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Francesca Razzetti
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Costituiscono eccezione le tabellae defixionis, le tavolette di maledizione, che sono incise su
lastrine di piombo abbastanza malleabili.
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decifrare i monumenti, ma anche quello, più importante ancora e più difficile da
acquisire, che è indispensabile per interpretare i documenti letti e ricavarne le notizie,
le informazioni che essi contengono”. La decifrazione del testo iscritto, cioè, non è il
fine cui tendere, ma il mezzo necessario per chiarire il messaggio che l’intero
documento veicola e che deve essere compreso anche da chi non è specialista.
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«Assume una precisa connotazione ideologica e psicologica nei confronti
del pubblico quando essa viene letta sulla pietra (si può valutare
indubbiamente il pregio e la provenienza della pietra come dati utili a
considerazioni economiche e persino come coefficiente di misura
dell’intenzione epigrafica, del proposito di tradurre in epigrafe una
storiografia), sul bronzo ovvero – più raramente – su altri metalli (per lo
più usati per oggetti iscritti) e su laterizi: in quest’ultimo caso si tratta
quasi sempre di annotazioni umili, graffite o invece tracciate a fresco,
dove più facile è l’impiego della scrittura corrente. La scrittura su
materiale durevole – pietre, e soprattutto marmi, e bronzo – quindi su
superfici concettualmente eterne, comporta alcuni effetti sul pubblico, che
si possono così elencare:
1. la persuasione dell’importanza della scrittura, che impegna il suo
estensore e tutti i protagonisti che vi sono evocati (una gens, una
respublica, una collettività) alla veridicità di quanto vi si legge ed alla
fedeltà ai valori espliciti od impliciti nel testo, anche in correlazione agli
apparati figurativi e monumentali che eventualmente corredano il
supporto;
2. di conseguenza, il senso di sicurezza che promana dal monimentum e
dalla sua scrittura, proprio perché concettualmente imperituri: la gente sa
di ritrovare in quell’orizzonte quella scrittura, che diviene con ciò un
luogo comune dell’esperienza, cioè del quotidiano, e della memoria;
3. infine, una scrittura su materiale durevole impegna il committente,
l’estensore, lo scriba o scriptor, nonché il lapicida ad un prodotto “di
riguardo”, consentaneo quindi ai sentimenti di garanzia che la scrittura
suscita nel lettore: costui ne è anche il controllore ed il censore, e tutto
deve quindi compiersi perché la scrittura risulti gradevole, perspicua,
corretta, quindi ammirabile.»2
A partire dalla fine del II secolo a.C. il numero delle iscrizioni aumentò
sensibilmente, per varie ragioni: in primo luogo, sicuramente vi fu un forte desiderio
di autorappresentazione sia nell’aristocrazia di Roma sia nelle classi dirigenti
municipali, nel momento in cui la res publica Romana rivelava evidenti segni di
decadimento; inoltre, a fine I secolo Augusto fece dei monumenti epigrafici su pietra
uno strumento di propaganda ad ampio raggio, manifesto di una nuova forma di
governo, della figura del princeps, della famiglia imperiale e della promozione della
sua politica. Si deve ammettere che Augusto di comunicazione s’intendeva molto
bene: per questo diede un forte impulso al messaggio epigrafico, poiché ne aveva
capito l’importanza; non solo Roma, ma anche le altre città, sia italiche che
provinciali, furono letteralmente tappezzate da epigrafi di grandi dimensioni, poste
all’interno dei templi, dei fòri, degli edifici pubblici, per ricordare a tutti il contributo
2
G.C. Susini, Le scritture esposte, in Lo spazio letterario di Roma antica, vol. II, La circolazione
del testo, dir. G. Cavallo, P. Fedeli, A. Giardina, Roma 1989, p. 284 s.
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della famiglia imperiale nelle attività più svariate. Non si dimentichi che Augusto
affidò alla lunga iscrizione nota come Index Rerum Gestarum o Res Gestae Divi
Augusti (“Elenco delle imprese di Augusto”) il proprio testamento politico: un modo
efficace non solo perché in tutto l’impero fossero conosciute le linee-guida della sua
politica e le sue imprese, ma anche per tramandarle ai posteri. È interessante a questo
proposito ricordare che questa autobiografia ufficiale si è conservata quasi
interamente – al contrario di altre opere di Augusto, di cui possediamo pochi
frammenti – proprio perché era stata riprodotta sotto forma di iscrizione in varie città
dell’impero; più in particolare, l’esemplare meglio conservato è stato ritrovato inciso
su marmo nel tempio di Augusto e della Dea Roma ad Ankara (Monumentum
Ancyranum), ovviamente bilingue, cioè scritto sia in latino che in greco a beneficio
delle due componenti fondamentali dell’impero, quella occidentale che parlava in
latino e quella orientale che si esprimeva in greco.
In questo campo, come in altri settori, Augusto lanciò la “moda” delle iscrizioni: in
séguito anche i senatori, i funzionari della classe equestre e dei municipi divennero
ben presto committenti di iscrizioni pubbliche, ovviamente funzionali a esaltare
meriti e carriera di qualche personaggio (iscrizioni onorarie). Presso gli strati più
umili, invece, la consuetudine epigrafica restò sempre legata alla commemorazione
funebre: non bisogna dimenticare che le iscrizioni funerarie antiche sono in assoluto
la tipologia più numerosa che ci sia pervenuta.
Dal I al III secolo d.C. l’incremento della produzione epigrafica fu in generale
notevole; in séguito, con la crisi economica e sociale dell’impero, le iscrizioni
pubbliche diminuirono progressivamente, mentre restarono ampiamente diffuse le
iscrizioni sepolcrali – perfetto esempio di consuetudine pagana che il cristianesimo
ereditò.
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Inoltre, anche la più nota archeologia (almeno al grande pubblico) è debitrice
all’epigrafia per molteplici aspetti: un’iscrizione può infatti fornire moltissime
informazioni sui monumenti più vari, dalla datazione alla destinazione, dai
committenti a eventuali restauri, dalle scene rappresentate alla dedica ecc.;
ovviamente, tutto ciò è tanto più utile in caso di monumenti mutili, mal conservati o
del tutto perduti.
Infine, possiamo considerare ingente anche l’apporto dell’epigrafia alla storia
politica, economica e sociale del mondo antico, nonché alla storia del diritto e delle
religioni (spesso le iscrizioni costituiscono l’unica fonte per la ricostruzione di culti).
Per esempio, un elemento in apparenza privo d’interesse scientifico come un marchio
inciso su un mattone, se correttamente interpretato si rivela prezioso a livello storico:
si è capito, appunto dallo studio dei marchi sui mattoni, che nel III secolo d.C.
l’industria laterizia era posta sotto la diretta gestione imperiale. Oppure, i bolli sui
cocci di anfore rotte depositate in zone di discarica permettono di ricostruire il
commercio di particolari prodotti, provenienti da determinati luoghi, in una precisa
zona (Testaccio) e in un certo periodo. Infine, anche lo studio delle pietre miliari,
ritrovate numerose in tutte le province romane, può rivelarsi di grande utilità per
avere informazioni varie sulla costruzione delle strade nell’impero.
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costituiscono una preziosa fonte non solo per la storia, ma anche per il diritto
romano.
3
Per un elenco completo di abbreviazioni e scioglimenti si può consultare H. Dessau (a c. di),
Inscriptiones Latinae Selectae (ILS), Berlin 1892-1916, rist. 1962, vol. III 2, pp. 752-801. Si veda
anche il sito dell’American Society of Greek and Latin Epigraphy (ASGLE), con l’elenco delle
abbreviazioni curato da T. Elliott nel 1998 (http://www.case.edu/artsci/clsc/asgle/abbrev/latin/).
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precedentemente: si trattava di una sorta di minuta che il lapicida, non di rado
analfabeta, avrebbe dovuto copiare in séguito. Sulla base di questo modello, veniva
poi inciso il supporto (nomina inscribere, nomina scribere et sculpere è definita
l’incisione vera e propria in CIL III 633), tracciandovi con uno scalpello (scalprum) o
con un martello (malleus) un solco che, visto in sezione, appariva di solito a forma di
triangolo ed era ripassato col colore – spesso molto intenso, come ad esempio il
rosso, il verde, l’azzurro – oppure veniva riempito con pasta colorata. Era colorato
anche il campo epigrafico: il monumento epigrafico nel suo insieme, quindi, doveva
apparire molto diverso da come lo vediamo noi oggi.
Talvolta, nel lavoro d’incisione, il lapicida si aiutava con linee-guida, appena graffite
sopra e sotto le lettere, per migliorare la simmetria del testo; successivamente, queste
venivano coperte con adeguata stuccatura, operazione di cui ci si serviva anche per la
correzione di eventuali errori, spesso imputabili a diversi fattori:
in primo luogo al livello d’istruzione dell’incisore;
secondariamente, al semplice passaggio dalla minuta, scritta in corsivo in
scriptio continua su materiale deperibile (papiro, stoffa, anche legno),
all’epigrafe sulla pietra;
infine, più semplicemente, all’iter del testo attraverso più “mani” di operatori
(di solito almeno tre: dapprima lo scriba, poi il preparatore, da ultimo il
lapicida).
Forse per una sorta di horror vacui, gli spazi tra le parole venivano riempiti con dei
segni, con valore puramente separativo e solo in séguito anche decorativo:
inizialmente uno, due o tre puntini posti in verticale, poi un triangolino, in età
imperiale anche foglioline di edera o palmette. Curiosa eccezione – questa – alla
consuetudine scrittoria romana: a partire dalla prima età imperiale, infatti, nella
pratica della scrittura cadde progressivamente in disuso la separazione tra le parole
mediante spazi intermedi o punti (interpuncta), in favore della scriptio continua già
in uso nel mondo greco4.
4
Si vedano a questo proposito G. Cavallo, Testo, libro, lettura, in Lo spazio letterario di Roma
antica, vol. II, La circolazione del testo, dir. G. Cavallo, P. Fedeli, A. Giardina, Roma 1989, p. 334
s. e M. Steinmann, La scrittura romana, in Introduzione alla filologia latina, dir. F. Graf, ediz.
italiana a c. di M. Molin Pradel, traduz. di S. Palermo, Roma 2003, p. 113.
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L’epigrafista esamina e interpreta l’iscrizione nella sua totalità, in modo che essa
possa costituire un documento e sia utilizzabile, grazie a questa esegesi, anche da chi
non è specialista di epigrafia.
1. La prima operazione consiste nell’attento esame del supporto, cioè dell’oggetto
o dell’edificio cui l’iscrizione appartiene: zona di origine, appartenenza, luogo
attuale di conservazione, materiale, tipologia.
2. Esame dell’iscrizione in rapporto al suo supporto: il testo iscritto può infatti
essere accessorio (per esempio se si trova inciso su un muro), oppure è il
monumento a essere subordinato a quanto reca scritto sopra.
3. Lettura del testo iscritto, che com’è ovvio risulta fortemente condizionata dallo
stato di conservazione del monumento; in molti casi è necessario effettuare
preliminarmente alcune operazioni per rendere leggibile il testo (pulitura della
superficie; illuminazione con un fascio di luce posto lateralmente; utilizzo di
un calco, che può essere fotografico, in gesso o anche in carta).
4. Esame della scrittura e delle sue caratteristiche.
5. Contesto dell’epigrafe: luogo e ambiente in cui era stata collocata.
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Vol. II Penisola Iberica
Vol. III province orientali: Egitto, Siria, Asia Minore, Balcani, fino alla Rezia
Vol. IV graffiti e dipinti pompeiani
Vol. V Italia settentrionale (regiones IX-XI)
Vol. VI città di Roma
Vol. VII Britannia
Vol. VIII Nordafrica dalla Libia al Marocco
Vol. IX Italia orientale, centrale e meridionale (regiones III-IV)
Vol. X Italia occidentale, centrale, meridionale (regiones I-II), insulare
Vol. XI Italia centrale a nord di Roma (reg. VI-VII), Pian. Padana merid. (reg. VIII)
Vol. XII Francia meridionale (Gallia Narbonensis)
Vol. XIII province galliche e germaniche
Vol. XIV Lazio a sud e a est di Roma
Vol. XV instrumentum domesticum proveniente da Roma
Vol. XVI diplomi militari (decreti pubblicati a Roma e inviati nelle province)
Vol. XVII pietre miliari
IOUESATDEIUOSQOIMEDMITATNEITEDENDOCOSMISUIRCOSIED
ASTEDNOISIOPETOITESIAIPAKARIUOIS
DUENOSMEDFEKEDENMANOMEINOMDUENOINEMEDMALOSTATOD
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at cibis (= ednois dalla radice indoeuropea *edno) fututioni (= iopetoi) illi (= tesiai)
pacari vis.
Bonus me fecit in manum (=en manom) exitum (= einom da eo, ire), bono ne (e) me
malum stato (= imperativo da sisto o sto).
“Giura per gli dèi colui che mi scambia (cioè “mi vende”), se non è amabile nei tuoi
confronti la fanciulla, / ma vuoi renderti accetto a lei coi cibi a scopo sessuale. / Un
buono mi ha fatto per un buono scopo, che a un buono non derivi da me un male”.
In entrambe le letture qui proposte, il vaso apparterrebbe alla categoria degli “oggetti
parlanti” e l’iscrizione recherebbe indicazioni sul contenuto del vaso stesso; il testo, a
seconda delle varie interpretazioni, è stato considerato una formula magica per un
incantesimo amatorio, una maledizione, oppure un responso oracolare (ipotesi che
spiegherebbe tra l’altro le ambivalenze e le oscurità).
Non vi è accordo tra gli studiosi neppure sulla funzione di questo vaso: potrebbe
essere, infatti, un contenitore per cosmetici, per un filtro amoroso, per bevande
sacrificali, oppure anche un ex voto di ringraziamento.
Si noti infine il probabile gioco sul doppio senso di duenus: sarebbe da intendersi
come nome proprio dell’artefice del vaso (cioè Dueno) e come forma arcaica per
bonus, quindi come aggettivo indicante “una persona perbene”.
Il testo mostra tratti linguistici evidentemente arcaici, anche se non quanto il vaso di
Dueno (vedi XIV. A1): si notino il nominativo singolare alla greca, in –os anziché
–us (Novios Plautios); la –d finale nell’accusativo singolare del pronome personale di
I persona (med per m e) e nel verbo fecit in luogo della –t (fecid per fecit); la
desinenza –ai usata per il locativo (Romai per Romae) e per il dativo singolare (fileai
per filiae).
Un artista di nome Novio Plauzio, quindi, realizzò a Roma la cista che Dindia
Macolnia diede poi a sua figlia; la cista è stata prodotta tra il 350 e il 325 a.C., cioè
appartiene agli anni in cui Praeneste perse la propria autonomia: è significativo,
dunque, che questo bell’oggetto di uso comune, commissionato da una matrona
prenestina appartenente a una facoltosa famiglia, sia stato realizzato a Roma, poiché
evidentemente l’ambiente artistico di Praeneste in quel momento si poteva
considerare già subordinato rispetto al livello della più avanzata metropoli romana.
L’iscrizione è dedicatoria:
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Si tratta di un “oggetto parlante”: a parlare è dunque la fibula, che identificherebbe il
suo artefice e il committente.
Nel breve testo si notano arcaismi linguistici:
- la desinenza del nominativo maschile singolare del prenome in –os, alla
greca (Manios);
- la –d finale nell’accusativo del pronome personale di I persona singolare
(med per me);
- il raddoppiamento verbale del perfetto, anch’esso alla greca (fhe- in
fhefhaked);
- l’assenza di rotacismo (evoluzione di s in r): Numas- => Numer-;
- il dittongo oi- per –o: Numasioi => Numerio.
Questa iscrizione fu ritenuta per molto tempo l’attestazione più antica della lingua
latina e venne attribuita addirittura al VII-VI secolo a.C. Tuttavia, negli anni Ottanta
del secolo scorso, due studi dell’epigrafista Margherita Guarducci5 hanno dimostrato
che sia la fibbia che l’iscrizione sono un falso ottocentesco, ideato e realizzato dallo
stesso archeologo tedesco che presentò l’oggetto su una rivista specialistica romana
nel 1887, Wolfgang Helbig.
[…] IEISTETERAIPOPLIOSIOVALESIOSIO
SUODALESMAMARTEI
[…] Publi Valeri
Sodales Marti
5
M. Guarducci, La cosiddetta Fibula Praenestina, in “Memorie dell’Accademia Nazionale dei
Lincei” 24 (1980), pp. 413-574 e La cosiddetta Fibula Praenestina: elementi nuovi, in “Memorie
dell’Accademia Nazionale dei Lincei” serie VIII 28, 2 (1984), pp. 127-177.
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- la desinenza del genitivo singolare in –osio (Popliosio Valesiosio), una
forma arcaica derivata dall’indoeuropeo, (comparabile per esempio al
genitivo omerico in -oio);
- la forma raddoppiata della prima sillaba del nome di Marte in dativo
(Mamartei => Marti);
- l’assenza del rotacismo (Vales- => Valer-).
La traduzione qui presentata si basa sull’interpretazione di De Simone, secondo la
quale l’iscrizione sarebbe una dedica, incisa sulla base destinata a sostenere un dono
votivo al tempio, da parte di un gruppo di persone, in qualità di amici di Publio
Valerio. Le prime lettere, -iei (-ii in latino classico), potrebbero essere interpretate
come la desinenza del nominativo plurale del gruppo di persone che fece erigere il
monumento: potrebbe trattarsi di un appellativo, un nome proprio o gentilizio;
steterai = steterunt, III persona plurale del perfetto di sisto ("innalzarono",
"offrirono"). Il termine suodales (da suesco) farebbe pensare ai membri di
un’associazione o di una confraternita, probabilmente religiosa6, e sarebbe collegato
al genitivo Popliosio Valesiosio (prenome e nome della gens), cioè dovrebbe
intendersi come “i sodali di Publio Valerio”. Mamartei, infine, è di probabile origine
sabina, provenienza testimoniata anche per la gens Valeria.
L’importanza di questa iscrizione, il cui ritrovamento è relativamente recente, non
risiede soltanto nella sua antichità (fine VI secolo a.C., una delle più antiche del
Lazio), ma anche nel fatto che il personaggio qui citato è stato identificato con il
primo console della res publica Romana, fondata dopo la cacciata di Tarquinio il
Superbo: il Publio Valerio del testo del Lapis Satricanus, secondo questa ipotesi, altri
non sarebbe che il semileggendario Publio Valerio Publicola, vincitore degli Etruschi
di Porsenna e dei Volsci. La realtà storica di questa figura (che ci è nota attraverso il
racconto di Livio, Dionigi di Alicarnasso e Plutarco) è stata a lungo oggetto di
discussione fra gli studiosi, ma il rinvenimento del Lapis Satricanum ne proverebbe
indubitabilmente la storicità.
B. Le iscrizioni funerarie
Le epigrafi tombali si possono suddividere in due tipologie:
1) alla prima appartiene l’iscrizione di fondazione del monumento sepolcrale (titulus
sepulcralis), che si trova in genere posizionata sopra l’entrata della tomba di famiglia
e serve a indicare chi per diritto può esservi sepolto;
2) le iscrizioni sepolcrali individuali, incise su lastre a chiusura dei loculi, oppure su
urne, sarcofagi, basamenti di statue: sono generalmente testi concisi (almeno in
origine, mentre si allungano dall’età augustea), nella maggior parte dei quali compare
il nome del defunto in caso nominativo, da solo, oppure in caso dativo, preceduto
dalla formula introduttiva D(is) M(anibus). Gli epiteti conferiti ai defunti sono spesso
6
Secondo Cristofani, invece, si tratterebbe di un gruppo militare, una consorteria guerriera
composta dai seguaci di Publio Valerio.
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stereotipi e, almeno fino al III secolo d.C., compaiono le funzioni rivestite nella vita
pubblica, ovviamente per chi ebbe un ruolo pubblico.
Dalle iscrizioni funerarie, tra l’altro, possiamo avere informazioni sui nomi delle
persone e delle famiglie, sui sistemi di parentela, sui mestieri, sulla durata media
della vita, sulle condizioni economiche dei defunti: notizie tanto più utili e preziose
se si pensa che spesso ci sono giunte unicamente grazie a questa tipologia di testi,
poiché la gran parte degli archivi pubblici antichi è andata perduta nel corso dei
secoli.
7
Il saturnio è il metro più antico della letteratura latina – tradizionalmente considerato indigeno,
data l’etimologia dal dio italico Saturno – che ha posto innumerevoli questioni, in gran parte tuttora
irrisolte, agli studiosi moderni: sono incerti, infatti, l’origine, la natura, la metrica stessa (di natura
quantitativa secondo alcuni, accentuativa secondo altri); un’ipotesi suggestiva è quella formulata da
Pasquali nel 1936, secondo la quale il saturnio sarebbe in realtà non un verso latino indigeno, ma un
insieme di cola originari della poesia greca e poi associati, a Roma, per formare un verso nuovo. In
saturni furono composti i due primi testi epici latini, l’Odusia di Livio Andronico e il Bellum
Poenicum di Nevio, e i due elogi funebri degli Scipioni. Nell’ultimo caso, la scelta di adottare
questo verso per gli elogia del sepolcro familiare mostra che anche l’aristocrazia romana più
imbevuta di cultura greca intese marcare chiaramente a carattere nazionale questo tipo d’iscrizione,
funzionale a mettere in evidenza e a tramandare la gloria conquistata dalle migliori gentes romane.
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Nella seconda metà del II secolo a.C., cioè all’epoca di Scipione Emiliano, fu
realizzata la facciata monumentale alla moda ellenistica e vi furono inserite le statue
di Scipione Africano, di Scipione Asiatico e del poeta Ennio: il sepolcro diventò
quindi una sorta di museo celebrativo della gloria della famiglia. Nelle fonti antiche,
vi sono diversi riferimenti a questo sepolcro: ne parlano tra gli altri Cicerone (Tusc.
Disp. I 13, 7), Livio (XXXVIII 56, 4), Plinio (Nat. Hist. VII 114).
Gli elogia degli Scipioni, in tutto 11, furono scoperti dapprima a inizio del ‘600 (solo
due iscrizioni), poi definitivamente alla fine del ‘700. L’elogium più antico – come
dimostra la lingua – è quello di Lucio Cornelio Scipione, che fu console nel 259 a.C.
e censore nel 258: incisa sul fianco del sarcofago, questa iscrizione risale
probabilmente al 240-230 a.C. ed è quindi più recente del titulus (non inciso, ma
dipinto in rosso sull’orlo del coperchio), che riporta soltanto il nome e le cariche del
personaggio.
Titulus:
L(UCIO) CORNELIO L(UCII) F(ILIO) SCIPIO
AIDILES COSOL CESOR
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In latino classico:
Hunc unum plurimi consentiunt Romae bonorum optimum fuisse virorum, Lucium
Scipionem. Filius Barbati, consul, censor, aedilis hic fuit apud vos. Hic cepit
Corsicam Aleriamque urbem, dedit Tempestatibus aedem merito.
Traduzione:
“Costui solo tutti a Roma riconoscono sia stato il migliore dei buoni cittadini, Lucio
Scipione. Figlio di Barbato, fu tra voi console, censore, edile. Egli conquistò la
Corsica e la città di Aleria, dedicò un tempio alle Tempeste, a giusto titolo”.
Anche questo testo mostra caratteri linguistici arcaici: si notino honc per hunc, oino
per unum, il genitivo in –ai per –ae (Romai per Romae) (r. 1); optumo per optimo (r.
2); il nominativo alla greca in –os (filios, r. 3); la mancanza delle nasali (cosol per
consul, cosentiont per consentiunt), della geminazione delle sibilanti (fuise per
fuisse), della desinenza –m finale dell’accusativo (Corsica, Aleriaque, urbe, aide).
Alla riga 3 manca la menzione del gentilizio Cornelio: probabilmente la ragione di
ciò risiede non solo nelle esigenze metriche, ma anche nel fatto che questa tomba era
all’interno del sepolcro dei Corneli e dunque era scontato che vi fosse sepolto un
Cornelio. Convenzionalmente, seguono le cariche ricoperte: qui, a differenza del
titulus, sono tuttavia menzionate in ordine decrescente d’importanza, dal consolato
all’edilità; infine, compaiono le sue imprese, da collocare nella prima guerra punica
(264-241 a.C.): come sappiamo dai Fasti triumphales, Lucio Cornelio Scipione
celebrò il trionfo sui Cartaginesi, sulla Sardegna e sulla Corsica, ma nell’iscrizione
non si fa stranamente cenno al trionfo né alla Sardegna. Come ultima notazione, vi è
il riferimento a un tempio fatto costruire alle Tempeste (del mare: venti e tempeste
erano collegati a Nettuno), come ex voto, forse per aver evitato un naufragio o
semplicemente per esprimere la pietas della famiglia; ma di questo tempio non
sappiamo nulla di sicuro, poiché non è documentato da nessun’altra fonte
storiografica.
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Trascrizione in latino classico:
L(ucius) Cornelius Gn(aei) f(ilius) Scipio
Cornelius Lucius Scipio Barbatus
Gnaeo patre prognatus, fortis vir sapiensque,
cuius forma virtuti parissima fuit,
consul, censor, aedilis qui fuit apud vos,
Taurasiam, Cisaunam in Samnio cepit,
subigit omnem Lucaniam obsidesque abducit.
“Lucio Cornelio Scipione, figlio di Gneo.
Lucio Cornelio Scipione Barbato,
nato dal padre Gneo, uomo forte e sapiente
il cui bell’aspetto fu in tutto pari al valore,
il quale fu tra voi console, censore, edile,
conquistò Taurasia e Cisauna nel Sannio,
assoggettò tutta la Lucania e ne trasse ostaggi”.
C1. Che i cittadini di Pompei fossero soliti scrivere sui muri non è un mistero oggi,
come non lo era neppure allora: e qualcuno si prese la briga di personificare una
parete per ridicolizzare questa sorta di “mania” dei Pompeiani:
C4. Accadeva anche di giudicare un candidato per le sue doti non propriamente
politiche:
C(AIUM) IULIUM POLYBIUM
AED(ILEM) O(RO) V(OS) F(ACIATIS): PANEM BONUM FERT
“Gaio Giulio Polibio
vi prego di eleggere edile: fa il pane buono”.
I graffiti sui muri, invece, erano sovente opera della gente comune, generalmente
semianalfabeta, che affidava alla parete i messaggi più diversi, dalle pene d’amore
alle delusioni della vita, dai lieti eventi, come ad esempio una nascita in famiglia, alla
speranza di essere invitati a cena, dai saluti a chi era partito alle annotazioni di
servizio (come i nostri promemoria sui foglietti adesivi). L’intonaco veniva inciso
con la punta di uno stilo o, più semplicemente, con qualsiasi oggetto appuntito si
avesse a portata di mano. È evidente che questo tipo di iscrizioni rappresenta una
fonte fondamentale per la conoscenza del sermo cotidianus o sermo vulgaris, cioè del
latino parlato, che in quanto tale non ci è testimoniato – se non eccezionalmente –
nella letteratura.
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Altri messaggi.
C10. Qualcuno aveva evidentemente lo stomaco vuoto, al pari delle tasche:
QUISQUE ME AD COENAM VOCARIT VALEAT
“Stia bene chi mi inviterà a cena”.
C12. In una taverna pompeiana l’oste ha annotato la data in cui ha preparato le olive
da mettere in vendita:
OLIVA CONDITA
XVII K(ALENDAS) NOVEMBRES
“Le olive sono state messe in conserva il 17° giorno prima delle Calende di novembre
[cioè il 16 ottobre]”.
HIC REQUIESCIT
IN PACE B(ONAE) M(EMORIAE) IOHAN-
NES, QUI VIXIT
PLUS MINUS AN-
NOS XXXIIIII, ET
TRANSIIT SUB DIE
IIII KAL(ENDAS) OCTOBRES
FAUSTO IUNIORE
V(IRO) C(LARISSIMO) CONSULE
“Qui riposa
in pace la buonanima di
Giovanni, che visse
più o meno
35 anni, e
trapassò il
28 settembre
sotto il consolato di
Fausto il Giovane,
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uomo illustre”.
Immagine tratta da Inscriptiones Christianae Italiae septimo saeculo antiquiores, vol. IX,
Regio IX: Liguria reliqua trans et cis Appenninum, intr., ed. e comm. a c. di G. Mennella e G.
Coccoluto, Bari 1995, p. 62.
Si è visto precedentemente (vedi IX. Cenni su abbreviazioni e nessi) che una delle
difficoltà più grandi dell’epigrafista nell’interpretare le iscrizioni consiste nello
scioglimento di abbreviazioni e nessi: ebbene, se queste difficoltà costituiscono una
spina nel fianco per gli specialisti, a maggior ragione si giustifica quanto è accaduto
in relazione a questa lapide. Dalla formula abbreviata B.M., che si deve sciogliere
Bonae Memoriae (in caso genitivo oppure dativo, quindi “di buona memoria” oppure
“alla buona memoria”), è nato un equivoco che ha comportato curiose conseguenze: a
causa dell’errata interpretazione di questa sigla, infatti, si è giunti a scambiare una
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semplice epigrafe funeraria, dedicata a un tale di nome Giovanni – presumibilmente
soltanto un pellegrino –, per un’iscrizione in memoria di un santo martire. Ciò è stato
possibile perché gli eruditi locali (forse qualche sacerdote), nel XVIII secolo, in
un’epoca in cui si conosceva ancora poco del messaggio epigrafico cristiano, lessero
erroneamente la sigla B.M. come Beatus Martir anziché come Bonae Memoriae:
dunque il pellegrino divenne nella memoria popolare un santo, un martire. In quanto
tale, le sue ossa furono dapprima conservate nella piccola chiesa romanica (la
cosiddetta chiesetta “millenaria”) – tuttora conservata – e in séguito trasferite nella
chiesa parrocchiale. La lapide di un martire divenne comprensibilmente motivo di
vanto per la gente del luogo, tanto che a questo beatus Iohannes fu dedicata persino
una festa patronale con processione, che ancora oggi si svolge ogni anno alla fine di
agosto ed è molto sentita dalla popolazione.
La tradizione di questa festa è ormai inveterata, quindi anche gli storici che
conoscono la verità dei fatti non intervengono a rivelare l’arbitraria santificazione,
attuata ad opera della vox popoli – in questo specifico caso non esattamente
coincidente con la vox Dei; dunque Iohannes resta un semplice pellegrino per gli
specialisti, ma un beato martire per la tradizione popolare.
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