trasmette agli atti compiuti nel corso di esso e, ancor più, alle persone nate
in quel giorno. Sapere il giorno in cui è nato qualcuno significa, infatti, conoscere il suo destino; perciò,
appena è nato un bambino, ci si rivolge all'interprete di professione, che è al tempo stesso il sacerdote
della comunità. A questa interpretazione prestabilita e sistematica, derivante dal carattere di ciascun
giorno del calendario, si aggiunge una seconda forma di divinazione, di natura specifica e puntuale, sotto
forma di presagi, i quali, talvolta consistono in fatti che non sono semplicemente inconsueti, ma del tutto
sovrannaturali. Nel quotidiano come nell'eccezionale, dunque, essi credevano in mille indovini e presagi.
Tutta la storia degli aztechi, così come è raccontata dai loro cronisti, infatti, non è che la realizzazione di
profezie antecedenti, come se un evento non potesse aver luogo senza essere stato profetizzato prima.
Può diventare atto solo ciò che prima è stato verbo. Gli aztechi sono convinti che tutte queste previsioni
concernenti l'avvenire si realizzino, e solo in casi eccezioniali tentano di resistere al destino che è stato
loro preannunciato. Il calendario menzionato precedentemente, però, è il cosiddetto calendario
astronomico composto da 365 giorni, mentre il calendario religioso è costituito da 260 giorni; gli anni
formano essi stessi dei cicli, come i nostri secoli, ma in modo più pregnante: di venti anni, di cinquatadue
ecc.
La nostra, infatti, è una cronologia a due dimensioni, una ciclica e l'altra lineare, mentre per i maya e gli
aztechi, è il ciclo che domina rispetto alla linearità, ed è proprio da qui che nasce la difficoltà di tradurre
le cronologie indiane nella nostra cronologia. Quello degli amerindi è dunque un tempo ciclico, ripetitivo,
cristallizzato in una sequenza immodificabile, dove tutto è sempre previsto in anticipo, e dove l'evento
stesso non è che la realizzazione di presagi da sempre esistiti. Al contrario, gli spagnoli prediligono la
concezione cristiana del tempo, che non è un eterno ritorno, bensì una progressione infinita verso la
vittoria finale dello spirito cristiano.
All'interno della società azteca il "gruppo" inteso come società collettiva assume un ruolo estremamente
importante: effettivamente esso prevale sul singolo individuo, e tale considerazione è riscontrabile nel
valore della famiglia. La solidarietà familiare non è, però, il valore supremo: benchè transindividuale, la
cellula familiare non è ancora la società, e proprio per questo i legami familiari passano in secondo piano
di fronte alle obbligazioni verso il gruppo; qualora non ci si sottometta alle regole della società si va
incontro alla morte, poichè la perdita di un individuo è meno importante rispetto al trasgredire delle
regole.
E' abbastanza impressionante constatare come Moctezuma I, quando decide di codificare le leggi della
propria società dopo aver vinto molte battaglie, formuli 14 prescrizioni, delle quali sono le ultime due
assomigliano alle nostre leggi, mentre le altre 10 regolano questioni che appartengono al campo
dell'etichetta, come l'abbigliamento.

COMUNICAZIONE - Nel corso della prima fase della conquista, quando gli spagnoli sono ancora nei pressi
della costa, il principale messaggio inviato da Moctezuma è che egli non vuole alcuno scambio di
messaggi. Riceve, è vero, le informazioni, ma ciò non lo rallegra affatto, anzi, al contrario. Moctezuma,
infatti, non è soltanto spaventato dal contenuto dei messaggi che riceve; si rivela letteralmente incapace
di comunicare, e il testo mette significativamente in parallelo "muto" e "morto". Questa paralisi non solo
indebolisce la raccolta di informazioni, ma è già un simbolo di disfatta, perchè il sovano azteco è
soprattutto un padron della parola, atto sociale per eccellenza: la rinuncia al linguaggio è la confessione
di una sconfitta. Secondo i conquistatori, i primi messaggi di Moctezuma affermavano che egli era pronto
ad offrir loro qualsiasi cosa si trovasse nel suo regno, ma ad una condizione: che rinunciassero al
desiderio di vederlo. Questo rifiuto di Moctezuma non è un atto personale. La primissima legge
enunciata dal suo antenato, infatti, sostiene che i re non debbano mai apparire in pubblico, se non in
circostanze di estrema gravità. Non meno rivelatore è il fatto che Moctezuma riceve l'informazione, ma
punisce coloro che gliela recano, fallendo così sul piano dei rapporti umani; anche quando l'informazione
raggiunge Moctezuma, la sua necessaria interpretazione avviene nel quadro della comunicazione col
mondo, non di quella con gli uomini; è ai suoi dèi che egli chiede consiglio sul modo di comportarsi in
queste questioni puramente umane.
Moctezuma sapeva informarsi sui suoi nemici quando essi si chiamavano tlaxcaltechi, taraschi, huastechi;
ma si trattava, in questo caso, di un sistema di informazione perfettamente definito. L'identità degli
spagnoli, invece, è a tal punto imprevedibile che l'intero sistema di comunicazione ne risulta sconvolto,
per cui gli aztechi falliscono proprio là dove prima ottenevano ottimi successi: nella raccolta di
informazioni.
Moctezuma è, quindi, bombardato da una quantità di messaggi che predicono tutti la vittoria dei nuovi
arrivati: l'arrivo degli spagnoli è sempre preceduto da presagi e la loro vittoria è sempre preannunciata.
Vediamo ora non più la recezione, ma la produzione dei discorsi e dei simboli, com'è praticata nelle
società indiane all'epoca della conquista.
Gli indiani di questa Nuova Spagna hanno origine, secondo quanto riferiscono in generale le loro storie,
da due popoli diversi: esse attribuiscono al primo il nome nahuatlaca, che significa "gente che si spiega e
che parla chiaramente", a differenza del secondo popolo, allora estremamente barbaro e selvaggio e
dedito esclusivamente alla caccia, al quale essi dettero il nome di chichimechi, che sgnifica "gente che va
a caccia" e che vive di questa occupazione primitiva ed agreste. Imparare a parlare bene fa parte
dell'educazione familiare e si sa che tale educazione non viene lasciata ai soli genitori, ma viene
impartita in scuole speciali. Esistono infatti nello Stato azteco due specie di scuole: le prime preparano
alla professione di guerriero, dalle altre escono i sacerdoti, i giudici e i dignitari regi. E' appunto in queste
ultime, chiamate calmecac, che viene attribuita una particolare importanza alla parola. Il legame fra
potere e padronanza del linguaggio è chiarissimo fra gli aztechi, e la parola privilegiata da essi è la parola
rituale, la cui forma più sorprendente è rappresentata dagli huehuetlatolli, discorsi più o meno lunghi
imparati a memoria, che coprono un vasto arco di temi e corrispondono a tutta una serie di situazioni
sociali; preghiere, cerimonie di corte, riti vari per alcuni momenti decisivi della vita di un individuo, quali
nascita, matrimonio, pubertà ecc. La funziona di questi discorsi è quella propria di ogni parola in una
società priva di scrittura: essi materializzano la memoria sociale, cioè l'insieme delle leggi, delle norme e
dei valori che debbono esser trasmessi di generazione in generazione per garantire l'identità collettiva. I
disegni stilizzati, i pittogrammi usati dagli aztechi non costituiscono un grado inferiore di scrittura: fanno
riferimento all'esperienza, non alla lingua.
Le tre grandi civilità amerindie incotrate dagli spagnoli non si trovano esattamente allo stesso livello di
evoluzione della scrittura. Gli incas ne sono completamente privi; gli aztechi usano i pittogrammi,
mentre i maya posseggono alcuni rudimenti della scrittura fonetica. Ciò che qui importa rilevare è che la
scrittura, assente, non può assumere il ruolo di supporto della memoria: esso spetta alla parola; perciò
gli huehuetlatolli hanno una così grande importanza; perciò si constata che le risposte degli informatori
esprimono delle conoscenze che essi sanno a memoria,senza variazioni individuali. La caratteristica
essenziale di questi discorsi è, dunque, la loro provenienza dal passato: come la loro interpretazione,
anche la loro produzione è dominata dal passato più che dal presente, d'altronde come anche la loro
religione, fondata sull'istruzione dei loro padri. La subordinazione del presente al passato resta dunque
una caratteristica significativa della società indiana dell'epoca, espressa anche in una delle 14 prescrizioni
ad opera di Moctezuma I, la quale consacra questa preminenza del vecchio sul nuovo e degli anziani sui
giovani. In questo mondo rivolto al passato, dominato dalla tradizione, sopraggiunge la conquista: un
evento assolutamente imprevedibile, sorprendente ed unico.
Ora, l'invasione spagnola crea una situazione radicalmente nuova, del tutto inedita, una situazione nella
quale l'arte dell'improvvisazione è più importante di quella rituale, e questa situazione del tutto nuova
agli aztechi non può far altro che generare confusione totale. In effetti, le comunicazioni rivolte dagli
aztechi agli spagnoli colpiscono, in genere, per la loro efficacia. Per convincerli a lasciare il paese,
Moctezuma invia loro ogni volta dell'oro: ma era proprio ciò che più poteva indurli a restare. Altri capi
offrono loro delle donne; ma esse diventeranno una giustificazione ulteriore della conquista. Inefficaci
nei loro messaggi diretti agli spagnoli, dunque, gli aztechi non riescono più, in questa nuova situazione, a
padroneggiare la comunicazione con gli altri indiani. Nella situazione di improvvisazione imposta dalla
conquista sorgono nuove difficoltà. I doni di Moctezuma, che producevano sugli spagnoli un effetto
contrario a quello previsto, suscitano reazioni sfavorevoli anche fra gli aztechi, in quanto denotano la
debolezza del sovrano.
Così come vi sono due forme di comunicazione, vi sono due forme di guerra: quella di rito e quella
d'efficacia. Gli aztechi non capiscono, e non sono neppure in grado di concepire, la guerra totale di
assimilazione che gli spagnoli conducono nei loro confronti; per loro la guerra deve terminare con un
trattato il quale fissi la misura del tributo che il vinto dovrà pagare al vincitore. Prima di vincere la partita,
gli spagnoli avevano già riportato un successo decisivo: quello consistente nell'imporre il loro tipo di
guerra. Da quel momento in poi, la loro superiorità sarà incontrastata. Effettivamente, poichè considerati
dei veri e propri dèi scesi in terra, gli spagnoli non debbono neppure fare la guerra: preferiscono, una
volta arrivati, convocare i dirigenti locali e sparare in aria alcuni colpi di cannone: gli indiani cadono a
terra terrorizzati, in quanto l'uso simbolico dele armi, all'epoca offerte agli dèi nei templi, si
dimostrasufficientemente efficace. Gli spagnoli vincono, dunque, la guerra. Essi sono indiscutibilmente
superiore agli indiani nella comunicazione interumana.

CORTES E I SEGNI: Non bisogna pensare che la comunicazione di cui sono esperti gli spagnoli sia
esattamente opposta a quella che praticano gli indiani. I popoli non sono nozioni astratte: fra loro vi
sono, al tempo stesso, affinità e differenze. Abbiamo visto anche che i primi interpreti sono degli indiani;
ma essi non hanno la piena fiducia degli spagnoli, i quali si domandano spesso se l'interprete trasmette
bene ciò che gli viene detto. La differenza fra Cortès e quelli che lo hanno preceduto sta forse nel fatto
che egli fu il primo ad avere una coscienza politica, e persino storica, dei suoi atti. Alla vigilia della
partenza da Cuba, non si distingueva probabilmente in nulla dagli altri conquistadores avidi di ricchezze,
ma le cose cambiano fin dall'inizio della spedizione, e già allora è possibile osservare qullo spirito di
adattamento di cui Cortès farà il principio della sua condotta. Non appena viene a conoscere l'esistenza
del regno di Moctezuma, decide di non accontentarsi di estorcere ricchezze, ma di sottomettere quel
regno. A lui si deve, quindi, da un lato, l'invenzione di una tattica per la guerra di conquista, e dall'altro,
l'elaborazione di una politica di colonizzazione in tempo di pace. Ciò che Cortès vuole prima di tutto non
è prendere, ma comprendere; sono i segni che lo interessano in primo luogo, non i loro referenti. La sua
spedizione comincia con una ricerca di informazione, non con la ricerca dell'oro. Il primo atto
importante che egli compie consiste nel cercarsi un interprete. Sente parlare gli indiani che usano paroe
spagnole; ne deduce che vi sono forse spagnoli tra loro, naufraghi di precedenti spedizioni; si informa e
le sue sopposizioni risultano confermate. Tra loro, Aguilar si unisce alle truppe di Cortès diventandone
l'interprete e rendendogli dei servigi inestimabili. Ma Aguilar parla solo la lingua dei maya, che non è
quella degli aztechi. Il secondo personaggio fondamentale è dunque una donna di nome Malinche.
Cortès, dunque, parla ad Aguilar, il quale traduce alla Malinche ciò che il primo ha detto, e la donna si
rivolge all'interlocutore azteco. La Maliche non si limita solo alla traduzione: è evidente che adotta anche
i valori degli spagnoli e contribuisce con tutte le sue forze alla realizzazione dei loro obiettivi. Da un lato,
essa compie una sorta di conversione culturale, interpretando per Cortès non solo le parole, ma anche i
comportamenti; dall'altro sa prendere l'iniziativa e rivolgere a Moctezuma le parole adatte senza che
Cortès l'abbia pronunciate prima. Tutti sono d'accordo nel riconoscere l'importanza del ruolodella
Malinche, Cortès la considera un'alleata indispensabile e diventerà la sua amante nella fase decisiva. E'
vero che la conquista del Messico sarebbe stata impossibile senza di lei, e che essa fu dunque
responsabile di quanto avvenne; al contempo risulta essere il primo segno dell'ibridazione delle culture;
come tale essa prennuncia il moderno Stato messicano e quella forma di bilinguismo che oggi quasi tutti
possediamo. Una volta ottenute le informazioni, Cortès non manca mai di ricompensare generosamente
chi gliel'ha fornite. E' pronto ad ascoltare dei consigli, anche se non sempre li segue. Grazie a questo
sistema informativo perfettamente efficace, Cortès viene a conoscere rapidamente e in modo
circostanziato l'esistenza di dissensi interni fra gli indiani, un fatto che ebbe importanza decisiva per la
vittoria finale. La conquista dell'informazione porta alla conquista del regno.
Problemi religiosi - prima differenza tra spagnoli e indiani: Il dio della religione azteca è uno e
molteplica allo stesso tempo. Ciò consente alla religione azteca di adeguarsi facilmente all'aggiunta di
nuove divinità, ma il Dio cristiano non è un un'incarnazioe che possa aggiungersi alle altre: esso è un
uno, in modo esclusivo e intollerante, e non lascia alcuno spazio agli altri dèi.
Seconda differenza: La seconda differenza deriva dalle forme che assume, a quell'epoca, il sentimento
religioso degli spagnoli: il Dio degli spagnoli è un ausiliario più che un Signore, un essere di cui ci si serve
più che un essere di cui si gode. In teoria, come voleva Colombo, scopo della conquista è la diffusione del
cristianesimo; in pratica il discorso religioso è uno dei mezzi che garantiscono il successo della conquista.
Fine e mezzi si sono scambiati di posto.
Terza differenza: Mentre gli spagnoli ascoltano la parola divina soltanto quando gli conviene, gli indiani
ascoltano gli dèi in ogni singolo momento.
Cortès si preoccupa continuamente dell'interpretazione che gli altri daranno ai suoi gesti. Punirà
severamente i saccheggiatori nelle file del suo esercito perchè costoro, al tempo stesso, prendono ciò
che non bisogna prendere e danno una cattiva impressione di se stessi. Il motivo di tali gesti è il desiderio
di Cortès di controllare l'informazione ricevuta dagli indiani, in modo che essi potessero comprendere
che il suo obiettivo principale non era la cupidigia. In molti casi la condotta di Cortès è apparentemente
contradditoria quanto quella di Moctezuma, con la differenza che la contraddittorietà di Cortès è del
tutto calcolata, in quanto ha per obiettivo di annebbiare il messaggio e di lasciare perplessi gli
interlocutori.
Quella di Cortès è dunque un'astuzia particolare, calcolata in ogni minimo particolare: Moctezuma,
difatti, crede che Cortès sia una divinità che nella propria leggenda promette di far ritorno sulla terra, e
così, lo spagnolo, stratega e fubo, conferma tale versione. Cortès, infatti, si assicura il controllo dell'antico
impero azteco proprio in virtù della sua padronanza dei segni degli uomini.
Tornando alla lingua, gli aztechi e i maya venerano la padronanza del simbolico e non sembrano aver
compreso l'importanza politica di una lingua comune; saranno quindi gli spagnoli ad instaurare il nahuatl
come lingua nazionale indigena nel Messico, prima di compiere l'ispanizzazione; saranno i frati
francescani e domenicani a gettarsi nello studio delle lingue indigene come nell'insegnamento dello
spagnolo.

Cortès comprende relativamente bene il mondo azteco che gli si svela dinanzi agli occhi, meglio
certamente di quanto Moctezuma non comprenda la realtà spagnola. Tuttavia questo superiore grado di
comprensione non impedisce ai conquistadores di distruggere la civiltà e la società messicane. Si
potrebbe credere che gli spagnoli, avendo imparato a conoscere gli aztechi, li avessero trovati così
spregevoli da considerarli indegni di vivere, loro e la loro cultura; ma a leggere gli scritti dei
conquistadores si vede che le cose stanno altrimenti e che, almeno su un certo piano, gli aztechi
suscitano l'ammirazione degli spagnoli. Quando Cortès deve esprimere un giudizio sugli indiani del
Messico, cerca sempre di avvicinarli agli spagnoli; per descrivere la bellezza del mondo azteco gli unici
termini di paragone sono tratti dai romanzi cavallereschi, ma è alquanto ambiguo costatare tale
ammirazione per cotanta bellezza che poi verrà totalmente distrutta. Effettivamente Cortès va in estati
davanti alla produzione azteca, ma non riconosce i loro autori come individui umani da porre sullo stesso
piano; per lui gli indiani sono sì dei soggetti, ma dei soggetti ridotti al ruolo di produttori di oggetti, di
artigiani di cui egli ammira le prestazioni senza ulteriori interessi.
La distruzione degli indiani nel XVI secolo va esaminata da due diversi punti di vista: quantitativo e
qualitativo. Si può rietenere che nel 1500 la popolazione del globo fosse dell'ordine di 400 milioni di
abitanti, 80 dei quali residenti in America. Verso la metà el XVI secolo, di questi 80 milioni ne restano 10.
Limitando il discorso al Messico, alla vigilia della conquista la popolazione era di circa 25 milioni di
abitanti; ne 1600 era ridotta a 1 milione. Se c'è un caso in cui si può parlare di genocidio è proprio
questo. Gli spagnoli non procedettero a uno sterminio diretto di quei milioni di indiani, nè sarebbero
stati in grado di farlo. Se si guarda alle forme assunte dalla diminuzione della popolazione, si constata
che esse furono tre:
1. per uccisione diretta;
2. per maltrattamenti;
3. per malattie.
Quando si parla del secondo caso, e dunque, di maltrattamenti, si intendono soprattutto le condizioni di
lavoro imposte dagli spagnoli, in particolare nelle miniere, ma non solo in esse. I conquistadores-
colonizzatori non hanno tempo da perdere, debbono arricchirsi subito; essi impongono di conseguenza
ritmi di lavoro insopportabili, senza minimamente preoccuparsi di tutelare la salute e la vita degli operai;
le imposte, inoltre, sono così irragionevoli che producono il medesimo risultato, comportando lo
spopolamento delle città. Anche la schiavitù provoca cali massici di popolazione, e oltre a un aumento
della mortaità, le nuove condizioni di vita provocano anche una diminuzione della natalità: i neonati
morivano subito, perchè le madri non avevano latte per alimentarli. In tutti i casi citati si tratta appunto
di un assassinio economico, e i colonizzatori ne portano tutta intera la responsabilità. Meno nettamente
stanno le cose per quanto riguarda le malattie. Le epidemie, a quell'epoca, non infuriavano solo in
America, ma decimavano le stesse città europee, anche se su scala diversa. Oggi, tuttavia, sappiamo che,
a quell'epoca la popolazione messicana diminuì anche indipendentemente dall'esito delle grandi
epidemie, per denutrizione, o in conseguenza di altre malattie correnti o per effetto della distruzione del
tradizionale tessuto sociale; ma gli indiani erano particolarmente vulnerabili dalle malattie, perchè erano
esauriti dal lavoro e non amavano più la vita. E' evidente che i conquistadores considerano le epidemie
come una delle loro armi: si può pensare che non abbiano fatto nulla per impedire il contagio, in quanto,
a parer loro, la morte degli indiani avveniva per volontà divina che sosteneva la vittoria spagnola. Su tal
proposito si fonda l'opera di Motolinia, che pronuncia le dieci piaghe inviate da Dio, per punizione, su
quella terra.
Effettivamente, egli parte da quest'immagine biblica per sottolineare le punizioni che Dio vuole infliggere
all'Egitto, ma il suo racconto si trasforma a poco a poco in una descrizione realistica e accusatrice della
vita in Messico nei primi anni dopo la conquista; sono chiaramente gli uomini i responsabili di queste
piaghe, e in realtà Motolinia non li approva.
Passiamo ora all'aspetto qualitativo della distruzione degli indiani. Ci si domanda, dunque, il perchè di
questo comportamento degli spagnoli. Una motivazione è sicuramente il desiderio di arricchirsi presto e
molto, senza curarsi del benessere e della stessa vita altrui. Si torturano gli indiani per strappar loro il
segreto sui nascondigli dei tesori; si sfruttano gli indigeni per ricavarne dei profitti. Il conquistador non ha
però cessato di aspirare ai valori aristocratici, ai titoli nobiliari, agli onori e alla stima; ma ha capito
perfettamente che tutto può essere ottenuto col denaro, che non si limita ad assumere un valore
materiale, ma che rende possibile anche l'aquisto di tutti i valori spirituali. Tutto avviene, però, come se
gli spagnoli provassero un piacere particolare nella crudeltà, nell'esercizio del potere sugli altri, nella
dimostrazione di poter dare la morte; così sarebbe opportuno parlare di società del sacrificio, di cui gli
aztechi fuorno rappresentanti, e società del massacro, accostabile agli spagnoli.
Il sacrificio è, in quest'ottica, un delitto religioso: lo si compie in nome dell'ideologia ufficiale, sulla
pubblica piazza, dinanzi agli occhi di tutti. L'identità del sacrificato è fissata da regole rigorosissime: i
sacrificati provengono da paesi limitrofi, che parlano la stessa lingua ma hanno un governo autonomo;
una volta catturati, vengono tenuti per qualche tempo in prigione allo scopo di essere parzialmente
assimilati. Il sacrificio di valorosi guerrieri è più apprezzato di quello di persone qualsiasi; quanto agli
invalidi di ogni genere, essi sono considerati assolutamente inadatti al sacrificio.
Il massacro invece, rivela la debolezza del tessuto sociale, il venir meno dei principi morali che
garantivano la coesione del gruppo. E' compiuto di preferenza in luoghi lontani, dove la legge stenta a
farsi rispettare: per gli Spanoli, in America o anche in Italia. Più i massacrati sono lontani e stranieri,
megio è.
Se il sacrificio è un delitto religioso, il massacro è un delitto ateo.
Eguaglianza o ineguaglianza: Il desiderio di arricchirsi e l'istinto di padronanza sono certamente
all'origine del comportamento degli spagnoli. Fin dalla sua prima formulazione, questa dottrina
dell'ineguaglianza sarà combattuta da un'altra che afferma, invece, l'eguaglianza di tutti gli uomini. Il
primo documento interessante a tal proposito è il "Requerimento", un'opera di Palacios Rubios. Esso sta
chiaramente dalla parte dell'ineguaglianza, anche se essa è data per implicita. Questo testo, curioso
tentativo di dare una base legale a quelli che erano i desideri dei conquistatori, comincia con una breve
storia dell'umanità, il cui punto culminante è rappresentato dall'apparizione di Gesù Cristo, sovrano
supremo che ha sotto la sua giurisdizione l'universo intero. Il tutto, però, si fonda sul fatto che uno degli
ultimi papi abbia fatto dono del continente americano agli spagnoli. Se gli indiani, dopo la lettura, si
mostrano convinti, non si ha il diritto di prenderli come schiavi; se invece essi non accettano questa
interpretazione della loro storia, saranno severamente puniti.
E' evidente la grande contraddizione posta alla base di tutto ciò: il cristianesimo è una religione
egualitaria, ed in suo nome gli uomini sono ridotti in schiavitù. Non solo potere spirituale e potere
temporale si trovano confusi, ma di ben più grave c'è il fatto che gli indiani possano scegliere solo fra due
posizioni di inferiorità: o si sottomettono di loro volontà e diventano servi, oppure vengono sottomessi
con la forza e ridotti in schiavitù. Il testo di Palacio Rubios non sarà mantenuto come base giuridica della
conquista; ma tracce più o meno indebolite del suo spirito si trovano anche negli avversari dei
conquistadores. L'esempio più interessante è quello di Francisco de Vitoria, il quale demolisce le
giustificazioni correnti delle guerre in America, ma ritiene che delle "guerre giuste" siano possibili. Fra le
diverse motivazioni di questo tipo di guerre, due gruppi di ragioni sono per noi particolarmente
interessanti. Vi sono, prima di tutto, le ragioni che si basano sul principio di reciprocità, secondo cui deve
essere permesso a chiunque di andare e di viaggiare in tutti i paesi che vuole; ma per quanto riguarda la
circolazione delle idee, Vitoria pensa soltanto allalibertà degli spagnoli di predicare il Vangelo agli indiani,
e mai alla libertà degli indiani di diffondere il proprio credo in Spagna. Egli ritiene, infine, che un
intervento sia lecito quando venga fatto per proteggere degli innocenti contro la tirannia dei capi o delle
leggi indigene. Una simile distribuzione dei ruoli implica che non c'è vera uguaglianza fra spagnoli e
indiani, e Vitoria non lo nega. Attraverso il principio di reciprocità egli sembra andare incontro agli
indiani, ma in realtà, fondando il suo pensiero sulle cosiddette "guerre giuste" egli legalizza le guerre di
colonizzazione.
Il dibattito fra i sostenitori dell'eguaglianza e i partigiani dell'ineguaglianza tra indiani e spagnoli tocca il
culmine e trova al tempo stesso un'incarnazione concreta nella celebre controversia di Valladolid, dove
spicca la figura di Las Casas, contro quella di Sepulveda, che fonda il suo pensiero sui testi aristotelici
secondo cui la forza prevale sulla debolezza. Egli, effettivamente, sostiene che la guerra contro gli
indiani sia giusta in quanto essi:
1. hanno una natura subalterna;
2. praticano il cannibalismo;
3. sacrificano esseri umani;
4. ignorano la religione cristiana.
E' necessario dunque, imporre il bene agli altri, e per far sì che ciò accada è necessario che ogni indiano
si fermi a comprendere il valore assoluto per eccellenza, ovvero il battesimo, e dunque l'appartenenza
alla religione cristiana.

LAS CASAS: Las Casas, in quanto suo avversario, rifiuterà tale principio, sostenendo che la morte di un
solo uomo ha maggior peso della sua salvezza nel battesimo. In effetti, se il pensiero di Sepulveda era
fondato sui principi aristotelici, Las Casas si basa sul pensiero di Cristo. Egli non è il solo a difendere i
diritti degli indiani e a proclamare che essi non possono in alcun caso essere ridotti in schiavitù; di fatto,
la maggioranza dei documenti ufficiali della corona si pronuncia allo stesso modo.
"Dio ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza, e offendere l'uomo significa offendere Dio": Las
Casas adotta questa posizione e le dà un'espressione generale ponendo l'eguaglianza a base di ogni
politica umana, sostenendo inoltre, che ogni nazione deve essere cristianizzata, così come il popolo
indiano, ma che ciò sia possibile con le buone maniere perchè gli indiani sono un popolo docile e
dignitoso, capace di accettare la parola di Dio senza troppe esitazioni, in quanto posseggono già
caratteristiche cristiane. Tale dichiarazione deriva da una semplice domanda che Las Casas pone alla base
del suo pensiero: perchè gli indiani obbediscono umilmente ai mostri spagnoli? Semplicemente perchè si
comportano da buoni cristiani, e se quelle popolazioni sono indifferenti alla ricchezza è perchè hanno
una morale cristiana. Infine, egli giustifica la barbarità degli indiani nelle loro basi antiche, in quanto
soltanto con il tempo, così come ogni nazione ad oggi evoluta, essi raggiungeranno la civiltà.
In definitiva, Las Casas ama gli indiani ed è cristiano. Per lui, queste due caratteristiche sono solidali:
egli ama gli indiani proprio perchè è cristiano.
E' possibile, però, notare quella parte di contraddittorietà anche nella sua figura, in quanto egli non ebbe
inizialmente lo stesso atteggiamento nei confronti degli indiani e dei neri: egli accettò che questi ultimi, a
differenza dei primi, fossero ridotti in schiavitù, ma con il passare del tempo sostenne di non accettare nè
l'una nè l'altra.
Egli sostiene, inoltre, che la sottomissione e la colonizzazione debbono essere conservate, ma gestite
altrimenti: non solo gli indiani ne guadagneranno ma anche il re e la regina dal punto di vista finanziario,
poichè ridurre in schiavitù gli indiani significa consentire un aumento delle morti, e ciò implica una
minore produzione di ricchezze.
Las Casas è dentro l'ideologia colonialista, ma contro l'ideologia schiavista.

LA GRIGLIA CONCETTUALE DI LAS CASAS: Per Las Casas l'anima è dotata di 3 facoltà o potenze naturali:
la ragione, il desiderio e l'energia impiegata per soddisfare il desiderio. Questa teoria riesce a spiegare la
diversità delle credenze, l'esistenza dell'idolatria e del suo contrario: la latria. Se la facoltà razionale
incontra la verità prima, che è la conoscenza del vero Dio, tutto prosegue senza ostacoli, le altre due
potenze, il desiderio e l'energia concorreranno a rinforzare, a radicare questa conoscenza. Abbiamo in
questo caso la cosiddetta latria, la vera religione. Ma se, per un transfert dovuto all'ignoranza e alla
corruzione della natura umana, la ragione si sposta su altri oggetti, su una falsa trascendenza, le tre
facoltà vengono allora deviate dal loro corso ed è la catastrofe. Da questo momento l'uomo cade
nell'errore, e si smarrisce nella molteplicità delle credenze e delle false opinioni, si perde nell'impuro e
nell'inautentico per abbandonarsi alla venerazio di creature che non la meritano affatto: questo è
l'idolatria, la religione corrotta, quella giunge in seguito all'intervento del demonio. E' chiaro che la
preoccupazione fondamentale di Las Casas è far capire dove si trova il confine tra la vera e la falsa
religione. Succede poi, che, molto spesso, la confusione precipita nel culto reso all'idolo, come se anzichè
la divinità fossero adorati il segnale, il segno, l'immagine, la somiglianza: tutte le logiche mentali portano
dunque al divino, al religioso e alle sue due manifestazioni principali: latria e idolatria. Come ancora al
divino porta quel bisogno di aiuto che coglie l'uomo che soffre, in quanto, un bisogno, inteso come
desiderio, può motivare l'acquisizione di solide credenze. Latria e idolatria sono dunque separate
dall'oggetto di venerazione. Nella sua esposizione dei miti dell'Antichità, Las Casas propone di separare il
fittizio dallo storico. Non dsprezza affatto ciò che di volta in volta indica come "favole", ammettendo anzi
che queste fantasie simili a deliri possedevano una loro morale e un loro significato. Pratiche perverse
insegnate fin dall'infanzia possono modificare le inclinazioni naturali dell'uomoe condurlo a forme
bestiali di adorazione. Ma altrettanto pericolosi sono i contatti con popolazioni idolatre.
Las Casas non ignora la dimensione psicologia del comportamento dell'idolatra, anzi, denuncia con
inquietudine ciò che l'idolatria può avere in comune con la passione apparentemente innocente delle
bambine per le bambole di stracci; innocente fissazione sull'oggetto che condurrà al culto degli idoli.
Quando la fissazione dell'idolatria non deriva da un'educazione infantile, Las Casas ci porta sul terreno
della malattia mentale, causata dai demoni.
Uno dei motivi d'interesse della griglia interpretativa di Las Casas è dato dal fatto che si appoggia
sull'intero sapere di un'epoca, partendo dalle Sacre Scritture, proseguendo con le fonti greco-romane e
con la patristica, per finire con dati più recenti tratti dal periodo medievale.
Gli sforzi di Las Casas sono poi diretti a contrapporre conoscenza magica e conoscenza naturale,
sostenendo che l'azione magica è destinata al fallimento e all'impotenza, perchè producono simili effetti
soltanto ai demoni. La conoscenza e la pratica magica possono essere quindi soltanto frutto di
un'illusione o di un intervento demoniaco. Le analisi di Las Casas si fondano dunque su una separazione
tra natura e soprannatura e su una tripartizione conoscenza naturale - conoscenza divina - conoscenza
demoniaca.
- Le religioni amerindie e Las Casas: La griglia interpretativa si scontra subito con il primo ostacolo delle
Isole, Grandi Antille e Caraibi, le cui pratiche religione sono in contrasto con quelle riconosciute in
Messico e in Perù. Effettivamente la situazione delle Isole vede l'assenza di templi, di idoli e di sacrifici: è
vero che si trovano luoghi di culto, ma sembrano dedicati alle immagini degli antenati dei signori locali. Il
Brasile costituise poi un altro ostacolo, che deve essere superato e spiegato: qui non ci sono nè idoli, nè
nozioni di dio, ad eccezione del culto in onore del tuono e della fede riposta in alcuni stregoni che
sembrano essere profeti di un mondo migliore.
- CONFRONTO TRA CORTES E LAS CASAS: Las Casas ama gli indiani, ma non li conosce; Cortès impara a
conoscere gli indiani ma non li ama perchè non li considera dei veri e propri soggetti pensanti; entrambi
però sono d'accordo sulla sottomissione dell'America alla Spagna, sulla cristianizzazione necessaria degli
indiani, e sull'ideologia colonialista trionfante su quella schiavista.
L'atteggiamento di Las Casas nei confronti degli indiani, il suo amore verso di essi,non è lo stesso prima e
dopo il 1550. Il cambiamento deve essere avvenuto a partire dalle riflessioni a cui lo conducono i sacrifici
umani praticati dagli aztechi. In un primo tempo, infatti, Las Casas afferma che, se il cannibalismo sono
condannabili, ciò non significa che bisogna muovere una guerra a coloro che li praticano: il rimedio
rischia di essere peggiore del male stesso; inoltre, sostiene che se la legge indiana impone tale sacrificio,
è legittimo che lo si pratichi in quanto buoni cittadini. Las Casas vuole, poi, rendere il sacrificio umano più
vicino alla realtà del lettore, ricordando che anche nel mondo cristiano Dio ordinò ad Abramo di
sacrificare il figlio Isacco.
Qui Las Casas giunge a proporre una nuova definizione del sentimento religioso, e sostiene che la più
grande prova d'amore che si possa dare a Dio consiste nell'offrirgli quel che si ha di più prezioso, cioè la
stessa vita umana. Egli finisce dunque con l'adottare una nuova posizione, secondo cui oltre a non essere
condannabile, il sacrificio necessita di essere compiuto ed ammirato.
Con il passare del tempo il suo pensiero cambia nuovamente rispetto alla posizione assunta: rinunciando
al desiderio di assimilare gli indiani, egli sostiene che siano gli indiani a dover decidere del proprio
avvenire.

CABEZA DE VACA: Un esempio interessante sulla sottomissione degli/agli indiani, è quello del
conquistador Cabeza de Vaca. Quest'ultimo, con i suoi compagni, si trova costretto a vivere fra gli indiani
e come gli indiani; la sua posizione è molto vicina a quella di Las Casas, in quanto sostiene la propria
stima nei confronti del popolo indiano e ritiene che essi devono essere evangelizzati non si debba
ricorrere comunque alla violenza. Al contrario di Las Casas, però, Cabeza de Vaca entra in contatto in
prima persona con gli indiani, e non si limita ad osservarli dal di fuori; la sua narrazione, infatti, contiene
una notevole descrizione dei paesi e delle popolazioni che egli viene via via scoprendo, ed è ricca di
preziose notizie sulla cultura materiale e spirituale degli indiani. Nonostante il forte grado di integrazione
con la società indiana, egli prova una gioia staordinaria nell'incontrare altri spagnoli, e tenta di
convincere i propri amici indiani a non rivolgere in modo ostile ai cristiani perchè essi non faranno loro
alcun male.

DURAN: Ritroviamo uno sdoppiamento della personalità molto più complesso nell'autore di una delle
più riuscite descrizioni del mondo precolombiano, il domenicano Diego Duràn. Egli andò a vivere nel
Messico all'età di cinque anni e si doemò sul logo, acquisendo una comprensione della cultura indiana
che nessuno potè eguagliare nel XVI secolo. Duràn compilò la sua opera tra il 176 e il 1581, in cui le
prime due parti trattano della religione degi aztechi e la terza della loro storia. L'ambivaenza di Duràn è
più complessa, sia perchè egli non visse a soggiorni alternati in Spagna e in Messico, sia perchè la sua
conoscenza della cultura indiana è molto più intima. La sua posizione è anche più drammatica. Vi è, da
un lato, il cristiano convinto, l'evangelizzatore accanito, il quale ha deciso che la conversione degli indiani
deve passare attraverso una migliore conoscenza della loro antica religiosa, poichè per eliminare il
paganesimo bisogna conoscerlo bene. Effettivamente egli sostiene che la conversion dovrà essere
totale, poichè se in loro sopravvive anche il minimo ricordo delle antiche tradizioni è necessario
sradicarlo. Ciò che più irrita Duràn è il fatto che gli indiani celebrino le proprie divinità sotto i riti cristiani.
Gli indiani, infatti, con il pretesto di celebrare le feste del nostro Dio e dei santi, inseriscono e celebrano
quello dei loro idoli, allorchè cadono nello stesso giorno in quanto paganesimo e cristianesimo si rivelano
estremamente simili nelle feste e nelle tradizioni. E' difficile sostenere se i loro sotterfugi siano passati
inosservati o meno, ma è giusto porre i confini nelle differenze tra domenicani, a favore della
conversione totale, e francescani, che invece si adeguano alla realtà. Duràn si accosta, dunque, alla
prima figura e si rivela un cristiano rigido, intransigente, difensore della purezza religiosa, e si dimostra,
così, l'esempio più compiuto di meticcio culturale del XVI secolo. La sua importanza, poi, è sottolineata
dal fatto che egli non si limiti soltanto alle osservazione della cultura azteca, ma che riponga in essa dei
dubbi di cui egli stesso troverà le risposte. Da un lato, dunque, Duràn si è completamente identificato col
punto di vista azteco; d'altro lato non è così perchè egli non rimette mai in causa la sua fede cristiana. Il
punto di vista di Duràn resta quindi indiano e cristiano al medesimo tempo, ritrovando, nella
popolazione indiana una capacità organizzativa ben salda, contrapposta però alla loro crudeltà e alla loro
ossessione per la morte; ed esaltando negli spagnoli il loro senso di appartenenza alla religione cristiana,
ma criticandone il modo in cui lo dimostrano, ossia con maniere forti e con il ricordo alle armi.

SAHAGUN: Sahagùn nacque in Spagna nel 1499. La sua attività, un pò come quella dell'intellettuale
moderno, segue due grandi direttrici: l'insegnamento e lo scrivere. I francescani e altri religiosi
provenienti dalla Spagna sono i primi a imparare la lingua dei vinti. Sahagùn impara dunque a fondo la
lingua nahuatl e diventa professore di grammatica (latina) nel collegio francescano di Tlatelolco fin dalla
sua fondazione. Il collegio è destinato all'èlite messicana e recluta i suoi studenti nelle fila dell'antica
nobiltà; il livello degli studi vi diventa, in breve tempo, molto alto. Si può restare a bocca aperta dinanzi a
una così rapida evoluzione degli spiriti: verso il 1540, appena una ventina d'anni dopo l'assedio del
Messico da parte di Cortès, i nobili messicani compongono versi eroici latini. Non appena laici e religiosi
si convinsero che gli indiani facevano progressi ed erano capaci di compiere altri passi avanti,
cominciarono a porre ostacoli all'impresa e a sollevare una serie di obiezioni per impedire che il tentativo
proseguisse. Dicevano: poichè costoro non devono entrare negli ordini, a che pro insegnargli la
grammatica?
Nell'opera principale di Sahagun egli si propone di descrivere nei particolari l'antica religione messicana
poichè è necessario conoscere le usanze dei futuri convertiti.
In effetti, la preoccupazione dominante che presiede all'elaborazione dell'opera non sarà tanto la ricerca
del miglior modo di convertire gli indiani, quanto la fedeltà all'oggetto descitto; l'innovazione della
figura di Duràn infatti, sta nell'aver usufruito delle informazioni fornite da testimoni degni di fede; e
per garantire la loro fedeltà, esse saranno raccolte nella lingua degli informatori. In un secondo tempo,
poi, Sahagùn decide di aggiungere una libera traduzione e di far illustrare il tutto. Il risulato sarà un'opera
di grande complessità strutturale, nella quale si intrecciano continuamente tre mezzi espressivi: il
nahuatl, lo spagnolo e il disegno. Il suo scopo primario, infatti, fu quello di procurarsi persone capaci e di
esperienza con le quali potesse discutere, e a tal proposito, decise di convocare i suoi 4 migliori allievi del
collegio. Essi tradussero in disegni l'argomento delle conversazioni e li inserirono nell'opera che sarà poi
suddivisa in dodici libri. Nel corso del lavoro, è bene sottolineare che Sahagùn si servì anche degli antichi
codici che risultano essere la fonte primaria della storia messicana.
- CONFRONTO TRA DURAN E SAHAGUN: Entrambi decidono di fondare le proprie opere sulle
testimonianze. Duràn pone le basi del proprio testo su testimonianze superficiali e aggiunge un tocco più
personale basato sull'interpretazione; Sahagùn fonda un libro più complesso basato su testimonianze più
approfondite e soprattutto senza l'aggiunta di ritocchi, in quanto i suoi interventi consistono soltanto nei
vari prologhi, avvertenze, prefazioni o digressioni che fungono da cornice, ad eccezione di una parte in
cui esprime una critica nei confronti della religione indiana. Per non attribuire giudizi troppo personali,
infatti, egli ricorre a una sorta di lapsus controllati, in cui alterna il proprio giudizio con quello dei suoi
interlocutori. Altra caratteristiche dell'opera di Sahagùn è l'inserimento di alcuni titoli che costituiscono
un tentativo di stabilire una serie di equivalenze fra dèi aztechi e dèi romani, e altro carattere molto
importante di cui bisogna tener conto è sicuramente il fatto che egli si serva di un questionario. Il piano
d'insieme è, quindi, una summa scolastica, che procede dal più alto (la divinità) al più basso (le pietre). E'
evidente, quindi, che vi sia una deviazione dell'obiettivo religioso di conversione, in favore di una
descrizione minuziosa di tradizioni e usanze messicane. In realtà il suo sogno sarebbe stato piuttosto la
creazione di un nuovo Stato ideale: messicano e cristiano ad un tempo, un regno di Dio sulla terra. Ma
egli sa anche che la realizzazione di questo sogno è lontana, per cui si accontenta di mettere in luce gli
aspetti negativi dello Stato esistente. E' chiaro, quindi, che Sahagùn aderisce alla dottrina cristiana
dell'eguaglianza di tutti gli uomini.

MOTOLINIA: OPERA FONDATA SU GIUDIZI PERSONALI.


DURAN: OPERA FONDATA SULL'INTEPRETAZIONE.
SAHAGUN: OPERA FONDATA SULLA PURA DESCRIZIONE.

CONFRONTO TRA LAS CASAS E SAHAGUN: per Las Casas tutti gli indiani sono portatori delle stesse
qualità; non vi sono differenze fra i popoli, per non parlare degli individui, Sahagùn, invece, chiama per
nome i suoi informatori.

MOLINA: al contrario di Duràn, le pinturas non sembrano essere state parte fondamentale della
documentazione di Molina, che in più occasioni spiega l'incertezza delle risposte indigene. Comunque
l'assenza di scittura tra i peruviani pone al cronista un problema teorico di difficile soluzione.
- favole: quest'ossessione occientale per la verità ostacola la comprensione delle favole indigene. In
questo caso, la molteplicità delle versioni viene giudicata fastidiosa e imputata alla naturale prolissità
degli indios. Le inverosomiglianze, le incoerenze cronologiche e logiche sono sintomi di infantilismi.
Prima di cominciare a descrivere i riti e le feste degli indios, Molina comincia a parlare delle loro favole.
Le favole peruviane raccolte da Molina contengono due elementi fondamentali: il ruolodel Creatore e il
diluvio. In Perù gli spagnoli ritrovarono le tracce del diluvio all'interno di molti racconti provenienti da
varie regioni, mentre l'origine della civiltà degli indios si rifà alla figure di Topiltzin, una sorta di apostolo
che lasciò il mondo umano a causa dell'ingratitudine degli uomini. Egli assomiglia molto a san Tommaso,
in quanto entrambi erano scultori che vivevano nella castità e compivano miracoli.
- feste: mentre Molina colloca le varie feste basandosi sul calendario agricolo che fa cominciare dal mese
di maggio, Duràn fa ruotare la descrizione delle cerimonie messicane intorno al dio in esse venerate,
senza ometterne l'accurata datazione; le feste trovano così una precisa collocazione temporale, fatta
eccezione per quegli avvenimenti che non siano prvedibili. Le descrizioni di Duràn, così come quelle di
Las Casas, si soffermano sui cortei e sui colori, sui suoni.
Le "citua" era invece una cerimonia complessa che durava giorni: aveva una funzione purificatrice, in
quanto consentiva di scacciare le malattie dalla città, e a inizio cerimonia venivano scacciati fuori dal
territorio i gobbi e tutte le persone deformi divenute tali in seguito ad una cattiva condotta, le cui
disgrazie potevano ripercuotersi sulla città; le malattie, infatti non erano altro che il risultato della
vendetta degli dèi in seguito ai peccati degli uomini. Tra le malattie più pericolose emerge la "malattia
della danza", una malattia che può essere accostata alla possessione, in quanto provoca convulsioni e
tremiti, ed è dovuta alla "vendetta" delle huacas nel momento in cui non vengono nutrite.
- sacrifici: stando ai testi dell'epoca, il fine dei sacrifici messicani non era tanto di testimoniare la
superiorità del dio, quanto piuttosto di nutrirlo e poterlo così mantenere in vita.

Duràn e Molina mettono in luce, a loro insaputa, le lacune presenti nella bella griglia interpretativa di
Las Casas. Entrambi sono accomunati dal fatto di conoscere alla perfezione le popolazioni indigene, in
quanto entrambi vissero in quel mondo; le loro due opere vertono poi, sullo stesso tema: le feste e le
cerimonie degli antichi indios. Quella del domenicano è composta in una lingua vivace e concisa; quella
di Molina meno elaborata dal punto di vista letterario e molto più sommaria. Al tempo in cui i due
sacerdoti scrivono, i sacrifici non si celebrano più, i templi sono stati distrutti, gli idoli bruciati e l'ordine
antico sconvolto. La loro opera rappresenta, nel pieno senso del termine, un'inchiesta su delle credenze
e delle pratiche apparentemente estinte. Tutti e due rendono conto dei fatti del passato. Non basta
osservare con i propri occhi, è necessario comprendere, ed è quello che fede Duràn consultando le
pinturas messicane come fossero libri, e riponendo in esse e nelle testimonianze degli indios grande
fiducia. Egli sa, però, che potrebbe cadere in errore, e per cercare di colmare le sue insicurezze in
relazioni alle testimonianze indigene, egli adotta il metodo del consenso, dell'opinione dominante.

GARCILASO: Garcilaso de la Vega, detto l’Inca, autore dei Dialoghi d’amore fu l’uomo dei più arditi
prestiti e meticciaggi intellettuali. Nacque a Cuzco, figlio di un conquistador e di una peruviana, arrivò in
Spagna nel 1560 dove scrisse i suoi Commentarios reales. Meticcio e con un’elevata padronanza della
lingua castigliana, affermò di essere indio e inca, indio e cristiano. La terminologia da lui usata nei
Comentarios è la stessa usata da Las Casas: dei, sacrifici, templi, sacerdoti, riti, cerimonie, religione. Ma
Garcilaso usa con convinzione la distinzione tra sacro e profano anche se fa fatica a scindere i due ambiti
che spesso nella sua opera e memoria appaiono mescolati. La sua versione dell’idolatria degli incas è
molto particolare, dato che è talmente rivista e corretta che quasi sfiora il monoteismo. Pachacamac
diventa il Creatore e la sua dottrina si diffonde in tutte le religioni dell’impero. Garcilaso lo definisce
come DIOS INVISIBLE a cui gli incas non dedicarono mai templi o sacrifici, adorandolo solo nell’intimo dei
loro cuori. L’autore concentra la sua attenzione su un punto chiave: la distinzione tra le varie regioni e tra
le varie epoche o età, distinzione che rimprovera ai suoi predecessori di aver trascurato. Garcilaso
contrappone due società pagane. La prima è caratterizzata da barbarie e superstizioni, dal culto degli
animali, della bestialità, dove viene praticato il sacrificio umano e l’antropofagia. Al suo interno,
Garcilaso individua una condizione di estrema barbarie in cui vivono popoli senza dio, che vivono nudi,
senza case e villaggi. La seconda è decente e ricca di prestigio e corrisponde allo stato incaico, dove ci
sono riti e cerimonie. Quindi più si allarga la dominazione degli incas, più gli indios delle Ande
abbandonano il primo stato favorendo il secondo. Garcilaso, inoltre, insiste sulla somiglianza tra il
cristianesimo e l’idolatria incaica soprattutto perché gli incas adoravano un Dio supremo, avevano un
solo dio nominabile e visibile (il sole) mentre veneravamo interiormente Pachacamac di cui avevano la
più grande considerazione. Secondo Garcilaso, inoltre, gli incas avevano un diavolo che li aveva ingannati
facendosi passare per divinità suprema da loro venerata. Per questo motivo, secondo l’Inca, esistono gli
oracoli dei templi, i culti domestici, gli svariati oggetti che hanno portato gli indigeni verso un’adorazione
sbagliata. Garcilaso afferma che i riti degli incas non erano offensivi e che non praticavano assolutamente
il sacrificio. Garcilaso non vuole condannare queste forme di idolatria ed è per questo che si fossilizza
sull’opposizione monoteismo/politeismo.

Don Fernando de Alva Ixtlilxochitl nasce intorno al 1578 e si dedica a restituire ai suoi antenati indigeni il
lustro di cui godettero e crede che ci sia “idolatria e idolatria”, proprio come Garcilaso. Egli produce
quattro immagini-forza:
1. All’inizio viene proposta una preistoria dell’idolatria, uno stato preidolatrico. Secondo Don Fernando
gli avi dei sovrani texcocani erano dei nomadi che conducevano una vita rudimentale nelle grotte, vestiti
di pelli animali, come armi conoscevano solo archi, frecce e cerbottane, erano monogami, evitavano gli
incesti, vivevano di caccia e non avevano nessun idolo.
2. Allo stato preidolatrico subentra la società tolteca. Essi erano raffinati, inventori delle arti, della
scrittura glifica, della scultura e sono idolatri disponendo in abbondanza di idoli, templi e sacerdoti.
Molto probabilmente i toltechi praticarono il sacrificio umano ma l’autore li descrive come meno
abominevoli di quelli dei messicani.
3. Nel ruolo dei cattivi abbiamo gli antichi signori di México-Tenochtitlan. Sono quindi i Mexica che
vengono definiti come coloro che iniziarono l’idolatria portando con sé molti idoli, riti e cerimonie.
4. L’ultima immagine-forza è il caso Nezahualcoyotl. Egli era un sovrano solitario in un mondo idolatra e
viene presentato come un saggio più sapiente del divino Platone. Questo sovrano non poteva proibire i
sacrifici umani ma ottenne la limitazione, vietando ai mexica di immolare bambini e servi.

ESTIRPAZIONI: Il 1600 si rivela l'era degli estirpatori, degli inquisitori di indios, dei cacciatori di
superstizioni, che si limitano a passare al setaccio la loro provincia. In Perù, infatti, il gesuita Hernandez
scopre il persistere del cultodelle mummi e dei culti realizzati in loro onore. Trova anche molti idoli,
pietre rotonde che gli indios nascondevano fuori dai confini del villaggio e a cui portavano offerte. La
Corona spagnola, appoggiata dalla Chiesa, ad esempio, aveva deciso di concentrare le popolazioni
indigne in numero più limitato di villaggi o in nuove sedi, per poter prestar loro una maggior sorveglianza
e farla finire con le idolatrie. In effetti l'estirpatore fa molta fatica a stabilire in modo indiscutibilese
l'azione indigena serve a mascherare gli antichi riti o se invece vi sia una fusione tra i due universi. In
alcuni casi gli indios mescolano in buona fede le cose divine e gli oggetti dell'idolatria, essendo sicura che
si possano venerare entrambe; nella maggior parte dei casi, però, appare un vero e proprio
camuffamento che permette di adorare un antico dio sotto un nome cristianizzato. Per gli estirpatori la
commistione è dunque intollerabile, in quanto essa implica l'insuccesso dell'evangelizzazione.
Non è l'idolatria, però, a interessare agli usurpatori, quanto l'indio che vi si nasconde dietro e la mette in
pratica. L'estirpatore infatti è turbato dalla clandestinità di cui il suo nemico si circonda, dal segreto che
sa creare intorno a sè e di ciò che trama. Da questo punto di vista il XVII secolo vive nell'ossessione del
complotto. In questo frangente l'arte della confessione è complemente necessario dell'estirpazione, in
quanto occorre far parlare chi si rifiuta, bisogna strappare i nomi dei complici e fingere di sapere per
incastrarel'idolatra. In effetti, così come ci sono idolatrie e idolatrie, ci sono anche idolatri passivi e
idolatri attivi. Questi ultimi sono i più diabolici, quelli che sono sempre in movimento e si spostano da
una regione all'altra per diffondere la loro cattiva dottrina attraverso un vero e proprio terrorismo
intellettuale, mirando a convincere più gente possibili ed invitandoli a compiere lo stesso atto.
Gli idolatri passivi possono invece limitarsi a copiare quello che vedono fare agli altri indios. embra che
quii gli estirpatori distinguano ancore due tipi di atteggiamento : c'è chi si nasconde deliberatamente
dietro a una vestizione cristiana, ma c'è anche chi giudica conciliabile l'inconciliabile. Nel caso del
Messico l'estirpazione resta un'impresa individuale isolata, mentre nel mondo andino i fautori delle
campagne di estirpazione appartengono all'onnipotente Compagnia di Gesù: una vera e propria
politica estremamente operativa. Essa, infatti, costituisce anche vere inchieste poliziesche, ma il loro fine
primario è l'intimidazione piuttosto che la punizione, poichè anche qui l'idolatria è concepita come una
pestilenza.
Per stirpare con efficacia, occorreprima individuare il nemico. Arriaga si propone, così, di fornire un
inventario preciso e possibili di tutti i casi che si possono presentare all'inquisitore, cominciando dalle
cose che sono adorate dagli indios, ovvero le huacas. Arriaga stende, dunque, una lista di oggetti culto e
li suddivide in huacas immobili e huacas mobili, le quali possono essere distrutte facilmente o
perlomeno possono essere confiscate dai gesuiti. Le huacas immobili, in quanto indistruttibili, possono
solo essere modificate sovrapponendo, per esempio, materiali della presenza di Dio, come le croci.
Arriaga segnala, poi, la differenza tra culti pubblici e culti domestici, i più pericolosi in quanto
difficilmente individuabili. La lotta contro l'idolatria giunge anche nella particolarità di quei nomi propri
degli indios che molto spesso erano accostati a delle divinità: Arriaga si propone, infatti, di rimpiazzarli
con nomi spagnoli e di santi.
E' chiaro che, nella sua applicazione concreta, ogni sistema di controllo deve appoggiarsi su un certo
numero di sanzioni. Gli estirpatori stabiliscono delle pene come, ad esempio, lafrusta, il taglio di capelli,
nel caso degli stregoni dogmatisti, oppure l'incarceramento ed il bando, che prevede il vagabondaggio, la
riduzione in miseria e la futura perdita d'identità.
L'idolatria, infine, languisce fino a scomparire, o quasi, nel XVIII secolo, lasciando spazio al feticismo,
ossia il culto rivolto a oggetti, piante o animali.

VOLTAIRE: il filosofo dedica un lungo articolo sul suo dizionario filosofico alle voci idolo,idolatra e
idolatria. Manipola la nozione in modo da svuotarla del suo contenuto classico e minare così le basi sulle
quali si fonda. Voltaire comincia a restringere il campo dell'idolatria al culto degli idoli e con l'escluderne
i maomettani e la religione dei parsi. Quindi cerca di dimostrare che l'idolatria classica è una falsa
nozione che non corrisponde a nulla e che gli antichi non erano più idolatri di noi. In questo modo
riducendo l'idolatria al culto degli idoli, Voltaire si allontana dalla tradizione illustrata da Las Casas; il
filosofo francese, poi, si interessa così tanto al monoteismo da fare dei messicani e dei peruviani i fedeli
di un solo dio.
Contrariamente ai messicani e ai peruviani, i popoli dell'America australe sono veri e propri selvaggi e
non sono affatto idolatri. Loro, infatti, si rivelano essere dei selvaggi moderni, semplici e pacifici
agricoltori che non si danno a nessun tipo di piacere e sono del tutto atei: è proprio qui che i gesuiti sono
chiamati a portare la parola di Dio, in una civiltà in cui Dio sembra averli del tutto abbandonati. Al
contrario dei secoli precedente, però, la missione dei gesuiti si rivela del tutto rinnovata: il loro obiettivo,
infatti, non è la conversione al cristianesimo, bensì trasformare i selvaggi in esseri umani ed insegnar loro
a vivere in società.

Potrebbero piacerti anche