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CREAZIONE E ANARCHIA

L’opera nell’età della religione capitalista

1. Archeologia dell’opera d’arte

In Europa la storia, poiché millenaria, ha un’importanza ben maggiore rispetto agli altri continenti. Qui se
l’uomo intende comprendere il presente deve assolutamente indagare il passato, poiché questo vive nel
presente, e il passato a sua volta può essere studiato tramite l’opera d’arte intesa come emblema del
passato. Alla base di questa cosiddetta archeologia dell’opera d’arte deve essere chiarito non solo il
significato di “arte” ma anche (forse soprattutto) quello di “opera”. Quest’ultimo concetto viene messo in
crisi nel ‘900, quando le avanguardie artistiche antepongono all’opera il processo creativo dell’artista: a
partire da Duchamp e dal Surrealismo l’arte supera l’opera, cioè la sua incarnazione fisica; l’arte è diventata
attività senza opera e mentre la prima sopravvive, la seconda no.

E’ necessario risalire al rapporto tra opera e arte in tre momenti storici diversi, di cui il primo è il IV secolo
a.C. ad Atene. Allora l’artista è un semplice tecnìtes, artigiano. Nella “Metafisica” Aristotele identifica
nell’uso di un suo prodotto il fine dell’attività dell’artigiano; così l’artista poichè ha il suo fine fuori di sé,
nell’opera appunto, e non produce nulla oltre alla visione, è considerato un essere incompiuto. Maggiore
attenzione ed importanza sono attribuite invece al theoretés, colui che contempla, poiché essendo la sua
attività senza opera egli possiede il proprio fine in sé. E’ evidente la distinzione tra la canalizzazione
dell’attività in un’opera per quanto riguarda l’artista e la coincidenza tra attività ed opera per quanto
riguarda invece il pensante, la cui opera è appunto insita nel pensare. Oggi l’artista producendo opere che
vanno ben oltre la sola visione si erge a theoretés, poiché la sua attività si incarna nel processo creativo
piuttosto che nell’opera, la quale diviene solo una testimonianza dell’attività creativa. Perciò possedendo la
propria attività in sé, cioè nell’idea alla base del “progetto” (Tommaso d’Aquino), oggi l’artista afferma la
sua superiorità rispetto all’opera.

Un enorme salto temporale porta al secondo momento, ovvero i primi anni ’20 del XX secolo in Renania, in
Germania. Qui il monaco Odo Casel interpreta la liturgia come un mistero, ovvero come un insieme di gesti
e parole teatrali: il cristianesimo non è più una religione ma una sorta di performance che porta alla
salvezza chi la compie. Come la liturgia non è più la rappresentazione dell’evento salvifico ma l’evento
salvifico stesso, così l’attività dell’artista non è più finalizzata alla produzione ma diventa performance,
rituale celebrativo del processo creativo. Dunque l’opera non viene prodotta per essere celebrata dagli
spettatori (fine esterno), anzi, fare l’opera diventa per l’artista un’occasione di celebrazione della propria
attività creativa (attività mentale che quindi ha il proprio fine in sé): l’azione stessa si presenta come opera.

Il terzo momento è quello del 1916 quando, a New York, Marcel Duchamp inventa il ready-made. Egli
supera tramite oggetti di produzione industriale l’estetica, che per lui rasenta il vero ostacolo all’arte; che
questi oggetti vengano poi trasformati in arte dagli speculatori è ben altra questione. L’arte non è il frutto di
un atto di volontà o d’ispirazione divina, bensì una testimonianza, una forma di vita (legata ad una attività
pratica) di colui che poi viene chiamato “artista”.

2. Cos’è l’atto di creazione?

Ogni opera ha in sé una capacità di sviluppo, cioè qualcosa che rimasto volontariamente o
involontariamente inespresso dall’autore deve essere trovato e raccolto dal lettore. Perciò è necessario
interpretare quanto sostenuto da Deleuze: la creazione consiste nella liberazione di una potenza di vita e in
un atto di resistenza innanzitutto alla morte. Entrambi sono interni allo stesso atto della creazione, dove
“creazione” va intesa nella sua accezione (poiein, “produrre”) di “atto poetico”, che si scinde dal concetto di
trasposizione pratica di un qualcosa che già esiste in un modello ideale preliminare.

E’ sufficiente risalire ad Aristotele per confermare che la creazione non è assolutamente il passaggio (mosso
non si sa come dalla volontà dell’artista o da un’ispirazione divina) dalla dùnamis all’enérgeia, cioè dalla
potenza all’atto. Se la potenza è il possesso di una capacità, “potente” allora sarà definito colui che può
mettere in atto come non-mettere in atto tale capacità. Perciò la potenza è anche e soprattutto la presenza
di ciò che potrebbe essere in atto ma non lo è: la potenza è la possibilità del suo non-esercizio; la potenza è
impotenza, cioè potenza-di-non passare all’atto. Tale impotenza quindi trattiene la potenza dal passare
all’atto e se l’atto è espressione della potenza allora l’impotenza è resistenza all’espressione e all’atto.

Un processo creativo è autentico quando è dotato di una duplice natura sospesa tra ispirazione (impulso) e
critica (resistenza) e dal momento che nessuno di questi due aspetti può essere padroneggiato è necessario
che ogni opera risulti una loro dialettica. L’atto di creazione può essere quindi inteso come una dialettica
tra la potenza-di (cioè il genio, elemento impersonale) che tende all’opera, e la potenza-di-non (cioè la
reticenza, elemento personale): la potenza-di-non si oppone alla potenza-di e quasi la lascia in sospeso, ma
non la nega bensì la segna, la caratterizza; la resistenza critica doma l’impulso dell’ispirazione. Frenando il
cieco impulso della potenza verso l’atto la resistenza impedisce che questa si risolva interamente
nell’opera: la suprema maestria sta nel lasciare che la potenza arda nell’opera senza che la sua fiamma però
si esaurisca. La potenza-di-non è l’inoperosità che frapponendosi tra loro impedisce alla potenza di
esaurirsi nell’atto, che altro non è che esibizione della potenza-di. Risalendo alla maniera antica di
intendere “inoperosità” come otium e cioè come la vita contemplativa contrapposta al negotium (vita
lavorativa), in senso simile il non operare significa sospendere la potenza, rimandare l’atto e quindi
contemplare. Questa contemplazione dovuta all’inoperosità consente alla potenza di superare l’atto per
volgersi su sé stessa. Così la potenza fa dell’impotenza il proprio potere. Perciò un’opera consiste
nell’oggetto rappresentato (prodotto), nella potenza-di (attività) o potenza-di-non (sospensione)
rappresentarlo e nell’arte, cioè nella potenza solo parzialmente espressa (critica), con la quale questo è
stato rappresentato.

3. L’inappropriabile

Tema totalmente attuale è quello della povertà. La società oggi rifugge qualsiasi possibilità di povertà e ciò,
insieme all’ossessione per la ricchezza e il denaro, fa paradossalmente di un tema attuale un tema
inattuale. Se la società rifugge la povertà è perché la intende unicamente nella sua accezione negativa.
Tutt’altro accade tra XI e XII secolo, quando il Francescanesimo propone un modo di vivere fondato sulla
povertà intesa come rifiuto di qualsiasi forma di proprietà. Ciò significa proporre un modello di vita al di
fuori del mondo del diritto e logicamente comporta l’opposizione della curia, a cui i francescani rispondono
che un simile modello di vita è legittimato dalla separazione dell’uso dalla proprietà: si può fare uso di un
oggetto non solo senza possederlo ma persino non avendo il diritto di usarlo. Data tale affermazione e visto
il fatto che la curia è proprietaria dei beni di cui, a questo punto senza diritto, i francescani usufruiscono
diventa necessaria una definizione in termini giuridici di questo modello alternativo di vita e quindi di
“povertà”.

Francesco non dà mai una definizione a questo termine e secoli dopo, a metà ‘900, prova a spiegarne il
significato filosofico Martin Heidegger. Egli tiene una conferenza a partire da un frammento di Holderlin che
recita: “Tutto si concentra da noi sullo spirito, siamo diventati poveri, per diventare ricchi”. Anzitutto è
necessario abbandonare i significati comuni di “povertà” e “ricchezza” legate al possesso, perciò, se povertà
non è più mancanza del necessario e ricchezza non è abbondanza rispetto al necessario, allora “povertà” si
lega all’essere piuttosto che all’avere. Subito dopo vengono ristabiliti alcuni concetti: il “necessario” è ciò
che deriva dal bisogno; il “non-necessario” è il superfluo, cioè ciò di cui non si ha bisogno; “mancare”
significa non poter essere senza il non-necessario, perciò appartenere al mondo del superfluo ed essere
messi in crisi dalla mancanza di ciò che non è necessario; infine “essere poveri” acquisisce un significato
positivo, poiché essere in modo tale da non mancare di nulla, in altre parole, significa poter essere senza
ricchezza.

Precedentemente Heidegger considera la povertà non da un punto di vista quantitativo (quanto si possieda
in meno rispetto ad altri), ma qualitativo, ovvero come ci si ponga rispetto ad una mancanza, come la si
consideri e quale comportamento si abbia verso questa. “Può essere ricco […] solo colui che prima è
diventato povero”, cioè non colui che ha il coraggio di compiere una rinuncia rispetto ad una ricchezza
(gesto che infine produce una mancanza totale e pertanto è sintomo di povertà d’animo), ma colui che
potendo essere senza ricchezza (povero) non deve compiere alcuna rinuncia; in parole povere può essere
veramente ricco solo colui che dinanzi alla mancanza di ricchezza non vacilli. La rinuncia alla proprietà e alla
ricchezza da parte dei francescani è appunto una rinuncia strettamente dipendente dalla ricchezza: senza
una ricchezza o proprietà di base la loro rinuncia non può essere messa in atto. Il significato che i
francescani attribuiscono alla loro rinuncia alla proprietà non si svincola dalla concezione negativa di
“povertà”, infatti tale rinuncia consiste nel privarsi di un bene e se tale bene sono ricchezza (non-
necessario) e proprietà allora è chiaro che queste vengono intese dai francescani come positive, e quindi
rinunciare a tali fortune consiste in un atto di coraggio, di sacrificio. Pertanto nella condanna della rinuncia
viene coinvolto anche l’ordine francescano. L’insistente concezione negativa di povertà viene ribaltata in
positiva da Heidegger quando concludendo la conferenza ritorna su Holderlin, il quale sostiene che il
passaggio da povertà a ricchezza non è automatico né per nulla scontato, infatti la “autentica povertà”, cioè
la condizione in cui non l’uomo non manca di nulla, è la vera ricchezza.

Nei primi decenni del ‘900 Walter Benjamin si concentra, più che sulla povertà, sui concetti di giustizia e di
proprietà. Definendo la giustizia “il bene attraverso il quale i beni divengono privi di proprietà” egli la
considera come uno stato in cui il mondo appare inappropriabile. Di qui la definizione positiva (di Agamben)
di povertà: “essere povero significa tenersi in relazione con un bene inappropriabile”. Perciò il gesto di
Francesco acquista un significato più ampio rispetto alla rinuncia e all’uso: se il diritto si fonda sulla
possibilità di appropriazione di beni, il modello di vita fondato sul loro stato di inappropriabilità si pone al di
fuori del mondo del diritto, cioè nel mondo della giustizia.

A testimonianza della quotidiana relazione dell’uomo con l’inappropriabile vengono riportati tre esempi. Il
primo di questi riguarda ciò che probabilmente più d’ogni altra cosa è ritenuto proprio e originario, cioè il
corpo. Husserl pone il problema di come sia possibile per un uomo percepire il corpo altrui: anche se un
corpo in quanto altrui non ci appartiene, riusciamo tuttavia a percepirlo. Secondo alcuni questa percezione
può avvenire grazie alla nostra esperienza personale ed individuale che, in qualche modo (forse per
analogia empatica, oltre che fisica), ci consente di immedesimarci nel vissuto di un altro individuo. Per
esempio, osservando un acrobata in pericolo di cadere, immedesimati nella sua stessa situazione, riusciamo
a percepire il suo corpo come se fosse il nostro e in tal senso gli siamo vicini. Secondo Husserl invece per
giustificare la percezione non è sufficiente una tale immedesimazione empatica, ma la stessa lo mette in
difficoltà a tal punto da non riuscire infine a dare una spiegazione esaudiente di come e perché sia possibile
la percezione. Ad ogni modo, poiché il nostro corpo appartiene solo a noi stessi, riusciamo a riconoscere il
corpo altrui in quanto improprio (non nostro) quando questo ci tocca: tramite il riconoscimento
dell’improprietà avviene il riconoscimento della proprietà.
Levinas sostiene che il corpo sia la cosa più originaria e propria possibile, ma solo nel momento in cui
questo si rivela essere assolutamente inappropriabile. Per avvalorare quanto sostenuto riporta alcuni
esempi: l’impossibilità di nascondere né di superare la propria nudità quando questa è causa di vergona per
sé stessi, esattamente come il disperato tentativo di uscire da una condizione di nausea che impedisce di
essere sé stessi, sono cose e sensazioni che rifiutiamo, ma poiché sono inevitabilmente proprie (del nostro
corpo) sono irrefuggibili, cioè ci trattengono vicino a sé, pertanto le sentiamo estranee e inappropriabili.
Anche la lingua, intesa come lingua materna, è considerata tra le facoltà più intime e proprie dell’uomo,
anche se la sua provenienza è inequivocabilmente esterna poiché viene insegnata da altri sin da quando si è
piccoli. L’uomo “costruendo” la lingua, a partire dal suo uso comune, familiarizza con questa fino a
considerarla come un qualcosa di naturale e assolutamente proprio, ma analogamente a quanto avviene
per il corpo alcuni fenomeni, come ad esempio balbettamento o lapsus, rendono la lingua estranea per il
parlante stesso.
Risulta particolare il caso del poeta che ogni volta abbandona l’uso comune della lingua in modo da
renderla straniera, per poi dominarla tramite un apposito sistema di regole arbitrario: si tratta di
espropriarsi della lingua per poi appropriarsene. Definito il manierismo come l’esagerata adesione ad un
uso o modello nel quale però non ci si riesce a identificare, è possibile affermare che l’espropriazione
avviene tramite la maniera: voler aderire per forza ad uno stile dal quale inconsciamente si fugge. Ciò ha
come esito la costituzione, tramite l’esagerazione dello stile ricercato (ma allo stesso tempo rifuggito), di
uno stile proprio che in quanto tale consente di caratterizzare la lingua a tal punto da renderla estranea
(appropriazione). Come per il poeta, anche per il semplice parlante fare uso della lingua significa oscillare
tra due poli, o meglio antipoli, maniera e stile.

Infine viene riportato l’esempio del paesaggio che non può che essere inteso nel suo rapporto con
l’ambiente e con il mondo. Si ritorna su Heidegger, in particolare sulla riflessione riguardo al rapporto che
l’animale ha con l’ambiente: l’animale nel suo ambiente è vincolato dal rapporto con una serie di elementi
detti “disinibitori”, senza i quali non può essere; non essendo in grado di percepire gli elementi disinibitori
in quanto tali l’animale è imprigionato da questi nel suo ambiente, perciò è impossibilitato ad aprirsi verso
il mondo e quindi ad appropriarsene, dunque l’animale è povero di mondo. Il disinibitore lo vincola a tal
punto da renderlo “stordito”, perciò l’animale non solo non può coglierne la vera identità (il disinibitore
imprigiona l’animale) ma non può nemmeno interrompere la ciclicità del suo rapporto con questo. L’uomo
si trova allo stesso modo stordito da un disinibitore che lo inchioda a sé, ma, diversamente dall’animale,
annoiandosi (non accettando tale condizione) riesce ad interrompere il rapporto con questo. Solo tale
interruzione consente all’uomo di percepire il disinibitore in quanto tale e quindi di aprire quella chiusura al
mondo propria dell’animale. Allora mentre l’animale è aperto all’ambiente ma chiuso al mondo, l’uomo è
aperto al mondo solo nella condizione di noia profonda. A questo punto il paesaggio è qualcosa di ulteriore:
contemplandolo l’uomo non percepisce più il paesaggio come un insieme di parti (disinibitori) che
costituiscono l’ambiente animale, ma disattivati e disvelati i disinibitori sono ora solamente paesaggio e
l’uomo non deve più comprendere nulla ma limitarsi a guardare. In questo senso il paesaggio viene portato
al di fuori dell’essere ed essendo inappropriabile diventa emblema dell’uso.

4. Che cos’è un comando?

Con il termine “archeologia” si intende la ricerca di una arché, di un’origine. Oltre a “origine”, arché
significa anche “comando” poiché deriva dal verbo archo, cioè “essere il primo” oppure “essere il capo”. I
diversi significati della stessa parola sono strettamente legati tra loro, infatti se “il primo a fare qualcosa” è
il capo e, viceversa, “chi comanda” è il primo, allora è lecito dire che all’origine vi è sempre un comando che
è anche fondamento e principio di governo: l’origine è ciò che comanda e governa la storia. Ciò vale sia in
teologia, dove Dio crea e poi governa il mondo, sia in filosofia, dove Heidegger ritiene che alla base di ogni
epoca storica vi sia un inizio che nascosto e sempre presente (mai passato) ne regoli l’andamento. Dunque
il primo problema sta nell’archeologia (risalire all’origine) del comando perché spesso origine e comando
coincidono: non esiste un’origine del comando poiché il comando stesso è origine, o per lo meno si trova
nello stesso luogo dell’origine.

Aristotele esclude dalla logica e dalla riflessione filosofica i discorsi non-apofanatici perchè non manifestano
l’essere o il non-essere, non sono in grado né di dimostrare se una cosa esiste o meno né di distinguere il
vero dal falso. Poiché il comando ricade in questa categoria esclusa, la trattazione filosofica lo trascura,
quasi lo ignora. Dato lo scarso repertorio a disposizione ci si può accontentare di affermare che un potere
cessa di esistere laddove cessa di comandare e non quando nessuno gli obbedisce più (qualcuno che
obbedisce vi sarà sempre). Inoltre si può definire il comando come un atto di volontà e come un
imperativo, entrambi circoscritti oggi nel mondo della giurisprudenza (prescrizioni) e della moralità
(dovere).
La proposizione “egli cammina” con verbo espresso al modo indicativo è apofantica, perciò si può
dimostrare la verità o la falsità di tale espressione, la quale inoltre descrive un modo di essere. Ciò è
definito come il carattere assertivo dell’indicativo. Al contrario il corrispondente imperativo “cammina!”
non dimostra né descrive nulla e il suo significato non consiste nell’esecuzione dell’ordine impartito ma
nell’ordine stesso: l’imperativo trova compimento in sé stesso, cioè nell’esprimere il comando di dover
essere. Da qui invece si deduce il carattere performativo dell’imperativo. Dunque indicativo e imperativo
costituiscono due ontologie diverse ma legate, che si dividono ed incrociano costantemente, e mentre la
prima (essere) definisce e governa la filosofia e la scienza, la seconda invece (dover essere) la religione, il
diritto e la magia.
Tra le due ontologie si può affermare che nell’odierna società democratica la seconda ha preso il
sopravvento sulla prima. Tuttavia in questo contesto l’imperativo non si pone come tale ma sottoforma
d’invito e l’obbedienza assume di conseguenza la forma di una sorta di cooperazione con coloro che
comandano. Ad esempio, nel rapporto con strumenti tecnologici, i quali sono tutti impostati su un sistema
di “opzioni” (che vengono percepite come indicazioni ma di fatti sono ordini), il cittadino che si considera
libero in realtà immettendo nello strumento un comando non fa altro che obbedire.

In terza istanza per spiegare il significato del comando come atto di volontà è necessario spiegare il
significato filosofico di “volere”, ma anche in questo caso la trattazione filosofica non risulta sufficiente.
Allora può essere utile il riferimento a Nietzsche, il quale rovesciando la spiegazione afferma che volere non
significa altro che comandare. Utile può essere l’esempio che rimanda al problema dell’onnipotenza divina:
se Dio può tutto allora è capace anche di fare del male, di fare qualcosa di irrazionale o di addirittura
ridicolo? Tale problema ha a lungo preoccupato i teologi cristiani finché, nel XIV secolo, questi dividono la
potenza divina in potentia abosluta, appunto onnipotenza, e potentia ordinata, cioè la potenza di Dio che lo
stesso limita con il proprio volere e una volta imposto un volere egli non può far altro che non sia tale
volere. Così i teologi spiegano che il limite della potenza è la volontà e lasciano intuire che quindi anche la
potenza può volere, ma ciò che ha voluto deve fare. Il medesimo discorso (in cui però l’onnipotenza non ha
nulla a che fare) può essere esteso all’uomo. Alla luce di ciò il ribaltamento di Nietzsche trova senso e
risulta corretto: volere significa comandare e ciò a cui la volontà comanda è la potenza.

5. Il capitalismo come religione

Il 15 Agosto 1971 è considerato come un segno dell’epoca che verrà. Il governo statunitense di Nixon
dichiarando sospesa la convertibilità del dollaro in oro lo svincola dal suo valore materiale (riferito all’oro).
Così il dollaro acquista un valore totalmente autoreferenziale. Da ora in poi il denaro si fonda solo su sé
stesso e la moneta metallica (valore del materiale) è sopraffatta dalla moneta fiduciaria (titolo di credito).
Tutti indizi, appunto, dell’avvenire.

Nel frammento “Capitalismo come religione” Benjamin definisce il capitalismo come religione della
modernità e ne delinea alcune caratteristiche: è una religione cultuale in cui il significato di tutto è
connesso al compimento di un culto; tale culto è permanente e la sua celebrazione coincide con il lavoro di
tutti i giorni, i quali vengono appunto definiti giorni di festa-lavoro e si susseguono ininterrottamente; per la
prima volta il culto non è volto all’espiazione di una colpa ma alla colpa stessa, che deve essere universale.
Il capitalismo mira alla disperazione dell’uomo e alla distruzione del mondo.
Ad avvalorare le tesi Benjamin concorre anche l’esperienza di Flusser, il quale ad Atene scopre che la parola
pìstis, cioè “fede”, viene impiegata dalle banche moderne nella sua accezione di “credito”. E’ bene ricordare
una considerazione in base alla quale la parola di Dio gode di credito presso il religioso poiché egli vi crede,
vi ha fiducia e quindi vi spera. In questo senso “credere”, dal latino, significa porre in qualcosa o in qualcuno
la propria fede, perciò “avere credito” (dal participio passato creditum) significa avere la fiducia di
qualcuno; colui che ripone volontariamente la sua fiducia in altri si aspetta da questi aiuto, perciò questi
altri detengono il credente in loro potere. Se questi ragionamenti sono validi allora vale anche affermare
che il capitalismo è una religione che, svincolata da ogni oggetto (Nixon: denaro svincolato dall’oro) e da
ogni peccato (colpa universale), come il cristianesimo si basa sulla fede: in questo caso si crede nel puro
fatto di credere, cioè si ha fede solo nel credito, ossia nel denaro.

Come per dare un che di concreto al cristianesimo Paolo afferma che la fede è “sostanza di cose sperate”,
perciò chi ha fede in Cristo (concetto più o meno astratto) spera nella sua parola (che diventa qualcosa
quasi di concreto). Quindi se la parola di Cristo è come se fosse la sostanza della fede nella religione
cattolica allora nella religione capitalista il denaro è la sostanza del credito, ma mentre la parola è “cosa in
cui si spera” e pertanto resta quasi astratta, il denaro invece diventa cosa concreta, appunto sostanza.
Alla luce di ciò è chiaro che il gesto del governo Nixon afferma il denaro e il loro credito nella loro
immaterialità e quindi li afferma come assoluti. In questo senso è emblematica la differenza tra il
capitalismo ottocentesco e quello contemporaneo. Il primo si fonda sul capitale privato e per così dire sulla
consistenza, sulla concretezza del denaro, e si caratterizza per una diffidenza rispetto al credito, che per la
sua inconsistenza viene detto anche capitale “fittizio” ed è accostato ai truffatori. Il secondo invece si fonda
proprio su quanto più è rifuggito dal primo, il credito. Oggi aziende e famiglie ricorrendo a prestiti bancari
non fanno altro che ipotecare produzione e lavoro futuri nella speranza poi di estinguere debiti e di
guadagnare , il che si traduce in una sorta di fede religiosa e ininterrotta nel futuro espressa appunto
tramite il continuo indebitamento.

La mercificazione (rendere ogni cosa merce), dice Debord già prima del governo Nixon, comporta la perdita
del valore d’uso delle cose, che pertanto non può essere più rappresentato dal denaro che di conseguenza
si trasforma. A questa trasformazione corrisponde la trasformazione del linguaggio umano che non avendo
più nulla comunicare diventa comunicazione dell’incomunicabile: come il denaro, privato della sua
relazione con l’oro, non può rappresentare il valore d’uso delle merci e renderle commerciabili, così il
linguaggio, privato della sua relazione con le cose, non può comunicare alcun significato; ancora, come il
riferimento all’oro garantisce al denaro di essere scambiato con ogni cosa, così il significato garantisce al
linguaggio di comunicare. Di qui la critica contro la nullificazione di queste due garanzie causata dalla
società capitalista e dello spettacolo (che non comunica): il denaro, che rende le cose merci, non può esso
stesso diventare merce, così come il linguaggio, che rende comunicabili le cose, non può esso stesso
diventare cosa, poiché se ciò fosse il denaro rivelerebbe la nullità di tutte le merci e il linguaggio
l’inconsistenza di ogni cosa.

Il cristianesimo si fonda sulla storia finita dell’umanità dall’origine alla fine. Proclamando una imminente
fine della vita sulla terra che sarà segnata da un giudizio di salvezza o dannazione (Giorno del Giudizio), il
quale porterà ad un nuovo inizio (nuova terra), il cristianesimo è in realtà senza fine e risulta sempre in crisi.
Anche il capitalismo è sempre in crisi, sul punto di finire per poi ricominciare, ma diversamente dalla
religione cattolica quella capitalista è infinita poiché, oltre a non conoscere fine (che anche se fosse non
coinciderebbe assolutamente con un giudizio finale), non conosce nemmeno un principio, infatti è an-
archica.
Benjamin considera il capitalismo come il potere più anarchico che vi sia e nel dimostrarlo afferma (anche
in questo caso) la dipendenza parassitaria del capitalismo dal cristianesimo. La discussione verte sulla
controversia dell’arianesimo che nel V-VI secolo divide la Chiesa: da un lato Ario sostiene che il Padre sia
anarchico e che il Figlio, pur essendo stato generato intemporalmente (achronos), abbia invece principio
nel Padre; dall’altro i vescovi dell’imperatore Costanzo, sdegnati da tale considerazione, controbattono
rivendicando la totale anarchia sia del Padre sia del Figlio. Ricordando che il Figlio (Cristo) essendo
incarnazione dell’azione e della parola del Padre (Dio) è il principale attore del governo (Regno) divino sulla
terra, affermare che il Figlio è anarchico equivale a dire che il governo, l’azione e la parola sono anarchici,
cioè senza principio, senza fondamento. Il capitalismo eredita la vocazione anarchica del cristianesimo e la
spinge all’estremo in relazione all’essere e all’agire (ontologia e prassi), le quali se nel mondo classico erano
strettamente legate oggi sono divise e l’azione umana non si fonda più nell’essere e perciò è libera.

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