La responsabilità etica, cui richiama il percorso filosofico di Levinas, sembra avere al proprio interno
due diversi luoghi dell’agire: da un lato il rigore del dovere, dall’altro il riconoscimento del dono. E’
per questo che tentare un incrocio tra Levinas e il dono significa cercare una doppia eccedenza, un
luogo da cui poter partire senza soffocare le irriducibili differenze consegnate rispettivamente al
richiamo della responsabilità e alla preferenza del dono. Questa doppia eccedenza, d’altra parte, ci può
essere utile per aprire i discorsi e illuminare delle zone in ombra in entrambi i versanti. Per quel che
riguarda la filosofia di Levinas, infatti, una semantica riferita al dono, al donare, alla gratuità, è
presente in forma non eccessiva ma misurata e controllata: essa appare in luoghi scelti, lì dove bisogna
costringere il pensiero ad una radicale torisione: pasare da un’ontologia del possesso ad una metafisica
dell’alterietà. Il luogo dell’inversione è proprio il dono, poiché attraverso di esso appare una
contrologica rispetto a quella della totalità. 2
Allo stesso modo, l’attualità filosofica del dono - tema alla moda, forse anche troppo - si dipana, a mio
avviso, da due fonti, l’una fin troppo esplicita, l’altra forse troppo censurata, Heidegger e Levinas. In
particolare tutta l’ultima produzione di Derrida appare come una ripresa di tematiche levinassiane,
anche attraverso un’utilizzo esasperato di modalità linguistiche e logiche che provengono dal grande
insegnamento del filosofo lituano3. Quest’incrocio appare dunque non solo proficuo, ma anche vitale
rispetto all’attualità della filosofia. Ora, a me pare che esso si annodi come una tessitura complessa,
finendo per disegnare un’immagine la cui interezza richiederebbe uno studio più approfondito. La
doppia correlazione si rivela infatti anche attraverso alcune linee marginali: le questioni della traccia,
dell’ospitalità, del tempo, del sacrificio e dell’abbandono. Ma anche queste linee marginali si
riannodano e formano una tessitura sensata intorno a due grandi fili, a due questioni essenziali intorno
ai quali si dà la possibilità di uno o più sguardi d’insieme. Queste due grandi linee sono la questione
della presenza e la questione della relazione. Vorrei dunque proporre alcune considerazioni proprio su
questo, in modo da rendere più feconda quella doppia eccedenza da cui sono partito.
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Fuggire dall’essere, in primo luogo, cioè fuggire dall’ontologizzazione della differenza - che viene
segnata dall’essere fino al punto di diventare oggetto, tema, ente - comunque presente4. Scrive Levinas
in Totalità e Infinito:
“La neutralizzazione dell’altro, che diventa tema ed oggetto - che appare, cioè che si pone
in trasparenza - è appunto la sua riduzione al Medesimo. Conoscere ontologicamente
significa sorprendere nell’ente affrontato ciò per cui non è questo ente, questo straniero, ma
ciò per cui si tradisce in qualche modo, si consegna, si dà all’orizzonte nel quale si perde e
appare, dà presa, diventa concetto. Conoscere equivale ad impossessarsi dell’essere a
partire dal niente o a ridurlo a niente, a privarlo della sua alterità. Questo risultato è
raggiunto sin dal primo raggio di luce. Illuminare significa privare l’essere della sua
resistenza, perché la luce apre un orizzonte e svuota lo spazio - consegna l’essere...”5.
È importante notare qui come questa critica al primato dell’ontologia - diretta evidentemente anche ad
Heidegger - è anche una critica post-heideggeriana, riproponendo un’intuizione che, almeno da un
punto di vista culturale, ha segnato tutto il novecento. Ma tante altre sono le suggestioni che questo
passo offre.
In primo luogo in esso è descritta la modalità primaria dell’ontologizzazione: essa avviene come messa
alla luce, segnando così il primato del Medesimo e riproponendo la differenza all’interno dell’identità.
Anche quest’aspetto, da un punto di vista della storia della filosofia contemporanea, è assai importante:
la critica alla presenza va di pari passo alla critica al paradigma ottico e, in questo modo, ad
un’apologia dell’invisibilità6.
La luce riconduce dentro l’orizzonte l’alterità, la fa oggetto di un soggetto che risorge sempre sovrano, la cui consacrazione
avviene attraverso l’altro, attraverso la sua consegna. Questo consegnarsi alla luce manifesta anche un primo - apparente - modello
di dono: l’ente che si consegna e si dà rende il dono somigliante ad un abbandono, una perdita necessaria - e dunque non ad un
eccesso d’offerta, ad un sovrappiù di significazione, ma piuttosto ad una insignificanza dell’altro: “privarlo della sua alterità [che
già qui coincide con la sua identità, come l’identità del medesimo che coincide con la propria alterità; S.L.], ridurlo a niente”. Il
niente cui si riduce l’alterità è la piega rovesciata dell’ente: è l’ente in quanto niente, e non nel senso giocato da Heidegger nei suoi
testi7, ma in un senso altrettanto radicale e da tenere a mente. L’essere svuota l’essere-altro (l’alterità come l’essenza - sarebbe
meglio dire come il cuore della differenza): dal punto di vista dell’essere, ciò che si dà alla vista è niente. Privato del suo cuore,
l’essere coincide con la trasfigurazione dell’alterità in niente. Questo primo modello di dono è funzionale all’ontologia e alla sua
violenza: poiché l’ente si dà, esso può essere sottomesso al dominio esercitato dalla vista. Il consegnarsi dell’ente ne segnala una
forma sui generis d’attività - come sorgente della passività più radicale, la passività come schiavitù. È l’ente che si dà.
Quest’attività, il darsi, corrisponde in effetti ad un vero e proprio svuotamento, l’ente si dà consegnandosi, abbandonandosi ma, in
questo abbandono, resistendo anche sotto forma negativa: entrando nell’orizzonte della presenza, ma sotto quella forma d’essere-
nulla (la loro perfetta coincidenza) che abbiamo descritto prima. Quest’essere-nulla si compie nel processo di conoscenza come un
possesso: l’essere si conosce soltanto possedendolo. La potenza del possesso segna il dominio del Medesimo e, al contempo, fissa
ciò che si è consegnato dentro uno spazio ontologico (la dimora)8. L’oggetto fissato nel possesso acquista anche un tempo - il
tempo in cui ciò che si è dato è posseduto - e, in questo modo, un preciso statuto ontologico: una presenza. La vista determina
l’essere dentro una presenza, la cui condizione è quella di poter esser posseduta.
La questione del possesso è così il cuore della critica levinasiana al meccanismo della presenza. Nel
possesso l’essere si rivela come avere: ciò che è, è tale perché si può avere. Avere significa qui farne
una proprietà del Medesimo, proprietà che è il proprio dell’oggetto. L’ente sta dinanzi al soggetto,
poiché gli appartiene, esso può essere nominato: il suo proprio consiste in questo essere avuto dal
Medesimo. Questo possesso ha avuto origine da un darsi, consegnarsi. Ma comprendiamo attraverso il
tema del possesso quanto questo darsi segni uno svuotamento del proprio di ciò che si consegna: come
in tutti i rapporti di schiavitù, il consegnarsi significa il diventar altro dell’altro (il suo diventare lo
stesso, secondo un gioco dialettico tipico del logos occidentale). La violenza dell’Identico esercita il
suo possesso al massimo livello: non solo arrogandosi il diritto di chiamare per nome l’altro, ma anche
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cambiandone il nome, ribattezzandolo9. Ora, vale la pena soffermarci un istante sulla questione del
possesso. Focalizzare la critica alla presenza sul potere (o sulla potenza) del possesso significa già
annunciare la valenza euristica del dono. Vi è infatti un dono che è funzionale al possesso, e che
corrisponde ad una resa al possesso. Abbiamo già scritto: consegnarsi, darsi, abbandonarsi, svuotarsi,
arrendersi. Ma proprio la funzionalità al possesso ci lascia comprendere quanto questo darsi sia in
effetti distante dal dono, nella sua significazione non solo più profonda, ma anche più accessibile dal
punto di vista dell’esperienza. In fondo, per non cadere nell’ambiguità di considerare come dono anche
questa resa del darsi, è sufficiente ricordare un’intuizione che ci accompagna nella nostra esistenza
incessantemente: non ogni cosa che si dà è un dono. Il dato non è un dono (e questo elemento,
all’apparenza così banale, viene costantemente rimossa per esempio nelle riprese husserliane del dono -
penso a Marion, soprattutto, il quale parla molto spesso del dato cavalcandone l’ambiguità con il
dono10). Perché il dato non è il dono? Perché il dato è brutale, si consegna senza memoria d’altro. Che
la vita ci sia data o ci sia donata, in quest’opzione si gioca una comprensione radicalmente differente
della nostra condizione umana: nel primo caso essa viene ridotta alla pura immanenza: la vita, ci è data,
la possediamo. Se invece la vita è un dono, allora l’esperienza d’essa rimanda ad un orizzonte di senso
ulteriore - che non deve essere nominato per forza come Dio, può essere la nascita, l’umanità, il
mondo. Ma soprattutto, se la vita ci è donata, noi non la possiamo possedere, se non come ci è dato di
possedere un dono. Un dono, infatti, noi lo possediamo, ma ne siamo soprattutto in qualche modo
posseduti. Noi abbiamo un oggetto donato, e quell’oggetto lo possediamo, ma il senso per cui quel
dono è un dono, ci ospita e ci trascende, non possiamo mai ridurlo al solo possesso. Siamo ritornati al
tema del possesso. Se il possesso è la potenza che permette la conoscenza (ma qui la conoscenza
previene la circolarità ontologica, essa fonda l’essere, poiché quest’ultimo finisce per coincidere con
ciò che si ha), allora sarà evidentemente il dono a farci uscire dal possesso.
È per questo che, al termine del percorso d’identificazione del Medesimo, attraverso il godimento e la
dimora11, Levinas spezzi il circolo aprendoci così alla novità del volto, scrivendo queste parole:
“La trascendenza del volto è, ad un tempo, la sua assenza dal mondo in cui entra, lo
spaesamento di un essere… La nudità del suo volto si prolunga nella nudità di un corpo che
ha freddo e che si vergogna della sua nudità. L’esistenza kat’auto è, nel mondo, una
miseria. Questo sguardo che supplica ed esige - che può supplicare solo perché esige - privo
di tutto perché avente diritto a tutto e che si riconosce solo donando (proprio come “si
mettono in questione le cose donando”), questo sguardo è appunto l’epifania del volto come
volto. Riconoscere Altri significa donare” 12.
Anche qui, metto in evidenza tre elementi che mi sembrano decisivi. In primo luogo, il volto si
presenta come trascendenza. Bisogna rivendicare con forza il valore polemico della trascendenza.
Aldilà del suo specifico nominarsi, che pure è essenziale, qui la trascendenza è ciò che si oppone
alla fredda immanenza dell’essere, in quanto non si consegna al suo orizzonte, non si dà. Non vi è
alcuna trascendenza nel dato. La trascendenza è ciò che rompe con il darsi del dato. In secondo
luogo, il volto rappresenta come uno “spaesamento di un essere”. Qui il linguaggio di Levinas
diventa fortemente impegnato di temi religiosi, e al contempo fortemente poetico ed emozionale.
Bisogna percorrerla tutta, la china di quest’emozione, per comprendere la profondità che si rivela
in un paesaggio del genere. Lo spaesamento di un essere, come se la trascendenza si rivelasse
nelle nostre forme di disadattamento ad un ordine consolidato, che contiene tutto dentro
l’orizzonte, che non prova alcun timore perché possiede tutto. Ecco, il volto si annuncia invece
in una timidezza, in una fragilità che lo rende sempre disadattato di fronte al mondo, come
quando incontriamo l’altro e ne cogliamo il versante tenero.
L’esperienza della tenerezza dell’altro è in fondo proprio questo stupore dinanzi al fatto che
l’altro, ecco, ha paura, non è proprio di questo mondo, e per questo sentiamo che dobbiamo in
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qualche modo salvarlo dal mondo, prenderne cura. Alla violenza del possesso s’oppone qui
questa figura fragile del volto, la sua tenerezza che contesta radicalmente la violenza del mondo.
Anche questo mi sembra una eredità preziosissima di Levinas, oggi soprattutto: dinanzi alla
violenza del mondo non è un sovrappiù di potenza che può contestare veramente, ma è il potere
rimasto di sentirsi spaesati, di assumere la propria fragilità come l’annuncio di una trascendenza
che abita l’essere umano e che è spaesata, lo abita annunciandogli che non è (solo) di questo
mondo. Questo sguardo che contesta la violenza del possesso, la violenza e il possesso, “si
riconosce solo donando”. Ecco la svolta: il senso più immediato lo abbiamo già spiegato; donare
rappresenta la contrologica del possesso. Chi dona, non possiede più. Ma siamo partiti
affermando che il dono non ha solo questo valore negativo, ma anche un forte valore euristico.
Donare non è soltanto un’azione diversa dal possedere – senza che questo incida sull’essere
dell’oggetto in questione. Il dono assume qui un valore ben più radicale: esso, nello stesso tempo
in cui chiude la potenza della presenza degli oggetti, allo stesso tempo allarga il campo del senso
e della significazione di ciò che viviamo. Che vuol dire infatti che il volto si riconosce solo
donando – tanto quanto “si mettono in questione le cose donando”? In che modo si mettono in
questione le cose donando? Certo, innanzitutto non si possiedono più. Prendiamo l’esempio di un
regalo. Io compro un oggetto, e nel processo economico io compro il suo possesso: io non sono
l’oggetto ma io lo possiedo, quell’oggetto è diventato il mio. Eppure quello stesso oggetto, il lo
ho comprato per donarlo. Donare indica il semplice passaggio di un oggetto da un padrone ad un
altro? Quando dono non cedo qualcosa a titolo gratuito la cosa, diventata dono, si definisce non
più soltanto per il suo essere oggetto. Nell’esperienza del dono il che cosa viene donato passa in
secondo piano. Noi ringraziamo per il dono prima ancora di scartare la confezione, di vedere
quell’oggetto e quantificarne il valore e economico. Il dono mette in questione le cose perché ne
tramuta l’essenza: il dono è anche l’oggetto donato, ma non è più quello. Qual’è il cuore
(l’essere) del dono? Qualcosa, che non possiamo possedere, che non si consuma nel passaggio
del possesso e nella determinazione ontologica della presenza qualcosa, che non è semplicemente
presente. Bisognerà successivamente rovesciare questa negazione in una posizione, riconoscere
in quest’assenza del dono e del volto una cera presenza – nuova, differente, irriducibile, forse
innominabile. Rimane che per ora Levinas la definisce come assenza (“la trascendenza del volto è
l’assenza dal mondo in cui entra”). Qual è il rischio dell’assenza? E’ il rischio che Pareyson,
rivolgendosi ad Heidegger, definiva della “mistica dell’ineffabile”. Abbiamo scritto all’inizio: da
Heidegger in poi, la filosofia deve evitare sia il rischio dell’essere (della presenza) sia il rischio
del non essere (dell’assenza tout court). Questi due rischi, in fondo, coincidono. Anche la
presenza culmina in ultima istanza in un falso essere, nell’essere che si ha, nel nulla dell’alterità.
La presenza, attraverso cui conosciamo l’ente, ci costringe a non incontrare nulla. Cosi per il non
essere, la cui non presenza comporta un abisso che va interpretato positivamente, il nulla
heideggeriano che non corrisponde per nulla ad una nientificazione, ma ad un evento (Ereignis).
Tra l’essere e il non essere, tra presenza e l’assenza, tra possesso e l’impotenza, lì, non c’è nulla,
ma si da’ (Es gibt) dono, si da’ (Es gibt) volto. Ma questo presentarsi del volto e del dono non
corrisponde per nulla ad un’astuzia del Medesimo che sdoppia l’apparire - sotto altra forma – il
volto è di nuovo presente, dunque di nuovo il volto è tutto consumato nella sua faccia, è un altro
visibile. Piuttosto il volto si presenta, senza mai esser presente. Sena mai esser presente, cioè
senza mai poter essere ridotto alla sua presenza, trascendendo la semplice presenza e resistendo
ad essa. Si presenta, cioè si espone alla storia e alla fenomenalità d’essa, il volto è sempre anche
una carne, una pelle, un sorriso, e, ancor di più, un’indigenza espressa, una fame, un dolore
subito. Che il volto si presenti, non vi è dubbio, e a me pare sia addirittura la novità estrema di
Levinas, aver cioè superato lo stallo a cui in qualche modo sembrava averci costretti Heidegger.
Scrive per esempio Levinas; “la presenza di un essere che non entra nella sfera del medesimo,
presenza che oltrepassa, fissa il suo statuto di infinito”. Tutto il percorso di Levinas è teso a
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dimostrare l’irriducibilità del volto alla presenza e, allo stesso modo a mostrare la modalità del
presentarsi del volto. Questa modalità, che sfugge a quella ontologica, che la precede mettendola
in questione attraverso il dono, è precisamente l’etica, l’etica come filosofia prima. Ecco il terzo
escluso, tra essere e non essere, l’etica. Essa non è una resa della filosofia, ma un suo incremento,
riportandone al centro della riflessione la trascendenza, ma qui, dopo quanto detto prima,
potremmo dire anche solo: qualcosa e non il nulla (il nulla dell’essere che si ha e che nasconde la
verità, il nulla del non essere che non si ha e che non si presenta in alcun modo). Abbiamo
rintracciato il terzo escluso tra essere e non essere in questo varco dell’etica, della presentazione del volto, anche grazie alla
capacità del dono di mettere in questione la potenza dell’ontologia del possesso. Vorremmo solo brevemente segnalare
come tutto il dibattito attuale sul dono si concentra precisamente sulla stessa questione: il dono è paradossale perché non è
mai presente eppure non è mai nulla. Le sue condizioni d’impossibilità coincidono con le sue condizioni di possibilità18. Il
che vuol dire: l’irriducibilità del dono alla presenza rende possibile (ma anche credibile) il dono, aprendone lo spazio
d’esistenza e non chiudendolo. Poiché il dono non c’è, il dono è. Ma come dare consistenza a questo dono che abita
anch’esso tra l’essere e il non essere? Come riempire quest’apertura? Forse solo l’omologia tra volto e dono può aiutarci:
anche il dono prende senso solo dentro lo spazio euristico dell’etica, attraverso la mediazione dei volti e il recupero di una
dimensione relazionale irriducibile alla relazione tra soggetto-oggetto, tra enti, tra elementi dell’economia. Ora, è proprio
questo recupero che fa problema, sia in Levinas sia nel dono, ed esige una nuova messa in questione, un ulteriore
cammino: ospitare nel cuore dell’etico una relazione, non vuol dire rischiare di nuovo la presenza nella sua forma più
grave, l’egoismo? Essere in relazione significa infatti rischiare sempre il ritorno, e così riconsacrare il primato del
Medesimo, far vincere, sempre e di nuovo la sua potenza. Ciò che è veramente in gioco, nell’apertura dell’etica e
nell’irriducibilità del volto e del dono alla semplice presenza, è dunque la possibilità di pensare una relazione slegata dal
ritorno e dalla violenza.
In Totalità e Infinito e Altrimenti che essere compaiono due termini essenziali, che rappresentano, a
ben vedere, un modello di relazione. Questi termini sono separazione e prossimità.
La separazione è innanzitutto carattere del Medesimo, il suo ateismo e la sua felice vita che consiste
nel godere. Ma nel seno di questa separazione irrompe un’ulteriore separazione, ben più radicale,
l’esteriorità dell’altro nelle sue molteplici sfumature (dall’elementale, alla donna, infine al volto): “la
trascendenza del volto non esiste fuori dal mondo”19 scrive Levinas. La separazione assoluta è resa
anzi possibile dall’esteriorità radicale - è proprio il caso di dirlo - di Altri. C’è qui tutto il gioco
levinassiano della casa, la quale è il segno di un’erranza, è un rifugio che rivela la condizione d’esule,
la radice nomadica della stessa separazione. Ma il punto qui è un altro: le due separazioni sono possibili
perché tra di loro vi è un rapporto: perché il Medesimo si separa solo essendo abitato dalla presenza
dell’altro, perché l’altro è esteriore ma dentro il mondo, nel cuore stesso del mondo in quanto fusione
degli orizzonti ontologici. Doppia separazione, allora, ma doppia separazione che vale come
assoluzione all’interno di una relazione. Da un punto di vista esistenziale, qual è il senso di questo
passaggio? È proprio il fatto che, per uscire dalla relazione violenta - nella quale il primato del
Medesimo è sancito dal ritorno a sé come estremo movimento - c’è bisogno di salvare la trascendenza
di colui con il quale siamo in relazione, di non ridurlo alla sola relazione. Pensiamo per esempio alla
tentazione dei ruoli. Certo, vi sono delle relazioni che sono inevitabilmente strategiche. Quando
andiamo a comprare del pane non incontriamo alcun’esteriorità: la relazione con l’altro è guidata da un
esplicito ritorno ai propri interessi e, per questo, l’altro è immanente rispetto all’orizzonte ontologico
previsto: egli è il suo ruolo che dispensa una soddisfazione ad un mio interesse, né più né meno. L’altro
si consuma nella relazione, non esiste fuori di essa. Ma il rischio è quello di vivere tutte le relazioni
secondo questo modello. Quante volte, per esempio, ci dimentichiamo il nome dei nostri amici, dei
nostri compagni di vita, e li chiamiamo solo così, mio amico, mio compagno, mia moglie e mio marito.
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Abbiamo consumato ogni esteriorità, abbiamo ceduto alla tentazione dei ruoli - non incontriamo più
nessuno, in verità. Il tu ha sostituito del tutto il voi, direbbe Levinas. In forma rozza questa verità è
espressa nella rivendicazione dell’amante in crisi che accusa l’altro: “tu mi dai per scontato”. Hai
dimenticato chi sono per occuparti ormai di cosa sono. In questa riduzione dell’esteriorità vi è il ritorno
alla semplice presenza: l’altro è dentro l’orizzonte ontico del mio mondo, è determinato, è posseduto
secondo un elenco di caratteri. Io conosco tutto dell’altro, cioè: io lo possiedo (conoscere e possedere
coincidevano in una precedente citazione levinassiana). Ora, l’esempio appena fatto è importante,
poiché esso riguarda relazioni nelle quali il dono ha senso (ammesso che il dono possa aver senso in
una relazione - tanti non sarebbero d’accordo). In quali rapporti doniamo? Certo, doniamo anche in
relazioni strategiche: il panettiere fa l’offerta promozionale, l’allievo fa un regalo al maestro. Ma questi
doni sono esplicitamente competitivi, cioè rimarcano una forma di sovranità, un possesso ben più grave
di quello delle cose: quello per cui attraverso quel dono qualcuno, in qualche modo, possiede qualcun
altro - lo sfrutta ottenendo un profitto, un ritorno. Aldilà di questi doni, allora, noi sperimentiamo il
dono nelle relazioni non strategiche: anche il dono ha dunque bisogno della distanza e dell’esteriorità.
A ben vedere, anche la libertà di rifiutare o accettare il dono, e successivamente di ricambiarlo o no,
non è altro che la traduzione in chiave esperienziale della separazione di cui stiamo parlando. Donare
un dono e donare al contempo la libertà di quel dono vuol dire: instaurare una relazione e al contempo
affermare l’esteriorità del donatario, essere in relazione ma riconoscendo che l’altro non è solo dentro
questa relazione. La separazione permette di pensare ad una relazione nella quale “i termini si
assolvono dalla relazione e restano assoluti in essa”20
, scrive Levinas a proposito del linguaggio (che ne rappresenta una forma paradigmatica). I termini si
assolvono dalla relazione - separazione ed esteriorità mantenuta - ma essi restano, in quanto assoluti,
dentro la relazione. Che senso avrebbe infatti esser separati fuori dalla relazione? Il volto abita il
mondo, s’offre nella sua irriducibilità dentro la relazione etica. Se i termini restassero fuori dalla
relazione, essi non sarebbero più termini, non vi sarebbe più discorso né etica. Non vi sarebbe più
alcuna contestazione del possesso. Vi sarebbe solo il muto nulla dell’abbandono. Ciascuno
disinteressato dell’altro, ma il disinteresse qui coincide con l’abbandono, non con il disinteresse
levinassiano. La separazione senza prossimità diventa abbandono. Un inciso: l’abbandono può anche
esser presentato come a fin di bene. Abbandonare l’altro per lasciarlo essere, senza tentare la prossimità
e con essa il costante rischio della decadenza in semplice presenza e in egoismo. È così che si può
interpretare l’ultimo Heidegger, per esempio. Ma quest’abbandono ripudia ogni carattere etico: è un
movimento soltanto ontologico - lasciar essere - ma mai un movimento etico: aver cura dell’essere,
esserne prossimi21. Ritorniamo a Levinas. La separazione permette alla prossimità d’essere un modello
di relazione non strategico, ontologico, violento. Allo stesso modo la prossimità permette alla
separazione d’essere etica, di non sparire negli spazi abitati dagli dei così esteriori da essere
indifferenti. Nel paragrafo conclusivo di Totalità e Infinito intitolato L’essere è esteriorità, Levinas
lega la “distanza diventata altezza” dell’esteriorità ad una nuova “curvatura dello spazio
intersoggettivo”22. Poche righe sotto continua ancor più chiaramente: “la “curvatura dello spazio”
esprime la relazione tra esseri umani. […] Il faccia a faccia - relazione ultima e irriducibile che nessun
concetto sarebbe in grado di abbracciare senza che il pensatore che pensa questo concetto si trovi
immediatamente di fronte ad un nuovo interlocutore - rende possibile il pluralismo della società”23.
Quali sono i caratteri di questo faccia a faccia - di questa relazione che è al contempo prossimità e
separazione? È evidente come l’emergenza stessa della separazione permette di ritrovare quel che mi
sembra il carattere essenziale della relazione etica, la sua non-violenza. Utilizzo qui il termine, più
volte utilizzato dallo stesso Levinas, nei suoi due significati che comunemente gli assegniamo.
Innanzitutto la non-violenza è il rovesciamento della logica della violenza. Tutto ciò che non è una
relazione violenta è una relazione non violenta: dunque una relazione senza possesso, senza primato
dell’io, senza riduzione dell’alterità, senza la mediazione dell’essere. Ancor più essenzialmente, la non-
violenza definisce una positività assoluta, non è soltanto il non fare violenza all’altro, ma è anche il
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promuovere l’altro nella sua libertà. Mentre la relazione violenta distrugge l’altro, la relazione etica lo
fa nascere. Il carattere della non-violenza rimanda allora la relazione etica all’ordine della bontà:
“l’essere che s’impone non limita ma promuove la mia libertà, facendo nascere la mia
bontà. L’ordine della responsabilità, in cui la gravità ineluttabile dell’essere spegne ogni
sorriso, è anche l’ordine in cui la libertà è invocata in modo così ineluttabile, che il peso
irremissibile dell’essere fa nascere la mia bontà. L’ineluttabile non ha più l’inumanità del
fatale, ma la serietà severa della bontà”24.
Ci pare questo il punto essenziale, ma qui il nostro discorso s’annoda. L’ordine austero della bontà
infatti non è non-violento accidentalmente, la bontà della bontà consiste precisamente in questa non-
violenza. In questo c’è un elemento di continuità che unisce sia il pensiero filosofico criticato da
Levinas come violento, sia le esperienze concrete della violenza e del male - come vengono tematizzate
per esempio dalle tradizioni religiose. Quest’elemento è la distruzione. Il male è violento perché
distrugge, cioè sottrae qualcosa a qualcuno. Il medesimo fa violenza all’altro distruggendone ogni
carattere d’alterità. Il peccato, in una certa tradizione, fa violenza perché distrugge l’essere, rappresenta
una sorta di non-essere - è per questo che la morte sarebbe successiva al peccato. Ancora, nella nostra
esperienza, il male lo sperimentiamo perlopiù come distruzione: distruzione di una vita, distruzione di
un’identità, distruzione di una relazione. Contro quest’opera di distruzione, l’ordine della bontà
richiede quest’incondizionato ripudio della violenza. Ma, allo stesso tempo, l’ordine della bontà mette
ordine nella soggettività, la precede instaurandola (“Il soggetto è bontà”25 - scrive Levinas). Ma come
tenere insieme questi due elementi: la non distruttività come bontà del bene e la precedenza dell’ordine
attraverso cui essa si manifesta? Come essere liberi non avendo scelto? E se la scelta è stata fatta senza
tenere in contro la volontà dell’io, come pensare a questa scelta secondo l’ordine del bene, come non
rimanere schiavi del bene? Ci può essere una non violenza senza libertà o, al contrario, una non libertà
non-violenta? Ci può essere un diritto al dono senza il dovere della libertà? La questione qui non
concerne soltanto la natura della relazione etica, ma la sua stessa possibilità a partire dall’inversione
operata dall’etica. Se l’ordine del bene fa violenza al soggetto, esso opera un rovesciamento fedele alla
violenza della totalità: se in questo caso il medesimo sacrifica l’altro, ora l’altro richiederebbe il
sacrificio del medesimo26. Ma in entrambi i modelli ciò che si sacrifica è la possibilità di una relazione
tra l’io e l’altro. Lo stesso dilemma si ripropone nell’esperienza del dono (ma forse molto di più nella
riflessione sull’esperienza del dono): se noi non doniamo, abbandoniamo l’altro o lo incontriamo solo
in relazioni strategiche, riducendolo al nostro primato. Se noi doniamo lo possiamo fare in due modi: o
comparendo nel dono, firmandolo, e in questo modo predisponendo un ritorno sotto più forme -
contraccambio, ma anche solo gratificazione e riconoscenza - e, così, di nuovo facendo violenza
all’altro imponendo l’ennesima sovranità. Oppure donare scomparendo, e in quest’assenza evitare la
violenza all’altro, ma a che prezzo? La scomparsa dell’io, appunto. Cioè la violenza rovesciata,
secondo un trasferimento che estende la sovranità piuttosto che contestarla: dal momento che per
donare devo scomparire, io sono schiavo dell’altro, cedo la mia soggettività alla sua sovranità. Certo, lo
faccio donando, a fin di bene, si dice. Ma proprio oggi, l’attualità ci mostra quanto anche il “fin di
bene” non evita violenza, ma anzi la esercita. La scarto semantico tra il male e la violenza giustifica
eventi, scelte, linee culturali, lascia che anche il bene possa avere un’ambigua parentela con la
violenza, possa pianificare guerre, distruggere. Ancor di più, la violenza sarebbe l’extrema ratio del
bene, il suo unico modo di riconquistare un primato che sembra perduto. Apparentemente ci siamo
allontanati dal nostro tema e dal nostro autore, ma io credo che la questione sia sempre la stessa. Oggi è
lecito teorizzare un impero del bene, un’imposizione del suo ordine (e comprendiamo qui quanto
questa parola sia ambigua), il bene va imposto (e quest’imposizione si materializza sotto forma di
dono, è un dono imposto), esportato, non ha bisogno di alcun consenso, di alcuna parola dell’altro:
l’altro è sottomesso al bene, ne è schiavo (e questa schiavitù rappresenterebbe, da un punto di vista
7
antropologico, un salto di qualità, rispondendo infine ad una domanda che secoli di filosofia non hanno
mai risolto: è meglio il bene imposto o il male libero? La situazione attuale è una gigantesco modello di
risposta a questa domanda: è meglio il bene imposto). Scrive Levinas (non a proposito di questo che è
il nostro mondo e non il suo, ma quanto queste parole ci dicono del nostro mondo? Quanto la filosofia
ci dice di noi attraverso un’inattualità che la rende sempre attuale?):
“Il bene non si offre alla libertà: mi ha scelto prima che io lo abbia scelto. Nessuno è buono
volontariamente. Ma la soggettività, che non ha il tempo di scegliere il bene e che, di
conseguenza, si immedesima a propria insaputa, nei suoi raggi - e ciò disegna la struttura
formale della non libertà - la soggettività vede riscattare, eccezionalmente, questa non
libertà dalla bontà del bene. L’eccezione è unica. E se nessuno è buono volontariamente,
nessuno è schiavo del bene”27.
Nessuno è buono volontariamente. Ciò non vuol dire che non esista una “buona volontà”, ma assai più semplicemente che non è
la volontà che dà senso alla bontà. Se così fosse, se il bene fosse solo una volontà buona, ritroveremmo il soggetto e il suo primato,
sotto forma di colui che ha voluto bene. Il bene voluto diventa oggetto di una soggettività volente, e dunque già posta, posizionata,
affermata, assolta dal suo rapporto con il bene, che arriva sempre dopo, a cose fatte. Il bene precede invece la volontà e la instaura,
secondo una razionalità che si ripropone anche per la libertà. Lo stesso modello va applicato anche al dono: nessuno dona
volontariamente, e non nel senso che tutti doniamo contro la nostra volontà, ma nel senso che la nostra volontà è già esposta al
dono. Potremmo anche dire: la prima esperienza del bene non è compiuta, ma è ricevuta, così noi conosciamo il dono non
compiendolo, ma ricevendolo. Il bene precede la soggettività secondo un registro di passività originaria: noi doniamo solo perché
abbiamo già ricevuto, l’io è responsabile dell’altro perché è stato già amato dall’altro. L’ordine della responsabilità trova la sua
giustificazione solo nella precedenza dell’amore: “Il bene investe la mia libertà, mi ama prima che io lo ami. Grazie a questa
anteriorità l’amore è amore”28. Ma proprio perché quest’anteriorità è l’anteriorità dell’amore, essa non può fare violenza sull’io. È
giusto ricordare come in Altrimenti che essere anche il linguaggio cavalchi la violenza - l’io è un ostaggio, è sottoposto
all’espiazione fino alla sostituzione, la responsabilità etica elegge al sacrificio. Ora, quest’ambiguità si scioglie, a mio parere,
proprio nel primato del Bene, che evita che “il dolore dell’espressione” condizioni la proposta di Levinas orientandola verso quel
rovesciamento della violenza di cui ho già scritto. E, d’altra parte, tutto il nostro discorso finirebbe per essere inutile: si dà dono in
Levinas? Se c’è, esso deve rispondere almeno al significato che intuitivamente gli assegniamo, quello per cui il dono è un oggetto
scambiato senza l’obbligo del contraccambio, dunque senza imposizione e violenza. Nessuno è schiavo del bene, allora. Cioè tutti
siamo radicati nel bene, senza che questo privilegio si manifesti come una schiavitù ambigua, ma anzi come una promozione della
libertà che è già un raddoppio dell’affidamento, ciò in cui consiste la relazione etica: la libertà è affidata all’io dall’altro attraverso
l’affidarsi dell’altro alla libertà dell’io: “l’altro non limita più il medesimo, esso è sopportato da ciò che limita”29. Un raddoppio che
evita sia la tentazione di una libertà monologica, quella che si misura attraverso la potenza di un soggetto che fa tutto ciò che vuole,
sia la tentazione di una schiavitù formale: l’impero del bene sottomette i suoi “cittadini”, decide di loro ben prima d’ogni possibile
presa di parola. Contro questa doppia (e del tutto formale) possibilità, Levinas ci ammonisce: la nostra libertà - ma dunque lo
spazio stesso della soggettività - non è mai infinita, ma la sua finitezza non coincide con il suo termine, ma con il suo inizio: la
“libertà finita”30 è il nome umano di una libertà creata e donata, in cui l’essere ricevuti non segna un limite ma l’inizio di ogni
discorso - sia del discorso sulla responsabilità sia del discorso sull’identificazione del soggetto.
Proprio per questo il dono diventa una forma privilegiata di assunzione della responsabilità - certo non
l’unica, poiché il dono è un dovere che eccede ogni dovere, che esprime già una preferenza accordata -
quella forma in cui la responsabilità diventa anche un memoriale della radice etica dell’umanità: donare
per ricordare che siamo stati donati, donare per rimanere fedeli nella storia all’inizio inaudito della
creazione - esplosione della formalità dell’ontologia: l’essere non può recuperare tutto, l’essere si trova
spaesato, espulso - ma anche, potremmo provare a dire oltre Levinas, recupero di una certa tradizione
dell’essere per cui esso non è mortificato dal privilegio del bene, ma ne esce vivificato. Il bene non è
che il mistero dell’eccedenza della vita e, in essa, della trascendenza che noi sperimentiamo
nell’immanenza più pura del mondo: attraverso la storicità del linguaggio, attraverso il varco della
carne e dell’eros, attraverso la cura etica di altri, attraverso l’evento universale e necessario della
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nascita, dove l’immanenza consiste precisamente nell’abbracciare la trascendenza - la vita che fiorisce
attraverso la responsabilità e si trova sensata in una responsabilità che è già espulsa da sé: vita che porta
in sé una vita che non è che l’altro, e in questa cura dell’altro trova il proprio senso, in un modo oscuro
ma autentico per cui la vita dell’altro è la mia vita. Proprio l’evento della nascita ci permette di
concludere aprendo un discorso, affidando alla parola una traccia che Levinas ha lasciato agli suoi
lettori. La nascita infatti, riproponendo la radicalità del bene come il luogo d’origine della
responsabilità, costituisce l’evento in cui quella misteriosa parola poetica ripresa da Levinas diventa
vera: nella nascita “l’io è un altro”31. Certo, Levinas riprende questa parola poetica per darle perlopiù
un significato sacrificale: l’io è un altro, cioè si sostituisce all’altro. Ma se l’io è un altro, che ne è
dell’altro? Mi pare che il rischio sia qui di perdere, per un eccesso di prossimità ontologica - l’io è un
altro - sia l’ateismo del soggetto - precisamente il fatto che l’io non sia un altro, sia la separazione
dell’altro (la distanza del Santo, scriverebbe Levinas32). Forse è proprio un’ermeneutica della nascita a
permetterci d’interpretare in forma differente questa strana parola. “L’io è un altro” nel senso preciso
che la sua autentica radice consiste nel portare l’altro e che, allo stesso modo, percepire d’essere per
l’altro un altro, sentire cioè come in questo gioco di riconoscimento - uso questo termine che può essere
tacciato d’astuzia, ma il cui recupero mi pare essenziale - ne vada del senso e della verità di ciascuno.
“L’io è un altro” non designa in fondo una reciprocità perfetta? E se, dopo aver pensato a liberare
l’altro dalla violenza dell’io, l’eredità che ci lascia Levinas non sia quella di tradirlo, in qualche modo,
per liberare anche la reciprocità dall’appiattimento negativo sul ritorno? Pensare ad una reciprocità che
non sia più soltanto un ritorno al primato del soggetto ma un riconoscimento non violento, un
raddoppio della condivisione? Mi pare che proprio a questo livello si giochi una possibilità non ancora
frequentata di un incrocio fecondo tra il pensiero di Levinas e l’esperienza del dono. Quest’ultima,
infatti, mette in questione l’idea negativa della reciprocità - richiamando ad una reciprocità in cui il
ritorno non sia necessario, non sia violento, infine non sia astuto. Questa reciprocità è impossibile,
scriverebbe Derrida, ma consapevole che quest’impossibilità riguarda il pensiero, e mai l’esistenza.
Infatti l’impossibilità logica s’insedia nel fondo di un’attestazione esistenziale: il dono, noi lo
sperimentiamo, lo riceviamo, lo offriamo, e attraverso esso costruiamo, o cerchiamo di costruire, un
intreccio di relazioni in controtendenza rispetto alle due violenze - quella dell’io nei confronti
dell’altro, quella dell’altro nei confronti dell’io.
Così anche attraverso il dono possiamo cercare di costruire un ordine del mondo a misura dell’altro, nel
quale la reciprocità costituisca l’esercizio della fioritura. Come la cura della madre fa nascere il figlio,
come l’attenzione del contadino non rende vana la semina, così la cura e l’attenzione etica decidono di
un mondo la cui nascita è traccia inconfutabile della bontà del bene. Il dovere - sotto la forma della
responsabilità etica - e il volere - sotto la forma del dono - convergono nell’annuncio di questa verità
della nostra esistenza: ciò che vale è decidere di continuare a nascere, ancora.
1. E. LEVINAS, Totalité et Infini. Essai sur l’exteriorité, Nijhoff, La Haye 1961; tr. it. di A. Dell’Asta,
Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, con testo introduttivo di S. Petrosino, Jaca Book, Milano,
1980, p.159.
2. Sul tema ci permettiamo di rimandare a S. LABATE,Volto e donazione. Il tema dell’evidenza in
Levinas, in P. Ventura (ed.), Ri-pensando al diritto, Giappichelli ed., Torino 2001.
3. Cfr., in particolare, J. DERRIDA, Adieu à Emmanuel Levinas, Editions Galilée, Paris 1997; tr. it. di
S. Petrosino e M. Odorici, Addio a Emmanuel Levinas, Jaca Book, Milano 1998.
4. Sul tema cfr., J. L. MARION, Réduction et donation, Puf, Paris 1989.
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5. E. LEVINAS, Totalità e Infinito, cit., 41-42cn.
6. Cfr. R. MANCINI, L’ascolto come radice, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995.
7. Cfr., M. HEIDEGGER, M., Wegmarken, Klostermann, Frankfurt a.M. 1976; tr. it di F. Volpi,
Segnavia, Adelphi, Milano 1987.
8. Sul tema cfr. S. LABATE, La sapienza dell’amore. In dialogo con Emmanuel Levinas, Cittadella
editrice, Assisi 2000, pp. 19-60.
9. C’è una violenza che non riconosce l’altro ma anzi lo rinomina, lo riproduce. La conoscenza del
possesso sarebbe così come un’operazione di chirurgia plastica: non si può mai conoscere niente di
nuovo, per questo modifica il volto per trasformarlo in una faccia – seriale, confondibile, anonima: una
maschera che è la maschera dell’essere.
10. Cfr. MARION, J.-L., Étant donné. Essai d’une phénoménologie de la donation, Puf, Paris 1997; tr.
it. di R. Caldarone, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, SEI, Torino 2001.
11. cfr. G. FERRETTI, La filosofia di Levinas. Alterità e trascendenza, Rosenberg & Sellier, Torino
1996, pp. 129-146.
12. E. LEVINAS, Totalità e Infinito, cit., p. 73.
13. Sul tema cfr. R. MANCINI, Quando le cose sono regali, in “Servitium”, III 118 (1998), 387-390,
pp.47-51.
14. L. PAREYSON, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1971.
15. M. HEIDEGGER, Zur Sache des Denkens, Niemeyer Verlag, Tübingen 1969; tr. it. a cura di E.
Mazzarella, Tempo ed essere, Guida, Napoli 1998
16. E. LEVINAS, Totalità e Infinito, cit., pp.169-170.
17. Cfr. E. LEVINAS – A. PEPERZAK, Etica come filosofia prima, a cura di F. Ciaramelli, Guerini e
Associati, Milano 1989.
18. Cfr. J. DERRIDA, Donner le temps. I. La fausse monnaie, Galilée, Paris 1991; tr. it. di G. Berto,
Donare il tempo. La moneta falsa, Raffaello Cortina editore, Milano 1996.
19. E. LEVINAS, Totalità e Infinito, cit., p.175.
20. E. LEVINAS, Totalità e Infinito, cit., p.168.
21. Sul tema cfr. P. CODA, Dono e abbandono: con Heidegger sulle tracce dell’essere, in P. Coda –
A. Tapken (edd.), La trinità e il pensare. Figure percorsi prospettive, Città nuova, Roma 1997, pp.
123-161.
22. Queste affermazioni levinasiane vengono riprese, con la stessa tonalità, da P. RICOEUR, La
memoire, l’historie, l’oublie, Seuil, Paris 2001; tr. it. di D. Iannotta, La memoria, la storia, l’oblio, Jaca
Book, Milano 2003, p. 654 ss.
23. E. LEVINAS, Totalità e Infinito, cit., p. 300.
24. Ivi, p. 206.
25. E. LEVINAS, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye, 1974; tr. it. di S. Petrosino e M. T. Aiello,
Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983, p. 148.
26. È la celebre critica rivolta già da J. L. MARION in L’idole et le distance, Grasset, Paris 1977; tr. it.
di A. Dell’Asta, L’idolo e la distanza, Jaca Book, Milano 1979.
27. E. LEVINAS, Altrimenti che essere, cit., p.13.
28. Ivi, p. 15 (nota 7).
29. Ivi, p. 146.
30. Ivi, pp. 153-165.
31. Levinas riprende come è noto questa parola da A. RIMBAUD (cfr., Oeuvres completès, Gallimard,
Paris 1972, p. 249. Sul tema cfr. E. LEVINAS, Humanisme de l’autre homme, Fata Morgana,
Montpellier 1972; tr. it. di A. Moscato, Umanesimo dell’altro uomo, Il melangolo, Genova, 1985, pp.
125-126.
32. Cfr. E. LEVINAS, Du Sacré au Saint. Cinq nouvelles lectures talmudiques, Minuit, Paris 1977; tr.
it. di O. M. Nobile Ventura, Dal sacro al Santo. Cinque nuove letture talmudiche, con introd. di S.
Cavalletti, Città Nuova, Roma 1985.
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