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Sunto Prima lezione di storia greca - Canfora

Storia Greca (Università degli Studi di Bari Aldo Moro)

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PRIMA LEZIONE DI STORIA GRECA


1
L’occhio e l’orecchio
La storia greca incomincia con la novella di Gige e Candaule. Erodoto (V secolo a.C.) al
principio del primo libro della sua Storia racconta del re dei Sardi. Candaule era talmente preso
dalla bellezza della propria moglie che desiderava assolutamente che il suo uomo più fido, Gige, la
vedesse nuda. Questa pretesa riluttava Gige e obiettò che qualora una donna si spogliasse, si spoglia
anche del suo pudore. Assicurava di non avere dubbi sulla bellezza della padrona, ma il re era
irremovibile: infatti, impose Gige di nascondersi nella camera da letto dove la donna, andando a
letto, si sarebbe spogliata. Fece ricorso ad un argomento per convincerlo, ovvero che di fronte
all'evidenza le orecchie sono meno fedeli degli occhi.
Il senso del racconto di Erodoto coincide con il caposaldo del credo storiografico. Esprime
infatti il modo di intendere lo scrivere storia dominante nel mondo greco. Attraverso Polibio
riusciamo a concludere che già Eraclito affermava che gli occhi sono testimoni più attendibili.
Specificare che il senso della vista non è utilizzato per scrivere un componimento diventa un topos
nella storiografia greca. Erodoto quando ha solo udito, ma non visto, si affretta a prendere esso
stesso le distanze dal proprio racconto affermando che è stato scritto lo ha sentito, per cui non
bisogna crederci necessariamente.
Questa opzione diventerà anche un’ironica lancia nelle mani dello storico per denunciare tutti
quei componimenti che si arrogavano di esser veri, laddove lo scrittore stesso non aveva a che fare
con la storia appena scritta. Lo stesso Luciano di Samosata per parodiare questo genere di pretese
inventerà un racconto assolutamente inverosimile intitolandolo provocatoriamente La storia vera e
porrà in apertura la rivendicazione della propria inesperienza di quanto viene raccontato: “scrivo
cose che non ho visto, di cui non ho mai avuto esperienza, di cui non ebbi notizia da alcuno”.
Molti dei racconti a noi tramandati sono basati sul “sentito dire” o su menzogne raccontate da
chi non ha mai visto battaglie con i propri occhi. Il bersaglio degli storici greci e proprio l'elogio
dell’autopsia caratteristico degli storici militari.
Tuttavia, spicca lo sforzo di uno storico come Tucidide, il quale ha introdotto per primo la
novità di tentare di raccontare minuziosamente e con pretesa di verità eventi in gran parte mai visti
da egli. Vuole spiegare come ha proceduto nel collezionare le testimonianze altrui e pretende quindi
di offrire un racconto vero in ogni sua parte.

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Accade però nel tempo che i due sensi di cui si è parlato vadano a coincidere nella parola. Di
fronte alla parola l'udito prevale come organo di senso, anche se la vista non manca di avere la sua
importanza giacché l'oratoria non solo la si ascolta ma la si vede. Ma dei tanti discorsi pubblici
essenziali della vicenda storica non vi era nelle città greche trascrizione. Solo i discorsi dei sovrani
erano materia di fedele trascrizione ufficiale da parte di funzionari.
Nell’impero cinese Liu Xie teorizzava che lo storiografo è un funzionario che è situato a
destra o a sinistra del sovrano; quello a sinistra registra gli avvenimenti, quello a destra le parole.
Per lo storico tuttavia i racconti di cose non viste sono di due tipi:
- da un lato i fatti contemporanei ma dei quali non gli è accaduto di essere testimone;
- dall’altro i fatti del passato magari remoto.
Per i fatti coevi vi era la possibilità di interrogare chi fosse sul posto, ma per i fatti del passato
c'è il racconto di coloro che furono testimoni e che a loro volta ascoltarono testimoni causando
vuoti storici, in quanto i contemporanei percepiscono alcuni eventi come non meritevoli di
racconto.
Ad ogni modo il racconto del passato, soprattutto quello remoto, era considerato con sospetto.
Eforo (IV sec. a.C. al tempo di Filippo di Macedonia) elaborò una teoria che diventa anche chiave
di lettura: per quel che riguarda i racconti di storia contemporanea sono più affidabili quelli più
dettagliati; per quel che riguarda il passato proprio opere di questo genere sono sospette.

2
Racconto e documento
La storia si scrive basandosi su documenti. Per lo storico greco di età classica non era così: la
principale fonte di informazione non erano gli archivi ma la testimonianza viva e diretta dei
protagonisti o dei testimoni degli eventi narrati.
La prospettiva chiaramente muta se ci interroghiamo sul nostro modo di considerare i loro
racconti storiografici: dalla scarsezza delle fonti primarie li tratteremo come fossero semplici
documenti e la prospettiva da noi adottata avrebbe limiti, in quanto risulterebbe essere un racconto
di parte, come se volessi studiare la Seconda Guerra Mondiale e utilizzassi solo l’opera di
Churchill.
Per la storia della guerra del Peloponneso, ovvero l'evento capitale della storia greca prima di
Alessandro Magno, ci comportiamo in modo deprecato quando la nostra ricostruzione è del tutto
fondata su di un grande racconto di un protagonista, Tucidide. Concederemmo a quest'ultimo quindi
ciò che non avremmo mai concesso nella storia moderna e contemporanea, ovvero un approccio alla
storia unilaterale.

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Questo non significa che non avremo documenti d'archivio. Difatti sono sopravvissute alla
distruzione del tempo e degli uomini migliaia di epigrafi, ovvero lastre di marmo, di piombo. Tali
materiali sono stati raccolti o rimasti in loco. Inoltre, esistono archivi all'interno dei quali venivano
conservati papiri sui quali erano trascritti dati storici di fondamentale importanza, di cui si ha copia
epigrafica destinata alla pubblica visione. Non si discute dell'affidabilità del documento d'archivio o
il documento epigrafico, tuttavia le copie epigrafiche dei documenti sono sicuramente un ottimo
surrogato di quegli archivi che ormai si son persi arricchendo la storia conosciuta.
Canfora inoltre sottolinea il carattere casuale del materiale documentario superstite. Non
scarso, ma non siamo coscienti di quanto ne abbiamo effettivamente perso tra: trattati tra città,
decreti onorifici, liste di entrate o di tributi, rendiconti di lavori pubblici, decreti di assemblee. Non
bisogna dimenticare che ciascun genere citato apparteneva all’ordine del giorno, di cui invece noi
abbiamo solo piccole parti. Questo comporta il combinare ogni documento sopravvissuto.
A priori quindi sappiamo che non riusciamo a sapere tutto ciò che lo storico voleva
comunicarci. Inoltre, bisogna considerare che il racconto storiografico poteva basarsi su documenti
già selezionati dallo storico: la nostra operazione risulta ancora più incongrua giacché si aggiunge
come integrazione qualsiasi documento ritrovato.

3
Quando parlano le pietre
Canfora mette pone l’attenzione su un concetto fondamentale: un insieme di epigrafi non è un
archivio, in quanto solo i testi che si raccoglievano in archivi erano scritti su papiro o pergamena.
Conosciamo archivi privati, recuperati ad esempio in Egitto, che ci permettono di comprendere
l’usuale meccanismo della conservazione dei documenti.
Un’altra idea da rettificare è che le epigrafi avessero come finalità primaria quella della accessibilità
da parte del pubblico. In realtà venivano esposte delle tavole di legno con sopra messaggi disegnati
con il pennello. Stiamo parlando dei laukoma, che raccoglievano leggi, regolamenti, rendiconti. Se
un testo è inciso su pietra invece la finalità è diversa: se un documento veniva trasposto su pietra era
perché si auspicava che il messaggio fosse duraturo, e chiaramente parliamo di una minoranza di
documenti. Consideriamo i casi più noti:
- trattati internazionali: ci deve essere qualcosa di stabili cui i contraenti nel tempo possano
richiamarsi;
- decreti onorari: la grande maggioranza dei documenti esposti è costituita da questi onori e
riconoscimenti. Le assemblee che si svolgevano per discutere del punto del giorno

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producevano decisioni che venivano poi trascritti in un leukoma. Gli onori acquisiti nel
tempo invece venivano pomposamente esposti a spese degli interessati.
Quest’ultima attività prese piede a partire dal IV secolo a.C. in modo crescente. Dal I secolo a.C.
ogni defunto di buona famiglia avrà un decreto onorifico. Famoso fu per grandezza quello di un
cittadino, Diogene, in Enoanda, la cui tomba fu tappezzata da epigrafi aventi testi che appartengono
ad opere di Epicuro. Senza questi frammenti di Diogene e della sua opera filosofica non ne
sapremmo.
Questo ci porta a pensare che molti altri autori come lui potrebbero essere persi definitivamente.
Così come però abbiamo attraverso tali documenti informazioni importanti su istituzioni delle città
greche. Un esempio è quello dei “giudici stranieri”. Quasi duecento epigrafi consentono di dare
un’idea precisa di questa pratica estranea alle fonti letterarie.
Rispetto il monumento di Diogene però troviamo un inconveniente rispetto i pezzi salvati: i
frammenti non contengono frammenti certi di datazione. Di quanto recuperato di questo autore non
si riesce a dare una datazione precisa. Tra le ipotesi:
- III secolo d.C., ipotesi avanzata per una serie di equivoci in merito alla forma delle lettere;
- Età di Traiano, o anche di Domiziano;
- I secolo a.C., visto che in un frammento epistolare è nominato un Caro, che può essere
Tito Lucrezio Caro, contemporaneo di Cicerone.
Per l’immagine della vita intellettuale e politica in una città greca la collocazione temporale è
fondamentale. Tale inconveniente discende dal fatto che il documento epigrafico giunge senza
intermediari. Questa trasmissione priva di intermediari ci permette tuttavia di avere un documento
che comunica esattezza letterale. Certamente il passaggio dal papiro a pietra ha comportato delle
necessarie modifiche, ma si tratta di eventuali errori facilmente sanabili.
Il prestigio di questa messe di fonti può avere implicazioni generali, ma anche di tipo sociale,
storico, economico. Tali fonti possono anche essere storiografiche. Una delle più gloriose epigrafi,
la cosiddetta Cronaca di Paro, scoperta sull’isola di Paro nel 1627, fu portata a Londra per ordine
del conte Arundel, ed è uno spezzone di cronologia che va da Cecrope, fondatore dell’Attica,
all’anno 263 a.C. Il XX libro di Diodoro Siculo termina al 301 a.C., mentre Polibio comincia con la
prima guerra punica, ovvero dal 264 a.C. Queste tre fonti non sono sommabili, credendo che in
questo caso si potrebbe creare una storia continua e soddisfacente.
Alcune epigrafi integrano momenti già conosciuti. Se nel tempio di Zeus a Labranda non fosse
sopravvissuta una lettera di Filippo V di Macedonia, non disporremmo della conferma della
conquista della Caria da parte del predecessore Antigono Dosone.

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Un’ultima considerazione: la storia sociale si esplica con la documentazione epigrafica, senza la


quale non avremmo avuto conoscenza del diritto greco, della vita pubblica di molte città; così come
i papiri riflettono l’intero mondo egiziano.

4
La storia “segreta”
Nella Vita di Lisandro di Plutarco descrive un singolare documento: una striscia di cuoio recante
scritte delle lettere alfabetiche in successione apparentemente insensata. Essa nascondeva un
messaggio nascosto destinato a privilegiati che poteva essere compreso solo se la striscia era
arrotolata intorno ad un’asta di legno. La crittografia diventa uno strumento di comunicazione, in
quel caso, tra gli efori e Lisandro, comandante che Piegò Atene.
Questi chiaramente non erano destinati alla conservazione, ma erano i primi a scomparire. Il caso di
Cesare (le lettere scritte in un sistema crittografico di cui Svetonio ci svela la chiave), è un caso
anomalo, giustificato dal fatto che il conflitto tra i suoi eredi deve aver propiziato una tutela efficace
delle sue carte. Scompaiono dunque documenti importanti proprio perché segreti.

5
I falsi documenti
Canfora consiglia che non bisognerebbe “feticizzare” il documento: esso può essere un falso.
Esistono periodi storici per i quali il sospetto è elevato:
- Per Atene c’è una data che fa da spartiacque. Nel 480 a.C. i Persiani invasero l’Attica, gli
ateniesi fuggirono e si rifugiarono a Trezene e ad Egina; di lì prepararono la trappola
navale di Salamina. In quel frangente i Persiani incendiarono la città con tutti gli archivi
pubblici. Ciò significa che qualsiasi documento antecedente a quella data deve essere
trattato con sospetto. È il caso di autori che tramandano la tradizione, come le Leggi di
Solone e che al più diventano ricostruzioni congetturali. Tutta l’erudizione successiva
sembra non essersi interrogata sull’autenticità di molti documenti. Qualche dubbio tuttavia
sussisteva se è vero che i Trenta, quando presero il potere nel 404 a.C., decisero di
abrogare alcune leggi di Solone che suscitavano perplessità. Gli stessi tiranni sapevano
certamente dell’alone di incertezza che girava su quel corpus legislativo. Anche gli
oligarchi del 411 avevano assunto iniziative verso le leggi di Clistene, anch’esse
antecedenti all’incendio. Certamente dopo la ritirata dei Persiani fu necessario ridare
fondamento alle istituzioni.

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- Il IV secolo a.C. è epoca di falsi. Nel 1960 Jameson pubblicò un “decreto di Temistocle”
proveniente da Trezene e databile al periodo in cui Temistocle fece evacuare Atene di
fronte alla minaccia dei Persiani. È il decreto con cui Temistocle dispone le iniziative per
la guerra: l’allestimento di 200 navi e l’equipaggiamento dei combattenti. Ora, il carattere
del ritrovamento era molto chiaro, lo stile diviene retorico perché utilizzato per rievocare
in forme durevoli la vittoria sui Persiani, al punto che diventa anche oggetto di ironia. Nel
Menesseno di Platone lo si ritrova, ma anche in Tucidide. Habicht pubblicò in seguito un
saggio intitolato Documenti falsi nel quale metteva in crisi la credibilità del ritrovamento e
lo inquadrava in un fenomeno più ampio, ovvero un falso a fini politici del IV secolo. Si
tratta di una propaganda di tipo panellenico che ben si inquadra negli anni della seconda
lega marittima voluta da Atene (378 a.C.). Dunque, sia lo stile che l’impianto mette in
crisi la veridicità del documento.
Un tratto comune a questi prodotti è la nostalgia per il sano panellenismo del periodo delle guerre
persiane. Nel documento suddetto vi è un passaggio in cui l’assemblea ateniese approva una lista di
potenziali alleati, tra cui Sparta e Corinto, tradizionali avversari degli ateniesi e principali assertori
della necessità di contenimento della potenza ateniese per il resto del V secolo, a partire dalla prima
lega marittima, e poi ancora lungo il IV secolo fino all’emergere della potenza tebana nel 371 a.C. A
questa propaganda si può ricondurre anche un documento legato al patriottismo antipersiano.
Demostene durante un discorso all’assemblea popolare nella Terza filippica lo brandisce proprio per
far emergere quel patriottismo di antico stampo. Demostene lo legge e commenta in un climax
emotivo ed è l’episodio di Artmio, un greco di Zeleia, in Asia, giunto in Peloponneso come
emissario del re di Persia, e condannato ad Atene in contumacia, alla massima pena. Condanna che
diventa esempio evidente di coscienza panellenica del tempo andato.

6
La scuola dei falsi
Un’altra fonte di falsi è la scuola dove si apprende e si tramanda l’arte del discorso. I grandi discorsi
dell’oratoria ateniese si sono continuati a studiare sia perché modelli dell’oratoria politica, sia per il
contenuto. Basti guardare la Seconda filippica contro Antonio di Cicerone. Quei fondamentali
discorsi politici erano contornati da altri documenti che li completavano di ciò che la tradizione non
aveva serbato. Dunque, l’oratore attico davanti al tribunale recitava il suo discorso e in un rotolo a
parte erano raccolti i documenti messi a frutto durante la recitazione. Tale corredo però era destinato

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a cadere. Nelle scuole bisognava ripristinare questo corredo generando falsi documenti, come, ad
esempio, il corredo del discorso di Demostene Per la corona.

7
La tutela degli archivi
Falso tuttavia non è solo un documento inventato o costruito, come lo sono i documenti che
corredano la Corona, o il discorso di Demostene per la dichiarazione di guerra a Filippo. La
falsificazione si riscontra anche nell’intenzionale e dolosa modifica di documenti autentici.
Una legge sugli archivi proveniente dall’isola di Paro e risalente al 170/150 a.C., il cui fine è di
stabilire e notificare sanzioni molto severe per chiunque scalpelli delle parole o ne aggiunga altre in
documenti esposti, è dimostrazione di questa usanza. Lo strumento di controllo è l’uso di “libri
antigrafi”, ovvero su papiro conservati in archivio e fonte indiscussa delle copie esposte.
Se si faceva ricorso a una legislazione specifica per evitare reati simili, è chiaro che erano frequenti.

8
Storici e antiquari alle prese con l’archivio
Il ricorso ai falsi è sintomo peraltro di una grande considerazione per il documento. Proprio nel
tardo IV secolo, in ambiente ateniese, alla scuola del macedone Aristotele sono incominciate
sistematiche raccolte di documenti: non solo storico-politico, ma anche teatrali. Alla scuola di
Aristotele si è formato Cratero, il quale ebbe l’iniziativa di mettere insieme una Raccolta di decreti
attici. Questa ventata documentaria non è certamente disgiunta dall’iniziativa dello stesso Aristotele
di far raccogliere i dati costituzionali relative a città del mondo greco (le 158 Costituzioni). Tutto
questo indica che il documento è diventato il fulcro della ricerca antiquaria.
La storiografia è più sfuggente in quanto la propria base documentaria è celata, o ambigua. E se gli
storici di età classica, e sulla loro scia Polibio, fanno ricorso esplicito a documenti, la tendenza
prevalente è opposta. In età romana l’idea classicistica del mestiere di storico si afferma poi
definitivamente, dividendo storici da biografi e da antiquari.

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Nel tempo si ha una perdita di storici. Un nome sovrasta gli altri nella nostra perdita, ovvero quello
di Posidonio di Apamea, contemporaneo di Cicerone, il quale narra la storia del Mediterraneo a
partire da dove si ferma Polibio. Jacoby scrive I frammenti degli storici Greci, nel quale raccoglie
circa 900 autori dei quali ci resta pochissimo. Canfora suggerisce che se rapportiamo i libri
superstiti a quelli effettivamente composti ad ora abbiamo circa 1/40 dell’intero, senza tenere conto
dei testi perduti.
Canfora ancora suggerisce che qualche perdita è peraltro peggiore di qualche altra. Cratero è in
questa lista, in quanto, grazie ad un cenno di Plutarco nella Vita di Atistide, ci rendiamo conto che
Cratero posizionava i testi in ordine cronologico commentandoli. Analogo rimpianto va per le
Costituzioni di Aristotele.

9
Del buon uso del documento
Tra storici e antiquari solo Tucidide rappresenta una eccezione. Egli inserisce nel suo racconto vari
documenti. Alcuni storici affermano che la scelta di Tucidide è stata una scelta consapevole,
decidendo dunque di far parlare i documenti. Nella sua opera ha inserito in extenso in tutto una
decina di documenti. Un ritrovamento epigrafico riesce a confermare il documento trascelto da
Tucidide, il quale si trova intero nel quinto libro della sua Storia. Questa combinazione indica che
probabilmente nei confronti dello storico bisogna avere un atteggiamento diverso rispetto agli altri
storici: abitualmente si somma il racconto a gruppi di documenti casualmente sopravvissuti.
Tucidide tiene conto della documentazione disponibile e ha scelto secondo un criterio; ogni scelta è
legittima e avviene secondo una organica selezione dell’autore. All’opposto Senofonte è uguale sia
nel racconto memorialistico (Anabasi) che in quello storiografico (Elleniche), poiché in entrambe si
ha un unico punto di vista narrante.
Valga come esempio le vicende degli ultimi mesi della guerra peloponnesiaca (405-404 a.C.). Ad
Atene nel museo nazionale esiste una stele di marmo trovata sull’acropoli contenente tre decreti. In
realtà è un unico decreto che comprende la trascrizione di due decreti precedenti relativi alla stessa
materia: la concessione della cittadinanza ateniese ai democratici dell’Isola di Samo. Perciò nel
bassorilievo sono raffigurate Atena ed Era che si danno la mano. Questa concessione fu fatta
proprio quando ormai l’ultima flotta ateniese venne distrutta dagli spartani ad Egospotami (405
a.C.) e mentre Lisandro puntava contro Samo per assediarla. Atene prende questa iniziativa insolita:
elargisce a tutti i sami che si erano schierati con il popolo di Atene la cittadinanza ateniese. Solo
un’altra occasione fu simile, ovvero quella elargita ai Plateesi cacciati dagli Spartani nel 427 a.C.

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Tuttavia, la situazione è diversa: Atene voleva migliorare le possibilità difensive. Già nel 411 la
città si sdoppiò: la fazione oligarchica rimase ad Atene, quella democratica nominò i propri
strateghi e si sposto a Samo, in Attica. Questo precedente aiuta a comprendere la decisione del tutto
non conforme alla politica ateniese.
Ora, nelle Elleniche di Senofonte questa resistenza ateniese non fu minimamente menzionata. Si
hanno complicazioni se si fa attenzione alla natura del documento. Questo infatti è datato al 403,
due anni dopo. Ma in questa data Atene ha già perso e ha subito per mesi il governo oligarchico dei
Trenta. Ora che i Trenta sono caduti Cefistofonte ripropone la precedente decisione in favore dei
Sami: evidentemente i tiranni fecero distruggere la stele precedente.

10
La cittadinanza bene supremo
Ora questo evento è di fondamentale importanza: regalare la cittadinanza è avvertito come la
massima concessione. La città democratica, Atene in particolare, ne è gelosissima. Questo lo
riscontriamo nell’atto di nascita della comunità democratica, fondata, grazie a Solone, sulla
separazione netta tra liveri e schiavi. I liberi e uguali tutelano il loro privilegio di essere cittadini, il
che ha molti risvolti pratici ed economici, non estendendo tale privilegio a chi ateniese non era. Le
concessioni di cittadinanza sono individuali e intese come contraccambio di qualche concreto
servigio reso alla città. Per Sparta, dove gli uguali sono gli Spartiati, solo in occasione della rivolta
dei Messeni (seconda metà del VII secolo a.C.) inclusero numerosi “bastardi”, nati fuori dalla
discendenza legittima, per rimpolpare la scarsità degli uomini. Tacito farà dire all’imperatore
Claudio che Sparta e Atene erano decadute proprio per la miope politica della cittadinanza.

11
“Internazionalismo antico”
Tuttavia, la concessione ai Sami non fu fatta a tutti indiscriminatamente, bensì ai Sami che si sono
schierati al fianco del popolo ateniese. Questo dato va chiarito: la lotta di fazione e la lotta di ceto
attraversa orizzontalmente le città. Ciò che chiamiamo internazionalismo o anche solidarietà di
classe in quel mondo frantumato è un riflesso condizionato. Funziona su entrambi i versanti dello
schieramento: gli oligarchi sono anche più internazionalisti dei loro antagonisti.
L’iniziativa e il suo fallimento sono sintomatici e portano al cuore del sistema ateniese. Atene
capeggia, dalla vittoria sui persiani in poi, lo schieramento democratico, trasformando il ruolo da
capofila a egemonia. Qui si trova la radice della crisi dell’impero democratico ateniese durato circa

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70 anni (478-404 a.C.). Gli alleati diventano man mano sudditi e costretti ad anche al pagamento di
un tributo preteso e riscosso. Esemplare fu la ribellione di Samo repressa da Pericle.
Anche nell’ultima fase della guerra del Peloponneso il tributo fu sospeso per poco tempo, ma poi
venne ripristinato. Insomma, la possibilità di uguaglianza tra Atene e fazioni alleate era un’utopia.
Fu proprio l’agognata “libertà per i Greci” che condusse alla vittoria l’avversario che si mostrò più
liberticida. Per questo risulta inefficace l’iniziativa ateniese verso i Sami, nonostante la replica del
provvedimento dopo la fine dei Trenta e la restaurazione democratica.

12
“Nascondere” un documento:
la saga di Melo
Forse proprio perché inattuata Senofonte decise di non parlare della vicenda di Samo. In altri casi,
invece, il silenzio della tradizione storiografica è intenzionale.
Tucidide, il più incline a servirsi di documenti, contribuisce a quella macchia che offusca
l’immagine di Atene nei secoli: la feroce repressione di melo (416 a.C.), colpevole di voler
conservare il suo status di repubblica neutrale durante il conflitto di potenza tra Sparta e Atene e i
rispettivi alleati. Melo diventa il simbolo del diritto del più forte contro ogni invocazione di
giustizia.
Tucidide mette a confronto vittime e carnefici: chi può sopraffare opprime il più debole, e non è
umana come condizione, ma è anche divina. La parte successiva invece si occupa di convincere che
l’ideologia spartana sia una ideologia inter nos, ovvero sono descritti come coloro che praticano la
virtù solo nei loro rapporti interni, risultando viziati nei confronti dell’altro.
Quanto dettoci da Tucidide, tuttavia, è in parte falso. Un pezzo di marmo sull’acropoli riporta un
dato che mette in crisi la stessa autorità dello storico: Melo già prima del 416 pagava il tributo di
Atene, dunque era parte della lega. Lo storico modifica un dato per pulire l’immagine di una città
increspata. La ferocia di Atene è indiscutibile, ferocia che viola indelebilmente il diritto
internazionale.

13
“Revisionismo” e nuovi documenti
Il mito che descrive la fondazione della democrazia ateniese fu il tirannicidio, ovvero l’eliminazione
di uno dei figli del tiranno Pisistrato nell’anno 514 a.C. Gli attentatori, Armodio e Aristogitone,
divennero i rivendicatori della libertà e figure simbolo della democrazia in Attica.

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In realtà Atene non riuscì a liberarsi da sé dalla tirannia, se non grazie all’intervento spartano, che
scacciò dal governo i figli di Pisistrato, in particolare Ippia. Dopo la sua cacciata e crisi di
assestamento, fu assicurato un governo democratico.
Ora il mito in questione esercita una potente suggestione, per cui l’oligarchia è associata alla
tirannide. Nella coscienza diffusa e nel linguaggio si afferma proprio una polarità che vede le due
forme di governo protagoniste e opposte: democrazia\tirannide. La prima è legittimata da tale
polarità. Resta appannaggio dei filosofi e degli esponenti oligarchici rovesciare tale polarità: in
quest’altra prospettiva è il demo della città democratica che assume le fattezze del tiranno, vedasi
Platone nella Repubblica.
Erodoto nel dialogo sulla costituzione svoltosi in Persia alla morte di Cambise (522-521 a.C.) fa
sostenere al promotore della democrazia, Otanes, la polarità democrazia/tiranno e al sostenitore
dell’oligarchia, Megabizio, l’identità popolo sovrano\tirannide. Essendo dunque tale polarità al
centro dell’etica democratica, ben si comprende l’uso del mito dei tirannicidi come mito fondatore.
Quando quindi Tucidide riscrive la storia del tirannicidio del 514 a.C. e lo svuota di ogni proposito
politico, riducendolo a mera vendetta privata, egli compie un’opera di REVISIONE. Il fulcro del
suo ragionamento è che se davvero gli attentatori avessero voluto abbattere la tirannide, non
avrebbero colpito Ipparco, ma Ippia, visto che quest’ultimo era erede di Pisistrato. Come lo
dimostra? Invocando due documenti:
- la “stele sui torti dei tiranni”, eretta sull’acropoli. Su di essa l’ordine in cui sono nominati i
figli di Pisistrato pone Ippia al primo posto. Osserva inoltre che egli è l’unico di cui è
comunicata la discendenza. Per questo per Tucidide il diretto erede del tiranno è lui.
- La dedica dei Pisistratidi incisa sull’altare di Apollo Pizio. Qui vi legge il nome del figlio
di Ippia, anche lui chiamato Pisistrato come il nonno: ulteriore conferma.
Per cui la morte di Ipparco non è erede del tiranno. Hanno cercato vendetta per una rivalità privata,
ovvero Armodio, giovane amante di Aristogitone, aveva rifiutato le proposte amorose di Ipparco e
per ripicca Ipparco lo fece oltraggiare.
Per cui il popolo democratico crede in un mito fondativo falso. L’operazione di Tucidide è
politicamente distruttiva: intacca quella polarità che legittima la democrazia stessa. Merito di
Tucidide è quello di aver eseguito un lavoro molto attento sui documenti a disposizione al punto che
ha compreso dell’errore di coloro che ritenevano che Ipparco fosse il tiranno in carica. D’altra parte,
egli ammette che i congiurati potevano aver incontrato per caso e ucciso Ipparco e hanno temuto
quando hanno visto un congiurato parlare con Ippia. Tucidide infine invita a credere che questa sia
solo una congettura, ovvero che la rivalità amorosa esaurisse le motivazioni per le quali in
congiurati si muovevano. Nel libro sesto campeggia l’intrigo d’amore come causa determinante

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dell’attentato. Le prime parole introducono il tema dell’eros, tuttavia egli stesso specifica che
probabilmente il movimento dei congiurati aveva fini politici, per la libertà.
Canfora azzarda che il sesto libro deve essere inserito nel percorso dell’opera di discredito della
democrazia cui lo storico potrebbe essersi dedicato. Se una tale ipotesi è verosimile, comprendiamo
meglio le finalità compositive dello storico.

14
La parola come documento
Anche la parola è un documento. Tucidide attesta puntigliosamente di essersi attenuto al senso
generale delle cose dette dai protagonisti. Egli effettivamente ci dà un campione dell’oratoria
politica del tempo. Al tempo i politici non scrivevano i loro discorsi, per cui per farsi un’idea di
come parlavano dobbiamo ricorrere a Tucidide, che intuì l’importanza del ragionamento politico e
della parola pubblica come fatto storico decisivo.
Dionigi di Alicarnasso portava come esempio di parola inventata da Tucidide proprio il dialogo tra
Meli e Ateniesi, ma forse si sbagliava anche in quel caso: non si vede perché Tucidide non potesse
farsi raccontare dai generali ateniesi il contenuto di quel dialogo. I protagonisti della politica e della
guerra erano essi stessi parte dell’élite colta della città e dunque il veicolo dell’informazione era
immediato. Né lo stile deve apparirci troppo sottile o elevato per essere vero. Basta considerare il
forte apprezzamento alla filosofia e i discorsi ai quali si abbandonavano. La parola ha uno spazio
fondamentale sia nella vita pubblica che nella storiografia.

15
Atene nelle pagine interne
Consideriamo Atene in piena età romana. Quando si è schierata con Mitridate, contro i Romani (86
a.C.) Atene vede sorgere al proprio interno una figura di capo popolare intraprendente: Atenione. È
noto perché lo storico e filosofo Posidonio, coevo a quei fatti, dedicò un ritratto. L’apparizione di
questo personaggio è importante. La storia di Atene, dopo il movimento antimacedone in seguito
alla morte di Alessandro Magno, si perde di vista. Torna solo le rare volte che incrocia la grande
storia. Un esempio è proprio il coinvolgimento di Atenione nel conflitto tra Mitridate e Silla che

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porta Atene sotto i riflettori. Più tardi la ritroveremo al fianco di Bruto e Cassio (42 a.C.) durante la
guerra civile consumatasi sul suolo macedone.
Ma la storia di Atene ellenistica, dal III secolo a.C. ad Azio, non è un vuoto. Le parole che
Posidonio attribuisce ad Atenione sono indicative: esprime rammarico facendogli sottolineare il
silenzio del teatro e dell’assemblea. Al di là dell’atto parodico di Posidonio contro il demagogo,
l’autore è consapevole del rilievo di quell’episodio, ricco di significato e di implicazioni.
La storia delle città greche è persa di vista perché le fonti di cui disponiamo spostano la visuale su
altro e, di conseguenza, la nostra prospettiva. Tuttavia, questo cambio di prospettiva non, il
passaggio da Polibio a Livio o Posidonio, non deve trarci in inganno. Quando Dexippo, storico
ateniese della seconda metà del III secolo d.C., arma la sua città in difesa contro gli Eruli, siamo al
tempo dell’imperatore Aureliano (270-275 d.C.), ovvero il restitutor dell’impero dopo la sua prima
grave crisi prima della caduta. E Atene è ancora lì con la sua istituzione e i suoi uomini di stato
impegnata in una guerra contro gli invasori.
La prospettiva è cambiata perché gli storici si sono accorti di un cambiamento: Atenione non è
Demostene o Pericle. Gli storici del tempo di Filippo e di Alessandro percepirono questo
cambiamento e dalle Elleniche cominciarono a scrivere le Filippiche, ovvero storie del mondo
greco che avevano come centro del racconto politica estera del sovrano macedone. In questo senso
la storia di Atene passa “nelle pagine interne”.

16
Limiti temporali della storia greca
Questo sviluppo degli eventi ci porta ad affrontare il problema più tradizionale, ma complesso: i
confini temporali e spaziali della storia greca.
Le grandi storie della Grecia antica offrono diverse risposte:
- Busolt, alla fine del XIX secolo, compose una delle più accurate ricostruzioni della storia
greca, proponendo come data di chiusura del periodo il 338 a.C., battaglia di Cheronea,
nella visione per cui la libertà dei Greci viene meno quando Filippo disperdeva i
confederati in quella battaglia. Quella proposta tuttavia era un passo indietro rispetto la
scoperta dell’ellenismo, un’epoca da riguadagnare nella sua piena positività.
- De Sanctis, il quale scrisse la sua Storia dei Greci, si arrestò alla morte di Socrate. Tale
prospettiva si allacciava drasticamente al nesso tra storia politica e libertà.

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- Beloch si spingeva nella sua Storia greca fino al 217 a.C. (battaglia di Raphia e patto tra
Annibale e Filippo V di Macedonia). In questo caso troviamo tutto il rifiuto di concepire il
passaggio all’età di Alessandro e dei suoi eredi come una decadenza.
- Ritroviamo in questo passaggio la tendenza impressa da Droysen con la sua Storia
dell’Ellenismo.
- Infine, troviamo Bengston che spinge la sua storia fino al regno di Giustiniano, assumendo
come evento simbolico la chiusura della scuola platonica di Atene da parte dell’imperatore
come punto di arrivo della storica greca.
Certamente la nozione di ellenismo porta lontano. Droysen ritenne di poter legare a questa nozione
– che per lui indicava la mescolanza di civiltà greco-orientale determinata dalla conquista di
Alessandro Magno – al periodo storico apertosi con tali conquiste. In merito alla durata però aveva
idee poco chiare. La sua iniziale intuizione era quella di un ellenismo che si protrae fino alla caduta
di Costantinopoli (1453). Ma questa idea non prese mai corpo, anzi la storia di Droysen comprende
alla fine circa un secolo, ovvero il III a.C.
Inoltre, lo storico propone anche un’idea ampia di ellenismo: l’”ellenismo” arabo, ad esempio,
ovvero l’incontro tra cultura araba e civiltà greca, rientra a pieno titolo in questa storia. Non è
superfluo aggiungere che anche l’incontro con il mondo romano è una tappa di questa storia. Una
tappa fondamentale, che promuove poi un fenomeno infinito di mescolanze. L’unico racconto
legittimo, per la complessità e l’intreccio degli eventi, è quello di Polibio, ovvero un racconto della
storia greca e della storia romana. Tale storia si risolve nella vulgata romana nel racconto di come la
repubblica imperiale abbatté lentamente i nemici ellenistici: da Annibale, Filippo V, Antioco III,
Perseo, Mitridate, Cleopatra. Chiaramente il punto di vista è falsato e non è facile costruire una
nuova storia in cui l’equilibrio delle parti e dei ruoli sia diverso dopo Polibio. Tale era il senso delle
Storie filippiche di Pompeo Trogo, un gallo romanizzato ai tempi di augusto: sembra il suo un
chiaro intento di detronizzare Roma dalla sua centralità.
Non abbiamo dunque fonti che ci consentano di porci nell’ottica dei grandi della storia greca di
questo periodo. Ma possiamo immaginare che, molti dei greci succitati certamente non erano
personaggi di secondo piano. I moderni praticano il racconto separato della storia greca e di quella
della repubblica romana. A questo tradizionale modo di procedere contribuisce anche il carattere
peculiare di certe fonti le quali hanno un unico tema. Al più si cerca di raccontare, a partire da
Polibio, una storia di vincitori, alla luce di un percorso che unisce la storia greca e la storia romana.
Le stesse Vite parallele di Plutarco agivano su questa scia.
L’efficacia della nozione di ellenismo è anche retroattiva rispetto alla periodizzazione affermata da
Droysen. Ci furono molti “ellenismi” prima dell’ellenismo. La storia della Ionia è, ad esempio, una

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storia di una grecità in costante contatto e scambio con le antichissime civiltà circostanti. La
dipendenza di Esiodo da una antica teologia mesopotamica fa da esempio. Un processo che si perde
di vista quando si considera il tentativo di fissare un inizio alla vicenda greca da parte della
tradizione storiografica: ma questo deve solo far pensare che i greci stessi erano comunque
consapevoli del loro posto in una tradizione e in una storia più lunga. Platone, nel Timeo e nel
Crizia, ha posto volutamente l’accento sulla gioventù dei greci ricorrendo al mito.
In realtà quando gli storici greci cercavano di fissare il punto d’inizio della loro storia essi
cercavano di porre una cesura tra lo spazio storico e una tradizione mitica sugli eroi e sugli dei.
Erodoto cominciava con Gige, il quale era contemporaneo di Archiloco. Sull’epoca precedente
sospendeva il giudizio. Eforo di Cuma stabilì invece che il punto da cui si poteva partire era ancora
più remoto: si potevano raccontare fatti storici a partire dal ritorno degli Eraclidi, figli di Eracle, nel
Peloponneso. Perché si spinge anche più dietro di Erodoto? Una spinta ad osare probabilmente era
data proprio dall’opera tucididea. La cosiddetta “archeologia” tucididea, mentre esclude che si
possa dare del passato una storia vera, tuttavia, con la nozione di “indizio”, mette alla prova
un’indagine indiziaria anche sul passato remoto, partendo dai miti di Minosse. Per lo storico quindi
Minosse poteva essere un personaggio storico. Al contrario Erodoto scrive di potersi dire nulla.
Eforo dunque fraintende l’”archeologia” tucididea, avendo tuttavia un effetto positivo: egli recupera
un racconto che sarebbe rimasto fuori.

17
I “confini” geografici della storia greca
Per entrare in argomento bisogna citare Toynbee, Civilization on Trial:
“La concezione della civiltà greca… può essere illustrata anche dalla storia del conio delle monete.
Nel IV secolo a.C. il re Filippo di Macedonia iniziò lo sfruttamento di un certo numero di miniere
d’oro e d’argento nei territori della Tracia da lui conquistati. Coi metalli estratti egli emise moneta
in gran copia. Quel denaro… si diffuse anche in direzione nord-ovest, nell’interno dell’Europa
continentale. Le monete di Filippo… e furono imitate nelle contrade “barbare”, da una serie di
zecche primitive, finché questa ondata di monete coniate varcò la Manica e si diffuse nell’isola in
Britannia.
La versione latina della letteratura greca è chiaramente inferiore all’originale greco: analogamente
le imitazioni britanniche delle monete di re Filippo sono inferiori ai prodotti della zecca originaria.
Negli ultimi esemplari l’immagine del re macedone e l’iscrizione in lingua greca sono degenerate in
una confusione di segni senza significato.”

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Nell’incontro tra vettori nasce il nuovo e l’inedito. Non parliamo dunque di un’idea ellenocentrica,
ma di un’idea di ampliamento verso il mondo latino, e altri, in forme e con esiti diversi. Per questo
si può dire che la civiltà greca costituisce la base di altri mondi intellettuali, artistici, religiosi.
Bisogna assumere un aspetto fondamentale: la proliferazione su un ampio spazio delle tracce scritte
della grecità. Ricordiamo due esempi:
- Il cosiddetto monumento “adultiano” presso Massaua sulla costa eritrea;
- La traccia dei rapporti di Roma con l’isola di Ceylon in epigrafi greche.
Fonte è un mercante, ovvero Cosma, autore nel VI secolo di una Topografia cristiana che Fozio
conosce sotto il titolo Libro del cristiano. L’autore si era spinto fino in Eritrea ricopiando una
epigrafe greca che si trovava a Adule. Il testo era iscritto su di un trono. Nella prima parte, la più
antica, un sovrano, molto probabilmente Tolomeo III Evergete parla in terza persona delle sue
imprese e del suo regno. La seconda parte, scritta sul sedile, è molto più recente: coeva al re
Aizanas il quale favorì la cristianizzazione (IV sec. d.C.). Lo scritto appare in un greco antico, ma
molto influenzato dalla lingua locale, a indicare la continuità di opera del suo antecedente e la lunga
durata della cosiddetta lingua ellenistica.
L’epigrafe di Zula è allo stesso tempo simbolo dell’espansione dell’ellenismo: al tempo chiamato
Adulis, essa era il porto di un popolo, Trogloditi, di cui apprendiamo grazie a Plinio il Vecchio, il
quale a sua volta riprende le informazioni da un’opera di Giuba, re di Mauretania. Essa era popolata
da schiavi ed egizi fuggitivi, i quali fondano il paese commerciale portando il greco in una zona
indigena. L’emporio in questione guardava sull’oceano Indiano. Esisteva una linea commerciale che
attraversava la riva del Nilo e attraverso il deserto arabico giungeva sul mar Rosso, collegando
Ceylon, come sappiamo grazie a Plinio. Lo stesso ci parla di un mercante che aveva uno schiavo
con sé. Egli scrive un’epigrafe conservata in latino e in greco.

18
Liberi e schiavi
Buckland scrive che “non vi è problema del diritto romano la cui soluzione non possa essere
influenzata dal fatto che una delle due parti è uno schiavo”.
La vita tutta era determinata dallo schiavo, soggetto passivo della polis classica. Su questo terreno il
diritto rappresenta un indizio prezioso. La centralità del fenomeno schiavitù sussiste a Roma; a
Sparta, dove gli efori rinnovano la “dichiarazione di guerra” agli iloti; ad Atene, dove lo stato di
guerra apertosi nel 431 a.C. impone la misura prudenziale di non battere gli schiavi quando vanno
puniti per le loro mancanze.

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La massa degli schiavi, che è esplosa più volte in cruente rivolte, anche se non è mai riuscita a
liberarsi, è rimasta presente, come fonte di costante preoccupazione, alla mente del potente di turno.
Nietzsche crede che il mondo antico sia andato in rovina a causa della schiavitù, ma polemicamente
soggiunge che il mondo contemporaneo è rovinato senza la schiavitù. Essa consente agli uomini
compiutamente tali, quindi liberi, la libertà dal lavoro, l’abitudine a esercitare il dominio su un altro
essere umano.
Rispetto la schiavitù ilotica, ovvero spartana, ci si chiede se gli iloti fossero considerati proprietà
privata degli assegnatari dei lotti o proprietà collettiva della comunità spartana. Non mancano
elementi nelle fonti che fanno pensare a un rapporto personale con lo spartiata. Ma questi aspetti
coesistono con altri tipici della servitù comunitaria: ogni spartiata ha l’obbligo di tenere i propri iloti
al servizio dello Stato. Inoltre, esso non può essere oggetto di transazione tra padroni, né può essere
venduto, abitudine della grecità “periferica”.
La condizione degli iloti spartani è stata tra le più dure: Senofonte dice che al tempo della congiura
di Cinandone (398 a.C.) gli iloti parlavano con violenza nei confronti degli spartani padroni. In
ambiente tessalico, Archemaco afferma che molti “penisti” – semiliberi – erano anche più ricchi dei
loro stessi padroni. La società democratica, di cui Atene è il modello meglio conosciuto, è costituita
da un ceto dominante, gli aristoi, e i dominati, spezzando l’assetto patriarcale. La comunità è divisa
in cittadini uguali e in diritto di essere mantenuti e in schiavi, “oggetti”. Essa costituisce la forma
più radicale di schiavitù.
Per questo i critici della democrazia ateniese avevano facile gioco nel porre l’accento sul modo
egoistico con cui il demo ha dato attuazione al principio di uguaglianza che fa da architrave al
sistema stesso. Il discusso frammento del sofista Antifonte sull’uguaglianza altro non è che la
denuncia della non uguaglianza. Parla di barbari e greci perché gli schiavi sono di origine barbara,
per di più prigionieri di guerra. Grandi masse di schiavi in Attica lavoravano nelle miniere, come
quelle d’Egitto e di Tracia. Lo schiavo domestico era in una condizione materiale meno dura,
almeno a giudicare da quelli che conosciamo attraverso i personaggi della commedia. Essi appaiono
così inseriti nella vita dei padroni da agire, almeno in scena, come loro familiari o consiglieri. Ciò
non toglie che lo schiavo sia per sua natura e per status, scontento e incline a fuggire. Quello
domestico ha più possibilità per attuare la fuga, facendosi a volte sfuggire i padroni anche schiavi di
buona specializzazione tecnica, come racconta Tucidide.
Il numero degli schiavi è un dato importante. Tucidide quando parla degli schiavi che lasciano
l’Attica indica un numero di circa ventimila uomini. Non disponiamo di dati in sequenza per la
ricerca demografica. Disponiamo ad esempio sulla guerra peloponnesiaca dati in merito alle armate

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messe in capo, ma Tucidide fa solo cenni sugli schiavi. Esiste un solo censimento, quelli promosso
in Atene da Demetrio Falereo (316-306 a.C.).
Ateneo dedicherà un’intera sezione al tema dell’enorme quantità di schiavi in Grecia e a Roma. Di
fronte a questi dati gli studiosi mantengono un atteggiamento piuttosto incerto. Esso diede i
seguenti risultati: cittadini 21000, meteci 10000, schiavi 400000. Traeva queste informazioni da
Ctesicle, un autore di cui non si sa nulla. Questi dati sono da interpretare: i 21000 cittadini non
costituiscono l’intera popolazione libera, costituita da maschi adulti in età militare e aventi parte
all’assemblea. Per cui la cifra va moltiplicata per quattro per avere idea della popolazione libera nel
suo intero. Gli schiavi invece essendo un bene vanno censiti in toto.
Sin dal Settecento Hume dirà che quanto apprendiamo da Demostene intorno all’importazione di
grano in Attica fa pensare che giungessero quantità in grado di sfamare circa 100000 uomini:
dunque troppo poco per una popolazione così cospicua quale si ricava dalle cifre di Ateneo.
Tuttavia, non possiamo dare per certo queste informazioni perché i dati sul commercio del grano
scarseggiano. Il grano non arrivava solo dall’Eubea, ma anche dal Bosforo. Inoltre, bisogna anche
valutare il regime alimentare degli schiavi.
Ad ogni modo le cifre di Ateneo per l’Atene del tardo IV secolo sono in parte confermate da una
fonte indipendente: un frammento dell’oratore ateniese Iperide, il quale dovette difendersi da
un’accusa di illegalità per aver affrancato circa 150000 schiavi. Tale iniziativa mirava a potenziare o
rimpiazzare l’esercito disfatto a Cheronea (338 a.C.) e a difendersi contro la falange macedone.
Questo episodio suggerisce anche una usanza: quando la città è in pericolo si procede ad
affrancamenti degli schiavi. L’episodio in questione si svolge partendo da Aristogitone, che porta in
tribunale Iperide accusandolo di attentato alla democrazia. L’episodio è sintomatico. Esso ci porta al
cuore del sistema democratico ateniese. Il “popolo” non tollera di mettere in comune i propri
privilegi, riassunti nel possesso di cittadinanza. È nel rapporto di chiusura verso gli schiavi che si
coglie il carattere esclusivo della democrazia greca.

19
La storia greca come mito
Benjamin Constantin avanzerà un’accusa contro l’imposizione ai moderni del modello antico. Con
Sulla libertà degli antichi comparata con quella dei moderni egli si scaglia contro quei dottrinari
che vogliono imporre alla Francia un modello non gradito. Il suo bersaglio sono i giacobini e in
generale gli ammiratori di Sparta. Egli oltre ad insistere sul carattere oppressivo e interventista fin
nella vita privata del modello politico greco, evoca la pochezza delle conoscenze storiche sulla cui

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base i giacobini costruiscono il mito greco. Già in passato Volney proporrà un attacco
all’inadeguatezza storiografica dell’immagine giacobina di Atene e Sparta, riprendendo però il
discorso della schiavitù.
Vonley apprezzava positivamente le cifre comunicate da Ateneo nel censimento di Demetrio
Falareo in Attica. Attaccando su questo punto, egli sovverte alla radice l’immagine liberatrice della
democrazia, riportandola all’immagine di una democrazia d’élite. La sua voce non ebbe risonanza,
soprattutto per il perdurare tra gli storici nel XIX secolo degli schieramenti pro e contro la
democrazia greca.
Tocqueville riporta al centro la discussione sugli antichi grazie ad una sua autonoma riflessione,
riprendendo il sovvertimento di prospettiva suggerito da Volney. Egli si inserisce nel discorso nel
secondo volume della Democratie en Amerique, in un contesto in cui si pone il problema di
possibili correttivi capaci di mitigare le conseguenze negative della democrazia moderna. Trova un
antidoto nello studio del mondo classico perché quella degli antichi non era effettivamente una
democrazia, ma una forma di governo elitaria. Sottolinea che il popolo antico era costituito da due
parti, ovvero chi possedeva la cittadinanza e prendeva parte agli affari pubblici, e tutto il resto. Per
cui circa ventimila governavano e il resto dei trecentocinquanta mila abitanti subivano. Per questo
parliamo più di una repubblica aristocratica, che di una democrazia. Le lettere in questo senso sono
viziate dai bisogni e le esigenze degli aristocratici, come fosse un’industria.

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