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INTRODUZIONE

La papirologia è difficile da definire. Le definizioni che sono state proposte sono tutte soddisfacenti per
alcuni punti di vista ma non per altri. In genere si dice che la papirologia studia la decifrazione di testi greci e
latini tramandati su papiro. E allora cosa distingue questa disciplina di diverso dalle altre?
Che cosa studia la papirologia? La prima risposta sarà papiri. La dizione papiro può essere usata in senso
ristrettivo o in senso lato. In senso restrittivo, con papiro si intende la carta fatta con le strisce ottenute dalla
pianta di papiro, però usualmente usiamo anche il senso estensivo, cioè non sono la charta ma anche altri
supporti sui quali si scriveva, es. pergamena, ostrakon, tavolette cerate. Quindi la papirologia studia i
papiri, intesi anche in senso lato. Una delle differenze rispetto all’epigrafia è che questi testi sono vergati a
inchiostro, non sono incisi. La linea di demarcazione, dal punto di vista scientifico, tra papirologia ed
epigrafia non è sempre chiarissima perché le tavolette cerate possono essere studiate sia da papirologi sia
da epigrafisti. Gli ostraka ateniesi incisi non sono di pertinenza della papirologia, mentre quelli scritti a
inchiostro sì.
Nell’ambito del supporto scrittorio, studieremo testi su supporto papiraceo.
Per quanto riguarda la lingua invece, dalla fine dell’800, quando la papirologia divenne una disciplina di
studio anche nell’ordinamento accademico in Inghilterra, per tradizione la papirologia si intende come
greco-latina, cioè studia testi scritti in lingua greca e latina. In realtà, i testi del Mediterraneo antico erano
scritti non solo in greco e latino ovviamente perché abbiamo anche testi in egiziano (demotico e copto), in
arabo, aramaico ecc… Negli ultimi trent’anni, i limiti della disciplina si sono allargati per cui da greco-
latina, la disciplina si è allargata a testi scritti anche in altre lingue. Noi studieremo testi in greco, non in
latino perché il periodo storico non lo consente.
I testi che studia questa disciplina vengono da:
-Egitto, per ragioni specifiche di conservazione del supporto che le sabbie egiziane consentono, almeno
dove il terreno dell’Egitto è secco, non umido (quindi non sono stati trovati, ad es., papiri a ridosso del
fiume Nilo). Nella Valle del Delta sono stati ritrovati dei papiri ma sono il più delle volte reperti
carbonizzati, come i papiri del distretto bubastite che sono stati carbonizzati in seguito ad un incendio del
232; un altro esempio, sempre nel Delta, sono i registri di Buis, anch’essi carbonizzati. Noi studieremo i testi
di provenienza egiziana non carbonizzati, perché quelli carbonizzati pongono problemi di lettura diversi e
più complessi;
-Ercolano, dove sono stati ritrovati papiri in cinque ambienti della cosiddetta Villa dei papiri. Parte di essa
ancora non è stata scavata; in uno dei suoi ambienti ancora non scavati doveva essere ospitata la biblioteca
di Filodemo. La maggior parte degli studiosi oggi afferma che la villa appartenesse a Lucio Calpurnio
Pisone Cesonino;
-Dafni, in Attica: nel 1982 fu trovato un rotolo in una sepoltura, che si è conservato in condizioni
anaerobiche. Questa sepoltura risale al 430 circa a.C. Questo rotolo, dunque, sarebbe il più antico in
assoluto tra i rotoli scritti in greco nell’antichità. Appena fu ritrovato si frantumò perché si passò
repentinamente da condizioni anaerobiche a condizioni normali di ossigeno. Si tratta di un papiro letterario
ma il suo contenuto non è definibile con assoluta certezza. Sembra che fosse un testo poetico non noto tra
quelli che noi conosciamo. Nella tomba furono ritrovati strumenti musicali quindi sembra che il defunto
fosse un musicista;
-Papiro di Derveni, a nord di Salonicco: fu trovato carbonizzato fra i resti di una pira vicino all’abitato
antico a nord della moderna Salonicco. Anche questo rotolo rimase smembrato in vari frammenti
rimanendo inedito per vari decenni. Solo negli anni 2000 fu pubblicato in edizione definitiva;
-Callapis, antica colonia greca sull’odierno Mar Nero, il Ponto Eleusino dell’antichità. Qui il rotolo fu
ritrovato all’interno di un corredo funebre. Fino al 2011 il rotolo rimase a Mosca per restauro, poi fu ceduto
alla Romania, dove attualmente si trova ed è possibile smembrarlo. Il contenuto non è molto chiaro.
La disciplina studia testi databili a un periodo compreso tra il V sec. a.C. (il rotolo di Callapis) e il IV secolo
(a cui risalgono i rotoli meglio conservati) fino all’epoca araba, quindi successiva al 641, quando l’Egitto
passò sotto il dominio arabo. Dopo questa data, abbiamo ancora testi in greco o bilingui (greco-arabo,
greco-copto) ma il greco in Egitto scema progressivamente. L’arco temporale va dal V sec. a.C. al IX sec.
d.C. Noi studieremo testi della prima età tolemaica, III-II sec. a.C.
Le linee di approccio fondamentali nella papirologia contemporanea sono sostanzialmente due: una si
concentra sulla decifrazione, traduzione ed edizione dei singoli testi  indirizzo editoriale; l’altra linea di
metodologia, invece, tende a focalizzare l’attenzione sulla ricostruzione del quadro in cui questi papiri si
collocano, infatti la papirologia si è rivelata di aiuto per la filologia, la storia, la storia sociale o del diritto e
dell’amministrazione, la paleografia, la storia del cristianesimo, l’archeologia. Il limite di questo approccio
però è che uno studioso non può essere competente in tutte le discipline sopra elencate.
Il dibattito tra questi due approcci, quello editoriale e di sintesi, si può risolvere rintracciando un elemento
comune. Due sono i fattori che devono costituire il minimo comune denominatore: il primo è la capacità di
decifrare la scrittura dei testi greci e latini scritti a inchiostro  il papirologo deve leggere quello che c’è
scritto sul papiro e saper scremare da subito la maggior parte delle proposte di emendamento come
insussistenti; il secondo è il metodo di lavoro: lo scopo di un lavoro papirologico avveduto è quello di
ricavare nuove conoscenze e fare tutto il possibile perché sia garantita l’affidabilità di quelle conoscenze,
quindi se leggiamo qualcosa, non possiamo iniziare subito a formulare ipotesi personali con ricostruzioni
che svaniscono non appena eliminiamo un tassello. Il metodo si caratterizza per essere meticoloso, critico e
autocritico (non ci dobbiamo innamorare delle nostre ipotesi). Bisogna inoltre avere una grandissima
meticolosità con la lingua greca, dal registro elevato a quello più basso, pieno di errori.

CRITERI DI ABBREVIAZIONE DEI PAPIRI


Spieghiamo come funzionano le sigle. Al di là della sequenza numerica, le abbreviazioni dei papiri
presentano due sequenze di lettere, la prima è O. (il più delle volte è ostrakon)/ P. (papiro in senso lato,
quindi non solo testo papiraceo ma anche codice in pergamena) / T. (tabulae).
A volte però con P. può essere segnalato un ostrakon, laddove questo venga pubblicato in miscellanee che
comprendono sia ostraka sia papiri. In questo caso, siccome la sigla deve essere unica, si sceglie comunque
P.

Dopo le prime due lettere, si legge una sequenza numerica.


Esempio 1:
Es: PSI XVI 1609 Istituto papirologico Vitelli inv.96
PSI: Papiri della società italiana
XVI: 16° volume della serie PSI. Il numero di inventario non è il numero di pubblicazione.

PSI I 96 Biblioteca Laurenziana, inv. 12131.

Esempio 2
BKT = Berliner Klassikertexte.
BGU = Ägyptische Urkunden aus den Königlichen (poi Staatlichen) Museen zu Berlin, Griechische
Urkunden.
P.Berl.Frisk = H. Frisk (hrsg.), Bankakten aus dem Faijûm nebst anderen Berliner Papyri, Göteborg 1931.
es.: P.Berol. inv. 21190 = BKT IX 94.
 Se trovo solo il numero di inventario, è troppo difficile cercare il testo. Quindi per citare il papiro
con il numero di inventario, bisogna dare per forza indicazione della sede di pubblicazione del
reperto, es. ed. (cioè ‘edito’) da Tizio e Caio, nell’articolo X, nella rivista Z;
 Se si usa il numero di pubblicazione e non quello di inventario, non bisogna precisare nulla perché
rinviano senza equivoci a singoli testi;
 I numeri di inventario possono cambiare mentre quelli di pubblicazione no. I numeri di inventario
possono cambiare per volontà della direzione della biblioteca, che può decidere di rendere più
pratico il sistema inventariale; possono cambiare anche perché può essere cambiata la cornice in cui
il papiro è conservato;
 Se il papiro non ha un numero di pubblicazione? Un papiro può essere pubblicato non all’interno di
serie papirologiche (come PSI) ma all’interno di riviste, miscellanee o riviste. In questi ultimi casi, i
papiri non hanno un numero di pubblicazione. Per quanto riguarda i documenti, essi vengono
ripubblicati in una silloge costituita da più di 28 volumi, siglata SB (Sammelbuch griechischer
Urkunden aus Ägypten), dove vengono ordinati i papiri pubblicati sparsi in riviste, miscellanee
ecc… (vedi es. 3); per i testi letterari, non esistono sillogi come la Sammelbuch, quindi in questo caso
devono essere citati con num. di inv. e la sede di pubblicazione.
Esempio 3: papiri documentari senza numero di pubblicazione
P.Prag. inv. Gr. I 1 b
ed. F. Reiter, P. Prag. inv. Gr. I 1 b: Kaisereid eines Schmugglers, «Analecta Papyrologica» 14-15 (2002-
2003), pp. 165-171
 Il papiro edito da Reiter è stato poi ripubblicato in SB XXVIII 16838  da quel momento in poi, il
papiro è conosciuto con questa sigla
TM 133355

Raccomandazioni dell’assemblea generale per l’edizioni dei papiri:


1- Quando usiamo le sigle di pubblicazione, dobbiamo citare il volume in numero romano, mentre il
numero progressivo del papiro va in numero arabo. Il numero romano serve perché se eliminato,
rimane solo il numero progressivo, che non ha senso senza sapere il volume della serie. In tal caso,
lo studioso sarebbe costretto a consultare tutti i volumi della silloge per cercare il papiro che gli
interessa. Il numero di inventario individua il papiro all’interno della biblioteca, mentre quello di
pubblicazione all’interno di una raccolta;
2- Come devono essere abbreviate le lettere? Il criterio maggiormente utilizzato prevede che si abbrevi
con la sede di conservazione del papiro, es. P. Koeln è l’abbreviazione che indica i papiri conservati
nella collezione della biblioteca dell’Università di Colonia; altre sigle rinviano al sito antico di
ritrovamento del papiro, es. P. Oxy. indica i papiri ritrovati ad Ossirinco; P. Herc. indica i papiri di
Ercolano; altre sigle ancora possono rinviare al nome dell’editore, es. P. Berl. Frisk, indica i papiri
conservati nella Biblioteca di Berlino ed editi da Frisk.

PRINCIPALI SUSSIDI BIBLIOGRAFICI


Repertori di sigle:
Se ho problemi a sciogliere le sigle, esistono dei repertori dove queste sigle sono elencate. Lo studioso che
scrive deve adeguarsi a questi repertori per essere compreso da tutti.
J.D. Sosin et al. (eds.), Checklist of Editions of Greek, Latin, Demotic, and Coptic Papyri, Ostraca, and
Tablets, https://library.duke.edu/rubenstein/scriptorium/papyrus/texts/clist.html [last updated 1 June 2011]
>> per i papiri greci e latini ma da tanto tempo non sono aggiornati;

P.M. Sijpesteijn, J.F. Oates, A. Kaplony (eds.), The Checklist of Arabic Papyri,
https://www.naher-osten.uni-muenchen.de/isap/isap_checklist/index.html
>> per i papiri arabi
S.P. Vleeming, A.A. den Brinker (eds.), Checklist of Demotic Text Editions and Re-editions, Leiden 1993
(Uitgaven Vanwege de Stichting "Het Leids Papyrologisch Instituut" 14)
>> per i papiri demotici

K.A. Worp, A New Survey of Greek, Coptic, Demotic and Latin Tabulae Preserved from Classical
Antiquity, Pdf Version 1.0 (February 2012), Leiden / Leuven 2012 (Trismegistos Online Publications, 6),
https://www.trismegistos.org/top.php
>> per i papiri in demotico;

Prima del 1980 non c’era un prospetto di sigle unico e quindi dobbiamo andare a vedere il conspectus
siglorum inserito all’inizio di quello specifico volume. Dagli inizi degli anni 80, gli studiosi hanno
realizzato un unico repertorio di sigle.

Documenti:
1)Testi in formato digitale: Sono consultabili a stampa nel momento in cui vengono pubblicati ma già da
molti decenni, i volumi papirologici (quindi non le riviste) furono trasferiti in formato digitale, consultabile
online.la versione digitale è molto utile ma non è sostitutiva dell’edizione a stampa perché non c’è
l’introduzione, la traduzione, il commento ecc… Inoltre, la conversione in formato digitale veniva fatta
rifotografando il testo, cosa che ha prodotto molti errori. Il formato digitale deve essere utilizzato solo per
una prima conoscenza, ma per approfondire lo studio deve essere utilizzata la versione a stampa.
Testi documentari in formato digitale: Duke Databank of Documentary Papyri (DDbDP):
http://papyri.info/browse/ddbdp/

2)Correzioni testuali  c’è la lista delle varie proposte di emendamento ai singoli papiri
– BL I-XIII = F. Preisigke et al. (eds.), Berichtigungsliste der griechischen Papyrusurkunden aus Ägypten, I-
XIII, 1913-2017
– BL Konkordanz = W. Clarysse et al. (eds.), Berichtigungsliste der griechischen Papyrusurkunden aus
Ägypten: Konkordanz, I (voll. I-VII), II (voll. VIII-XI), 1989-2007
– BL Dem.= A. A. den Brinker, B. P. Muhs, S. P. Vleeming (eds.), A Berichtigungsliste of Demotic
Documents,
Leuven 2005 (Studia Demotica, 7)
– BOEP = Bulletin of Online Emendations to Papyri, 2012–,
https://www.uni-heidelberg.de/fakultaeten/philosophie/zaw/papy/projekt/bulletin.html

Per i testi letterari, non abbiamo gli strumenti come per i documenti, ma dobbiamo servirci degli stessi
strumenti della filologia classica.

Repertori bibliografici:
1) Bibliografia generale: BP = Bibliographie Papyrologique: Fichier électronique 1932—2010 (ed. A. Martin et al.),
disponibile su CD-ROM "Subsidia Papyrologica 4.0", Bruxelles 2010; ora
http://www.aere-egke.be/BP.htm
2) Papiri letterari:
– MP3 = Catalogue des papyrus littéraires grecs et latins (Mertens-Pack3),
http://web.philo.ulg.ac.be/cedopal/fr/
– LDAB = Leuven Database of Ancient Books, http://www.trismegistos.org/ldab/
– Chartes, Catalogo dei Papiri Ercolanesi Online, http://www.chartes.it/index.php?r=site/index
3) Papiri documentari: HGV = Heidelberger Gesamtverzeichnis der griechischen Papyrusurkunden
Ägyptens, http://aquila.zaw.uni-heidelberg.de/start
4) Motore di ricerca: http://papyri.info (accesso a HGV, DDbDP, BP, Trismegistos, APIS)
LA MANIFATTURA DEL FOGLIO DI PAPIRO
La carta di papiro veniva prodotta staccando delle strisce dal fusto della pianta di papiro. La produzione
della carta era possibile soltanto dove cresceva la pianta. Rispetto a questo dato, possiamo avere tre
situazioni teoriche:
1) La prima riguarda quei luoghi dell’antichità dove la pianta cresceva e dove era anche prodotta la
carta;
2) La seconda riguarda quei luoghi dove la pianta cresceva, o almeno lo presumiamo, ma dove non
era consuetudine che la carta venisse prodotta; la confezione della carta di papiro, infatti, richiedeva
conoscenze tecniche manifatturiere molto specializzate e quindi serviva una tradizione artigianale
di lunga durata e sembra che questa condizione non potesse essere rispettata in tutti i luoghi;
3) La terza riguarda quei luoghi in cui presumibilmente la pianta non cresceva e non veniva prodotta
la carta.
Dov’è che la pianta cresceva con certezza? Sicuramente in Egitto, nella Valle del Nilo, dove la pianta
cresceva in modo abbastanza abbondante. Attenendoci alla documentazione oggettiva, possiamo dire che
una zona dell’Egitto dove la pianta cresceva era il Delta. Lo sappiamo da una testimonianza diretta di
Strabone, il quale nel XVII libro ci riferisce di aver visto piante di papiro abbondanti nel Delta. Le notizie
che ci riferisce sono notizie di prima mano perché egli visitò l’Egitto fra il 25 e il 24 a.C., al seguito del
prefetto Elio Gallo. Abbiamo, però, anche documenti (molti dei quali conservati nei papiri stessi), che ci
fanno capire che nel Delta esistevano dei centri di produzione ben riconoscibili.
Sappiamo anche la pianta cresceva con certezza nella zona dell’odierno Fayyum, la parte sinistra del Nilo,
una zona molto florida, soprattutto nell’antichità, anche grazie ad interventi di ingegneria adottati durante
il regno di Tolomeo II Filadelfo.
Attualmente nel Delta non crescono papiri allo stato naturale. Sono cresciuti papiri fino al 1820 ca.
Scomparsi i papiri nella Valle del Delta, progressivamente scompaiono anche nella Valle del Nilo. Perché è
andato scomparendo? Non abbiamo risposte certe su questo. Un’ipotesi è che la sua scomparsa sia dovuta
alla sua caduta in disuso. Nei tempi moderni, inoltre, l’aumento dei terreni coltivati abbia comportato un
decremento delle piantagioni di papiro, fino a suggellarne la scomparsa.
Dobbiamo poi considerare poi la Palestina. Sappiamo che la pianta di papiro cresceva lungo sponde del
Lago Tiberiade. Lo sappiamo grazie a Teofrasto. Ancora oggi le piante di papiro crescono in alcune località
di Israele, soprattutto lungo le sponde del Giordano. Data la presenza della pianta, veniva prodotta anche
la carta? Abbiamo il più antico rotolo in scrittura paleo-ebraica che risale all’VIII secolo a.C. Il rotolo fu
sicuramente trascritto in Palestina ma non sappiamo dove quel rotolo fu confezionato. Abbiamo poi anche
un rotolo attualmente conservato al Museo di Mosca, risalente alla 22° dinastia (945-720 a.C. ca.) che
proviene dal Medio Egitto, dall’antico distretto dell’Eracleopolite. Questo rotolo racconta una storia
ambientata sotto Ramesse XI (19° dinastia). Questa storia racconta il viaggio di Unamon, il quale dall’Egitto
si sarebbe recato in Fenicia, portando con sé 500 rotoli di papiro. Ciò vuol dire che in Palestina i rotoli
fossero importati e non prodotti localmente. Il problema però è più complesso di quanto non appaia: il
papiro, che contiene il racconto di Unamon, è stato ritrovato in Egitto e racconta la storia secondo i canoni
della letteratura egiziana, non è infatti un testo originario della Palestina. Unamon si porta dietro il
materiale scrittorio sul quale avrebbe dovuto scrivere, come noi ci porteremmo dei quaderni per scrivere se
intraprendessimo un viaggio. Non abbiamo quindi nessuna certezza che la carta di papiro fosse prodotta o
meno in Palestina. Però, benché la testimonianza del rotolo moscovita non sia decisiva, è assai possibile che
la carta di papiro non fosse confezionata: la Palestina, quindi, rientra nella seconda categoria.
Per quanto riguarda l’Italia, costituisce un problema Siracusa. Talvolta si legge persino che Tolomeo II
Filadelfo avrebbe donato la pianta a Ierone di Siracusa: si tratta di una notizia falsa, senza fondamento che
non ci viene testimoniata da nessun documento. Il primo riferimento incerto alla presenza della carta di
papiro in Sicilia si trova in una lettera di Gregorio Magno, che fa riferimento alla presenza del papiro vicino
a Palermo, non a Siracusa. Il primo riferimento certo, invece, si trova nella descrizione contenuta nella
lettera di un mercante di Bagdad del 972-73, il quale ancora una volta allude alla presenza della pianta a
Palermo. Il papiro continuò a crescere a Palermo fino al XVI secolo. Da quel momento in poi fu trapiantato
a Siracusa, dove tuttora cresce. L’ipotesi è che sia stato importato dagli Arabi, anche perché Plinio ci dice
che la produzione della carta richiedeva l’acqua del Nilo, quindi possiamo dire quasi con certezza che
nell’antichità il papiro non cresceva in Sicilia.
Anche a Ravenna abbiamo dei rotoli documentari di papiro in latino, conservati nell’archivio vescovile
ravennate. Spesso si è detto che essendo stati scritti a Ravenna, questi rotoli sarebbero stati prodotti in
Italia, quindi verosimilmente in Sicilia. Questa argomentazione è stata utilizzata per dimostrare che la carta
di papiro venisse prodotta anche in Sicilia (linea argomentativa circolare). In realtà non è così perché la
manifattura di questi rotoli ci fanno pensare che anzi siano stati confezionati in Egitto.
Allo stato attuale delle nostre conoscenze, l’unico luogo in cui la carta di papiro veniva confezionata è
l’Egitto, che assunse il ruolo di esportatore della carta di papiro in tutto il Mediterraneo. In Egitto la
produzione di papiro fu ingente per rispondere sia al fabbisogno locale sia al fabbisogno dell’intero
Mediterraneo. Il rotolo più antico fu trovato nel 1936 nel deserto di Saqqara in Egitto, all’interno della
tomba di Hemaka, cancelliere del re del Basso Egitto sotto la prima dinastia (3000 a.C. circa). Questo rotolo
è il più antico in assoluto, non scritto ma bianco, che evidentemente fu depositato perché ci si immaginava
che sarebbe stato utile all’anima del defunto nel suo viaggio nell’oltretomba. Chi esaminò il rotolo affermò
che fosse un rotolo di ottima qualità quindi il rotolo era già usato nel 3000 a.C. e gli Egiziani avevano già
sviluppano un’eccellente tecnica manifatturiera.

Prima di parlare della tecnica manifatturiera, partiamo dalle fonti documentarie che possiamo sfruttare per
avere notizie sulla manifattura e utilizzazione della carta di papiro. Tali fonti sono di tre tipi:
1) La prima riguarda l’esame dei papiri superstiti  osserviamo però il prodotto finito, che non ci
informa sulle singole tappe di produzione del medesimo prodotto; questo è ancora più vero se
teniamo in considerazione anche lo stato di conservazione dei papiri, in quanto alcuni sono ben
conservati, altri no ma comunque si tratta di uno stato di conservazione che ne ha modificato alcune
delle proprietà intrinseche rispetto a come la carta si presentava nell’antichità;
2) La seconda è data dagli esperimenti di laboratorio: nel corso dei decenni successivi alla fine della 2
guerra mondiale, si sono succeduti dei tentativi di riproduzione della carta di papiro per cercare di
capire come fosse costruita la carta. Questi tentativi furono fatti soprattutto a partire dai primi anni
70 in più centri sperimentali (Kairo, Siracusa ecc…) e nel corso degli anni furono preparati dei fogli
di carta di papiro con l’intento di valutarne le procedure passo per passo e affinare così le nostre
conoscenze sulla procedura di manifattura nell’antichità. Questi esperimenti sono utili come
controprova ma hanno anch’essi un problema: è un tentativo nostro di fare qualcosa su un
fenomeno che non conosciamo del tutto, applicando delle procedure che rimangono comunque
nostre. La ricreazione moderna per spiegare l’antico è utile ma ha i suoi problemi;
3) La terza fonte è il resoconto diretto lasciatoci da Plinio nel XIII libro della Historia naturalis, in cui si
legge un exursus sulle procedure di manifattura. Da quanto ne sappiamo, Plinio non si recò mai in
Egitto quindi i resoconti che ci dà non derivano da osservazioni di prima mano ma dall’uso di una o
più fonti scritte, di matrice greca. L’uso di una o più fonti comporta però problemi rilevanti di
estrapolazione dei passi, di riuso della fonte che naturalmente noi oggigiorno non siamo in grado di
rilevare ed apprezzare e quindi questo crea dei problemi quando ci addentriamo in passi di non
chiara interpretazione. La questione è complicata anche dal fatto che questa descrizione di tanto in
tanto inserisce osservazioni personali: sono osservazioni di un intellettuale, bibliofilo, che viveva a
Roma ma non sono le osservazioni di un artigiano; quindi, sono osservazioni che non possono
andare oltre il livello personale.
Un altro grande problema nell’analisi del passo è il testo stesso che mescola lessico tecnico e lessico
non tecnico. Quindi ci si chiede quale significato dobbiamo dare a certi termini precisi e perché
l’autore decida di alternare tecnicismi e non. Le frasi sono di solito molto succinte, stringate quindi
molte spiegazioni sono insufficienti. Il resoconto inoltre non procede secondo l’ordine logico che ci
aspetteremmo, perché ci sono continui salti nell’esposizione, infatti, spesso ritorna ad argomenti già
affrontati per aggiungere delle informazioni. Questo ci crea dei problemi al livello di conoscenze
fattuali della manifattura, perché non riusciamo a capire se una spiegazione si riferisca ad
un’affermazione o ad un’altra.
Leggiamo il passo di Plinio:
Per la manifattura della carta di papiro, si utilizzava l’interno della pianta con tessuto vascolare, quindi non
la parte della corteccia o in prossimità della corteccia. La pianta ha una sezione triangolare, quindi la parte
vicino al midollo era la migliore, man mano che ci si sposta verso la corteccia, la carta è di minore qualità.
La parte superiore del tronco, vicino all’infiorescenza, è inutile per la produzione della carta, perché il
contenuto midollare è minimo e la sezione del tronco sulla sommità è ridotta. La pianta infatti diminuisce
progressivamente la propria circonferenza dalla base alla sommità ma per produrre la carta servono
sezioni molto larghe; l’incidenza della parte corticale, di conseguenza, è maggiore e quindi l’estensione
della parte utilizzabile è molto piccola. La parte mediana del fusto è ottima e sicuramente veniva usata
nell’antichità. L’incertezza pertiene alla parte inferiore del fusto perché essa è di sezione molto larga e in
teoria dovrebbe essere ottima ma ci sono dei problemi: 1) sono stati condotti degli esperimenti negli anni
’70, al Cairo, e si è accertato che si trattasse di carta molto leggera, quasi trasparente e molto flessibile,
perciò si è notato che quel tipo di carta sembrava differente dai papiri superstiti tuttavia non siamo in
grado di valutare quanto queste riflessioni siano cogenti, cioè decisive per affermare che nell’antichità la
parte inferiore della pianta non venisse utilizzata. Dobbiamo infatti tenere anche in considerazione il fatto
che lo stato di conservazione altera le proprietà intrinseche del reperto e quindi un confronto con una carta
realizzata in laboratorio non può sussistere; 2) abbiamo papiri arabi che presentano strisce molto larghe:
sono stati realizzati con la parte inferiore della pianta?

Le strisce venivano tagliate con un acus, ‘ago’, ma è molto difficile tagliare delle strisce con un ago,
piuttosto ci aspettiamo l’uso di una lama affilatissima. Quindi o nell’antichità la tecnica artigianale era tanto
raffinata da oltrepassare la nostra immaginazione oppure Plinio sta utilizzando un termine inappropriato.
Sono possibili entrambe le ipotesi.
Il termine latino philyra è un calco sul greco, si usa nella letteratura tecnica greca dell’età imperiale per
designare la membrana sottostante la corteccia di una pianta, in particolare la parte membranosa usata
come materiale scrittorio. Il plurale indica le strisce realizzate con quella stessa membrana.
L’artigiano non deve limitarsi a tagliare la striscia ma deve anche preoccuparsi di tagliare strisce
sottilissime e più larghe possibili (quam latissime). Quam latissime ma aperto una controversia soprattutto a
partire dagli anni ’70: la tecnica del taglio tradizionale prevede che innanzitutto si tolga la corteccia, poi si
tagli verticalmente tutto il fusto. Usando questo sistema però non si può ottenere quel quam latissime di cui
parla Plinio. È stata avanzata per questo anche un’altra ipotesi da Hendriks, il quale ipotizza che la lama in
corrispondenza di A procede orizzontalmente fino al vertice B e poi fino al vertice C per poi tornare fino ad
A; da A si va a B1 ecc… In questo modo si fa un taglio netto ma si procede orizzontalmente sbucciando
tutto il fusto. Sbucciando il tronco in quel modo però ricadiamo in una difficoltà differente e analoga a
quella che ricorre se sbucciassimo il tronco verticalmente: quello che noi otteniamo sbucciando i tre vertici è
una striscia molto molto ampia, che non è attestata nei papiri superstiti.
Il taglio sarà stato quindi in verticale, quindi quam latissime deve essere inteso in rapporto all’estensione
della sezione del fusto che stiamo tagliando.
Per la manifattura della carta, era necessaria l’acqua del Nilo quindi Plinio era perfettamente consapevole
che la confezione avvenisse in Egitto. Perché l’acqua del Nilo? Avrebbe un potere collante, consentendo
l’adesione delle strisce. Le strisce venivano poste sulla tavola bagnata prima verticalmente. Ogni striscia
doveva essere perfettamente accostata a quella precedente e successiva. In secondo luogo, si poneva un
altro strato di strisce in senso perpendicolare a quello sottostante (quindi orizzontalmente). I due strati così
posizionati venivano poi posti sotto una pressa e poi essiccati al sole.
In realtà l’adesione tra le strisce non è data dall’acqua del Nilo né da un’altra sostanza collante ma proprio
il midollo della pianta che posto sotto pressione rilascia una sostanza naturale che consente l’adesione tra le
strisce. Questo spiega perché per produrre la carta di papiro bisogna usare piante fresche. Per la stessa
ragione, bisogna asportare la corteccia perché questa è secca e quindi priva di proprietà collanti.

LA QUALITA’ DELLA CARTA ANTICA E I TIPI DI CARTE


Osservando i papiri superstiti, la carta sembra fragile, ruvida e scura. Questi sono i giudizi qualitativi che
normalmente assegniamo alla carta di papiro antica. Ci chiediamo però se questi giudizi qualitativi sono
corretti o meno. Per rispondere, ci serviamo ancora una volta del testo di Plinio. Alla fine del passo, Plinio
attribuisce alla carta di papiro le seguenti caratteristiche: 1) candor, ‘colore chiaro’, notizia in contraddizione
con l’aspetto dei papiri superstiti >> il colore scuro che osserviamo sui reperti superstiti dipende quindi dal
trascorrere dei secoli, dalla progressiva alterazione della superficie del supporto dovuta allo stato di
conservazione. Anche gli antichi sapevano però che col passare del tempo la carta si invecchiava, infatti
abbiamo una notizia di Dione Crisostomo (I-II secolo), che ci parla dei procedimenti di invecchiamento
artificiale della carta, che si otteneva immergendo il supporto in un composto costituito da sostanze
naturali, dopodiché la carta inizia ad assumere un colore giallino, tipico dell’invecchiamento. Questa
pratica serviva a dare una patina di antichità ad un supporto che era in realtà abbastanza recente. I fogli di
papiro che si trovano in commercio sono assolutamente difformi dalla carta di papiro antica, sia per il
colore sia perché spesso hanno sulla superficie delle screziature marroncine, non sempre presenti nei papiri
antichi. Infatti, sulla base di analisi chimiche, è stato appurato che l’acqua del Nilo è ricca di solfato di
alluminio, che risulta presente anche nei papiri superstiti; la presenza del solfato di alluminio in acqua
determina l’assenza delle macchie. Qualcuno negli anni 70 ha supposto che il problema non dipendesse dal
solfato di alluminio, quanto dalla presenza di un'altra sostanza, il natron. In ogni caso, è il tipo di acqua che
era a disposizione in Egitto che permetteva la produzione di carta non solo chiara ma anche priva di
screziature che ne compromettessero l’estetica. Occasionalmente però capita di trovare papiri che
presentano tali screziature: questo significa che probabilmente ci fossero delle località dell’Egitto in cui
veniva confezionata la carta senza però usare l’acqua del Nilo; 2) tenuitias, ‘delicatezza’ >> capita però di
vedere carte di epoca bizantina che si presentano spesse. Questo però non significa che ci sia stata
un’involuzione nella confezione della carta, per cui in epoca bizantina venissero prodotte carte meno
delicate. Semplicemente possiamo avere caratteristiche diverse, da papiri più grossolani a papiri più fini
anche all’interno dello stesso periodo; 3) densitas, ‘consistenza’, caratteristica vera; 4) levor >> è del tutto
evidente che la carta di alta qualità era estremamente levigata, eppure i reperti superstiti sembrano ruvidi,
ma anche questo dipende dallo stato di conservazione. Anzi, sappiamo che nell’antichità venivano messe
in atto delle procedure per limitare o eliminare il più possibile le asperità. Da quanto ci dice Plinio, infatti, si
usava una conchiglia o una punta d’avorio per levigare il prodotto, una volta essiccato. Spesso si sente dire
che lo strato a fibre verticali opponeva una qualche resistenza al calamo: è assolutamente falso! Infatti, la
carta veniva levigata e lisciata. Laddove ci sono le giunzioni, la communis opinio dice che queste potessero
recare problemi al calamo, ma anche questo non è vero. Quindi la nozione di asperità che noi possiamo
farci ragionando in linea teorica e osservando i papiri superstiti è una considerazione fallace, perché gli
antichi avevano criteri differenti di fattura e si sforzavano di levigare la superficie, questo a prescindere che
il prodotto confezionato fossero davvero come seta.
Ci sono anche altre caratteristiche da attribuire ai papiri ma di cui non parla Plinio: 4) flessibilità ed
elasticità >> la carta antica non era fragile, tutt’altro! Era estremamente elastica e flessibile. Se il rotolo deve
essere arrotolato e srotolato, questo procedimento è possibile solo se la carta è flessibile. Se non lo fosse,
perché gli antichi avrebbero utilizzato per millenni un supporto da srotolare e arrotolare? Non solo il rotolo
grande doveva essere arrotolato ma anche il singolo foglio. Il papirologo Schubart, ad esempio, disse che
era solito far vedere ai suoi studenti come un rotolo ieratico di 3000 anni fa, conservato a Berlino, poteva
essere ancora arrotolato e srotolato, sempre delicatamente; 5) durata >> un assunto moderno è che la carta
di papiro è fragile e quindi è poco durevole, incidendo in qualche misura nella trasmissione nei testi
antichi. In realtà, noi sappiamo da vari indizi che i rotoli antichi potevano rimanere in vita per lunghissimo
tempo. Nel par.83, Plinio dice di aver visto a casa di Pomponio Secondo i libri scritti dai fratelli Gracchi,
quasi duecento anni dopo la loro morte, quanto ai manoscritti del tempo di Cicerone e Virgilio, ancora li
maneggiavano quotidianamente. Questo significa che i Romani erano consapevoli di poter trovare
manoscritti anche molto più vecchi dell’epoca in cui vivevano. Ma ci si chiede allora fino a che punto gli
antichi sapevano datare i rotoli su base paleografica? È un’obiezione del tutto corretta però è difficile
pensare che un intellettuale come Plinio, abituato ai libri, non si rendesse conto se un manoscritto fosse
molto vecchio o recente. In definitiva, non è assolutamente detto che la carta di papiro si deteriorasse dopo
poco tempo. Queste informazioni possono essere conservate dalla documentazione superstite: es. abbiamo
un papiro di Pindaro che fu successivamente riparato con strisce di rinforzo papiracee, su cui si legge una
scrittura del III secolo, quindi di molto posteriore >> questo significa che il papiro si era rovinato ma dopo
esser stato utilizzato per moltissimo tempo e comunque non in modo irreparabile. Abbiamo, inoltre, anche
frammenti di rotoli in cui la scrittura del copista di prima mano è attribuibile ad una certa epoca mentre gli
scoli marginali sono di mano molto più recenti, es. il papiro che conserva l’Encomio a Policrate di Ibico.

Vediamo ora i vari tipi di carte antiche. Plinio ci dice anche come si chiamavano queste carte. Queste
denominazioni di cui ci parla non sappiamo quanto fossero diffuse in tutto l’impero, ma sicuramente erano
in uso a Roma:
1) carta di Augusto: precedentemente chiamata ieratica, perché utilizzata all’inizio solo per i testi sacri,
era una carta esilissima, la sua delicatezza è eccessiva tanto da essere insufficiente a reggere la
pressione del calamo, perché questo rischiava di bucarla; faceva trapassare l’inchiostro da parte a
parte >> è un fenomeno che in un atro contesto storico possiamo constatare, notando che questo
dipende non dalla qualità della carta ma dall’inchiostro: in epoca tardoantica, si diffuse sempre di
più l’inchiostro a base metallica, che è particolarmente invasivo per cui spesso lascia tracce da parte
a parte. La carta di Augusto era talmente esile da risultare traslucida. Questo tipo di carta veniva
utilizzata solo per le lettere, non per la stesura di altri testi che non servissero per la corrispondenza.
Dall’antichità ci sono giunte migliaia di lettere private e pubbliche; quindi, ci si chiede se sia vera
questa considerazione pliniana: le lettere che possediamo sono vergate su fogli di questo tipo, con
queste caratteristiche, o no? La risposta è no! Si potrebbero avanzare varie ipotesi per spiegare
questa contraddizione: questo tipo di carta era in uso a Roma ma non in Egitto, oppure poteva
essere in uso presso intellettuali di altissima elevatura non tra la gente comune perché era troppo
costosa. Possiamo confrontare questo tipo di uso di cui parla Plinio e l’uso che c’era in Europa fino
agli anni 80, cioè la corrispondenza veniva scritta su una carta speciale, esilissima, che facilitava il
trasporto aereo ma che lasciava trapassare l’inchiostro: evidentemente la carta di Augusto era così
esile affinché potesse essere trasportata più facilmente (tesi di Luiselli non dimostrabile);
2) charta Claudia: l’ossatura era realizzata con materiale di seconda scelta (statumen, ossatura). Lo
statumen è evidentemente è il primo strato posizionato da parte dell’artigiano, quindi quello con le
strisce verticali. Questa carta era caratterizzata da uno strato a fibre verticali di seconda scelta. Però,
Plinio ci dice che questo tipo di carta era quella più utilizzata a Roma. Ci poniamo due quesiti: 1)
possiamo dire sulla base dei reperti superstiti se c’è una difformità tra lo strato superiore e quello
inferiore?; 2) è vero che carte di questo genere erano diffuse? La risposta ad entrambe le domande è
affermativa: 1) in molti casi, nonostante lo stato di conservazione sia precario, non è tale da inficiare
la constatazione che le due facce del foglio hanno una qualità differente >> la faccia a fibre
orizzontali è migliore rispetto a quella con fibre verticali; 2) l’osservazione autoptica dei reperti
superstiti dimostra che tale carta era molto diffusa. Non sappiamo però se questa carta veniva
chiamata così anche dalle altre parti dell’Impero, ma la denominazione non è un aspetto così
importante. È importante piuttosto sottolineare che esistessero carte con qualità differenti;
3) teneotica: il nome deriva dal sito di Tenea, vicino ad Alessandria d’Egitto. Lì doveva esistere un
centro specifico di produzione. Se la denominazione non è casuale, a Tenea doveva essere prodotta
una carta peculiare di quel centro di produzione. Questo getta una luce sulla correlazione tra centri
di produzione e qualità della carta. La qualità della carta qui prodotta era decisamente inferiore,
tanto che, come ci dice Plinio, non era veduta in rapporto alla qualità ma a peso;
4) emporitica: è di qualità ancora inferiore tanto da non poter essere utilizzata come supporto scrittorio
ma era impiegata per l’imballaggio dei pacchi.

LA MANIFATTURA DEL ROTOLO DI PAPIRO


a) κολλησις e κολλημα
Come tutti sappiamo, il rotolo fu la forma libraria per eccellenza dal 3000 a.C. ca. al tardoantico, ovvero
fino all’avvento del codice. Ed è proprio sotto forma di rotolo che il papiro veniva venduto nelle botteghe:
gli artigiani, infatti, non mettevano in commercio singoli fogli di papiro ma l’acquirente era costretto a
comprare il rotolo per intero, da cui poi tagliare la sezione che serviva.
Il primo foglio del rotolo aveva le fibre verticali, mentre dal secondo foglio in poi le fibre erano orizzontali,
in modo tale che corrispondessero alle fibre del foglio successivo; quindi, a fibre orizzontali di un foglio
dovevano seguire le fibre orizzontali del foglio successivo. Inoltre, i fogli erano posizionati poggiando il
lembo di uno sul lembo estremo di quello successivo. La linea di giunzione fra un foglio e l’altro si chiama
κολλησις, un neologismo semantico usato dagli studiosi moderni; anticamente infatti indicava l’azione
stessa del congiungere e non il risultato di una sovrapposizione, come si fa oggi. Il termine fu usato per la
prima volta da una famosa papirologa italiana, Medea Norsa, nel 1949 per poi entrare nell’uso corrente solo
negli anni ’70 su forte raccomandazione di Henrik Turner. Questo termine oggi è consueto negli studi
papirologici soprattutto italiani (e francesi), perché gli studiosi non italiani tendono più spesso ad usare un
termine della loro madrelingua.
Tutta la superficie di congiunzione prende il nome di area di sovrapposizione, mentre κολλησις è solo la
linea visibile di giunzione. Come abbiamo già visto, la sovrapposizione tra i due strati del singolo foglio era
data da una pressa che consentiva alla pianta di rilasciare le proprietà collanti, ma più difficile è cercare di
spiegare come venissero incollati gli uni agli altri i singoli fogli, dopo esser stati ormai essiccati e
confezionati. L’ipotesi più verosimile è che per far aderire i lembi si usavano delle colle naturali. Rimane un
dato oggettivo che è piuttosto raro vedere distaccarsi i due strati costitutivi dei fogli; al contrario, può
capitare che le aree di sovrapposizione si distacchino a tal punto che la frammentarietà dei reperti si
osserva spesso proprio in corrispondenza della κολλησις, in cui i fogli spesso si distaccano più o meno
radicalmente. Questo significa che la tecnica utilizzata era diversa.
L’area di sovrapposizione aveva dimensioni abbastanza regolari, in genere 1-2 cm. Occasionalmente, in
Egitto sono state osservate aree di sovrapposizione più ampie, fino a 4-5 cm. All’interno di un rotolo, per
praticità, le singole kolleseis sono designate con k1, k2 ecc… quindi con numerazione progressiva da sx a
dx perché leggiamo papiri in greco e latino che sono scritture destrorse. Se il reperto presenta più kolleseis,
bisogna descriverle singolarmente, numerandole e specificando la distanza reciproca fra le kolleseis. La
successione dei fogli è sempre in modo tale che il foglio di sinistra sia sempre sopra quello di destra, senza
mai alterare la sequenza. Se il committente scriveva scritture con andamento sinistrorso, non si cambiava il
modo di confezionamento del rotolo, ma esso veniva semplicemente ruotato nella direzione necessaria a
seconda della lingua e della scrittura. Quindi in un rotolo greco-latino, la scrittura sarà discendente verso
destra, mentre nei papiri egiziani sarà discendente verso sinistra. Abbiamo però casi in cui il rotolo non
viene ruotato, soprattutto a partire dal III secolo. Abbiamo infatti rotoli con scrittura greca discendente
verso sinistra. Questo perché lo scrivano evidentemente non era di madrelingua greca ed era abituato ad
usare il supporto nell’altro verso. In generale, le kolleseis verso destra si chiamano ‘alla greca’, si chiamano
invece ‘inverse’ o ‘alla egiziana’ se hanno andamento verso sinistra.
Il κολλημα invece è propriamente la distanza tra una kollesis e l’altra. L’ampiezza reale di un κολλημα
deve prevedere anche un’area di sovrapposizione, che laddove possibile deve essere considerata. Non è
però sempre facile riconoscere la kollesis, soprattutto nella parte posteriore in cui è parallela alle fibre. Ma
se riusciamo a riconoscere perfettamente la kollesis, possiamo anche riconoscere l’area di sovrapposizione e
infine calcolare l’ampiezza reale del kollema. All’interno del singolo rotolo, l’ampiezza dei kollemata è
relativamente equilibrata, è raro infatti trovare differenze di ampiezza significative. Il minimo documentato
lo incontriamo nei rotoli di Ercolano, dove sembra che la misura standard dell’ampiezza dei kollemata è di
6-8 cm, quindi un kollema molto stretto; questa misura è molto rara nei rotoli egiziani, dove sembra essere
fra i 16 e i 18 cm. Ma anche i rotoli di Ercolano sono stati prodotti in Egitto, quindi qual è il problema?
Esistono dei reperti di sicura provenienza egiziana che hanno quelle misure minime, quindi, questo rende
non così stupefacente la misura dei rotoli ercolanensi. Ma possiamo avere anche kollemata più ampi, per
esempio ad Ossirinco, sono stati ritrovati rotoli del I secolo a.C. che presentano kollemata persino di 21, 23,
25 cm.
Resta da analizzare quanto poteva essere lungo un rotolo. Chiaramente, le dimensioni da calcolare sono
due, altezza e ampiezza. L’altezza era data dall’altezza dei singoli fogli giustapposti e poteva variare anche
in funzione della moda, da rotoli tascabili a rotoli di altezze considerevoli, fino a 32 cm; l’ampiezza, invece,
era standard. Plinio ci dice infatti che c’erano non più di 20 fogli ogni scaphus. Di per sé, scaphus significa
‘gambo’, ma non ha senso che Plinio intendesse dire ‘non più di 20 fogli ogni gambo’, perché una pianta
non poteva fornire tante strisce per un intero rotolo. Plinio qui starà sicuramente utilizzando scaphus con
significato tecnico, indicando il rotolo arrotolato, chiuso. Le parole di Plinio in ogni caso sono confermate
da osservazioni sui reperti superstiti: i singoli reperti su cui è stato possibile eseguire i calcoli sticometrici
dovevano essere costituiti da circa 20 fogli. Era una lunghezza nozionale però perché se i singoli fogli
hanno una lunghezza variabile, il prodotto reale sarà esso stesso di lunghezza variabile. Se è vero che il
singolo rotolo contiene kollemata di ampiezza relativamente equilibrata, vuol dire che ci sarà differenza di
lunghezza tra rotoli con kollemata stretti e rotoli con kollemata larghi.
b) Προτοκολλον e εσχατοκολλον
Il primo foglio era chiamato προτοκολλον. Il termine è attestato per la prima volta nella Novella 48 di
Giustiniano. Se dal secondo foglio in poi le fibre sono disposte in orizzontale, il προτοκολλον ha invece
fibre verticali, quindi in senso perpendicolare rispetto alle fibre del resto del rotolo. Secondo alcuni, il
προτοκολλον sarebbe un foglio voltato in modo da posizionare la faccia a fibre verticali sul fronte; secondo
altri era un foglio ruotato di 90 gradi in modo che le fibre orizzontali diventino verticali. La faccia
posteriore del προτοκολλον avrà naturalmente fibre orizzontali. Perché il protocollo avesse le fibre
disposte in verticale non lo sappiamo, c’è chi pensa che fosse un foglio ‘di guardia’, cioè che avesse
funzione protettiva. In genere, sul προτοκολλον non si scriveva, eccezionalmente possiamo trovare scritto
il titolo. Potrà essere scritto quando il rotolo viene riusato.
L’ultimo foglio del rotolo, invece, aveva forse già nell’antichità, aveva il nome di εσχατοκολλον, termine
attestato in Marziale. Nell’ultimo foglio, le fibre come erano disposte? Quasi mai abbiamo l’assoluta
certezza che l’ultimo foglio conservato nel rotolo superstite sia effettivamente l’ultimo foglio del rotolo
originale. Sembra esserci però in qualche papiro di Ercolano, che ha fibre parallele alle fibre dei fogli
precedenti.
c) Struttura della κολλησις
L’analisi dei reperti superstiti ci ha permesso di constatare che la κολλησις poteva essere a 4 o 3 strati. Il
caso più semplice è quello della κολλησις a 4 strati. Osserviamo l’immagine: il foglio A di sinistra si
appoggia sul foglio B; la linea continua verticale rappresenta la linea di giunzione, la κολλησις, mentre la
linea tratteggiata vuole rappresentare la κολλησις sul lato opposto, che frontalmente non si vede. Lo spazio
tra le due kolleseis, quella nello strato superiore e quella nello strato inferiore, individua l’area di
sovrapposizione. Se ogni foglio ha due strati, la sovrapposizione tra i due fogli, porta ad una successione di
4 strati nell’area di sovrapposizione.
Nella κολλησις a 3 strati, invece, non abbiamo la successione di fibre orizzontali-verticali-orrizzontali-
verticali ma le fibre orizzontali di A si sovrappongono ai due strati di B: il risultato è una sovrapposizione
di tre strati. Il foglio di sinistra che si va a sovrapporre al successivo, infatti, è stato privato di una striscia di
fibre verticali nello strato sottostante. Non sappiamo se al momento della manifattura del singolo foglio
non venisse prodotta una parte minima di fibre verticali nella consapevolezza che quel foglio sarebbe
andato a congiungersi con quello successivo, oppure una porzione di fibre verticali veniva
intenzionalmente staccata dagli artigiani dopo la manifattura.
Fino alla metà degli anni 70, la kollesis a tre strati non si conosceva finché si osservò che ispezionando la
struttura interna delle kolleseis, gli strati spesso erano 3. Si può constatare in due casi: 1) quando si trovano
delle aree di sovrapposizione parzialmente fratturate e allora i punti di frattura permettono di capire la
struttura interna; 2) se non ci sono punti di frattura, bisogna manomettere la kollesis e aprirla ma si cerca di
non farlo perché si danneggia il manufatto. Questo vuol dire che c’è un’infinità di casi di papiri superstiti
che non possono essere verificati.
Le indagini condotte sui reperti superstiti hanno permesso di constatare che la κολλησις a tre strati si trova
in supporti apparentemente non di riuso. È molto probabile quindi che i libri venissero confezionati con
kolleseis a tre strati; se ciò è vero, ci dovremmo aspettare kolleseis a tre strati in tutti i papiri confezionati
nell’antichità, ma quella a 4 strati è riscontrabile in casi in cui sezioni di supporto sono state riutilizzate per
creare supporti più lunghi. Come noi poniamo i fogli in cartelle, una sopra l’altra, nell’antichità la prassi era
quella di congiungere una carta scritta all’altra così, sovrapponendo i vari fogli originariamente
indipendenti, si creano delle kolleseis secondarie che sono spessissimo a quattro strati. Tuttavia, le kolleseis
a 3 strati di solito aderiscono molto meglio rispetto a quelle a 4, perché la kollesis a 4 strati è realizzata
dall’utilizzatore del rotolo, che sicuramente era meno attento e meno esperto dell’artigiano.
d) Recto e verso
Recto e verso designano realtà dedotte dall’osservazione dei manufatti. Quando ancora non siamo sicuri
quale delle due facce sia il retto o il verso, bisogna usare un’altra terminologia: faccia perfibrale, con fibre
orizzontali, e faccia transfibrale con fibre verticali. È una terminologia descrittiva dei fatti di fatto, non è
interpretativa. La faccia perfibrale coincide con l’interno del rotolo avvolto, nella quale le kolleseis passano
in maniera perpendicolare alle fibre, ed era la faccia scritta per prima; la faccia transfibrale costituisce
l’esterno del rotolo, in cui le kolleseis scorrono parallele alle fibre. Quindi in un rotolo, il recto è la faccia
perfibrale, il verso è la faccia transfibrale, scritta solo in contesto di riuso.
Come si fa a capire recto e verso quando abbiamo un foglio staccato dal rotolo, in particolare quando
abbiamo un frammento? Un rotolo in cui solo il recto è trascritto, è avvolto verso l’interno; quindi, sarà
abbastanza facile distinguere il retto dal verso. Se però il rotolo veniva riutilizzato e quindi trascritto anche
nel verso, il rotolo continuava ad essere arrotolato con il recto all’interno oppure veniva rigirato in modo da
avere all’interno il verso? Solo in pochissimi casi, possiamo dare una risposta, cioè solo quando abbiamo un
rotolo avvolto e gli studiosi al momento della scoperta sono bravi ad annotarsi quale testo era trascritto
all’interno e quale all’esterno. Non è infatti possibile capirlo se il papiro si presenta disteso. Solo in due casi
è stato possibile farlo: 1) il papiro Vat. Greco 11: esso presenta sul retto un lungo registro di beni immobili
confiscati e dati poi in locazione; il retto reca come data il 20° anno del regno di Settimio Severo, ovvero il
213-14 a.C. Nel verso invece si legge il Περί φυγῆς di Favorino, la cui trascrizione non può essere avvenuta
prima del 213, che diventerà dunque un terminus post quem per la datazione del verso. I papirologi Morsa e
Vitelli annotarono che il rotolo fu trovato con il verso all’interno in posizione finale di lettura: in altre
parole, il rotolo era stato riarrotolato per avere il verso dentro, dato che era il testo sul verso a dover esser
utilizzato ed aveva più senso arrotolarlo verso l’interno per proteggerlo da eventuali danni; tuttavia,
evidentemente l’utilizzatore, una volta letto l’intero rotolo, arrivato fino alla fine, non si era preoccupato di
rimettere in ordine il supporto, lasciando perciò l’inizio del rotolo arrotolato al centro mentre il lato finale
rimaneva aperto; 2) il papiro Bodmer 1, in cui si legge un documento sul retto e Iliade, V sul verso.
L’editore scrisse che il verso era all’interno ma in posizione iniziale di lettura. Traiamo un duplice
insegnamento: 1) se un rotolo uscito dalla bottega ha sempre il retto all’interno ma poi si può cambiare
l’ordine di arrotolamento, vuol dire che la carta ha un’estrema flessibilità (se provassi a cambiare
l’arrotolamento della carta attuale, non sarebbe affatto facile); 2) quando dico che il recto designa la faccia
all’interno del rotolo presuppongo che quella faccia sia all’interno nel momento del primo utilizzo perché
in un contesto di riuso, all’interno viene arrotolato il verso, non il recto.
Se non abbiamo un rotolo intero ma un frammento come facciamo a distinguere recto e verso? L’unico
criterio certo, incontestabile per distinguere un recto e un verso è la presenza della kollesis. Se nel
frammento che stiamo esaminando, vediamo una kollesis, allora il modo in cui corre la kollesis rispetto alle
fibre ci dice se è recto o verso. Se la kollesis passa parallelamente alle fibre, quella faccia sarà un verso, se
passa perpendicolarmente sarà un retto. Se la kollesis non c’è, questa certezza assoluta viene meno e
bisogna affidarsi ad altri criteri che non sono altrettanto fededegni: 1) direzione della scrittura rispetto alle
fibre: nella nozione di recto e di verso di un rotolo, è implicito che sul recto la scrittura passa parallela alle
fibre, sul verso corre contro le fibre stesse. Questo criterio vale fino a un certo punto perché in contesto di
riuso il supporto veniva utilizzato secondo le necessità del momento senza regole ben precise; 2) differenza
di età tra le due facce: se per avventura ho sulle due facce testi che sono datati o databili, posso stabilire con
esattezza quale faccia è stata scritta prima e quale dopo; 3) criterio paleografico: in assenza di date,
possiamo cercare di datare il manufatto analizzando la scrittura ma anche questo criterio non è oggettivo
perché le datazioni paleografiche possono essere fraintese anche da studiosi di primissima levatura e poi
perché non è in grado di rilevare solo differenze di datazione tra le due facce del foglio molto grandi, in
quanto solo su base paleografica, le differenze in datazioni al di sotto dei 30 anni sono impossibili da
notare; 3) differenza di rifinitura materiale delle facce: per esempio nella carta claudia, il grado di rifinitura
del verso è inferiore. È un criterio estremamente fallace però, ecco perché è una considerazione che va fatta
alla fine. Se non ho nulla su cui basarmi, non posso avvalermi esclusivamente di questo criterio perché è
vanificato in parte dallo stato di conservazione del supporto e dalla soggettività dello studioso; 4)
completezza dei testi: ho un foglio e devo riutilizzarlo ma non mi serve tutto, quindi tolgo la parte che non
mi serve. Il risultato sarà che su una faccia trovo un testo incompleto e sull’altra lo troverò completo. Il
testo incompleto sarà sul recto, mentre quello completo sul verso. Questo criterio è utile ma se il frammento
non reca nessuno dei due testi completi, il criterio non può essere adottato. Poniamo il caso che entrambe le
facce sono state scritte in senso perfibrale (quindi una faccia è stata ruotata), su una faccia c’è un testo
letterario, sull’altra un documento: uno dei due testi era originariamente più lungo, in genere il testo
letterario, per cui non è possibile che sia stato vergato su un testo di riuso. Ma non è detto che il testo
letterario sia stato copiato in esteso e non sia un excerptum.

I SEGNI DIACRITICI PAPIROLOGICI


Il sistema dei segni diacritici papirologici si chiama ‘sistema di trascrizione di Leiden’, perché fu messo a
punto da una cerchia di papirologi in una riunione tenutasi al 18° congresso degli orientalisti a Leiden, 7/12
settembre 1931. Prima non esisteva un sistema unificato di segni diacritici, perciò, ogni studioso doveva
fare ricorso al conspectus siglorum, messo all’inizio dell’edizione. Si sentì quindi l’esigenza di creare un
sistema unico, che dopo la sua approvazione, fu pubblicato in molte riviste.
Il processo di lettura implica due fasi, ciò che l’occhio vede e ciò che la mente rielabora. Sono due fasi che
dialogano fra di loro. I segni diacritici in linea di massima afferiscono o al primo settore o al secondo.
Alcuni segni infatti cercano di riprodurre il dato oggettivo quasi in modo fotografico, altri invece sono
riconducibili nettamente all’intervento soggettivo dell’editore.

LE DIVERSE TIPOLOGIE DI EDIZIONI PAPIROLOGICHE


1)P. Oxy. LXIV
A sinistra abbiamo una tipica trascrizione diplomatica. Le sue caratteristiche sono:
a) Le parole sono riportate in scriptio continua, perché lo scopo è primariamente quello di fotografare lo
stato in cui si presenta il testo nel manoscritto; quindi, cerca di riprodurre quello che si vede, privo e
privato di ogni intervento critico da parte dell’editore. Non si possono aggiungere neanche spiriti e
accenti, che noi ereditiamo dall’età bizantina, ma si segnano solo quelli che troviamo segnati sul
papiro, senza aggiungerne di nuovi. Questo consente allo studioso moderno di verificare il
comportamento di ciascun manoscritto rispetto alla punteggiatura senza dover ricorrere
all’originale. Questo tipo di trascrizione inserisce anche il dicolon (il doppio punto), che si osserva al
r.48, usato nell’antichità per indicare propriamente una pausa; questa pausa poteva caratterizzarsi
in modo differente a seconda del testo, nei testi teatrali la pausa è la fine di una battuta. Per quanto
riguarda le lacune, esse non sono integrate perché non si trascrive nulla che sia congetturale. In
alcune lacune, troviamo spazi vuoti mentre in altri casi, si trova solo il sottopunto: questo perché in
alcuni casi non è possibile dire approssimativamente quante lettere c’erano, in altri casi invece sì.
Possiamo trovare anche indicazioni numeriche es. [3-4]: in questo caso l’ampiezza della lacuna non
è troppo ampia, ma neanche troppo ridotta da poter dire con esattezza quante erano le lettere
mancanti; quindi, l’editore preferisce dare indicazioni di massima. Mancano poi le parentesi tonde,
nonostante la presenza di abbreviazioni, es. r. 29 dove si legge Swstratos abbreviato ma viene
trascritto semplicemente con σωστ e ρ in apice, cioè si segna solo il modo in cui le parole sono state
abbreviate e non il modo in cui le abbreviazioni devono essere sciolte. Inoltre, siccome gli antichi
non usavano le maiuscole per i nomi propri, altrettanto deve fare l’editore nella trascrizione
diplomatica. Non ci sono parentesi uncinate e graffe, perché le prime servono per le integrazioni e le
seconde per le espunzioni, quindi in entrambi i casi abbiamo interventi congetturali che devono
essere evitati in una trascrizione diplomatica, a prescindere che la congettura sia probabile, quasi
certa o plausibile. Al r.32, si osserva la doppia parentesi quadra, che racchiude una lettera cancellata
dal copista nel manoscritto originale.
Passiamo ad analizzare la trascrizione a destra, che è una trascrizione interpretativa. Essa accompagna
sempre la trascrizione diplomatica ma ha un’altra finalità, cioè fornire una interpretazione del testo
secondo la sensibilità dell’editore:
b) Le parole sono staccate e vengono segnati regolarmente i segni diacritici (spiriti, accenti, apostrofi,
punteggiatura). Non vengono evitati gli interventi congetturali, infatti, le lacune sono integrate. I
nomi dei personaggi sono segnati in forma abbreviata con lettere maiuscole. Le pericopi di testo
nell’interlinea, nella trascrizione interpretativa, vengono reinserite, es. r. 40: nell’interlinea nella
trascrizione diplomatica si legge μοσκοs, nella trascrizione interpretativa viene segnato MO., cioè
con le prime due lettere puntate, secondo la consuetudine moderna. Se nella trascrizione
diplomatica, non si legge la nota personae, nella trascrizione interpretativa deve essere inserita tra
parentesi uncinate, perché è una congettura, es. r.42. In altri casi, la nota personae è fra parentesi
tonde, mentre nella trascrizione diplomatica c’è il dicolon, che segnala il cambio di battuta. Nella
trascrizione interpretativa, inoltre, la presenza delle doppie parentesi quadre è affidata alla scelta
dell’editore; in questo caso, l’editore non ha voluto riprodurre un errore che era già stato cancellato
dal copista antico e che era stato già segnalato nella trascrizione diplomatica. In genere però nelle
trascrizioni interpretative, le doppie parentesi quadre vengono comunque trascritte.
2) P. Oxy. 2364, vol. XXIII
r.13, l’editore cerca di supplire la lacuna: ritiene che il segmento stratag- fosse certo, ma non sapeva quale
terminazione vi fosse esattamente nel testo e allora non completa la parola. Nella trascrizione
interpretativa, la lacuna viene segnata solo alla fine ma non all’inizio: l’editore, infatti, si è accorto che la
lacuna corre ad inizio di verso senza obliterare nessuna lettera o parola e quindi non c’è bisogno di
segnarla. I punti che troviamo all’inizio non indicano lettere incerte ma frattura nel supporto: nei testi
letterari è prassi indicare sempre il grado di conservazione di una colonna, quindi se una colonna è
conservata nella parte superiore o inferiore per intero, allora bisogna scrivere ‘margine’; se invece la
colonna è mutila, allora si deve indicare necessariamente la presenza della frattura per far capire al lettore
che il primo rigo conservato, non è il primo rigo dell’originale. Nella serie dei papiri di Ossirinco, la
frattura viene indicata con dei punti. In sedi diverse, si usano sequenze di lineette orizzontali (come si fa in
Italia e Germania). In calce, c’è l’apparato paleografico di consultazione, in cui l’editore spiega le tracce
incerte. Es. fr. 1: r.1, poi si legge il lemma, in questo caso è .[, che indica una traccia puntiforme sul rigo di
base, che è l’unica cosa che sopravvive della lettera originale. È prassi descrivere in modo accurato e
oggettivo le tracce superstiti, che però non sono identificabili immediatamente in assenza del contesto. Non
tutti gli editori però adottano questo sistema: in fondo, anche questi elementi di descrizione non sono
oggettivi perché una descrizione è già di per sé un’interpretazione del dato oggettivo; inoltre, quando si
legge un originale bisogna utilizzare il microscopio bioculare quindi ciò che ha potuto vedere l’editore in
fase di studio con il microscopio deve essere tenuto in seria considerazione, visto che non sempre è
possibile osservare il papiro di persona.

3)P. Oxy. LXIV, 4414


È una trascrizione semidiplomatica: ha alcune caratteristiche della trascrizione diplomatica e alcune
dell’interpretativa. Come vediamo, non tutte le lacune sono supplite, nonostante sia un testo che ha
tradizione medievale: si integra ciò di cui si è certi, ma alcuni testi hanno una tradizione manoscritta
particolarmente complessa e quindi non sempre può essere d’aiuto per integrare le lacune del papiro.
I punti separati indicano frattura, mentre top e foot indicano i margini.

4)P.Oxy. LXIII, 4353


Le parole sono staccate, troviamo accenti, spiriti e punteggiatura. Sono indicati anche gli interventi
congetturali. Le abbreviazioni vengono sciolte ma la loro presenza viene segnalata in apparato. l.=lege,
‘leggi come…’. È una trascrizione interpretativa ma gli errori si mantengono per essere corretti in apparato,
quindi l’esatto contrario a ciò a cui siamo abituati.

Quando si usano le diverse edizioni?


La trascr. diplomatica da sola o accompagnata dall’interpretativa: testi letterari non noti da tradizione
diretta medievale, come poesia lirica, Menandro, il Catalogo di Esiodo.
La t. semidiplomatica: testi letterari noti da tradizione diretta medievale, come Apollonio Rodio, Omero,
Tucidide, Platone ecc…
La t. interpretativa ma con apparato del 4° esempio, quindi né diplomatica né semidiplomatica, si usa solo
nei documenti.

LA TERMINOLOGIA PALEOGRAFICA
Dobbiamo capire la distinzione tra scrittura normale e non. La scrittura normale (da “norma”) comprende
le forme ideali alle quali consapevolmente o inconsapevolmente tendono ad uniformarsi gli scriventi.
Essendo forme ideali, non le troviamo nella documentazione scritta. La realtà grafica è quel grande bacino
che raccoglie tutte le manifestazioni storiche delle scritture, che sono poi quelle con cui ci confronteremo.
Nel descrivere i fenomeni grafici, bisogna tenere presente tre aspetti:
-forme esteriori: noi possiamo studiare le singole scritture tenendo presenti le caratteristiche esteriori delle
lettere;
-le esecuzioni: i fattori connessi con l’azione dello scrivere;
-i rapporti fra le lettere, quindi le lettere considerate nella loro concatenazione.
La forma è il disegno esteriore, l’aspetto con cui la lettera si presenta: la lettera può avere un aspetto rigido e
angoloso (es. l’alpha) oppure morbido e curvilineo (il sigma lunato).
Il modulo fa riferimento alle dimensioni delle lettere. Le dimensioni possono essere considerate sia in termini
assoluti, cioè il rapporto che intercorre tra la base e l’altezza delle lettere, sia in termini relativi. Se
l’ampiezza della base sarà più o meno uguale all’altezza, avremo una lettera dal modulo quadrato, cioè
essa sarà iscrivibile in un quadrato; se la base ha dimensioni inferiori rispetto all’altezza, avremo una lettera
dal modulo rettangolare; se invece la dimensione minore coincide non con la base ma con l’altezza, la
lettera non è compressa lateralmente e protesa in altezza ma in larghezza. Considerando il modulo in
termini relativi, ci si chiede quale sia, nella concatenazione grafica, il rapporto modulare tra una lettera e le
altre scritte dalla medesima mano: se tutte le lettere hanno lo stesso modulo, es. quadrato, la scrittura si dirà
unimodulare. Una scrittura a contrasto modulare sarà invece una scrittura in cui le lettere hanno modulo
differente, es. alcune di modulo quadrato e altre di modulo rettangolare.
Il tratteggio in Italia è il numero, la successione e la direzione dei tratti costitutivi di ciascuna lettera. Es. un’alpha
greco si presenta costituito da tre tratti; il primo tratto è la diagonale sinistra, il secondo il tratto mediano, il
terzo è la diagonale destra >> in tempi moderni esistono molteplici soluzioni differenti, quindi può
cambiare la successione, nell’antichità no!; anche sulla direzione, vi erano delle consuetudini costanti,
perciò la prima diagonale di alpha veniva tracciata in senso discendente, da destra verso sinistra, il tratto
mediano da sinistra a destra, la seconda diagonale in senso discendente da sinistra a destra.
Il ductus in francese viene usata con un altro significato, per cui spiegheremo il suo significato nella
terminologia paleografica italiana. Es. nella realizzazione dell’alpha in tre tratti, lo scrivente prende il
calamo, lo poggia in alto per tracciare la diagonale sx; arrivato alla fine, solleva il calamo e lo va a poggiare
a metà per tracciare la barra centrale con andamento destrorso; solleva di nuovo il calamo e lo va ad
poggiare all’apice della diagonale precedentemente tracciata e con andamento obliquo destrorso, traccia la
seconda diagonale. Nella pratica della scrittura, non è detto che alla fine dell’esecuzione del tratto
costitutivo di ogni lettera il calamo si sollevi. Es. Beta realizzato prima a quattro tratti, poi a tre >> il calamo
si poggia in alto per realizzare il primo tratto ma arrivato alla base della verticale, non solleva il calamo ma
traccia con andamento destrorso la base  i primi due tratti del beta vengono fusi in un’unica sequenza;
poi si solleva e traccia le due pance con due tratti distinti >> il beta così ottenuto sarà non a 4 tratti ma a 3.
Nel tracciare le due pance, lo scrivente può non sollevare il calamo e scrivere il beta in soli 2 tratti.
Tornando ad alpha, vediamo cosa succede se non solleviamo il calamo: il secondo esempio di alpha è
sempre in tre tratti ma il secondo tratto è molto angoloso e parte dall’apice della diagonale, con cui è
collegato a cuspide; nel terzo esempio, il calamo non viene sollevato e i primi due tratti vengono fusi in un
unico movimento; nel quarto esempio, anche la diagonale destra viene fusa in un unico movimento, quindi
il calamo sale e prende l’inizio dell’ultima diagonale >> ciò produce due occhielli, uno alla base e l’altro alla
sommità. Il ductus designa, quindi, il grado di velocità del tracciato. Esso può essere posato, quando la scrittura
è costituita da numeri elevati di tratti costitutivi delle lettere, che vengono infatti tracciate in modo lento;
corsivo, quando il calamo comincia a non staccarsi o a staccarsi il meno possibile, con una notevole
riduzione del numero dei tratti delle lettere, che vengono pertanto realizzate in maniera piuttosto veloce.
Quando una scrittura è veloce, una lettera in determinati segmenti si unisce alla successiva. In quel caso, tra
le due lettere si forma una legatura. Nella scrittura a ductus posato, le legature sono assenti, mentre nella
scrittura corsiva, le legature si formano inevitabilmente e saranno tanto più numerose, quanto più è veloce
la realizzazione grafica delle lettere.
Soprattutto nei documenti, ci sono segmenti interi in cui sono più facilmente riconoscibili la prima e
l’ultima lettera, ma non ciò che si trova in mezzo: questo fenomeno si chiama Verschleifung. Diverso dalla
legatura è il nesso, che si viene a formare quando due lettere hanno in comune un tratto.

I tratti costitutivi delle singole lettere possono avere differenze di spessore quindi i rapporti di spessore tra i
tratti costitutivi delle lettere è ciò che viene designato con il termine di chiaroscuro. Distingueremo quindi
dei filetti e dei pieni: i filetti sono i tratti esili, mentre i pieni sono i tratti con spessore maggiore. Per creare il
chiaroscuro è importante il tipo di calamo adottato: se la scrittura è molto sottile, è stato usato un calamo a
punta fine, che non produce differenze apprezzabili di spessore, a differenza del calamo a punta larga
(come l’evidenziatore moderno). In età tolemaica, gli scribi egiziani usavano il giunco di pennello, quindi
uno strumento scrittorio a punta molto larga; il risultato è una scrittura con tratti di spessore considerevole.
Contribuisce a creare il chiaroscuro anche l’angolo di scrittura, ovvero l’angolo complementare a quello
formato dal rigo di scrittura con la retta passante per la punta del calamo, intendendosi quest’ultimo di tipo piatto e
posato sul rigo. Al variare dell’angolo di scrittura, otteniamo chiaroscuri differenti. Un altro elemento
interessante è l’angolo di inclinazione, che è ciò che spiega se la scrittura ha asse verticale o inclinato. Esso
è l’angolo supplementare (cioè che insieme forma 180°) a quello formato dal rigo di base e la retta passante per il
centro di quella lettera; se è di 90°, la lettera sarà perfettamente verticale; se è > di 90°, la lettera sarà inclinata
verso destra; se < di 90°, la lettera sarà inclinata verso sinistra. Le scritture molto posate hanno di solito asse
verticale ma ci sono anche alcune scritture posate inclinate a destra, che si spiegano come una scelta
stilistica. Usualmente, però, l’inclinazione destrorsa è una conseguenza della velocità del ductus e quindi
caratterizza le scritture corsive. L’asse inclinato verso sinistra è piuttosto infrequente, al massimo lo si trova
soprattutto in scritture informali di età romana.
L’ornamentazione, invece, definisce tutti quegli abbellimenti apposti a volte intenzionalmente alle scritture
antiche e si vanno ad aggiungere al tracciato di base delle lettere, pur non essendo previsti dallo stesso
tracciato di base delle lettere, per es. ponendo degli occhielli o dei piccoli triangoli agli apici del tratto.

LETTURA E ANALISI DEI PAPIRI


1. P. ELEPH. 1
Nel condurre l’analisi di un testo papiraceo bisogna seguire tre step:
a) descrizione del reperto;
b) descrizione della scrittura (forma, modulo, tratteggio);
c) sintesi del contenuto;

Il documento si apre con la datazione: “nel settimo anno del regno di Alessandro, figlio di Alessandro, e nel
quattordicesimo anno della satrapia di Tolomeo, nel mese di Dios”. L’Alessandro, che viene qui
menzionato, è Alessandro IV, figlio di Alessandro Magno e Rossane. Nato nel 323 a.C. (stesso anno della
morte del padre, tra il 10 e l’11 giugno), fu ucciso da Cassandro ancora dodicenne nel 311 a.C. in
Macedonia, per tacere i sostenitori della dinastia argeade, che volevano Alessandro IV sul trono, senza
reggenti. Il satrapo Tolomeo è, invece, il futuro Tolomeo I Sotèr. La datazione in ogni caso è controversa ma
sembra più plausibile riferire il papiro all’anno 310 a.C., tra il 17 luglio e il 15 agosto, periodo in cui era
compreso il mese di Dios nel calendario macedone. Si noti come la datazione viene riportata ricorrendo al
numero cardinale, non ordinale, come ci aspetteremmo nel greco classico (ci saremmo aspettati di leggere,
infatti, τεταρτῳ και δεκατῳ). È evidente, dunque, la forte discrepanza tra la lingua letteraria e quella non
letteraria. Sempre dal punto di vista linguistico, possiamo dire di essere di fronte ad uno stadio primordiale
della pronuncia itacista, che si afferma già a partire dall’epoca tarda. A confermarci ciò sono alcuni errori
fonetici come lo scempiamento della geminata in τεσαρες (la cui divisione sillabica, peraltro, risulta
anomala) oppure la grafia ι per ει, che infatti veniva pronunciato /i/. Quest’ultimo è il caso della parola ετει,
in cui si riconosce una ε, la cui asta verticale è più lunga rispetto a quella delle altre ε del papiro: si deve
supporre quindi che il copista abbia commesso un errore fonetico, scrivendo prima uno ι, la cui asta è
infatti più lunga rispetto a quella dell’ε, per poi accorgersi dell’errore e sfruttare quindi l’asta verticale già
vergata per ottenere un’ε, semplicemente aggiungendovi i tre tratti orizzontali. Si badi bene che nella
redazione di una edizione critica per segnalare l’errore non possiamo ricorrere alle doppie parentesi
quadre, perché la lettera non è stata propriamente cancellata dal copista, né agli apici inclinati, perché non
c’è un’aggiunta supra lineam: dovremo limitarci a segnalare il fatto paleografico in un eventuale apparato di
consultazione in calce alla trascrizione.
Subito dopo la datazione, si legge una sorta di titolo, che definisce il tipo di documento che abbiamo di
fronte, in modo da agevolare un eventuale fruitore. Il documento in questione è il contratto matrimoniale
di Eraclide e Demetria (συγγραφὴ συνοικιας).
Soltanto adesso si apre il corpo vero e proprio del documento.
Com’è naturale negli accordi matrimoniali, si leggono anche indicazioni sulla dote della sposa Demetria,
vale a dire abiti e gioielli, il cui valore viene abbreviato per mezzo di due simboli: in vista di un’edizione,
sarà adesso compito del papirologo sciogliere l’abbreviazione e scrivere la parola abbreviata tra parentesi
tonde e declinata nel caso richiesto dal contesto. Il primo, realizzato in forma posata, è costituito da un’asta
verticale e un’altra orizzontale ad altezza media, che abbrevia la parola δραχμη; il secondo è costituito
invece da due diagonali discendenti, una verso sx e un’altra verso dx, sotto le quali si dispongono tre aste
verticali, di lunghezza decrescente, e una barra orizzontale  è un sampi (ϡ). Si tratta di una lettera
dell’alfabeto greco, caduta in disuso già in epoca classica. La dizione ‘sampi’ però è una dizione moderna di
origine discussa: sarebbe forse entrata in uso nel XVI secolo e potrebbe derivare da ὡς ἄν πι, ‘come un pi’.
Nell’antichità questa lettera veniva chiamata παρακυσμα, ‘parto secondario’, come è definito nella
Grammatikè di Dionisio Trace. Tornando al simbolo che si legge nel papiro, l’ipotesi è che sia costituito da
un sampi (il cui valore numerico è 900) e da un moltiplicatore, costituito dalle due aste diagonali; queste
ultime potrebbero essere a prima vista interpretate come un’alpha o come un lambda: una interpretazione
errata comporterebbe il fraintendimento dell’intero testo in quanto se è un’alfa, il numero è 1.000 ma se
fosse un lambda, sarebbe 30.000. Dopo un’attenta osservazione, si può concludere che sia un’alpha e che
dunque Demetria, nel momento in cui sposa Eraclide, porta con sé una dote di 1.000 dracme (δραχμων
χιλιων). In cambio Eraclide offrirà alla sposa tutto quanto si addice ad una donna libera. Continuano poi le
clausole dell’accordo, si noti il brusco passaggio dalla terza persona singolare alla prima plurale:
evidentemente lo scrivano ha semplicemente trascritto ciò che sentiva pronunciato in bocca agli sposi,
senza preoccuparsi di trasferirlo da discorso diretto a indiretto, e quindi alla terza persona. Le clausole
riguardano il luogo in cui i due andranno a vivere e l’eventualità di frode o tradimento da parte di uno dei
due coniugi. Nel primo caso, è degno di nota il fatto che la residenza dei due sposi non è una decisione che
coinvolge direttamente anche la moglie, bensì soltanto il padre di lei e il marito. Nel secondo caso, viene
considerata l’ipotesi che Demetria trami contro il marito per coprirlo di vergogna (si noti επι αισχυνηι
senza elisione) o viceversa che Eraclide offenda Demetria portando in casa una concubina (επεισαγεσθαι)
o avendo figli con un’altra donna (τεχνοποιεισθαι) o, più genericamente, tramando qualcosa contro di lei
senza alcun motivo. Si noti l’accumulo dei preverbi in επεισαγεσθαι, ‘introdurre in aggiunta a…’: nel
greco post-classico, capita molto spesso che il lessico verbale sia caratterizzato dall’accumulo di preverbi,
che in molti casi solo ridondanti e non apportano alcuna sfumatura di significato in più rispetto al verbo
base, in altri casi invece contribuiscono alla semantica del verbo, dando un significato ancor più preciso,
come in questo caso. Affinché il coniuge inadempiente venisse punito, però, era necessario dimostrare
l’inadempienza di fronte a tre uomini. Siamo quindi di fronte ad un caso di arbitrato privato, cioè di
controversia legale, che non veniva risolta in tribunale. Dal punto di vista paleografico, all’altezza della
parola τριων, è necessario notare un errore del copista, che ha aggiunto sopra l’omega lo iota dimenticato.
Non è da escludersi che il copista avesse prima scritto τιων e che poi, accortosi dell’errore, avesse aggiunto
un occhiello allo iota per ottenere un rho, mentre lo iota veniva aggiunto sopra l’omega. In vista di una
trascrizione, lo iota supra lineam deve essere trascritto tra apici inclinati. Attenzione: la lettera deve essere
reinserita là dove comincia la sequenza! In questo caso è facile perché conosciamo la parola ma stando
sopra l’omega, ci si potrebbe chiedere dove debba essere inserita, se prima o dopo.
Le pene previste in caso di violazione delle clausole sono di carattere pecuniario: Demetria perderebbe la
dote, Eraclide le restituirebbe la dote (τημ φερνην, il my è dovuto ad assimilazione con la labiale
successiva) oltre a pagare una multa (προσαποτεισατω, ancora accumulo di preverbi, ‘pagare in aggiunta’
alla dote) di 1000 dracme in argento alessandrino. Le monete cui qui si fa riferimento, sono i tetradracmi
argentei, coniati in tutto l’Egitto fino al 321 ca., poi solo in alcune zone. Intorno al 310, all’epoca del nostro
documento, il tetradracma argenteo fu ridotto di peso, da 17g a 15g.
r.12: πραξις, è il diritto di esazione che spetta a Demetra e a coloro che l’hanno aiutata come se la sentenza
fosse stata emessa da un tribunale; εγ = εκ;
r.13: si noti l’uso diffuso delle correlative (te…kai; kai…kai), che nei documenti ha un valore stilistico molto
importante, dal momento che è meno diffuso rispetto ai testi letterari. Spesso si afferma banalmente che i
documenti sono testimonianza della lingua parlata. In realtà, sarebbe un errore considerare la lingua dei
documenti come una trasposizione del parlato o della lingua colloquiale perché ci sono situazioni che
prevedono una deliberata stilizzazione, quindi un distacco dalla lingua di tutti i giorni;
r.14: συναλλαγμα, è l’atto inteso in senso generale, a prescindere che sia scritto o orale, a differenza della
συγγραφη, il contratto scritto; επεγφερηι = επεκφερηι;
r.16: τας συγγραφας... τας, la ripetizione dell’articolo è sintomo di un registro stilistico alto perché nel
parlato si poteva anche obliterare il secondo articolo.
r.17: chiude il documento la lista dei testimoni, che sono tutti greci.

Il reperto:
Quello che abbiamo di fronte non è un rotolo ma un singolo figlio papiraceo completo, in quanto i margini
(superiore, inferiore, sinistro e destro) sono tutti conservati. Sono, tuttavia, presenti delle fratture che
interessano il foglio in alcuni punti specifici. Evidentemente il consumatore aveva piegato il foglio a metà,
perché le fratture maggiori corrono in direzione verticale lungo la metà del supporto, ma ve ne sono anche
alcune che corrono orizzontalmente. In generale, la parte del reperto maggiormente compromessa è quella
inferiore.
Per capire se il testo sia stato vergato sul recto o sul verso, ci sarà d’aiuto la direzione delle fibre e della
κόλλησις. In prossimità di fratture e sfilacciamenti, si possono intravedere le fibre orizzontali dello strato
sottostante. Ad esempio, al r. 3, dove si legge Δημητρίαν, il secondo η è stato vergato direttamente sulle
fibre orizzontali dello strato sottostante, mentre le fibre dello strato superiore, evidentemente, si erano
staccate già prima che il supporto venisse utilizzato. Dunque, la scrittura procede in senso perpendicolare
alle fibre. D’altra parte, la κόλλησις è collocata sotto il primo rigo del testo successivo, collocato nella parte
inferiore del foglio. Essa procede orizzontalmente, in senso perpendicolare rispetto alle fibre ma parallelo
rispetto alla scrittura. Ergo, la scrittura è stesa sul recto del foglio, che a sua volta coincide con il recto del
rotolo dal quale il foglio fu staccato. Siccome, però, la scrittura corre contro le fibre, dovremmo supporre
che il supporto sia stato ruotato di 90°, verso sinistra, intenzionalmente.
La kollesis è alla greca o all’egiziana? Rispondi per giovedì.
Quando i fogli vengono ruotati intenzionalmente di 90 gradi, si parla di scrittura stesa transversa charta,
espressione usata già dall’antichità. Transversa charta significa che il foglio è stato ruotato, non che la
scrittura corre contro le fibre: la scrittura può correre contro le fibre anche senza ruotare il foglio! Questa
rotazione del supporto fu in uso nel III secolo a.C. per testi come questo, per contratti, testamenti, lettere
ufficiali: era quindi una prassi scelta per una moda dell’epoca. Quest’uso è attestato anche nella tarda epoca
faraonica.
Il foglio riporta due testi, che indicheremo con le lettere maiuscole A e B, separati da uno spazio bianco di
2-3 cm. L’altezza è di 40 cm, la base è larga 35 cm. Se il foglio è stato ruotato di 90°, allora quella che per noi
è l’altezza, in origine era la base e viceversa. Dunque, il rotolo originale, dal quale fu tagliato il foglio, era
alto 35 cm, ma non possiamo dire quanto fosse lungo.
In corrispondenza dello spazio bianco, l’utilizzatore apportò un taglio orizzontale, che coincide con la linea
di frattura e i cui estremi vengono indicati con le lettere minuscole a e b. Per chiudere il rotolo, la parte
superiore del foglio fu ripiegata all’interno fino al punto in cui il supporto fu intenzionalmente tagliato
orizzontalmente. Quel rotoletto che si è andato così formando, fu piegato a metà verso sinistra. Su questa
metà furono infine apposti i sigilli. Questa procedura di chiusura del foglio esemplifica la procedura di
chiusura dei ‘documenti doppi’ o ‘documenti a doppia scritturazione’: il documento è doppio perché B è
identico ad A, con piccole differenze, per esempio ci riferisce l’etnico di Eraclide, che in A era assente. Il
testo A prende il nome di scrittura interior, il testo B, invece, è la scrittura exterior. La scrittura interior
doveva rimanere sigillata perché era il testo al quale si faceva fede in caso di controversia legale, mentre il
testo B poteva essere aperto all’occorrenza per eventuale consultazione e infatti non veniva sigillato.
Nell’ambito dei papiri di Elefantina, si riscontra questa modalità di chiusura anche nel P.Eleph. 2.

La paleografia:
Osservando attentamente il testo, a fronte di una generalizzata scriptio continua, si intravedono degli spazi
tra alcune parole. A questo proposito, varrà la pena ricordare che nei testi letterari si scriveva sempre e solo
in scriptio continua, per cui in presenza di eventuali spazi bianchi il papirologo dovrebbe chiedersi il perché;
i documenti, invece, normalmente sono anch’essi in scriptio continua ma con la possibilità di deroghe, come
in questo caso, in cui gli spazi bianchi si giustificano con la volontà di mettere in maggior risalto alcuni
termini significativi, p.es. λαμβανει, che costituisce sicuramente una parola chiave negli accordi
matrimoniali.
Per quanto riguarda la scrittura, si può chiaramente osservare che si tratta di una maiuscola, con evidenti
elementi di contrasto modulare, in quanto alcune lettere sono inscrivibili in un quadrato e altre invece che
risultano compresse lateralmente (come il beta e l’heta). È rilevante la realizzazione dell’omega attraverso
un disegno arcaizzante. Si noti l’omicron di modulo più piccolo e sospeso nella parte superiore del bilineo.
Si conclude che non c’è equilibrio grafico all’interno del bilineo. È una scrittura posata, come dimostra
anche l’assenza di legature, ma con andamento fluido, configurandosi dunque come una scrittura
informale.

Contesto di ritrovamento:
Non sempre abbiamo i dati di scavo perché molti papiri non provengono dagli scavi controllati ma dal
mercato antiquario, per cui non è sempre facile contestualizzare il reperto. Questo papiro è stato rinvenuto
ad Elefantina, sito che si trovava nell’Alto Egitto, al confine con la Nubia, nei pressi della prima cataratta. È
un sito che ci ha fornito molta documentazione, in diverse lingue, dall’Antico Regno fino all’epoca tarda.
Per quanto riguarda più nello specifico la documentazione greca, essa inizia a partire dalla fine del IV
secolo e convive con quella demotica. I primi scavi eseguiti ad Elefantina risalgono al periodo 1815-1904: in
questi anni i musei acquistarono molti papiri da viaggiatori, collezionisti e mercanti, tra i contributi
scientifici più rilevanti di questa prima fase degli scavi, ricordiamo Belzoni che nel 1819 pubblicò una serie
di lettere in scrittura demotica ed aramaica, oggi conservate a Padova, e Trovetti che nel 1824 pubblicò tre
papiri in ieratico. A partire dal 1906, viene condotta una serie di scavi, patrocinati dalla Germania. In
particolare, furono condotte tre campagne di scavo:
1) la prima fu guidata da Otto Rubensohn, 30 gennaio-3 marzo 1906;
2) la seconda fu sempre guidata da Rubensohn, 10 dicembre 1906-22 febbraio 1907;
3) la terza fu guidata da Friedrich Zucker, autunno 1907.
Nel frattempo, a partire dal dicembre del 1906, dati i successi dei tedeschi, cominciarono a scavare anche i
francesi. Ad oriente scavano i francesi, mentre i tedeschi scavano ad occidente. I resoconti di queste
campagne di scavo sono però recenti.
Il nostro papiro fu ritrovato il 12 febbraio 1906, quindi nell’ambito della prima campagna. Dai resoconti di
Rubensohn, sappiamo che il ritrovamento avvenne in una casa privata. In particolare, l’antica stanza a
occidente ci restituiva un vaso, dove stavano infilati 7 rotoli di papiro; di questi, 4 sono avvolti insieme in
un foglio di papiro letterario greco. Questa abitazione privata e le altri nei dintorni furono successivamente
attribuite a soldati della guarnigione greca dell’esercito macedone stanziati ad Elefantina. Quindi il papiro
viene da una casa privata dove viveva un soldato greco, Eraclide, stanziato lì al confine della Nubia, a
protezione dei confini. Questo spiegherebbe perché i testimoni sono greci ma anche cosa ci fanno in Egitto
dei Greci originari di Cos. Come dicevamo prima, i papiri ritrovati nella giara da Rubensohn erano sette:
1) Pap. Elef. 1;
2) P. Eleph. 2 (284 a.C., tra il 28 giugno e il 28 luglio), è un testamento con le medesime caratteristiche
diplomatiche del nostro papiro;
3) P. Eleph. 4 (21 luglio 283 a.C.), dal contenuto discusso;
4) P. Eleph. 3 (282 a.C. anche se sulla data esatta si discute), si tratta della nomina di un tutore.
Questi sono i rotoletti che Rubensohn trovò arrotolati nella giara. Essi erano avvolti con un foglio ulteriore
sul quale era stato trascritto un testo letterario. Quest’ultimo è una silloge di componimenti lirici di
carattere simposiale. Sempre dentro la giara, non avvolto dal foglio di riuso però, fu trovato anche altro:
5) P. Eleph.5, regolarizzazione successoria del 281.
Tra il n.1 e il n.2 è possibile effettuare dei collegamenti diretti, legati alle persone che ricorrono nei
documenti. Uno dei testimoni nel nostro testo era Lysis di Temno, che ricorre anche nel n.2; la stessa
questione riguarda Dionisio di Temno, che nel n.2 figura come parte coinvolta nel testamento, insieme alla
moglie Callista. Questo ci dà un’ulteriore testimonianza del fatto che questi quattro papiri erano conservati
all’interno della giara per essere effettivamente archiviati: si tratta infatti di un piccolo archivio di carte
familiari. Questo ci permette di aprire una parentesi sugli archivi nell’antichità: i ritrovamenti dei papiri
sono casuali; il ritrovamento casuale, soprattutto se avvenuto non in scavi controllati, fa sì che le
connessioni fra un documento e l’altro possano andare perdute. Spessissimo, quindi, dobbiamo lavorare ex
post alla ricerca di plausibili connessioni tra un documento e l’altro, spesso in collezioni differenti. In una
percentuale di casi, invece, ci troviamo di fronte a gruppi di carte che hanno maggiori possibilità di essere
ciò che resta di un archivio antico, quindi, carte che erano state classificate e conservate già nell’antichità
con l’intento di essere archiviate. L’archivio di cui stiamo parlando è forse tra i più antichi. Possiamo
chiamare archivio due agglomerati di carte: da una parte, i nuclei di carte, documenti che erano stati
effettivamente catalogati e conservati nell’antichità (archivio in senso stretto); dall’altra, abbiamo gruppi di
carte che noi mettiamo insieme sulla base di un comune denominatore (dossier). Soprattutto gli archivi in
senso stretto, ma anche i dossier, sono fonti molto importanti per la ricerca storica. Dove venivano
conservati gli archivi? Uno dei luoghi in cui si conservavano gli archivi familiari, è la giara, in cui erano
stipati i rotoli. Altra possibilità era la creazione di nicchie, fessure sui muri delle case, all’interno delle quali
erano posizionati i rotoli come se fossero degli armadietti. La certezza però che gruppi di carte ritrovati
all’interno di un edificio costituissero necessariamente archivi, non sempre la abbiamo perché il dato in sé e
per sé si presta ad una doppia interpretazione. Se il gruppo di carte non è proprio omogeneo come tema,
l’archeologo può anche pensare che le carte non fossero state stipate per essere conservate ma per essere
riutilizzate, quindi come carta di recupero o addirittura come materiale infiammabile. Un caso di questo
genere riguarda un ambiente di una casa privata di un villaggio, Tebtynis, nel Fayyum: in questa casa
privata fu trovata da scavatori italiani un ambiente che essi chiamarono ‘cantina’, una sorta di sottoscala. In
questo ambiente furono ritrovate molte carte scritte, tra documenti e testi letterari. La deduzione immediata
è che fosse un archivio e quindi che la parte documentaria costituisse un archivio privato, mentre i testi
letterari una biblioteca privata. Non ci stupisca la compresenza di testi letterari e documentari nella
medesima biblioteca: è un fenomeno molto comune nell’antichità. Quella cantina, nella presunzione che
fosse un archivio, fu denominata ‘cantina dei papiri’: è stato dimostrato in anni recenti che lì fosse stato
stipato il materiale necessario per poter tenere accesa la fiamma della cucina, quindi materiale di scarto.

Del contenuto si è già detto, ma ci sono delle osservazioni da aggiungere. Questo è un documento
matrimoniale. Il testo comincia con una datazione, segue il corpo del documento con le clausole e infine
l’indicazione dei testimoni. Questa tipologia di contratto è una συγγραφη εξαμαρτυρος, ‘contratto a sei
testimoni’, cioè i testimoni menzionati in calce. Non era un documento notarile, quindi la mano non era di
un notaio ma era un documento rilasciato in più esemplari, cioè riprodotto in più copie in caso di
controversia legale. Venivano redatte due copie, ciascuna delle quali era un documento doppio, con
scrittura interior ed exterior. La συγγραφη εξαμαρτυρος è attestata non solo in Egitto ma anche altrove: è
attestata anche in un’orazione pseudo-demostenica. Anche la συγγραφη citata nel corpus demostenico è
εξα μαρτυρος; manca la data perché nella citazione non serviva. Il nostro documento inizia con lambanei,
questo in Demostene, che è un prestito, con enadeisan, quindi, abbiamo subito all’inizio termini che sono
centrali per il contenuto e il tipo di contratto. La testimonianza pseudo-demostenica ci lascia concludere che
la συγγραφη εξα μαρτυρος esisteva già nella Grecia tardo-classica.
Il contratto di matrimonio, tuttavia, non era né obbligatorio né abituale per l’unione matrimoniale,
potevano infatti esistere i matrimoni di fatto, cioè convivenze non legittimate da contratto scritto (agraphos).
Più della metà di tutti i documenti scritti relativi alle costituzioni matrimoniali furono scritti dopo
l’avvenuto matrimonio, non prima come avviene oggi. Il contratto ex post serviva per sancire un’unione di
fatto: questo contratto era necessario per altri scopi, come un passaggio di proprietà. Ciò che emerge subito
è l’entità della dote del valore di 1000 dracme: 1000 dracme è il valore nominale dichiarato, sulla base del
quale ci si è chiesto quale fosse il valore reale. Il valore reale è ricostruibile approssimativamente sulla base
della comparazione con i beni di consumo in epoca coeva. È stato osservato che il corrispettivo reale di 1000
dracme consentiva l’acquisto di grano per una famiglia di 4 persone per un periodo decisamente superiore
a 10 anni; quindi, si tratta di un valore elevatissimo. Nel III secolo a.C., quando comincia ad aumentare la
documentazione sugli atti matrimoniali, le doti appaiono sempre molto elevate, quindi, evidentemente
all’epoca la costituzione matrimoniale messa per iscritto prevedeva una dote elevata, in questo caso,
elevatissima. In caso di colpa manifesta del marito, egli dovrà restituire la dote e in più avrebbe dovuto
pagare altre mille dracme. Tali clausole erano concepite per evitare la poligamia. Per quanto riguarda
l’Antico Egitto, il tema della monogamia e della poligamia è piuttosto discusso; in un passo Diodoro ci dice
che i sacerdoti dovevano essere monogami mentre chi non apparteneva alla casta sacerdotale poteva
scegliere quante donne volesse, mentre stando ad Erodoto, II, la monogamia sarebbe stata usuale come fra i
Greci. Secondo alcuni giuristi, però, il divieto esplicito di poligamia potrebbe essere assunto come prova
che in ambito greco essa non era legalmente proibita. Un punto altrettanto importante concerne il diritto di
esazione (praxis), cioè come si verificava l’esecuzione dei verdetti pecuniari in età tolemaica: nel papiro si
legge chiaramente che questo diritto ricadeva sulla persona di Eraclide e su tutti i suoi beni (ὑπάρχοντα).
In generale, infatti, il diritto di esazione ricadeva sui beni mobili e immobili del trasgressore ma anche sui
σώματα, quindi sulle persone fisiche. Gli studiosi si sono chiesti, allora, quali conseguenze vi fossero allora
per la persona: veniva asservita? Di per sé l’asservimento fu abolito solo alla fine dell’epoca tolemaica, ma
un documento del III secolo a.C. dichiara che l’esecuzione sui σώματα era possibile solo in assenza di
ὑπάρχοντα. Questo atto matrimoniale è nello specifico una ecdosis, che presenta analogie e differenze
rispetto alle ecdoseis che riusciamo a ricostruire per la Grecia classica. Ad Atene, ad es., il verbo che
introduce la clausola non è lambanei ma exedoto, con l’idea di consegnare la sposa dal padre al marito.
Complessivamente l’ecdosis è il tipo di contratto meno frequente: nel 2003 le ecdoseis erano 16 documenti
di varia età; la tipologia più diffusa (81 documenti) è la cosiddetta ricevuta dotale, ovvero l’accettazione
della dote da parte del marito, che diventa testimonianza scritta dell’atto costituito. Le ecdoseis di
Elefantina sono la nostra e un altro documento di qualche decennio successivo, conservato a Berlino. Altro
aspetto interessante sono due clausole: la prima è nel r.14, dove si dice che la syggrafè rimane valida come
se l’atto fosse stato redatto là dove Eraclide dovesse addurlo contro Demetria > questa precisazione serve
ad indicare che ovunque sia intentata l’accusa, il documento rimane valido. Questo elemento è
sorprendente in Egitto, che all’epoca era un unico Stato, quindi, che senso ha una clausola di questo
genere? L’ipotesi più plausibile è che questa clausola sia spiegabile proprio con la caratterizzazione della
Grecia, soprattutto insulare, nella quale non c’era un’unica giurisdizione vigente. È facile quindi che lo
scrivente stesse incorporando una clausola valida per il mondo greco; la seconda clausola interessante è che
i beni di Eraclide erano da considerare sia quelli per terra sia quelli per mare: dove sono i beni marini ad
Elefantina? Anche questa clausola riflette una legislazione greca insulare.
La lingua:
C’è un punto del testo che non abbiamo commentato, dove si menzionano ‘coloro che agiscono insieme a
Demetria’: toì metà nel greco classico sarebbe oi perì ecc… Toì è la forma dell’articolo nei dialetti greci
occidentali. Evidentemente lo scrivente tradisce la propria origine geografica, quindi è greco non egiziano.
A partire dal IV secolo cominciamo a riscontrare influenze attiche in località greco-occidentali; fra il II
secolo e il I troviamo documentata la cosiddetta koinè dorica, cioè un greco occidentale caratterizzato da
caratteristiche generali, evitando quindi le peculiarità locali. È una koinè con un forte influsso attico.
L’articolo più frequente è oi ma possiamo avere anche toi; ai ma anche tai; eàn ma anche ei an (in dorico
sarebbe sarebbe stato ai ka); abbiamo tessares non tetares, tipicamente dorica. (ripassa le caratteristiche del
dialetto dorico).
L’esercito macedone raccoglie soldati greci di diversa provenienza quindi l’influsso delle peculiarità
dialettali greco-occidentali si riduce, anche se di tanto in tanto possono emergere. Lo scrivente proviene da
un’area del mondo greco, dove era in uso un dialetto greco-occidentale ed era in formazione la koinè
dorica.

Papiro 2: PSI IV 325


Trascrizione:

1 Ἀπολλὼνιος Ἱκεσὶωι χαίρειν. ἐὰν τιν[[ α̣ ]]ες τῶν ἐξαγόντων


2 τὸν σῖτον ἐξ Συρίας διαγράφωσιν ὑμῖν ἢ τάς τιμάς ἢ τό
3 παραβόλιον, παραλαμβάνε̣τ̣ε̣ πάρ'αὐτῶν διὰ τῆς τραπέζης
4 καὶ δίδοτε πρὸς ἡμᾶς σύμβολα διπλᾶ̣ ἐσφραγισμένα, γράφοντες
5 τὸ τε ὄνομα τοῦ καταβα[[λ]]λόντος καὶ τὸ πλήθος τοῦ ἀργυρίου
6 καὶ ἐάν ὑπὲρ ἄλλου καταβά[[λ]]ληι.
7 ἔρρωσο (ἔτει) (πέμπτῳ καὶ εἰκοστῳ), Ἀρτεμισίου (δωδεκάτῳ)

Il reperto:
È un foglio di rotolo papiraceo, provvisto di margini completi. Sia la scrittura sia la kollesis corrono
perpendicolarmente alle fibre; possiamo, quindi, concludere che la scrittura è stata vergata trasversa charta,
cioè sul recto del supporto, che è stato ruotato di 90°, intenzionalmente. Di conseguenza, nel rotolo
originario la base in realtà era l’altezza (33cm) e l’altezza era la base. Si intravedono anche delle linee di
piegatura, che aumentano di spessore man mano che ci spostiamo dal margine superiore a quello inferiore.
Questo ci permette di dedurre che il rotolo fu arrotolato dal basso verso l’alto, in modo che in apertura, il
fruitore leggesse direttamente Apollonios e non la datazione. Questo spiega anche perché la parte
maggiormente danneggiata del supporto è quella superiore, che infatti, una volta arrotolato il supporto,
doveva trovarsi all’esterno e quindi era più esposta ad eventuali danneggiamenti. È interessante notare
come l’andamento delle lacune sia un elemento guida per la ricostruzione del rotolo. Come possiamo
vedere, infatti, abbiamo un danneggiamento centrale, attraverso il quale passava il legaccio, cioè una fibra
di papiro, utilizzata per chiudere il rotolo.

La paleografia:
La scrittura è una cancelleresca alessandrina, le cui caratteristiche formali sono quelle tipiche delle scritture
cancelleresche, ovvero l’artificiosità e l’esagerazione di alcuni tratti costitutivi delle lettere. È bene tuttavia
sottolineare che molte caratteristiche di questa scrittura sono riscontrabili anche in altre manifestazioni
grafiche, al di fuori dell’Egitto, perché la cancelleresca alessandrina importò alcune mode grafiche
dell’epoca per portarle ad un livello di maggiore esagerazione. Noteremo, allora, un forte contrasto
modulare: alcune lettere sono protese in larghezza (gamma, pi, tau), altre sono compresse lateralmente
(beta, epsilon) oppure hanno un modulo più piccolo, come l’omicron e il sigma, collocati sulla rettrice
superiore. A questo proposito, è di modulo notevolmente più piccolo l’espressione πρὸς ἡμᾶς (r.4): si tratta
evidentemente un testo preimpostato, nel quale lo scrivano aveva lasciato dello spazio per aggiungere solo
in un secondo momento il ricevente della somma di denaro; non deve aver gestito bene gli spazi, però,
perché quando andò a scrivere, si rese conto che l’espressione πρὸς ἡμᾶς non entrava e dovette
rimpicciolirla rispetto al resto della catena grafica. In generale, inoltre, la scrittura tende tutta verso il rigo
superiore del bilineo e cerca quasi di riprodurlo idealmente sulla base della congiunzione dei tratti
costitutivi delle lettere. Ad esempio, la diagonale superiore di alpha non scende verso il basso, ma rimane
sospesa quasi a disegnare la rettrice superiore. L’omega è schiacciato dall’altro verso il basso, riducendo le
curve per disegnare un semplice tratto ondulato, che quasi coincide con il rigo superiore. Notiamo la stessa
tendenza anche nel ny, il cui secondo tratto sale fino a coincidere con la rettrice superiore, mentre l’ultimo
tratto rompe il bilinearismo, superando il rigo di scrittura tanto da sembrare quasi una virgola,
caratteristica tipica delle scritture di età tolemaica. Il my è altrettanto interessante perché fonde il secondo e
il terzo tratto in un unico movimento della mano, che non disegna una pancia pronunciata ma un unico
tratto proteso verso l’alto, motivo per cui il my può essere confuso con il pi. Ancora, il tratto mediano
dell’epsilon è sollevato verso l’alto. Tale tendenza della scrittura verso la rettrice superiore del bilineo è da
considerarsi tra gli elementi di artificiosità e di esagerazione, di cui sopra. Ogni lettera, poi, cerca di legare
con la lettera successiva, finché è possibile: di fatto, la cancelleresca alessandrina è una scrittura corsiva ma
che evita gli elementi di informalità, per cui, per quanto non possa essere considerata una scrittura posata,
ha comunque un ductus più lento di altre corsive.
Rispetto alla scrittura del P. Eleph.1, la scrittura è meno rigida e più curvilinea. Vi sono però anche degli
elementi di continuità: omicron sempre più piccolo e sollevato sul bilineo ma, qui, non è così informale. In
generale, il contrasto modulare, rispetto al papiro di Elefantina, viene esagerato ed è molto più artificioso.
Si intravedono anche tracce di cancellature, realizzate in vario modo. Al primo rigo, con una macchia di
inchiostro lo scrivente deve aver cancellato quella che ha tutto l’aspetto di essere un’alpha, per poi scrivere
sopra un’epsilon. Ma si poteva cancellare anche utilizzando una spugna bagnata o raschiando il supporto,
in questo caso si chiama rasura. L’utilizzo della spugna bagnata è evidente alla r.5, dove si legge un
καταβάλλοντος che poi diventa καταβάλοντος; la medesima correzione, questa volta realizzata in rasura,
si legge anche nella riga successiva, dove ricorre lo stesso verbo ma al congiuntivo, καταβάλληι, che viene
corretto in καταβάληι. Si noti, comunque, che la correzione non cambia il significato generale, bensì
apporta delle modifiche relative all’aspetto verbale.
Si noti, infine, προς ημας di modulo più piccolo: evidentemente si tratta di un testo “preconfezionato”, in
cui era stato lasciato dello spazio vuoto per scrivere il ricevente ma siccome non era sufficiente, lo scrivente
si è visto costretto a diminuire il modulo della scrittura.

Datazione e prosopografia:
Il papiro, pubblicato con la sigla PSI IV 325, è conservato nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze.
Identico a questo è il papiro PSI IV 324, che però non è indirizzato ad Ikesios, bensì ad Apollodotos.
Sulla datazione, si discute tra il 261 e il 260, ma la data più plausibile sembrerebbe essere il 29 maggio del
261; il 25° anno del sovrano non menzionato è quello di Tolomeo II Filadelfo. Nel contratto matrimoniale, i
sovrani erano stati menzionati, anche perché il contratto veniva stipulato ex post, qui invece, vengono dati
per scontati, perché Ikesios sapeva benissimo chi deteneva il potere in quel momento.
Il mittente della lettera è Apollonio, dioiketès al tempo di Tolomeo II Filadelfo. Il dioiketès era una sorta di
moderno ministro delle finanze e costituiva, dopo il re, la figura più importante nel regno; il suo ufficio era
ad Alessandria. Il destinatario, come si accennava precedentemente, è Ikesios, che è attestato più volte
nell’archivio di Zenone. Era un agente di commercio di Apollonios, incaricato di agire all’estero e la sua
attività è databile al periodo compreso tra il 261 e il 257. Questi agenti potevano essere di condizione libera
o servile (in questo caso, Ikesios era un uomo libero) e viaggiavano all’interno dell’Egitto ma anche al di
fuori, in Siria o in Palestina, con il compito di mercanteggiare, fare pagamenti, comprare merci, riscuotere
affitti ecc... Nel 259, in un documento oggi conservato al Kairo, Ikesios riceve denaro in un conto relativo ad
un viaggio fra Alessandria e la costa della Siria; compare anche insieme ad Apollodotos in una lettera di
raccomandazione preparata da Apollonios, in modo tale che i due agenti potessero presentarla all’estero
per raccomandarsi ed espletare per conto di chi esercitavano le funzioni di cui erano stati incaricati. La
lettera in questione, invece, è uno dei più antichi documenti dell’archivio di Zenone, che a sua volta si
configura come il risultato di un’antica archiviazione e catalogazione di più unità. In altre parole, esso è
l’insieme di più sotto-archivi, cioè gruppi di carte catalogate già nell’antichità, che formavano agglomerati
indipendenti. Già nel 1911 erano stati pubblicati papiri riconducibili a questo archivio, ma è solo dopo il
1914 che queste carte emersero nel mercato antiquario, dato che non furono ritrovate in missioni di scavo
controllate. Queste carte furono così vendute in tante biblioteche, motivo per cui spesso sono conservate in
tante collezioni diverse. Esse sono databili tra il 261 e il 238 a.C. circa. Sono state proposte varie
periodizzazioni, ne seguiremo una in particolare che tiene conto del diverso ruolo giocato da Zenone nelle
varie amministrazioni documentate dalle carte. Zenone non era nativo dell’Egitto ma era un greco di
Cauno, in Asia Minore. Il primo periodo (1), a cui si riferisce la nostra lettera, è anteriore al dicembre del
260 a.C., anteriore quindi alla presenza di Zenone in Palestina. A questo periodo sono riferibili gruppi di
carte riconducibili al binomio pubblico-privato: uno è un gruppo di carte, costituito da lettere inviate a
Zenone stesso, un altro riguarda le lettere ufficiali inviate ad ufficiali all’estero (come la nostra lettera), un
altro gruppo ancora è costituito dai conti di spesa. Il secondo periodo (2) va dal dicembre 260 fino all’aprile
258: Zenone è in Palestina ed è rappresentante di commercio di Apollonio, cioè ha un ruolo paragonabile a
quello che un anno prima spettava ad Ikesios. Siamo vicini allo scoppio della II guerra siriaca, per cui è
verisimile che Zenone sia stato inviato in Siria per trattare gli affari della corona, anche in previsione delle
operazioni belliche che si stavano profilando. Abbiamo un archivio comprensivo di lettere inviate a lui e
altre carte inviate ai funzionari, quindi ancora il doppio binario privato e pubblico. Il terzo periodo (3) che
va dall’aprile 258 al maggio 256: Zenone ritorna in Egitto e diventa segretario di Apollonios ad Alessandria.
I gruppi di carte di questo periodo ruotano attorno a due poli principali: da una parte, le lettere inviate ad
Apollonio che Zenone, in quanto suo segretario, doveva archiviare e conservare, dall’altra, lettere inviate a
Zenone in persona e che Zenone archivia nella sua funzione di segretario di Stato; ci sono tante carte, poi,
relative all’amministrazione di una grande proprietà collocata a Filadelfia. Questa proprietà è una
concessione (δωρεά) data dal sovrano Tolomeo II Filadelfo ad Apollonio. L’amministratore di questa
proprietà si chiamava Panakestor. Nel periodo successivo (4), tra il 256 e il 248, Panakestor cessa di essere
amministratore della residenza privata e assolve questa funzione Zenone. La tipologia delle carte è sempre
la medesima. Fra il 248 e il 239 (5), Zenone cessa di essere amministratore della δωρεά, non sappiamo chi
fosse il nome dell’amministratore successivo, ma continuano ad essere archiviate le carte
dell’amministrazione della δωρεά. L’ultimo periodo (6) è successivo al 240-39: Zenone non è più colui che
archivia e cataloga le carte. Non sappiamo chi lo avesse sostituito (forse il fratello?). L’archivio di Zenone
nasce quindi da più archivi, privati e pubblici. Le tecniche di catalogazione non sono sempre le medesime.
Questo cosiddetto archivio di Zenone è importantissimo dal punto di vista storico-antiquario, per la storia
sociale, economica, ma ingloba anche alcuni testi letterari, come due epitaffi sul cane di Zenone, morto
lottando con un orso (poesia d’occasione); abbiamo anche frammenti con notazione musicale; esametri di
composizione scolare; frammenti di rotoli di poesia di alto livello, poesia greca classica, come tetrametri di
Archiloco o l’Ippolito di Euripide, il che è interessante perché Questo fatto perché ci permette di analizzare
la letteratura in rapporto al contesto storico-sociale.

Il contenuto:
In quanto agente di commercio, attivo in particolar modo all’estero, Ikesio sta ricevendo delle disposizioni
da parte di Apollonio nell’eventualità che dovesse ricevere dei soldi da commercianti, che esportano del
grano dalla Siria. Il pagamento da parte di questi commercianti viene descritto dal verbo διαγραφω, che
più in particolare allude ad ordini di pagamento bancario. Non a caso, la διαγραφή è il contratto di
bancogiro, cioè quell’operazione bancaria che trasferiva il denaro dal conto di uno a quello di un altro.
Successivamente, il termine finirà per indicare l’azione stessa del pagamento. Dell’avvenuta transazione, si
dovrà ritirare nella banca di Stato (τράπεζα) una doppia copia della ricevuta: un documento a doppia
scritturazione, dunque, dotato di una scrittura interior, sigillata, e una exterior. Su tale documento, bisognerà
scrivere sia il nome di chi paga sia la somma versata in tetradracmi argentei.

I CALENDARI DI ETÀ TOLEMAICA


La conversione dei calendari è abbastanza complicata, mentre i calendari di età romana sono più semplici.
Cercheremo di capire il funzionamento del calendario macedone ed egiziano.
Per quanto riguarda il calendario macedone, i nomi dei mesi sono quelli della tabella. Nella tabella, la
successione dei mesi è quella ma non corrisponde a quella del calendario egiziano.
Il primo giorno dell’anno civile era il 1° del mese di Dios. Il computo degli anni di regno si basava sui
principi di funzionamento accettati in Macedonia, il che vuol dire che il primo anno di regno di un sovrano
andava dalla data dell’ascesa la trono fino all’anniversario dell’anno successivo, della medesima data. Se
un sovrano conseguiva il potere il 30 dicembre, il primo anno andava dal 30 dicembre al 29 dicembre
dall’anno successivo. Il secondo anno, andava dal dies regni al giorno precedente l’anniversario successivo. I
principi su cui si basava l’anno civile dipendevano dal fatto che fossero mesi lunari, quindi ogni mese
andava dalla prima all’ultima visibilità della luna e quindi poteva essere di 29 o 30 giorni. L’anno lunare
era quindi costituito da 354 giorni, solo occasionalmente di 355. Questo vuol dire che il calendario
macedone era rispetto all’anno di 365, era più breve di 11 giorni >> sfasatura che si accumula di anno in
anno. Per evitare ciò, l’abitudine era quella di inserire un mese intercalare, embolimos, secondo criteri
differenti a seconda della regione. Tale mese embolimos fu inserito ogni due anni a partire da Alessandro
Magno, dal 335-334 a.C. Tale mese fu inserito alla fine dell’anno civile, ovvero dopo il mese di yperbetaios.
Questo è il motivo per cui non possiamo far coincidere tassativamente il primo di Dios con il 29 agosto. Nei
papiri che abbiamo letto, la datazione rispetta il calendario macedone. Non tutti i documenti dell’archivio
di Zenone rispettano il calendario macedone, ma alcuni rispettano quello egiziano. Per quanto riguarda il
computo delle date di regno, notiamo in particolare la datazione del papiro di Elefantina, datato al regno di
Alessandro IV (settimo anno) e la satrapia di Tolomeo I Sotèr (quattordicesimo). Il settimo anno di
Alessandro IV significa che dalla morte di Alessandro Magno, abbiamo 7 anni di regno di Filippo Arrideo
(323-novembre 317 a.C.). Subito dopo inizia il regno di Alessandro IV, dal novembre 317 all’aprile del 316.
Le datazioni sotto Alessandro IV continuano anche post mortem e arrivano fino al 305/304 ma sono le
datazioni degli scribi egiziani. Dal 305/304 inizia il computo del regno di Tolomeo I Sotèr, che dopo la
satrapia diventa basileus, mentre per quanto riguarda gli scribi greci, le datazioni dopo il 311 non sono
chiare.
Il calendario egiziano è usato molto di più nelle datazioni. Esso non si basava sulle fasi lunari, come il
calendario macedone. L’anno civile egiziano è costituito da 12 mesi, ciascuno di 30 giorni, quindi 360
giorni, alla fine dei quali venivano 5 giorni aggiuntivi, che in greco erano chiamati ημεραι επαγομεναι. In
età faraonica, fino al Nuovo Regno, non esistevano nomi specifici per i mesi, ma esistevano i nomi di tre
stagioni, ciascuna costituita da 4 mesi, che non avevano un nome ma erano numerati. Le stagioni erano:
Aket, l’inondazione, Peret, inverno, Shomu, la secca, cioè l’estate. Quindi il mese poteva essere: secondo
Shomu, primo Aket ecc… Nel Nuovo Regno furono introdotti i nomi dei mesi, che furono adottati nei
documenti greci e sono indicati nella tabella, con la successione che vediamo. In genere sono nomi teoforici,
per esempio Thot indica il dio della luna; Athyr fa riferimento alla dea Hathor. I nomi delle stagioni con
l’indicazione numerica dei mesi si possono trovare nei documenti demotici. I nomi dei mesi che vediamo
nella tabella si trovano sempre nei documenti greci. Questa sequenza vale dal II secolo a.C. c’è un problema
di accentazione greca dei nomi che provengono da altre lingue. Una guida può essere data
dall’accentazione bizantina che troviamo nei nomi egiziani attestati nei testi greci, trasmetti per tradizione
medievale, perché in quel caso abbiamo un’accentazione. Questo vale per i nomi traslitterati, ma i nomi di
persona possono essere traslitterati oppure ricevere una suffissazione greca e quindi ricevere l’accento
greco. I nomi dei mesi però non ricevono la suffissazione greca e quindi l’accento deve essere stabilito sulla
base di altri criteri. Es. fawfi, nella tabella è perispomeno ma in età bizantina è ossitono. L’accentazione
properispomena è una consuetudine degli studi papirologici della fine dell’800 ma non è documentata.
Oggigiorno si tende ad adottare l’accentazione bizantina.
Dicevamo che il calendario egiziano è costituito da 365 giorni esatti; il capodanno civile era il 1° del mese di
Thot (il primo giorno del primo mese della prima stagione, nei testi egiziani). Esso non coincideva con il 1°
Dios macedone >> questa coincidenza c’è solo in età romana. L’inizio dell’anno finanziario per tassazioni,
registri etc, poteva essere computato dal primo giorno del mese di Mecheir, a partire dalla metà del III
secolo a.C. il capodanno civile coincideva con l’inondazione del Nilo e con il sorgere eliaco della stella
Sothis (=Sirio), vale a dire la visibilità della stella prima dell’alba. Questo sorgere eliaco cadeva poco dopo il
solstizio d’estate, quando c’erano i primi segni della piena del Nilo in Alto regno. Il problema del
calendario egiziano è che 365 giorni esatti non coincidono con la durata dell’anno tropico, che è 365 e ¼ (5h
e 48 min.) Ogni anno il calendario egiziano rispetto all’anno tropico arretrava di quasi 6 ore. Per quattro
anni, l’arretramento non poteva incidere sulla data ma dopo 4 anni, arretra di 1 giorno. Questo è un
problema che si riflette nel computo delle date per cui in età tolemaica non si può avere una
corrispondenza biunivoca come si vede nella tabella.
Es. 1° Thot del 9° anno di Tolomeo I Sotèr >> 5 novembre 297 a.C.
1° Thot del 9° anno di Tolomeo II Filadelfo >> 31 ottobre (quindi c’è stato un arretramento) 277 a.C.
1° Thot del 9° anno di Tolomeo III >> 22 ottobre 239 a.C.
1° Thot del 9° anno di Cleopatra VII >> 3 settembre 44 a.C.
Per tutta l’epoca tolemaica non ci fu alcun intervento effettivo per sanare questo problema. Soltanto nel 238
a.C., vi fu il cosiddetto Decreto di Canopo, i sacerdoti riuniti a Menfi tributarono tra gli onori a Tolomeo III
anche quello di dedicargli un giorno supplementare da aggiungere all’anno civile, per sanare lo sfasamento
ma tale misura onorifica non ebbe mai applicazione pratica, perché i documenti egiziani continuarono a
datare secondo il sistema tradizionale.
L’anno di regno secondo gli Egiziani veniva computato diversamente dal calendario macedone. Il primo
anno di un faraone veniva calcolato dall’ascesa al trono fino all’ultimo giorno epagomeno dell’anno civile in
corso, non fino al giorno prima dell’anniversario. Il secondo anno andava dal 1° Thot dell’anno civile
successivo (quindi il giorno successivo all’ultimo giorno epagomeno) fino all’ultimo giorno epagomeno di
quell’anno. Quindi il calcolo degli anni di regno di un sovrano si modellava sull’anno civile, non sulle date
per l’ascesa al trono. Questo computo vale per l’età tolemaica e rimase in uso anche in età romana per cui il
computo dell’anno di un imperatore in Egitto si modellava esattamente secondo questi criteri. Nei
documenti di provenienza egiziana, l’anno x di un imperatore sarà sempre l’anno egiziano.
La fase di arretramento progressivo dell’anno egiziano cessò con Augusto, che dopo aver introdotto il
calendario giuliano a Roma, riformò anche il calendario egiziano, di fatto modellato sul calendario
giuliano. Nel calendario giuliano si aggiunge un giorno ogni quattro anni: stessa misura fu adottata per il
calendario egiziano, nel quale ogni quattro anni veniva aggiunto un altro giorno epagomeno, ai cinque già
esistenti. Grazie a questa misura, la sfasatura cessò e il calendario non fu più mobile. Da questa riforma in
poi, il capodanno egiziano corrispondeva sempre con il 29 agosto. In caso di anno bisestile, cadeva il 30
agosto.
Per l’età tolemaica, abbiamo in uso due calendari che per propri criteri di funzionamento arretrano, quello
macedone di 11 giorni, quello egiziano molto meno. I computi dell’anno di regno sono diversi. Un’altra
discrepanza è il computo di cambiamento di data: per gli Egiziani la data iniziava all’alba, per i greco-
macedoni al tramonto. Questi tre fattori concorrevano a rendere la convertibilità pressocché difficilissima,
motivo per cui gli scribi facevano spesso degli errori. Se nei documenti, quindi, viene riportata una doppia
data dallo scriba, questa non è necessariamente corretta. Nel corso del II secolo a.C., ci cercò allora un
sistema per bloccare almeno il calendario macedone, modellandolo la sfasatura su quello egiziano. Questo
perché il calendario egiziano aveva una tradizionale millenaria; la conseguenza fu che il calendario greco-
macedone divenne un fossile. Vennero allora introdotti due sistemi in due epoche differenti: 1) Thot veniva
equiparato al mese macedone di Dystros; questo sistema è attestato dal 4° anno di Tolomeo Epifane
(202/201 a.C.; dalla fine del III secolo) e rimase in uso per tutto il II secolo a.C.; 2) Thot viene equiparato con
Dios (come nella tabella); questa correlazione è attestata dal penultimo decennio del II secolo a.C., dal 53°
di Tolomeo VIII Evergete II, per tutto il resto dell’età tolemaica, fino di fatto all’avvento dei Romani.

III secolo: entrambi i calendari sono vitali, funzionanti con principi propri, arretranti rispetto all’anno
tropico;
II secolo: il calendario macedone perde di autonomia e viene modellato su quello egiziano, quindi arretra
solo il calendario egiziano;
Dalla penultima decade del II secolo: il calendario macedone viene modellato su quello egiziano, ma con
correlazioni differenti;
Età romana: Augusto modifica anche il calendario egiziano, che perde così la sua sfasatura. Il calendario
egiziano resta quello di cui abbiamo parlato, tutti i documenti di età romana e tardoantica quindi
mantengono questo sistema. L’antico calendario egiziano non riformato, quindi senza il sesto giorno
epagomeno in anno bisestile, fu usato in età romana solo in contesti astronomici e astrologici (quindi per gli
oroscopi, ad esempio) ma non per la datazione dei singoli documenti. abbiamo anche testimonianze di
autori che si rivelano l’uso del calendario egiziano non riformato in alcune occasioni, Censorino, nel De die
natali, ci dice che nel 238 a.C. il 1° Thot cadeva nel 7° giorno prima delle Kalende di luglio, cosa impossibile
nel calendario egiziano non riformato, indicato allora come katà tous archaious.
Per quanto riguarda la suddivisione delle giornate per gli egiziani, la giornata era scandita in due, il dì e la
notte. Il dì andava dalle 6 di mattina alle 6 di pomeriggio, diviso quindi in 12 ore (quindi 10° ora= 4 del
pomeriggio). Anche la notte era suddivisa in 12 ore, dalle 6 del pomeriggio alle 6 della mattina successiva.
In età tolemaica, il primo giorno del mese poteva essere indicato come veomenia, il 20° come eikàs, il 30°
triakàs.

Papiro 3 (P. Lille 76+73)


Il reperto:
Il papiro di Lille 76 + 73 è costituito da due frammenti riallineati, appartenenti ad un rotolo.
Sul recto ci viene restituito un testo poetico, che per lingua, metrica e contenuto viene attribuito a Stesicoro.
Non sappiamo quale sia il titolo del componimento ma viene generalmente chiamato Tebaide, perché vi
viene narrato un episodio della saga tebana: morto Edipo, i figli Eteocle e Polinice sono in contrasto per il
trono, allora nonostante le fosche profezie di Tiresia, Giocasta (qui forse chiamata Epicasta) tenta una
soluzione conciliatrice, stabilendo che uno dei figli abbia il regno e il potere, l’altro vada in esilio portando
con sé le ricchezze di Edipo. Con questo frammento, il papiro ci fornisce una preziosa testimonianza
dell’epica stesicorea, cioè di epica in forme liriche.
Sul verso, invece, si legge una lista di nomi con pagamenti. Il rotolo, dunque, fu riutilizzato per stendere un
documento risalente al II secolo a.C. inoltrato, mentre il testo letterario deve essere necessariamente
anteriore. Infine, fu riusato una terza volta per realizzare il cartonnage di una mummia: il cartonnage, infatti,
era una tecnica messa in atto sin dall’Antico regno per realizzare maschere funerarie, sovrapponendo strati
di lino e papiro, stuccati e dipinti con intonaco.
Possiamo, allora, riconoscere tre fasi di utilizzo:
1) stesura del testo letterario;
2) riuso sul verso per stendere il documento;
3)caduto in disuso anche il documento, fu venduto come carta straccia e riutilizzato per confezionare del
cartonnage.
Il cartonnage fu ritrovato nel 1901-02 a Magdola, villaggio dell’Arsinoite, nel sud-ovest del Fayyum,
durante una missione francese guidata da Lefevbre. Per quasi ottant’anni non si seppe cosa c’era nel
cartonnage fino a quando nel 1977 fu smontato e furono ritrovati molti documenti (250-110 a.C.) e testi
letterari. Nello specifico, il testo poetico in questione fu pubblicato nel 1977 da Gilbert Ancher ma furono
fatti diversi errori nella ricostruzione delle colonne, fino ad arrivare così ad una nuova edizione curata da
Peter Parson e pubblicata nello stesso anno.
Si noti che gli intercolumni sono piuttosto stretti (in epoca romana saranno più ampi) e l’altezza è di 23 cm,
quindi minore rispetto agli altri papiri che abbiamo analizzato.
La scrittura e la sticometria
Per quanto riguarda la scrittura, siamo di fronte ad una scriptio continua, non c’è scriptio plena (quando
parola terminante in vocale viene scritta per esteso, senza essere elisa di fronte a parola iniziante per
vocale). Non ci sono segni diacritici, accenti e spiriti.
È una scrittura maiuscola, tendenzialmente bilineare. In generale, presenta un disegno spigoloso e
angoloso, anche se non troppo rigido, come dimostra la forma di alcune lettere, che tendono invece ad
assumere un disegno più morbido (cfr. epsilon, sigma lunato, omega, forma leggermente incurvata delle
aste verticali del my o del lambda). C’è comunque da dire che si rileva una certa incostanza nel disegno
delle lettere; tale variabilità si riscontra anche nel rapporto modulare fra le lettere. Anche la posizione delle
lettere nel bilineo non è costante, alcune lettere sono più dritte altre più inclinate. Ci sono delle legature
occasionali. Ha apici ornamentali, es. ypsilon che viene mantenuta nel bilineo e ha un tratto ornamentale in
basso che coincide con il la rettrice inferiore. Non è proprio una scrittura formale. Forse il copista è avanti
con l’età e quindi non riesce a realizzare le lettere in maniera identica. Possiamo anche pensare che fosse un
copista di professione ma che lo facesse ogni tanto.
In un altro frammento abbiamo anche indicazioni sticometriche: abbiamo un gamma ad inizio di verso 
Gamma=300, quindi quel rigo era il 300°  il componimento era molto lungo. La sticometria poteva
seguire varie metodologie. Quella standard veniva effettuata così: ogni dieci righi nozionali (cioè il rigo di
estensione pari ad un esametro) si poneva un punto a sinistra di un rigo. Questo vuol dire che in contesto
di prosa, si poneva ogni venti righi (un rigo non era lungo quanto un esametro ma la metà). Ogni 100
stichoi si segnava una lettera dell’alfabeto, cominciando da alpha, che indica una serie di 100 versi. La mano
è di un copista di professione.
La lingua e la metrica
La lingua è il dialetto dorico (greco occidentale) con alcune influenze epiche (come al dativo).
È possibile vedere anche la presenza di paragraphoi, che in genere indica una pausa di senso ma in poesia
lirica, indica piuttosto il confine di unità metrica. Nei carmi monostrofici (cioè costituito da una strofe
seguita da uno schema metrico che si ripeteva sempre uguale), la p. segna la fine di una strofe; nella lirica
non monostrofica (per es. lo schema tradico) la p. indica il confine di stanza. Al r.10, sotto μὴ πάσας, la
paragraphos compare insieme alla coronide, che può voler dire o fine di un componimento (perché indica
una pausa molto più forte) o fine di triade, come in questo caso (questo significa che i versi che precedono
la coronide devono appartenere all’epodo, mentre, prima della paragrafos abbiamo l’antistrofe). Un’attenta
ricostruzione del testo, ci permetterebbe di riconoscere le lunghe e le brevi e dunque le strutture metriche
adottate dall’autore: sono dattili-epìtriti.
Secondo la tradizione, l’inventore della colometria sarebbe stato Aristofane di Bisanzio, vissuto tra metà del
III e il 180 a.C. circa. Secondo la tradizione a 62 anni, intorno al 195, divenne successore di Eratostene come
capo della biblioteca di Alessandria. O il papiro precede Aristofane di Bisanzio, quindi la tradizione non è
vera, o segue Aristofane di Bisanzio e quindi è un’antichissima testimonianza della colometria secondo le
indicazioni di Aristofane. La datazione di questo testo è di fondamentale importanza per la storia della lett.
Greca.
Varie proposte: 1) Turner, metà III secolo a.C. >> la tradizione è sbagliata;
2) prima parte del II secolo a.C., Cavallo >> la tradizione è salva.
Ci vengono in aiuto anche alcuni elementi paleografici: omicron non è più piccolo e sollevato sul rigo, come
è tipico delle scritture di pieno III secolo; le scritture librarie di pieno II secolo presentano 1) calice basso di
ypsilon con tratto orizzontale che marca il rigo; 2) phi fluido con asta ricurva verso sinistra, che troviamo
nelle scritture più corsive del II secolo. Secondo Luiselli il testo è da afferire alla prima parte del II secolo. È
il più antico libro greco che attesta poesia lirica greca con colometria.

Papiro 4: P. UPZ 1392


Il reperto:
È un foglio papiraceo completo. La scrittura corre lungo le fibre, la kollesis è perpendicolare alla scrittura:
possiamo dire che il foglio è stato vergato sul recto. Il foglio ha una manifattura di basso livello perché le
strisce non aderiscono le une alle altre, ma lasciano trasparire dei buchi, attraverso i quali riusciamo a
vedere molto bene l’area di sovrapposizione e persino a capire se la kollesis è a 3 o 4 strati: il foglio di destra
sottostante ha due strati ma quello di sinistra ne ha uno solo >> gli strati sono 3, ce ne accorgiamo vedendo
l’area di sovrapposizione. Gli strati sono quello a fibre orizzontali del kollema di sx, quello a fibre orizzontali
e poi verticali del kollema di dx. Essa inoltre è discendente verso dx.

La scrittura:
È una scrittura corsiva ma il ductus non è troppo veloce, anche se tende a legare di più le lettere,
modificandone leggermente il tratteggio. Contrasto modulare. Omicron più piccolo è un elemento di
continuità con le scritture del III secolo. Omega verso l’alto ma non schiacciato perchè 1) questa non è una
scrittura cancelleresca ma usuale; 2) nel II secolo il contrasto modulare non è troppo accentuato. Ci sono
però alcuni elementi caratteristici delle scritture di II secolo, come alpha iniziale con diagonale destra
discendente verso il basso molto più alta >> elemento utile per la datazione. Tipico dell’età tolemaica è il
tratteggio di tau: esso è realizzato in due movimenti, il primo riunisce in sé prima la metà sinistra della
traversa e poi, scendendo, la verticale (movimento curvilineo concavo verso sx). Solo dopo si aggiunge la
metà destra della traversa. Questo tratteggio è tipico della tarda età tolemaica. Si chiama tau spezzato.
r.8: diagonale= ginetai/ginontai (totale); tratto curvilineo concavo verso il basso= talenti >> l’ammontare
viene espresso prima per esteso e poi in cifre.

La ricevuta è dell’anno 30° di Tolomeo VIII Evergete II (18 agosto del 134 a.C.), siamo quindi verso la fine
del II secolo a.C.

Il papiro è conservato a Berlino, con numero di inventario 1392. La sigla è UPZ (Urkunder der Ptolemaer
Zeit) vol. II, 227, a causa di Wilcken. Il papiro proviene dalla banca di Diospolis Magna, quindi dall’Alto
Egitto ma non sappiamo esattamente dove sia stato ritrovato perché è un papiro di acquisto. Le persone che
hanno avuto un ruolo nell’acquisto sono Lepsius, egittologo, molto in contatto con Parigi a partire dal 1833;
l’altro è Giovanni Anastasìu, un mercante greco trapiantato ad Alessandria d’Egitto. Egli comprò tramite
persone locali antichità egiziane sia a Saqqara sia a Tebe, durante scavi non controllati. Nel 1857 il papiro
arrivò a Parigi, dove fu acquistato da Lepsius e tramite lui arrivò a Berlino, dove oggi si trova. Questo testo
fa parte dell’archivio della banca reale di Tebe, ma si tratta di documentazione acquisita sul mercato
antiquario, quindi, dovremmo parlare in realtà di dossier. Alla direzione della banca vi erano quattro
banchieri associati: Diogene, Eraclide, Apollonios, Hernias. Sono tutti testi che datano tra il 199 e il 129 a.C.
nel III secolo abbiamo le prime attestazioni delle banche a Edfu, Tebe ed Elefantina. L’Alto Egitto è sempre
stato teatro di rivolte e di instabilità politica ma nel corso del II secolo inoltrato, troviamo banche non solo a
Efdu, Tebe ed Elefantina ma si diffondono anche in altre località dell’Alto Egitto come Dendera, Licopoli
ecc…
I Trogoditi sono una popolazione del deserto orientale. La trogodytikh si trovava verso la zona del Mar
Rosso, quindi lontana non solo dai luoghi di frequentazione dell’etnia greca di livello sociale elevato, ma
anche dalla stessa Tebe. Strabone ci dice che questa era una popolazione nomade, divisa in diverse tribù
questa etnia non era egiziana, quindi. Nei documenti papiracei è attestata solo tre volte.
Apollonio è un traduttore, un interprete quindi i trogoditi non erano evidentemente in grado di scrivere e
parlare in greco. Ermeneus non significa che Apollonio fosse un greco: evidentemente era un egiziano che
conosceva le lingue straniere. È un egiziano che porta però il nome greco: la questione dei nomi propri era
molto complessa. Un greco aveva un nome greco, un egiziano poteva avere il nome egiziano e un secondo
nome greco e capitava che usasse l’uno o l’altro nome a seconda della lingua in cui scrivevano e del tipo di
documento. Questo rende molto complicato fare studi prosopografici, perché quelle che sembrano due
persone distinte potrebbero essere tranquillamente la medesima persona. Questo Apollonio però è
analfabeta, quindi è un egiziano che comprende la lingua dei trogoditi ma non è in grado di scrivere in
greco, motivo per cui deve far ricorso a Tolomeo di Tolomaide, un greco anche se nativo d’Egitto.
Quest’ultimo inoltre fa parte dell’esercito. Nel II secolo a.C. all’interno dell’esercito si possono distinguere
le truppe regolari di cavalleria, costituite da katoikoi, comandati da un ipparco; le truppe mercenarie, i
mistoforoi, inizialmente stranieri ma poi reclutati anche al livello locale. Tolomeo è comandante di coloro
che sono fuori dai ranghi: cosa significa? A chi si fa riferimento? Secondo un’ipotesi, si tratterebbe di soldati
attivi ma truppe estere; secondo un’altra ipotesi più recente, si tratterebbe di truppe non combattenti, non
attive in combattimento, ma facenti parte dell’amministrazione militare, in questo caso di Tebe. Gli exw
taxewn sono attestati circa trent’anni prima dell’anno del nostro papiro quindi sono attestati solo a partire
dalla seconda metà del II secolo a.C.
Per quanto riguarda l’albetizzazione, il Delta, il Fayyum, l’Alto Egitto, il Medio e il Basso Egitto
costituiscono tutte situazioni differenti. Quindi, è un problema che deve essere valutato in base alla regione,
perché in ogni regione la struttura sociale non era la stessa. Vi erano peraltro vari gradi di analfabetismo:
dalla completa ignoranza dell’alfabeto si passa alla capacità di tracciare in maniera stentata le lettere, molto
lentamente e con un tracciato incerto: sono i c.d. βραδέως γράφοντες, “coloro che scrivono lentamente”.
Passando ad un livello ancora superiore troviamo coloro in grado di scrivere brevi frasi sempre in maniera
stentata, ma senza le difficoltà dei βραδέως γράφοντες, e quelli in grado di scrivere estesamente come il
nostro Apollonios. Naturalmente, oltre alle differenze in sincronia dobbiamo tenere in conto delle
differenze diacroniche: la situazione del III sec. a.C. non è uguale a quella del I sec. a.C. Inoltre, la mole dei
documenti ci permette di tracciare delle differenze su base geografica tra il Fayyum, la chora di Alessandria,
l’Alto e il Basso Egitto.

Papiro 5:
1 ὡc ἠγρίωcαι ̣

2 κλῖνομ μ' ἐc ε̣
3 μανιὰc αναρ

4 ἰδού φίλον το̣


5 ἀνιαρὸν ὂν το

6 αὔτη μ' ἐc ορθ ̣


7 δυcάρεcτον ̣

8 ἦ καὶ ἐπὶ γαίαc


9 χρόνιον ἴχνο̣[c

10 μάλιστα δοξ
11 κρεῖσσον δὲ τὸ ̣

12 ἄ[[ν]]κ[[υ]]ουε δή νυν
13 ἕως ἐῶσι σ'εὖ

14 λέξεις τι καινό̣[ν
15 εἰ δὲ βλάβην τιν

16 Μενέλαος ἥκει̣
17 ἐν Ναυπλίᾳ δὲ

18 πῶς εἶ[[η]]πας ἥκει


19 ἀνὴρ [ὁ]μογενὴ[ς

20 ἥκει τὸ πιστὸν
21 Ἑλένην ἀγόμε̣[ν̣ο̣ς̣

22 εἰ μόνος ἐσώθη μα̣

Il testo è una copia antica dell’Oreste di Euripide. Riusciamo a capire che si tratta di un testo teatrale anche
grazie alle paragraphoi, che segnalano un cambio di battuta. La paragraphos viene realizzata con il classico
tratto orizzontale ma che inizia con una sorta di trattino verticale >> anche segni abituali possono essere
realizzati in modo diverso di papiro in papiro. Nel corso degli anni, sono state elaborate ipotesi sul
rapporto tra il tipo di realizzazione della paragraphos e la finalità testuale. Luiselli, tuttavia, prende le
distanze da questi studi.
r.1: nell’estremità dx, c’è una traccia dall’andamento relativamente verticale, che non sembra compatibile
con un delta, come si legge nell’edizione di Diggle. C’era scritto altro;
r.2: il doppio my è il frutto dell’assimilazione; nell’estremità dx, si legge una traccia di epsilon, compatibile
con l’edizione di Diggle;
r.4: idou, o il copista ha scritto direttamente idou e quelle tracce di inchiostro che si vedono sono vaganti,
oppure il copista aveva scritto un kappa e poi lo ha corretto in id-; filon, su omicron c’è un segno che
sembra essere di seconda mano perché il tratto è differente, ma ciò andrebbe verificato sull’originale;
nell’estremità dx, si legge una traccia di omicron;
r.5: osserviamo il tratto prima di aniaròn >> è un tratto obliquo ad uncino discendente verso sinistra, che
tuttavia non appartiene al repertorio dei segni grafici dell’antichità, per cui non sappiamo che cosa voglia
dire; in questi casi l’editore deve trascrivere il segno così come lo vede o descriverlo in apparato;
r.6: αυτη, l’heta è diverso perché il tratto mediano è più in basso, inoltre la verticale è leggermente più
ravvicinato rispetto al successivo tratto concavo discendente verso dx >> non è un heta originario ma
secondario, quindi, il copista aveva scritto αυτις e poi lo ha corretto in αυτη. Diggle ci riporta la doppia
variante riportata da questo papiro, sia quella ante sia quella post correcturam; αυτις è una forma errata e la
genesi dell’errore dipende dal fatto che in epoca ellenistica, in Egitto, tau e theta venivano pronunciati
sostanzialmente allo stesso modo; αυτη è la lezione post correcturam ma che viene respinta da Diggle, come
errata >> un manoscritto molto antico, cronologicamente vicino all’autore, non è necessariamente più
corretto di un manoscritto posteriore;
r.7: all’estremità dx, si intravede un tratto orizzontali, al livello del rigo di base >> questa traccia non è
interpretabile come omicron ma in Diggle si legge oi; in apparato critico, Diggle riferisce che nel papiro si
legge altro ma non avanza interpretazioni di lettura.

Il reperto:
Il papiro è conservato a Columbia ed è di provenienza ignota. Su base paleografica, è stato datato alla
prima metà del II secolo a.C.
È il frammento di un rotolo, di cui sopravvivono il margine superiore e inferiore con due colonne
consecutive, delle quali nella prima si conservano solo le lettere finali di alcuni versi, nella seconda si
conserva solo la prima metà dei versi. La scrittura corre lungo le fibre, quindi, è il recto del papiro. Siamo
sicuri che sia il recto, pur non vedendo la kollesis, perché il testo letterario è disposto su più colonne
consecutive. Come possiamo vedere, inoltre, la colonna si sposta progressivamente verso sx: questo
fenomeno si chiama legge di Maas ed è abbastanza comune nella copia dei testi letterari. Il risultato è che il
testo invece di essere compreso tra due parallele verticali, è compreso tra due parallele diagonali. Questo
fenomeno è stato variamente spiegato. Luiselli condivide la spiegazione tradizionale: la scrittura dipende
dal posizionamento del supporto >> il copista poteva tenere il supporto perfettamente dritto di fronte a sé
ma poteva anche inclinarlo leggermente, determinando un’inclinazione anche nella scrittura; questo è
ancor più plausibile considerando che gli antichi scrivevano poggiando il supporto sulle gambe incrociate.
Un’altra spiegazione è che sia una scelta deliberata del copista, motivata da ragioni estetiche. Tra una
colonna e l’altra si vedono tracce di scrittura illeggibili, che vanno da sx a dx: sono lettere tracciate da
un’altra mano, che rivelano anche un’altra gestione dello spazio e che quindi appartengono ad un altro
testo. A questo punto, dunque, le ipotesi sono due: 1) è un palinsesto, in cui la scrittura sottostante non è
stata raschiata completamente; 2) segno di riuso posteriore. Nel caso specifico, è difficile che sia un
palinsesto.

La scrittura:
La scrittura è una maiuscola libraria informale. L’informalità è data ad esempio dall’irregolarità nel disegno
delle lettere. Rispetto agli altri esempi di scrittura visti finora, il ny non è rialzato come spesso succede nelle
scritture del III secolo >> non è una scrittura documentaria, inoltre col passare del tempo il ny tende ad
essere più bilanciato nel suo posizionamento.

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