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ESTETICA DEL ROTTAME

L’odierna società fondata su produzione e consumo è caratterizzata dalla perdita dei valori di emozionalità
ed affettività, che l’uomo perde inizialmente rispetto al rapporto con i soli oggetti e poi anche nel rapporto
con altri uomini. La logica del consumismo genera nuovi bisogni e nuovi desideri difficilmente appagabili,
perciò genera una insoddisfazione rispetto ad oggetti di cui ne comporta la rottamazione, che ne elimina il
piacere dell’usura. Alla rottamazione si contrappone il recupero, il quale è interpretato come un bisogno
dell’uomo di andare contro il Tempo riutilizzando un residuo che è testimonianza di uno spazio e di un
tempo. Nell’arte le Avanguardie novecentesche propongono l’osservazione del prodotto industriale e del
residuo affinché se ne possa cogliere la figuratività, ovvero la possibilità di un senso ulteriore a ciò che si
vede e conosce.

Il sentimento dell’oggetto

Nelle arti iconografiche il Dio-Tempo, Chronos o Saturno, è rappresentato in vario modo nel corso dei secoli
ma resta sempre spietato: ad una misteriosa forza creatrice si contrappone il Tempo che con denti aguzzi
divora tutto e armato di falce porta alla distruzione della bellezza e al decadimento; perciò percependolo
l’uomo vive nella paura della vecchiaia e della morte. Nel linguaggio si distinguono un tempo finito, perciò
misurabile e caratteristico dell’umano, e un tempo infinito, atemporale e caratteristico dell’Aldilà. Nelle
tradizionali feste di purificazione si fugge fuori dal tempo ed è consentita, poiché proiettati in un altro
universo, la trasgressione: come il Carnevale, ad esempio, si caratterizzava per il consumo sfrenato al quale
seguivano sprechi e produzione di residui, nonché la liberazione da questi ultimi, allo stesso modo oggi
avviene quotidianamente il medesimo consumo sfrenato ma senza la sacralità né la saltuarietà della festa.
L’oggetto del quotidiano consumato e abbandonato contiene in sé un tempo e uno spazio (a noi
sconosciuti) dei quali è testimonianza, perciò in riferimento al residuo si parla di memoria dell’umano e
bellezza del brutto. Esposizione e rappresentazione di oggetti simili sono alla base dei movimenti del ‘900
che pur esponendo oggetti dalla fisionomia estetica anti-figurativa aprono a più possibili derivazioni
figurative. Lo spazio dell’arte non è più quello limitato alla superficie dell’opera, all’interno della quale sono
riconoscibili uno o più significati universalmente condivisibili, ma è lo spazio, il contesto in cui l’opera viene
calata: assunto un oggetto l’artista lo sottopone a mutamento cambiandogli funzione e significato e,
mettendolo magari in relazione ad un elemento di sostegno (espositivo), lo presenta in quanto idea ed
estensione di sé stesso (Duchamp).

Il rottame artistico

Nell’arte risulta importante il ruolo del rudere in quanto parte dell’opera utile
alla sua lettura e alla comprensione del suo contesto, non solo visivo ma anche
etno-storico culturale. A partire dal Rinascimento nell’arte pittorica viene
impiegato come sfondo della rappresentazione il dettaglio della rovina
architettonica classica, la quale, oltre ad essere testimonianza spettacolarizzata
del passato, assume un ruolo semantico nel contesto visivo e diventa elemento
caratteristico dello stile.

In “Madonna col bambino tra San Michele e Sant’Andrea” di Cima da


Conegliano grande importanza è attribuita alla rovina e allo sfondo, che pur
mantenendo la propria autonomia semantica (tra loro e rispetto ai personaggi)
definiscono struttura e significato della rappresentazione. Anzitutto le rovine
conferiscono all’opera verticalità (compromessa dalla croce) e la loro contrapposizione con l’evento sacro,
al quale è attribuita una connotazione di quotidianità tramite la Maria umile (come i santi) e seduta sulle
macerie, è espressione dell’importanza che il periodo storico Rinascimentale attribuisce allo studio e al
recupero dell’antichità classica piuttosto che alle figure religiose, che hanno dominato le arti iconografiche
medievali. Infatti si può affermare che la protagonista della rappresentazione è la rovina in quanto
espressione della cultura umanistica che nostalgicamente recupera il passato a dimostrazione del suo
superamento. Considerando che un’opera ha tante letture quante sono le diverse interazioni tra i dettagli
ed i soggetti che al suo interno mantengono autonomia semantica (il che può essere causa di fratture
semantiche), l’osservatore deve leggere l’evento sulla base del significato semantico introdotto dai dettagli
che in rapporto ai soggetti conferiscono all’opera unità di senso.

Di nuovo Cima nella pala di “San Giovanni Battista” rappresenta la sacra


conversazione all’aperto sotto le rovine di un portichetto classico.
Arricchiscono la scena simboli di reminiscenza medievale ed antica: la
quercia, simbolo di forza e asse del mondo, rimanda alla forza della sapienza
che supera la caducità del materiale (ruderi); il fico, simbolo del sapere
religioso, indica la Sinagoga e non produce più frutti poiché questa non ha
riconosciuto Gesù - accostato alla quercia, che rappresenta la conversazione
dei pagani, il fico rappresenta il fondamento del cristianesimo e la decadenza
del paganesimo (centrale nel Rinascimento), nonché il transito dall’uno
all’altro; l’edera, pianta sacra di Dioniso, simbolo di permanenza della forza
vegetativa e del desiderio, diventa nel cristianesimo emblema della
resurrezione; infine il gufo, simbolo di oscurità e malinconia nella tradizione
classica, perciò inteso dal cristianesimo come principe delle tenebre e figura
satanica, si contrappone a Giovanni l’eremita.

Nella “Madonna dell’Arancio Maria” è rappresentata stanca per la fuga dall’Egitto e


seduta su una roccia, che è simbolo di Cristo e della Chiesa. Anche in questo caso Cima
arricchisce la rappresentazione di simboli: la celidonia, pianta delle rondini tramite la
quale queste donano la vista ai rondinini, è emblema della luce divina e della fede che
nasce nell’arido territorio di sosta; la pernice, uccello maligno nella tradizione classica
greca, è in questo contesto simbolo del male latente; l’arancio, con i suoi frutti, è
simbolo di fecondità e crescita spirituale sotto la protezione di Cristo. Ancora una volta
i dettagli, anche se in questo caso non sono rovine, hanno ruolo centrale nella
rappresentazione.

Anche Sandro Botticelli fa uso del rudere come inserto figurativo tramite il quale rafforzare e aggiungere
significati all’interpretazione dell’opera, e non solo. Importante è l’esempio della ”Adorazione dei Magi” in
cui egli rappresenta l’evento sacro all’interno di un
anfratto coperto e abbandonato, dove Maria è seduta
ancora una volta non su di un trono ma su una roccia. Con
tutta probabilità si tratta di una roccia druidica, connessa
ai resti (altare) del vecchio tempio pagano, ora protetta da
una copertura decadente attraverso la quale filtrano raggi
solari: mandato il tempio in rovina, ridotto il vecchio altare
a luogo d’appoggio illuminato dalla luce divina Botticelli,
estrapolando l’altare dal contesto pagano e calandolo in
un nuovo ambiente, lo priva del suo significato originale
per risemantizzarlo. L’inserimento del pavone, simbolo
della immortalità dell’anima nella religione cristiana, è in chiara contrapposizione con la caducità della
materia (mortalità), della quale quindi segna il superamento. Le rovine classiche sulla sinistra che
costituiscono lo sfondo, contornano e rafforzano la scena centrale e la luce proveniente dal tetto scende dal
volto del bambino sul ventre della Madonna fino ad irradiare gli spettatori: in tal senso la luce guida lo
sguardo dalle rovine (passato) alla scena dell’adorazione (presente: vestiti dei personaggi). Botticelli fa un
uso dei dettagli tale da insinuare dubbio nel fruitore dell’opera e indurlo a cercare il significato della
rappresentazione oltre il contesto visivo.

Ai primi del ‘500 Piero di Cosimo nelle “Storie dell’umanità primitiva” adotta un approccio volutamente
arcaico in una serie di dipinti d’ispirazione ovidiana, nei quali è evidente il desiderio di mischiare storia e
mito come volontà di appropriarsi del passato. Ad esempio nella “Liberazione di Andromeda” egli sintetizza
l’antico conflitto tra uomo e natura risolto dall’intervento divino: il mostro marino rappresenta
l’incontrollabile e irrazionale forza della natura; da questa ci si può salvare grazie alla ragione
soprannaturale (Perseo, deus ex machina), della quale l’uomo si può servire una volta conquistata tramite
amore e grazia (Andromeda). E’ chiara l’importanza della ragione soprannaturale, ovvero la tendenza
dell’uomo antico a celare l’arcano e a spiegare l’inspiegabile e l’irrazionale tramite il mito.

Nel “Compianto sul Cristo morto e preparazione al sepolcro” Vittore


Carpaccio, oltre a rappresentare un evento sacro, si avvale di alcuni
elementi dal significato simbolico per contrapporre: da un lato la
continuità tra morte e resurrezione, nonché la compresenza tra vecchio
e nuovo mondo tramite l’albero, sul quale si poggia Giobbe, in parte
secco e in parte florido; dall’altro lato invece il l’antitesi tra la caducità
della vita e la permanenza della memoria, tra materia e spirito, cioè tra
effimero ed eterno, tramite il crollo del cimitero. Le due
contrapposizioni sono ovviamente legate e di nuovo viene fatto uso
della rovina per alludere al transito dal mondo antico a quello cristiano.

Di frequente nel corso del Seicento e del Settecento vengono impiegati ruderi e rovine come inserti nelle
opere pittoriche in quanto espressione della dualità vita-morte: tutto ciò che vive può morire, tutto ciò che
è stato costruito può essere distrutto. Il rudere non è più solamente quinta di sfondo alla rappresentazione,
ma costituisce un tutt’uno con l’ambiente naturale che lo sovrasta e se ne impadronisce generando un
senso di tragicità e malinconia. In tal senso l’inserimento del rudere nel contesto vegetale diventa una
sorta di tendenza del XVIII secolo, non solo in pittura (Rovinismo) ma anche in architettura di giardini.

Nel “Capriccio architettonico con rovine ed edifici classici” la rovina e i


resti tombali in primo piano, sui quali incombe la vegetazione, sono
rappresentati da Canaletto come un ambiente abbandonato che in
questo caso non evoca alcun senso di desolazione, bensì, investito da
una luce opaca che lo trasforma in poesia, attira l’attenzione del
pastore. Allontanato dalla propria oggettualità l’ambiente
abbandonato, in particolare l’architettura cimiteriale, deve indurre la
contemplazione: il rudere è nobilitato dalla luce che ne esalta la
sublimità e la bellezza di desolazione.

Quest’ultimo concetto della bellezza della desolazione viene


estremizzato nel “Rio dei mendicanti”: rappresentando una delle vie più
squallide, degradate, miserabili, povere e desolate di Venezia Canaletto
intende produrre un documento di denuncia sociale che, privo di qualunque illusione di piacere e di gusto
pittoresco, stimoli emozione e consapevolezza nello spettatore.

Così il Rovinismo, in particolare quello veneziano, prende le distanze dalla realtà: paesaggi inventati in cui le
povere catapecchie della città sono contrapposte al fascino del rudere classico, illuminazione opaca e i
contorni leggeri, privi di sostanza, esprimono un ideale poetico che penetrato in una profondità dell’animo
umano dimenticata dall’uomo deve essere contemplato.
Ciò ha ripercussioni sul concetto di estetica Ottocentesca secondo cui “l’opera d’arte intesa come oggetto
indipendente, con nessun’altra funzione se non quella di provocare contemplazione e piacere”. Il pittore
romantico è accostato alla figura del demiurgo (dotato di forti capacità creative e organizzative che gli
consentono di dominare il suo tempo e dare vita a nuove realtà), che cerca e crea frammenti di pensiero e
di intuizioni, di passato e di natura, frammenti che devono esistere tutti insieme senza rivelarsi
(apparentemente senza senso) ma riconducendo ad una unità d’idea: dando un senso di sconosciuto al
conosciuto e di apparenza misteriosa all’ordinario, tramite lo spirito, egli poetizza l’oggetto riportandolo ad
una condizione di bellezza estetica che in ultima istanza deve essere oggetto di contemplazione e piacere.
Ora tramite sublime e pittoresco si instaura un solido legame tra rovina romantica e paesaggio e il senso di
tale legame deve essere indagato e tradotto in parole: l’evento figurativo deve diventare linguaggio,
massima espressione dell’atto della mente.

Il Rovinismo è diventato Romanticismo, in cui sono


centrali i concetti di magico, suggestivo,
nostalgico, sconosciuto, infinito, tutti tratti dalle
figure del mito, dell’amore, del sonno, del sogno e
della morte. Nella “Abbazia nel bosco di querce” di
Friedrich, il paesaggio si va sfumando, come se si
deteriorasse fino a scomparire; vi sono ombre e
segni (del tempo), presenze inconsistenti e allo
stesso tempo materiche; al centro tra querce dai
rami spogli si trova il rudere. La natura incontrando
le profondità oscure e immateriali dell’anima
diventa arte.
Il percorso tra materia e natura imprevedibile conduce ad altre verità ben oltre il mondo della materia
visibile. In ciascuno di questi elementi naturali oscuri e sfumati l’artista identifica un senso di divino, riferito
all’unità cosmica ormai persa dall’umanità, che riaffiora ed emerge da questi come un fantasma o uno
spirito: la natura diventa materia dell’immateriale; la materia tramite le alchimie della storia diventa anima
del mondo.

Anche Fontanesi prende le distanze dal Rovinismo: isolando gli oggetti dal loro carattere materiale, cioè il
loro essere degradati e dimenticati, riesce a giungere alla loro essenza immateriale, cioè la loro anima che è
eterna e indistruttibile; così mettendo da parte il realismo realismo dell’oggetto è ritrovare ciò che è
veramente eterno.
Arrivato a Parigi negli anni ’80 dell’Ottocento, Vincent Van Gogh critica la predilezione dell’Impressionismo
per l’attenzione edonistica rivolta ai paesaggi naturali ameni e luminosi, popolati da personaggi
d’estrazione borghese: nelle produzioni di questo movimento artistico è evidente la frattura tra arte e
storia, poiché gli artisti non tengono conto della realtà sociale contemporanea. Perciò tende quasi al
Realismo nella ricerca della verità più profonda, e la trova nei volti stanchi e
affaticati dei contadini, cioè nella loro esperienza spirituale e di sofferenza
(di Cristo), infatti ritrae soggetti umili, logori, sporchi ed emarginati in quanto
i reali protagonisti della verità. Esasperando tale ricerca della realtà passa
dalla rappresentazione di persone a quella di oggetti, di conseguenza poveri,
rovinati e consumati dal tempo. Si tratta di oggetti che, come nel particolare delle scarpe nella “Natura
morta”, diventano: da un lato dolore, dato dalla realtà sociale espressa dalla deformità dell’oggetto;
dall’altro piacere, rispetto alla qualità dell’emozione e dell’esperienza evocata.

Rottami e miserie umane

Alla fine del XV secolo Botticelli supera le apparenze, quattrocento anni


prima di Van Gogh, rappresentando la profondità psicologica e la sofferenza
dell’animo umano ne “La Derelitta”: (secondo l’ipotesi più accreditata)
Tamar, sorella di Assalonne, è simbolo di sconforto e dolore in quanto
violentata e umiliata dal fratellastro Ammon, simbolo di ignoranza; dopo
essere stata scacciata dallo stesso, giacente ai piedi di una porta chiusa con
le vesti strappate, nella disperazione e nella solitudine, senza speranza,
diventa relitto. Così in pieno Rinascimento, ispiratosi ad un episodio biblico,
Botticelli mette in crisi l’humanitas scegliendo di rappresentare l’oscurità,
l’intensità tragica e la fragilità dell’essere umano: è inscenata, al di là di
qualunque apparenza, retorica o commiserazione, la distruzione dell’anima.

La tendenza tipica del Rinascimento a contrapporre aspetti opposti viene assunta da Bosch per introdurre
nell’arte il brutto in quanto espressione di situazioni dolorose. Tra le sue opere il “Cristo portacroce”
costituisce un unicum: Cristo è circondato da derelitti umani dalle fisionomie allucinanti, grottesche,
disperate, che non lasciandogli spazio tolgono respiro alla scena, ma nonostante ciò mantiene un volto
rassegnato e calmo che lo proietta in un’altra dimensione spirituale; a sinistra in basso la triste e raffinata
Veronica volta le spalle alla folla; in alto a destra il dolente e pallido buon ladrone viene assillato da un
monaco satanico; in basso a destra il ladrone malvagio ascolta da due
loschi individui sarcasmi sui supplizi che lo attendono dopo la morte.
Come Cristo deve attraversare l’infame folla per giungere, poi anche
attraverso varie torture e la crocefissione, alla purezza dell’anima, così
l’osservatore deve attraversare il brutto oggettivo della folla per giungere
alla bellezza spirituale di Cristo. Allora è evidente nella rappresentazione
la contrapposizione fra realtà ed associazione di pensiero: la situazione
reale è il cammino di Cristo verso il luogo in cui lo attendono terribili
torture, ma tale situazione (un incubo ad occhi aperti) proietta la mente
del lettore verso il pensiero della salvezza dell’umanità grazie al sacrificio
di Cristo.

Anche Bruegel il Vecchio propone nella rappresentazione l’uso del brutto


inteso come uomo storpio e privo della solita bellezza. Ad esempio ne “La
parabola dei ciechi” si avvale di uomini debilitati e malconci in quanto più
utili ai fini della comunicazione di un messaggio difficilmente trasmissibile
tramite figure nobili. Tale scelta rende più coinvolgente l’esperienza
artistica che non è più vincolata dalla sua bellezza o gradevolezza estetica.

Con “La Morte della Vergine” (1600) Caravaggio provoca il disgusto di clero ed
opinione pubblica: ritrae una prostituta morta affogata con la pancia rigonfia d’acqua
ed il volto cereo, nelle vesti della Madonna. Fa uso di un registro espressivo
trasgressivo e anticonformista, che egli stesso fonda sulla realtà della scena,
rappresentata volutamente come quotidiana al fine di trasmettere la verità del dolore,
del dramma e della morte della Vergine. Inoltre attraverso una situazione disperata
con l’atto artistico avviene il riscatto morale della prostituta senza identità.
All’inizio del Seicento è probabilmente la letteratura spagnola nata dalla crisi dei valori rinascimentali e
avente per protagonisti persone povere e affamate, veri e propri antieroi contrapposti allo sfarzo dei
sovrani, ad indurre un pittore di palazzo come Velazquez a rivolgere la propria attenzione a soggetti
emarginati, come storpi e idioti. Tramite la loro rappresentazione egli intende dimostrare che bruttezza e
deformità esteriori

(non più rappresentate come mostruose) non possono né devono pregiudicare


facoltà intellettive o profondità d’animo. Ne è emblema il “Don Sebastian de
Morra”, in cui è rappresentato un nano buffone che si guadagna da vivere come
giullare da deridere per il proprio aspetto fisico. Ma non è su questo aspetto che si
focalizza l’attenzione, piuttosto sul suo volto, espressione di una sofferenza
psicologica a volte rassegnata e a volte sull’orlo della tristezza e della
disperazione. Caratterizzando il personaggio con bei vestiti dalle stoffe preziose,
tipici dei personaggi “belli e nobili” della rappresentazione cinquecentesca, pone il
brutto sullo stesso piano del bello dando luogo ad un paradosso estetico che
segna la definitiva rottura con l’Umanesimo, nonché il transito da bello a brutto.

A metà del Seicento tra i temi più trattati v’è senza dubbio quello dell’infanzia povera e abbandonata in
quanto strumento di denuncia di problematiche sociali. L’atto creativo trasgressivo di rappresentare
l’adolescenza derelitta, senza sfarzi né perfezione di bellezza, e di renderla protagonista dell’opera in
qualche modo consente di riscattare il brutto e il rottame, la sofferenza e il disagio della miseria.
Caratterizzare scene di quotidiana povertà e degrado con rappresentazioni ricche di estetica e bellezza è un
mezzo per criticare la millenaria oppressione subita dai bassifondi per mano dei potenti.
A inizio Settecento diventano protagonisti delle rappresentazioni, sempre più vicine alla realtà, straccioni,
mendicanti, derelitti emarginati come i pitocchi. La crescente sensibilità verso il ceto dei reietti pone l’umile
nel ruolo di protagonista con l’intento di recuperarne i valori e la forza morale, nonché rivendicarne la
dignità nonostante le condizioni di miseria. Sono rappresentate senza alcuna esagerazione la ricchezza
dell’umiltà, cioè della serena accettazione, ma senza rassegnazione, di un inesorabile destino e la
solidarietà condivisa nel bassofondo sociale: da materie e persone ignobili e ripudiate dalla società ora
sono portatori e tramandatori di valori autentici ed umanità; da queste figure si estrae bellezza e poesia.

Diffuso l’impegno sociale, sul piano sia culturale sia morale, di


salvaguardia dei diritti umani con il trattato “Dei delitti e delle pene”
di Cesare Beccaria, a metà del Settecento Magnasco si distingue per
il suo gusto per l’orrido, cioè per quella bellezza contaminata da
dolore e violenza. Tratto da una scena di cruda e tragica realtà, ne
“L’arrivo dei galeotti nel porto di Genova” tramite la brutalità
denuncia e condanna l’assurdità e la bestialità delle torture sofferte
quotidianamente dai detenuti per mano delle guardie carcerarie
dinanzi al giudice totalmente indifferente rispetto a tali scene di
malvagità e agonia. Caratteristiche peculiari dell’opera sono da un
lato l’orrido, che in quanto particolare sfumatura di bellezza dona piacere estetico alla rappresentazione di
una scena senza pietà generando senso di sofferenza e di sublime, e dall’altro invece la distanza dalla scena
dell’osservatore, il quale in questo modo è certamente coinvolto dal punto di vista emotivo, ma essendo
distante non è inglobato nella scena, il che gli consente di riflettere e prendere coscienza di quanto
rappresentato e denunciato nell’opera.

Totalmente differente è il fine della ricerca artistica di Goya tra gli anni ’20 e
’30 dell’Ottocento. Sordo da molti anni ormai non percepisce i rumori del
mondo, ma tormentato dai rumori della propria anima tenta di trasferirli
nella rappresentazione. Nella sua “pittura nera” egli rappresenta personaggi
dalle fisionomie lugubri, vecchi dagli sguardi o dai ghigni allucinanti, mostri che divorano uomini e teschi
quasi animati. Tenta di uscire, di evadere da sé stesso proiettandosi nei protagonisti delle proprie
rappresentazioni insieme a tutti quei misteri ed incubi che non gli danno pace: così la sua opera diventa
proiezione e specchio delle tormentate miserie e disgrazie umane.

Oggetto rinnegato, recuperato, ricontestualizzato

Non solo Van Gogh, negli anni ’80 dell’Ottocento, stupisce gli Impressionisti per la sua capacità di indagare
la realtà attraverso la rappresentazione di oggetti e persone del vissuto quotidiano ed umile, che in tal
modo eleva all’eternità, ma influenza anche personaggi e movimenti del Novecento, tra cui: il tentativo del
Simbolismo prima, e del Surrealismo dopo, di evadere dalla realtà indagando aspetti interiori e ricercando
la sintesi tra visibile e invisibile; capacità di Duchamp di sottrarre un oggetto dal proprio contesto originario
e rivalorizzarlo ricontestualizzandolo. Anche Cezanne lascia una pesante eredità al XX secolo, poiché mette
in dubbio la certezza della materialità e quindi la certezza che l’essere sia nell’apparire, e pertanto
contribuisce a mettere in crisi l’arte novecentesca.

Alla ricerca del non visibile, cioè dell’aspetto o significato interiore, quindi
all’interpretazione dell’oggetto tipica del Costruttivismo il Cubismo aggiunge la
scomposizione dello spazio in cui esso è proiettato: l’oggetto è presentato in uno
spazio frammentato e immateriale, costituito tramite collage di scarti di giornali,
pezzi di legno e altri materiali, che, oltre a completare l’opera, forniscono indizi per
una sua lettura sotto vari punti di vista. Nonostante la loro frammentarietà, oggetto
e spazio evocano nell’immaginazione dello spettatore una totalità: l’opera oscilla
con equilibrio tra concretezza ed irrealtà. In tal senso è emblematico l’esempio della
“Natura morta” (1912) di Picasso.

A questo impiego di frammenti nei collages cubisti si riallaccia, negli stessi anni, Duchamp che con i suoi
ready-made recupera oggetti del vissuto quotidiano e li pone in contesti del tutto estranei, al fine di privarli
di tutti i loro stereotipici e logici collegamenti con la realtà: così destabilizzata la connessione tra immagine
e realtà apre alla possibilità di percepire diversamente, secondo i processi logici più assurdi, l’immagine e di
volgere il pensiero ad una realtà ulteriore. Così anche Schwitters vede negli oggetti dimenticati la massima
potenzialità poetica e con i suoi assemblaggi tenta di stimolare l’immaginazione dell’osservatore, il quale
stimolato emotivamente è indotto ad interpretare l’opera sotto tutti i punti di vista possibili.
Caratteristica degli oggetti e dei frammenti impiegati è la suggestione dell’usura, punto d’incontro non solo
tra i segni, i marchi del tempo e il destino dell’oggetto, ma anche tra il proprio vissuto e l’inconscio
dell’individuo. Come questo, vengono studiati altri aspetti dell’opera d’arte. Poiché accostamenti, sia
ricercati sia casuali, di dimensioni, oggetti e frammenti, interazioni, forme e colori, provocano ambiguità
cognitive nello spettatore e ambivalenze interpretative dell’opera, della quale allora si tende addirittura a
studiarne ruolo sociale e qualità psicologiche.

Come in pittura ricerca e attinge la realtà dal passato antico, nel quale si cala
pienamente per cercare sé stesso e recuperare detriti, così nella sua autobiografia,
scritta in tre fasi diverse della sua vita, De Chirico lascia che sia ciò che ha raccontato di
sé nelle fasi precedenti, cioè il vissuto e il passato, ad influenzarlo in futuro.
Proiettatosi perennemente nel passato, ripercorrendo e rivivendo le proprie
esperienze di vita (viaggiare all’indietro) egli riplasma virtualmente il suo io e si
confronta con sé stesso, con il proprio ritratto. Ossessionato dalla necessità di
identificarsi con il (proprio) passato si autoritrae in una statua antica, in via di
pietrificazione mentre sta per diventare eterno, oppure anche in vesti settecentesche;
si proietta in quanto custode del proprio passato e del proprio essere nella figura di
Ebdomero, protagonista dell’assurdo ed enigmatico viaggio indietro nel tempo narrato in una sua opera
letteraria. Affida all’elemento minimo, cioè al frammento, il potere di celare in sé il mistero della storia e
del passato che solo la memoria può svelare.

Per la loro usura e frammentarietà, nella prima metà del Novecento, ruderi,
rottami e rifiuti prendono spazio nell’arte in quanto stimolatori
dell’immaginazione. Ciò è emblematico di quanto l’uso e il contesto, nonché
l’osservazione di un oggetto, possano trasformarlo ed influenza Dadaismo e
Surrealismo, che psicanalizzano l’inconscio né dell’artista né dell’osservatore ma
dell’opera stessa, cioè provano a fornirne indizi per la lettura degli aspetti
profondi. Da ora in poi l’opera visiva viene completata da pensiero e parola, da
contemplazione e linguaggio. “Galatea” di Salvador Dalì è un esempio di come la
memoria e il mistero, possano modificare quasi alchemicamente struttura,
consistenza e sostanza degli oggetti “dimenticati nella mente”, che tra ricordo e fantasia si traducono in
altre forme.

A partire dagli anni ’50 l’irrazionalità del Dadaismo e la valorizzazione


dell’inconscio del Surrealismo si fondono in un nuovo codice espressivo, che
fondato sulla convinzione che l’esistenza precede e crea l’essenza si caratterizza
per l’interazione continua tra esistere, fare, creare, ed essere. E’ esattamente ciò
che avviene: artisti raccolgono ogni genere di scarto o rifiuto (esistere) e li
impiegano nella loro produzione artistica combinandoli o assemblandoli in vario
modo (fare); il risultato è una nuova opera che genera stupore negli occhi del suo osservatore, che viene
indotto a riflettere (creare); tale gesto di strappare al mondo oggetti e frammenti per inserirli nella
creazione artistica è espressione di sfiducia, ironia e rifiuto ideologico dei valori conoscitivi e razionali del
secondo dopoguerra (essere).

Nella Francia degli anni ’70, insieme alla ricerca della forma pura (De Stijl) e
dell’espressività del colore (Kandinskij), si diffonde il cosiddetto Nuovo Realismo:
l’accumulazione di oggetti usati e rifiuti ne consente la lettura delle virtualità (potenziali)
significanti. La disposizione di avanzi alimentari ancora impiattati su di un tavolo catturati
con vernice in veri e propri quadri-trappola (“Tableau piege”, Daniel Spoerri), sono una
critica agli avanzi del consumismo e allusione alla silenziosa desolazione del destino
materiale. Tinguely assembla residui meccanici in quanto espressione del mondo
antropizzato, che defunzionalizzati producono soltanto rumore, in particolare effetti
sonori che essendo ripetitivi e snervanti producono una sorta di senso di catastrofico,
tramite il quale egli allude al destino di tali oggetti che così autodistruggendosi si
sottraggono al logorio dell’usura e del consumo.

Nell’arte mericana casuale degli anni ’60 il significato non trova posto né nel fine
dell’opera né nella contemplazione dell’osservatore. Rauschenberg volge l’attenzione
della sua riflessione dall’accumulo di rifiuti al rapporto del loro materiale con forma e
colore (triade). Ai fini della valorizzazione dell’usato sono sufficienti questi tre aspetti,
che nei nuovi quadri-bersaglio generano molteplici effetti e riflessioni negli spettatori.
Nella “Fool’s House” Jaspers Johns dispone una vecchia scopa al centro di un pannello
dipinto a pennellate quasi casuali, al quale è appesa una tazzina da caffè al fine di
indicare ironicamente un qualcosa che trovandosi al di fuori
di sé oltrepassa il proprio significato originario. Le opere
sono incentrate su detriti metropolitani e rifiuti del consumo come espressione del conflitto fra l’uomo e il
suo mondo; ora l’artista si immedesima nell’oggetto-rifiuto considerando sé stesso un rifiuto. Se
nell’antichità l’immagine dava volto a figure divine con aspetti realistici, oggi invece ingloba in sé l’oggetto
rappresentato (la star) al punto da smaterializzarlo rendendolo irreale. La produzione industriale
dequalifica l’oggetto e il suo consumo cancella ogni traccia di legame affettivo con questo. La riproducibilità
dell’originale di un’immagine distrugge la sensibilità verso la stessa rendendola prima oggetto di consumo
(Andy Warhol) e poi rifiuto. Così all’interno del macchinario sociale anche l’uomo è oggetto di consumo.

Dalle suggestioni dadaiste, surrealiste e poi neo-realiste deriva una corrente artistica che si oppone in
maniera netta alla società consumista, alla società del “usa e getta” in cui sono rottamati con gli oggetti
anche le relazioni umani, quindi sia materia sia sentimenti. Il recupero è finalizzato a riscattare oggetti che
vengono quotidianamente abbandonati e a dargli nuova vita e nuovo destino (diverso dall’anonimato)
ponendoli in un contesto estraneo rispetto a quello originario proprio. César allude con le sue “espansioni”
in poliuretano e resine sintetiche alla vita, mentre allude alla morte tramite le “compressioni” di rifiuti in
latta o addirittura di macchine. Se nel Seicento la rappresentazione del derelitto denunciava la condizione di
persone che pur nella loro misera avevano la propria dignità e la propria storia, adesso si fa lo stesso con il
rifiuto: ogni oggetto, soprattutto quello usurato e abbandonato, ha la propria vita e ricchezza. E qualora
alcuni rifiuti siano effettivamente anonimi (quali frammenti di lamiera rottamata), sono comunque utili
dunque possono essere recuperati e reimpiegati: se ciò che si teme è la frattura e la perdita della totalità,
nel frammento ciò non può più avvenire.

Il ruolo dell’arte fra consumismo, rottamazione, trash, exhibit death

In un primo momento l’artista prova piacere nel frugare tra la spazzatura, ma tale piacere diviene in un
secondo momento mortificazione: frugare tra i rifiuti è come frugare tra i frammenti di sogni spezzati. La
contaminazione tra bellezza e purezza della cultura alta e bruttezza e sporcizia della cultura bassa la si
ritrova nei movimenti minimalisti che rendono i rifiuti arte, e così facendo uccidono la vitalità dell’arte e
con questa tutte le sue problematiche. Tramite il recupero l’artista crea una nuova dimensione di spazio-
tempo nella quale l’uomo si può rifugiare dall’oppressione dei rifiuti dei propri consumi. E’ qui che cercando
la propria anima l’uomo si annulla tra i vari rifiuti e perisce la loro stessa sorte diventando egli stesso rifiuto.
L’arte del rifiuto (trash) sfocia nella morte e, come, ad esempio, l’esposizione di immagini che catturano la
cruda realtà e la sadica violenza (exhibit death – “Moribondi nel manicomio di Agrigento”), nella
spettacolarizzazione della disperazione, perciò diventa forma di denuncia e diserzione sociale.
Nell’arte contemporanea il fine catartico non fa breccia, oppure è oscenamente strumentalizzato, e le arti
di questa generazione alla fine non producono nulla nello spettatore se non indifferenza totale, o peggio
causano pericolosi focolai di disprezzo e cattivo gusto. Il risultato di una tanto estremizzata espressione
artistica sono effetti imprevedibili ed incontrollabili, tragicamente regressivi e devastanti, non solo sul
presente, ma anche sul futuro dell’arte.

La società della produzione, e quindi del consumo (o viceversa), ha prodotto un inarrestabile meccanismo
usa-getta, in cui non si apprezza veramente nulla, e facilitato il processo di rottamazione appositamente
per facilitare la scelta e la pratica di gettare oggetti (ed acquistarne di nuovi). Risultato ne è la nuova
generazione dis-umana, senza rispetto per il passato, che “rottama” le relazioni umane con la stessa facilità
con cui rottama gli oggetti, perché gettare oggi è più facile che riparare.
L’oggetto pare oggi al centro di un sistema dai meccanismi
troppo spesso contraddittori:
- industria: facilita la rottamazione creando occupazione per la società, ma incentivando i consumi
comporta nell’individuo la perdita di passione nell’oggetto
- società: maggiori sono consumo, rottamazione e produzione,
maggiori benefici economici trae dal sistema; è messa in crisi dalla crescente sensibilizzazione in materia
ambientale (ecologia ed inquinamento), che vista l’antitesi con il sistema da cui la società trae beneficio
economico la porta a scegliere tra questo e il beneficio ambientale
- ambiente: fortemente minacciato dalla continua e apparentemente inesorabile alimentazione del sistema
- individuo: incastrato tra il desiderio di consumare, quindi di rottamare e inquinare, ma tentando di
limitare l’impatto sull’ambiente, e il senso di colpa e quindi consapevolezza di essere incapace di ridurre tali
consumi
E’ questo stesso sistema a suggerire la critica alla società contemporanea: consapevolmente schiava di
questo sistema, dal quale trae beneficio e allo stesso tempo danno, tenta di lavarsi la coscienza dalla colpa
di alimentare continuamente la produzione di rifiuti usufruendo ed impegnandosi nella raccolta
differenziata. Questa altro non è che un dispositivo predisposto dai governi, dalle multinazionali e dal
capitalismo non solo per mantenere in piedi il sistema produzione-consumo-rottamazione, ma per
legittimarlo e continuare a trarne vantaggio trasformandolo in produzione-consumo-rifiuto-rottamazione-
recupero-riutilizzo. La società è schiava del consumo e piuttosto che rinunciarvi si è adeguata
completamente alla differenziazione e al riciclaggio di rifiuti, a questo punto consapevolmente ignorante
del fatto che questi fungono in estrema sintesi da ulteriore incentivo al consumo stesso.
Ancor più aspra e cinica è la critica in relazione al fatto che la stessa facilità con la quale ci si libera del
rifiuto è estesa al depositare malati terminali e anziani in cliniche o case di riposo, ma in questo caso con
una accuratezza inferiore rispetto a quando ci si impegna a collocare i vari tipi di rifiuto nel rispettivo
cestino.

Per concludere, oggi vi è una profonda seduzione nei confronti del rottame e dell’usato, di ciò che conserva
una storia: ciò che è consumato dall’uomo e dal tempo è portatore di potenzialità, energia e buono. E’ ora
possibile individuare una anatomia dell’oggetto-rottame alla quale ricondurre schematicamente quanto
trattato, e cioè che l’oggetto:
- contiene un motivo che mette in moto l’immaginazione del soggetto esterno
- contiene al suo interno sentimenti che solo un soggetto sensibile è in grado di esternare
- rivela una corrispondenza tra il suo livello simbolico e la morfologia del sentimento del soggetto
- contiene una sostanza simbolica suggestiva che attiva consapevolezza nell’oggetto
- si presta spontaneamente allo spostamento di senso, allo spostarsi dal suo contesto per risemantizzarsi in
un altro
- provoca nell’intero sistema percettivo-cognitivo una tensione inconsueta collegata ai vari sensi del
pensiero
- stimola nel soggetto sensazioni ed associazioni
- stimola continuità di pensiero
- segna un’area di passione con il soggetto fondata su collegamento di esperienza e sentimento
- possiede potenzialità di mostrare apparenza del sentimento
- influenza le funzioni intellettuali e immaginative del soggetto tramite la presa di coscienza del livello
degradato

Vi è un’altra spazzatura oltre a quella materiale, cioè quella che noi produciamo degradando la moralità e le
relazioni. Si va così ad inquinare l’ambiente dell’anima più di quanto non si sia già inquinato l’ambiente del
terrestre con scarti, rifiuti, lattine. Proprio a questo punto possiamo individuare le potenzialità estetiche
dell’arte, che fa in modo tramite il recupero di non iniziare ogni giorno da zero ma di recuperare e di
rintracciare tramite un’antica legge dell’universo lo spazio del quotidiano (adoperando legnetti, resti, rifiuti
e detriti dimenticati dalla storia) per arrivare a costruire una personale “stanza delle meraviglie”.

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