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INTRODUZIONE

Esiste o non esiste una letteratura egiziana?


Innanzitutto, dobbiamo chiederci se sia esistita una letteratura egiziana. C’è una parte della critica che ne
nega l’esistenza perché ci sono giunti pochi testimoni, come Sergio Donadoni che parla della letteratura
egiziana come un “deserto di rovine”; altri critici invece perché il concetto di letteratura con finalità di
intrattenimento non è qualcosa che possa riferirsi ad una civiltà antica; il concetto di letteratura applicato
alle culture antiche e orientali è una forzatura e un prodotto del Romanticismo.
La corrente maggioritaria sostiene invece che si possa parlare di letteratura e tra questi ricordiamo Antonio
Loprieno, che dagli anni 90 a oggi non ha fatto che riflettere sul concetto di letteratura ma prendendo le
distanze dai due approcci seguiti sino ad allora: 1) la letteratura non esiste; 2) la letteratura esiste e include
tutto, anche le iscrizioni funerarie. Loprieno non è d’accordo con nessuno dei due approcci e sostiene che
non tutto ciò che sia stato scritto in egiziano sia letteratura: devono esserci degli elementi irrinunciabili
perché un testo possa considerarsi letterario, innanzitutto la ricezione, cioè deve esserci un pubblico più o
meno vasto per il quale il testo è stato pensato. Per esempio, i Testi delle Piramidi scritti su una camera
funeraria che nessuno può leggere, non hanno una ricezione e quindi non possono essere considerati
letteratura, nonostante si trovino in tutti i manuali di letteratura egiziana perché vale la pena analizzarli. Il
secondo elemento è la finzionalità, cioè deve esserci una finzione e una finalità artistica; questo che non
significa che debba essere per forza una letteratura fantastica ma deve esserci il piacere della narrazione e
della scelta dei termini. Infine, il terzo elemento è l’intertestualità, cioè la citazione di un testo o di un
genere letterario attraverso altri testi coevi o successivi: dall’uso di determinate citazioni si capisce la
fortuna che un’opera ha avuto. Se tali elementi non sono presenti, un testo non può essere considerato
letterario. Data questa griglia di riferimento, ci sono delle eccezioni, ad es. il poema della battaglia di
Qadesh, che in realtà non fu una vittoria vera ma Ramesse la celebra comunque in casa propria: il testo non
è finzionale ma funzionale ma per la sua diffusione, apprezzamento e fama è comunque considerato
letteratura.

Fasi linguistiche e i sistemi grafici.


La piramide di Unas è la prima in cui compaiono i testi delle piramidi ma bisogna distinguere tra scrittura e
lingua. L’Egitto conosce quattro sistemi scrittori:

-Geroglifico
-Ieratico, che è il corsivo del geroglifico: molti sostengono che le due scritture siano coeve, nate intorno al
3200 a.C.
-Demotico, appare dal VII secolo ed è una variante corsiva dello ieratico
-Copto di epoca tardoantica in cui si usa il greco.

Questi sistemi grafici possono esprimere a loro volta le varie fasi linguistiche:
-Old Egyptian
-Middle Egyptian
-New Egyptian
-Demotico
-Copto
La maggior parte dei testi che noi conosciamo sono in demotico e in Middle Egyptian.

Autori e fruitori della letteratura egiziana: gli scribi.


La scrittura è un aspetto importantissimo della cultura egiziana. Dobbiamo però sottolineare che è lo scriba
(hry heb) non è il semplice copista amanuense dell’epoca medievale ma è un creatore di scrittura, una figura
di altissimo profilo perché per gli Egiziani scrivere significa far esistere qualcosa di vita propria e dunque
chi è in grado di scrivere, è un essere superiore, tanto che molti faraoni si fecero rappresentare nell’atto di
scrivere. Ma se pensiamo che la scrittura egiziana ha un’origine chiaramente pittografica, lo scriba non
possiede solo le lettere ma anche la pittura. Non è un caso, infatti, che gli Egiziani usavano il verbo sesh con
il significato di ‘scrivere’ ma anche ‘dipingere’. A partire dal primo periodo intermedio, la scrittura
attraversa un processo di demotizzazione, si afferma cioè una forma di scrittura ancora più corsiva dello
ieratico che comporta l’affermazione di scribi di secondo livello. Nel frattempo, a partire dalla VI dinastia,
verso la fine dell’Antico Regno, si attesta un aumento del numero delle tombe, perché queste iniziano ad
essere costruite anche per i funzionari, che sentono l’esigenza di raccontare la loro vita, per es.
autobiografia di Uni, ponendo così le premesse per l’affermazione di un tipo di produzione scritta destinata
a diventare un genere nel Medio Regno. Questo fenomeno può essere spiegato in seno ad un allargamento
delle classi in grado di leggere. Nel Medio Regno, l’Egitto amplia i propri confini e guarda in particolare
alla Nubia: nasce così lo scriba militare, una figura addetta al resoconto delle azioni militari. Con il mutare
dei paesi circonvicini, nel secondo periodo intermedio, l’Egitto deve guardarsi dai popoli dell’est e
comincia ad assumere un ruolo più aggressivo. Di conseguenza, sempre più stranieri entrano in Egitto e
allora lo scriba si diversifica ulteriormente, infatti viene introdotto anche lo scriba interprete. si pensi al
ritrovamento di Amarna, consistente in una parte dell’archivio ufficiale del “ministero degli esteri” ed è
scritto in accadico: ad Amarna c’erano quindi degli interpreti che conoscevano le lingue ed erano in grado
di avviare rapporti tra paesi diversi.
L’importanza dello scriba e dell’attività di scrittura fa sì che vi siano preposte delle divinità tutelari:
-la dea Seshat, che si occupa anche della misurazione della pianta dei templi quando questi vengono
fondati. Per capire quanto un tempio doveva essere ampio, infatti, si stendeva a terra una corda e si
invocava la dea;
-il dio Thot invece è il dio della scienza e anche della scrittura, è lui preposto a scrivere ciò che è
importante;
-il dio Ptah, signore di Menfi, dio demiurgo che crea con la parola, sotto la cui tutela vi erano tutti gli
scultori;
-Imhotep è l’architetto (anche se il termine è limitativo perché era un intellettuale a tutto tondo) di Gioser,
la sua fama varcò i secoli fino a farlo diventare un dio della scienza e della scrittura ed è considerato anche
un autore.
L’ANTICO REGNO
LE AUTOBIOGRAFIE
Autobiografia di Uni
La narratio è tutta in prima persona, prerogativa dell’intera produzione letteraria egiziana. Se
l’autobiografia percorre tutta la letteratura egiziana, non esiste la biografia, cioè la narrazione in terza
persona delle imprese di un personaggio illustre. Questo è molto interessante: se bisogna raccontare delle
imprese, è la persona che le ha compiute a doverlo fare.
L’iscrizione fu rinvenuta da Mariette in un blocco in calcare ad Abydos nel 1860. Uni si vanta di aver
ricevuto direttamente dal sovrano la “falsa porta”, la struttura fittizia che doveva ingannare chi aveva
intenzioni fraudolente. Non sono nominati però i due obelischi, che furono ritrovati da Mariette e che
probabilmente furono aggiunti successivamente per impreziosire ulteriormente la tomba.
La lunga carriera di Uni inizia come semplice sovrintendente del magazzino, sotto il regno di Teti per poi
proseguire sotto quello di Pepi I, durante il quale ricopre il ruolo di generale, per arrivare fino ai giorni di
Menenra. Nella prima parte della composizione, Uni fa un rapido excursus sugli esordi della sua carriera
da giovane, quando ancora annodava il nastro intorno alla sua testa (espressione che allude all’uso degli
Egiziani maschi adulti di rasarsi; il fatto che Uni ancora non si rasasse i capelli rivela la sua giovane età). La
parte centrale della narrazione è articolata sul servizio prestato al re Pepi I: Uni non perde occasione per
vantarsi della fiducia che il sovrano riponeva in lui e del rapporto privilegiato ricoperto all’interno della
corte con la funzione di ‘amico’. Tale è la sua posizione di spicco nell’entourage di Pepi I che il faraone
decide persino di onorarlo con la donazione dei materiali preziosi necessari per la costruzione della sua
tomba. Nel testo si legge, infatti, che il re fece portare per il suo funzionario un sarcofago di pietra bianca
da una città in genere tradotta come Troia, corrispondente all’odierna Tura, nei pressi di Menfi, nota per il
suo materiale lapideo di ottima qualità. È ancora una volta la fiducia che Pepi I nutre nei suoi confronti ad
assegnare ad Uni il delicatissimo compito di investigare e gestire un complotto nell’harem, in cui era
coinvolta la stessa sposa del sovrano, Iametes.
Successivamente il re decide di attaccare gli Asiatici in una spedizione punitiva. A tal proposito, è
interessante notare che gli Asiatici sono più volte designati come coloro ‘che stanno sulla sabbia’.
L’espressione potrebbe equivalere al nostro ‘stare al verde’, cioè non avere nulla, neanche una terra ed
essere quindi una popolazione nomade. È solo uno dei tanti casi in cui gli Egiziani mostrano la propria
superiorità, denigrando gli stranieri. A questa spedizione partecipa anche lo stesso Uni, come
sovrintendente ai Khentiu-she (coloro ai quali viene affidata la gestione della terra): in sostanza il suo ruolo
era quello di sorvegliare che non venissero compiuti atti illeciti. Tale incarico mette ulteriormente in luce
l’integrità e le doti morali del personaggio, il quale per i suoi meriti personali è riuscito a scalare la società
passando da incarichi di responsabilità nell’ambito della politica interna per poi occuparsi di una politica
estera, talvolta anche aggressiva. Il suo ritorno in patria cambia il ritmo della narrazione che assume quasi
l’aspetto di un inno alla vittoria: il tono diventa martellante attraverso l’uso ossessivo dell’anafora e della
ripetizione, molto in linea con il gusto estetico egiziano. In questa sezione centrale, gli editori mutano la
mise en page come se si trattasse di un testo poetico, forse accompagnato dalla musica, tuttavia rimane
soltanto un’ipotesi.
Si narra poi il suo operato sotto il re Menenra, dal quale riceve la gestione di opere di ingegneria, il fiore
all’occhiello nella carriera di un funzionario. Fu mandato ad Ibhat e ad Elefantina per raccogliere il
materiale necessario alla costruzione della tomba della regina: “mai nel passato Ibhat e Elefantina erano
state fatte in una sola spedizione, nel tempo di nessun re”. Infine, nella fase finale della sua carriera, si
occupa di aprire canali.
Le ultime due righe ricorrono in tutte le autobiografie perché costituiscono una formula standard (“io sono
uno amato da suo padre, lodato da sua madre, caro ai suoi fratelli, io il principe governatore dell’Alto
Egitto in funzione, giustificato presso Osiride”): essa descrive l’orizzonte morale degli Egizi, per i quali la
famiglia ricopre un ruolo centrale nell’esistenza dell’individuo. La menzione di Osiride, il dio dei morti sta
ad indicare che l’anima di Uni è già stata giudicata nel tribunale dell’aldilà: Uni si è comportato bene in vita
ed è degno di essere accolto dal dio.

Autobiografia di Herkhuf
L’iscrizione si trova su una tomba a Elefantina.
Fu un funzionario che operò sotto Pepi II.
Io favorirò per loro le cose nell’aldilà: appello ai viventi, che ci fa capire che l’iscrizione aveva un pubblico;
la cui bocca conosce: la bocca pronuncia parole, parla e quindi genera conoscenza;
Herkhuf inizia la sua carriera sotto Merenra, che lo spedisce a sud da cui torna con dei beni.
A un certo punto egli si vanta di aver ricevuto una lettera da Pepi II, che viene incorporata
nell’autobiografia: si tratta di una novità assoluta. Questa narrazione nella narrazione ci dice molto della
mentalità egiziana: i pigmei e i nani erano molto interessanti per gli Egizi. La storia passata per gli Egizi è
un modello da emulare, da cui si comprende perché Pepi II non è nella pelle di ricevere un pigmeo come ne
aveva avuto uno anche Isesi, un re della dinastia precedente.

Autobiografia di Kheti
Al termine dell’Antico Regno, si entra nel primo periodo intermedio, durante il quale l’Egitto si divide in
due. I nomarchi in mancanza di un potere centrale, diventano dei piccoli re finchè tra la IX e la X dinastia
tra i potentati locali si distinguono quello di Heracleopolis e quello di Tebe. La riunificazione avviene con
l’XI dinastia. Nel frattempo, però sono nati dei piccoli regni, quasi indipendenti. A questo periodo afferisce,
l’autobiografia di Kheti, famoso autore a cui sono state attribuite anche altre opere.
Kheti non rinnega l’esistenza del sovrano, di cui si definisce amico unico, ma di fatti si comporta come se
non ci fosse.
Upuaut, dio sciacallo, “colui che apre le strade”.
Sekhet-Hor, dea della coltivazione e della fertilità.
Ci informa del fatto che la tomba sia elevata, dettaglio importante perché doveva essere al riparo dalle
esondazioni del Nilo; il dettaglio della sala dell’imbalsamazione ci fa pensare che l’imbalsamazione
avvenisse nella tomba stessa.
Questo testo ci dà la testimonianza della frammentazione del potere: egli elogia il sovrano, si mostra a lui
fedele ma nei fatti ha una propria truppa, apre canali e si sostituisce al potere centrale.

INSEGNAMENTI
Nell’Antico Regno nasce anche la letteratura sapienziale. È il genere letterario per eccellenza agli occhi
degli Egiziani. Tra questi il più antico è l’insegnamento di Hargedef. Quest’ultimo è il figlio di Cheope, che
però non governò mai. L’insegnamento è destinato al nipote di Cheope, Auibra.
All’inizio dell’insegnamento, torna il tema della casa e della famiglia come finalità primaria di un uomo per
bene: se fai un figlio, questi ti costruirà una tomba e così potrai vivere per l’eternità. Lo invita a scegliere un
reclusiorio di uomini, cioè uomini che si occupano solo di quel servizio.

I CANTI DEGLI ARPISTI


Sono sempre accompagnati dalla rappresentazione di un suonatore d’arpa cieco o con gli occhi chiusi; si
tratta di componimenti poetici molto malinconici che sembrano invitare ad una sorta di carpe diem, dato
che del domani non c’è certezza.
IL MEDIO REGNO
INNO ALLA PIENA DEL NILO
Non esiste un dio Nilo per gli Egiziani: era evidentemente un concetto troppo alto per essere racchiuso in
un’unica divinità; ci sono però varie personificazioni della sua ricchezza, come Habhi, un essere androgino,
che ha un seno molto prominente e un cespuglio sul capo (più spesso interpretato come un cespuglio di
papiri). Il testimone più importante è un ostrakon di Deir el-Medina, che ci ha restituito per intero quello
che altri testimoni ci restituiscono solo in modo frammentario. Si tratta di uno di quei testi funzionali che
per la loro bellezza diventa un testo letterario, molto praticato anche al livello scolastico. Alcuni ritengono
che questo sia un prodotto del Nuovo Regno con caratteristiche arcaizzanti.
Nilo uscito dalla terra: gli Egizi non conoscevano le sorgenti del Nilo e ritenevano che le sue sorgenti
fossero sotto terra;
siano in festa i templi: cioè i magazzini dei templi devono essere pieni, altrimenti c’è la carestia;
Khnum: dio vasaio e del controllo del Nilo;
dal dolce odore: le divinità hanno su di sé un odore molto buono. Del resto, le divinità non possono che
palesarsi o in sogno o attraverso il loro profumo;
ricorre più spesso l’aspetto del magazzino e del granaio: gli Egizi ricordano gli anni buoni o cattivi in base
alla pienezza dei loro granai.

GLI INSEGNAMENTI O TESTI SAPIENZIALI


Insegnamento in egiziano si dice sebait. Hanno una struttura modulare: hanno cioè una cornice narrativa
quasi inesistente (contesto storico che viene brevemente presentato all’inizio e alla fine) e poi segue una
serie di precetti, quasi delle sentenze. Questo insegnamento non presenta alcun interlocutore. Questo
genere nasce forse per via orale attraverso la combinazione di più proverbi. Questo genere recupera le
caratteristiche dell’autobiografia, riducendo all’osso l’esaltazione di sé stessi per concentrarsi
maggiormente sugli aspetti morali. Uno dei primi grandi saggi dell’Egitto antico è Hardjedef, uno dei figli
di Cheope. Tra gli insegnamenti successivi, ricordiamo quello di Kagemni. Forse questi testi sono stati
assegnati a tali personaggi in modo fittizio, non perché questi personaggi non siano mai esistiti ma perché
spiccavano per la loro saggezza ma in realtà erano dei motti, proverbi e testi sapienziali brevi che avevano
una natura popolare.

Insegnamento di Kagemni
Kagemni fu un visir.
Nella parte terminale emerge il contesto (che doveva esserci anche all’inizio) e l’importanza della scrittura,
anche se questa fedeltà al testo, qui professata, scemerà con il corso del tempo.

Insegnamento di Ptahhoptep
Anche in questo caso, molto probabilmente il testo non è suo, altrimenti lo considereremmo dell’Antico
regno ma la lingua ci fa pensare che sia piuttosto del Medio regno. Fu prefetto e visir di Isesi, menzionato
anche nella autobiografia di Herkuf. Qui, l’alto funzionario sta per morire, infatti il testo inizia con molti
sinonimi di vecchiaia: chi ha prodotto il testo vuole mostrare la propria destrezza con le parole, che doveva
essere sicuramente apprezzata dagli scribi. Allora dobbiamo pensare che i fruitori della letteratura del
Medio regno siano gli scribi stessi: è una letteratura pensata da intellettuali per intellettuali, una
produzione interna ma l’alto contenuto morale rende questi testi universali e fruibili da tutti.
Il testo si apre con una descrizione della vecchiaia molto cruda e molto realistica. Proprio in virtù della sua
sapienza, quando sta per morire, viene chiesto a Ptahhotep di farsi istruttore delle nuove generazioni.
La parte in corsivo indica la rubricatura, cioè il titolo o l’inizio della sezione successiva; si tratta di una parte
del testo che doveva essere autonoma quasi a tal punto da farci pensare che fosse una sorta di titolo e che
tutto l’antefatto sia stato aggiunto in un altro momento.
Ptahhotep viene designato come figlio maggiore del re, cioè viene rappresentato come un personaggio
molto in vista a corte. Non ci aspetteremmo da un visir, figlio del sovrano, un’affermazione per cui si può
trovare la sapienza anche nelle persone semplici: tale insegnamento verrà meno nella letteratura del Nuovo
regno. Nell’incontro con il litigioso, Ptahhotep invita a non confondersi tra gli attaccabrighe: esorta il figlio
sostanzialmente ad evitare lo scontro. Tra l’altro, questo incontro con il litigioso è diviso in tre parti:
evidentemente il testo nasce dall’aggregazione di nuclei originariamente indipendenti. Ciò che emerge
immediatamente è l’invito alla moderazione.
Nelle pericopi successive, troviamo l’allocuzione ad un dio al singolare: non si allude ad un monoteismo
come i primi egittologi hanno sostenuto anacronisticamente ma al rapporto diretto tra la persona che parla
e una specifica divinità.
Vengono mescolati vari temi: un invito al silenzio; la famiglia senza però dispiacersi se non si fanno dei
figli, anche se l’Egitto conosceva la pratica dell’adozione; invito al lavoro ma senza eccesso.
Il coccodrillo entra molto spesso nella narrazione: è un animale che attacca all’improvviso la sua preda. Se
si ricopre un ruolo da dirigente, bisogna far in modo che i propri comandi devono essere rispettati ma non
bisogna mai adagiarsi sugli allori perché si può perdere la popolarità ed essere attaccati come da un
coccodrillo. Nella sez.21, la donna ha un ruolo importante ed è compito del capofamiglia che la moglie sia
soddisfatta. Sez.39 fondamentale: obbedienza del figlio nei confronti del padre ma negli insegnamenti più
tardivi si legge dei figli che si permettono di contraddire ai loro padri quando questi si aspettano troppo da
loro.
L’ultima frase è il colofone che serve a garantire che il testo è integro rispetto al modello dal quale è stato
copiato, motivo per cui siamo in grado di apprezzare questo testo più di altri e di capire di valori del Medio
regno oltre che farsi un’idea più chiara di questo genere.

C’è una sottocategoria di insegnamenti in cui l’insegnante è un re che si rivolge al figlio, futuro re: 1)
Insegnamento per Merikara; 2) Insegnamento di Amenemhat I.

Insegnamento di Amenemhat I
Giusto di voce: epiteto che viene dato a chi è già nell’aldilà, infatti il figlio Sesostri I è subito chiamato
signore supremo;
Amenemhat I che è stato re si rivolge al figlio, che è già re, come se fosse un dio, il che ci dà l’idea di come i
sovrani egiziani si autoconcepissero.
L’insegnamento ha un inizio piuttosto nichilista, in netta contraddizione con quanto si legge
nell’insegnamento di Ptahhotep: non bisogna farsi amici perché non se ne trae vantaggio.
“ho dato al povero, ho aiutato l’orfano”: è un modo per dire che si è comportato in modo retto ed è una
citazione dall’autobiografia (intertestualità).
Il re viene assalito di notte da più persone, misfatto compiuto quando Sesostri è impegnato in Libia,
spedizione alla quale partecipa anche Sinuhe (che però non sappiamo se sia un personaggio realmente
esistito, probabilmente l’intera storia raccontata è fittizia). Il re non aveva ancora provveduto alla
successione al trono perché non aveva previsto il complotto: un complotto è presente anche nel romanzo di
Sinuhe (intertestualità).
È un racconto più intimo rispetto agli altri che abbiamo letto, perché non è un testo per tutti ma è un testo
dedicato al successore al trono.

Insegnamento per Merikara


Sez c): il granito viene senza impedimento perché l’Egitto ha pieno controllo del sud; inoltre, se si legge un
invito a non rompere le altre tombe per costruire la propria vuol dire che era invalsa l’abitudine a fare ciò.

I testimoni dei testi che abbiamo letto sono principalmente di età ramesside, periodo in cui gli Egiziani
copiano ciò che hanno realizzato in passato mostrandosi orgogliosi per la loro produzione.

Insegnamento di Kheti o Satira dei mestieri


È l’ultimo insegnamento del Medio Regno (primo periodo intermedio). È l’insegnamento che ha avuto più
fortuna per il suo carattere satirico da qui il nome di “satira dei mestieri”: si passano in rassegna 18 mestieri
di cui si mostrano i pericoli, le fatiche e gli aspetti di abbrutimento della persona per dire che non c’è
mestiere che possa portare ad un innalzamento morale, eccetto quello dello scriba. Di conseguenza, solo
l‘apprendimento delle lettere può cambiare la propria posizione. Il testo interessante perché offre un vero e
proprio spaccato quotidiano: si parla di carpentieri, gioiellieri, barbieri, vasai, messaggeri, tessitori, fornai,
pescatori ecc… per comprendere i quali, è necessario un costante confronto tra la testimonianza letteraria e
quelle archeologiche. L’insegnamento di Kheti viene scritto sotto la XII dinastia, perciò è il momento in cui,
riunificato ancora una volta l’Egitto, è necessario ristabilire la gerarchia sociale.
Kheti sta viaggiando verso sud, a Menfi, dove si trova il palazzo reale per consentire al figlio di entrare
nella Casa della vita, dove tutti potevano avere accesso, ed essere quindi istruito. All’inizio, si trova un
riferimento alla Somma, una composizione di carattere didattico realizzata qualche decennio prima della
satira dei mestieri: il riferimento ad un altro libro è molto importante perché mette in luce l’intertestualità e
la coscienza da parte degli Egiziani della produzione letteraria precedente. Dalla Somma viene riportata
una citazione in cui si sottolinea come lo scriba possa assicurarsi facilmente da mangiare, senza percepire
mai delle mancanze.
Colpisce molto l’associazione tra il falegname e lo zappatore: essi praticano in fondo lo stesso mestiere.
Il barbiere non ha una sua bottega ma va di strada in strada e guadagna quanto lavora, di conseguenza,
non ha uno stipendio fisso.
Il fatto che il muratore spesso per il caldo lavori con il solo perizoma, è un dettaglio denigratorio perché la
società egiziana presta molta attenzione alla funzione sociale degli abiti.
Il fabbricante di frecce ha bisogno di un asino che trasporti la sua merce – un animale da soma che
comunque dovrà sfamare – ma deve anche corrompere i contadini di lasciarlo passare, in quanto le strade
erano poche, spesso passavano attraverso dei campi e il loro accesso poteva essere sbarrato.
Il corriere non sa se tornerà a causa delle belve e degli Asiatici (le etnie nomadi che possono assalirlo): per
questo fa testamento prima di partire.
Che sta peggio di ogni altro mestiere: chiaro gusto per l’iperbole; data la descrizione così esageratamente
negativa di tali mestieri, è davvero difficile stabilire quale sembra il peggiore. L’uso dell’iperbole è
funzionale a mettere in luce quanto quello dello scriba sia il mestiere migliore di tutti.
Dopo questa carrellata di mestieri e dopo la chiosa per cui il mestiere migliore è quello dello scriba, si legge
una sorta di deviazione verso una morale più generica, come ne abbiamo trovate in altri insegnamenti.
La scelta dei mestieri da criticare e ridicolizzare è un po’ forzata: sono stati scelti proprio i mestieri peggiori.
I mestieri non disprezzabili nella società egiziana erano almeno due: uno è quello dell’insegnante, che è
uno scriba egli stesso sebbene non di rango; l’altro mestiere importante è quello del militare, che oltre a
combattere, in questo periodo coordina i lavori per la costruzione dei grandi complessi funerari.
Di conseguenza, possiamo dire che in questa satira si legge una voluta esagerazione su alcune sfumature,
tacendone altre, al fine di dimostrare la netta superiorità dello scriba.
Il Medio Regno vede un allargamento del pubblico in grado di apprezzare un’opera letteraria. Si pensa che
ci fosse una lettura condivisa dei testi ed è proprio in questo momento che nasce il genere del romanzo di
avventura, rappresentato in modo particolare dalle Avventure di Sinuhe e il racconto del naufrago.

I RACCONTI
Le Avventure di Sinuhe
Il romanzo dovette avere un grande successo tanto da essere messo in circolazione già dal Medio Regno
stesso come ci lasciano pensare i suoi testimoni. L’eleganza della lingua fa sì che le grammatiche di Medio
egiziano (come quella di Gardiner) sono tutte strutturate a partire dalla lingua delle Avventure di Sinuhe.
È l’inizio del II secolo, intorno al 1960 a.C. Sinuhe è un personaggio della corte, al servizio di Amenemhat I
e in particolare è al seguito del principe ereditario Sesostri (anche se in realtà il re prima di morire
assassinato non aveva avuto il tempo di designare il successore).
Nell’incipit, Sinuhe che si presenta dicendo di essere un governatore amato dal re, facendoci capire subito
di essere un personaggio di rango. Parla poi alla prima persona esattamente come nelle autobiografie.
Aggiunge un particolare molto interessante, cioè si dice il re salì al cielo: non si dice mai che morì.
Sinuhe è con Sesostri in Libia, quando il re viene ucciso. Non appena seppe della morte del padre, il falco
(cioè Horus=Sesostri) volò rapidissimo verso la residenza reale senza lasciare che l’esercito lo sapesse:
evidentemente Sesostri non si sente sicuro. Tuttavia, il messaggio arrivò anche agli altri figli di Sesostri.
Sinuhe ascolta qualcosa e ha paura di una guerra civile per la successione al trono ma non vuole essere
coinvolto, perciò preferisce nascondersi. Perché non vuole essere coinvolto? Solo per paura dell’instabilità
che si viene a creare dopo la morte del sovrano oppure perché è coinvolto nella congiura? Rimarremo con
questo dubbio fino alla fine del romanzo. Lascia così l’Egitto, un fatto sconvolgente per la mentalità di un
egiziano tanto da fargli provare il “gusto della morte”. Sinuhe viene accolto da un capo tribù asiatico che
era stato in Egitto e lo riconosce, anche se non è chiaro se lo riconosce come Sinuhe o come un Egiziano di
rango. Poi gli dà del latte: gli Egiziano non bevono mai del latte. Sta dunque iniziando la trasformazione di
Sinuhe da Egiziano ad Asiatico. Successivamente viene accolto da Amu-nenesci, alle cui domande Sinuhe
risponde mentendo dicendo che fu preso da smarrimento quando gli giunse la notizia della morte del re
ma precisa subito di non essere stato criticato da nessuno: non ci chiarisce il dubbio della sua fuga.
Successivamente, dice che è succeduto al trono il figlio Sesostri I ma Sinuhe non può saperlo perché è
fuggito prima. Inizia, ad ogni modo, l’elogio di Sesostri, in cui si è voluta vedere una parte innica in poesia,
forse accompagnata persino dalla musica. In altre parole, alcuni ipotizzano che sia un inno a Sesostri
inserito all’interno della narrazione. Sinuhe suggerisce a Amu-nenesci di andare a trovare Sesostri ma lui si
arrende a rimanere in territorio asiatico e sposa la moglie di Amu-nenesci stesso. Egli diventa così capo
tribù di un territorio molto fertile. Nel frattempo, rimane aggiornato su ciò che succede in Egitto perché ci
sono dei messaggeri che passano e verso i quali Sinuhe mostra ospitalità. Quando mostra la volontà di
tornare in patria, Sesostri gli chiede cosa avesse fatto per decidere di scappare e poi lo esorta a tornare per
essere seppellito in patria. Il passo è molto importante perché ci vengono descritte tutte le fasi della
cerimonia funebre, costituendo un documento storico importantissimo. Sinuhe non sta nella pelle ma non
porta con sé i figli, per il semplice fatto che questi non sono Egiziani puri e in ogni caso, lasciarli in Asia,
significa lasciare lì un avamposto.
Ci siamo soffermati su una diatriba: è un’autobiografia storica o verosimile? Sinuhe è completamente
inventato? Gli egittologi si dividono e non sono giunti ad una soluzione. Ma non cambia molto: è un
racconto così cruciale per la cultura egiziana antica, è l’introspezione psicologica quella che ci interessa.
Emerge moltissimo il sentimento di forte legame tra l’Egiziano e la sua terra natìa: la cosa peggiore che
poteva capitare ad un egiziano era morire in terra straniera. Infatti, Sinuhe tornerà in Egitto e si sottolinea
moltissimo il fatto che deve essere purificato di tutti quegli aspetti asiatici non compatibili con l’Egitto:
l’Egitto è superiore a tutti gli altri. È chiaramente una forma di razzismo, un razzismo culturale non etnico.
Il rapporto tra l’Egitto e l’latro è sempre gerarchicamente risolto nella superiorità dell’Egiziano rispetto a
tutti gli altri. Del resto, in quel momento storico l’Egitto non aveva rivali: l’autodichiarazione di superiorità
mostra il prestigio raggiunto. Tutto ciò che esotico e diverso affascina (come il caso del pigmeo) ma non c’è
un vero e proprio interesse per la cultura altra: è una visione palesemente egittocentrica. Le Avventure di
Sinuhe ci permettono un confronto con il racconto di Unamon, del Nuovo Regno. Unamon verrà trattato in
maniera completamente diversa da Sinuhe: egli verrà depredato, ingannato, umiliato e alla fine respinto in
Egitto. Unamon tra l’altro non trova nessuno che parli egiziano: a partire dal Nuovo regno, l’Egitto viene
offuscato dalle altre potenze del mondo antico.

Il Racconto del Naufrago


Ci è giunto attraverso un solo manoscritto, che sembra integro perchè il papiro non risulta mutilo, tuttavia
non c’è un preambolo. Questo ci fa sospettare che il modello posseduto dallo scriba, Amhena, fosse acefalo:
un antigrafo incompleto. Ci troviamo in questo modo direttamente nel cuore del racconto (“allora”
permette di capire che prima c’era qualcosa, che è andato perduto).
Dal primo paragrafo, deduciamo che un’imbarcazione ha un equipaggio nel pieno della tempesta ma per
miracolo si sono tutti salvati.
Nel secondo paragrafo si deduce che la voce narrante sta cercando di rassicurare un principe, il
comandante di questa imbarcazione che è preoccupato di dover spiegare al sovrano il mancato buon esito
di una spedizione. Dopodichè una frase “la bocca dell’uomo lo può salvare”: torna l’importanza della
cultura perché l’eloquenza potrà salvare il comandante dai rimproveri del re.
L’epiteto verdissimo viene attribuito di solito al mare, in questo caso è il Mar Rosso.
“avere il proprio cuore come unico compagno”: formula molto presente nella letteratura egiziana caso di
intertestualità.
Si legge successivamente un caso di racconto nel racconto, che molto piace agli Egiziani fino all’epoca
tardoantica.
“Abbracciavamo l’ombra”: l’ombra è parte integrante dell’individuo, perciò è come dire “cercavo di tenere
stretto me stesso per mantenere il controllo”.
Il serpente viene descritto con carni d’oro, scheletro d’argento e gli occhi di vero lapislazzulo per quanto
faccia paura, è un dio tanto che il suo arrivo è preceduto da un tuono, che rappresenta la forma mediata
attraverso la quale la divinità di palesa.
Le ripetizioni che ricorrono spesso hanno la funzione di accrescere la suspense: aspettiamo trepidanti di
sapere che era successo.
Si legge ancora un’altra storia: una storia nella storia nella storia!
“bacerai tua moglie”: ricorre un’atmosfera molto quotidiana e domestica.
Il serpentone riempie di doni il protagonista: questo elenco di doni ci permette di capire dove fosse la terra
di Punt. Le code di giraffe, le zanne di elefanti, cani di caccia, babbuini: tutto ci riporta all’Africa. Tutti
questi elementi di aggiungono anche altri elementi di tipo iconografico.
Sulle imbarcazioni c’era sempre una statua di un qualche dio: un Egiziano non partiva mai senza portarsi
dietro le statue di divinità, che avrebbero dovuto proteggerlo.
Il nome del sovrano non viene detto: questo è voluto forse per rendere questa storia senza tempo e darle la
chance di essere tramandata nel corso del tempo ed essere adattata alle varie epoche.
Ricorre del tema dell’ascolto cf. insegnamento di Ptahhotep.
Nota 155: il proverbio non si capisce. Però manca della prima parte: il testo è lacunoso quindi ci manca il
contesto di riferimento per capire il senso del proverbio.
Si intravedono molte differenze rispetto alle Avv. di Sinuhe. Qui la finalità è intrattenere con il fantastico e
l’esagerazione ed è molto in linea con il gusto del Medio Regno.
Il serpentone dice di essere il sovrano della terra di Punt: questa terra viene menzionata solo nei testi
egiziani, quindi evidentemente altrove dovette avere un altro nome. Le testimonianze più sicure a tal
proposito sono le liste dei sovrani di Thutmosi III e Amenhotep III: entrambi citano una lista di località, tra
le quali c’è anche la terra di Punt. Questa terra, quindi, doveva essere esistita veramente e non è inventata.
Inoltre, la principessa Hatshepsut fa rappresentare nel suo templio funerario, Geser Geseru, nella valle di
Deir el-Bahari, una spedizione da lei intrapresa contro questa terra: vediamo le case della terra di Punt
simili ad alveari, che stanno sull’acqua come palafitte e alle quali si accede con delle scale; la fauna e la flora
del posto sono raffigurate rigogliose, il principe di Punt compare insieme alla grassa principessa e in
groppa ai suoi asini. Questa raffigurazione è interessante, in primo luogo perché permette di smentire
l’ipotesi secondo la quale il regno di Hatshepsut fu piuttosto debole. È certo che la terra doveva essere
lontana: era remota a tal punto da lasciar diffondere racconti favolosi e straordinari, non a caso è in questa
terra così remota a manifestarsi la divinità e ad essere quindi luogo di un fatto così prodigioso. Molti sono
gli studiosi che provarono a localizzare la città: perlopiù si pensa che sia in Africa. Per molto tempo si è
ritenuto che fosse da collocare nell’area della confluenza tra il Nilo Bianco e il Nilo Azzurro, vale a dire
nella zona di Cartum, quindi in pieno Sudan, molto a sud. Ma sia la narrazione del Racconto del Naufrago
sia i rilievi della regina Hats. parlano chiaramente di un viaggio per il Verdissimo=Mar Rosso: il viaggio
doveva essere via mare. Inoltre, qualcuno ha anche osservato che nelle liste dei sovrani prima menzionati,
la terra di Punt si trova a metà tra gli Africani e gli Asiatici: anche sulla base di altri indici, lo studioso
Demetree Meks ha identificato la terra di Punt nell’odierno Corno d’Africa. Si è anche supposto quindi che
la terra di Punt fosse un avamposto con finalità commerciali. È la prima volta, tra l’altro, che in un rilievo si
descrive un popolo straniero.

Il Racconto dell’Oasita Eloquente


Khuninpu è il nome del protagonista ma in Italia il testo è più famoso con il titolo di Oasita eloquente, dato
da Donadoni. L’opera è trasmessa da quattro papiri che ce l’hanno restituita completa. Faccio
cronologicamente un passo indietro rispetto al racconto del naufrago: siamo verso la fine del primo periodo
intermedio.
Per gli Egiziani l’Egitto è solo la Valle del Nilo: il fatto che il personaggio precisa “scenderò in Egitto” ci dà
contezza di come gli Egiziani concepissero il loro paese.
Eracleopoli: centro importante del primo periodo intermedio.
Khuninpu ha subito un torto e si reca direttamente ad Erakleopoli per consultare l’intendente Rensi.
Khuninpu scrive nove suppliche, le più importanti sono la prima, la terza e la settima: è un contadino ma sa
scrivere! La pedanteria con cui vengono riportate tutte e nove le suppliche mostra un’esibizione scribale,
che si traduce in una grande varietà di espressioni e termini, a dimostrazione di una grande competenza
linguistica. È l’ennesima dimostrazione che l’apprendimento della scrittura e più in generale la cultura
possono costituire un riscatto sociale.

I Racconti del Papiro Westcar


Giuntoci attraverso un solo manoscritto del secondo periodo intermedio, che prende il suo nome dal
collezionista inglese che lo acquistò, Henry Westcar. Non si sa esattamente dove lo abbia comprato;
successivamente, in ogni caso, il papiro viene acquistato da Karl Richard Lepsius, archeologo e filologo
egittologo. Egli, pur essendo un filologo, non pubblicò mai questo manoscritto, perciò si sospetta che se ne
fosse impossessato in maniera illecita, sottraendolo al legittimo proprietario.
I racconti sono più di uno. Nella finzione narrativa, sono ambientati alla corte del re Cheope, che passa così
alla storia come un sovrano annoiato e che dunque si lascia intrattenere da danzatrici o narratori. Ricorrono
anche altri principi come personaggi: ciascuno di loro narra un racconto per intrattenere Cheope. Il
racconto di Chefren è il più colorito. In questi racconti emerge il gusto per ciò che è sorprendente ed
enfatico.
La terza narrazione è quella di Hargedef.
Il passaggio tra la quarta e la quinta dinastia fu una cesura nettissima. La quinta dinastia, che introduce i
templi solari, era completamente nuova. Il testo vuole giustificare l’esistenza di questa dinastia attraverso
una profezia che avrebbe ricevuto Cheope: la moglie del sacerdote di Ra partorisce i tre successori della
quinta dinastia. La dinastia è legittimata in quanto figlia di Ra ma soprattutto si crea una certa continuità
rispetto alla quarta dinastia: giustificazione raffinata del potere. La principessa di cui si parla, che farebbe
da trade union tra la quarta e la quinta dinastia, sarebbe probabilmente la principessa cui è attribuita una
quarta piramide rinvenuta a Ghiza: se ciò fosse vero, ancora una volta la realtà storica si nasconde dietro la
finzione narrativa.

LE LAMENTAZIONI
La Profezia di Neferti
È trasmessa da due tavolette scribali, un papiro, conservato a San Pietroburgo (in cui è conservato anche il
testimone del Racconto del Naufrago), infine un’altra ventina di frammenti. Era considerato un classico, al
pari del Racconto di Sinuhe o dell’Oasita eloquente, per cui era molto utilizzato come testo scolastico
durante il Nuovo Regno e in particolare in età ramesside.
La Profezia di Neferti è la profezia più antica in assoluto nel mondo antico, per questo è un pezzo altissimo
di letteratura, di capitale importanza. Il genere della profezia troverà in Egitto molta fortuna con due
finalità:
-giustificare e confermare il potere di una dinastia;
-scagliarsi contro un nemico politico di cui non si può fare il nome.
La profezia è una produzione di tipo politico, polemico in cui non si è espliciti nella critica.
Non c’è dubbio che la Profezia di Neferti sia stata scritta dopo o durante la XII dinastia, in pieno Medio
Regno: è uno dei pochi casi in cui abbiamo certezze assolute con termini post quem molto chiari. Tuttavia, è
ambientata alla corte del re Snefru, quindi nell’Antico Regno. La corte di Snefru, un po’ come quella di
Cheope, è presentata come oziosa e dedita alla ricerca dell’intrattenimento ad ogni costo. Probabilmente,
nel Medio Regno Cheope e Snefru, proprio per le loro piramidi gigantesche, erano passati alla storia come
dei sovrani tiranni e quindi si prestavano molto ad essere immaginati nei loro palazzi, circondati dai
cortigiani, che facevano di tutto per intrattenerli.
Ad aprire il racconto sono i funzionari di corte che si recano da Snefru a porgere i loro saluti, ‘secondo il
costume di ogni giorno’. Effettuavano quella che potrebbe essere chiamata una salutatio matutina.
Successivamente il re esplicita il motivo del suo invito: raccontargli qualcosa affinchè si diverta. È evidente
il richiamo con i racconti del Papiro Westcar, perché la dinamica è molto simile. I funzionari gli consigliano
di invitare Neferti, ‘un borghese, dal braccio valido, uno scriba dalle abili dita, un ricco che ha i beni
maggiori di tutti i suoi pari’: si noti dell’utilizzo dei medesimi epiteti che compaiono nel Papiro Westcar.
Al suo arrivo, per divertire il sovrano, Neferti propone due alternative: o sentire i racconti di ciò che è già
successo oppure quelli di ciò che deve ancora avvenire. Il re sceglie di conoscere il futuro. Dopodiché, apre
un bauletto per trarvi un rotolo e una tavoletta cosicché possa mettersi lui stesso a scrivere ciò che Neferti
gli racconta. Si assiste alla trasformazione del sovrano che diventa scriba, evidentemente uno scriba di alto
livello (esistono anche statue che rappresentano il sovrano scrivere). Finisce qui l’incipit che anticipa il
racconto. Segue una sezione rubricata che costituisce una sorta di titolo: le parole che seguiranno sono state
dette da Neferti, costui è il capo ritualista della dea Bastet e fa profezie sui momenti di guerra e carestie.
Dopo la rubricatura, si legge una parte lirica, un prodotto raffinato molto alto e che sarà fonte d’ispirazione
per prodotti letterari successivi. Vi si profetizza una grande confusione nel paese, gli altolocati hanno perso
il loro ruolo, tanto che Ra potrebbe ricominciare la creazione. Tutto è rovinato, non rimane neanche ‘il nero
dell’unghia’. In realtà noi sappiamo dalle cosmogonie che non è Ra a dare il via alla creazione ma Atum,
l’indifferenziato che produce da sé stesso gli altri dei. Col passare del tempo però, Atum che non aveva una
dimensione solare, la acquisisce e viene quindi sovrapposto a Ra.
Dopo aver descritto una situazione di caos totale, in cui tutto è rovesciato, gli uomini si uccidono a vicenda
e addirittura non si celebrano più neanche le cerimonie funebri, si prevede l’arrivo di un uccello straniero
che deporrà le uova nelle paludi del Delta: dei nemici che vengono da Oriente si insedieranno nel Delta,
frammentando l’Egitto. Tuttavia, un re nascerà nel Sud, che riceverà entrambe le corone, quella bianca e
quella rossa, riunificando le due Potenti, cioè le due signore dell’Alto e del Basso Egitto, raffigurate come
l’avvoltoio e il cobra. Il linguaggio, nel frattempo, è particolarmente enigmatico: “quello che circonda il
campo sarà nel suo pugno” sta a rappresentare il nuovo re in modo molto virile. Il nuovo re si chiama
Anemi, dietro il quale si nasconde quasi sicuramente Amenemhat I: se ciò fosse vero, potremmo ipotizzare
che la profezia fu scritta dopo la riunificazione dell’Egitto da parte di Amenemhat I. Una riunificazione
sembra esserci già stata da Mentuhotep ma questa profezia non ne fa parola perché la casata di
Amenemhat è antagonista a quella di Mentuhotep. Evidentemente, qui si sta giustificando il passaggio di
potere ad una nuova casata. Inoltre, nella finzione letteraria, si profetizza, come se non fosse già avvenuta,
la costruzione delle Mura del Principe (che ritroviamo anche nel Racconto di Sinuhe) per impedire gli
attacchi dagli Asiatici. L’ordine giusto tornerà al suo posto. Ma Neferti fa anche una profezia per sé stesso:
quando accadrà ciò che sta dicendo, la sua tomba riceverà libagioni (‘un saggio verserà acqua per me’).
Segue il colofone tuttavia incompleto.
Ripetiamo, il testo è la prima profezia della monto antico e influenzò tutta l’area siro-palestinese. La Bibbia
ha varie sezioni in cui emergono caratteristiche di questo genere, che influenza in modo particolare l’Antico
Testamento, dove molti sono i profeti menzionati. Il libro maggiormente influenzato dalla profezia di
Neferti e da altri testi egiziani simili è quello di Isaia. Il libro di Isaia risale al VII secolo a.C. ma la sua
ultima redazione sembra che sia da afferire al V secolo, quindi un’epoca molto più recente ma ciò non ci
stupisce perché è proprio in questo periodo che il mondo egeo si incontra con quello egiziano e questo
contatto fa da veicolo per la diffusione di questo genere di letteratura. In Isaia, 19 si legge proprio un
oracolo sull’Egitto: si legge tutta la medesima retorica che abbiamo già letto nella profezia di Neferti. Si
auspica per l’Egitto la guerra civile, l’arrivo di un tiranno, la carestia, il medesimo sovvertimento idro-
geologico che leggiamo nella profezia di Neferti. Addirittura, si augura che si secchino le piante di papiro
che, come sappiamo, costituiva la fonte primaria per gran parte della produzione economica egiziana. Chi
ha scritto questo testo, conosce sicuramente l’Egitto molto bene. Ce lo fa pensare anche la menzione della
delusione che proveranno i tessitori di lino: il lino era in Egitto la materia tessile per eccellenza, quella pura,
al massimo come seconda scelta c’era il cotone, ma mai la lana, che era vista come un tessuto impuro. Si
maledice la stoltezza dei principi di Tanis e di Menfi, che con la loro incapacità hanno determinato la crisi
dell’Egitto. I principi di Tanis costituiscono un riferimento cronologico per noi di primaria importanza: essi
sono i principi della XXI e XXII dinastia (fondata da Sheshonq, che discendeva da una popolazione libica
molto legata alla cultura egiziana e aveva ampie tenute a Bubastis). Quindi chi ha scritto il nucleo originale
del libro di Isaia ovviamente è vissuto dopo i sovrani libici e deve avere attinto a fonti interne all’Egitto
stesso.
La prospettiva, dunque, è quella di un Egitto dominato e non dominatore come nella profezia di Neferti ma
sono evidenti i richiami e le influenze. Altro indizio cronologico importante allude ad una convivenza tra
Egiziani e Assiri: gli Assiri intervengono nella storia egiziana dopo la XXV dinastia, che si conclude con
l’egemonia degli Assiri e con la salita al trono degli Psammetico, principi posti dagli Assiri stessi, i quali
non mostrarono infatti l’intenzione di governare l’Egitto personalmente. Quindi sicuramente la redazione
del libro di Isaia è successiva non solo alla dinastia libica ma anche alla XXV dinastia.
È l’unica profezia ad usare il termine ‘profezia’ nel titolo, tuttavia questo non è l’unico testo del genere. La
profezia, infatti, appartiene al genere delle Lamentazioni, proprio perché contiene delle lamentazioni al suo
interno.

Lamentazioni di Ipu-Ur
Ha un solo testimone al Museo di Leida e tra l’altro è anche lacunoso. Non sappiamo chi sia Ipu-Ur ma è
evidentemente che fosse un personaggio altolocato che ha perso tutto. Il tono apocalittico è quello della
Profezia di Neferti. Lo stile si caratterizza per le ripetizioni.
Dialogo di un uomo con la sua anima
Il testimone è privo della sua parte iniziale, che non sappiamo quanto lunga fosse. Un uomo che sta per
suicidarsi parla con il suo ba, quella parte volatile dell’anima, che si stacca dal corpo al momento della
morte per essere giudicata da Osiride. Forse nell’incipit perduto vi si esplicitava il motivo del suicidio.
L’attacco della parte in nostro possesso ci lascia pensare che l’uomo stia rispondendo a ciò che il ba aveva
detto nella parte che è andata perduta. È interessante notare che l’uomo si rivolge alla sua anima come se
fosse il suo alter ego.
Dopo il lungo intervento dell’uomo, si legge la risposta dell’anima, che costituisce la parte più importante
del testo. L’anima cerca di scoraggiare il suicida ad andare in anticipo nell’aldilà perché sì, essa potrà fargli
da erede, prendendosi cura della sua tomba ma arriverà un momento in cui la sua tomba verrà
abbandonata da tutti, così come è successo anche ai grandi costruttori di piramidi  concezione
profondamente nichilista. L’anima così invita l’uomo a godersi la vita in una sorta di carpe diem. Gli offre
l’esempio di un aratore che aveva depositato su una barca quanto aveva seminato per poi poter scappare
con la moglie e i figli una volta fatta notte, ma perirono mangiati dai coccodrilli: questo per dire che fuggire
non è risolutivo, non si può sfuggire al proprio destino. Il coccodrillo si incontra più volte nei testi ed era una figura
ambivalente, che terrorizzava gli Egiziani, a tal punto che insieme al cobra è uno dei primi animali ad essere deificati, come a
cercare di scongiurare la loro violenza. Tuttavia, sappiamo che d’altra parte il dio Sobek non era una divinità negativa. In una
prima fase, durante il periodo predinastico fino a tutto l’Antico regno è un dio ferino e aggressivo ma poi si trasforma in un dio
A seguire si legge di un uomo che mentre aspetta che sia pronta la
solare, con la funzione di traghettatore nell’aldilà.
cena, esce ad orinare per poi tornare in casa come un uomo nuovo tanto che la moglie parla con lui ma egli
non le dà ascolto; egli orina ed è abbattuto il cuore dei familiari: questo passo, a dire il vero, non è
chiarissimo, probabilmente il testo è anche contaminato, cioè sembra che ci sia stata una perdita nel corso
della tradizione manoscritta ma il senso generico è che un uomo da un momento all’altro vede cambiare il
proprio destino.
Risponde l’uomo: la sua risposta è divisa in quattro parti scandite dalle ripetizioni formulari 1) “il mio
nome puzza”; 2) “a chi mi rivolgerò?”, domanda che ritorna martellante a sottolineare lo stato di solitudine
del personaggio oltre che lo stato di sovvertimento generale, in un momento in cui non si ricorda più ‘lo
ieri’, cioè si è persa memoria del passato quale modello da seguire (cf. Insegnamento per Merikara); 3) “la
morte è davanti a me oggi”; 4) “certo chi è là”  l’uomo risponde all’ammonimento dell’anima ribadendo
la sua volontà di morire.
A chiudere il testo è l’ultimo intervento dell’anima, che alla determinazione suicida dell’uomo ribadisce
imperterrita la sua esortazione alla sopportazione e all’attaccamento alla vita. L’anima rappresenta la pars
costruens dell’argomentazione, mentre la pars destruens è chiaramente costituita dall’aspirante suicida.
Probabilmente questo testo si fa specchio del disagio vissuti da una parte della popolazione a causa di crisi
sociali, economiche e politiche: è interessante come la letteratura qui si faccia testimonianza di aspetti che
l’archeologia accenna soltanto. L’atteggiamento degli Egiziani di fronte al suicidio è piuttosto ambivalente:
in una società che dà molta importanza all’aldilà, l’atteggiamento nei confronti dei suicidi non può che
essere negativo, eppure non mancano testimonianze come questa in cui il suicidio viene presa come una
scelta alta.

Lamentazioni di Khakheperraseneb
È attestata da un unico testimone, costituito da una tavoletta tribale. Anche questa lamentazioni affronta
tematiche molto angosciose. La parte più interessante è l’incipit perché ricorre uno stile molto vicino a
quello della XII dinastia.
Il testo è confezionato da qualcuno che vuole dare mostra delle sue competenze linguistiche, in un gioco di
parole un po’ fine a sé stesso. Al di là di questa vanità retorica, emerge un certo nichilismo: nessuno
ricorderà il suo nome agli altri, è inutile raccontare ciò che è accaduto perché non si impara nulla dal
passato ed è altrettanto inutile predire il futuro. È carica di significato l’espressione ‘le parole degli antenati
non sono niente di cui vantarsi’: non bisogna considerare l’insegnamento degli antenati.
La datazione di questo testo è molto controversa ma sicuramente risente del pessimismo del primo periodo
intermedio perché sebbene l’Egitto sia stato riunificato, la ferita di questa lacerazione interna era
evidentemente molto profonda. Tale ferita verrà guarita solo dopo la caccia degli Hyksos tanto che dopo la
riunificazione di Ahmosi, l’Egitto da regno diventa impero, artefice di una politica espansionistica e
aggressiva e di conseguenza, il sentimento espresso nella letteratura è diverso.

IL NUOVO REGNO
Durante la dominazione Hyksos, non c’è produzione letteraria di cui noi abbiamo contezza.
Il Nuovo Regno fu una vera e propria rivoluzione ma alcune caratteristiche anche linguistiche del Medio
Regno non saranno mai abbandonate: si continua a usare il Medio Egiziano e il geroglifico. Nel frattempo,
però, a prescindere dal fatto che nella letteratura continua ad essere usato il Medio egiziano, la lingua
subisce un ammodernamento.
L’Egitto si trasforma da regno a impero e attua una politica aggressiva. Il contatto inevitabile con i popoli
circonvicini porta ad un abbassamento del livello espressivo dell’egiziano. A questo si aggiunge un
avvenimento traumatico: con Amenophi IV/Akhenaton avviene una crisi in primis politica, poi anche
religiosa ed iconografica. Akhenaton divide in due periodi il Nuovo Egitto. Nulla di ciò che Akhenaton
introduce verrà considerato un’eresia, eccetto la lingua: con lui nasce il neoegiziano. Il New Egyptian è una
nuova fase linguistica, esprimibile in geroglifico e in ieratico ma di fatto è espressa sempre in ieratico
perché è una scrittura che doveva risultare più agile per una lingua più vernacolare. Akhenaton si
trasferisce ad Amarna ed è lì che viene creata questa nuova lingua, in cui vengono scritti i romanzi.
I romanzi del nuovo regno si caratterizzano per una vena pessimistica che non troviamo nei racconti del
Medio Egitto. Questo perché si è affermata una nuova upper-middle class, una classe colta ma non così
raffinata con quella precedente. Allora il romanzo muta e diventa una ‘novellistica popolareggiante’, con
intrecci inverosimili e volutamente complessi, personaggi non virtuosi.
Si assiste anche al recupero delle autobiografie: alcuni distinguano una encomiastic autobiography e una
event autobiography.
Il genere letterario risulta fortemente connesso con il supporto scrittorio.
Nascono due nuovi generi:
-le liriche amorose, tipiche dell’età ramesside: si tratta di un amore sensuale che non è mai troppo carnale.
Ci racconta di una società egiziana più ricca di quanto fosse stata in precedenza;
-le miscellanee neoegiziane: raccolte di brani letterari vecchi e nuovi, intervallati da modelli di lettere o di
appelli in tribunale o ancora esercizi scolastici  servono per la formazione scolastica, prodotti nelle Case
della vita. Grazie alle miscellanee sappiamo come doveva essere la formazione di un egiziano alto-
borghese: doveva conoscere il Medio Egiziano, scrivere opere letterarie ma anche appellarsi al tribunale,
inviare lettere ecc…

LE AUTOBIOGRAFIE
La Stele di Baki
Non è un architrave di una tomba ma una stele lapidea in geroglifico.
Non c’è nessun’innovazione contenutistica: le autobiografie sono conservative nel mantenere la tradizione.

GLI INSEGNAMENTI
L’Insegnamento di Amenemope
È l’insegnamento più importante perché è stato possibile fare un raffronto con un libro della Bibbia, cioè i
Proverbi attribuiti a Solomone.
Amenemope è un personaggio di medio-alto rango. Probabilmente, l’opera è stata composta in età
ramesside.
La prima caratteristica che emerge è che il nome di Amenemope viene di gran lunga posposto per poter
sciorinare prima le finalità del testo. Questo insegnamento sembra essere molto più funzionale, cioè sembra
avere una funzione pratica: questo perché si è abbassato il livello del fruitore. Inoltre, prima di dirci il suo
nome, Amenemope ci dice tutto il suo passato, i suoi titoli, potremmo dire il suo cursus honorum: sembra
essere una autobiografia incapsulata in un testo sapienziale. Nella V stanza, si legge una rappresentazione
di sovvertimento e disordine che ricorda invece il genere delle lamentazioni. Nella parte terminale, si
verifica una maggiore frammentazione delle tematiche, di contro alla tendenza ad accorpare parti del testo
che affrontano la medesima tematica. Questa commistione può spiegarsi ipotizzando che l’insegnamento
abbia attraversato un accrescimento progressivo nel corso della redazione. La XXX stanza, cioè l’ultima,
chiarisce che lo scopo ultimo è l’apprendimento scolastico: tutte le stanze precedenti devono essere poste
‘nel tuo cuore’, cioè devono essere imparate a memoria, per essere purificati e diventare sapienti.
È molto probabile che questo testo fosse diventato un nuovo classico, con uso scolastico.
Sono state rivenute delle affinità con quella parte del Libro dei proverbi di Salomone, capp.22-24, nota
anche come Raccolta dei Saggi, una raccolta gnomica con sentenze di carattere morale. Anche lì ricorre il
numero 30 come le stanze di Amenemope; l’appello incipitario all’ascolto oppure l’esortazione a tenersi
lontano dal collerico sono perfettamente ricalcati. Questo ci dice che i testi sapienziali del Nuovo Regno
hanno avuto una grandissima circolazione, anche per via orale, ispirando le produzioni oltre confine.

Le Leggende Divine
Sono i miti legati agli dei, che risalgono alle epoche più remote. Ma fino al Nuovo Regno non c’è alcun
tentativo di creare una redazione di questi miti che fosse davvero fruibile. È come se gli Egiziani
cominciassero a sentire un po’ di disagio di fronte ad una religione piena di contraddizioni, quindi si
comincia a mettere nero su bianco queste narrazioni.  tentativo di semplificazione.
Le narrazioni sono destinate a intrattenere persino se sono di soggetto mitologico. Si tratta di una
sottocategoria del romanzo, in particolare del romanzo popolareggiante.

Il viaggio di Unamon
Si inserisce perfettamente nella tradizione letteraria di viaggio egiziana. I racconti sui viaggi sembra che
fossero più numerosi dei testimoni in nostro possesso. Per quanto riguarda “Il viaggio di Unamon”, la
critica ha riconosciuto molte analogie con la letteratura greca, in particolare con l’Odissea. In effetti, sono
molti temi in comune, anche tenendo in considerazione il racconto di Sinuhe:
-esilio;
-trasformazione dell’individuo che diventa elemento di un’altra cultura: Odisseo, ad esempio, apparirà
come un mendicante.
I rapporti tra la letteratura greca ed egiziana si spiegano con i rapporti economici che gli Egizi intrattennero
con il mondo egeo in epoca micenea.
Rispetto al racconto di Sinuhe, i tempi sono fortemente mutati: dopo la XIX dinastia, l’Egitto vive un
progressivo decadimento, ben documentato dal regno di Ramesse III. Si discute se costui fosse o meno
imparentato con Ramesse II (supposizione forse incrementate dal fatto che il re si presentasse come figlio di
Ramesse II), ma ciò che ci preme davvero sottolineare è che costui fu l’ultimo grande sovrano dell’antico
Egitto. I segnali di decadimento si avvertono già durante il suo regno:
-gli operai di Deir el-Medina scioperano perché non hanno ricevuto la paga, fino a quando il re stesso non
intervenne a ristabilire l’ordine e il giusto pagamento dei lavoratori;
-viene ordita una congiura di palazzo da una sua sposa secondaria e dal figlio: Ramesse III morirà con un
taglio alla gola.
La congiura non ha gli effetti sperati: dopo la morte di Ramesse III, sale al trono il legittimo erede Ramesse
IV. Da Ramesse V in poi, l’Egitto perde il suo splendore e la sua influenza, tanto da arrivare a ridursi
territorialmente, infatti controllano al massimo solo il Basso Egitto. Da ovest infatti nel frattempo si fa
sentire un gruppo etnico molto forte, di origine libica che poi riuscirà a governare l’Egitto: le dinastie XXI e
XXII sono le cosiddette dinastie libiche. Fra questi sovrani, il più interessante è Smendes, visir di Ramesse
XI, il quale di fatti aveva il potere nel Basso Egitto ed era quindi lui a decidere le sorti del regno. Il resto
dell’Egitto, in questo periodo, sembra autonomo o semi-autonomo: il sud è nelle mani del sacerdote di
Amon, che aveva la sua sede nel tempio di Karnak.  questo è il contesto del viaggio di Unamon,
ambientato sotto il regno di Ramesse XI, il quale tuttavia non viene mai nominato (segno della debolezza e
della mera formalità del suo potere).

Purtroppo, l’unico testimone che riporta il racconto non ha la fine: si pensa che non avesse un lieto fine.
Unamon è un funzionario del tempio di Karnak e viene spedito in Oriente, per rimediare il legno pregiato
necessario per la costruzione di Amon-Ra. Si tratta della barca su cui l’effigie del dio era portata in
processione. Unamon giunge così a Tanis, la capitale dei sovrani libici, e porta con sé delle lettere, dategli
dal sacerdote di Amon-Ra: il dettaglio è importante perché ci fa intendere che il sacerdote e Smendes
fossero in dialogo fra di loro.
Attraversato il mare di Siria, cioè il Mediterraneo orientale, arriva nel porto di Dor dove viene ben accolto
finché un uomo della sua barca ruba degli oggetti preziosi e scappa. Unamon si reca così dal principe locale
di quella terra per chiedergli di cercare il ladro. Il principe tuttavia risponde che non è tenuto a risarcirlo
del furto perché il ladro appartiene alla stessa nave di Unamon e non alla terra del principe. Allora, lo
invita a rimanere lì per qualche giorno, il tempo di cercare l’argento. Dopo nove giorni, Unamon torna dal
principe e dato che non ha ritrovato l’argento rubato, gli chiede di lasciarlo ripartire. Segue una lacuna nel
testo in cui però si capisce chiaramente ciò che è accaduto: il principe lo esorta a tacere e si rifiuta di
aiutarlo.
Unamon si reca allora a Biblo, si impossessa dell’argento che trova nel cofano della nave attraccata a Biblo e
promette che non lo restituirà finché il principe non avrà ritrovato ciò che gli era stato rubato: in altre
parole, per avere giustizia diventa ladro egli stesso. Il principe di Biblo, Cakerbaal, tuttavia, per 29 giorni
mandò qualcuno a dirgli di andare via. Proprio quando Unamon trova una nave che gli avrebbe dato un
passaggio per l’Egitto, il principe, che nel frattempo aveva avuto una premonizione dai suoi maghi, lo
esorta ad aspettare fino a domani. Unamon è scettico dato il precedente atteggiamento del principe e teme
di perdere la nave che ha trovato ma alla fine aspetta.
Unamon si incontra con il principe che vuole da lui una lettera o un dispaccio di Ammone, in grado di
attestare che Unamon dica la verità. Ma Unamon ha consegnato il dispaccio a Smendes e in questo modo
suscita l’ira di Cakerbaal. Successivamente, egli gli chiede per quale commissione Unamon si sia recato lì: è
qui che Unamon lo esorta a rispettare il rapporto di amicizia con l’Egitto, facendo quanto avevano fatto già
anche i suoi predecessori, cioè consegnare il legno per la costruzione della barca di Amon. Cakerbaal
rispende sottolineando che gli abitanti di Biblo erano ben felici di aiutare l’Egitto ma si aspettava dei doni,
come quelli ricevuti dai suoi padri. Anzi, mette in luce come l’Egitto abbia perso la supremazia che aveva
un tempo (“La perfezione è venuta di là, per giungere al luogo dove io sono; l’istruzione è uscita di là per
raggiungere il luogo dove io sono. Che sono questi viaggi insensati, che ti fanno fare?”). Unamon risponde
sfoderando tutto l’orgoglio del suo essere egiziano e in particolare, insiste sul fatto che Ammone è dio
anche di Cekerbaal. In un certo senso, questo è vero: alcune divinità erano state esportate a nord-est e
quindi Amon era diventata una divinità tutelare anche nel Vicino Oriente. Unamon si fa inviare da
Smendes dei doni, per ammorbidire Cekerbaal. Sembra allora che finalmente Unamon possa ricevere il
legno di cedro che gli occorre. Unamon viene di nuovo accolto nella corte di Cakerbaal, dove si ritrova
all’ombra di un fiore di loto, cosa che viene percepita come un cattivo presagio; si scopre anche che il
principe ha uno schiavo egiziano di sua proprietà (un fatto inconcepibile all’epoca di Sinuhe); Cakerbaal gli
menziona il caso dei 17 egiziani giunti a Biblo e mai tornati in patria rovesciamento del tema della
sepoltura nella propria patria, tanto che Unamon non vuole vedere la tomba di Egiziani seppelliti fuori
dalla loro patria.
Quando tutto sembra essersi risolto, si legge un colpo di scena: i Ceker, ai quali Unamon aveva sottratto
l’argento per ricompensare il furto subito all’inizio del racconto, gridano chiedendo il suo arresto.
Cekerbaal, tuttavia, non può arrestarlo nel suo porto ma potrà farlo partire cosicché i Ceker potranno
inseguirlo e arrestarlo loro stessi. Una tempesta improvvisa però lo salva, ma lo fa naufragare sulle rive
della terra di Alasia, dove viene subito attaccato dai nativi che vogliono ucciderlo ma Unamon si reca dalla
principessa Heteb, presso la quale chiede aiuto. Il racconto tramandataci si chiude qui ma si può ipotizzare
che il finale sia negativo proprio per la debolezza dell’Egitto che qui emerge.

Sarà la XXV dinastia, quella libica, a restituire seppur temporaneamente il prestigio all’Egitto. Ma anche la
XXV dinastia dovrà piegarsi ad un governo straniero, quello assiro.

Il Poema della battaglia di Qadesh


Per essere precisi questa è la seconda battaglia di Qadesh, 1274 a.C., la più famosa. Ramesse attacca la città
con le sue suddivisioni, Amon, Ra, Ptah e Seth, ciascuna della quale composta da 5000 uomini. Dall’altra
parte, gli Hittiti avevano forze numericamente superiori. Ramesse viene ingannato da delle spie secondo le
quali l’accampamento hittita sia ancora molto lontano ma in realtà è a pochissima distanza. Di notte gli
Hittiti attaccano a sorpresa. Determinante per la salvezza degli Egizi sull’arrivo della suddivisione di Arin,
una popolazione suddita dell’Egitto che intervenne al momento giusto salvando l’Egitto dalla disfatta.
Anche se Ramesse dichiarò il contrario, la battaglia di Qadesh non fu una vittoria. Fu una vittoria in senso
lato perché il re riuscì a contenere la sconfitta e a limitare i danni, oltre che a rientrare in patria. In ogni
caso, la battaglia rimase la situazione immutata: Qadesh rimane in mano hittita e i confini egizi rimangono
gli stessi. Le due superpotenze rimangono tra loro ostili per molto tempo fino a quando non viene stipulato
l’accordo della battaglia di Qadesh, di cui possediamo il testo. Si tratta della prima battaglia così
abbondantemente documentata.

LE LIRICHE AMOROSE
Costituiscono un prodotto letterario circoscritto nel tempo e nello spazio: le liriche amorose sono un
prodotto dell’età ramesside e tutti i testimoni provengono da Deir el-Medina. Questo non significa che tali
testimoni siano stati prodotti lì ma sembra piuttosto che tale fenomeno sia da ricondurre alla presenza ivi di
una scuola. Sembra che tali componimenti poetici abbiano avuto una circolazione anche popolare. Essi
sono interessanti anche per avere ulteriori informazioni sulla morale e sui degli antichi egiziani in questo
periodo.
Dopo la riunificazione da parte di Ahmosi, l’Egitto fiorisce molto rapidamente. Dalle campagne in Oriente,
gli Egiziani portano lauti bottini ma anche molti stranieri che apportano la loro influenza sulla moda e sulle
consuetudini sociali. Possiamo dire che l’Egitto della 18esima dinastia si apre all’ “altro”: l’esotismo suscita
curiosità. Da Thutmosi I fino a Amenhotep III, l’Egitto cresce a dismisura dal punto di vista economico,
demografico ma anche culturale: ciò non poteva avere delle ripercussioni dal punto di vista letterario.
In età ramesside, i bottini sono sempre più rilevanti, i rapporti commerciali si consolidano, il servizio di
posta tra un regno e l’altro diventa regolare. I culti egiziani, nel frattempo, si spostano sempre più verso est.
Siamo quindi di fronte ad una società osmotica: rimane una mentalità egittocentrica ma è altrettanto
innegabile l’apertura del paese in questo periodo. Si assiste anche ad un cambiamento nel valore della
famiglia: la middle class ambisce ad avere una piccola dimora a metà tra città e campagna. Dai ritrovamenti
tombali, si ricavano notizie interessanti sulle abitudine quotidiane come che la caccia e la pesca sono le
forme di divertimento più diffuse. È questo strato sociale che produce le liriche amorose. Tutta la
letteratura che abbiamo letto finora è di tipo templare (eccetto le autobiografie), ruotava tutta intorno al
tempio, alla Casa della vita e agli ambienti scribali. Le liriche amorose invece sono sicuramente una
letteratura di tipo palaziale, prodotta cioè intorno ai palazzi come il palazzo di Menfi, di Piramesse (la
capitale dei Ramessidi) e Gurob (la sede dell’harem che Ramesse aveva fatto creare nel Fayum per trasferire
una parte della sua corte, in particolare quella che gravitava intorno alle sue spose). È qui che sarebbero
state prodotte le liriche amorose, fino ad avere largo apprezzamento e diffusione presso gli abitanti di Deir-
el Medina. Il laghetto, che non poteva non mancare nelle case della middle class, viene menzionato spesso
nelle liriche, in quanto facente parte della cura del corpo. Molto frequente nelle abitudini di questo nuovo
ceto sociale è la presenza di danzatrici di intrattenimento, spesso non egiziane (quelle egiziane ballavano
nel tempio, come mansione sacerdotale).
Lo straniamento amoroso (merwt) è il tema maggiormente trattato: esso è percepito quando si è lontani
dall’amato/a e è vissuto come uno squilibrio della mente ma anche dal corpo. Gli amanti si dimenticano di
curare sé stessi (“la parrucca era tutta scapigliata”).
Come dicevamo, i testimoni provengono da Deir el-Medina dove la spedizione archeologica fu condotta da
Ernesto Shiaparelli, il quale però non aveva competenze filologiche. Egli, dunque, si rivolse a Jaroslav
Černý.
Le liriche amorose sono in ieratico e in nuovo egiziano. Dal punto di vista contenutistico, oltre al tema dello
straniamento amoroso sarà da sottolineare la presenza della dea Hator, la dorata. Quest’ultima è la dea
protettiva dell’amore di coppia, non nella sua dimensione erotica ma affettiva. I protagonisti di queste
liriche si appellano a vicenda sen e senet, cioè fratello e sorella. Ciò ha fuorviato gli egittologi che si sono
occupati di questa letteratura e che all’inizio hanno pensato ad un amore incestuoso. Col tempo, si è capito
che questi epiteti erano entrati in uso con la 18esima dinastia e sono puramente affettivi.

LE LEGGENDE DIVINE
La religione egiziana è un insieme di miti e riti che si sommano in maniera contraddittoria e incoerente
senza mai armonizzarsi pienamente gli uni con gli altri: un mito può avere molte versioni, un personaggio
può essere sposato o associato a tanti altri personaggi a seconda della tradizione. Tale incoerenza dipende
dal fatto che prima dell’unificazione dell’Egitto, ogni comunità aveva elaborato il proprio sistema religioso
di riferimento. A dimostrazione di ciò, il caso più eclatante di tutti è la presenza di almeno sei miti
cosmogonici diversi. Tra quelli più celebri c’è quello di Eliopolis, città che ebbe un ruolo cardine nella
religione egiziana e nello sviluppo delle leggende divine. Centrali nella religione egiziana sono i quattro
fratelli Iside, Osiride, Seth e Nephtys, i quali sono l’ultima emanazione di una creazione a cascata che inizia
dall’oceano primordiale (‘un brodo primordiale’, come viene chiamato da alcuni egittologi). Dalla parte
maschile dell’oceano primordiale, il Nun, nasce una figura divina considerata fra gli dei primigeni, Atum
(da non confondersi con Aton, il disco solare). Atum deriva il suo nome da una radice verbale che vuol dire
‘non essere differenziato’: essendo il primo dio che nasce dal Nun infatti non è del tutto formato e
compiuto, infatti è indifferenziato anche sessualmente, essendo uomo e donna al tempo stesso; ha un piede
nel creato e nell’increato; dal suo sputo o dal suo sperma genera la prima coppia divina, Shu, l’aria secca, e
Tefnut, l’aria umida. Essi a loro volta generano un’altra coppia divina, Nut e Gheb che generano i quattro
che abbiamo menzionato prima. Tutti insieme sono nove, i quali formano l’enneade di Eliopoli. Si tratta
solo di uno dei tanti miti cosmogonici, che presto però prende il sopravvento su tutti gli altri quando
Eliopoli diventa il luogo sacro per eccellenza. In questo momento, infatti, Ra, inizialmente divinità
indipendente, quando assume un ruolo sempre più importante, viene associato ad Atum  più nomi e più
dei si possono combinare a formare divinità che sono la somma delle divinità di partenza. La divinità
combinata più famosa è Amon-Ra, che rispetto ad Amon e a Ra si configura come una terza divinità, che è
un guerriero, aggressivo e con un ruolo difensivo  polinomia e poliformismo degli dei egiziani.
Non possediamo nessun trattato vergato dagli Egiziani in cui si cerca di fare ordine nel loro complesso
sistema teologico. Pensiamo solo che il mito della contesa di Horus e Seth trova una sua forma letteraria
coerente solo nel Nuovo regno, in cui molti miti prendono una forma narrativa, vale a dire, le leggende
divine.
Le leggende divine possono essere divise in due categorie, potremmo dire opposte e complementari:
-il ciclo solare: i personaggi più frequenti sono Ra, Sekmet, Thot, Hathor; l’occhio di Ra è un dio esso stesso
ed è una donna, con tutto ciò che ne consegue, infatti è capricciosa e vanesia
-il ciclo osiriaco: i protagonisti assoluti sono Osiride, Iside, Horus e Seth.

L’ETÀ TARDA E IL PERIODO TOLEMAICO


XXVI dinastia, età di Psammetico: i sovrani sono fantocci messi a governare dagli Assiri, che non vollero
governare personalmente sull’Egitto. XXVII dinastia dominazione persiana, momento traumatico per la
storia dell’Egitto. XXX dinastia, ultima autoctona ma poco autonoma perché il territorio è frammentato. Gli
Assiri hanno modo di riprendersi il potere con la forza, segue poi la dominazione Achemenide, fino a
quando Alessandro non sconfigge Dario III. Con Alessandro si apre il periodo tolemaico.
La novità più saliente è l’introduzione del demotico, sia come lingua sia come scrittura. In quanto sistema
grafico nasce come corsivo del corsivo (ieratico). Esiste anche un demotico anormale, che risulta più
sintetico. È una struttura molto legata e molto stenografica. È una lingua/scrittura che ben si adatta alla
funzione dei testi documentari (contratti, liste…) ma a un certo punto si afferma anche su libri letterari, in
particolare romanzi. I romanzi di questa fase sono quindi in demotico. Tali romanzi privilegiano in questo
periodo i cicli: creare delle narrazioni concatenate a formare dei cicli lascia intuire la finalità di
intrattenimento che prende adesso più spazio rispetto a quella etica e di formazione. Si punta quindi molto
sull’elemento incredibile e fantasmagorico. Si è ritenuto che il romanzo demotico sarebbe nato su
ispirazione del romanzo greco ellenistico: è chiaro che ci sono delle corrispondenze, temi e personaggi che
ricorrono nonché elementi importati dalla cultura greca (per esempio, si legge di animali come il grifone);
ma in seguito gli egittologi che il romanzo demotico in realtà non è una novità ma è un’evoluzione del
romanzo del Nuovo Regno. Quindi ci sono delle influenze greche ma c’è sicuramente anche l’autonomia
produttiva. Ricorre spesso il riferimento a due categorie di personaggi: da una parte i maghi, che spesso
costituiscono l’escamotage prediletto dagli autori, dall’altra gli spiriti dell’aldilà, cioè i fantasmi. Tutto ciò
che può esaltare l’effetto coloristico di queste narrazioni viene ampiamente utilizzato.
Il genere della profezia viene qui decisamente esaltato, assumendo maggiore autonomia. Da questa fase il
genere della profezia diventa il genere degli oracoli, spesso dal sapore apocalittico (influenza ebraica). C’è
sempre inoltre un’entità divina rivelatrice, che svela i destini dell’umanità. Si tratta di figure anche bizzarre.
Gli oracoli più famosi sono l’oracolo del Vasaio (=il dio Khnum, che ha creato il mondo intorno al tornio) e
l’oracolo dell’Agnello (animale parlante). Questo genere salda la tradizione profetica egiziana con quella
ebraico-giudaica.
In questo periodo non viene trasmessa nessun’opera delle epoche successive (né in medio-egiziano né in
neoegiziano). Sembra proprio che questa fase storica, con tutta la sua produzione letteraria, voglia
costituire un punto e a capo. Si tende infatti molto a distinguere l’Egitto faraonico da quello cristiano: si
tratta tuttavia di un passaggio molto lento e fluido; il cristianesimo costituisce una forza dirompente ma
non deve essere trascurato il filtro dell’Ellenismo che ha portato tanta novità, nuovi valori, una nuova
lingua (il greco). Ci sono molte cesure nella storia egiziana, certamente una delle più vistose è quella tra
Egitto faraonico ed Egitto cristiano, ma non è l’unica e considerarla tale impedisce di notare altri elementi.

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