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Si giunge così alla seconda parte del libro, quella dedicata alla vera e propria “conquista
dell'America”. In questa nuova parte si indaga la sovrapposizione di due interpretazioni culturali
estranee e diverse tra loro, e nel loro incontro il prevalere dell'una sull'altra, dal momento in cui
l'interpretazione spagnola si rivela efficace ad esercitare il suo dominio su ampia scala, più di
quanto quella indiana si mostri capace di resistere ad un'invasione inaspettata e soprattutto non
intellegibile agli occhi indiani.
Nel 1539 Cortès viene scelto dal governatore di Cuba per intraprendere la terza spedizione verso le
coste messicane; nonostante un cambiamento di direttive gli ordinasse di abbandonare la sua
missione, Cortès sceglie di sua iniziativa di sbarcare comunque a Vera Cruz. Quando arriverà a città
del Messico imprigionerà senza difficoltà alcuna il sovrano Moctezuma, ed è proprio
l'atteggiamento di questo personaggio, in contrapposizione a quello di Cortés, a mostrarci quella
impossibilità di dialogo tra due sistemi comunicativi e interpretativi completamente differenti.
Lascia sbalorditi, infatti, la passività con cui il grande sovrano azteco si piega senza controbattere al
volere di Cortés.
Secondo alcuni egli sarebbe stato vittima della cattiva coscienza dell'usurpatore, ha paura che si
realizzi la profezia secondo la quale i discendenti dei toltechi siano tornati a riprendere ciò che – a
loro volta - gli era stato portato via dagli aztechi. Infatti, lo stesso Moctezuma è un oppressore di
popoli, e poiché appare molto più spietato, almeno inizialmente, di quanto non sia Cortés, molti
indiani delle regioni attraversate dal condottiero spagnolo vedono in quest'ultimo un liberatore più
che un oppressore. L'avanzata di Cortés è dunque spianata da questi due elementi correlati tra loro,
che mostrano la disaffezione degli indiani oppressi da un lato e la cieca fiducia negli oracoli da
parte di Moctezuma dall'altro.
Ma ancora non è sufficiente, neppure se addizioniamo a queste basi l'elemento pratico della
superiorità tecnica degli strumenti bellici europei; per trovare le cause profonde della vittoria
spagnola bisogna inserire questi elementi in una cornice più ampia: il sistema di credenze azteco.
Partiamo dal presupposto che la concezione che si ha del tempo deriva da determinazioni culturali
delle diverse società. Se nella mentalità occidentale la storia scorre uniformemente seguendo
un'unica direzione, che è la stessa per ogni umano o essere vivente, per gli indiani il tempo ha una
conformazione circolare e procede per sequenze che, pur presentando piccole variazioni al loro
interno, si ripetono ciclicamente in maniera identica; secondo questa percezione conoscere il
passato permette di conoscere allo stesso tempo presente e futuro: “la profezia è memoria”.
Una visione così strutturata porta a un'immediata interpretazione della realtà quando le circostanze
sono familiari, ma allo stesso tempo non lascia spazio alla novità, all'inaspettato. La lettura degli
eventi per gli indiani è in un certo senso “retroattiva”, le profezie elaborate nel passato sono la
chiave interpretativa per analizzare il presente, e per questo sono così importanti per gli indiani. La
venuta di un popolo sconosciuto in queste terre è un fatto imprevedibile, che non trova riscontro in
alcuna profezia azteca, né in altri episodi della storia indiana, e per questo non è intellegibile, la
parola divina non corre in soccorso.
Gli aztechi si orientano bene nella comunicazione tra uomo e natura, tra uomo e collettività e tra
uomo e divino, ma sono altrettanto inetti sul piano interumano, e sarà questo scarto di abilità nella
comprensione dei messaggi reciproci (tra aztechi e spagnoli), condivisi volontariamente o meno, a
determinare la loro sconfitta.
Gli aztechi non dissimulano mai la realtà a loro vantaggio, per loro mentire è impensabile poiché le
bugie sono severamente punite all'interno della loro società. Il missionario francescano Motolinia
scrive: “Erano gente molto veritiera, e non avrebbero preso la roba d'altri neppure se fosse rimasta
per vari giorni in mezzo alla strada”. Non solo non sanno mentire, ma inizialmente danno per
scontato che anche gli spagnoli siano sinceri, non sapendo che per loro la lingua è uno strumento di
cui servirsi per manipolare gli altri più che per instaurare un dialogo sincero.
A questa apparente incapacità indiana di comprendere il valore delle informazioni fa contrasto
l'abilità di Cortés, astuto e manipolatore, nel servirsi delle informazioni ricevute per colpire il
nemico nei suoi punti più deboli. A differenza degli altri conquistadores, Cortés non si accontenta
dell'oro, “la differenza tra Cortés e quelli che lo hanno preceduto sta forse nel fatto che egli fu il
primo ad avere una coscienza politica, e persino storica, dei suoi atti” scrive Todorov. Egli elabora
una politica di colonizzazione in tempo di pace. Non è avventato nelle sue scelte, la rapidità e la
lucidità delle sue mosse di situazione in situazione denotano il suo essere scaltro e intuitivo. Vuole
comprendere prima di prendere, e fin da subito si cerca un interprete che possa rendere possibile la
sua ardua impresa.
Cortés capisce fin da subito l'importanza di conoscere i popoli che si trova dinnanzi, e crea un
efficiente sistema informativo che gli permette di strumentalizzare le debolezze dell'impero azteco.
A differenza degli indiani, egli instaura una comunicazione interumana, non si serve della parola di
Dio per interpretare le informazioni che riceve, ma utilizza la propria intuizione.
Si può osservare in generale una costante nei confronti tra spagnoli e aztechi: la ricerca
dell'interazione e dell'azione da parte dei primi e la passività e la mancanza di iniziativa da parte dei
secondi. Cortés è molto attento a orientare l'interpretazione che gli indiani danno delle sue parole e
dei suoi gesti. Nasconde le sue autentiche fonti di informazione e la funzione reale dei suoi
strumenti per far credere di avere rapporti con il sovrannaturale: quando gli indiani gli attribuiscono
la capacità di "vedere e sapere ogni cosa" grazie alla bussola e alle cartine, Cortés alimenta la loro
convinzione per ottenere la loro ammirazione. Amministra magistralmente le informazioni,
trasmesse e ricevute, e punisce ferocemente le spie che smascherano i suoi inganni.
Cortés sfrutta con perspicacia le intuizioni indiane, per trasformarsi ai loro occhi in un dio: tentando
fin dall'inizio di penetrare il sistema di credenze azteco cerca in ogni modo di assecondare il sentore
di Moctezuma, che vede in Cortés l'incarnazione del dio Quetzalcoatl, tornato a reclamare il suo
regno come predetto da un'antica profezia.
Per concludere questa seconda parte del libro possiamo recuperare il concetto chiave che attraversa,
sotto diverse spoglie, queste pagine: la comunicazione. Abbiamo visto che il dialogo spagnolo si
instaura sul piano umano, mentre quello degli aztechi è sempre orientato verso il mondo naturale o
spirituale, ciò comporta l'azione dei primi nell'interazione che instaurano, contro l'inerzia dei
secondi, occupati nella contemplazione di una storia che fa il suo corso. La comunicazione
interumana già dai suoi presupposti (azione, comprensione) è vincitrice, ma è insita nella conquista
spagnola la perdita totale del rapporto con il mondo nelle sue altre espressioni oltre a quelle
individuali.
La terza parte del libro si intitola “Amare”, in questi capitoli si sviluppano diversi spunti di analisi:
partendo dalle cause che portano gli spagnoli a distruggere crudelmente il mondo indigeno, si arriva
al dibattito tra uguaglianza e ineguaglianza che si diffonde tra gli studiosi dell'epoca, focalizzando
l'attenzione sulla figura di Las Casas.
Si articola nel capitolo “Comprendere, prendere e distruggere” la trattazione sull'entità e sulle cause
della distruzione portata dagli europei in America. Innanzitutto, è bene sostituire il termine generico
“distruzione” con un altro più specifico, quello di “genocidio”, che ci avvicina maggiormente alla
comprensione della grandezza e della drammaticità di tale evento storico. Nel 1500 in America vi
erano 80 milioni di abitanti, verso la metà del XVI secolo ne restarono 10 milioni. Ben il 90% della
popolazione venne sterminata, e a livello mondiale la popolazione venne diminuita di 70 milioni di
esseri umani.
Il tentativo di sfatare la cosiddetta “leggenda nera” è stato portato avanti per sollevare gli spagnoli
dalle loro responsabilità, ma questa ecatombe è tutt'altro che una “leggenda”. È necessario
riconoscere che nonostante sia vero che molto spesso gli spagnoli non hanno avuto un ruolo diretto
nell'uccisione degli indiani, la loro responsabilità ha agito sotto mentite spoglie, nella forma dei
maltrattamenti e della diffusione di malattie. Infatti, la maggior parte degli indiani è morta per
contagio epidemico o per le pietose condizioni di lavoro imposte dagli spagnoli, e se è logico
ricollegare a questi ultimi la responsabilità indiretta dei morti per maltrattamento, non è altrettanto
scontato individuare il loro ruolo per quanto riguarda i morti di vaiolo. Bisogna infatti considerare
che in moltissime situazioni le cause si andavano a sovrapporre: gli indiani erano molto vulnerabili
alle malattie perché sfiniti dal lavoro e privati della voglia di vivere; molti neonati morivano subito
perché le madri esaurite non avevano il latte per allattarli. Ricordiamo inoltre che gli spagnoli non
fecero nulla per fermare i contagi, e interpretarono il fenomeno epidemico come la volontà divina
che si realizzava in terra per punire gli infedeli e i peccatori.
È difficile dare una spiegazione razionale all'odio e alla violenza che pervadono gli animi dei
conquistatori, senza prendere in considerazione il contesto storico e sociale all'interno del quale si
sviluppano queste vicende. L'oro sembra essere la spiegazione data da Las Casas e da Motolinia per
spiegare il comportamento degli europei. Per Todorov la brama di ricchezza non è certamente una
caratteristica esclusiva dell'uomo moderno, ma lo è il fatto che questa venga anteposta a qualsiasi
altro valore morale. Allo stesso tempo è evidente che le crudeltà perpetrate dagli spagnoli non
possono essere spiegate solo in termini economici. Todorov concepisce una distinzione tra la società
del sacrificio, in cui la volontà e il desiderio individuale sono subordinati a un'ideologia collettiva, e
la società del massacro, in cui i rapporti che costituiscono il tessuto sociale sono così flebili che non
appena ci si allontana dal centro geografico di origine, ogni morale che li tiene insieme svanisce,
dando vita a scenari spaventosi di sopraffazione sugli altri.
Fin dai primi anni dalla conquista si instaurerà un dibattito importante tra la posizione
dell'ineguaglianza, che nasce da un'idea di differenza, e la posizione opposta dell'uguaglianza, che si
fonda su un'idea di identità (tra noi e loro).
L'apice del dibattito viene raggiunto nel 1550 con la controversia di Valladolid, che vede
fronteggiarsi Sepúlveda e Las Casas. Il primo è difensore dell'ineguaglianza, e rifacendosi ai
principi aristotelici espressi nella Politica, afferma che in natura c'è sempre una contrapposizione tra
imperfezione e perfezione, tra male e bene, tra vizio e virtù, e che quindi gli indiani sono per natura
destinati a essere schiavi. Sull'altro fronte, Las Casas è un difensore dell'eguaglianza che si realizza
nell'assimilazione dell'alterità e si fonda sul principio cristiano “ama il tuo prossimo come te
stesso”. Nonostante le sue buone intenzioni, anche Las Casas pecca di etnocentrismo, è lui infatti
che decide il significato della parola “salvare”, ponendo, non meno di altri, la propria
interpretazione della realtà come unica esistente. Vede negli indiani degli esseri puri dotati per
natura di tutte le qualità cristiane, ma è ovvio che si tratta di un'idealizzazione che ci allontana
ancora di più dalla comprensione dell'Altro, configurandosi come la proiezione nel “buon
selvaggio” di un ideale di sé. Scrive Todorov: “ciò che viene positivamente rivelato è solo uno stato
psicologico (buoni, tranquilli, pazienti), come era solito fare anche Colombo; mai una
configurazione sociale o culturale, che permetta di comprendere le differenze”.
Siamo arrivati alla quarta e ultima parte del libro: “Conoscere”. Nel primo capitolo, Todorov
descrive le qualità dei tre assi su cui si struttura il rapporto con l'alterità: il piano assiologico,
relativo al giudizio di valore che formulo sull'altro, il piano prasseologico, relativo al rapporto che
instauro con l'altro, e infine quello epistemologico, su come conosco l'altro. Questi assi non sono
interconnessi tra loro da un rapporto di causa-effetto, ci sono, certo, delle affinità tra essi, ma
nessuna implicazione necessaria li lega. Abbiamo già visto come Cortés conosce gli indiani senza
instaurare con loro un rapporto di affetto, e dall'altra parte come Las Casas ami gli indiani senza
comprenderli in profondità.
Analizziamo ora il lavoro di Durán e Sahagún, due grandi personalità che hanno studiato il mondo
indigeno con la finalità di arrivare ad una conoscenza tale da poter convertire ogni indiano alla
parola di Cristo, ma che nel portare avanti questo progetto sono costretti a loro volta ad assimilarsi
parzialmente alla cultura che studiano, e per questo a cambiare le loro prospettive.
Diego Durán vive in Messico fin dall'infanzia, e crescendo all'interno del mondo azteco avrà una
conoscenza privilegiata e intima degli indiani che gli permette di osservare come questi continuino
a praticare i loro culti senza che gli spagnoli se ne rendano conto, proprio a causa di una mancata
conoscenza della loro cultura. Durán è un domenicano e condivide con i membri del suo ordine una
visione intransigente rispetto al paganesimo e al sincretismo religioso, tuttavia, per quanto possa
apparire paradossale, nello studio della cultura indiana Durán ricerca continuamente delle analogie
tra questa e quella occidentale, e ne trova moltissime, soprattutto in ambito religioso.
Come risulta inevitabile dopo una vita passata a contatto con la società azteca, Durán stesso, da
primo e strenuo oppositore dell'ibridazione tra culture, si trasforma in meticcio culturale, diviene
“un cristiano convertito all'indianismo che converte gli indiani al cristianesimo”.
L'Historia general de las cosas de la Nueva España di Bernardino de Sahagún è un'altra importante
testimonianza sulla cultura indigena di epoca pre-colombiana, si configura come un'enciclopedia
che racchiude tutte le conoscenze raccolte sulla cultura indiana. Sahagún, che vuole essere
completamente fedele a ciò che gli viene riportato dai suoi informatori indiani, decide di scrivere
l'opera in nahuatl (la lingua della popolazione azteca), e solo successivamente aggiungerà una
traduzione libera e farà illustrare il testo per colmare la discrepanza nella traduzione tra il nahuatl e
lo spagnolo, causata da una mancata corrispondenza di concetti e di interpretazioni tra le due
culture. Nel processo di scrittura del testo si ha una trasformazione sia del progetto che l'opera
rappresenta, sia delle idee dello stesso Sahagún in merito alla religione. Infatti, partito dall'idea di
utilizzare il sapere indiano per diffondere la parola di Cristo, finisce per utilizzare le conoscenze
acquisite al fine di conservare la cultura indigena.
Sahagún riporta fedelmente le informazioni che riceve, senza interpretarle, il suo, si potrebbe dire, è
un lavoro di carattere etnografico che rappresenta la base dell'etnologia. Nell'epilogo del suo saggio
Todorov, parlando della sua scelta di interpretare i testi su cui basa la sua ricerca, scrive: “Da
Colombo a Sahagún, quei personaggi non parlavano il mio stesso linguaggio; ma lasciare l'altro
intatto non significa farlo vivere, così come non lo si fa vivere obliterando completamente la propria
voce. Vicini e lontani a un tempo, ho voluto vederli come uno degli interlocutori del nostro
dialogo.”
Con questa citazione dell'autore ci siamo avvicinati all'epilogo, uno spazio di riflessione che
Todorov si ritaglia per portare alle sue conclusioni quest'opera, e per ricomporre in un discorso
complessivo tutti gli stimoli e gli spunti che, aprendo numerose possibilità di dibattito, ha proposto
nel corso del libro.
L'Occidente è riuscito nel suo intento di imporre il proprio dominio sul resto del mondo, grazie alla
capacità di comprendere gli altri, espressa perfettamente dalla figura di Cortés. Tuttavia, il corso
della storia ha smascherato la criminalità del passato europeo, e di fronte all'errore commesso dalla
nostra società dobbiamo reinventare le modalità con cui instaurare le nostre relazioni con l'altro.
“Vivere la differenza nell'uguaglianza”, dice Todorov, è l'atteggiamento sociale e individuale da
intraprendere per non dover più scegliere tra identità o sopraffazione. Egli riconosce che la strada da
percorrere per realizzare un tale progetto a livello collettivo è lunga, ma crede “che prendere
coscienza della relatività, e quindi dell'arbitrarietà, di un segmento della nostra cultura significhi già
modificarlo un poco; e che la storia (non la scienza, ma il suo oggetto) altro non sia che una serie di
tali impercettibili modificazioni.” (con questa frase l'autore concluderà il suo saggio).
Per Todorov è necessario interpretare l'oggetto delle nostre osservazioni, e instaurare un dialogo
vivo con l'alterità, per questo salva tra tutte le altre, solo la figura dell'etnologo, che vede, appunto,
come interprete delle molteplicità nel loro dialogo, e sceglie di prediligere al discorso sistematico
(privilegiato dagli storici in quanto discorso scientifico), un genere che unifichi in se stesso il
discorso narrativo e quello sistematico, che interpreti ma allo stesso tempo lasci parlare le sue fonti.
Sceglie la storia esemplare - come già annunciato all'inizio del libro - non perché crede che
conoscere la storia ci possa indicare come agire nel presente, ma perché “la loro storia (parlando dei
conquistatori), peraltro, può essere esemplare per noi, in quanto ci permette di riflettere su noi
stessi, di scoprire le somiglianze e le differenze: ancora una volta, la conoscenza di noi stessi passa
attraverso quella dell'altro”.
Avendo concluso la rilettura critica del testo di Todorov, vorrei sviluppare una riflessione più
personale sulle questioni che durante la lettura di questo libro mi hanno particolarmente stimolata.
In particolare, ho trovato interessante trovare punti di congiuntura tra La conquista dell'America di
Todorov e altri due autori studiati altrettanto recentemente: Pierre Clastres, e Claude Lévi-Strauss.
Nel confronto tra due tipi di società completamente agli antipodi, infatti, ricorrono analisi che
comunicano tra di loro, sulle origini delle differenze tra le diverse società o su come dobbiamo
valutare tali differenze. Nella terza parte del libro, “Amare”, Todorov propone una differenziazione
tra quelle che chiama società del massacro e società del sacrificio; si tratta di due strutture sociali
completamente diverse: le prime, basate sull'individualità e su valori sociali inconsistenti, tendono
ad uscire dai confini delle loro terre per espandere il loro dominio. Gli individui di tale società
lontani dalla loro terra di origine sono al riparo dal biasimo collettivo e, poiché vivono senza una
salda morale, esercitano il proprio potere individuale sugli altri attraverso la violenza e la tortura,
senza alcuna regola e misura.
Il secondo tipo di società, quella del sacrificio, basa la sua struttura su importanti momenti rituali, a
prova del fatto che la sfera collettiva, legata a quella spirituale, regna incontrastata sull'esistenza
individuale. La morte imposta con il sacrificio ha una sua funzione rituale interna alla società, e
collocandosi in un preciso luogo e in un preciso momento, viene eseguita dinnanzi agli occhi di
tutto il gruppo sociale.
La dispersione geografica dei primi si oppone alla concentrazione territoriale dei secondi; la
coerenza rispetto ai valori della propria società si volatilizza dopo la lunga traversata dell'Oceano
nei primi, mentre rimane profondamente radicata nei secondi. La stabilità e l'equilibrio della società
del sacrificio si contrappone all'instabilità e al movimento della società del massacro. Proprio
quest'ultima opposizione richiama alla memoria l'analisi del famoso antropologo Claude Lévi-
Strauss, il quale fa una distinzione teorica tra società “calde” e società “fredde”. Cito un passaggio
da Razza, Storia e altri studi di antropologia di Lévi-Strauss:
“(...) Insomma, queste società che potremmo chiamare «fredde», perché il loro clima interno è vicino allo zero di
temperatura storica, si distinguono, per il ridotto numero di componenti e per il modo meccanico di funzionare,
dalle società «calde», apparse in diversi punti del mondo in seguito alla rivoluzione neolitica, e in cui il
differenziarsi fra caste e fra classi è senza tregua sollecitato e produce energia e divenire.”
Si tratta di una distinzione più teorica che pratica - lo ammette lo stesso Lèvi-Strauss - e senza
dubbio sarebbe azzardato tentare di incasellare una società stratificata e complessa come quella
azteca nella definizione di società fredda. Tuttavia, c'è una continuità tra le categorizzazioni operate
da Lèvi-Strauss e da Todorov, per lo meno per quanto riguarda la dicotomia tra staticità ed
effervescenza e per le società alle quali si applicano: quella Occidentale e quelle indiane.
Anche Clastres, nel suo saggio La società contro lo Stato, divide le società in due macrocategorie
irriducibili: le società senza Stato e le società statuali; in quanto antropologo politico la sua analisi si
sviluppa a partire dallo studio della struttura sociale e politica, e arriva ad affermare che la
differenza tra società con e senza Stato deriva dalla gerarchizzazione e dall'alienazione del lavoro,
causate a loro volta da un forte aumento demografico interno alla società.
Sarebbe possibile concludere che i tre autori, sotto tre aspetti differenti, quello rituale-morale,
quello metaforico e quello politico-economico, stiano tentando di definire le stesse società
“primitive”, per meglio comprendere, invertendo la prospettiva, la nostra società Occidentale? Le
società del sacrificio, “fredde” e senza Stato hanno in comune, nelle loro definizioni, di esistere in
una storia “gelata”, che non è sottoposta a continue trasformazioni, che non segue le leggi della
linearità, ma si sviluppa su altri piani; il successo di tali società non si misura nei termini del
“progresso”, ma nella realizzazione di quelli che sono i loro principi cardine: uguaglianza sociale e
rapporti funzionali con naturale e sovrannaturale.
Tuttavia, la società azteca sembra continuare a sfuggire all'arbitrarietà di questi discorsi, in quanto è
gerarchizzata ma allo stesso tempo è una società del sacrificio.
La realtà deve essere conosciuta nella sua complessità e nelle sue infinite sfumature, ma non per
questo motivo, credo, bisogna rinunciare al tentativo di creare dei sistemi e delle categorie che ci
aiutino nel lavoro di classificazione e di conoscenza delle società, delle loro strutture e delle loro
trasformazioni.
Vado a concludere con una nota critica nei confronti dell'autore de La conquista dell'America,
l'unica, per la verità, che ho trovato in questo saggio, che ritengo illuminato e appassionante.
Nell'ultima parte della sezione “Amare” del saggio, Todorov si interroga su quale sia il limite tra
l'imposizione di una cultura su un'altra e l'ibridazione culturale genuina che arricchisce le società
invece di distruggerle. In queste pagine l'autore afferma che “esistono aspetti di una civiltà che si
possono definire superiori o inferiori”, e parlando delle novità introdotte dagli europei nel contesto
indiano scrive: “Anche se oggi non sempre si è disposti ad ammettere che certe novità fossero
realmente superiori alle pratiche antiche, e se certi doni li giudichiamo pagati a caro prezzo, è
innegabile che vi furono alcuni apporti positivi: progressi tecnici, ma anche – come abbiamo visto –
progressi simbolici e culturali.”.
Per quanto questi discorsi siano in buona fede e raggiungano efficaci conclusioni, Todorov sembra
cadere in un pregiudizio etnocentrico considerando il progresso tecnologico come un valore
assoluto, valutandolo come - riprendendo le sue parole - un “apporto positivo” in qualsiasi contesto
questo venga portato. È Clastres, questa volta, a venirci in soccorso per comprendere l'origine di un
tale errore, così frequentemente commesso anche dagli studiosi più accorti: il germe
dell'evoluzionismo è radicato nella mentalità Occidentale, la cultura indigena viene sempre valutata
in base a ciò che manca, ma queste mancanze sono relative alle necessità del nostro mondo, non
esistono necessità assolute. In conclusione, cito Clastres ne La società contro lo Stato:
“Se per tecnica si intende l'insieme dei procedimenti di cui si servono gli uomini non tanto per procurarsi il dominio
assoluto della natura (questo vale solo per il nostro mondo e il suo demente progetto cartesiano, di cui solo adesso si
cominciano a misurare le conseguenze ecologiche), ma per assicurarsi una padronanza dell'ambiente naturale adattata e
relativa ai loro bisogni, non è più possibile parlare di inferiorità tecnica delle società primitive, le quali dimostrano
invece una capacità di soddisfare i loro bisogni almeno pari a quella di cui va fiera la società industriale e tecnologica.”