LEZIONE 1
Tema: l’etimologia = studio dell’origine delle parole. Definizione è buona solo fino a un certo punto. Il termine
vago è origine. Ferdinand de Saussure con il suo Corso di linguistica generale. In questo testo Saussure si
occupa anche dell’etimologia in modo molto chiaro e ci dà una definizione del concetto: «l’etimologia non è
né una disciplina distinta né una parte della linguistica evolutiva (studio delle lingue nel tempo); è soltanto
una applicazione speciale dei principi relativi ai fatti sincronici e diacronici. Essa risale nel passato delle parole
finché non trova qualche cosa che le spieghi».
Il carattere dell’etimologia di essere una applicazione speciale della dei principi della linguistica sincronica e
diacronica rende l’etimologia stessa adattissima per un corso specialistico di glottologia. Il processo
etimologico, cioè il processo a ritroso dell’etimologia può avere diversi gradi di complessità e questo processo
varia a seconda delle lingue e delle parole all’interno di una stessa lingua.
Prendiamo l’esempio di padre < pater. Mettiamo a fuoco i requisiti fondamentali di una etimologia: il
collegamento tra l’italiano e il latino è sicuro e fondamentalmente per tre motivi:
1. Forma: le due parole sono evidentemente molto simili l’una rispetto all’altra, le differenze che ci sono
sono spiegabili e sono spiegabili sulla base del confronto con altre parole, prima di tutto con la coppia
it. madre < lat. mater.
2. Significato: le parole hanno un significato identico: entrambe designano il genitore di sesso maschile.
3. Relazioni storiche tra le due lingue: tra italiano e latino c’è una relazione di discendenza, cioè l’italiano
deriva dal latino e quindi è naturale che una parola del suo lessico fondamentale discenda dal latino
stesso.
Da questo esempio si possono ricavare tre principi fondamentali, cioè i tre requisiti che deve avere una
qualsiasi etimologia per essere corretta, e cioè essere adeguata dal punto di vista della forma, del significato
e da un punto di vista storico.
Torniamo alla definizione di etimologia: possiamo precisare che la prima definizione si riferisce all’ambito di
studio; ma si riferisce anche alla spiegazione dell’origine di una parola. Un esame che tipicamente consiste
nella formazione di una spiegazione etimologica. Insomma, se si vuole essere precisi, si può notare che il
termine ha due accezioni che si possono considerare diverse, e che possono essere spiegate da questi
esempi:
I due significati possono quindi comunque essere tenuti insieme, ma sono pur sempre due significati diversi.
C’è però un altro uso dell’etimologia: è da distinguere perché è da evitare. E cioè quando etimologia viene
usato con il senso di “origine di una parola”. Dal punto di vista tecnico non è corretto. Il termine tecnico che
designa la base etimologia di una parola è etimo.
L’etimologia consiste nell’andare indietro nel tempo fino a che non si trova una spiegazione. Per l’italiano
padre ci limitiamo a risalire al latino pater. Ma anche il latino pater può avere una spiegazione etimologica,
che si ricava dal confronto con altre lingue, che sono legate al latino dal punto di vista genetico, che sono
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chiamate lingue indoeuropee. Il confronto tra queste lingue permette di rimandare il latino pater a una base
non attestata ind. *pətér- ‘padre’. L’indoeuropeo è il punto più arretrato nel tempo che si riesce a
raggiungere nella vicenda della parola “padre”. Quindi padre < pater = etimo prossimo. Pater < *pətér- =
etimo remoto. Negli studi etimologici romanzi si impiega il maiuscoletto per le parole latine prese come basi
di parole neolatine. Quindi si intende parola latina presa come base per parola di base per lingue neolatine.
Altra convenzione in uso nella linguistica storica è l’asterisco che serve a distinguere parole o espressioni non
documentate nei testi ma ricostruite dai linguisti. Nel nostro caso l’indoeuropeo, che non è attestata
direttamente ma ricostruita dai linguisti attraverso la comparazione linguistica.
Il caso di “padre” è un caso semplice. Prendiamo il caso di “guglia” = elemento architettonico appuntito. Si
inizia a leggere da destra:
Ie. *ak- lat. acus lat. acucula fr.ant. aguille it.ant. aguglia it. guglia
I vocabolari etimologici più completi presentano non solo l’etimo prossimo, ma anche quelli sempre più
remoti cioè le fasi precedenti attraversate dalla parola. Questi dati possono essere importanti perché fissano
dei momenti importanti del passato dalle parole, i dati permettono di capire, in questo caso, che ad esempio
alla base del nome “guglia” c’è una metafora, metafora che parte dall’immagine dell’ago appuntito. Inoltre
questi dati portano alla luce il carattere storico culturale, come la provenienza francese ( o meglio, normanna)
della parola italiana.
Dati di questo genere sono contenuti nei vocabolari etimologici più completi: es. LEI = lessico etimologico
italiano. Opera di cui sono usciti per ora 16 volumi (incompleta). Questo lessico è impostato su una
concezione di etimologia che ha tra i suoi scopi quello di ricostruire l’intera storia delle parole. Questa
concezione dell’etimologia tipico dell’ambito degli studi romanzi. Favorita dal fatto che per l’etimologia le
lingue romanze si trovano in una posizione particolarmente felice, per due motivi:
È questa particolare condizione delle lingue romanze a favorire la nascita dell’etimologia come “storia delle
parole”. Questa concezione nasce agli inizi del Novecento con Schuchardt, uno dei suoi principali
propugnatori. “L’etimologia ha il compito di ricostruire le fasi evolutive che una parola ha attraversato.
L’etimologia è una storia della parola più o meno abbreviata”.
Per la parola guglia, la storia è stata abbreviata un po’ troppo: questo dato emerge dalla consultazione dei
lessici storici, il TLIO, che si basa su un corpus di testi italiani che vanno fino alla fine del Trecento. Qui
troviamo ancora “aguglia” nella sua forma completa. Il fatto interessante è che si trova attestato sia con il
valore di ago che con il valore di obelisco. Le due attestazioni provengono da un testo scritto a Roma nel XIII
secolo. Il fatto più interessante, sempre dal TLIO, emerge dalla consultazione della voce guglia già attestata
in antico e sempre nello stesso testo. In cinque delle prime sei attestazioni guglia si riferisce a un obelisco
ben preciso, quello di San Pietro al Vaticano, che nel medioevo era ritenuto anche il sepolcro di Giulio Cesare.
Insomma, i dati documentari ci dicono che la parola guglia nasce in un contesto ben preciso in riferimento
all’obelisco vaticano. Il nostro uso di guglia è una estensione di un nome che aveva un uso proprio, quasi
come fosse un nome proprio dell’obelisco che si trova tutt’oggi nei pressi di San Pietro.
Caso di padre = etimologia sicura; caso di guglia non ha grandi difficoltà, interessante però il suo percorso.
Caso interessante è quello di razza = ha un percorso accidentato il suo studio più che la parola in sé. Parola
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che dal punto di vista etimologico è stato a lungo un problema irrisolto, insoddisfacente. Caso che serve a
spiegare che esistono casi etimologici più complessi di altri. La parola razza ha dei corrispondenti nelle
principali lingue europee che hanno ricevuto la parola stessa in italiano.
Razza in italiano nel XIII secolo; in francese nel 1480; le altre lingue europee la attingono o dal francese o
dall’italiano; quini è un italianismo che si diffonde nelle varie lingue indoeuropee. Per la questione
etimologica facciamo una rassegna delle proposte di etimologia: pariamo da Gilles Ménage, autore di un
dizionario etimologico pubblicato a Parigi nel 1650. Autore anche del primo dizionario etimologico italiano
pubblicato a Parigi nel 1669. Ménage non sa che la parola deriva dall’italiano e l’etimologia che propone è
quella che partirebbe da una variante del latino radix, ràdice.
Nel VEI la spiegazione di razza è analoga a quella della parola francese. Il parallelo su cui è costruito radice è
quello di stirps, che vuol dire “radice, sterpo”, ma che poi assume anche il significato di “razza, discendenza”.
Friedrich Diez fondatore della linguistica romanza. Autore della prima grammatica comparativa delle lingue
romanze, nonché autore del primo vocabolario etimologico delle lingue romanze, in cui vengono confrontate
le forme comuni delle lingue romanze. Lui comincia con il confutare l’etimologia di Ménage a partire da radix:
quello che non torna è l’accento. La sua proposta è in una parola che trova in antico alto tedesco: reiza. Forma
ha un valore compatibile: “linea”. Per sostenere questa ipotesi confronta il latino medievale linea sanguinis.
Ugo Angelo Canello fondatore della linguistica romanza in Italia. È il primo a proporre un’etimologia che
godrà di qualche successo. Etimologia a partire dal latino ratio “calcolo, ragione, genere”. La proposta
compare in uno studio del 1872 dedicato alle parole latine che continuano in italiano in due o più varianti.
Razza variante di ragione, che è il continuatore del latino ratio. Infatti come lui stesso afferma, il dialetto
trevigiano dice continuamente razon da rationem per “razza, origine, qualità”.
Ratio, -onis ha un continuatore in italiano che è ragione. Questa forma continua regolarmente il caso
accusativo rationem. L’esito del nesso consonante dentale + i > ragione. Non toscano! (in tosc. > razzone)
Questo perché probabilmente la parola è entrata in italiano attraverso i dialetti settentrionali. In questo caso
ci interessa che la parola continua il caso accusativo.
Il fatto è normale, la continuazione cioè del caso accusativo, perché è normalmente così. In realtà ci sono
casi, rari, in cui le parole italiane continuano il caso nominativo: uomo < homo; prete < presbyter.
Ci sono inoltre dei casi altrettanto rari di parole che si presentano in due forme: una che deriva dal nominativo
e l’altra dall’accusativo: moglie < mulier, sarto < sartor; mogliere < mulierem, sartore < sartorem. Sulla base
di questi esempi Canello afferma che ratio,-onis può aver avuto due esiti: razza < ratio e ragione < rationem.
Secondo Canello la spiegazione troverebbe conferma nella prima attestazione della parola ‘razza’ che si trova
in un poemetto toscano del XIII secolo: “Cesare, stando a l’assedio a Durazzo, Forte castello su monte
Pirrusso, Sedea sovr’un destrier di grande razzo.” Carlo Salvioni propone una ipotesi per certi versi simile a
quella di Canello perché fa riferimento al nominativo, ma di un altro etimo. Generatio che significa
“concepimento, generazione”. Questa parola per via dotta passa ad alcuni dialetti settentrionali e subisce
modificazioni: bellunese (sec. XVI): naraccia, narassia ‘razza, genia’. Friulano: giarnazie ‘razza’. È successo
che in questi dialetti la parola è entrata per via dotta attraverso i testi ed è poi stata storpiata subendo delle
modificazioni tra cui la perdita della sillaba iniziale. Il fenomeno della perdita di una sillaba a inizio di parola
si chiama aferesi. Fenomeno non rarissimo: apicula > pecchia; officina > fucina; Lorenzo > Renzo. L’aferesi
di una sillaba è tollerabile, però l’aferesi di due sillabe è un caso veramente eccezionale, per cui l’ipotesi di
Salvioni non è stata accettata.
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Angelico Prati autore di uno dei primi vocabolari etimologici italiani del dopoguerra: anziché da generatio,
razza < ratio. L’ipotesi da ratio è quella che ha riscosso maggior successo, è infatti difesa anche da Leo Spitzer.
Estratto da un lavoro di Spitzer del 1933, che prende le mosse proprio da una critica a Salvioni e che cerca di
dare ragione all’etimologia di Canello. Si cita la testimonianza di Cicerone, in cui ratio all’ablativo plurale è
usato nel significato di “specie, qualità”, che può essere uno dei significati di ‘razza’.
Opera importante è il primo grande dizionario etimologico italiano (DEI) pubblicato da Battisti-Alessio, uscito
in fascicoli dal 1948 al 1957. Spiegazione forse dall’arabo ra’s ‘origine, capo’.
Ernst Gamillscheg, romanista austriaco autore di un dizionario etimologico della lingua francese, prima
edizione del 1928: recupera l’ipotesi di Dietz, pensando però non al tedesco ma al longobardo, lingua parlata
da una popolazione stanziatasi in Italia nell’alto medioevo. Forma che sarebbe stata raiza con lo stesso
significato di “linea di sangue”. Le ipotesi proposte per razza sono moltissime e nessuna in sostanza
soddisfacente.
Gianfranco Contini propone l’ipotesi risolutiva, che nel 1959 arrivò alla risoluzione con un approccio molto
diverso: per la prima volta utilizza infatti i testi. Si proponeva di studiare la tradizione dell’intelligenza e delle
sue fonti, tra cui i Fatti di Cesare e a sua volta Faits des Romains che citano, il primo: “fu nato in sua raza”;
che deriva dalla traduzione di “fu nez en son haraz”. Il francese haras significa “allevamento di cavalli da
riproduzione”. Molto coerente, perché le prime attestazioni di “razza” si trovano proprio in contesti in cui si
parla di cavalli. L’ipotesi poi trovò conferme da parte di altri studiosi, in particolare da Sabatini, che aveva
studiato documenti redatti dalla cancelleria angioina di Napoli. Nei documenti napoletani sabatini trovò
numerose attestazioni di haratia, in latino, sempre con il senso di allevamento di cavalli (testi del XIII-XIV
secolo). Sempre in Italia meridionale, sabatini trovò attestazioni in volgare di “razza” sempre con il valore di
“allevamento”.
Dopo la scoperta di Contini e dopo le conferme di Sabatini, l’etimologia di razza si può dire risolta. Deriva dal
francese haraz, che tra l’altro è in maschile, che conferma le forme del tipo razzo. Quindi il significato è
compatibile ed è compatibile anche il contesto storico, il testo dei criteri cardine dell’etimologia. La parola
razza sembra proprio di provenienza meridionale, infatti qui a partire dal 1226 è presente una dinastia
francese, l’Angiò, fino al 1441. La parola razza quindi può essere arrivata dalla Francia con gli angioini e il loro
seguito. C’è un’altra possibilità, la più probabile visto che la parola quando appare nei testi in Italia
meridionale pare già ben acclimatata, quindi potrebbe essere arrivata prima, cioè tra il XI e XII secolo quando
l’Italia meridionale fu governata dai Normanni. Qualche dettaglio appare ancora da precisare, ma non ci sono
più dubbi sulla sua etimologia. Haras è di etimo ignoto infatti. Non ne è stata trovata una spiegazione
soddisfacente. Infatti haras potrebbe derivare da harr che vorrebbe dire “dal pelo grigio”, spiegazione che
però non è molto soddisfacente.
I problemi etimologici hanno diversi gradi di difficoltà, che sono tre: ci sono parole di etimo certo, di etimo
incerto e di etimo ignoto.
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LEZIONE 2
Testo di Baglioni: di che cosa si fa etimologia? Tocca due questioni: l’etimologia si applica al lessico e si muove
in una dimensione diacronica, storica, perché mette in relazione parole appartenenti a stadi linguistici
differenti. Ma è proprio vero che si fa etimologia solo delle parole e solo lungo l’asse della diacronia? Si ma
con alcune precisazioni.
si può applicare anche ad elementi più piccoli, come dei suffissi, oppure può applicarsi anche ad elementi
più grandi, come a nessi fraseologici? La risposta è di, perché si può occupare anche di parti suffissali o a
nessi fraseologici, ma è vero anche che il livello di cui veramente ci si occupa è in tutti i casi quello delle
parole.
Argomentazione: es. su -mente. Suffisso che serve a derivare avverbi a partire da aggettivi. Se si va a vedere
qual è l’origine di mente, si scopre che era una parola indipendente: mens,-tis. Per esempio: fermamente <
firma mente “con mente ferma” quindi costruito con abl + mente. Esempi non sono molti, ma ne abbiamo
da Cicerone, Plinio e Catullo. Una traccia della situazione originaria, cioè della condizione indipendente di
mente si può osservare in italiano antico come nelle fasi antiche delle altre lingue romanze che hanno questa
costruzione avverbiale. Quando abbiamo due aggettivi solo il secondo dei due ha il suffisso -mente. Ma allora
ha ragione Baglioni? Nel fare l’etimologia di questo suffisso si sta facendo anche l’etimologia di una parola?
No. Si riconduce a una parola, ma si sta facendo pur sempre l’etimologia di un suffisso. Altro esempio: -aggio.
Suffisso che si trova in parole come pestaggio, ortaggio ecc. risale a latino -aticum ma non direttamente
perché abbiamo un intermediario francese: -age.
il suffisso è penetrato in italiano grazie all’ingresso di prestiti, quindi prima entrano le parole e poi viene
estratto il suffisso:
italiano francese
omaggio omage
lignaggio lignage
ostaggio hostage
per questo motivo non si sta prendendo in considerazione un semplice suffisso, ma le parole che lo
contengono e quindi ci si sta occupando di parole. Ma è vero che un suffisso non ha vita autonoma, ma
questo vale per il suo uso effettivo nella lingua, nel punto di vista di chi descrive la lingua il suffisso ha una
sua individualità quindi può essere descritto autonomamente sia sul piano sincronico che sul piano
diacronico. Per cui per Baglioni non si può fare l’etimologia di un suffisso, per Parenti sì.
Passiamo allora a guardare i nessi fraseologici: cominciamo con il caso di lupo mannaro, composto non
univerbato. La parola è attestata per la prima volta in un autore toscano, Magalotti, ma compare piuttosto
tardi e questo è quindi indizio della sua origine non toscana, come infatti conferma la desinenza -aro,
attestata per le parlate meridionali in opposizione ad -aio per il toscano. Qui in effetti si può essere d’accordo
con Baglioni, perché qui spieghiamo solo una parte del composto, “mannaro”, che è una parola, quindi stiamo
facendo l’etimologia solo di “mannaro”.
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Entriamo nel problema specifico: da dove deriva “mannaro”? l’autore della nota che leggiamo, redatta nel
1899 sceglieva la base latina manuarius, che è derivato di manus. Scelta che scarta altre tre possibilità: mania;
mann (dal tedesco, che vuol dire “uomo”.), che però non è buona perché richiede l’aggiunta di un suffisso
latino per una parola tedesca; humanarius, derivato da humanus, buona per il senso ma difficile per la
formazione dell’aggettivo che dovrebbe avere due suffissi. Non ci viene però spiegato il significato
complessivo dell’espressione, cioè che cosa ci faccia un lupo con una mano.
Soluzione arriva nel 1911 con Salvioni, che propone sulla base del dialetto di Molfetta la voce lepomene, che
ha tutta l’aria di essere un composto delle parole lupo e uomo (omene in quel dialetto). Con questa parola
Salviati confrontò altre parole dei dialetti meridionali (cal. lupu minariu, nap. lupomenaro, sic. lupuminaru)
tutte con il significato di lupo mannaro. E quindi ha capito che tutte dovevano essere discese da una parola
che significa “uomo”. Anche se Salvioni non la presenta palesemente, la forma che cerchiamo deve essere
hominarius da homo, -inis con l’aggiunta di un (solo) suffisso -arius e che è coerente anche dal punto di vista
del significato, che è proprio quello che noi ci aspetteremmo, cioè “lupo dall’aspetto di uomo”. A sostegno
dell’etimologia di Salvioni possiamo trovare un’altra forma, quella attestata dal Morgante di Pulci, in cui si
trova “un lupo in selva arrabbiato menino”. Questa forma un po’ enigmatica trova una spiegazione nel
dialetto napoletano nell’ummenino che vuol dire “maschile, virile”, anche esso evidentemente derivato da
homininus < homo, -inis.
Un’altra espressione fraseologica, quella di “piantare in asso”, che vuol dire ‘lasciare solo, abbandonare’, che
però non è chiara nella parola “asso”. Che di fatto conferma le parole di Baglioni quando dice che la
spiegazione di un nesso fraseologico poi di fatto si riduce alla spiegazione di una sola sua parola. Quindi in
sostanza, la spiegazione della sola struttura corrisponde all’etimologia di una sola parola. Ma in realtà
l’etimologia riguarderà l’intera costruzione. Baglioni considera questo caso non chiaro da un punto di vista
etimologico, ma noi in realtà possiamo considerarlo sufficientemente chiaro. Cominciamo dalle spiegazioni
esposte da Menagio: nel suo vocabolario etimologico della lingua italiana leggiamo due proposte avanzate
da altri letterati. La prima è quella che fa riferimento all’asso come valore numerico nei giochi, valore che è
uno. Quindi lasciare in asso è lasciare solo. La seconda spiegazione che risale al Cinquecento fa riferimento
alla mitologia greca, che fa riferimento a Teseo che uccide al minotauro e poi esce dal labirinto grazie al filo
di Arianna, riprende la nave per tornare a casa e con lui porta Arianna che però lascia a Nasso durante uno
scalo. Lasciare in asso > lasciare in Nasso, con allusione a questa vicenda. Menagio non è soddisfatto di queste
ipotesi e ne propone una terza: lasciare in asso > lasciare in nassa, cioè dentro una nassa che è uno strumento
per pigliare pesci. Questa spiegazione non è ripetuta da nessuno ed è stata dimenticata. Solo perché la ricorda
Baglioni, ricordiamo la spiegazione nel dizionario di Battisti-Alessio, che parte da un aggettivo, asso =
“asciutto”. Questo aggettivo avrebbe raggiunto attraverso vari passaggi il valore di “solo”, quindi lasciare in
asso = lasciare solo. Ma purtroppo non esiste il valore di “asciutto” per “asso”, quindi l’ipotesi è da scartare.
La spiegazione che è senz’altro quella buona si trova nel Prontuario Etimologico della Lingua Italiana edito
per la prima volta nel 1950 da Migliorini-Duro, ma la spiegazione è proposta dal solo Migliorini, che propone
una spiegazione che consideriamo la migliore e che si basa infatti su dati testuali e storici. La spiegazione
parte da una locuzione che è parzialmente diversa da quella che abbiamo visto, ma che è più antica: attestata
fin dal Duecento, “rimanere in asso”, cioè fare 1 con i dadi, e quindi fare il punto più basso. Per noi asso ha
un valore positivo, perché l’asso nelle carte da gioco, che fino al Quattrocento in Italia non esistevano, l’asso
era solo il numero uno sui dadi, cioè il valore minimo. Da questo significato parte una lunga serie di
espressioni fraseologiche che fanno riferimento a situazioni spiacevoli.
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La spiegazione del modo di dire “piantare in asso” è una formula secondaria nata da “restare in asso”, cioè
restare con il punteggio più basso con il gioco dei dadi, che è passata al significato di restare soli in una
situazione sfavorevole. Quindi assume il significato di “solo, abbandonato” e viene quindi usato con verbi
come lasciare o piantare. Il caso è allora diverso da quello di lupo mannaro, dove andava dato un etimo al
solo “mannaro”, mentre qui bisogna cercare l’etimologia della frase in toto e c’era da capire il significato che
è venuto ad assumere poi il solo “asso”. Di asso però non c’era da trovare l’etimo, che è noto: lat. As, assis =
unità monetaria. Per capire di cosa ci stiamo occupando, riprendiamo l’esempio di “acqua passata”, il cui
etimo è chiaro, non è chiara la metafora che sta esprimendo a livello storico. Cioè si tratta qui di andare a
cercare il contesto originario che dà la spiegazione di un nesso nel tempo in cui venne creato.
Allora l’etimologia si occupa solo di parole? Per Baglioni è sì, per noi è no. Abbiamo visto che si può parlare
di etimologia anche nel caso di suffissi come anche nel caso di espressioni superiori alla parola, cioè
espressioni fraseologiche.
2. L’unica direzione della ricerca etimologica è lungo l’asse della diacronia? Per Baglioni
apparentemente no, ma invece sì. Perché apparentemente no, perché di molte parole si può
comprendere perché abbiano quella forma e quel significato senza che se ne conosca
necessariamente la storia, rimanendo quindi sul piano sincronico. Cioè ci basta sapere cosa vuol dire
in quel momento quella espressione e non c’è bisogno di andarne a ricercare la storia e l’origine.
Ci sono alcune parole che si trovano in questa posizione, parole sincronicamente trasparenti: ci sono
onomatopee, legame diretto con l’entità designata in quanto ne imitano il suono; parole composte i cui
elementi si individuano facilmente e che mantengono il loro significato autonomo; parole derivate con
suffissi o prefissi, come “benzinaio” o “stragrande” che sono parole ben analizzabile e la cui origine quindi
non pone problemi. Sono parole infatti di cui l’etimologia in genere non si occupa perché non hanno bisogno
di una spiegazione.
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Ci sono però anche parole che sono sincronicamente trasparenti ma che hanno bisogno di una spiegazione
etimologica, cioè la cui formazione si comprende solo se ci si sposta sull’asse diacronico, pur essendo
sincronicamente trasparenti.
Cincischiare ha due significati, uno legato alla costruzione transitiva: “tagliuzzare in modo irregolare”; e uno
legato alla costruzione transitiva: “perdere tempo senza concludere nulla” e “lavorare in modo incerto e
inefficiente”. Questa parola può sembrare una onomatopea. Se si va indietro nel tempo si nota che il
significato legato alla locuzione transitiva è il significato originario e compare già nel Trecento. Sempre nel
Trecento è attestato un verbo incischiare con il significato di “ferire” e compare anche nel Canzoniere di
Petrarca. La presenza di questa forma, che pare proprio una variante di cincischiare, e pare anche essere la
variante più antica, ci suggerisce una formazione etimologica diversa rispetto a quella dell’onomatopea. Fa
riferimento a una base latina che esprime la nozione di “tagliere” che è evidentemente quella originaria del
nostro verbo. cincischiare si rimanda a un latino volgare *incisulare, forma non attestata, già con il valore di
“tagliuzzare”, derivato dal participio passato di incidere, incisus, da cui deriva appunto incischiare. Incischiare
è divenuta poi cincischiare con procedimento iconico, in quanto il raddoppiamento della sillaba iniziare
richiama il valore iterativo del verbo.
Incisulare può sembrare distante da incischiare, ma il mutamento ha un parallelo nella formazione del latino
insula. Parallelamente dà anche il nome dell’isola di Ischia, che è tautologico perché deriva da Insula,
appunto, attraverso i passaggi insula >*insla > *isla > *iscla > Ischia. Allo stesso modo da incisulare > *incislare
> *incisclare > incischiare.
Passiamo a una parola sincronicamente trasparente la cui etimologia però non si esaurisce nell’analisi
sincronica: è il caso della parola grattacielo che è un composto chiaro ma che trova una sua spiegazione
nell’americano skyscraper. Il modello ha agito in realtà prima sul francese, che ha dato vita a gratte-ciel, e da
qui l’italiano grattacielo. Un’analisi sincronica però non mette in rilievo questi elementi che emergono solo
da una analisi di tipo storico. Aggiungiamo che il nome ha un suo precedente antico, che è del tutto
indipendente, e che è il nome proprio “Grattacielo”, che era poi un soprannome, portato da almeno due
persone di cui abbiamo traccia. Abbiamo un Grattacielo a Siena nel 1135 e uno Iacobus Grattacielo a Firenze
nel 1252. È probabile che non si tratti di altezza fisica ma di altezzosità. Sembra confermarlo un passo della
Giostra delle virtù e dei vizi, poemetto marchigiano della fine del Duecento, in cui è descritta «l’arrogante
Superbia / ke li nuveli gracta».
Abbiamo poi il caso di meridionale che sembra un derivato di meridione, così come settentrionale è un
derivato di settentrione, ma da un punto di vista storico le cose non stanno così. Se infatti osserviamo in
latino esiste l’aggettivo meridionalis, ma non esiste il sostantivo corrispondente. Il punto di partenza è il lat.
Septemtrio, -onis, che è il nome della costellazione dell’orsa, ovvero “i sette buoni”, per la metafora che
vedeva nelle sette stelle dell’orsa i sette buoi. Sulla base di ciò quindi si crea l’aggettivo septemtrionalis. Già
in latino a partire da septemtrionalis si era creato un aggettivo, meridionalis, come opposto a septemtrionalis.
Aggettivo poi assunto dalle lingue romanze e in italiano come meridionale. Quindi con un processo di
derivazione inversa l’italiano prende meridionale come forma da cui ricavare il sostantivo meridione. Questo
processo di derivazione si chiama retroformazione perché ha una direzione inversa rispetto a quella usuale
e porta da una forma più complessa a una più semplice. Quindi meridione non è la base di meridionale ma è
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una retroformazione a partire dall’aggettivo. In questo caso si può dire che quello che si vede in sincronia è
diverso da quello che si vede in realtà in diacronia.
Vediamo ora il caso di una parola formata apparentemente per mezzo di un prefisso, che è stravizio che vuol
dire “intemperanza dannosa, soprattutto nel bere” e che sembra un sincronico formato dal prefisso stra- e
dal sostantivo vizio. Se però si va indietro nel tempo si trovano forme come stravizzo o sdravizza che riportano
allora alla sua vera origine, che è il croato zdravica che vuol dire “brindisi”. Zdravica deriva dall’aggettivo
zdrav, “sano”. Dopo che è entrata nell’italiano, la parola non era più analizzabile ed è stata accostata
secondariamente a “vizio”. Quindi l’analisi sincronica non è sufficiente per determinare l’etimo di una parola.
Questo è determinabile solo se si indaga nella diacronia, nella storia della parola.
torniamo alla definizione di De Saussure per ricordare che l’etimologia è una pratica che risale all’origine
delle parole fino a quando non trova qualcosa che le spieghi. Che cos’è che spiega le parole? Sono altre
parole. Ma che tipo di parole? In qualche caso la parola cui si arriva nel percorso a ritroso è nella stessa
condizione della parola di partenza, cioè una parola non analizzabile. Es. it. cane < lat. canis . si tratta in
entrambi i casi di un segno linguistico arbitrario, cioè non analizzabile. Bisogna ricordare che arbitrario in
concetto di arbitrarietà della lingua
Con arbitrario in linguistica si intende che i due piani che costituiscono il segno linguistico – significante e
significato – non sono legati da un rapporto naturale e necessario. L’associazione del concetto cane alla
sequenza dei suoni c-a-n-e non è naturale, ma è stabilita soltanto dall’uso ed è stabilita in modo diverso la
lingua a lingua.
In qualche caso l’analisi etimologica ci porta a parole che sono in una condizione diversa. Vediamo il caso di
‘settentrione’, che è una parola arbitraria. Andando indietro nel tempo risaliamo al latino septemtrio, -ionis,
che non è una parola del tutto arbitraria, in quanto è costituita da due parole ben distinte che sono septem
e Triones = “sette buoi”.
Prendiamo il caso di ‘cinghiale’, che ovviamente non c’entra niente con la parola ‘cinghia’. All’etimo della
parola si arriva se si estende il confronto ad alcune varianti antiche, per esempio il fiorentino “cinghiare” e
all’eugubino “porco senghiaro” e se si estende il confronto al dominio romanzo, dove troviamo per es. il fr.
Sanglier e il cat. Porc senglar, tutti con il significato di “cinghiale”. Queste forme ci permettono di risalire a
una base latina che indicava il cinghiale come porcus singularis, animale simile al suino ma con una condotta
di vita diversa, che se ne sta solo, mentre il porco domestico vive in comunità.
Esempio di ‘zampogna’, che designa uno strumento musicale tipico dei pastori dell’Italia centro meridionale,
costituito da una sacca e da una serie di canne. Anche questa parola è una di quelle definibili come arbitrarie,
cioè non analizzabili. Se si va indietro nel tempo, invece, la parola può essere analizzabile, e rimanda al latino
volgare *sumponia, forma non attestata, corrispondente volgare del latino classico symphonia, che può
designare il termine “unisono”, ma anche uno “strumento a fiato”. Deriva questa a sua volta da una parola
greca che è συμφωνία, dagli stessi significati. In greco συμφωνία non è una parola del tutto arbitraria, si può
scomporre nel suffisso συν e φωνή che vuol dire “voce” o “suono”. In sostanza se si ripercorre a ritroso la
storia di zampogna si arriva a una parola analizzabile. In termini più tecnici diciamo che συμφωνία è una
parola (relativamente) motivata.
Queste espressioni tecniche risalgono a De Saussure: i segni linguistici possono essere arbitrari. Questi segni
linguistici arbitrari si possono classificare anche come segni non motivati, cioè che non hanno una
motivazione naturale. Ci sono però dei segni linguistici che sono relativamente motivati, che non hanno cioè
una motivazione naturale ma che hanno una motivazione linguistica, cioè sono formati da elementi che
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trovano riscontro in altre parole. Le parole analizzabili sono appunto parole motivate, che trovano appunto
una loro motivazione in altre parole. La loro analisi si basa proprio sul confronto con altre parole. De Saussure
fa l’esempio del verbo “dé-faire” che è il corrispettivo francese dell’italiano “disfare”. La parola è analizzabile
in due elementi, il primo si ritrova in parole come decoller, deplacer, decoudre etc, il secondo si trova in parole
come faire, refaire, contrefaire etc.
La motivazione allora è la relazione che un segno linguistico intrattiene con altri segni linguistici percepiti
come sue forme-base. Il concetto di motivazione è molto importante per l’etimologia, perché quando si va
indietro nel tempo e si riconduce una parola a un’altra parola, in molti casi, si recupera proprio una
motivazione perduta, cioè si riporta alla sua antica motivazione una parola che non è più motivata.
Secondo Saussure, anzi, a rigor di termini l’etimologia è proprio questa, è collegare parole ad altre parole
recuperando insieme la loro motivazione. Questa visione dell’etimologia Saussure la spiega nei paragrafi che
seguono alla definizione che abbiamo visto più volte. Saussure si serve di alcuni esempi:
1. Bonus, -a, -um, che è attestato nel latino classico, ma anche nel latino arcaico nella forma duenos.
Riportare bonus a duenos, dice Saussure, non significa collegare parole diverse, significa
semplicemente collegare varianti di una stessa parola. Questa quindi non è una etimologia, è solo la
constatazione di un mutamento fonetico.
2. Siamo invece di fronte a una etimologia quando, constatando lo stesso mutamento fonetico, si
riconduce l’avverbio numerale bis a un più antico du-is (citato da Cicerone). In questo caso la parola
diventa analizzabile e si può quindi collegare al numerale due.
3. Allo stesso modo, siamo davanti a una etimologia quando prendiamo il francese oiseau, “uccello”,
che è una parola non motivata, e la portiamo al latino avicellus, che è invece una parola motivata,
perché è il diminutivo di avis, “uccello”.
L’etimologia così intessa con queste limitazioni è troppo restrittiva, perché per esempio esclude casi come
questo, che normalmente sono considerati casi di etimologia: cane > canis = forma arbitraria, non motivata.
In questo caso si arriva semplicemente a riconoscere la continuità di una parola lungo una tradizione,
tradizione molto ampia che comprende migliaia di parole e che collega il latino all’italiano.
Riprendendo il caso di ‘razza’, vediamo che non si tratta in questo caso di una parola motivata,
semplicemente si arriva a stabilire che la parola ‘razza’ proviene da un’altra tradizione linguistica, quella
francese, al cui interno non si è in grado di individuare una tradizione della parola. La parola haraz è
sostanzialmente di etimo ignoto, eppure anche in questo caso siamo indubbiamente di fronte a una
etimologia.
Che cosa si fa quando si
Ma allora che cosa si fa quando si fa etimologia? Secondo Parenti si fa etimologia quando si porta alla luce
un momento importante e non più evidente della storia di una parola. Per una parola il momento importante
fa etimologia
può essere per esempio la sua presenza in una fase antica della lingua che si prende in considerazione, il caso
di cane > canis; oppure quando la parola fa il suo primo ingresso in una lingua a partire da un’altra lingua, e
questo è il caso di ‘razza’ che si riporta al francese antico haraz; oppure il momento in cui la parola si genera,
e generandosi la parola assume una forma motivata all’interno di una lingua.
C’è però un momento più importante di tutti che riguarda non le parole ma l’etimologia stessa, il momento
più importante è quando la ricerca etimologica porta ad individuare una etimologia nuova, cioè quando si
arriva a stabilire l’origine di una parola per la prima volta in assoluto o per la prima volta in modo chiaro.
Quando arriva una spiegazione nuova, l’etimologia mostra appieno il suo carattere di operazione scientifica,
cioè in senso etimologico, di operazione che produce conoscenza. Giudizio che dà dell’etimologia Antonino
Pagliaro, che dice che “l’etimologia, che mira a stabilire il formarsi del vocabolo, nel duplice aspetto del
significante e del significato, costituisce l’aristocrazia della ricerca linguistica, in quanto ricerca storica”.
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LEZIONE 3
etimologia come pratica scientifica nasce insieme alla linguistica, circa due secoli fa, ma l’etimologia, non
come pratica scientifica ma come forma organica di riflessione sulle parole, nasce molto prima. L’etimologia
nasce nell’antichità all’interno della filosofia greca. La tradizione che nasce presso i greci è in continuità con
la nostra e lo testimonia il fatto che la parola è greca, ma varie forme occasionali di etimologia si trovano
anche prima e anche in altri ambiti. Insomma interesse e curiosità per l’etimologia sono molto vasti e molto
antichi.
Riprendiamo il concetto di motivazione, la reazione che un segno linguistico intrattiene con altri segni
linguistici percepiti come sue forme-base. In tutte le lingue le parole che dispongono di una loro motivazione
sono moltissime. Qui vediamo l’esempio per ‘occhiali’ che è una parola motivata in quanto si riconosce la sua
secondarietà per la parola occhio. Il grandissimo numero di parole come questa ci autorizza a pensare che
anche le parole che non appaiono motivate abbiano una loro motivazione, magari non immediata ma
recuperabile con una riflessione storica. La curiosità etimologica può nascere per esempio intorno a parole
complesse che incuriosiscono per la loro forma. Prediamo ‘cianfrusaglia’, che vuol dire “oggetto o insieme di
oggetti di poco pregio”. La terminazione ricorda quella di ‘battaglia’ o ‘gentaglia’, che sono due parole
trasparenti perché si capisce da quale altra parola sono derivate, però per quanto riguarda invece
‘cianfrusaglia’, per noi la prima parte non ha senso.
La curiosità etimologica può anche nascere intorno ai nomi propri di persona, e il motivo è lo stesso. Alcuni
nomi di persona sono trasparenti perché associati a parole comuni, ma ci sono anche nomi di persona che
non sono affatto trasparenti. È lecito pensare che questi nomi abbiano avuto una loro trasparenza e un
preciso significato in passato e che magari il loro preciso significato ci possa rivelare un aspetto del portatore.
Questo tipo di curiosità riflette una concezione dell’etimologia che potremmo definire mistico-divinatoria.
Nel caso dei nomi di persona l’etimologia rivelerebbe caratteristiche della personalità o del destino del
portatore. Un elemento essenziale ma nascosto. Nel caso dei nomi comuni l’etimologia rivelerebbe un
elemento essenziale ma nascosto dell’oggetto designato. I primi casi di riflessione di tipo etimologico hanno
questo carattere. Nel I libro della Genesi ci sono varie etimologie, una delle quali riguarda il nome di Adamo,
che in ebraico è anche un nome comune che vuol dire “uomo”. Questo nome viene giustificato col fatto che
l’uomo viene creato dalla terra, che in ebraico si chiama adamàh. Dal punto di vista scientifico in effetti i due
termini sono collegati, ma questo perché di fatto entrambi sono derivati da una stessa radice che significa
“rosso”. Nella Bibbia però si immagina una relazione di dipendenza.
Un altro esempio notissimo è quello che riguarda la vicenda della torre di Babele. La città della torre,
Babilonia, si chiamava in ebraico Babèl, e aveva un suono simile a un verbo che in ebraico significa
“confondere”, “mischiare”, balàl. Insomma la leggenda della torre viene creata sulla base della semplice
assonanza tra queste due parole.
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Se ci spostiamo in Grecia, prima di tutti, a volte nei poemi omerici troviamo accostamenti di tipo etimologico
come questo: nell’Odissea a un certo punto si racconta il momento in cui a Ulisse, appena nato, viene posto
il nome di Ulisse. La scelta spetta al nonno materno, Autolico, che dice “poi ch’io son giunto qui crucciato
dall’odio di molti, uomini e donne, sovressa la terra ferace di genti, d’Ulisse il nome a lui sia posto”.
La traduzione non può rendere bene l’operazione etimologica che si fa nel testo originale, cioè
l’accostamento tra il nome Ὀδυσσεύς e il verbo ὀδύσσομαι, che significa “odiare”. Dal nostro punto di vista
l’accostamento non è corretto, il nome di Ulisse è probabilmente un nome di origine pregreca, come mostra
il gran numero di varianti. Ὀδυσεύς, Ὀλυσεύς, Ὀλυσσεύς, Ὀλυττεύς, Ὀλισεύς, Οὐλιξεύς, Οὐλίξης. Il verbo
greco *ὀδύσσομαι o forse *ὀδυίομαι, si conosce solo l’aoristo ὀδύσασθαι, risale a una radice indoeuropea
*od- che è la stessa del latino odium e odi. La parola è quindi di origine indoeuropea e quindi diversa rispetto
al nome proprio Ὀδυσσεύς, che non è di origine indoeuropea.
L’etimologia come forma organica di riflessione nasce all’interno della filosofia greca: tutto nasce dal fatto
che i filosofi greci si erano interrogati sulla natura del linguaggio, e in particolare sulla sua adeguatezza. I
filosofi si chiedevano quale fosse il motivo che rendesse le parole adeguate a rappresentare la realtà.
Nell’antichità c’erano le due classiche scuole di pensiero.
Eraclìto di Efeso a capo della scuola che pensa che le parole hanno un legame naturale con la realtà, quindi
il linguaggio si origina dalla natura ed è adeguato alla realtà per natura = φύσει. La seconda scuola di pensiero
fa capo a Parmenide di Elea. Secondo questa scuola, alla quale appartengono anche i sofisti, le parole non
hanno un legame naturale con la realtà ma sono nate per convenzione, per un accordo tra gli uomini. Quindi
il linguaggio è adeguato alla realtà per convenzione = θέσει.
Tra le opere filosofiche che ci sono pervenute, la prima dedicata al confronto tra le due scuole di pensiero è
un dialogo di Platone, il Cratilo. Al dialogo partecipano tre personaggi, due dei quali rappresentano le due
diverse scuole. Cratilo sostiene la teoria naturalista, mentre Ermogene è un sostenitore dell’origine
convenzionale del linguaggio. Il dialogo è gestito da Socrate. Questo dialogo è anche la prima opera a darci
una lunga serie di etimologie insieme a una discussione dei principi dell’etimologia. La posizione di Cratilo: le
parole si formano in massima parte per derivazione o per composizione a partire da altre parole e questo
spiega l’essenza del loro significato. L che significa che le parole sono riconducibili sempre ad altre parole,
cioè nella maggior parte dei casi delle parole si può trovare la motivazione anche se questa motivazione non
è più del tutto evidente. Le parole di base, prōta onómata, si spiegano a loro volta col fatto che contengono
suoni che rappresentano la natura degli oggetti rappresentati. Lo studio dell’origine delle parole aiuta a
conoscere la realtà. Perché c’è un legame di fondo tra le parole e la realtà stessa.
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I prōta onómata hanno un legame diretto con la realtà per via dei loro suoni. I prōta onómata che contengono
la ρ esprimerebbero il concetto di ‘mobilità’, ‘durezza’; i prōta onómata che contengono invece la λ
esprimerebbero il concetto di ‘liscio’. Nel dialogo vengono presentate alcune parole che sembrano avvalorare
questa distinzione, però fa notare Socrate, ci sono casi che la smentiscono, come il caso di σκληρός, che
significa ‘duro’ e che contiene anche la lettera λ . In sostanza Socrate fa capire che un legame naturale tra le
parole e la realtà a volta non si riesce a vedere, e questo mette in grave difficoltà la posizione naturalistica.
Vediamo nel dialogo una parte precedente e che si occupa delle parole motivate: le parole motivate, dice
Socrate, rispetto alle loro basi presentano delle trasformazioni. Il fatto viene mostrato attraverso l’esame del
nome proprio Δίφιλος > Διὶ φίλος, costituito dal dativo di Zeus e amico. Il punto in questione è a 899a.
Il caso di Διὶ φίλος insomma dimostra che le parole quando vanno a formare altre parole si possono
modificare e questo autorizza a spiegare molte altre parole riportandole a nessi più complessi, che sono stati
modificati. Vediamo il caso di ἄνθρωπος, che riporta a una caratteristica dell’uomo, il fatto di riflettere su ciò
che vede. La parola ἄνθρωπος deriva da ἀναθρῶν ἃ ὄπωπε, “che riflette su ciò che ha visto”. Questa
etimologia è del tutto priva di fondamento.
Un’altra etimologia è quella relativa a ψυχή, “anima”. Prima si pensa al verbo ψύχω= raffreddare. E le cose
sembrano tornare perché ψυχή è il respiro e il respiro raffredda il corpo. Poi però pare migliore un’altra
spiegazione, l’anima spinge e insieme possiede la natura del corpo. La base allora sarebbe ἠ φύσιν ὁχεῖ και
ἒχει . insomma la parola viene riportata con azioni spericolate a parole che hanno qualche suono in comune,
e che messe insieme paiono dare un significato confacente. Socrate stesso dice che le cose tornano ma anche
che la parola sembra costruita in modo un po’ ridicolo.
Nel Cratilo le etimologie sono moltissime. Vediamo un altro caso, quello del nome di Apollo, per cui si danno
4 o 5 etimologie diverse, ammettendo che possano essere tutte valide. Per prima cosa si nota che il nome
Ἀπόλλων assomiglia al participio di apolouo che vuol dire ‘lavare via’ ma è molto simile anche a un altro
participio, di apoluo, che vuol dire ‘sciogliere’. Si tratterebbe di un riferimento al legame di Apollo con le arti
mediche. Ma il nome di apollo, soprattutto nella forma che ha nel dialetto della Tessaglia somiglia anche
all’accusativo di un aggettivo che vuol dire semplice. Riferimento al suo legame con le arti divinatorie. Ma
assomiglia anche al verbo che significa ‘colpire’. Nella prima parte del nome si può riconoscere un avverbio
che significa ‘sempre’, infatti apollo è il dio arciere = ‘che colpisce sempre’. Ma la seconda parte del nome
Apollo somiglia anche a un verbo che significa “ruotare”. Nella prima parte allora si può vedere un prefisso
che indica una “combinazione di cose”. Il tutto sarebbe dunque riferimento al legame del dio con la musica
e con le sue armonie. Queste etimologie sarebbero tutte vere perché ciascuna coglie un aspetto della divinità.
Il nome Apollo è stato posto in pieno accordo con tutte le qualità del dio che è veritiero, armonizzatore e
saettatore. L’esempio serve anche a far vedere una caratteristica dell’etimologia antica: una spiegazione
etimologica coglie un aspetto della realtà e non necessariamente esclude altre spiegazioni, che colgono altri
aspetti della stessa realtà.
Il Cratilo di Platone non è un trattato di etimologia e non contiene neanche il termine etimologia. L’etimologia
infatti nasce più tardi, all’interno della filosofia stoica. Lo stoicismo si formò ad Atene nel III sec. a.C.
dall’insegnamento di Zenone di Cizio, che teneva i suoi insegnamenti nello Stoà Poikile, il portico dipinto,
collocato nella parte settentrionale dell’agorà. Lo stoicismo è la principale corrente filosofica dell’ellenismo
ed è una scuola che dà grande sviluppo alla disciplina della logica, che comprende come studio quello del
linguaggio. Agli stoici si deve la prima codifica sistematica della grammatica e il conio di molti termini
grammaticali tutt’ora in uso. All’interno della grammatica gli stoici danno grande sviluppo anche allo studio
dell’origine delle parole, perché questo studio è considerato fondamentale per la conoscenza in generale e
per motivi profondi. Gli stoici circa il linguaggio aderiscono alla posizione naturalistica, conoscere le parole
significa conoscere la realtà. Le parole per gli stoici sono conformi alla natura secondo quattro modalità:
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1. Per imitazione diretta (onomatopea)
2. Per somiglianza
3. Per contiguità
4. Per contrasto
Alla scuola stoica si deve anche il conio del termine etimologia: ἐτυμολογία composto il cui secondo elemento
è quello collegato alla parola λόγος, ‘parola, discorso ragionamento’. Il primo elemento è ἔτυμος che vuol
dire ‘vero’. Etimologia quindi è il ragionamento sul vero. Perché vero? Perché l’etimologia risale all’origine
della parola e ne mette in luce il significato vero, cioè quello di partenza, quello essenziale e che alla superficie
rimane più o meno nascosto. L’origine di una parola corrisponde quindi al suo significato essenziale, che è
nascosto ma è quello vero. Per questo significato vero che corrisponde all’origine della parola utilizzano il
neutro sostantivato dell’aggettivo ἔτυμος, ἔτυμον. Il termine etimo è ancora in uso, anche se ha perduto una
parte del suo significato. Per noi l’etimo è solo l’origine di una parola, cioè la sua base etimologica. Leggiamo
quello che dice dell’etimo Gianfranco Folena: «l’etimo, che era per gli antichi il “vero” nascosto in una parola,
mentre per noi è solo un momento per lo più dimenticato della sua storia».
Degli scritti di etimologia degli stoici non abbiamo conoscenza diretta, ne conosciamo i riflessi, molto
abbondanti, negli scritti dei grammatici latini, in particolare negli scritti di Varrone, autore di un trattato sulla
lingua latina con una larga sezione dedicata all’etimologia. Nel De lingua latina, Varrone ci dice che
l’etimologia è il primo livello dello studio delle parole e ci consegna anche una lunga serie di etimologie che
dal punto di vista attuale valgono poco o niente. Vediamo un altro dato presente nel testo di Varrone:
l’indagine etimologica mette in rilievo il fatto che le parole possono cambiare, cioè possono essere alterate.
Un accenno a questo problema si è già visto nel Cratilo quando si parlava del nome Δίφιλος e delle sue
differenze rispetto alla sua base Διὶ φίλος. A questo punto però siamo passati attraverso la sistematizzazione
degli stoici. I mutamenti delle parole sono stati classificati e sono stati divisi in quattro tipi. Varrone ci dice
poi che ci sono in realtà due volte quattro cause di mutamento, perché distingue quattro mutamenti che
riguardano le lettere e quattro mutamenti più o meno paralleli che riguardano le sillabe. Vediamo però solo
la prima serie, quella che riguarda le lettere. Varrone parla di lettere, perché in antico non si distingue tra
lettere e suoni. Noi parleremo di fonemi. Quattro mutamenti sono:
1. Additio = aggiunta
2. Demptio = sottrazione
3. Traiectio = spostamento
4. Commutatio = sostituzione
partiamo con il verbo tremo ‘tremare’, chiaro caso di onomatopea e l’etimologia di Varrone è corretta: ‘tremo
è detto per analogia col comportamento della voce che si avverte allorché uno è in preda al tremore’. C’è poi
il caso di curare che è denominativo da cura, cioè deriva dal sostantivo che vuol dire ‘preoccupazione’.
Varrone poi però ci dice che cura è detta così perché cor urat ‘brucia il cuore’. Quindi, non ci siamo, si toglie
arbitrariamente una lettera o due che pare conforme. L’etimologia di recordari ‘ricodare’ è corretta:
‘richiamare di nuovo al cor (alla mente)’. Con curiae, che è il luogo dove si riunisce il senato, si torna alla
parola cura e questa etimologia non è considerata valida dal punto di vista attuale. Volo < voluntas ma in
realtà è il contrario voluntas < volere. E poi in realtà è collegato anche a un verbo suo derivato che è volo che
vuol dire ‘volare’ perché Varrone dice che l’animo è tale che in un secondo vola dove vuole. È chiaro che è
sbagliatissima questa etimologia. Si è constatata l’assonanza tra le due parole volo e volatus e si è cercato a
tutti i costi di collegarle.
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A Varrone sono attribuite poi etimologie che partono da parole di significato contrario. il contrario è il quarto
modo secondo cui le parole si conformano alla natura, secondo gli stoici. Queste etimologie, dette a
contrariis, effettivamente si trovano, ma si trovano in altri testi. Vediamo il caso del commento del
grammatico Servio all’Eneide di Virgilio. Antifrasi è una figura retorica che consiste nell’esprimersi con parole
di significato opposto rispetto a quello che si pensa. Spesso per ironia. Gli antichi avevano notato che alcune
parole somigliano alle parole di significato opposto, allora cercavano di collegare queste parole dal punto di
vista etimologico, ricorrendo all’antifrasi, in sostanza dicendo che una parola può derivarne da un’altra di
significato opposto perché in realtà quella parola non va presa alla lettera, ma va intesa al contrario.
- Es. le parche dice Servio sono dette così perché non perdonano a nessuno. Parco ‘perdonare’.
- Così il lucus prende il nome da non lucendo, da ‘non avere luce’
- Bellum ‘guerra’ si chiama così perché non ha niente di bello.
Queste etimologie ci fanno sorridere oggi ma gli antichi non è che potessero fare molto di meglio, perché
non avevano dati sufficienti per fare etimologie soddisfacenti, disponevano solo di dati interni alla loro lingua.
Per i latini si poteva ricorre al confronto col greco. Va notato comunque che l’etimologia per gli antichi è una
forma di conoscenza al servizio del significato delle parole, cioè serve a spiegare il significato delle parole.
Come emblema dell’etimologia degli antichi e del suo scopo si può prendere un testo che chiude l’età antica
e dà inizio al medioevo. Ovvero le Etymologiae di Isidoro di Siviglia: ca. 560-636. Il testo ha per incipit
Etymogiae sive Origines. È una specie di enciclopedia divisa per temi, per ogni tema si elencano le parole
fondamentale, se ne dà l’etimologia con lo scopo di chiarirne il significato. Il termine disciplina deriva dal
verbo discere che significa ‘apprendere’ ed è pertanto sinonimo di ‘scienza’. Il verbo scire infatti che significa
‘sapere’ viene dallo stesso verbo discere, poiché nessuno sa (scit) se non chi apprende (discit). Una disciplina
è così definita perché si apprende pienamente (Discitur plaena). Si può vedere che di disciplina si danno due
etimologie (tutte e due sbalgiate): disciplina passa attraverso il derivato discipulus, ma in ultima analisi deriva
proprio da discere. Il verbo scire invece non ha nessun collegamento con discere, così come l’aggettivo plenus
è solo assonante ma non ha collegamenti.
Vediamo la definizione che Isidoro dà di etimologia: “L’etimologia è l’origine dei vocaboli, quando la forza di
un nome o di un verbo si ricava mediante un’interpretazione”. Alla definizione segue lo scopo dell’etimologia:
“Infatti quando vedi da dove è nato un nome, più rapidamente ne comprendi il valore. Se conosci
l’etimologia, l’indagine di ogni realtà è di fatto più semplice”. Durante il medioevo nel campo dell’etimologia
ci si muove sempre secondo l’esempio di Isidoro, anzi in qualche caso si va oltre: pur di trovare la spiegazione
di una parola, questa viene presa come una sigla. È il caso di Pietro Elia, grammatico del XII sec. che asseriva
che cadaver stesse per caro data vermibus cioè ‘carne data ai vermi’. Inoltre, nel Medioevo rimane la
convenzione di matrice naturalistica che le parole abbiano un legame diretto con le cose. La convenzione è
legata a una formula che si trova per esempio nella Vita Nova di Dante dove si parla della parola ‘amore’ e
dove si dice che è dolcissima come tutte le cose legate all’amore stesso. Dante cita una formula molto
nota: «Nomina sunt consequentia rerum». “I nomi sono corrispondenti alle cose”.
È stato dimostrato che la formula risale a un testo giuridico della tarda antichità, le Institutiones di
Giustiniano, che sono parte del Corpus Iuris Civilis. La formula è leggermente diversa perché è ‘nos [...]
consequentia nomina rebus esse studentes’. Infatti nella spiegazione di Accursio, giurista che ha operato a
Bologna nel XIII secolo troviamo la formula più corretta: Nomina sunt consequentia rebus.
Per tornare a Dante ricordiamo che nella Divina Commedia non mancano usi poetici di operazioni di tipo
etimologico, come in questo passo del Paradiso che parla di San Francesco e in particolare del suo luogo di
nascita Assisi, che in italiano antico aveva la variante Ascesi. Collegata forse al verbo ascendere ‘salire’. Dante
invece dice che un nome più appropriato per la città sarebbe ‘Oriente’, perché ad Assisi è come fosse nato
un sole, tanto è importante la figura di San Francesco per la fede cristiana.
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Dopo il medioevo le cose cambiano un po’: prima di tutto perché si acquista maggiore consapevolezza storica.
Nel rinascimento si capisce per la prima volta che tra il latino e le lingue romanze c’è una relazione di tipo
genetico. Prima di allora invece si pensava che il latino fosse stata sempre una lingua per così dire artificiale,
appresa solo con lo studio dei libri, infatti Dante chiama il latino “grammatica”. Le lingue volgari sarebbero
state parlate fin dall’antichità, ma appunto solo parlate. Adesso invece si capisce che le lingue romanze
discendono dal latino, che un tempo era esso stesso lingua parlata. La dimostrazione si deve al letterato
Biondo Flavio (1396-1463). Questa scoperta apre una diversa prospettiva sul mutamento linguistico.
A questa consapevolezza storica si aggiunge anche un arricchimento delle lingue, si comincia a studiare il
greco e dal Cinquecento anche l’ebraico, e sempre dal Cinquecento la filologia inizia ad essere applicata anche
alle lingue moderne, che assumono dignità pari a quella del latino. Per dimostrare la nobiltà delle lingue
moderne, spesso si utilizzano argomenti di tipo etimologico, forzando però i dati. Questo letterato fiorentino
del Cinquecento, Pierfrancesco Giambullari, per dimostrare la nobiltà del fiorentino cerca di dimostrare che
alcune parole del Fiorentino sono identiche ad alcune parole di significato simile in ebraico. La presenza di
queste parole in fiorentino si sarebbe spiegata col fatto che in antichità nella toscana vivevano gli etruschi,
della cui lingua Giambullari non sapeva niente, ma che immaginava fosse simile a una lingua simile all’ebraico
e meno nota, l’aramaico. Insomma sulla base di pretese somiglianze con l’ebraico, il fiorentino sarebbe stato
da considerare come un discendente dell’aramaico.
Ma c’è una differenza rispetto all’etimologia medievale, perché qui non serve più a spiegare il significato delle
singole parole ma a spiegare fatti veri o presunti della storia di una lingua. L’etimologia serve al contempo
anche per scopi più “personali”, secondo una caratteristica che l’etimologia mantiene ancora oggi:
l’etimologia è un’operazione difficile che serve a dimostrare anche la propria erudizione e la propria acutezza.
Le parole sono sotto gli occhi di tutti, ma pochi arrivano alla loro etimologia e chi ci arriva è evidentemente
più bravo degli altri. Se poi l’etimologia si applica in modo esteso al lessico di una o più lingue la soddisfazione
si moltiplica, per cui ora fioriscono una o più opere in cui la acutezza si manifesta in modo esasperato. Una
di queste opere è un trattato molto ampio di un letterato francese, Etienne Guichard, che dimostra l’armonia
etimologica delle lingue elencate nel frontespizio: ebraico, caldaico, siriaco, greco, latino, francese ecc.
In che senso si debba intendere armonia etimologica lo spiega il sottotitolo della seconda edizione: opera
nella quale, attraverso molti dati di storia antica ed etimologie di ogni sorta, si dimostra con chiarezza che
tutte le lingue sono discese dall’ebraico. Il presupposto sta nella Bibbia: tutte le lingue nascono dalla
confusione di Babele, che per Guichard chiaramente c’è stata, ma qualche traccia dell’unica radice ebraica si
può ancora riconoscere.
In ebraico c’è un verbo dabar che significa ‘parlare’. Da questo verbo per trasposizione si può arrivare alla
parola word in inglese e Wort in tedesco. Somiglia un po’ questo verbo con qualche piccola modifica anche
al verbo latino che significa ‘parlare’ cioè fari. Somiglia un po’ di più la parola ebraica alla parola che in latino
significa ‘parola’, verbum. Tutto questo piò sembrare strano ma è assai possibile, perché a Babele c’è stata
quella confusione che ha reso possibile una mutazione e inversione delle lettere che ha poi generato le lingue
così come le consociamo oggi.
Non molti anni prima però un letterato fiammingo, Jan van Gorp, aveva dimostrato una cosa ben diversa:
che l’ebraico discende dal fiammingo. La dimostrazione si fonda su etimologie e ne vediamo solo una: il nome
di Adamo si spiegherebbe molto semplicemente a partire dal fiammingo: il nome sarebbe un composto di
due parole fiamminghe, una significa ‘odio’ e l’altra a ‘diga’ haat-dam. Quindi il nome di Adamo sarebbe un
nome parlante che significa ‘diga contro l’odio’. È evidente che volendo con l’etimologia si può dimostrare
tutto e il contrario di tutto. Arriviamo così a Ménage, che conosciamo già, e che non condivide tutti gli scopi
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degli studiosi che si sono visti finora. Non vuole dimostrare ciò l’origine di una lingua da un’altra. Ha però lo
scopo di dimostrare quanto è bravo e per far questo scrive un dizionario etimologico francese pubblicato in
prima edizione nel 1650 e che è il primo dizionario etimologico della lingua francese. L’opera è piuttosto
voluminosa, 845 pp. e una copia si trova presso la Biblioteca Nazionale di Firenze. Ménage è anche l’autore
del primo dizionario etimologico della lingua italiana, completato nel 1669. Quest’opera è ancora più
voluminosa, 1090 pagine. La seconda edizione, aggiornata e corretta è uscita nel 1685. Vediamo lo stato
raggiunto dall’etimologia a metà Seicento, e infatti ha fatto dei progressi che si manifestano anche nelle
pagine introduttive, dove vediamo una rassegna dei mutamenti che le parole possono subire. La terminologia
è diversa dalla nostra ma alcune delle osservazioni di Ménage sono corrette. Il primo caso mostra come il
suono /a/ a inizio di parola può essere elevato, cioè può sparire. Il primo caso è quello della a iniziale di
‘abadessa’, che dà come esito ‘badessa’. Si tratta di un fenomeno che abbiamo già visto e che chiamiamo
aferesi cioè fenomeno di caduta di un segmento iniziale di parola con conseguente perdita di una sillaba di
una parola stessa. Questo fenomeno spesso è determinato dalla fusione della vocale nell’articolo precedente,
quindi badessa si deve alla segmentazione della parola in modo diverso rispetto alla sua base, perché la
vocale iniziale di ‘abadessa’ viene inglobata nell’articolo. Il fenomeno non avviene nel maschile abate. (cfr.
guglia > aguglia).
Caso di aferesi, un po’ diverso. L’aggettivo tondo > ritondo > rotondo, per cui implica il passaggio da ‘rotondo’
a ‘ritondo’ nel quale si è sentito un prefisso ri- che in realtà non è tale, che si è sentito come superfluo e
quindi eliso e così si arriva a ‘tondo’ eliso della sillaba iniziale.
Casi di etimologia felice di Ménage: es. adesso > ad ipsum sottintendendo tempus. Nel vocabolario
etimologico italiano recente vediamo la stessa etimologia ma con in più la discussione della vocale, perché ci
aspetteremmo una /e/ mentre abbiamo una /ε/. Però per il momento questa resta la più soddisfacente
etimologia di ‘adesso’. Il vocabolario etimologico italiano più recente è quello pubblicato nel 2010 e di cui
Parenti ha collaborato alla redazione. Nocentini è l’autore principale, docente di glottologia all’Università di
Firenze.
Torniamo a Menagio e vediamo un altro caso di etimologia corretta stabilita da lui per la prima volta. Si tratta
di foia che è rimandato correttamente al latino furia. La caduta della consonante si verifica regolarmente
nelle stesse condizioni, ovvero i + voc; per esempio si ritrova in ‘muoio´ > lat. morior.
Altro caso, trattato anche nel vocabolario etimologico francese, quello del verbo ‘gridare’, fr. crier, e che
Menagio rimanda al latino quiritare, che vuol dire ‘gridare aiuto’ o solo ‘gridare’, in ogni caso corretta come
etimologia.
Nel vocabolario etimologico italiano, Menagio ripropone questa stessa etimologia (corretta) a smentire una
etimologia proposta dalla Crusca e che rimanda ‘gridare’ a un verbo greco κρίζειν che vuol dire ‘stridere’ o
secondariamente ‘strillare’, etimologia sicuramente sbagliata.
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Nel vocabolario del Menagio ci sono chiaramente molte etimologie sbagliate, come quella di ‘ciurma’ che
indicava gli schiavi di galera, cioè quella parte dell’equipaggio addetto alla voga. Parola ricondotta a turma,
che in latino può rimandare a ‘folla’, ‘turba’, ‘moltitudine di gente’. Il problema è che non ci sono altri casi di
corrispondenza in altre parole dei due suoni iniziali che si trovano da una parte in ciurma e dall’altra in turma,
quindi questa etimologia è sicuramente da respingere. Oltretutto alla stessa base turma, Menagio riporta
anche la parola stormo, ‘adunanza di uomini per combattere’. Questa parola vuole in realtà due etimologie,
la prima dal greco στόλος Che vuol dire spedizione militare, esercito, flotta, la seconda da turma con queste
modifiche: turma > turmum > exturmum > sturmum. Ovviamente entrambe le etimologie sono sbagliate.
Vediamo però anche una serie di etimologie scorrette per cui Menagio è rimasto famoso: si tratta di
mutamenti che sono sì corretti ma che Menagio applica in modo forzato e smodato: nel passaggio dal altino
alle lingue romanze alcune parole si tramandano non nella forma di base, ma nella forma diminutiva, è il caso
della parola ‘orecchio’, che in latino è auris e che viene tramandato non a partire da auris ma da auricola che
dà quindi in italiano ‘orecchia’, in francese ‘oreille’ ecc. e che insomma prevede l’aggiunta di una particella
finale. Lo stesso fatto si riscontra nella parola che vuol dire ‘ape’ e che in francese si tramanda esclusivamente
nella sua forma diminutiva, ‘abeille’ da apicula. In italiano abbiamo due esiti: uno è ‘ape’ e l’altro è ‘pecchia’,
che è una forma antica e che discende regolarmente da apicula. In questa forma si nota sia una aggiunta
finale che una perdita iniziale, l’aferesi. Da esempi come questo con perdita iniziale e con aggiunta finale,
Menagio deduce la possibilità di ricostruire questi tipi di mutamento più di una volta nella stessa parola,
anche molte volte e questo gli permetterebbe di risolvere tutti i problemi etimologici. Prendiamo la sua
etimologia di ‘cocchio’: Menagio dice che questa parola ha dei corrispondenti in francese e spagnolo e che è
stata già spiegata da Nicozio come una parola di origine ungherese. Secondo Menagio non c’è bisogno di
ricorrere all’ungherese, perché ci si può arrivare da una base latina che è vehiculum, che con aggiunta finale
sarebbe passato a vehiculicum > veculicum > culicum > cucum > cuculum > coculum > coclum > cocchio in
italiano.
È evidente che i passaggi sono del tutto inverosimili e infatti aveva ragione proprio Nicozio (Nicot) che era un
diplomatico e anche un letterato francese che tra l’altro ha dato il nome alla nicotina, poiché per primo nel
portò del tabacco a Caterina de’ Medici. fr. Nicotine > nicotiane > Nicot.
Aggiungiamo il caso dell’italiano ‘alfana’ = ‘cavallo da combattimento’. Menagio pensa di poterla ricondurlo
attraverso lo spagnolo al latino equa = ‘cavalla’. I passaggi sono: equa > eka > aka > haka > faca > facana >
fana > alfana (con l’aggiunta dell’articolo arabo). Passaggi questi del tutto inverosimili. Bisogna dire che non
molti credevano alle etimologie di Menagio già ai suoi tempi, e questo ce lo dice lo stesso autore
nell’introduzione alla seconda edizione del suo dizionario etimologico francese, quando riporta una poesia a
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lui dedicata da un letterato francese. Viene il sospetto che alle sue etimologie non credesse neppure lo stesso
Menagio.
Comunque, è un fatto che le etimologie del Menagio sono state anche parodiate: qui c’è l’annuncio di una
conferenza in un almanacco redatto da Pietro Verri e c’è una etimologia assurda in cui il nome del violino
viene ricondotto al nome di Nabucodonosor. “Un dilettante di violino proverà che questo stromento è
antichissimo, e che la sua origine viene da Nabucodonosor, indi col tempo corrompendosi i vocaboli per
gentilezza lo chiamarono Nabucodonosino, poi Nabucodonolino, indi Nabucodovilino, poscia Nabucoviolino,
in seguito Bucoviolino, poi Coviolino, finalmente Violino. Nella dissertazione di quel dotto uomo spiccherà un
portentoso ingegno, ed una sterminata erudizione d’etimologia”.
Grazie al Menagio l’etimologia si guadagna una reputazione non buona e nel secolo successivo gli da una
mano un letterato francese, Antoine Court de Gébelin, che scrive un’opera molto impegnativa in nove volumi
in cui si propone una comparazione tra il mondo antico e il mondo moderno. Quest’opera contiene anche un
vocabolario etimologico della lingua francese, uno della lingua latina e uno della lingua greca (tutti pieni di
fantasie). In uno dei volumi preliminari si spiegano anche i principi delle ricostruzioni etimologiche proposte,
che sono molto semplici. Nella ricerca etimologica e nella comparazione tra le parole, le differenze tra le
vocali non hanno nessuna rilevanza, del resto anche le consonanti si vede che mutano molto spesso, quindi
anche le differenze tra le consonanti possono essere tollerate.
È probabilmente a partire da queste affermazioni che nasce un aforisma che già ai primi dell’Ottocento viene
attribuito a Voltaire, ma che probabilmente sua non è: “l’etimologia è una scienza in cui le vocali non contano
niente e le consonanti molto poco”.
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LEZIONE 4
Nelle opere di Voltaire qualche frecciata all’etimologia si trova davvero; le frecciate sue e di altri ci mostrano
come l’etimologia nel Settecento non gode di buon credito, è vero però che in questo secolo non sono
mancati etimologi seri. Uno di questi è Muratori, che è stato in primo luogo il fondatore degli studi storici in
Italia, a lui si deve la pubblicazione di molte cronache e di altre fonti storiche medievali. Di lui ricordiamo una
storia del medioevo italiano in sei volumi. Il secondo volume contiene la dissertazione trentatreesima, di
etimologia italiana: Sull’origine ossia sull’etimologia delle parole italiane. Questa segna un deciso progresso
nell’ambito dell’etimologia, dovuto certamente al fatto che Muratori era uno storico e quindi alla sua
esperienza e alla sua precisa attenzione storica ai documenti.
Questa dissertazione contiene anche una lunga sezione dedicata a parole di etimo incerto, le parole spesso
sono lasciate come di etimo incerto e questo ci mostra subito una differenza rispetto a Menagio, che una
soluzione voleva trovarla a tutti i costi. A volte però muratori propone anche delle etimologie proprie, che di
solito sono migliori di quelle del Menagio. Nel testo di Baglioni si fa un esempio cui accenniamo brevemente
anche qui e che riguarda la parola stormo. Muratori estende lo sguardo anche alle lingue germaniche, dove
si trova una parola simile che significa ‘tempesta’, e che giustamente Muratori sente vicina anche per il
significato. Gli etimologi successivi daranno infatti ragione al Muratori, rimandando stormo al longobardo, di
cui non abbiamo documenti scritti però. Sempre nel Settecento, anche la Francia vede un momento felice
per l’etimologia, che vede la pubblicazione della voce ‘etimologia’ nella nota enciclopedia di Diderot e
D’Alambert, voce che si legge nel VI volume pubblicato nel 1756.
La voce ‘enciclopedia’ si deve a questo personaggio molto noto, Turgot, ma come economista. Tenne infatti
incarichi economici molto importanti in Francia nel periodo immediatamente precedente alla Rivoluzione. La
sua trattazione dell’etimologia è lucidissima e in larghe parti contiene considerazione che si possono
considerare ancora oggi valide. Anche perché la voce si occupa soprattutto di principi di etimologia, cioè di
questioni generali, ma lo fa in modo molto equilibrato. Turgot dice che ci sono etimologie possibili, probabili
e certe e tutto dipende dal modo in cui i dati vanno a disporsi come da soli durante la verifica delle ipotesi,
perché l’etimologia parte sempre da una ipotesi e poi questa ipotesi deve essere sottoposta necessariamente
a una verifica. I momenti fondamentali dell’etimologia sono allora due: il concepimento dell’ipotesi e la sua
critica, cioè la verifica.
I tempi erano maturi per una svolta, che infatti si verifica di lì a poco con la scoperta di Jones: il
riconoscimento di corrispondenze molto ampie e molto profonde tra le lingue europee e in particolare le
lingue classiche e il sanscrito, la lingua di cultura dell’india. Jones è un letterato e magistrato inglese attivo
in India. Sulla scia di Jones agli inizi dell’Ottocento nasce una scienza, la linguistica, che quando nasce è una
linguistica comparativa, cioè che mette a confronto le lingue di cui si scopre adesso la parentela: il sanscrito,
il greco, il latino, le lingue germaniche, le lingue romanze e le lingue slave, che quindi si scoprono essere
appartenenti alla stessa famiglia. Come atto di nascita della linguistica si prende la pubblicazione del saggio
di Franz Bopp sul sistema di coniugazione del sanscrito in comparazione con quello del greco, del latino, del
persiano e del germanico del 1816, opera dedicata a questioni di morfologia comparata.
Del sanscrito colpisce innanzitutto la stretta vicinanza delle desinenze verbali rispetto alle lingue più note,
fino a quel momento. Qui vediamo il presente del verbo essere comparato con il paradigma corrispondente
in greco, in latino e in gotico.
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sanscrito greco latino gotico
2a sing. asi εἶ es is
Ma del sanscrito colpisce anche la struttura delle parole. In tutte le parole del sanscrito infatti si riconosce un
elemento fondamentale monosillabico che è quello che trasmette l’informazione più importante, il
significato lessicale. Questo elemento è la cosiddetta radice.
Questa struttura caratteristica delle parole del sanscrito si riconosce bene anche nel greco, sue tracce più o
meno evidenti si riconoscono in tutte le altre lingue imparentate, dunque si può attribuire con certezza la
lingua madre da cui tutte queste lingue discendono, che viene chiamata indoeuropeo. Dizionario
indoeuropeo pubblicato a metà Novecento, dizionario organizzato per radici. Sotto la radice per esempio di
*leuk- che vuol dire ‘luce’ vengono messe tutte le parole che derivano da questa radice delle diverse lingue
della famiglia indoeuropea. In termini più termini più tecnici potremmo dire che l’indoeuropeo, lingua
ricostruita sulla base della comparazione, è una lingua caratterizzata dall’avere segni internamente articolati.
Dal nostro punto di vista la cosa è importante perché nell’indoeuropeo ricostruito le parole si possono dire
in massima parte motivate, cioè sono tutte riferibili a delle radici. Le radici sono questi morfemi lessicali
monosillabici che non si trovano in autonomia ma danno la motivazione a tutto un insieme di parole.
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Il carattere internamente articolato del segno indoeuropeo è messo in evidenza da uno studioso, Walter
Belardi, che è anche autore di un’opera poderosa sull’etimologia in due volumi. Vediamo l’esempio da cui
parte Belardi: examen in latino ha due significati: da una parte ‘sciame’ dall’altra ‘ago della bilancia’, da cui
‘esame’. Questa parola in latino non è motivata. O almeno non del tutto, perché la radice non si riconosce.
Se si riconduce all’indoeuropeo la parola diventa motivata, perché risulta analizzabile in tre elementi:
*eks-ag-smen-
*-smen- suffisso che forma nomi di oggetti (a partire dalle radici verbali)
In questo modo si spiegano anche i due significati, apparentemente così diversi, del latino examen, si tratta
in entrambi i casi di un qualcosa che si spinge fuori da qualcos’altro. La parola latina dà come ultimo esito
l’italiano ‘sciame’. Vediamo che si ha una progressiva perdita di motivazione, in indoeuropeo la parola era
totalmente motivata in quanto analizzabile nella sua articolazione interna in tre elementi; in latino rimane
una parvenza di motivazione almeno nella parte prefissale e in quella suffissale mentre la radice non è
direttamente osservabile. In italiano non si ha più niente di tutto questo e la parola è interamente priva di
motivazione perché ha perso del tutto la motivazione interna che aveva all’inizio.
Secondo la classificazione di Belardi, dunque, e anche secondo la sua terminologia, le lingue romanze sono
lingue a segno fisso, dove le parole in buona parte non sono motivate. Il fatto che l’indoeuropeo fosse una
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lingua a segno internamente articolato permette adesso una operazione sulle lingue storiche che ha rilevanza
di tipo etimologico. L’operazione è quella chiamata con termine tedesco ‘Zergliederung’, ovvero ‘dissezione’.
Vediamo un esempio: il latino tussis ‘tosse’ sottoposto a dissezione diventa una parola analizzabile e
riconducibile alla radice *tud-, che si trova nel verbo tundo, perf. tutudi che si trova anche nel sanscrito tudati,
quindi la radice è *tud-/*tu(n)d con il significato di ‘colpire’ cosa che dà anche un senso plausibile dal punto
di vista del significato se si pensa a ‘colpi di tosse’. Il secondo elemento che si ricava è un suffisso -ti- di nome
d’azione che si trova anche in altre parole come in lat. mens, mentis (*men-ti-) o mors, mortis (*mor-ti-).
Per quanto riguarda l’aspetto fonetico tudtis > tussis quindi di dt > ss si può fare il confronto con un’altra
parola latina che vuol dire ‘seduta’: sessio < sedtio < sedeo. La radice *sed- naturalmente si trova anche in
altre lingue della famiglia indoeuropea:
latino sedeo
gotico sitan
lituano sėś ti
Un primo inventario di radici indoeuropee ottenuto dalla comparazione del lessico delle lingue storiche
sottoposto a opportuna dissezione è l’opera di Pott, le Ricerche etimologiche pubblicate in due volumi nella
prima edizione tra il 1833-36. In questa opera di ricerche etimologiche le radici individuate sono disposte
secondo l’ordine alfabetico e sotto ciascuna radice vengono elencate le parole delle lingue storiche che a tali
radici si possono ricondurre. Di fatto, si tratta di un vocabolario etimologico a tutti gli effetti, dizionario
etimologico della famiglia delle lingue indoeuropee. Infatti, spiega la provenienza delle parole delle lingue
indoeuropee. Rispetto ai vocabolari etimologici a cui siamo abituati, questo ha un orientamento inverso. Si
parte dall’etimo e si arriva agli esiti successivi. Questo tipo di vocabolario etimologico è definito vocabolario
di impostazione progressiva o prospettica. Notiamo che nella seconda edizione (1859-1876) passano
dall’essere 375 a 2226 le radici che sono secondo Pott sono da assegnare alla lingua indoeuropea comune.
La disciplina progredisce parallelamente anche nel suo versante fonetico, progresso segnato dalla
pubblicazione della seconda edizione del primo volume del Deutsche Grammatik di Grimm, nella quale si
espone per la prima volta in modo sistematico la descrizione di un mutamento fonetico che riguarda le lingue
germaniche e che è chiamato mutazione consonantica o anche Legge di Grimm. È il mutamento che investe
le consonanti occlusive della lingua comune indoeuropea che subiscono parallelamente uno spostamento
nella loro articolazione.
occlusive sonore aspirate > occlusive o fricative sonore e questo in dipendenza dal contesto in cui si trovano.
Vediamo qualche esempio: una occlusiva dentale sorda in indoeuropeo diventa in germanico una fricativa
dentale sorda. *t > þ (= [θ]). indoeuropeo *treyes ‘tre’:
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indoeuropeo *toutā ‘popolo’
due esempi che riguardano l’indoeuropea occlusiva bilabiale sorda che nelle lingue germaniche passa a una
fricativa labiodentale sorda. *p > f.
Precisazione: p. 35 testo Baglioni si fa un esempio non attraverso il gotico, ma attraverso l’inglese fee ‘tassa’
e che originariamente era invece ‘bestiame’, che passa poi attraverso ‘tassa da pagare sul bestiame’, che
spiegherebbe il significato odierno. In ultima analisi la base è quella ma i passaggi sono molto diversi: l’inglese
fee arriva al valore di ‘retta’, ‘tassa’ ecc. non attraverso il valore di ‘bestiame’, ma attraverso quello di
‘pagamento per servizi o per privilegi di tipo feudale’. La parola poi non è di tradizione germanica diretta, ma
passa attraverso l’anglo normanno, un dialetto dell’antico francese. Il francese la riceve da una lingua
germanica che è il fràncone. Quindi la parola è quella che corrisponde all’italiano ‘feudo’ che deriva da un
adattamento dal latino medievale da cui deriva la stessa parola francone. Era intesa quindi come ‘proprietà,
ricchezza’.
Torniamo a questo esempio: gotico þiuda ‘popolo’ per analizzare non la fricativa dentale sorda iniziale, ma la
fricativa dentale sonora all’interno della parola, quella -d- che si legge [ð], infatti quella che in indoeuropeo
è una occlusiva dentale sorda passa ad essere in gotico una fricativa dentale sonora. Questa è una apparente
eccezione alla legge di Grimm. L’eccezione è solo apparente perché si è potuto dimostrare che la presenza
della fricativa sonora in posizione interna si deve a un mutamento successivo alla legge di Grimm: la legge di
Verner. Il mutamento è determinato dall’antico accento secondo la sua posizione in indoeuropeo e la legge
dice che le fricative sorde germaniche prodotto della legge di Grimm passano successivamente a fricative
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sonore quando si trovano in ambiente sonoro e quando si trovano dopo vocale non accentata secondo
appunto l’antica accentazione indoeuropea. Evidentemente la parola che sta alla base del gotico þiuda
l’accento si trovava sulla vocale finale.
Vediamo gli esiti di due parole indoeuropee che mostrano bene la dipendenza della legge di Verner dalla
posizione dell’accento indoeuropeo, posizione che si ricostruisce sulla base del sanscrito e del greco. La
parola per fratello aveva l’accento sulla sillaba iniziale, come mostrano appunto sanscrito e greco. Il gotico
ha la forma brōþar la cui consonante interna risente soltanto dell’effetto della legge di Grimm. La parola per
‘padre’ in gotico fadar risente dell’effetto di due leggi, il mutamento dell’occlusiva sorda in fricativa sorda e
poi l’effetto della legge di Verner con il passaggio della fricativa sorda alla fricativa sonora e questo perché
l’accento della parola si trovava sulla vocale immediatamente successiva alla consonante.
‘fratello’ ‘padre’
La scoperta della legge di Verner porta una scuola di linguisti che si è costituita in quel periodo a formulare
un principio assoluto: il principio della ineccepibilità delle leggi fonetiche. Secondo questo principio i
mutamenti fonetici sono del tutto regolari, cioè privi di eccezioni. Il principio della ineccepibilità delle leggi
fonetiche viene formulato da due rappresentanti della scuola, Hermann Osthoff e Karl Brugmann nella
prefazione del primo volume di questo testo, le ricerche morfologiche apparso nel 1878. A questo punto
nell’etimologia che torna a concentrarsi sulle parole, il ruolo guida è assunto dalla fonetica. Il significato conta
molto meno: un’etimologia è giudicata buona se riporta dei mutamenti fonetici che rientrano pienamente
nel principio della ineccepibilità delle leggi fonetiche.
Per esempio: greco póntos ‘mare’; latino pons ‘ponte’; inglese find ‘trovare’; indoeuropeo: *‘passare
attraverso’.
queste parole vengono accostate perché possono essere spiegate a partire dal principio di ineccepibilità delle
leggi fonetiche. Infatti l’inglese find può essere spiegato per quanto riguarda la prima consonante -f- con la
legge di Grimm, per la seconda consonante -d- sulla base della legge di Verner. Da un punto di vista formale
l’accostamento è ineccepibile. Le cose però vanno molto peggio per quanto riguarda il significato. Baglioni
propone appunto il significato il ‘passare attraverso’ che però è un po’ forzato.
Questo accostamento etimologico, che è molto insoddisfacente dal punto di vista del significato, essendo
però molto soddisfacente dal punto di vista della forma, cioè ineccepibile dal punto di vista fonetico, viene
accolto dalla maggioranza dei linguisti di formazione indoeuropeistica e si trova ancora nell’ultimo dizionario
etimologico (comparativo) delle lingue indoeuropee curato da Julius Pokorny e pubblicato nel 1959.
Vediamone un estratto: l’accostamento comprende anche una parola del sanscrito che è pánthāḥ ‘percorso’
ed è questa la nozione da cui parte anche il significato di ‘ponte’ e di ‘mare’ per il latino e il greco. Guardando
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le radici vediamo che per quanto riguarda greco, latino e sanscrito stiamo parlando di sostantivi, mentre per
il gotico è una forma verbale finþan ‘trovare’ e questo è un fatto piuttosto anomalo, cioè una radice che dà
da una parte dei nomi e dall’altra parte soltanto un verbo.
Eppure questa etimologia si trova anche in un dizionario comparativo delle lingue germaniche pubblicato nel
2013. Non mancano voci discordanti o di dubbio, come per esempio nell’Oxford Dictionary of English
Etymology, dove si propone un accostamento con una radice diversa, quella del latino petere che vuol dire
‘dirigersi verso qualcosa’. Nel Kluge, vocabolario etimologico tedesco, si avanza con dubbi una possibilità, ma
in sostanza si ammette che non ci sono collegamenti sicuri. Ci sono però casi in cui gli accostamenti sono
meno incerti o addirittura sono certi e permettono di risolvere alcuni problemi rimasti in sospeso da lungo
tempo, per esempio la questione del lucus, il ‘bosco’, spiegato per antitesi con il fatto di non avere luce, a
questo punto si capisce che l’etimologia è sbagliata, ma che il collegamento con la luce è corretta.
Vediamo l’estratto a partire dalla radice *leuk- ‘illuminare, luce’ da cui ricaviamo il sostantivo con vocale /o/
all’interno della radice, quindi una base *louko-. Questa base produce in sanscrito il sostantivo loka- ‘spazio
aperto, mondo’; in latino il nostro lūcus ‘bosco’; in lituano laukas ‘campo’. I tre significati stanno insieme se
si parte da un valore di base di ‘radura’, quello spazio del bosco che si apre alla luce. Si può confrontare per
il significato il tedesco lichtung che è chiaramente connesso con la parola licht ‘luce’. Rivediamo un caso già
visto, quello di Etienne Guichard che rimandava la parola germanica che significa ‘parola’ e insieme il latino
verbum ‘parola’, all’ebraico. Il collegamento con l’ebraico è naturalmente sbagliato, ma la parola germanica
e la parola latina stanno veramente insieme. L’ebraico naturalmente va tolto ma il confronto si può allargare
e può comprendere il lituano vardas ‘nome’. Tutte queste forme possono essere rimandate a una base
indoeuropea che si ricostruisce nella forma *wer-dh- con valore di ‘parola’. Ci sono delle differenze formali,
per esempio l’occlusiva interna della parola latina è diversa, perché è una bilabiale ed è diversa dalle
consonanti delle altre parole, che sono dentali:
latino verbum ‘parola’; inglese word, tedesco Wort; lituano vardas ‘nome’.
Questa differenza però si ritrova anche altrove, vediamo il caso dell’aggettivo che significa ‘rosso’, in latino
ruber, la consonante interna è una bilabiale, nelle rimanenti lingue abbiamo una dentale. La situazione è la
stessa e qui il confronto è molto più esteso, cosa che garantisce la sicurezza dell’accostamento. Insomma, in
qualche caso una consonante latina bilabiale può discendere da una indoeuropea dentale. latino ruber,
inglese red, tedesco rot, sanscrito rudhiras, greco ἐρυθρός, lituano raudonas. indoeuropeo *rudh-ro-.
Dai casi particolari andiamo adesso al generale e cerchiamo di capire cosa è successo nell’Ottocento con la
scoperta della famiglia linguistica indoeuropea. È successo che tantissime parole di tante lingue, parole che
prima non avevano una etimologia adesso trovano una etimologia sicura. Ma sapere da dove queste parole
sono partite permette anche di capire come queste stesse parole sono cambiate. Questi nuovi e
numerosissimi casi di etimologia permettono di capire quali sono i percorsi e i meccanismi dell’evoluzione
delle lingue nel tempo. L’etimologia insomma dopo essere stata la scienza in cui le vocali non contano niente
e le consonanti molto poco diventa la base su cui si costruisce la nuova scienza linguistica.
1875 William Dwight Whitney autore di un saggio The Life and growth of language che riporta circa quanto
appena detto sopra. Traduzione italiana venne pubblicata l’anno successivo: “Tutto il lavoro della ricerca
linguistica esordisce e dipende dall’etimologia, che è la ricostruzione della storia dei singoli vocaboli ed elementi. Dai
vocaboli l’indagine si leva più su, alle classi, alle parti del discorso, alle intere lingue. Dall’accuratezza, quindi, dei
procedimenti etimologici dipende il successo del tutto; e il perfezionamento dei metodi etimologici è ciò che
specialmente distingue la linguistica nuova dalla vecchia”.
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LEZIONE 5
L’etimologia, dunque, contribuisce in modo essenziale alla formazione della linguistica che nell’Ottocento è
una scienza comparativa, rivolta alle lingue della famiglia indoeuropea. Sempre nell’Ottocento, poco dopo la
nascita della linguistica indoeuropea e sulla spinta di questa nasce anche la linguistica romanza, che si rivolge
appunto alle lingue derivate dal latino, dette romanze o neolatine. Osserviamo allora anche la nascita e gli
sviluppi dell’etimologia romanza e quindi anche dell’etimologia italiana, che ne fa parte. Osserviamo ciò per
due motivi:
Questo maggiore sviluppo dell’etimologia nell’ambito delle lingue romanze si deve alla condizione
privilegiata in cui le lingue romanze stesse si trovano. Le lingue romanze sono lingue della famiglia
indoeuropea ma sono anche se si può dire indoeuropee di seconda generazione, perché si sviluppano da
una lingua nota e si sviluppano in piena fase storica. Le lingue romanze hanno quindi il vantaggio di una
documentazione scritta lunga e abbondante non solo per quanto riguarda le lingue nazionali ma anche per
quanto riguarda i loro dialetti. Per l’etimologia l’ambito romanzo è una specie di enorme palestra in cui si
possono fare tantissimi esercizi sicuri.
Vediamo lo stato dell’etimologia romanza, e in particolare dell’etimologia italiana, prima della fase
scientifica, agli inizi dell’Ottocento: fino ai primi dell’Ottocento l’etimologia continua ad essere un campo in
cui soprattutto gli eruditi esercitano liberamente il proprio arbitrio. Opera di Ottavio Mazzoni Toselli, autore
di ricerche sui documenti medievali relativi a Bologna. Questo erudito, dotato certamente di minore senso
critico rispetto a Muratori, per dimostrare la propria erudizione, fa vedere come molte voci italiane si possono
spiegare sulla base delle lingue celtiche. Le lingue celtiche sono lingue parlate tutt’ora da una minoranza della
popolazione in Bretagna, Galles, Irlanda, Scozia ed erano lingue parlate nella Francia e nell’Italia
settentrionale prima che in queste zone avvenisse la romanizzazione. Quindi si parlava celtico anche nell’area
di Bologna. Per il Mazzoni Toselli la conoscenza delle lingue celtiche si basava su qualche vocabolario delle
lingue celtiche moderne dove trovava parole di forma simile ad alcune parole italiane con significati che
secondo lui spiegavano bene dei significati delle parole italiane.
L’uso di questi vocabolari però è molto disinvolto: vediamo l’esempio per ‘fiore’ = ‘parte più nobile, bella e
scelta di qualsivoglia cosa’. Secondo Toselli questa parola si può confrontare con un celtico non meglio
specificato flour ‘bello, pulito, piacevole’. Se si guarda più sotto troviamo il nome di Firenze che è comparato
col celtico Fflwr che significa ‘bella’ in composizione con una parola che significa ‘valle’. La stessa parola
gallese viene chiamata a spiegare la parola italiana ‘fiorino’ dove qui fflwr significa ‘oro’. Insomma, un po’
confusionario. Lasciando perdere le forme, notiamo che i significati sono stati molto aggiustati da Toselli.
Possiamo rimettere le cose apposto consultando un vocabolario gallese, che ci permette di vedere che fflwr
non significa ‘bello’ e neppure ‘oro’ ma significa ‘fiore’ e ‘farina’. E quindi si potrebbe piuttosto confrontare
con l’inglese flower ‘fiore’ e flour ‘farina’. Infatti entrambe le parole inglesi derivano a loro volta da un medio
inglese flur che è entrato come prestito in gallese. Il prestito inglese viene dall’anglo-normanno flur e che
corrisponde al francese moderno fleur e che quindi la base in comune è il latino flos, floris, accusativo florem.
Insomma la somiglianza tra l’italiano flore e il gallese fllwr è data dal fatto che entrambe rimandano al latino.
L’italiano direttamente, il gallese attraverso l’intermediazione francese e poi inglese.
I letterati più smaliziati continuano a capire che le etimologie degli eruditi sono solo fantasie arbitrarie.
Vediamo la testimonianza di Giuseppe Gioachino Belli, noto soprattutto per i suoi sonetti in dialetto
romanesco e di alcuni in italiano, uno dei quali dedicato agli “etimologisti”, cioè quegli etimologici che
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mettono insieme a loro piacimento pezzi di lingue o di più lingue in maniera disparata e in questo modo
trovano sempre la quadratura del cerchio. Nell’etimologia italiana e nel suo ambito lessicografico il primo
riflesso tangibile nel rinnovamento della nascita della linguistica scientifica come studio comparativo delle
lingue indoeuropee è costituito dall’opera di Giovan Battista Bolza, Vocabolario genetico-etimologico,
pubblicata a Vienna nel 1852. A questo fanno da modello il Vocabolario etimologico di Bopp, che è un
vocabolario di impostazione progressiva cioè dove si parte dall’etimo e poi si vede quali forme da esso
discendono. Nel Bolza vediamo qualche esempio: la base è δίκη ‘giustizia’ da cui discendono ‘dicastero’ e
‘sindaco’. Ci sono poi altre onomatopeiche, base verbali ecc.
Per l’etimologia romanza, e di conseguenza per l’etimologia italiana, il vero rinnovamento si ha con Friedrich
Diez, docente all’Università di Bonn e che nel 1836 pubblica il primo volume di una grammatica comparativa
delle lingue romanze, il suo modello è chiaramente la comparazione delle lingue indoeuropee, una pratica
inaugurata un ventennio prima, nel 1816. Nel 1853 la prima edizione del suo vocabolario comparativo delle
lingue romanze.
Nell’etimologia romanza c’è in realtà un filone di studi etimologici più vicino per carattere all’etimologia
indoeuropea. Secondo Loporcaro, nell’etimologia romanza si possono distinguere due linee di ricerca, che
chiameremo linea immanentista e linea antimmanentista; la prima è vicina all’etimologia indoeuropea ed è
attenta come i neogrammatici soprattutto ai fenomeni fonetici. Gli studiosi che fanno parte di questa linea
considerano la lingua come un fatto a sé, da cui il nome dato da Loporcaro, cioè la lingua viene vista nella sua
immanenza, cioè nei suoi elementi intrinseci. In questo modo vengono messi in secondo piano i parlanti e il
contesto storico. L’etimologia di questo tipo è attenta soprattutto agli aspetti formali. La seconda corrente
considera la lingua come una serie di espressioni individuali, e quindi afferma che gli elementi linguistici sono
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indissolubilmente legati al parlante e al suo contesto, per questo la linea antimmanentista è attenta anche e
soprattutto al significato e al legame della parola al contesto di uso e quindi al legame della parola con la
storia.
Nel primo filone della linea immanentista possiamo far rientrare questo studioso, Wilhelm Meyer-Lübke
(1861-1936), docente sia a Vienna che a Bonn e autore di una nuova grammatica comparativa delle lingue
romanze e anche di un vocabolario etimologico romanzo – uscito in prima edizione tra il 1911 e il 1920 – che
comprende 9635 voci che corrispondo a 9635 basi, cioè etimi. Si tratta infatti di un vocabolario etimologico
di impostazione progressiva o prospettica, dove si dà prima il lemma che corrisponde all’etimo e poi si
elencano le forme che derivano da questo etimo con eventuali rimandi bibliografici.
Nella linea immanentista possiamo far rientrare anche Salvioni, che era un neogrammatico attento
soprattutto agli aspetti formali della ricostruzione.
Nell’altro filone, quello antimmanentista, facciamo rientrare Schuchardt, che diceva che l’etimologia era una
sorta di «una storia di parole più o meno abbreviata». Uno dei rappresentanti più tipici di questa corrente ed
è autore già nel 1885 di un trattato sulle leggi fonetiche che ha come sottotitolo ‘contro i neogrammatici’.
Secondo Schuchardt il cambiamento linguistico comprendeva non solo una serie di mutamenti regolari –
quelli già ammessi dai neogrammatici – ma anche moltissimi elementi accidentali che in quelle leggi non
potevano rientrare. Per via della grande rilevanza di questi mutamenti il principio dell’ineccepibilità delle
leggi fonetiche si rivelava non valido, secondo Schuchardt. Nell’etimologia Schuchardt infatti affermava il
principio che prima di tutto contava la semantica, tanto da proporre spesso etimologie forzate dal punto di
vista formale ma secondo lui pienamente giustificate dal punto di vista semantico e dal punto di vista storico.
Famoso di Schuchardt è il suo intervento nella discussione intorno all’origine della parola che significa
‘trovare’ in italiano, francese, provenzale, occitano e catalano. La questione complessa si trova riassunta in
Baglioni. Con occitano si intende una serie di varietà romanze della Francia occidentale, di cui la più
rappresentativa è il provenzale, tanto che spesso provenzale ha un uso estensivo che lo rende sinonimo di
‘occitano’.
Italiano trovare
francese trouver
occitano (provenzale) trobar
catalano trobar
Il punto di partenza è l’etimologia proposta da Diez nel suo vocabolario etimologico romanzo. La complessità
della questione risulta anche dalla lunghezza della trattazione. Il problema è che le parole che significavano
‘trovare’ in latino invenire e reperire non hanno continuatori diretti nelle lingue romanze e che in latino non
c’è niente di davvero simile a ‘trovare’ ecc. la parola più simile è turbare che dà problemi sia per la forma che
per il significato. Però Diez proponeva come spiegazione proprio il rinvio a turbare > rovistare > frugare >
trovare dopo aver frugato. A questa etimologia si oppose un noto studioso che è Gaton Paris, noto studioso
di letteratura del medioevo che dette una spiegazione più letteraria. La base sarebbe stata una forma latina
non documentata *tropare derivata da tropus ‘modo musicale’, quindi legato al significato di comporre
melodie, inventare melodie e quindi trovare melodie. Infatti il francese trouver e l’occitano trobar avrebbero
questo significato precipuo, che secondo questa spiegazione sarebbe allora il più antico. Al significato di
‘trovare’ si sarebbe arrivati per generalizzazione dell’uso. Dal punto di vista formale il passaggio è
ineccepibile, per francese e occitano, almeno. Per l’italiano bisogna ammettere un prestito dal francese, il
che non è impossibile. In realtà dal punto di vista del significato la spiegazione non è pienamente
soddisfacente, specie perché l’azione di trovare è una azione piuttosto elementare che si vede legata con
difficoltà a un’attività letteraria come quella del comporre melodie. Fatto sta che in altre varietà romanze il
verbo che significa ‘trovare’ deriva da azioni molto più concrete, in particolare legate alla caccia. Nel dialetto
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veneto catar è ‘trovare’ e deriva dal latino captare ‘prendere’; in spagnolo ‘trovare’ di dice hallar che deriva
dal latino afflare ‘soffiare’ che sempre rimanda al lessico della caccia, perché deriva da ‘annusare una traccia’.
Sulla base di questi paralleli Schuchardt torna all’ipotesi di Diez ma la modifica: turbare specializzato in un
contesto non di caccia ma di pesca = tecnica di pesca nei torrenti ben documentata che consiste
nell’intorbidire l’acqua per spingere i pesci nella rete e quindi prendere i pesci > trovare i pesci. Per sostenere
la sua tesi Schuchardt scrisse molto e a più riprese e soprattutto in risposta alle critiche mossegli da André-
Antoine Thomas che difendeva l’ipotesi di Paris da *tropare soprattutto su basi fonetiche. Le forme romanze
tra le quali soprattutto il francese antico trueve ‘ritrovamento’ e che è un derivato da questo verbo
presuppongono senza ombra di dubbio una forma con ŏ in latino (-ue- > ŏ), che è quella di tropare ed
escludono quindi una base con u come quella di turbare caldeggiata da Schuchardt.
Ma alla fine chi ha vinto? Non Schuchardt. Infatti nei dizionari etimologici prevale la base proposta da Paris,
che prevale almeno sulla base della forma; sulla base del significato bisogna dire che neppure l’ipotesi di
Schuchardt era particolarmente convincente, per cui ha prevalso l’altro. Questa comunque era una
etimologia complessa ed è uno dei casi che si può trovare nell’etimologia romanza che si possono considerare
non ancora chiusi.
Un altro studioso appartenente alla linea antimmanentista, Jules Gilliéron, studioso svizzero attivo in Francia,
curatore dell’Atlante linguistico della Francia pubblicato tra il 1902-1910 in dieci volumi. Un atlante linguistico
è una serie di cartine dello stesso territorio nelle quali vengono riportati i dati raccolti in inchieste
dialettologiche compiuti in località rappresentative. Ogni cartina è dedicata a una nozione o a un fenomeno
linguistico. Un atlante linguistico permette di osservare in modo chiaro e immediato la differenziazione
dialettale di un territorio, in questo caso la Francia. Nel caso dell’Atlante Linguistico Francese la variazione è
osservabile attraverso 1900 cartine cioè attraverso 1900 esempi che sono le 1900 nozioni per le quali si è
fatta una inchiesta dialettologia nelle 639 località prescelte. Ma un atlante linguistico permette di notare
anche fatti più generali. Un atlante linguistico fa capire per esempio che i dialetti hanno una fortissima
variabilità e che i dialetti non sono omogenei rispetto agli sviluppi fonetici e questo mette in crisi il principio
dell’ineccepibilità delle leggi fonetiche. In alcuni casi poi si vede che la forma di una parola è determinata non
dalle leggi fonetiche ma da fatti legati a determinate condizioni di una singola parola.
Prendiamo il francese abeille ‘ape’ che discende dal latino apicula, come l’italiano antico pecchia. Questa
discendenza non è lineare, ce lo rivela un particolare della parola, la presenza di una consonante occlusiva
bilabiale sonora /b/. l’occlusiva /p/ in latino diventa in francese una fricativa labiodentale sonora /v/. vediamo
per esempio: CAPILLUS > cheveu ‘capello’; NEPŌTEM > neveu ‘nipote’.
La presenza della parola per ‘ape’ di una occlusiva bilabiale sonora rappresentata da /b/ è una chiara spia
della provenienza della parola stessa dal sud e precisamente dalle parlate di tipo occitano. Nelle varietà
occitane l’occlusiva bilabiale sorda del latino rappresentata da /p/ diventa una consonante occlusiva sonora.
APICULA > abelha ‘ape’; francese abeille è un prestito dall’occitano. Quindi abeille è un prestito
dall’occitano, il perché ce lo rivela l’atlante linguistico francese. Ai margini settentrionali dell’area dialettale
francese, per ‘ape’ si usa la parola è che continua il latino apem, accusativo di apis. Si tratta quindi della forma
non diminutiva per ‘ape’. Altrove si trovano forme diverse, una di queste è abeille, altre sono per esempio:
mouche à miel o mouchette ecc. cosa ci fa vedere allora l’atlante linguistico, che la forma è è la forma residua
che evidentemente un tempo era utilizzata in un’area molto più vasta però la sua forma monosillabica la
rendeva svantaggiata rispetto ad altre forme. La forma è stata sostituita da forme di corpo maggiore, una
delle quali abeille proveniente proprio dal sud, da uno dei dialetti occitani.
Vediamo un caso che riguarda il dialetto guascone che si trova ai margini occidentali dell’area linguistica
occitana. Tra le caratteristiche linguistiche del guascone c’è un mutamento fonetico molto particolare che
porta la consonante alveolare laterale doppia /ll/ a una consonante occlusiva dentale sorda /t/. quindi bellus
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> bet in guascone. Questo particolare mutamento fonetico creava una sorta di conflitto tra le parole per
‘gatto’ e per ‘gallo’ che avrebbero avuto lo stesso esito. Allora la parola per ‘gallo’ che sarebbe andata
comunque a suonare come ‘gatto’ gat, è stata sostituita da parole completamente diverse, che
corrispondono al francese standard faisan (‘fagiano’) o vicaire (‘prete vicario’). Fatti come gli ultimi visti non
possono essere colti da un tipo di ricerca etimologica che si occupi solo di riscontrare la regolarità dei
mutamenti fonetici che sono dei mutamenti generali. Possono essere colti solo da una ricerca che studia la
storia delle parole nella loro particolare vicenda, che non è tra l’altro una vicenda esclusivamente di tipo
fonetico. Gillieron nel 1919 pubblica un libro che riporta vicende come queste e che porta il titolo di
Etimologia fonetica. All’interno del libro si trova una frase famosa che sottolinea l’importanza dell’etimologia
come storia complessiva di una parola. È una frase paradossale che dice che “fare l’etimologia di una parola
ricercando semplicemente la sua matrice fonetica è come fare la biografia di Balzac presentando prima lo
scrittore come un bambino vestito di blu a righe rosse sulle ginocchia della nutrice e poi arrivando subito al
punto finale cioè al fatto che scrisse la commedia umana.
In conclusione, nell’ambito degli studi romanzi si forma un concetto di etimologia più ampio, vista come un
tipo di ricerca che nella definizione dell’origine di una parola tiene conto dell’intera vicenda della parola
stessa. Questo concetto viene riassunto nella sequenza di étymologie-histoire du mot = etimologia-storia
della parola. A questo punto è l’etimologia romanza che influenza la vecchia etimologia indoeuropea. Questa
visione più ampia dell’etimologia cioè viene recepita anche dagli studiosi che si occupano delle lingue
indoeuropee di prima generazione e soprattutto delle lingue classiche, che sono lingue di ampia
documentazione e che offrono la possibilità di fare la storia delle parole. Il vocabolario etimologico latino più
importante, infatti, redatto da Ernout e Meillet, porta il sottotitolo: ‘storia delle parole’. Lo stesso sottotitolo
è stato dato a un successivo vocabolario etimologico della lingua greca, sempre di un autore francese,
Chantraine. Vediamo un caso di ricerca etimologica applicata al greco e condotta secondo i criteri
dell’etimologia come storia della parola. Il caso riguarda una parola importante dal punto di vista storico-
culturale, una parola che dal greco è passata nelle lingue di cultura moderne, che è ῥυθμός. L’etimologia
presentata è stata data da uno dei linguisti più importanti del Novecento, Benveniste, nato in Siria e
naturalizzato francese. Cominciamo col dire che la parola conosce una variante ῥυσμός impiegata da autori
che scrivono nel dialetto ionico, una varietà linguistica che è diversa dal dialetto attico. Questa differenza
riguarda soltanto la parte suffissale ed è quindi di importanza secondaria da un punto di vista etimologico.
L’etimologia del greco non consiste nel trovare la sua radice, che si trova invece molto facilmente, il greco
ῥυθμός è collegato al verbo e alla forma ῥέω che significa scorrere. Questo verbo si collega a una radice
indoeuropea che ha la forma *sreu- e le varianti *srou- / *sru-.
Una radice che ha come suoi discendenti il sanscrito sravati ‘scorrere’, ma vediamo per esempio anche
derivazioni germaniche come l’inglese stream ‘corrente’ e il tedesco Strom. Nelle lingue germaniche si è
avuto l’inserimento di una consonante dentale all’interno del nesso iniziale. Il greco ῥέω discende quindi da
una forma precedente *srew-o, attraverso dei mutamenti che riguardano le consonanti: si perde la
consonante iniziale e quella interna secondo dei mutamenti che in greco sono regolari. *srew-ō > rhéō;
indoeuropeo *sr- > greco ῥ- rh- ; indoeuropeo *-w- > greco Ø.
Vediamo altre parole in greco che sono legate a questa radice indoeuropea *sreu- / *srou- / *sru-; la
variazione ha rilevanza morfologia, cioè le diverse varianti servono a formare parole diverse collegate a
questa radice. Dalla base *sreu- discende il nome ῥεῦμα che vuol dire flusso; dalla base *srou- discende ῥοή
che vuol dire ‘corrente’; dalla base *sru- discende ῥυτός che vuol dire ‘che scorre, fluido’, ma discende anche
ῥυθμός.
Il collegamento tra il significato della radice ‘scorrere’ e il significato del suo derivato ῥυθμός ‘ritmo’ non è
immediato, quindi vediamo come lo spiega Pokorny nel suo dizionario etimologico del 1959. Il concetto di
scorrere richiama il concetto di acqua e infatti la spiegazione fa riferimento all’acqua e precisamente a quella
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del mare. ῥυθμός è spiegato come un ‘movimento regolare paragonato ai colpi delle onde del mare’. A
pensarci un po’ però la spiegazione non va bene perché il mare non scorre, sono i fiumi che scorrono. Infatti
da questa radice deriva anche il nome di un fiume, noto a noi attraverso le fonti greche, che è il fiume
Στρύμων. Il fiume Strimone scorre in una regione a nord della Grecia, la Tracia, dove si parla il tracio, una
lingua indoeuropea diversa dal greco. La radice è la stessa nella variante Στρύ- e si nota l’inserimento di una
consonante dentale nel nesso iniziale che è lo stesso fenomeno che abbiamo visto nelle lingue germaniche.
Per tornare a reo, a questo verbo appartiene una voce del noto aforisma di Eraclito, πάντα ῥεῖ, ‘tutto scorre’.
Eraclito ovviamente aveva in mente non il mare ma un fiume. Riprendiamo allora il discorso di Benveniste
che parte dal significato che ha ῥυθμός in Aristotele, cioè quello di ‘schema, forma’, apparentemente
qualcosa di statico.
Questo valore si può mettere meglio a fuoco esaminando l’uso che fa della parola un filosofo precedente,
Leucippo. Leucippo scrive in dialetto ionico, quindi presenta la variante ῥυσμός questa parola si trova in un
passo che parla delle lettere dell’alfabeto e precisamente in un punto in cui viene detto che /α/ e /ν/ hanno
un diverso ῥυσμός, cioè una diversa forma. Il significato si precisa in questo modo: la diversa forma
corrisponde a una diversa disposizione di tratti.
Ed è qui che sta il collegamento col valore di base di ‘scorrere’ espresso dalla radice del verbo reo. ῥυθμός
forma non esprime un valore pienamente statico, ma inteso come ‘conformazione, disposizione che si
ottiene a seguito di un movimento’. In questo caso specifico si tratta del movimento della mano che traccia
le lettere con uno stilo su una tavoletta cerata. Anche gli autori successivi usano sempre ῥυθμός con il valore
di ‘forma’ in questo senso, cioè come forma assunta dopo un movimento. A partire da Platone la forma viene
usata spesso in un contesto molto particolare, per la ‘forma che il corpo umano assume nel flusso della
danza’.
ῥυθμός insomma è la forma momentanea del corpo, una forma che si ripresenta a intervalli. Il significato di
ritmo viene proprio da qui. In conclusione, l’esame della storia della parola permette di accantonare
definitivamente l’etimologia impressionistica di ῥυθμός che era stata data in precedenza e permette di
formulare una spiegazione nuova del tutto soddisfacente. L’etimologia come storia della parola si può fare
solo quando si può fare la storia, quando si hanno cioè documenti sufficienti. Per le lingue romanze spesso
siamo in questa fortunata situazione e infatti questa visione dell’etimologia come storia della parola ispira i
più importanti vocabolari etimologici dedicati alle lingue romanze. Tra questi il primo da ricordare è il
vocabolario etimologico francese di Walther von Wartburg, pubblicato in 25 volumi in un arco di tempo che
va dal 1922 al 2002 e ora in aggiornamento. La visione dell’etimologia come storia della parola ispira anche
il Lessico Etimologico Italiano (LEI). L’opera esce a fascicoli a partire dal 1979, il fondatore dell’impresa è Max
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Pfister. L’impresa ha sede presso l’Università di Saarbruecken in Germania. I volumi ora sono 16-17 e sono
state completate solo le lettere A e B, la lettera C è in avanzato stadio di pubblicazione e parallelamente
stanno andando avanti le lettere D ed E. Per concludere torniamo al concetto di etimologia come storia della
parola. Ora che abbiamo discusso il concetto, possiamo capire meglio una delle definizioni di etimo che
abbiamo visto in precedenza: si tratta della definizione data da Folena secondo la quale “per gli antichi l’etimo
era il ‘vero’ nascosto in una parola mentre per noi è solo un momento per lo più dimenticato della sua storia”.
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LEZIONE 6:
Un’etimologia è una operazione di riconoscimento che porta alla luce un momento passato e non più
evidente di una parola. Questa operazione non è sempre facile perché nel tempo le parole cambiano e
possono cambiare fino a diventare irriconoscibili. La definizione di Folena ci dà lo spunto per passare a parlare
dei cambiamenti linguistici: prenderemo in esame alcune questioni generali relative al cambiamento
linguistico (cfr. cap. 3 Baglioni).
Per partire dal generale ripartiamo da De Saussure e riprendiamo una distinzione operata dallo studioso e da
lui messa in chiaro in termini che poi sono diventati canonici. La distinzione riguarda il segno linguistico, che
sappiamo essere diviso in due piani: uno è il piano del significato, relativo al concetto, un puto fatto mentale;
l’altro è il piano del significante, che Saussure chiama anche immagine acustica, che è anch’essa un fatto
mentale. Ma questa immagine acustica ha anche un risvolto materiale, cioè il suono effettivamente prodotto
o il suono scritto. Che il significante è un fatto mentale lo dimostra il fatto che il suono di una parola si può
anche solo pensare. Una caratteristica del segno linguistico è la sua arbitrarietà cioè il fatto che i due piani
che costituiscono il segno linguistico non sono legati da un rapporto naturale e necessario. Questa
caratteristica è ciò che permette il cambiamento linguistico. Un segno linguistico può cambiare e può
cambiare anche solo in uno dei due piani, ma può cambiare anche in entrambi i piani.
Il piano del significante è meglio osservabile rispetto a quello del significato perché ha una rappresentazione
materiale. Nel cambiamento formale e in particolare nel cambiamento fonetico ci sono elementi di regolarità
che in qualche caso è o appare assoluta. Secondo i neogrammatici i mutamenti fonetici sono sempre regolari,
cioè privi di eccezioni e possono essere presentati secondo delle formule che vennero chiamate leggi. È il
principio dell’ineccepibilità delle leggi fonetiche. Ricordiamo che i due formulatori furono Osthoff e
Brugmann. Vediamo un esempio di mutamento fonetico regolare, di passaggio dal latino all’italiano:
lat. caballus > it. cavallo l’occlusiva bilabiale sonora /b/ che quando si trova tra due vocali in italiano si
trasforma in una fricativa labiodentale sonora /f/.
lo stesso mutamento si riscontra in tutte le parole che in latino sono passate in italiano per tradizione diretta
e che hanno quel suono in quella stessa posizione: habēre > avere; cerebellum (dim. di cerebrum) > cervello;
cubāre ‘giacere’ > covare; debēre > dovere; fābula > favola; tabula > tavola.
In italiano ci sono parole che hanno una consonante occlusiva sonora bilabiale tra due vocali, ma non perché
questo mutamento ammetta delle eccezioni. Vuol dire solo che ha una spiegazione indipendente rispetto al
mutamento fonetico che abbiamo visto. Un fattore può essere l’interferenza con altri mutamenti fonetici.
Es: fiaba < fabula qui il mutamento non è avvenuto perché si è creato da una variante diversa, che a sua volta
si è prodotta dalla caduta della vocale nella sillaba successiva a quella tonica (sincope). In questa variante la
consonante si è trovata in una posizione diversa: non fra due vocali ma tra una vocale e una consonante, che
ha quindi bloccato il mutamento. Un altro mutamento, la metatesi (spostamento di una consonante) ha
portato la nostra consonante in posizione intervocalica, ma quando ormai l’altro mutamento era cessato.
L’eccezione dunque è solo apparente. fiaba < FĀBULA attraverso *fabla (sincope) e *flaba (metatesi di l).
Un altro fattore che in italiano determina la presenza di una occlusiva bilabiale sonora in posizione
intervocalica sempre in parole derivate dal latino può essere l’analogia. allibire < *ALLĪVĒRE. latino līvēre
‘essere livido’ e la forma attesa sarebbe: *allivire.
Ma per analogia abbiamo appunto una /b/. analogia = spinta alla regolarizzazione dei paradigmi che per certi
versi sono irregolari. Vediamo un esempio di mutamento per analogia: it. ant. aveva delle irregolarità nel
paradigma dovuto a mutamenti fonetici regolari. La forma della prima persona è stata sostituita da un’altra
non per via di un mutamento fonetico, ma per via di un mutamento morfologico, ovvero per analogia.
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vedere < VIDĒRE
... ...
Lo stesso di suppone sia successo per il verbo ‘allibire’ ma con direzione opposta della spinta analogica.
Un terzo fattore che determina la presenza di una occlusiva bilabiale sonora in presenza intervocalica in
italiano è il prestito: cioè l’ingresso di parole da altre lingue. Esempio di ‘carruba’ che designa il frutto di una
pianta, il carrubo, dall’arabo. C’è da tenere presente che in italiano hanno questa consonante anche altre
parole derivate dal latino che però sono casi di parole che non sono state tramandate di generazione in
generazione, come è successo per le parole che abbiamo visto prima. Queste qui invece sono state riprese
dal latino scritto, quindi per queste non c’è continuità tra latino in italiano ma si tratta anche in questo caso
di prestiti. Vediamo il caso di tabella:
I casi che abbiamo visto rientrano in tre tipi fondamentali e non si possono considerare casi di eccezione
rispetto alle leggi fonetiche, però esistono anche casi di mutamenti che non rientrano in questa tipologia e
sono casi che mettono in crisi la validità del principio di ineccepibilità. Cfr. Schuchardt. E se ne è accennato
quando si è parlato degli atlanti linguistici, che rappresentano la differenziazione dialettale di un territorio e
che mettono in evidenza molte irregolarità nella diffusione dei mutamenti fonetici. Qui vediamo un caso tra
i più discussi che riguarda il dialetto toscano e quindi l’italiano letterario. Le consonanti occlusive sorde del
latino in posizione intervocalica in toscana e in italiano si mantengono sorde in moltissimi casi; nei dialetti
dell’Italia settentrionale le consonanti in causa diventano sempre delle consonanti sonore, quindi occlusive
nel caso della velare e della dentale che passano da sorde a sonore; nel caso della bilabiale si ha anche un
passaggio alle fricative, sempre sonore:
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CAPUT capo cavo -P- > -v-
In toscano e in italiano però ci sono anche casi in cui si ha l’esito che nei dialetti settentrionali abbiamo visto
essere regolare. In toscano si presenta solo in casi minoritari, comunque significativi. Si tratta di parole del
lessico fondamentale, quindi non sono prestiti dai dialetti settentrionali. In toscano, insomma, l’esito delle
consonanti sorde intervocaliche è doppio e non si riesce a stabilire perché alcune parole conservino le sorde
e altre abbiano una sonorizzazione. La spiegazione che si dà al fenomeno è che anche in toscano si doveva
essere avviato un processo di sonorizzazione, però questo processo non avrebbe fatto in tempo ad estendersi
a tutto il lessico. A un certo punto la sonorizzazione si sarebbe bloccata lasciando intatte larghe parti del
lessico. Questo è un mutamento in toscano con basso grado di regolarità, un mutamento che ha una certa
diffusione ma che non ha un carattere e dei limiti definibili in modo rigoroso secondo il principio delle leggi
fonetiche.
Questo tipo di mutamento non sistematico non è rarissimo nelle lingue romanze, tanto che uno studioso per
classificarlo ha coniato l’espressione di mutamento fonetico debole, parliamo di un importantissimo
romanista che si è dedicato soprattutto all’etimologia spagnola, Yakov Malkiel. Nei casi di mutamento
fonetico debole si possono far rientrare alcuni mutamenti che abbiamo già visto che sono legati alle singole
parole e alla loro costituzione particolare. Si tratta di mutamenti che prima che nelle lingue indoeuropee di
prima generazione si verificano nelle lingue romanze. Uno di questi è l’aferesi, che investe sporadicamente il
lessico e che investe tipicamente ma non sistematicamente le parole femminili inizianti per -a-, la cui vocale
iniziale viene assorbita dall’articolo.
Un altro caso di mutamento fonetico debole è la metatesi, lo spostamento di uno o più suoni nel corpo della
parola. Abbiamo visto un caso di metatesi quando abbiamo trattato il caso di fiaba. Vediamo un altro caso di
metatesi, che riguarda il termine vagheggiare che presenta anche una variante gaveggiare. Questo
fenomeno riguarda soprattutto le consonanti laterali e le consonanti vibranti, i suoni che nella nostra grafia
sono /l/ e /r/. Al carattere un po’ mobile delle nostre consonanti fa riferimento anche una loro classificazione
un po’ obsoleta, che mette insieme laterali e vibranti nella categoria delle liquide. Facciamo una piccola
partentesi terminologica per dire che questa classificazione risale all’antichità: si trova nella prima
grammatica greca che ci sia pervenuta, quella di Dionisio Trace II sec. a.C., che parla di ‘elementi umidi’ e che
comprende anche le consonanti nasali. Il termine liquido lo dobbiamo a un adattamento latino del termine
greco e ce lo riporta Quinto Terenzio Scauro (II sec. d. C.). con fiaba abbiamo visto un esempio di metatesi
della liquida, vediamo adesso un esempio di metatesi della vibrante. Rolando è il personaggio della Chanson
de Roland. L’adattamento italiano del nome del personaggio è Orlando, è quindi una metatesi. Vediamo un
altro esempio letterario di metatesi di una vibrante. Nel XV canto dell’inferno Dante incontra Brunetto Latini,
che era stato suo maestro, e lo chiama ‘Ser Brunetto’, titolo con cui venivano chiamati i notai. Infatti Brunetto
era anche un notaio, di lui ci rimangono degli atti notarili autografi, cioè documenti scritti di sua mano. In
questi documenti brunetto latini si firma come ‘Burnetto’. Non si tratta quindi di un errore ma di una metatesi
stabilizzata. Per lui la forma regolare era quindi ‘Burnetto’ e ce lo dimostra un altro fatto: nella chiesa si trova
ancora una colonna di marmo che distingueva la sepoltura di Brunetto Latini, e sulla colonna si legge questo
s(epulchrum) s(er) Burnetti Latini et filio(rum).
Prendiamo un altro esempio di mutamento fonetico debole che coinvolge sempre le consonanti liquide.
Vediamo un esempio di dissimilazione di due vibranti nella stessa parola, che dal latino arbor > albero, oppure
mercuri dies > mercoledì. Lo stesso fenomeno si riscontra a livello di italiano popolare: albitro, pultroppo. Un
altro esempio di dissimilazione, che in questo caso è tra consonanti nasali: venenum > veleno e numerus >
novero. Allora i mutamenti irregolari dei tipi che si sono visti si riscontrano più spesso nelle lingue e nei
dialetti romanzi e meno spesso nelle lingue indoeuropee di prima generazione. Torniamo allora a una
distinzione già vista, quella introdotta da Belardi: le lingue indoeuropee di prima generazione discendono
direttamente da una lingua in cui il segno era internamente articolato, cioè con parole in massima parte
motivate. In sostanza, le lingue indoeuropee di prima generazione discendono da una lingua il cui lessico era
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tenuto insieme da forti solidarietà. In queste lingue i suoni cambiano ma cambiano in blocco in tutto il lessico
proprio per la conformazione fortemente strutturata dell’insieme del lessico e delle singole parole.
Le lingue romanze invece sono ormai lingue a segno fisso, le loro parole quindi sono svincolate le une dalle
altre e sono più esposte a fattori di mutamento irregolari. Insomma secondo Belardi il diverso
comportamento delle lingue del mutamento fonetico dipende anche dalla loro tipologia. Sempre secondo
Belardi la polemica pro e contro le leggi fonetiche almeno in parte è dipesa dal fatto che i rispettivi promotori,
indoeuropeisti e romanisti, si occupavano di lingue di tipologia diverse, quindi lingue diverse a livello
strutturale, con conseguente comportamento diverso anche a livello di mutamento linguistico. In termini
semplici, le parole delle lingue romanze, sul piano formale cambiano in modo più irregolare delle parole delle
lingue indoeuropee di prima generazione. Il fatto ha rilevanza per l’etimologia ma questo non autorizza a
tornare agli arbitri di Egidio Menagio. Le osservazioni e le descrizioni dei vari tipi di mutamento che sono
state fatte nel periodo scientifico della linguistica ci fanno capire che ci sono mutamenti possibili e mutamenti
impossibili, perché non hanno possibilità di essere giustificati nemmeno nel quadro dei mutamenti irregolari,
che in ogni caso comunque rientrano in un quadro. Si tratta di mutamenti non sistematici ma non per questo
astrusi.
Un mutamento astruso è quello presupposto dall’etimologia di ciurma data da Menagio. Questo esempio
viene da Baglioni, che definisce l’etimologia di Menagio molto semplice perché prevede solo un passaggio,
cioè quello da /t/ in /č/, passaggio che però davanti a /u/ si può considerare impossibile perché in italiano e
nelle lingue romanze non trova paralleli. L’etimo di ciurma è stato individuato nel lat. celeuma che indicava
una sorta di rito cadenzato rivolto tipicamente ai rematori. Nei lavori di forza in cui sono coinvolte più persone
e con sforzo alternato, allora questi sforzi devono essere alternati, come nella voga. Il celeuma era quindi il
grido cadenzato che dava il ritmo ai vogatori. Questo canto quindi li teneva insieme e veniva ripetuto dai
rematori stessi, per questo il nome è passato a indicare i rematori stessi. La parola è un grecismo κέλευ(σ)μα
che vuol dire ‘ordine, comando’ che a sua volta è un derivato del verbo κελεύω ‘comandare’.
Per ciurma l’etimo è sicuramente quello ma i dettagli fonetici dell’etimologia non sono affatto chiari. Baglioni
propone come definitiva la soluzione proposta da Fanciullo che propone sei passaggi (che pochi non sono)
ma che comunque sono plausibili. Lo stesso Fanciullo in ogni caso presentava la sua ricostruzione con qualche
incertezza e infatti non tutti i passaggi sono limpidi. Il lessico marinaresco spesso offre difficoltà all’etimologia
perché si compone di elementi eterogenei e perché si trova spesso in condizioni molto fluttuanti.
*kéleuma > *kéulema (metatesi) > *keúlema (spostamento dell’accento) > *kiúlema (chiusura di e atona) >
*kiúlma (sincope) > *ciulma (palatalizzazione di k) > ciurma (r > l)
Questioni di morfologia che nel testo di Baglioni sono trattate nel paragrafo 3.1.2. che è un paragrafo un po’
diverso da quello della fonetica perché non parla di come cambiano le parole, non discute i mutamenti delle
parole sul piano morfologico quindi non discute di morfologia in diacronia, che infatti non ha rilevanza per
l’etimologia. Qui si parla di morfologia in sincronia e come la morfologia in sincronia possa interessare
l’etimologia. In termini semplici, qui si dice che una spiegazione etimologica deve esser corretta non solo da
punto di vista fonetico ma anche dal punto di vista morfologico e specificamente anche dal punto di vista
della formazione delle parole. Per esempio se un etimo che si ricostruisce non è una parola semplice ma una
parola derivata bisogna verificare che la sua struttura rientri nelle regole di formazione della lingua cui l’etimo
si attribuisce. Come non succede spesso, qui si parla bene di Menagio e della sua etimologia di cascare che è
corretta. Infatti, casicare è una base del tutto plausibile.
È plausibile perché in latino sono attestati o ricostruiti verbi con una formazione simile a quella di casicare
cascare < *CĀSICĀRE cāsus ‘caduta’ + -icāre cioè basati su un nome a cui si unisce un suffisso verbale -icare.
Qui vediamo due esempi: caricare < CARRICĀRE (carrus); cavalcare < *CABALLICĀRE (caballus)
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Baglioni ricorda poi il caso di stravizio. In questo caso sono proprio le regole della formazione delle parole in
italiano a dirci chiaramente che la motivazione attuale vizio non può rispondere alla base etimologica di
stravizio. Infatti, il prefisso stra può unirsi solo ad aggettivi oppure a verbi e quindi non può unirsi a un nome
come vizio e infatti sappiamo questo essere un prestito dal croato. Da ultimo vediamo un altro esempio preso
dal libro di Baglioni, citato come caso in cui ha rilevanza l’osservazione di processi morfologici. L’esempio
riguarda la parola fico (in sett. Figo) aggettivo. L’etimo è quello derivato probabilmente dal sostantivo
femminile da cui poi deriverebbe l’aggettivo. Ed è questo l’etimo giusto. Michele Loporcaro ha dedicato a
questo aggettivo uno studio dettagliatissimo in cui cerca di dimostrare che l’etimo tradizionale (che
ribadiamo essere quello definito da Parenti) non è quello qui visto. Ma il suo etimo presenta dei problemi sul
piano sia semantico che morfologico e sintattico.
I problemi sul piano semantico consistono nel fatto che generalmente le designazioni delle parti sessuali
hanno usi metaforici spregiativi quindi sono usate come offesa, come nel caso del veneto mona. Sul piano
morfologico e sintattico i problemi sarebbero di due ordini: fico sembra proprio un aggettivo e non un nome;
ma in più, se gli aggettivi possono diventare facilmente dei nomi, è invece inusuale il contrario. in ogni caso
a Loporcaro non risulta che dai nomi femminili possano ricavarsi degli aggettivi. La spiegazione di Loporcaro
allora è quella che parte da un sonetto di Gioachino Belli, dove si trova un aggettivo al femminile ficaccia che
sarebbe la ‘medicina efficace’. Il sonetto si riferisce a una epidemia di colera scoppiata a Roma nel 1835. Ecco
allora la sua spiegazione: è nato prima ficaccio come deformazione popolare di ‘efficace’ già nel 1800.
Ficaccio poi avrebbe avuto una lunga vita sommersa perché non è più attestato fino a tempi recentissimi. Per
via della sua parte terminale reinterpretata come suffisso negativo, negli ultimi anni del Novecento ficaccio
sarebbe stato sentito come un derivato, e quindi da qui sarebbe stato ricavato fico come retroformazione. A
questa etimologia non ha creduto quasi nessuno. Uno dei pochi a crederci un po’ deve essere proprio
Baglioni, chi non ci ha creduto per niente è stato Marri. Col risultato che questa polemica ha trovato fortuna
sui giornali.
Loporcaro è tornato anche successivamente sulla questione e ha cercato di portare altri argomenti sulla
questione, ma senza successo. Infatti l’attestazione del Belli è troppo isolata e troppo legata al suo contesto
per poter aver condizionato la lingua a tal punto, senza contare che la forma ficaccia potrebbe anche essere
nata e morta lì.
Quanto al fatto che non risulti che i nomi possano comportarsi come aggettivi, questo non è affatto vero: ci
sono nomi cui si può tranquillamento associare un valore qualificativo, un valore tipico degli aggettivi. Qui
abbiamo degli esempi scelti dal greco classico, dove troviamo comparativi a partire dai nomi e non dagli
aggettivi. κύων, κύντερος, κύντατος. ‘cane, più cane, canissimo’, ecc.
E ci sono casi di nomi, esattamente di nomi femminili, che sono diventati degli aggettivi:
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C’è poi un caso molto simile al nostro: parliamo di ‘fesso’ che vuol dire ‘sciocco o sprovveduto’, dove anche
qui un sostantivo diventa aggettivo proprio a partire dalle parti genitali femminili.
L’etimologia di fico proposta da Loporcaro non è buona anche se lui continua a crederci. L’articolo è stato
pubblicato da una collana di studi curata dall’Accademia della Crusca. Questo però non vuol dire che
l’accademia accetti di fatto questa etimologia. Loporcaro non si occupa prevalentemente di etimologia, ma
di moltissime cose ed è uno studioso serissimo.
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LEZIONE 7
Riprendiamo il discorso sul cambiamento delle parole nel corso del tempo. In questa lezione ci occuperemo
dei cambiamenti che investono il piano del significato cioè il concetto. E ci occupiamo anche di qualche
mutamento in cui i due piani del significato e del significante sono strettamente connessi. Cominciamo dal
cambiamento semantico, cioè dai mutamenti che i segni linguistici possono subire sul piano del significato. Il
piano del significato è quello più difficile da descrivere, rispetto a quello del significante. Cerchiamo di capire
che cos’è il significato con riferimento al significato lessicale, cioè a quanto viene espresso da una parola
lasciando fuori eventuali informazioni grammaticali, per esempio le informazioni circa il numero o circa la
funzione sintattica della parola. Il significato non è l’oggetto cui una parola può riferirsi, che è chiamato
referente, ma è quindi un concetto. E il concetto può essere definito come un insieme omogeneo dei dati
dell’esperienza. Per esempio nel concetto ‘cane’ facciamo rientrare dati dell’esperienza che hanno molti
tratti comuni ma anche molti tratti diversi. Il significato dunque è un’astrazione e come tale a volte è difficile
da delimitare. E questo ha delle conseguenze sull’etimologia perché molte volte nell’etimologia si guarda più
alla forma che al significato, in altri termini, per un collegamento etimologico si guarda soprattutto al fatto
che vi sia corrispondenza sul piano del significante; sul piano del significato, che è più difficile da delimitare,
a volte ci si accontenta di approssimazioni e a volte le approssimazioni sono eccessive.
A questo problema, cioè al carattere approssimativo di alcune etimologie dal punto di vista semantico, lo
toccheremo nell’ultima parte del corso. Intanto vediamo la tipologia dei mutamenti semantici come
presentata nel testo di Baglioni. In questo testo vengono distinti tre tipi di mutamento semantico:
la distinzione è tradizionale e fa riferimento a concetti già individuati dagli antichi. I filosofi stoici sono stati i
primi ad occuparsi sistematicamente di grammatica e di etimologia e che aderivano alla concezione
naturalistica del linguaggio e sostenevano che le parole si conformano alla natura secondo quattro modalità,
tre delle quali corrispondono a quelle che abbiamo appena visto a proposito dei mutamenti semantici.
Di fatto, il mutamento semantico ha alla base una serie di procedimenti molto semplici e molto noti
corrispondenti a tre figure retoriche tradizionali. Il primo che vediamo, è il caso dei mutamenti semantici per
somiglianza ha alla base il procedimento della metafora:
la metafora è l’uso figurato di un’espressione per un’entità o un evento che ha una relazione di somiglianza
con l’entità o l’evento designato nell’uso proprio. Un esempio di metafora è la parola zucca, che designa un
ortaggio, ma ha anche un uso figurato mediante il quale si identifica la testa umana. L’uso figurato si bassa
sulla somiglianza delle due parti in causa, somiglianza data dalla forma approssimativa che è l’anello di
congiunzione, il tertius comparationis che individua la proprietà comune ai primi due. In qualche caso le
metafore si fissano, come è il caso del collo, usato per indicare anche il collo della bottiglia, che si capisce che
si tratta di un uso secondario, ma è stato ormai istituzionalizzato al punto che non abbiamo un altro modo
per dire ‘collo’ della bottiglia. Nella retorica classica un uso di questo tipo, cioè l’istituzionalizzazione di una
parola usata in un uso secondario e non in quello proprio è detto catacrèsi.
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Col passare del tempo quello che era il significato proprio di una parola si può perdere, mentre il significato
metaforico si mantiene. È il caso della parola testa, che in latino significa coccio di terracotta e che in italiano
indica propriamente il capo. Si è avuta insomma una metafora simile a quella di zucca, fondata sulla
somiglianza delle due entità in causa, il tertium comparationis è la forma tondeggiante e liscia. Questa
metafora è già della fase tardo latina, infatti già da qualche autore tardoantico la parola ‘testa’ è utilizzata
con il significato di ‘cranio’. Ausonio: Abiecta in triviis inhumati glabra iacebat testa hominis [...]. ‘giaceva
nella via il glabro cranio di un uomo insepolto’.
Il monte Testaccio a Roma è un rilievo artificiale piuttosto imponente e si chiama così perché si è formato in
epoca romana per via dell’accumulo di coccio di vasi di terracotta provenienti dal vicino porto fluviale. Quindi
deriva da testa nel suo significato latino, e non direttamente dall’italiano.
Passiamo ai mutamenti semantici per contiguità, che hanno alla base il procedimento per metonimia:
la metonimia è l’uso figurato di un’espressione per un’entità o un evento che ha una relazione di contiguità
con l’entità o l’evento designati nell’uso proprio. Vediamo un esempio: ci si può riferire a un’opera letteraria
indicando direttamente l’autore, “leggere Manzoni” piuttosto che “leggere i Promessi Sposi”. Questa è una
metonimia perché si usa un’espressione non con il suo significato proprio ma per indicare un’entità ad esso
contigua. Anche qui possiamo avere catacresi e possiamo avere la perdita dell’uso proprio della parola con
conservazione dell’uso figurato. Tibullo, Elegie I, 1, 6: dum meus adsiduo luceat igne focus. ‘purché il mio
focolare risplenda di fuoco perenne’. Tibullo ci mostra chiaramente la differenza tra ignis e focus e cioè il
primo ‘fuoco’ e il secondo ‘focolare’, che per metonimia è venuto però ad assumere il significato di fuoco e
infatti in italiano noi utilizziamo questo termine e non quello etimologico per ‘fuoco’. È successo che focus
ha quindi esteso il suo uso. Non solo in italiano questo, ma in tutte le lingue romanze. Vediamo altri due
esempi di mutamento per contiguità, uno è quello del lat. lucus ‘bosco’ ma che parte verosimilmente dal
significato di ‘radura nel bosco’. E l’altro è quello di ciurma che si parte dal grido rivolto ai vogatori che poi
passa a designare i vogatori stessi.
Passiamo al terzo tipo, ai mutamenti semantici per contrasto, mutamenti che hanno alla base il processo
dell’antifrasi, cioè del dire qualcosa con parole di significato opposto a ciò che si pensa. Abbiamo accennato
all’antifrasi quando abbiamo parlato delle etimologie a contrariis degli antichi e quando abbiamo citato il
caso del ‘… lucus a non lucendo’ di Servio. Quelle etimologie sono inverosimili ma l’antifrasi esiste davvero.
Si ha antifrasi quando si dice qualcosa con parole di significato opposto a ciò che si pensa. Da un altro punto
di vista nell’antifrasi le parole hanno un significato opposto a quello che hanno normalmente. Questo uso
non serve per ingannare, ma è un gioco scoperto e quello che si pensa è comunque evidente. L’antifrasi si
usa per due scopi principali: il primo è l’ironia, il secondo è l’eufemismo.
È sbagliato dire che ‘bravo’ è un caso di mutamento per contrasto: questa parola non ha un etimo limpido
ma verosimilmente discende dal latino barbarus. È un sostantivo e anche un aggettivo. L’altra spiegazione
cui accenna Baglioni è priva di fondamento. In ogni caso, è chiaro che qui si parte da un valore negativo e si
arriva in italiano a un valore positivo. È vero ma il mutamento di significato non dipende dall’antifrasi. Per la
spiegazione si deve partire da un uso metonimico di barbarus che avrebbe preso il significato di ‘selvaggio’ e
‘allo stato naturale’. Come mostrano le prime attestazioni romanze, questo aggettivo si è specializzato nel
riferimento ai cavalli ‘selvaggio nel senso di non domato’ e in questo modo ha perso la sua carica negativa
iniziale. Questo valore di selvaggio si conserva ancora in catalano, dove la parola si è generalizzata e si usa in
riferimento a molte altre cose, come per esempio ‘costa brava’, ovvero costa selvaggia.
Al significato attuale si è arrivati attraverso altri slittamenti di tipo metonimico: il valore di selvaggio è
contiguo a quello di ‘ardito, coraggioso’, che a sua volta è contiguo a quello di ‘valente e bravo’. Insomma le
correzioni a Baglioni sono due:
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1. pravus come etimologia di bravo si può abbandonare;
2. Il mutamento in causa non è per contrasto ma è metonimico.
Passiamo allora all’interazione tra piano formale e piano semantico. Ci sono dei casi in cui il mutamento di
una parola si può attribuire all’influenza di un piano sull’altro: in questi casi il mutamento è di un tipo che
somiglia a un mutamento analogico, perché come in quel caso si tratta di parole diverse che vanno ad
avvicinarsi. Un mutamento in cui i due piani interagiscono è quello detto incrocio lessicale, che consiste
nell’avvicinamento formale di una parola a un’altra semanticamente affine.
Es: l’aggettivo grave viene attratto da una forma affine dal punto di vista semantico, cioè da suo opposto
lieve. Gli opposti si implicano a vicenda e quindi sono affini. Questa attrazione produce una variante greve
che poi si specializza in un significato metaforico.
Es. lat. reddere > it. rendere. Questo succede perché la parola viene attratta da quella di significato opposto
che è lat. prehendere. Queste si incrociano formalmente andando a rispecchiarne l’aspetto.
Vediamo un altro tipo di mutamento che dipende dall’interazione tra piano formale e piano semantico.
Questo mutamento è chiamato etimologia popolare con un’espressione che è stata modellata sul tedesco.
Questa espressione è molto diffusa negli studi ma non è adatta a designare il fenomeno. Altri studiosi infatti
usano piuttosto il termine paretimologia che comunque non è adatto, perché in entrambi i casi si fa
riferimento alla nozione di etimologia che qui non è affatto in causa. L’etimologia popolare è un tipo di
mutamento linguistico ed è quindi un fenomeno linguistico, mentre l’etimologia è una attività di studio di
fenomeni linguistici. Quindi non possiamo confondere una attività di studio con il suo fenomeno.
Definizione di etimologia popolare: è il fenomeno per cui una parola viene collegata a un’altra di suono simile
(ma di origine diversa) andando a risultare da essa motivata e mutando perciò la sua forma oppure il suo
significato oppure entrambi. Si ha etimologia popolare quando una parola finisce per acquistare una
motivazione che dal punto di vista storico non è la sua.
L’etimologia popolare riguarda soprattutto i prestiti: questo per il fatto che nella lingua che gli accoglie i
prestiti in genere non sono motivati e quindi vengono attratti da altre parole e si verifica soprattutto quando
le parole hanno una certa estensione, cioè sono più corpose, cioè quando si tratta di parole tri-quadri
sillabiche, e questo perché di solito le parole più corpose sono derivate da altre più semplici e sono anche
motivate. Il fatto fa nascere l’esigenza di dare una motivazione anche a quelle parole corpose che una
motivazione non ce l’hanno. Per esempio, abbiamo qui una parola quadrisillabica maniscalco che vuol dire
‘addetto alla ferratura dei cavalli’. La parola risale alla lingua dei franchi, il fràncone, e passa attraverso un
tipo mariscalco. La prima parte di questa parola era opaca ed è stata resa più trasparente in modo inconscio
mediante un collegamento con la parola mano. fràncone *mahrskalk ‘addetto ai cavalli’ *mahr ‘cavallo’
*skalk ‘servitore’.
Un altro esempio, il caso del nome del gelsomino che risale all’arabo yāsamīn. Questa pianta è stata collegata
in modo inconscio al nome del gelso, che a differenza della pianta del gelsomino, non è una piana
ornamentale.
O ancora il caso di archibugio che risale al tedesco Hakenbüchse ‘arma da fuoco a gancio’. La prima parte
della parola è stata collegata al nome di un’altra arma, l’arco, che però con l’archibugio non c’entra niente. I
primi tre esempi che abbiamo visto comportano un mutamento sul piano della forma della parola. Vediamo
per ultimo un esempio in cui il mutamento riguarda sia il piano della forma che il piano del significato. Si
tratta di stravizzo. Il mutamento riguarda entrambi i piani perché cambia sia la forma che il significato.
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Torniamo alla questione della terminologia: l’etimologia popolare in sostanza consiste nel dare una
motivazione a una parola, una nuova motivazione che non corrisponde a quella originaria. Si tratta di un
fenomeno linguistico e non di etimologia, che è invece una pratica di studio. L’unica attinenza che l’etimologia
popolare ha con l’etimologia è il fatto che l’etimologia spesso da una motivazione alle parole nel senso che
porta a riconoscere la motivazione antica. Ma l’espressione di etimologia popolare rimane impropria e
fuorviante. Se allora vogliamo trovare un suo sostituto, un nome più adatto è quello di rimotivazione.
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LEZIONE 8
Passiamo alla quarta sezione del corso, che serve ad inquadrare il problema dell’etimologia in una
dimensione più ampia ed importantissima, che è quella storica. Abbiamo visto che le parole hanno una loro
storia interna, cioè le parole nel corso del tempo subiscono dei mutamenti che riguardano la loro forma o il
loro significato o entrambe. Questi sono i primi due aspetti di ogni problema etimologico. La storia interna
delle parole più tecnicamente può essere definita come diacronia, cioè come successione di fatti linguistici
nel tempo. La considerazione del mutamento formale e semantico rientra in una dimensione diacronica. Le
parole però hanno anche una loro storia esterna, specie per quanto riguarda il punto della loro genesi. Le
parole si formano in momenti storici diversi: ogni parola è legata a un particolare momento storico. Per
l’etimologia perciò è importante stabilire qual è il momento storico in cui una parola si forma e quali sono le
vicende che hanno portato alla sua formazione. In altre parole, un’etimologia deve tener conto della
dimensione propriamente storica non solo diacronica della parola esaminata. La ricerca etimologica quando
possibile deve individuare lo strato linguistico e il contesto storico in cui una parola si forma. Nel contesto
storico sono compresi anche i contatti di una comunità linguistica con altre, che hanno conseguenze per il
lessico di una lingua.
In questa lezione e nella successiva passeremo in esame la stratificazione del lessico italiano con particolare
attenzione per quelle componenti che sono più interessate dalla ricerca etimologica, quelle componenti che
hanno avuto cioè una storia più lunga e che per questo possono contenere parole di non immediato
riconoscimento da un punto di vista etimologico. L’argomento di questa sezione non è trattato in nessuno
dei libri di testo del corso.
La prima delle componenti del lessico italiano è quella latina, che è anche quella più estesa. Il lessico
fondamentale dell’italiano in massima parte dal latino e questo deriva dal fatto che tra italiano e latino c’è
una continuità storica. L’italiano si forma dal latino e rappresenta una sua evoluzione. Il latino è una lingua
sufficientemente nota, ma non del tutto, anche perché l’italiano e le lingue romanze discendono non dal
latino scritto ma da quello parlato, sicuramente diverso da quello scritto e che è quello che noi conosciamo.
Tra parlato e scritto c’erano delle differenze già in partenza, come è normale, e col tempo queste differenze
sono cresciute. Nel latino parlato probabilmente si era già largamente affermata la metafora ‘testa’ per
indicare il capo. E si era larghissimamente affermata la metonimia ‘focus’ per indicare il fuoco, tanto è vero
che ‘focus’ col valore di ‘fuoco’ ha dei continuatori in tutte le lingue romanze mentre di ignis non c’è traccia
da nessuna parte. Proprio per la loro vicenda parlata, alcune parole di origine latina quando compaiono per
la prima volta nelle lingue romanze hanno un aspetto che nasconde quasi del tutto la loro origine latina. Le
lingue romanze si affermano come lingue scritte nel medioevo avanzato, dopo vari secoli in cui si è continuato
a scrivere in latino anche quando ormai il latino si imparava solo dalle scuole e non più spontaneamente dalla
viva voce dei genitori. Qui vediamo una parola del lessico fondamentale italiano: andare. Questa parola è
una delle più tartassate dagli etimologi perché non può non derivare dal latino, però la sua base latina si può
dire irriconoscibile. Questa è infatti uno dei casi di etimologie complicate.
Torniamo a degli esempi semplici: questa serie mostra un mutamento fonetico regolare che si riscontra nel
passaggio dal latino all’italiano, si tratta del mutamento della consonante occlusiva bilabiale sonora in
fricativa dentale sonora in posizione intervocalica. Le fricative sono dette anche spiranti, quindi questo
mutamento prende il nome di spirantizzazione.
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CEREBELLUM (dim. di cerebrum) > cervello; CUBĀRE ‘giacere’ > covare; DEBĒRE > dovere; FĀBULA >
favola; TABULA > tavola
Vediamo questi casi per vedere ora quand’è che in italiano abbiamo invece il caso di una occlusiva bilabiale
sonora sempre in posizione intervocalica: vediamo il caso di tabella che è un prestito. Il latino infatti rispetto
all’italiano si trova anche nella posizione di lingua che fornisce prestiti. In italiano, in sostanza, accanto al
lessico di origine latina che è formato da parole popolari, di tradizione diretta, c’è un lessico di origine latina
formato dai testi scritti di tradizione indiretta. Questo perché il latino pur non essendo più lingua appresa dai
genitori è sempre rimasta come lingua studiata e scritta in tutti gli ambiti e a tutti i livelli. I testi latini cioè
hanno continuato ad essere letti e a essere studiati e in latino si scrivevano sia testi letterari che testi pratici
come testi liturgici. Insomma il latino è sempre rimasto presente come modello linguistico.
Tabella è una parola che appartiene a questo secondo insieme all’interno del lessico di origine latina. È una
parola presa dai testi scritti, quindi non una parola popolare ma di tradizione dotta.
Vediamo altri due esempi: debole e nobile. La presenza in queste parole di una occlusiva bilabiale sonora
denuncia chiaramente il loro caratteri di prestiti dal latino, si tratta cioè di parole dotte.
Vediamo altri esempi. Nelle parole di tradizione diretta, cioè popolare, il nesso -TI- seguito da vocale presenta
un fenomeno detto assibilazione e passa a una consonante affricata lunga -ZZ-. Per esempio: PALĀTIUM >
palazzo; PRETIUM > prezzo ; (tītio, -ōnis) TĪTIŌNEM > tizzone
Nel caso invece di STATIO -ŌNIS → stazione ci troviamo di fronte a un prestito perché l’esito non è
propriamente -ZZ- ma è -ZI-, quindi anche questa è una parola dotta.
Nelle parole di tradizione popolare la consonante laterale dentale -L- dopo occlusiva bilabiale -P- passa a semi
consonante PL > pj con un fenomeno detto palatalizzazione. PLATĔA > piazza; PLĒNUS > pieno; PLUERE >
piovere; PLUVIĀLIS → pluviale parola dotta = prestito.
Nelle parole di tradizione popolare diretta la voc. Ĭ > [e], fenomeno che provoca l’apertura o abbassamento
della vocale. Quindi abbiamo casi del tipo: PIRUS > péro; VIDUA > védova; (nix, nivis) NIVEM > néve;
NIVEUS → niveo è parola dotta = prestito.
Nelle parole di tradizione popolare diretta, il dittongo AU > o, fenomeno chiamato monottongazione.
Esempi: PAUCUS > poco; TAURUS > toro; AURUM > oro; AUREUS → aureo è parola dotta = prestito.
In italiano poi non sono rari i casi in cui una stessa base ha due esiti diversi, uno popolare e uno dotto. Le
parole che si trovano in una relazione di questo genere si chiamano allotropi.
Desco disco
Vezzo vizio
Pieve plebe
Cosa causa
Il termine allotropo è stato introdotto da Ugo Angelo Canello che lo ha ripreso dalla terminologia della
chimica. Definizione del termine: in una lingua, due o più parole che condividono l’etimo ma sono diverse sul
piano formale e semantico.
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Vediamo una per una le quattro forme di allotropi e per mettere in evidenza un fatto generale:
Le parole di tradizione popolare sono più distanti dall’etimo sia nella forma che nel significato. Questo
dipende dal fatto che le parole di tradizione popolare hanno avuto una trafila parlata che ne ha modificato
regolarmente la forma e ha comportato anche qualche modifica del significato. Lo stesso non succede alle
parole di tradizione dotta che fanno un salto diretto dal latino scritto all’italiano.
1. Discus > ‘disco’. Designa un oggetto rotondo. Nell’allotropo di tradizione popolare ‘desco’ il
significato è cambiato e si è trasferito per metafora ad indicare un altro oggetto, in primo luogo una
tavola rotonda. La vocale tonica si è regolarmente abbassata. Nel caso di ‘disco’ la vocale tonica non
si è abbassata e il significato rimane lo stesso.
2. Vitium > ‘vizio’. Nel suo allotropo popolare ‘vezzo’ mostra cambiamenti sia nel significato, (cattiva)
abitudine, che nella forma, in cui si verificano sia un abbassamento della vocale tonica che
l’assibilazione; dall’altra abbiamo un allotropo di tradizione dotta che è più fedele al latino sia per il
significato che per la forma.
3. Plebs, -is > ‘plebe’. Nella sua forma popolare, l’allotropo cambia sensibilmente il suo significato in
‘chiesa, circoscrizione ecclesiastica’ probabilmente a partire dall’identificazione della plebe con la
cerchia dei fedeli, per passare poi al luogo di riunione dei fedeli; così come subisce mutamenti del
tipo della palatalizzazione e della spirantizzazione. Nulla da dire per il suo allotropo dotto che resta
fedele al latino.
4. Causa > ‘causa’. L’allotropo popolare ‘cosa’ è cambiatp decisamente nel significato, ‘oggetto’, ed è
cambiato nella forma perché presenta monottongazione in /o/ del dittongo /au/. Nulla di tutto ciò è
avvenuto per il suo allotropo dotto.
5. Examen > ‘esame’. L’esito popolare riprende il significato concreto ‘sciame’, attestato già in latino; e
questa parola in più ha subito l’aferesi di /e/ e la palatalizzazione del nesso /ks/ > /sc/; il suo allotropo
dotto ha invece assunto il significato astratto di ‘esame’, anche questo già attestato in latino e mostra
minimi adattamenti formali con partenza dalla pronuncia scolastica.
Facilis > facile. Questa è una parola dotta. In italiano le parole dotte dal latino sono moltissime, perché si è
detto già che il latino ha esercitato la sua influenza come lingua di cultura per secoli. I casi di allotropia non
sono rari ma sono ancora più numerosi i casi in cui le parole dotte sono prive di corrispettivo popolare.
Bisogna anche dire che di queste forme dotte alcune delle più antiche non si distinguono facilmente dalle
parole di tradizione diretta. Questo perché la forma di una parola a volte non è diagnostica per stabilire se la
parola stessa sia di tradizione diretta o indiretta. Cioè ci sono parole prive di elementi che la caratterizzino
come parole popolari o come parole dotte. Come è per ‘facile’ che deriva da facilis. Ma da facilis si può
arrivare a ‘facile’ sia per tradizione diretta che per tradizione indiretta.
Che ‘facile’ sia una parola dotta di tradizione diretta ce lo dicono due elementi esterni: il primo è il fatto che
‘facile’ compare più tardi rispetto a una parola che ha il suo stesso significato. In precedenza si usava infatti
l’aggettivo ‘agevole’, che la tradizione mostra essere di origine popolare, e che in parte con il tempo viene
sostituito proprio da ‘facile’. L’altro elemento è il confronto proprio con un’altra lingua romanza, il francese,
dove il corrispondente facile compare più tardi ancora e ha un accento diverso da quello del latino, cosa che
dimostra la sua trasmissione non orale ma scritta. Se la parola si fosse tramandata oralmente avrebbe
presentato altre modifiche ma avrebbe mantenuto l’accento originario. In antico, insomma, questa parola
deve essere caduta in disuso nel parlato e deve essere stata evidentemente recuperata nei testi scritti.
Dallo strato latino naturalmente nascono altre parole, ma in una fase che non è più latina. Es. la parola
‘occhiali’ nasce in fase italiana ma a partire da una parola del lessico fondamentale ‘occhio’ di origine latina.
La parola ‘occhiali’ è una parola motivata, cioè trasparente nella sua formazione. Dei casi come questo
normalmente l’etimologia non si occupa. Intorno a questa parola in realtà qualche domanda si può fare, per
esempio di tipo etimologico: ci si può chiedere quando sia nata, ponendosi un problema di storia esterna, e
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ci si può chiedere quando si sia arrivati a questa forma, che è evidentemente secondaria visto che si tratta di
un aggettivo sostantivato. Quanto alla storia esterna, si può dire qualcosa grazie ai documenti. Per esempio
in una predica di un domenicano pisano del primo Trecento troviamo una informazione che ci permette di
datare almeno approssimativamente la parola. Giordano da Pisa nel 1306 dice che “Non è ancora venti anni
che si trovò l’arte di fare gli occhiali, che fanno vedere bene, ch’è una de le migliori arti e de le più necessarie
che ’l mondo abbia, e è così poco che si trovò: arte novella, che mai non fu”.
Per la questione della forma, che si dice essere un aggettivo sostantivato, bisogna considerare che questo
comporta spesso l’omissione di un nome. Nel caso di occhiali, deve essere il plurale ‘vetri’, come si desume
da questa testimonianza di Filippo Baldinucci: “[...] da quel punto congegnatosi da quella parte un simil vetro
occhiale, quello poi tenne sempre fino all’età di 68 anni ch’ei visse, senza mai portare altri occhiali”.
La parola ‘occhiali’ insomma viene da ‘vetri occhiali’, con omissione del nome e con trasferimento del suo
significato sull’aggettivo. I casi di questo genere sono classificati come ellissi: si tratta di uno dei mutamenti
semantici per contiguità. (cfr. testo Baglioni). Il caso di occhiali nella sua semplicità ci aiuta a capire alcune
delle difficoltà dell’etimologia. Vediamo il confronto con le altre lingue:
Gli inglesi infatti arrivano a ‘glasses’ con un processo diverso rispetto a quello dell’italiano. In inglese si usa
una metonimia, arrivando a definire gli occhiali sulla base del materiale di cui sono costituiti.
In francese invece al nome degli occhiali si arriva per metafora: lunettes è un derivato di lune ‘luna’ per via
della forma che le lenti hanno.
Questo caso ci serve a capire una delle difficoltà dell’etimologia: abbiamo visto che al nome di uno stesso
oggetto si può arrivare in più modi. Alla base di una designazione si possono avere motivazioni diverse, quindi
non esistono motivazioni determinate da cose necessarie o automatiche. La motivazione non è determinata
da niente di necessario e automatico e per questo motivo quando la motivazione di una parola è perduta,
anche la sua ricerca e la sua individuazione non ha niente di automatico.
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LEZIONE 9
In questa lezione riprendiamo il discorso sulla stratificazione del lessico italiano prendendo in esame le
principali componenti non latine. Il discorso parte delle lingue germaniche, il cui apporto al lessico italiano è
precoce e piuttosto notevole. Sulla cartina si vedono le migrazioni di popoli germanici che hanno
caratterizzato il mondo tardoantico e che vanno sotto il nome di invasioni barbariche. Il nome naturalmente
riflette il punto di vista romano. L’impero romano si è disgregato a causa di queste migrazioni armate e che
hanno cambiato profondamente l’assetto politico dell’Europa occidentale influenzando in modo sensibile
anche il suo assetto linguistico.
L’apporto lessicale germanico all’italiano e in generale alle lingue romanze è stato studiato da Ernst
Gamillscheg, autore di un’opera importante sull’argomento, in tre volumi, pubblicata dal 1934 al 36,
Romania Germanica cioè relativa ad elementi germanici nelle lingue romanze. È un’opera che tende un po’
a esagerare questa componente ma da comunque un quadro chiaro dell’apporto germanico alle lingue
romanze.
I primi elementi germanici che si trovano nelle lingue romanze risalgono verosimilmente a un periodo
precedente alla caduta dell’impero romano d’occidente (476 d.C.) il motivo dell’ingresso di questi elementi
è che nell’ultimo periodo dell’impero romano d’occidente l’esercito imperiale contava su una massiccia
presenza di truppe germaniche. Una delle parole che si ritengono appartenenti a questo primo strato è elmo,
che non è assegnabile a una lingua germanica specifica.
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La situazione è la stessa per l’aggettivo fresco, che ha corrispondenze in tutte le altre lingue romanze, a parte
il rumeno, e che è rimandato a un germanico occidentale non specificato frisk.
Tra i primi elementi di origine germanica si pensa ci sia anche il verbo guardare perché legato all’ambito
militare. Il suo primo valore era infatti ‘osservare’ affidato al verbo germanico wardon.
Un’altra parola di origine germanica, probabilmente già penetrata nel latino del tardo impero è guerra, che
è una parola presente in italiano e ha corrispondenti in tutte le principali lingue romanze, a parte il rumeno.
Guerra si rimanda al germanico occidentale *werra, che a sua volta è una parola ricostruita e che si ricollega
al verbo presente in tedesco con il significato di ‘scompigliare’
Apriamo una piccola parentesi sugli adattamenti formali che mostrano alcuni degli elementi germanici: per
gli ultimi due esempi vediamo che le parole germaniche contengono una consonante approssimante
labiovelare /w/. Questo suono non viene riprodotto tale e quale nelle lingue romanze ma viene trasformato
in un nesso labiovelare /gu/, almeno inizialmente. Questo fa capire che nel latino tardo quel suono non
esisteva, o meglio ci fa capire che nel latino tardo quel suono non esisteva più, o quasi.
Nel latino classico, la consonante in questione, l’approssimante labiovelare, esisteva in realtà, e nella grafia
era indicata dalla lettera V, che serviva anche ad indicare il suono /u/ che ha un suono molto simile ma è una
vocale e non una consonante. Quindi V indicava sia /u/ che /w/. Per cui la parola che ora leggiamo /vinum/,
in latino classico aveva il suono /winum/. Lo testimoniano le iscrizioni romane. Nel latino tardo, però, i due
suoni divergono e la consonante approssimante labiovelare /w/ passa a fricativa labiodentale sonora /v/. per
cui in latino tardo passiamo da /’wi:num/ a /’vi:nu/. Insomma, nel latino tardo il suono /w/ si è trasformato
e non è più presente, e questo è il motivo per cui le parole germaniche con questo suono /w/ vengono
adattate con un suono diverso che è /gu/.
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Probabilmente, però la trasformazione non era del tutto completata, perché ci sono casi sporadici di parole
latine che mostrano la stessa evoluzione di parole germaniche. Una di queste parole è guado che risale al
latino vadum e che appunto diventa guado come le parole germaniche. Questo è un caso di mutamento
fonetico non regolare e si pensa che l’irregolarità di mutamento di queste parole latine si debba a un influsso
germanico.
Vediamo le singole lingue germaniche: prima di tutto va fatta una puntualizzazione. Le lingue
germaniche che hanno influenzato le lingue romanze nella fase della loro formazione sono tutte estinte. Cioè
sono state più o meno rapidamente assorbite dalla lingua parlata dalla maggioranza della popolazione che
era comunque il latino, un latino che si era già differenziato a livello locale e oramai si avviava decisamente
verso la fase romanza. Queste lingue germaniche ormai estinte sono note solo in modo imperfetto o
indiretto, perché nella maggior parte dei casi non sono state utilizzate per documenti scritti. L’unica lingua
germanica che ci interessa di cui abbiamo documenti scritti è il gotico, di cui ci rimane parte della traduzione
della Bibbia e qualche altro piccolo testo.
Vediamo una cartina che descrive la situazione politica alla fine del V secolo d.C., dopo la caduta dell’impero
romano d’occidente. Alla fine del V secolo, quello che era stato l’impero romano d’occidente è diviso in piccoli
regni guidati da minoranze germaniche. La Francia settentrionale era controllata dai Franchi, che parlavano
il francone, una lingua germanica vicina ai dialetti basso tedeschi; un settore orientale della Francia era
controllato dai Burgundi, che parlavano una lingua simile al gotico; un ramo dei Goti, quello dei Visigoti, i Goti
occidentali, controllava la Francia meridionale e buona parte della penisola Iberica, dove a nord erano
insediati i Suebi; i Goti orientali, gli Ostrogoti, controllava buona parte dell’Italia e i territori attigui.
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Il dominio gotico in Italia si estende per pochi decenni: comincia nell’anno 493 (e finisce nel 553), quando il
re degli Ostrogoti, Teodorico, depone Odoacre e prende ufficialmente controllo dell’Italia su incarico
dell’imperatore romano d’Oriente. Una delle parole rimaste in italiano che sono entrate nel basso latino di
quell’epoca è albergo che prima indicava l’alloggiamento dei soldati. È una parola lasciata dagli ostrogoti
*haribergo. Altra parola gotica in italiano è banda, anche questa di ambito militare. La matrice gotica qui è
attestata e si trova infatti nella Bibbia con il significato di segno. È passata poi a indicare l’insegna militare e
con questo significato, per metonimia, la parola è stata trasferita ad indicare un gruppo di soldati accomunati
da una insegna. Il verbo guidare rimanda al gotico *widan, ‘indicare’, e questo esempio ci mostra l’esito /gu/
a partire da /wu/, esito che abbiamo appena visto.
In Italia il dominio gotico ebbe una breve durata, perché l’Italia e altre parti di quello che era stato l’impero
romano d’occidente furono immediatamente riconquistate dall’impero bizantino. L’impero bizantino si era
mantenuto e la sua capitale era Costantinopoli. L’imperatore bizantino che decise la riconquista era
Giustiniano. La guerra mossa dai suoi generali contro i goti prende il nome di Guerra greco-gotica che fu
lunga e ferocissima e portò a un forte spopolamento dell’Italia. Per un certo periodo insomma l’Italia fu
interamente sotto il controllo dell’impero bizantino. La lingua dell’impero bizantino era il greco e a questo
periodo infatti si datano alcune parole di origine greca tutt’ora presenti in italiano o nei dialetti italiani. Le
maglie dell’amministrazione bizantina in Italia erano molto strette per motivi fiscali, e proprio a causa di
questo stretto controllo bizantino, le parole di origine greca databili a questo periodo appartengono alla
lingua dell’amministrazione: le parole greche di questo periodo sono dette bizantinismi. Uno di questi
bizantinismi è polizza, che ha una forma che testimonia la sua provenienza dal greco in una fase tarda.
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Alcuni bizantinismi non sono propri della lingua italiana ma si trovano nei dialetti, in particolare in zone dove
la presenza bizantina è stata più forte e più duratura. Zona dell’esarcato di Ravenna, che era la sede
dell’esarca, cioè il rappresentante dell’Imperatore Romano d’Oriente in Italia. E poi anche nella zona della
pentapoli, che è appunto un nome greco, che indica l’area in cui si trovano le cinque città di, Rimini, Pesaro,
Fano, Senigallia, Ancona. Un bizantinismo dialettale è per esempio delma che vuol dire ‘modello, forma,
misura’ attestato solo nell’Emilia Romagna e nelle Marche settentrionali. In antico è documentato a Ravenna
e altrove con il valore di ‘misura legale’ cioè misura di riferimento nella produzione di una determinata merce.
A Verona la parola è attestata con il valore di ‘forma per la produzione per le scarpe’. Il punto di partenza è
una forma a sua volta dialettale del greco che vuol dire appunto ‘modello’. δεῖγμα > δείκνυμι = indicare.
Un altro bizantinismo è ‘bottega’, almeno nella sua variante dialettale ‘bottiga’, che è attestato nelle marche
settentrionali e in Umbria. La forma ‘bottiga’ riflette la pronuncia bizantina del greco, dove la /ē η/ è passata
ad /i/ = iotacismo.
Il controllo bizantino dell’Italia viene fortemente ridimensionato a partire dall’anno 568, che è l’anno in cui
entra in Italia un’altra popolazione di lingua germanica, i longobardi. Nel giro di pochi anni i Longobardi
assoggettano gran parte dell’Italia (quella verde), altre restano sotto il controllo bizantino (viola) e
comprendono l’esarcato di Ravenna, la pentapoli, parte dell’Umbria e del Lazio, le isole e la parti meridionali
della Calabria e della Puglia.
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Nell’Italia settentrionale il dominio longobardo si mantiene fino al 774, quando questo territorio verrà
conquistato dai Franchi di Carlo Magno. Nasce in questo periodo il nome Longobardia ‘regno dei longobardi’
per indicare l’Italia Settentrionale. Il nome diventerà il nostro Lombardia. In contrapposizione, per la zona di
Ravenna nasce Romània, la ‘terra dei romani’, cioè appartenente all’impero bizantino, da cui si arriva a
Romagna. Le parole italiane di origine Longobarda sono più numerose di quelle di origine gotica. Alcune di
queste rimandano ancora all’ambito militare, per esempio la parola tregua, che risale al longobardo *trewwa,
la cui prima attestazione si trova scritta in latino nelle Leges Labgobardorum (sec. VIII).
Alla lingua dei longobardi, di cui non ci rimane ricordo neppure un testo scritto, si assegna l’origine della
parola staffa che ha un corrispettivo in tedesco seppur con un significato un po’ diverso. A questo proposito
conviene ricordare che in antichità in Europa la staffa non era conosciuta, i greci e i romani non le usavano,
e questo limitava molto l’uso in guerra dell’animale. La staffa è una innovazione tecnica che viene dall’Asia e
nel mondo occidentale è stata introdotta nella tarda antichità proprio per tramite delle popolazioni
germaniche.
Un altro longobardismo presente in italiano è la parola guancia, che pure attesta l’esito /gu/ a partire dal un
germanico /w/. La parola corrisponde al tedesco Wange.
Vediamo poi zanna che indica i denti sporgenti di alcuni animali. La parola assomiglia al tedesco Zhan, ‘dente’,
e ci assomiglia proprio perché di origine longobarda. A questo proposito notiamo che sulla base di quello che
ci mostrano le parole longobarde entrate in italiano si può affermare che il longobardo era un dialetto
germanico per certi aspetti molto simili al tedesco. Uno di questi aspetti è il mutamento delle consonanti
occlusive che interessa i dialetti alto tedeschi e che si chiama seconda mutazione consonantica per
distinguerlo dalla prima mutazione consonantica che riguarda tutto il tedesco. Il mutamento in questione è
quello che distingue per esempio il tedesco zehn dall’inglese ten o il tedesco Zahn dall’inglese tooth. Il caso
riguarda in questo caso una consonante originariamente occlusiva sorda, ma riguarda parzialmente anche le
consonanti occlusive sonore. Bindan in alto tedesco antico (ma non nel tedesco letterario moderno) mostra
il passaggio da occlusiva sonora a occlusiva sorda > pintan/pinden.
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Panca insieme a banco risale a un’altra lingua germanica, il francone, che era una lingua vicina ai dialetti
basso-tedeschi e quindi non presenta la seconda mutazione consonantica.
Stessa situazione per l’italiano palla che è un longobardismo e mostra la seconda mutazione consonantica
per il suono iniziale.
La parola longobarda che sta alle spalle dell’italiano balla discende dalla stessa base da cui deriva il francone
balla, che attraverso l’antico francese entra poi nell’italiano nella forma balla. La parola francone ovviamente
non è toccata dalla seconda mutazione consonantica.
Veniamo ai franchi: nella seconda metà del V secolo sono insediati nella zona del colore verde scuro e da lì
cominciano una espansione che nel giro di pochi decenni li porta a controllare prima la Francia settentrionale
e poi quasi tutta la Francia con anche altri territori limitrofi. Più tardi, con Carlo Magno, nell’VIII secolo, il
regno dei Franchi si estende molto e arriva a inglobare anche l’Italia settentrionale mettendo fine al regno
dei longobardi in questa parte d’Italia. Nell’Italia centro-meridionale la loro influenza si mantiene più a lungo
ma loro lingua si estinguerà comunque ben presto, se non si era già estinta. In Francia la componente
francone è molto numerosa e sopravvive più a lungo, ma già ai tempi di Carlo Magno buona parte dei franchi
probabilmente parla una lingua che si può chiamare francese, cioè neolatina. Gli elementi franconi che
entrano in italiano perciò in buona parte sono di mediazione francese.
Alcuni elementi franconi in realtà arrivano all’italiano attraverso la lingua dell’amministrazione che è il latino.
Una parola che abbiamo già visto, il francone fieu che significava ‘ricchezza’ prende allora il valore di
‘proprietà’, ‘patrimonio’, e attraverso il suo adattamento latino feudum entra in italiano come feudo.il feudo
è una istituzione tipica dei franchi.
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Altra parola che si diffonde in questo periodo è guiderdòne, che significa ‘compenso’. Anche guidardone
deriva dall’adattamento del latino giuridico di una parola francone *widerlon:
Molte parole però arrivano in Italia attraverso la lingua parlata dai franchi, che era prevalentemente già il
francese. Una di queste parole è probabilmente guanto che risale al francone probabilmente attraverso il
francese. Questo è probabilmente uno dei primissimi prestiti dal francese, prestiti che continueranno per
secoli fino a tempi molto recenti. I prestiti francesi e occitani in italiano sono detti prestiti gallo-romanzi in
quanto provenienti da lingue romanze situate in aree anticamente abitate dai galli.
Un altro esempio di prestito galloromanzo e specificamente francese di origine francone è usbergo. Parola
che indica una parte dell’armatura e che originariamente indicava una protezione per il collo, usato ora solo
metaforicamente in senso di ‘protezione’, ‘difesa’.
Questo esempio è in ultima analisi di origine francone ma si può considerare un prestito gallo-romanzo.
Proseguiamo allora con i prestiti gallo-romanzi e specificamente francese ma non necessariamente di origine
francone.
Molto significativo è questo: mangiare. La parola in italiano è di origine latina, perché deriva dal lat.
manducare. Ma la sua fonetica ci dice che c’è stato un tramite francese. Infatti da manducare non si arriva a
mangiare in nessuno dei dialetti italiani, ma solo in francese. Una parola del lessico fondamentale in italiano
è un prestito dal francese e questo dimostra quanto sia stata forte e profonda l’influenza del francese
sull’italiano. Un esempio simile è quello per parlare, che entra in italiano sicuramente dal francese e la prova
sta proprio nei fatti fonetici: si parte da un verbo ricostruito *parabolare < parabola verbo che può avere
questa riduzione fonetica solo in francese.
Vediamo un altro esempio, che abbiamo trattato già nella prima lezione. Si tratta di razza > haraz, haras che
dal francese antico vuol dire ‘allevamento di cavalli’. Abbiamo detto che la parola probabilmente è stata
portata nell’Italia meridionale dai normanni, una gente anch’essa di origine germanica ma ormai
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francesizzata, insediata in una regione della Francia settentrionale che da loro prende il nome, cioè la
Normandia. Tra il XI e il XII secolo i normanni sono stati padroni di tutta l’Italia meridionale e della Sicilia e in
quelle terre hanno introdotto parole della loro lingua, che era il francese. Altri elementi francesi sempre
nell’Italia meridionale sono entrati successivamente con la dominazione della dinastia francese degli
Angioini. Uno dei lasciti di questa dominazione è probabilmente la parola dialettale ‘uaglione’, tipica del
napoletano e di altre parlate meridionali. Verosimilmente ‘guaglione’ deriva dal francese antico gaaigneor
‘coltivatore’ di origine per l’appunto francone. La parola è imparentata con il verbo ‘guadagnare’ ed è
evidentemente un germanismo. Questa etimologia di guaglione è stata proposta da Fanciullo.
Rimane da trattare un altro insieme di prestiti: i prestiti in italiano di origine araba. L’arabo è parlato ormai
in molte varietà in aree molto estese. La sua grande diffusione è il frutto della sua prima grandissima
espansione che partì dalla penisola araba nel VII secolo. Più tardi, l’espansione raggiunge la Sicilia, che era
sotto l’impero bizantino. Il primo sbarco arabo è dell’anno 827 e il dominio arabo in Sicilia si mantiene per
oltre due secoli e mezzo. Alla fine dell’XI secolo la Sicilia viene conquistata dai normanni. Nel 1072 i normanni
prendono Palermo e l’ultima roccaforte araba cade nel 1091. La presenza araba in Sicilia ha avuto
conseguenze per il dialetto siciliano, con l’ingresso di numerosi elementi arabi nella parlata dell’isola. Questi
elementi però non entrano in italiano. Maggiori conseguenze linguistiche per l’italiano e per le lingue europee
ha avuto invece la conquista islamica della penisola iberica, che inizia nell’anno 711 e mette definitivamente
fine al regno dei visigoti. Infatti, i prestiti arabi in italiano sono entrati attraverso due filoni, il primo dei quali
è costituito da prestiti indiretti di carattere dotto. Questo primo filone parte proprio dalla penisola iberica.
La conquista islamica della penisola iberica è molto rapida e molto estesa e comporta la presenza pervasiva
della lingua araba. Questa presenza con il tempo si riduce e poi si annulla a cominciare dalle regioni
settentrionali della penisola, da dove parte la cosiddetta ‘reconquista’. Nelle parti centrali e meridionali però
la presenza araba si mantiene a lungo, il regno di Granada si mantiene fino al 1492. La presenza araba aveva
comportato l’arrivo nella penisola anche della cultura araba e anche dei testi scientifici arabi, molti dei quali
erano testi in traduzione di originali greci passati prima attraverso una traduzione in siriaco.
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La città di Toledo, dopo la riconquista cristiana del 1085 diventa un centro di traduzione di testi scientifici
arabi in latino. Il processo di traduzione era piuttosto elaborato, di solito il traduttore era un letterato ebreo
che conosceva l’arabo ma non il latino. Questo letterato ebreo dava una traduzione orale del testo in volgare
romanzo e un altro letterato cristiano metteva per iscritto quello che il primo diceva, in latino. Queste
traduzioni in latino contenevano ovviamente molti termini arabi. La diffusione di queste traduzioni nel XII e
nel XIII secolo ha portato alla diffusione di questi termini nelle lingue europee. Il passaggio perciò è mediato
attraverso il latino medievale che a sua volta rende una traduzione del volgare romanzo della penisola iberica.
Alcuni dei termini di questo primo filone di arabismi, che è un filone dotto:
altro arabismo tecnico del filone dotto è alchimia che in ultima analisi è una parola del greco bizantino,
precisamente è il nome dell’Egitto in greco bizantino passato attraverso l’arabo e poi attraverso il latino
medievale.
Si sarà notato che questi arabismi iniziano tutti con al: si tratta dell’articolo determinativo arabo, che passa
come prestito insieme al nome. Nei prestiti di questo filone il mantenimento dell’articolo determinativo è un
fenomeno costante e si deve al fatto che questo fenomeno si verifica nei prestiti arabi che entrano nelle
lingue ibero-romanze. Vediamo un esempio: in arabo esiste la parola quasr che significa ‘castello’ o ‘palazzo’
e che in origine evidentemente ‘palazzo fortificato’. Questa parola risale al latino castrum ed è entrata in
arabo tramite il greco bizantino. La parola araba entra in spagnolo ed entra portando con sé l’articolo
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determinativo. In spagnolo esiste alcàzar che vuol dire ‘fortezza’ e che è entrato nel nome proprio di alcuni
palazzi storici, come il Real Alcàzar di Siviglia.
La parola araba è entrata come prestito anche in italiano, in questo caso direttamente dall’arabo e non per
tramite ibero-romanzo. Questo prestito in italiano indica una parte sopraelevata della nave cassero, detta
anche ‘castello’. Questa però non mantiene l’articolo determinativo arabo. Con la parola ‘cassero’ siamo
passati all’altro filone degli arabismi dell’italiano, quello che dipende da contatti diretti con il mondo arabo
in epoca medievale. Si tratta di contatti soprattutto di tipo commerciale, che hanno avuto luogo tramite
l’attività delle repubbliche marinare di Pisa, Genova e Venezia che avevano relazioni con i porti mercantili del
mondo arabo.
Per esempio il fondaco, che deriva direttamente dall’arabo funduq che a sua volta viene dal greco bizantino
pandokheion. La parola araba passa anche nelle lingue ibero romanze dove si vede che mantiene l’articolo
determinativo. Vediamo poi la parola darsena che deriva dall’arabo dar as-sina che vuol dire letteralmente
‘casa di costruzione delle navi’. La parola passa attraverso l’attività dei mercanti e dei marinai di Pisa.
Anche cotone è un arabismo diretto: possiamo notare che in spagnolo, portoghese ma anche in occitano
l’articolo arabo si mantiene.
Dogana è un termine ovviamente legato al commercio: un arabismo che parte dal persiano, dove ha la forma
*duwana e significa in primo luogo ‘cancelleria’.
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La parola persiana appena vista richiama anche la parola divano, da cui deriva ma con un percorso diverso,
perché è entrata in italiano attraverso il turco-ottomano. Il turco ottomano è una lingua molto diversa
dall’arabo parlata comunque da una popolazione di religione islamica, i turchi-ottomani, che tra il Trecento
e il Quattrocento ebbero una larga fortuna in Asia Minore e poi nei Balcani, arrivando alla formazione di un
impero. Per molto tempo l’impero ottomano sarà una minaccia per l’Europa occidentale, ma dalla lingua dei
turchi-ottomani arriveranno a noi anche alcune parole importanti, come ‘divano’.
Strati meno recenti del lessico italiano sono importanti perché è lì che si colloca buona parte delle parole
italiane di etimologia complicata. Più la parola è antica e meno il suo etimo è riconoscibile, perché la parola
ha avuto più tempo per trasformarsi nella forma e nel significato. Le parole che entrano in italiano in tempi
più recenti di solito non sono interessanti dal punto di vista etimologico, perché molto spesso sono
neologismi oppure sono prestiti da lingue molto note. Questo non significa però che le parole che compaiono
più tardi in italiano siano tutte semplici dal punto di vista etimologico. Le parole che entrano in italiano in
tempi recenti possono venire anche dai dialetti italiani e allora hanno una storia antica che può essere anche
molto complicata.
Per le parole di origine dialettale e di etimologia complicata qui accenniamo al caso di pizza: una parola che
viene dal dialetto napoletano e che entra nei prestiti italiani piuttosto tardi. Il caso etimologico di pizza è
molto discusso e Parenti lo considera disperato. Nella spiegazione di pizza ci sono troppe possibilità e nessuna
che convince più delle altre. C’è chi ha pensato a una origine longobarda per pizza, ma a Parenti questa ipotesi
pare delle meno convincenti.
Le parole che entrano in italiano in tempi recenti possono venire anche dai gerghi: la questione è
complicatissima perché il lessico gergale spesso si basa sul camuffamento intenzionale delle parole. La stessa
parola camuffare è di origine gergale e potrebbe avere la stessa origine del verbo sgamare.
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Una parola di origine gergale e di tramite certamente gergale è mafia, che affiora anch’essa in tempi
relativamente recenti. Nel vocabolario Zingarelli 2020 si trova ancora una vecchia etimologia di mafia che fa
derivare la parola dall’arabo, ma è un’etimologia sicuramente sbagliata. Ed è sbagliata perché la parola è
diventata sì famosa grazie alla Sicilia ma sicuramente non è di origine siciliana. Qualche informazione in
proposito si trova nel testo di Baglioni. Le due parole che più rappresentano lo stereotipo italiano nel mondo,
pizza e mafia, si trovano in una situazione paradossale, quella di avere un etimo tra i più difficili da trovare.
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LEZIONE 10
Passiamo alla quinta e ultima sezione del corso, in cui faremo una rassegna di casi etimologici complicati.
Prima di tutto, questa sezione avrà un carattere un po’ diverso rispetto alle precedenti, perché gli esempi qui
riportati sono ampiamente trattati nei libri di testo, quindi non si ripeterà quanto detto nei libri.
1. Cominciamo con il caso di andare, che è uno dei più discussi casi dell’etimologia italiana, e in
generale, dell’etimologia romanza. Il fatto è che andare non ha un antecedente latino immediato,
eppure il suo antecedente deve essere latino. La questione è complicata anche per un altro motivo:
la parola andare nel mondo romanzo si colloca all’interno di una serie di parole di forma uguale o
simile e anche di significato uguale o simile, tutte difficili da rimandare a una base latina.
francese aller
italiano andare
Witold Mańczak nel 1974 ha pubblicato lo studio etimologico sulla famiglia di andare e che all’inizio del suo
studio elenca le etimologie più o meno diverse proposte per le parole di questa famiglia a partire dal
Cinquecento. Le etimologie sono una sessantina. Non vediamo tutte le proposte ma vediamo direttamente
la soluzione: andare e tutto il resto della famiglia discende dal latino ambulare che significa ‘camminare’.
Solo per una parte delle parole di questa famiglia c’è alla base un altro etimo, che è il latino *ambitare che
sembra dare meno problemi in realtà a partire dalla forma. Ha il difetto però di non essere una parola
realmente attestata, anche se qualcuno ha voluto vederne il riflesso nella forma del greco bizantino
ἀμβιτεύω.
Infatti, Max Pfister, curatore del Lessico Etimologico Italiano, aveva prima scelto ambulare per andare, poi
però ci ha ripensato e ha deciso che per le forme della famiglia è meglio partire da *ambitare proprio sulla
base della attestazione bizantina, attestazione che però è illusoria. In latino, per andare si usava un verbo
irregolare ire, con forme anche molto brevi, alcune monosillabiche, come buona parte di quelle del
paradigma del presente indicativo, che costituiscono le forme più frequenti del verbo.
eo imus
is itis
it eunt
Già nel latino tardo forme monosillabiche vengono sostituite da forme più corpose prese da un altro verbo,
vadere. In questo modo per ire si costituisce un paradigma suppletivo:
vado imus
vadis itis
vadit vadunt
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Un paradigma suppletivo è un paradigma costituito da forme che vengono ricavate da radici diverse e si
trovano in distribuzione complementare.
Il suppletivismo del latino tardo si mantiene nello spagnolo antico, dove troviamo un paradigma in continuità
diretta con il latino e le forme presentano i normali mutamenti fonetici:
voy imos
vas ides
va van
Nello spagnolo moderno, il suppletivismo dello spagnolo antico viene eliminato tramite un modellamento
analogico. La radice presente nelle tre persone del singolare e nella terza del plurale si estende anche alla
prima e alla seconda plurale, per cui si creano in un secondo momento le forme vamos e vais.
In italiano c’è stata una evoluzione del paradigma ma una evoluzione diversa: le forme residue del verbo ire,
imus e itis sono state livellate anche qui ma non con un livellamento analogico come nello spagnolo, ma sono
state livellate con il mantenimento del suppletivismo mediante l’ingresso di una nuova radice, quella del tipo
andare. Questo deve essere successo abbastanza presto, prima cioè che potesse avere luogo una spinta
analogica come quella dello spagnolo.
vado andiamo
vai andate
va vanno
La stessa cosa è successa in francese, dove per la prima e seconda persona plurale abbiamo forme prese da
un’altra radice, anche questa evidentemente nata piuttosto presto:
il va ils vont
E se queste radici dell’italiano e del francese sono nate presto allora non possono essere nate che da una
forma presente già nel latino classico, e questa forma deve essere necessariamente ambulare, solitamente
attestata nel latino classico con il valore di ‘camminare’. La forma di partenza ambulare è piuttosto diversa
dalle forme di arrivo, e allora vediamo quali possono essere stati i passaggi: il primo è normalissimo ed è la
caduta di una vocale interna, che in una forma ingombrante come ambulare quadrisillabica è perfettamente
normale: sincope.
La sincope è la caduta di una vocale atona interna alla parola con conseguente riduzione sillabica.
Es. :
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La forma di partenza è quindi *AMBLARE. Questa forma si può attribuire senza problemi al latino tardo e
quindi al latino già avviato verso il romanzo, cioè alla prima fase romanza detta anche protoromanzo. Da
questa forma si arriva senza difficoltà, con il solo oscuramento della vocale iniziale, alla forma romena umblà,
che mantiene il significato di ‘camminare’.
Un po’ più complicati sono i passaggi che riguardano la forma delle altre lingue, vediamo qui la spiegazione
di una parte di queste forme, vediamo il caso di anar che si trova in occitano e in catalano e che si spiega
mediante quattro passaggi:
assimilazione progressiva parziale -ML- > -MN- in cui la laterale passa a nasale, si avvicina quindi alla
consonante precedente
degeminazione -NN- > -N- che è un fenomeno generalizzato per tutte le lingue romanze, eccetto che per
l’italiano e per il sardo.
Vediamo allora come si arriva alla forma francese aller che è senza subbio collegata alla forma friulana lâ
che discenda a sua volta dalla forma attestata alâ:
Vediamo ora il caso dell’italiano andare con i suoi fenomeni che rimandano chiaramente anche alla forma
dello spagnolo e del portoghese andar e che in queste altre due lingue deve essere avvenuto in parallelo
rispetto all’italiano:
Questo passaggio dal punto di vista fonetico è piuttosto forte, ma si può giustificare se si considera la radice
di andare all’interno del paradigma in cui va a inserirsi, un paradigma che contiene una radice con una
consonante interna che è l’occlusiva dentale sonora, -D-.
In una part delle forme, come vai, va questa consonante scompare, ma la consonante era ancora presente
nella fase tardo latina, cioè quando si è creato il tipo andare. In sostanza, la prima e la seconda persona
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plurale si sarebbero in parte modellate sulla prima e sulla seconda persona singolare. Questa ricostruzione si
deve ad Alberto Nocentini. Il tipo andare, insomma si sarebbe formato per incrocio tra due radici.
Qui vediamo la definizione e l’esempio di incrocio: avvicinamento formale id una parola a un’altra
semanticamente affine.
2. Passiamo a ballatoio. Qui vediamo le definizioni di ballatoio che si trovano nel dizionario Zingarelli,
ci interessa in particolare la prima ma anche la terza. Ci interessa ovviamente anche l’etimologia della
parola, qui presentata come discussa.
[etim. discussa: da bellatōriu(m) ‘galleria di combattimento (bĕllum)’ con sovrapposizione di ballare (?) –
1297]
1. balcone che gira intorno a un edificio o a parte di esso, esternamente o internamente, con parapetto
di protezione SIN. pianerottolo, terrazzino
2. nell'alpinismo, tipo di cengia aerea
3. sporto intorno al cassero e ai castelli delle navi antiche
[Zingarelli 2020]
A complemento di quei dettagli che si trovano nel libro di testo vediamo una fotografia che ritrae un edificio
popolare un tempo diffuso in Lombardia e in particolare a Milano, con più appartamenti sullo stesso piano
cui si accede con un ballatoio condiviso, ovvero quello che riguarda la definizione 1 che abbiamo appena
visto. Infatti le case si chiamano anche case di ringhiera. Ci sono esempi di ballatoio più complessi da un
punto di vista architettonico e soprattutto ce n’erano nel passato. Qui riconosciamo palazzo vecchio di
Firenze, con l’ultimo piano che è coronato da un ballatoio: un ultimo piano sporgente dove la protezione è
costituita da un robusto muro finestrato. Un ballatoio corona anche la torre dello stesso palazzo.
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Questa etimologia fu proposta da Bruno Migliorini, che partiva però dal significato inquadrato nella
definizione 3 del vocabolario. Il ballatoio sarebbe stato in origine secondo lui una parte delle navi antiche,
forse è anche per questo che la sua etimologia che non ha convinto fino in fondo, perché quella parte della
nave non pare molto adatta per i combattimenti:
L’etimo buono però deve essere proprio il latino *bellatorium e probabilmente si dovrà partire non dalle navi,
ma proprio dalle fortificazioni di terra. Nel libro si trovano dettagli. Qui vediamo come è formato il nome. Si
tratta di un neutro sostantivato dell’aggettivo bellatorius ‘combattivo’, si tratta di un derivato del verbo
bellare ‘combattere’, a sua volta derivato di bellum, ‘guerra’. Qui inoltre la parola ballatoio in italiano con le
sue diverse varianti attestate nel latino medievale, ha sempre una -a- nella prima sillaba. Deve aver subito
l’influenza del verbo ballare.
È un caso di etimologia popolare (con termine improprio): fenomeno per cui una parola viene collegata a
un’altra di suono simile (ma di origine diversa) andando a risultare da essa motivata e mutando perciò la sua
forma oppure il suo significato oppure entrambi.
Rivediamo anche in che cosa consiste l’etimologia popolare (e diciamo anche che per questo il termine adatto
sarebbe rimotivazione). Vediamo un esempio con il fenomeno di casi di prestito: i prestiti essendo parole
straniere non sono motivati nella lingua di arrivo, e quindi sono più esposti ai casi di rimotivazione,
soprattutto se hanno una forma molto corposa. È il caso di gelsomino che viene rimotivato appunto su gelso.
Rivediamo anche il classico stravizio.
Ballatoio però è di origine latina, non è un prestito. Ci si può chiedere allora come mai ci sia stata una
rimotivazione. Il fatto è che scomparsa la parola che lo motivava, che è bellum e che è scomparso dall’uso
parlato nella tarda antichità. Come sappiamo, bellum è stato sostituito da una parola di origine germanica,
guerra.
L’etimologia qui si limiterà a qualche tocco. A proporre la giusta etimologia fu il musicologo Fausto
Torrefranca nel 1939. Non deve stupire che l’etimologia buona venga da un musicologo perché la barzelletta
in origine era una forma poetico-musicale. È anche per questo motivo i linguisti in genere non versati nella
storia della musica hanno scelto di fare di testa propria, ignorando la spiegazione di Torrefranca.
Il Torrefranca pensava al francese bergerette, che significa ‘pastorella’ ed è anche il nome di una forma
poetico musicale. Oltretutto la differenza formale tra le due viene spiegata approssimativamente ma
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correttamente da Torrefranca. Ci soffermiamo ora su quello che Torrefranca chiama “scambio di liquide” ora
con terminologia obsoleta, ma non errata. In un’altra lezione abbiamo visto che le liquide sono i suoni più
tipicamente soggetti a fenomeni di mutamento irregolari come la metatesi. Qui aggiungiamo due esempi di
metatesi che riguardano le liquide. Sono due esempi presi dallo spagnolo e si tratta in entrambi i casi di
metatesi reciproca, cioè dove un suono prende il posto dell’altro. In spagnolo la parola che significa
‘miracolo’ è MĪRĀCULUM → miraglo > milagro. così come la parola che significa ‘pericolo’ deriva da
PERĪCULUM → periglo > peligro.
Si tratta di voci semidotte, cioè appartenenti a una categoria intermedia tra le voci dotte e le voci popolari.
Si tratta di voci che partono come voci dotte ma entrano nell’uso popolare, dove subiscono delle
trasformazioni.
Altro fenomeno cui tipicamente sono soggette le liquide è la dissimilazione e qui rivediamo due casi di
dissimilazione in parole che in origine contengono due vibranti. Questo fenomeno interessa anche il nostro
barzelletta.
Vediamo infatti come suona il primo adattamento italiano del francese bergerette. Una delle testimonianze
si trova in questa raccolta di canti di varia provenienza stampata a Venezia nel 1503. Tra questi canti c’è una
brezeretta savoiena, cioè una ‘barzelletta (=pastorella) di savoia’.
4. passiamo al caso dell’etimologia di cibrèo, si tratta di una parola di diffusione solo toscana e
soprattutto è una parola desueta, perché è desueta la cosa che designa.
Il cibreo era un piatto tipico della cucina toscana. Nella voce di questo vocabolario si trova una sua sommaria
descrizione insieme a una lista di esempi della parola in testi letterari che vanno dal Cinquecento ai primi del
Novecento. Gli autori sono tutti toscani o toscaneggianti.
La ricetta è descritta in modo più preciso nel testo classico della culinaria italiana, La Scienza in Cucina e l’Arte
di mangiar bene di Pellegrino Artusi. Il cibreo fa la sua comparsa nella seconda edizione dell’opera, pubblicata
a Firenze nel 1895. Qui abbiamo la ricetta, in cui il cibreo è definito come “un intingolo semplice, ma delicato
e gentile”. Nella ricetta, in realtà non sembra particolarmente delicato, dato che i suoi componenti principali
sono parti non nobili del pollo. Il cibreo è legato alla Francia perché dalla Francia viene la pietanza nella sua
prima composizione, che era piuttosto diversa. Dunque, rispetto a quanto scritto su Wikipedia, le cose sono
andate al contrario. dalla Francia la pietanza ha portato dietro il suo nome, che nel francese antico era civé
/tsi’vè/. Si tratta di un derivato di cive ‘cipolla’ che è uno degli ingredienti della ricetta francese. In qualche
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testo fiorentino del Trecento la parola francese si trova adattata come civeo, che è la primissima forma del
nostro cibreo. Qui vediamo la versione moderna dell’antico civè francese che oggi suona /sivè/ e in primo
piano c’è ancora la cipolla. Il collegamento di cibreo con il francese antico civè fu proposto per la prima volta
da Angelico Prati, etimologo che abbiamo incontrato nella prima lezione. Però per cibreo non sono mancate
nel tempo le proposte, tre delle quali erano state proposte dall’etimologo Giovanni Alessio: CIBUS REGIUS;
*ZINGIBEREUS (da zingiber ‘zenzero’); francese antico gibelet (dal nome di una sorta di fricassea). La seconda
di queste etimologie ha avuto un certo successo perché l’Alessio l’ha inserita nel DEI, ma così facendo di fatto
ha fatto solo confusione. L’Alessio infatti ha così reso la questione etimologica di cibreo una sorta di cibreo,
perché questa parola ha avuto anche un uso metaforico a significare ‘miscuglio’, ‘confusione’. Le pietanze
rientrano tra le esperienze più comuni e infatti i loro nomi si prestano molto bene a usi metaforici.
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LEZIONE 11
1. cominciamo da cottimo, che è oramai una parola un po’ desueta. Vediamo la definizione presa dal
dizionario Zingarelli: forma di retribuzione commisurata alla produzione realizzata,
indipendentemente dalle ore di lavoro | lavoro a cottimo, retribuito a cottimo.
si vede poi una delle ipotesi etimologiche proposte, databile al 1342. [lat. quŏtumu(m) ‘di che
numero?’ - 1342].
Prima di vedere l’etimologia della parola, precisiamo che il lavoro a cottimo ha una retribuzione di tipo
forfettario, cioè un compenso stabilito in partenza e non modificabile. Facciamo allora anche l’etimologia del
francese forfait, che è una parola composta da due elementi, il primo suonava fuer ‘prezzo’, ‘tariffa’ e che
deriva dal latino FORUM ‘MERCATO’. Fait sta per ‘fatto’. L’etimo che abbiamo visto prima nell’estratto del
vocabolario Zingarelli e lì presentato con ‘?’ è questa parola latina: QUOTUMUS, pronome interrogativo
‘quale’, ed è usato però sono in un contesto particolare, cioè quando nella risposta si attende un numerale
ordinale. Quotumus è una variante di quotus ed è una variante rarissima, perciò è posta con il ‘?’.
L’etimologia dal latino quotumus risale al 1878 e si deve a uno studioso che è Napoleone Caix. Il suo studio
contiene una lunga serie di etimologie di parole italiane che serviva a integrare e a correggere il vocabolario
etimologico romanzo di Diez. Per cottimo esiste anche una etimologia alternativa che si trova esposta in
modo anche sintetico nel DEI di Battisti-Alessio. L’etimo in questione si deve ad Alessio, che era un linguista
di origine calabrese che si è dedicato molto alle parole di origine greca in italiano nei dialetti italiani
soprattutto meridionali. Infatti, secondo l’Alessi cottimo è un grecismo, anzi, un bizantinismo, perché la prima
attestazione a lui nota veniva dalla Romagna, che sappiamo essere una nota località di influenza bizantina.
La sua ipotesi è questa: cottimo > κοττισμός ‘gioco di dadi’. Qui vediamo le due ipotesi a confronto:
“l’etimologia tradizionale sembra poco convincente per il DEI che propone invece cottimo come discendente
da κοττισμός, ma nemmeno questa ipotesi ci pare soddisfacente”.
L’affermazione è di questi due studiosi, Cortelazzo e Zolli, autori del Dizionario etimologico della Lingua
Italiana in cinque voll. Tra il 197 e il 1988, uno dei più importanti dizionari etimologici italiani. I dubbi degli
studiosi probabilmente riguardavano la forma della parola, infatti da κοττισμός a cottimo non si capisce molto
bene come si faccia ad arrivare, anche perché in italiano c’è una parola molto simile, un grecismo, con lo
stesso suffisso ma che ha subito una evoluzione completamente diversa. La parola è (con epentesi) battesimo
< lat. baptismus < βαπτισμός. Eppure l’ipotesi di Alessio è buona, e per più motivi: prima di tutto per la prima
diffusione della parola, le prime attestazione di cottimo provengono soprattutto dall’Umbria e dalle Marche
settentrionali, zone che rientrano nei territori dell’Italia centrale che sono rimasti più a lungo sotto il dominio
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bizantino. Quindi vediamo il contesto più ampio, le Marche settentrionali, insieme alla parte più meridionale
della Romagna, corrisponde all’antica Pentapoli bizantina. Quanto al significato, il valore di ‘gioco di dadi’
non è così lontano come può sembrare rispetto a cottimo. Vediamo la formazione di κοττισμός. Si parte da
κόττος ‘dado’ da cui si forma il verbo κοττίζω ‘giocare ai dadi’ che passa in latino tardo come cottizzare dove
il significato è metaforico ‘osare’; quindi dal verbo greco κοττίζω deriva poi κοττισμός come sostantivo che
vuol dire sia ‘gioco di dadi’, ma può anche voler dire ‘rischio’.
Tra ‘cottimo’ e ‘rischio’ c’è in effetti un legame: il compenso del lavoro a cottimo è stabilito all’inizio, cioè
quando non si sa se ci si guadagna o se ci si rimette. Nei documenti antichi ‘cottimo’ e varianti hanno anche
altri valori che sono però sempre legati a situazioni di rischio:
2. 1 locazione d’opera retribuita in base alla quantità di lavoro stimata su base forfettaria
3. 2 locazione di un bene immobile, pagata su base forfettaria
4. 3 appalto per la riscossione delle imposte; imposta
A Siena fio al primo Seicento il lavoro a cottimo era detto anche ‘lavoro a rischio’ : Antonio Politi Dittionario
toscano (1614) “Dar in somma, e torre in somma, dicono Fior. [= i Fiorentini] per pigliare, o dar a fare
un’opera a spese di chi la fa. Sen. [= i Senesi] dicono a cottimo, o a rischio”.
Quanto ai problemi di forma, accenniamo al fatto che accanto al tipo battesimo in vari dialetti romanzi si
hanno forme del tipo battimo; ladino dolomitico bàtem, bàtum, ‘fonte battesimale’; calabrese vàttimu
‘Epifania’.
Per la forma c’è un altro parallelo fornito dalla vicenda della parola greca ποδισμός ‘misurazione di un
terreno’ basata sull’unità del piede (in greco il piede è πούς ποδός). Questa parola ποδισμός entra in latino
tardo come podismus. Nel latino medievale questa parola è attestata come podismus ma ha una variante,
podimus. In un testo più tardo, gli Statuti di Urbino, stampati nel 1559, si trova la stessa parola ormai nella
forma italiana poddimo, che ha la stessa struttura di cottimo. La parola significa ‘calmiere’, un prezzo fissato
per legge. Il calmiere in origine si basava su una misurazione, cioè sul calcolo della media dei prezzi. ’Calmiere’
è una parola di origine bizantina. ’Calmiere’ e ‘cottimo’ sono tipici bizantinismi, cioè parole appartenenti alla
lingua amministrativa.
2. gherminella parola ancora più desueta. Anticamente la parola indicava un gioco di destrezza legato a
una scommessa, un gioco che in realtà era un imbroglio da parte di chi lo proponeva. La parola oggi
rimane in uso molto raramente e solo con uso figurato, cioè metaforico per indicare un imbroglio, un
inganno. L’etimo qui è presentato come incerto:
1 (tosc.) anticamente, gioco di destrezza consistente nel far apparire e scomparire una cordicella dentro
una bacchetta cava che si teneva tra le due mani
2 (fig.) astuzia per ingannare abilmente | marachella, birichinata: le gherminelle dei bambini
[Zingarelli 2020]
Se la parola ‘gherminella’ è ancora in uso è soprattutto perché è stata rimessa in vita da Gianni Brera, un
noto giornalista sportivo. Brera definì come una gherminella la rete segnata da Maradona nei quarti di
finale dei mondiali di calcio del 1986. A noi interessa di più il gioco originario una cui sommaria
descrizione ci viene data da un novelliere fiorentino del Quattrocento, Franco Sacchetti. Il gioco è
descritto in una novella il cui protagonista, realmente esistito, era un poveraccio che si guadagnava da
divere con quel gioco e da quel gioco infatti aveva preso il suo soprannome. Il gioco si faceva con una
mazzuola e con una cordicella di circa un metro. Importante nel gioco è la formula di proposta: “che l’è
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dentro, che l’è di fuori?” se il testo si legge con un po’ di attenzione sembra che la mazzuola sia cava e
che la corda appaia dentro la mazzuola e fuori dalla mazzuola stessa e che la persona che sta al gioco
debba tentare di afferrarla. Così infatti viene detto nello Zingarelli. Se è così, una derivazione della parola
da ghermire pare sufficientemente adeguata. Ghermire infatti può significare ‘prendere con rapidità’. In
realtà, la vicinanza formale di gherminella al verbo ghermire è determinata soltanto dal fenomeno che
abbiamo definito rimotivazione. Le forme che compaiono per prime infatti hanno un aspetto diverso,
sono forme che iniziano in -gu-:
statuti: guerminella
guarminella
Qui ci sono dei casi simili, dove il mutamento forse è più tardo, ma sono comunque casi molto indicativi:
v- > gu-
- guagnelio ‘vangelo’
- guerrettone ‘verrettone’
- guernaccia, guarnaccia ‘vernaccia’
- guaraguasco ‘verbasco’
queste forme ci permettono di identificare guermenella, una variante antica di gherminella, come
un’equivalente di vermenella, che a sua volta non è altro che il diminutivo di vermena, che significa ‘verga’.
Nel libro si troveranno molti esempi. Dopo la pubblicazione dello studio di Parenti, il meccanismo del gioco
di Franco Sacchetti è stato precisato meglio da questo filologo, Paolo Pellegrini, che ha pubblicato uno studio
insieme a un esperto di giochi antichi. I due hanno messo in evidenza un fatto che poi non si ritrova ma che
nel Sacchetti è importante: la mazzuola viene tenuta con entrambe le mani da chi propone il gioco, e chi
propone il gioco viene aiutato da un compagno che tiene la corda. La nuova interpretazione non è che una
conferma dell’etimologia, cioè dell’etimologia di gherminella da vermenella, ossia ‘piccola verga’.
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3. passiamo a gozzoviglia: vediamo la definizione del vocabolario Zingarelli: baldoria di persone che
bevono e mangiano smodatamente e chiassosamente: ha dissipato in gozzoviglie un ingente
patrimonio; si rappattumò con lui, e più volte insieme fecer poi gozzoviglia (G. Boccaccio)
[da gozzovigliare - 1353]
gozzovigliare
[etim. discussa: da gozzo, con -iv- immesso in *gozzigliare (?) - 1598]
[Zingarelli 2020]
in antico, la parola ha un significato molto meno marcato, e significa semplicemente ‘piacere’. L’etimologia
qui proposta è probabilmete sbagliata, perché il verbo è attestato oltre due secoli dopo. Il verbo sarebbe un
derivato di gozzo, cosa molto poco verosimile, sia per la forma che per il significato.
La vicinanza di gozzoviglia a gozzo molto probabilmente è dovuta ancora una volta a rimotivazione. C’è allora
da capire quale fosse la forma originaria precedente alla rimotivazione. Vediamo le due ipotesi tra cui si è
incerti:
- la prima potrebbe essere dal latino *gaudibilia, derivato non attestato del verbo godere. A
sostegno di questa ipotesi c’è una variante godoviglia, un po’ più tarda rispetto a gozzoviglia.
- L’altra possibilità è il medio alto tedesco kurzewîle ‘passatempo, trattenimento, festivo’ che è
invece una parola con attestazione molto ampia e solida.
Di kurzewîle oltre trenta ricorrenze si trovano nel Canto dei Nibelunghi, notissimo poema in medio alto
tedesco composto intorno al 1200. Questo il contesto della prima ricorrenza.
wîle (tedesco moderno Weile) ‘tratto di tempo’, ‘momento’(cfr. weil cong. ‘poiché’)
la parola è all’origine anche dell’inglese while ‘tratto di tempo’, ‘momento’; congiunzione: while ‘mentre’
4. passiamo a incrinare, che si trova in una posizione opposta rispetto alle precedenti che sono
rimotivate. Questa parola non è rimotivata e il suo significato è proprio quello che sembra, però
sembrava troppo facile, per cui si è cercato altro.
1 fendere un oggetto fragile con una crepa sottile ma profonda: incrinare un vetro, uno specchio, una
terracotta.
2 (fig.) intaccare, compromettere, guastare: il loro comportamento sta incrinando i nostri rapporti
[comp. di in- e crena ‘spaccatura, fessura’, con sovrapposizione di inclinare - av. 1250]
[Zingarelli 2020]
Qualcuno in passato aveva pensato a ‘crine’ per la somiglianza con la fenditura che appare sulla superficie
dell’oggetto incrinato. A questa possibilità accenna anche un vocabolario etimologico italiano molto
invecchiato, che è il Pianigiani pubblicato nel 1907. In questo vocabolario si accenna a ‘crine’ però si fanno
confronti che paiono più scientifici, perché in latino sarebbe disponibile una base crena molto confacente
con significato di ‘incisione’ e con continuatori in francese cran e nei dialetti lombardi crena. Questa
etimologia risale a Napoleone Caix.
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francese antico cran, cren ‘intaglio, tacca’
C’è però un problema grosso, la parola latina crena si trova nelle edizioni moderne della Naturalis Historia di
Plinio il vecchio, i cui manoscritti però presentano una forma molto diversa che è renis. La parola crena quindi
è una congettura, non è documentata, ma è ricostruita sulla base di queste attestazioni di Plinio dove c’è
renis e sulla base delle forme francesi e dei dialetti lombardi e per questo viene attribuita al sostrato gallico,
cioè celtico. Le cose sono state rimesse a posto da questo sacerdote salesiano, che era anche un linguista e
insegnava all’università salesiana di Roma, Don Remo Bracchi, il quale prima di tutto ha fatto notare che la
forma crena dei dialetti italiani settentrionali significa per l’appunto anche ‘crine’. E poi ha portato dei
paralleli semantici per la connessione tra ‘crine’ e ‘fenditura’:
- setola (dal latino SAETULA, diminutivo di saeta ‘crine, setola’) ‘crine robusto’, ‘fenditura longitudinale
dello zoccolo del cavallo’
- lombardo filadüra ‘fenditura’ (FĪLUM ‘filo’)
- pelo ‘fenditura’, loc. fare pelo o gettare pelo, in riferimento a pareti che mostrano crepe
aggiungiamo che pelo è termine tecnico dei cavatori di marmo delle Alpi Apuane, come risulta già da questo
trattato di fine Ottocento. Esiste anche l’espressione ‘pelo furbo’ per la fenditura che non appare e che si
mostra soltanto se il marmo viene bagnato. Altra conferma viene dal verbo trapelare e significa ‘filtrare
attraverso incrinature o fessure’. Altra conferma viene dal modo di dire ‘cercare il pelo nell’uovo’ che non
può essere certamente riferita al pelo, ma in origine sarebbe riferita alla verifica dell’integrità del guscio,
operazione importante prima che l’uovo venga sottoposto alla cova. Quindi incrinare, o meglio, incrinarsi,
dal punto di vista etimologico, è proprio quello che sembra.
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LEZIONE 12
Le parole che esaminiamo in questa lezione sono le seguenti tre: iosa, lesena, messa.
1. Cominciamo da iosa, che è una parola molto particolare: infatti iosa si usa solo nella locuzione
avverbiale ‘a iosa’.
solo nella loc. avv. a iosa, in grande quantità, in abbondanza: ce n'è a iosa; ne abbiamo a iosa
[etim. incerta - 1481]
[Zingarelli 2020]
L’ultima informazione proviene dal Dizionario etimologico della lingua italiana di Cortelazzo e Zolli: ‘non è
stata ancora avanzata una proposta etimologica attendibile. Quella abbastanza ripetuta (DEI, Devoto Avv.)
da (D)io sa! non è molto convincente’.
Quella spiegazione compare per la prima volta nel Dizionario Etimologico Italiano di Battisti-Alessio. E si può
attribuire a Battisti. Battisti era trentino, studiò a Vienna con Meyer Luebcke e poi fu docente di glottologia
a Firenze per lunghi anni.
Vediamo un’etimologia diversa, però. Nel libro si vede dettagliatamente spiegata una proposta di Parenti,
che quindi qui non ripetiamo, e l’ipotesi parte da una sequenza aiosa che è attestata in precedenza e che
sarebbe stata rianalizzata come a iosa. La sequenza unitaria aiosa era una sorta di esortazione, un grido
cadenzato usato per coordinare più persone in lavori di forza, come in questo esempio, estratto da un
manoscritto del Trecento di esercizi di matematica. La scena descrive il sollevamento dell’albero di una nave.
È tratta dal Libro di ragioni del 1328 ed è di Paolo Gherardi da Firenze: “Fammi questa ragione: elli è uno
albore che giace in terra ed è lungo 60 palmi e vuolsi levare dricto d’in piè e ’ maiestri che levano el arbore
gridano aiosa aiosa e a ogni voce lo capo dell’alboro, cioè la puncta, si leva un palmo; vo’ sapere in quante
voci serà levato lo decto arbore su dricto”.
C’è poi un testo poetico più tardo che ci mostra l’esortazione nella sua variante meridionale aiossa. Il testo è
di un autore calabrese ma viene da Napoli.
In questo caso l’esortazione aveva la funzione di quello che con nome latino chiameremmo celeuma. Il
celeuma era il grido cadenzato che dava il ritmo ai vogatori. Poi nel testo ancora si spiega che questa
esortazione ayossa si suole dire sulle galee dei catalani. Infatti, siamo nel periodo in cui a Napoli regnava una
dinastia aragonese. Quindi l’etimo di aiosa è il catalano aiòs, usato con la stessa funzione di esortazione.
Se vogliamo andare fino in fondo, il catalano aiòs risale al greco ἅγιος ‘santo’, il tramite secondo Parenti
sarebbe la sequenza agyos agyos agyos che si trova nella liturgia mozarabica in uso nella penisola iberica
nell’alto medioevo. Questa sequenza corrisponde al sanctus sanctus sanctus della liturgia romana.
Torniamo all’esortazione napoletana che a Napoli è rimasta in uso per vari secoli come ‘orsù’, sempre dal
catalano viene la nota esclamazione sarda, ancora in uso, ayò, che ha una variante meno usata ayòsa.
Torniamo allora all’ipotesi di Parenti, che parte dalla sequenza aiosa, aiosa! Che sarebbe stata rianalizzata
come a iosa. In altre parole, una esortazione col valore all’incirca di ‘orsù’ sarebbe diventata una locuzione
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avverbiale col valore di ‘in abbondanza’. Il passaggio non è tra i più scontati e richiede delle giustificazioni che
ora vediamo.
inquadriamo il problema in termini più generali: si partirebbe da un enunciato formulare, ripetuto molto
spesso, cioè l’esclamazione aiosa, e si arriverebbe a una parola. In realtà a una locuzione avverbiale che di
fatto però corrisponde a un avverbio. ‘in abbondanza’ = ‘abbondantemente’ quindi si può parlare di parola
anche in questo caso. Insomma da enunciato formulare a parola. Questo passaggio, se effettivamente c’è
stato, può essere stato favorito dal suono iniziale della sequenza stessa, dalla vocale /a/, che coincide con
una parola, cioè con la preposizione che introduce locuzioni avverbiali di valore modale. Per un passaggio del
genere c’è un parallelo molto stretto offerto da una locuzione avverbiale registrata nel dialetto veneto di
Chioggia, in provincia di Venezia. A Chioggia, è in uso una locuzione avverbiale a beronunsio che vuol dire ‘a
catafascio’. La sua origine è chiarissima, perché risulta estratta dalla parola Abrebuntio ‘rinuncio’ che fa parte
delle formule del battesimo nella loro veste latina che è stata in uso per secoli. Si tratta della risposta che
viene data alle domande del sacerdote e che viene ripetuta tre volte, abbastanza perché la ripetizione si noti.
Per questa sequenza aberonunsio il significato ‘a catafascio’ molto probabilmente parte da un valore che era
all’incirca ‘a ripetizione’. Un valore secondariamente associato alla formula abrenuntio proprio perché si
trattava di una formula ripetuta. Anche in questo caso la forma in causa inizia con la vocale /a/.
Dunque, anche per a iosa si può essere arrivati al significato di ‘in abbondanza’ attraverso questo valore ‘a
ripetizione’, secondariamente associato alla esortazione ‘a iosa’ che veniva ripetuta molto spesso.
Il processo può essere stato favorito dalla vocale /a/, reinterpretata come preposizione. In realtà c’è un caso
di mutamento molto simile dove la /a/ invece non c’era e viene poi aggiunta. È il caso di un’altra locuzione
avverbiale ora desueta ma non rara nel Cinquecento: a isonne, sempre con il significato di ‘in abbondanza’.
Come spiega questo dizionario ottocentesco, questa locuzione deve essere stata ricavata da uno scorcio della
parola Eleisonne.
Eleisonne è uno scorcio di ‘Kyrieleisonne’ che si trova per esempio in un sonetto del Burchiello, un poeta
burlesco fiorentino della prima metà del Quattrocento. In sostanza, ‘a isonne’ è arrivato al valore di ‘in
abbondanza’ partendo dal valore di ‘a ripetizione’, secondariamente associato alla formula liturgica Kyrie
eleison! Che veniva ripetuta molto spesso. La stessa forma ‘Kyrieleisonne’ in forma più piena si trova adattata
nella locuzione ‘a crialeisonni’ in una parlata della provincia di Catania, il valore è abbastanza simile, ‘alla
carlona’ o ‘all’impazzata’. La locuzione ha anche una variante più volgare ‘a minchialeisonni’.
Per fare un parallelo più nobile andiamo a vedere nello spagnolo del Novelle esemplari di Cervantes (1613):
a un certo punto si parla di un ‘almuerco’, un pranzo, e si dice che i vecchi bevvero sine fine. I ragazzi invece
bevvero adunia (espressione araba ad-dunya che vuol dire ‘il mondo’) che in spagnolo è presa col valore di
‘in quantità enorme’. In fine si dice che le signore bevvero los quiries dove ‘quiries’ è la prima parte di kyrie
eleison e quindi vuol dire ‘in grande quantità’.
Vediamo un altro esempio da un testo di poco più tardo cioè dalla continuazione della Vida de Lazarillo de
Tormes di Juan de Luna (1620): qui si parla di signore che mangiarono los quiries, quindi ‘in abbondanza’ e di
giovinotti che bevvero el ite misa est espressione della formula finale della messa in latino, col significato
quindi di ‘fino in fondo’.
Concludiamo la trattazione della prima parola. Le espressioni che abbiamo appena visto vanno a dare un
sostegno alla spiegazione di a iosa proposta da Parenti. In tutti i casi si tratta di un tipo di formazione molto
particolare e che consiste nella creazione di una parola a partire da un enunciato formulare ripetuto molto
spesso. Questo tipo di formazione è stato studiato ed ha un nome suo, derivazione delocutiva. Il primo studio
su questo tipo di formazione e l’espressione tecnica che lo individua si devono a un linguista che abbiamo già
incontrato, Emile Benveniste, che abbiamo visto a proposito dell’etimo di ‘ritmo’ in greco.
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Benveniste basava il suo studio su alcuni verbi del latino che appunto ha chiamato verbi delocutivi. Si tratta
di verbi derivati che sono formati non a partire da un’altra parola, da una parola astratta, bensì da una
espressione formulare, cioè da una parola realizzata.
Gli esempi di Benveniste:
2. Passiamo alla seconda parola che è lesena, parola italiana di origine dialettale, infatti è entrata in
italiano dai dialetti settentrionali e relativamente tardi. Questa cosa ha reso la sua etimologia un caso
difficile.
Elementi
decorativi
verticali che
terminano con un
capitello. Di fatto
le lesene nascono
con funzione di
sostegno
La lesena infatti corrisponde alla parte sporgente di un pilastro incassato nel muro. Più pilastri a intervalli
regolari permettono di fare muri relativamente più sottili, perché sono irrobustiti da questi pilastri. Quello
che del pilastro sporge si chiama lesena.
Vediamo allora meglio l’etimologia che abbiamo visto prima con punto interrogativo, che viene dal Dizionario
Etimologico della Lingua Italiana di Corelazzo-Zolli.
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Il problema del termine greco è che
si tratta di un termine molto raro e in
più dovrebbe aver subito una
trasformazione anch’essa rara. In
secondo luogo, la parola lesena nei
dialetti italiani settentrionali significa
anche ‘ascella’, e questo è davvero
un problema perché l’elemento
architettonico è sporgente, mentre
l’ascella è cava.
L’etimologia che abbiamo appena visto risale ad Alessio, esperto di greco. Alessio, per giustificare il valore di
‘ascella’ fa dei passaggi che Cortelazzo e Zolli omettono perché sono davvero poco verosimili:
da λαξεύω ‘tagliare, squadrare’ deriverebbero sia λάξευμα ‘lavoro o scultura in pietra’ ma anche λαξεία ‘cava
di pietre’. Quindi ascella come elemento cavo. Un po’ campata per aria.
Per capire come stanno le cose basta però andare a vedere l’etimologia della parola ascella, che ricava il suo
etimo dal latino AXILLA (= diminutivo di ala < *aks-la oppure *aks-ela) da ALA che vuol dire ‘ala’ anche in
latino. E si giustifica perché l’ascella è coperta e non si vede fino a quando non si solleva il braccio dal corpo
facendo quindi come un’ala. È una metafora. Ascella in origine quindi vuol dire ‘aletta’. Questo ci dà la chiave
per la nostra lesena, che indica due cose così diverse come un elemento architettonico sporgente e l’ascella.
Basta partire da *ALICINA altro diminutivo di ALA da assegnare alla fase tarda del latino. Per quanto riguarda
la forma, secondo i normali mutamenti dei dialetti settentrionali, da *alicina > *alesina > lesena
‘ascella’/’sporgenza’. La vocale iniziale cade per aferesi. Per quanto riguarda il significato bisogna pensare
che i due valori si siano sviluppati per metafore parallele e indipendenti a partire dal valore di aletta. Per
ascella possiamo vedere i passaggi che valgono per axilla. Per l’elemento architettonico basta pensare che
l’ala sporge dal corpo e che la parola ala è usata in vari ambiti, anche in quello dell’architettura, e abbiamo
detto prima che la lesena è una parte sporgente di un palazzo.
Secondo questa ricostruzione la parola *alicina deve risalire al latino tardo. Ebbene, proprio al periodo tardo
risalgono i primi esempi noti di elementi architettonici qualificabili come lesene. Qui vediamo degli esempi
importanti, le lesene fatte erigere dall’imperatore Costantino alla basilica di Treviri, in Germania (V sec.). Con
Diocleziano le capitali dell’impero romano erano state portate a quattro, e una di queste quattro era proprio
Treviri. Un’altra capitale era Milano. Tra le chiese più antiche c’è San Simpliciano che conserva il perimetro
originario, anche qui i fianchi sono scanditi da lesene (IV sec.). Ecc.
In latino tardo la parola è attestata con un valore che in latino classico non esiste, e che è appunto ‘congedo’.
Se si parte da questo valore non è chiaro perché la celebrazione dovesse prendere il nome proprio da una
parola che significa congedo. La parola missa è anche il participio passato passivo di mittere ‘mandare’, e
questo già in latino classico. Da qui allora si pone il problema del soggetto: che cos’è che è stato mandato?
Inoltre, a chi è stato mandato?
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[dalle parole con cui terminava il rito: ite, missa est ‘andate, (l'eucaristia) è stata inviata (agli assenti)’. Mĭssa
è il part. pass. f. di mĭttere ‘mandare’ - 1292]
1 nella teologia cattolica e ortodossa, sacrificio del corpo e del sangue di Gesù Cristo che, sotto le apparenze
del pane e del vino, viene rinnovato dal sacerdote sull'altare
[Zingarelli 2020]
La parola quindi sarebbe stata estratta dalla formula finale della messa in latino. Questa spiegazione è stata
data dal linguista Pagliaro. Pagliaro partiva appunto dalla formula finale dandole l’interpretazione che
abbiamo visto. In sostanza, questa formula finale che conteneva il verbo mittere al passivo, sarebbe stata
preesistente al nome missa. Questo nome sarebbe stato estratto, per indicare la celebrazione, proprio dalla
sua formula finale. Ite, missa est. Anzi, secondo Pagliaro, nel latino cristiano la costruzione del participio
passato col verbo essere, che nel latino classico esprime il passivo al tempo passato, nel latino cristiano
avrebbe già preso il valore di tempo presente. Quindi la formula avrebbe preso il valore di ‘andate, viene
mandata’. In ogni caso, anche questo sarebbe un caso di quel particolare tipo di derivazione che abbiamo
visto si chiama derivazione delocutiva.
Però non abbiamo ancora visto l’indizio su cui Pagliaro basava la sua interpretazione, che si trova in uno dei
primi testi della letteratura cristiana, un testo in greco di San Giustino (II secolo), che ci fa sapere che nei
primi tempi del cristianesimo, alla fine della messa, l’eucarestia (le cose consacrate) veniva mandata agli
assenti, che non avevano potuto partecipare alla celebrazione o perché malati o perché nascosti per via delle
persecuzioni. La formula ite, missa est avrebbe sancito l’addio finale dell’eucarestia. Quando poi le
persecuzioni dei cristiani ebbero fine, la formula non sarebbe stata più capita e da questa formula ormai
opaca sarebbe stato ricavato il valore di ‘messa’ e insieme quello di ‘congedo’.
questa ipotesi in realtà non è priva di problemi, non ultimo il fatto che la formula ite missa est (che secondo
Pagliaro è alla base di tutto) è attestata solo dalla fine del VII secolo, circa tre secoli dopo i valori di ‘messa’ e
di ‘congedo’. Nel libro non è scritto, ma secondo Parenti la spiegazione di missa sta proprio nel valore di
‘congedo’. O più precisamente in un significato simile ma più generale che in certi contesti si è sviluppato nel
senso di ‘funzione religiosa’ e in altri contesti si è sviluppato nel senso di ‘congedo’. A proposito di questo,
nel libro si trovano informazioni circa la prima etimologia di missa a noi nota, che si trova nelle Etymologie di
Isidoro di Siviglia (560-636), che pure partiva dal significato di ‘congedo’ ma riferito a un momento
particolare della celebrazione che non è il momento finale. È il momento in cui venivano mandati via i
catecumeni, gli adulti non ancora battezzati, che non potevano partecipare alle sequenze finali e più
importanti della funzione, in particolare non potevano partecipare all’eucarestia.
Missa tempore sacrificii est, quando cathecumeni foris mittuntur, clamante levita: “Si quis cathecumenus
remansit, exeat foras”.
In effetti, sappiamo che nelle funzioni religiose della chiesa delle origini, questo momento di congedo veniva
sempre praticato e veniva chiamato missa cathecumenorum ‘congedo dei catecumeni’, però non si capisce
perché questo momento avrebbe dovuto dare il nome a tutta la celebrazione. Il momento della celebrazione
che dà il nome a tutto può eventualmente essere solo quello finale. Infatti qualche studioso ha pensato che
missa appunto individuasse il momento finale della celebrazione, un momento solenne che doveva essere
accompagnato da una solenne benedizione. Il nome missa sarebbe stato riferito alla benedizione finale e da
qui si sarebbe esteso alla intera funzione. Su missa è stato detto questo e moltissimo altro, ma nessuna delle
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ipotesi proposte pare imporsi. Nel libro in cui Parenti tratta questa parola, il capitolo si conclude con il fatto
che l’etimologia di missa non è ancora finita. Infatti nel mentre c’è stato un altro intervento importante.
Mauro Braccini, allievo di Contini e docente di filologia romanza all’Università di Pisa, ha pubblicato un intero
libro sulla questione con una spiegazione del tutto nuova, ma neppure la sua spiegazione risulta convincente.
Riassunto: secondo Braccini tutto va visto alla luce di un evento storico determinante della storia del
cristianesimo: l’editto di Milano del 313. Come è noto si tratta dell’editto con cui venne concessa la libertà ci
culto nell’impero romano quindi la libertà per i cristiani di professare liberamente la loro fede. La parola
missa sarebbe nata in questo contesto storico, a partire da fatti linguistici preesistenti. In latino, già nel latino
classico, esistevano costruzioni del tipo missum facere aliquem con il significato di ‘mandare via qualcuno’ o
‘dare la liberà a qualcuno’. La parola missa, dice Braccini, deve essere stata ricavata da espressioni come
quelle appena viste, con il significato di ‘dare la libertà’. In partenza missa doveva indicare proprio la libertà
(di culto) da qui, subito e in modo automatico sarebbe passata a indicare anche la funzione religiosa,
finalmente libera dopo le persecuzioni. Libertà = funzione religiosa finalmente libera > funzione religiosa. Il
problema è che missa con il valore di libertà non è attestato né pare naturale. Anche ammettendo che missa
potesse voler dire libertà, non è per niente naturale il passaggio da quel valore a quello di ‘funzione religiosa’.
In conclusione, la storia dell’etimologia di missa non è ancora finita.
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LEZIONE 13
In questa lezione vedremo queste quattro parole, Quarquonia, ragazzo, rubecchio, scagnozzo.
1. Quarquonia, come fa capire la lettera maiuscola, è un nome proprio, per questo motivo la parola che
è sconosciuta ai più non si trova nemmeno nei normali vocabolari. Per trovarla bisogna prendere i
lessici storici, come questo che è il più importante per l’italiano, il Grande Dizionario della Lingua
Italiana (GDLI) fondato da Salvatore Battaglia e uscito in 21 volumi tra il 1961 e il 2002. Va anche
detto che essendo un nome proprio Quarquonia non dovrebbe trovarsi neppure in questo
vocabolario, è stato registrato qui solo perché Quarquonia ha un uso figurato, nel senso generico di
‘istituto di correzione’, è l’esempio in basso di Girolamo Gigli che è un autore senese vissuto tra
Seicento e Settecento. In senso proprio Quarquonia era il nome di un istituto di correzione fondato
a Firenze nel 1653, non come è scritto nel vocabiolario. Istituto di correzione poi imitato in varie città
toscane.
L’istituto non esiste più e il nome rimane minimamente modificato come il nome di una piccola via piuttosto
dimessa che si trova nel pieno centro di Firenze, ‘via del canto alla Quarconia’; ‘canto’ qui vuol dire angolo,
che infatti lì originariamente ospitava l’istituto. Anche a Lucca, oggi, si trova una strada chiamata Via della
Quarquonia, accanto alla chiesa di San Francesco, dietro la quale si trovava l’edificio, che oggi non esiste più.
Anche a Pisa l’istituto non esiste più, ma il suo nome è rimasto (modificato) nel nome di una via, Via
Qualquonia. Modificato o no, il nome è piuttosto curioso. L’etimologia che si trova anche nel vocabolario del
Battaglia è questa:
il nome viene dall’unione di due parole latine quare (‘perciò’ o ‘perché’ in funzione interrogativa) e quoniam
(‘perché’ o ‘poiché’ nelle risposte). Che Quarquonia venga da queste due parole non c’è dubbio, ma c’è da
capire perché venga da qui. Secondo la spiegazione qui riportata ci sarebbe una allusione alle formule che
accompagnavano i severi provvedimenti disciplinari per l’istituto, che era un istituto per la correzione dei
minori, ma la cosa non è molto convincente. Spiegazione qui riportata viene dal GDLI:
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Una spiegazione migliore si trova in questo testo, la biografia di Filippo Franci, il fondatore dell’istituto della
Quarquonia. Ma non si trova precisamente nel testo, piuttosto in una nota che una mano Settecentesca ha
scritto nel margine inferiore di due pagine consecutive. La nota ci fa sapere che Quarequoniam era il
soprannome del proprietario del magazzino in cui l’istituto fu ospitato per la prima volta e dove rimase per
pochi anni. Il nome del proprietario era poi passato al magazzino stesso.
L’informazione contenuta in questa nota è senz’altro credibile, soprattutto perché è credibile il suo autore
che si può identificare sulla base dello stemma che si trova incollato all’inizio del libro. Si tratta di Bindo
Simone Peruzzi (1696-1759). L’informazione è credibile anche perché è credibile la formazione del
soprannome di cui si parla, il soprannome ‘Quarequoniam’ rientra in un tipo di soprannomi piuttosto diffuso,
quello dei nomi delocutivi. Si tratta di soprannomi nati da espressioni che una persona ripete spesso, tanto
spesso che gli altri iniziano a prendere in giro quella persona chiamandola con quell’espressione. Anche
questo ovviamente è un caso di derivazione delocutiva. Vari esempi di soprannomi delocutivi si trovano nel
libro, qui vediamo uno dei più antichi noti, quello di Ulpiano di Tiro, un purista dell’antichità di cui un autore
del II secolo, Ateneo di Naucrati, ci fa sapere che chiedeva a tutti se le parole che usava si trovassero o meno
nei testi classici. La domanda era κεῖται ἢ οὐ κεῖται; “c’è o non c’è?” e per questo era stato soprannominato
Κειτούκειτος. Tra gli esempi del libro ci sono anche questi soprannomi siciliani, l’ultimo dei quali viene
dall’espressione ‘m’annoia’ che è all’origine del cognome di una nota cantante. Da dove potrebbero essere
state prese le parole alla base di Quarquonia? Dalla messa. Fino a che era in latino, cioè fino al 1969, la messa
iniziava con questi versetti, che venivano imparati a memoria dai chierichetti e che contengono proprio quare
e quoniam.
Dell’etimologia di ragazzo vediamo solo alcuni dettagli, mettendo in rilievo soprattutto che il primo significato
della parola con cui la parola compare è quello desueto di ‘mozzo di stalla’. Le parole che significano ‘ragazzo’
molto spesso hanno un etimo molto difficile da individuare. Se ne era accorto anche Egidio Menagio, che lo
dice espressamente. Menagio discute di ragazzo insieme alle voci di garzone e lacché, quest’ultima voce di
origine francese che significa ‘servitore’. Secondo lui queste tre parole avrebbero lo stesso etimo. Della prima
dice che è la parola italiana che ha l’origine più recondita:
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Ma una soluzione, dice Menagio, si può trovare e una comune per tutte e tre è quella che parte dal latino
verna, ‘schiavo nato in casa’. I passaggi sono complicati.
I passaggi consistono nelle alterazioni che Menagio ricostruisce spesso ma che sono solo il frutto della sua
fantasia. Da verna > vernula > vernulacus > vernulacaius > lacaius > lacacius > ragacius (ragazzo) > cacius >
gars (garzone).
Dopo molti altri tentativi da parte di altri, tentativi migliori ma certo non soddisfacenti, alla fine si è arrivati a
un accordo quasi completo intorno a questa ipotesi, che la parola derivi dall’aravo raqqas. La parola in arabo
ha il significato proprio di ‘ballerino’ ma può anche avere il significato di ‘corriere’ o ‘galoppino’, incaricato
soprattutto di portare lettere. Si è arrivati a un accordo perché a questa etimologia sono arrivati due
etimologi importanti contemporaneamente, uno dei due è Pellegrini, autore di numerosi studi di arabismi in
italiano, studi che in parte sono confluiti in una grande raccolta in due volumi uscita nel 1972. Tra le prove
della connessione tra ‘ragazzo’ e ‘raqqas’ ci sarebbe un passo di un manoscritto veneziano del Trecento,
manoscritto di natura mercantile chiamato Zibaldone da Canal, dal nome della famiglia veneziana che lo
possedeva. In questo manoscritto, in un punto in cui si parla della dogana di Tunisi si menzionano dei rachasi
che prendono una parte della merce, un sacco. L’altro studioso che contemporaneamente arrivò alla stessa
ipotesi per ragazzo è Juan Corominas, catalano, autore di un importantissimo vocabolario etimologico della
lingua spagnola in sei volumi nella sua seconda edizione. Corominas partiva da altri testi, cioè da documenti
catalani dei primi del Trecento. In questi documenti si trovano forme che mostrano con evidenza la loro
provenienza dall’arabo raqqas. Queste attestazioni gli offrivano lo spunto per dare lo stesso etimo all’italiano
‘ragazzo’.
1307 «conta lo dit moro que ell jahia ab dos arracasses de Çaen»
Il fatto che due studiosi siano arrivati indipendentemente alla stessa ipotesi sembra una garanzia dell’ipotesi
stessa. Va anche detto che non ci sono ipotesi migliori in circolazione. Ce la teniamo anche se non è del tutto
soddisfacente. L’etimo arabo infatti non è del tutto soddisfacente né per la forma (che è un po’ diversa) né
per il significato che è un po’ diverso. L’ipotesi è problematica anche per la distribuzione geografica di
ragazzo, che non è quella tipica degli arabismi.
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Parola che si trova una volta soltanto nella Divina Commedia, e poi in qualche imitatore di Dante. L’etimo
che se ne dà è ricostruito ed è a partire da ruber. In realtà, è un nome e indicava tutt’altro. Era infatti una
parte del mulino ad acqua, una ruota dentata per la precisione. La figura proviene da un testo
cinquecentesco. È quello indicato con la E.
4. Infine vediamo scagnozzo, una parola la cui etimologia è apparentemente semplice: per la
definizione prendiamo il Grande dizionario italiano dell’uso (GRADIT) di Tullio De Mauro (1999-
2000).
Etimologia del De Mauro è la più diffusa e la più immediata. Ci sta pensare al cane, perché è il migliore
amico dell’uomo. A guardare bene le cose non tornano da più punti di vista. Michele Loporcaro ha fatto
notare innanzi tutto che il prefisso -s- in ‘scagnozzo’ in sostanza non si spiega. Inoltre, questo prefisso non
compare mai nelle poche parole italiane che presentano il suffisso -ozzo:
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Bisogna poi anche fare i conti con il significato, perché il significato primario di ‘scagnozzo’ non è quello che
abbiamo appena visto, che è relativamente recente, ma è quello segnato al punto 3. della definizione di De
Mauro. Quando compare per la prima volta e per oltre un secolo era una specie di sacerdote; per essere più
precisi in passato lo scagnozzo era un ‘prete senza parrocchia’, in sostanza un poveraccio, un prete che per
vivere faceva le messe dove capitava, e occasionalmente provvedeva a sostituire il parroco. Questo
significato non esiste più perché di fatto non esiste più quella figura di sacerdote, a Roma i preti scagnozzi
furono aboliti da Papa Pio X agli inizi del Novecento. Per l’etimologia accenniamo all’ipotesi alternativa
proposta da Loporcaro: parte dal nome di un oggetto che pare adatto alla spiegazione perché si trova anche
nelle chiese, si tratta dello ‘scanno’ o ‘scranno’, un sedile piuttosto importante. Nell’Italia settentrionale la
parola ha anche la variante ‘scagno’. Sullo scranno, dice Loporcaro, si sedevano i preti importanti. I preti di
basso rango invece erano costretti a sedersi sugli sgabelli, che nell’Italia settentrionale magari si chiamavano
‘scagnozzi’. Il nome scagnozzo allora dallo sgabello si sarebbe trasferito al povero prete che ci si sedeva sopra.
Questa denominazione pare un po’ troppo indiretta. C’è in realtà una spiegazione più diretta e più coerente
con la provenienza del nome. ‘scagnozzo’ infatti è una parola non settentrionale ma romanesca. Nei dialetti
mediani, dell’Italia centrale esclusa la Toscana, esiste un’altra parola ‘scagno’, che vuol dire tutt’altra cosa: si
tratta di un derivato del verbo ‘scagnare’ che probabilmente corrisponde all’italiano ‘scambiare’. Quindi
questo scagno significa ‘sostituto’. A questo valore si arriva per metonimia, ‘scagno’ parte dal valore di
sostituzione ma viene usato col valore di ‘persona che sostituisce’. Si tratta dello stesso fenomeno che si
osserva nella parola ‘guardia’, che parte con il valore di ‘sorveglianza’ e viene usato poi con il valore di
‘persona che sorveglia’, mantenendo tra l’altro il genere femminile anche quando la guardia è un uomo. E se
lo scagno è il sostituito, lo scagnozzo sarà una versione degradata di questa figura, appunto il prete
poveraccio che occasionalmente provvedeva a sostituire il parroco.
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LEZIONE 14
Le quattro parole di questa lezione sono scangeo, scolta, stregua, topica e sono tutte parole molto
particolari.
1. cominciamo da scangeo che è una parola esclusivamente toscana ed entra nei vocabolari solo
perché la usa qualche autore toscano. Anche se curiosamente fa la sua prima comparsa in un sonetto
romanesco di Giuseppe Gioachino Belli, lo stesso Belli spiega la parola in una nota dove scrive che
significa ‘guaio’.
La versione in rete della Treccani dà altri significati, ma non troppo diversi ‘disavventura’, ‘accidente’,
‘disastro’. Per l’etimo si presenta con dubbi il verbo cangiare, che è una variante di cambiare di tramite
francese. Questa spiegazione è quella che ha goduto di maggiore successo, anche se va detto che la nozione
di ‘cambiare’ e quella di ‘disavventura’, ‘accidente’ ecc. non sono simili e non si capisce quale potrebbe essere
la loro connessione.
Il valore che Parenti riconosce per la parola, nel libro, è ‘scenata’, che ritiene sia la nozione di base e che con
‘cambiare’ non c’entra proprio niente. Per scangeo una spiegazione del tutto diversa era stata proposta nel
1958 da Alessio. L’etimologia da lui proposta è questa, che senza argomentazioni fa venire scangeo dal turco
ișkence ‘tortura, tormento’. La fonte dell’Alessio era un vecchio vocabolario etimologico delle lingue orientali
entrate nelle lingue europee, dove ci viene detto che la parola turca ha origine persiana ed è passata come
prestito al rumeno nella forma schingiu. Che una parola turca sia entrata in rumeno è facile da giustificare, il
prestito si spiega bene col fatto che l’attuale Romania è stata a lungo sotto l’impero ottomano, di fatto in
rumeno i prestiti che vengono dal turco sono piuttosto numerosi. È più difficile immaginare come la parola
turca sia arrivata in Toscana, infatti l’ipotesi dell’Alessio è stata quasi ignorata. Invece questo è uno dei casi
in cui l’Alessio ci ha azzeccato.
Gli elementi che confermano l’ipotesi dell’Alessio li troviamo nel libro. Un testo toscano di fine Quattrocento
presenta una parola molto simile che designa un gioco piuttosto violento dove i giocatori si divertono a darsi
delle frustate a vicenda usando delle cinghie:
«Erano in fra gli altri a quella cena parecchi giovani i quali facevano a uno bello giuoco che si chiama iscangé,
che si fa con corregge [= cinghie] a darsi l’uno all’altro».
Ai primi del Cinquecento risale la descrizione di un gioco che si chiama schangiè ed è guidato da un capo
gioco che impone agli altri prove spesso violente e questo capo gioco è provvisto di una frusta:
«Volendosi in una multitudine di giovani fare uno schangiè, imprima un capo et uno guidatore di quello tra
essi si elegga è necessario, il quale noi comunemente chiamiamo Andrevuolo, et comandando ha da tutti a
essere ubidito; se non, chi del suo comandamento errando esce, ha et debbe esser da lui gastighato».
Un legame con la tortura qui si capisce, la parola turca insomma deve essere entrata in toscana come nome
di gioco passando poi per metafora a indicare situazioni diverse ma ugualmente concitate. Un altro turchismo
dell’epoca è la parola tafferuglio che quando affiora per la prima volta ha la forma taffaruggio, e ha il
significato di ‘baldoria, spasso’, che è lo stesso della sua matrice, il turco teferrüç che deriva a sua volta
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dall’arabo tafarruǧ ‘spasso’. Un altro turchismo più tardo è bailamme ‘baraonda, grande confusione’, che
viene dal turco bayram che indica una festa religiosa, la ‘festa per la fine del Ramadan’.
La parola sculca compare in una fase del latino davvero tarda, perché si trova per la prima volta in una lettera
databile all’anno 592, lettera di Papa Gregorio (poi San Gregorio Magno). In questa lettera di parla di
esploratori mandati per controllare dei movimenti dei longobardi, che minacciano al tempo Roma, che si
trova nel territorio in mano ai bizantini.
L’etimologia di sculca dal gotico *skulka fu proposta da Jakob Jud. Prima vediamo la sua spiegazione (1908):
è vero che il gotico *skulka non è attestato, ma le lingue germaniche settentrionali presentano una radice
*skulk- che in origine avrebbe significato ‘spiare’ e avrebbe potuto essere presente anche in gotico. Eventuale
passaggio di questa eventuale parola gotica in latino troverebbe un parallelo nel verbo guardare. Abbiamo
visto che guardare è uno dei primi germanismi e abbiamo anche visto che è un germanismo di ambito
militare. Secondo Jud il latino scŭlca deriverebbe da una vicenda simile a quella di guardare. Il gotico *skulka
sarebbe entrato nel latino già prima della caduta dell’impero romano d’occidente, quando l’esercito romano
contava però sull’appoggio di milizie germaniche.
Questa datazione molto alta per il prestito è imposta da un fatto, secondo Jud: in testi latini databili tra la
fine del IV e gli inizi del V secolo si trova una forma exculcator con il significato di ‘esploratore’. Questa forma
pare proprio un derivato dell’ipotetico gotico *skulka. Torniamo a Jud, la cui etimologia è del 1908, più tardi
Jud è diventato un linguista molto importante e il suo nome va spesso in coppia con quello di Jaberg, perché
loro due insieme hanno realizzato un importante atlante linguistico. Parliamo dell’AIS, Atlante linguistico
Italo-Svizzero, uscito in otto volumi tra il 1928 e il 1940. Fatto sta che l’etimologia di *skulka da Jud fu accolta
da Meyer-Luebke nel suo dizionario etimologico romanzo. E anche da Gamillscheg nel suo importantissimo
lavoro d’insieme sui germanismi nelle lingue romanze. Da queste opere l’etimologia di Jud è passata in
numerose altre pubblicazioni. Senonché nel 2014 uno storico inglese ha dimostrato in modo chiarissimo che
quell’etimologia non è per niente credibile, anche perché in latino exculcator non è affatto isolato, accanto a
exculcator esiste anche un sinonimo proculcator, sempre con il significato di ‘esploratore’.
In realtà la forma proculcator era già nota da un altro testo, un testo storico del IV secolo, ma essendo
attestazione unica non era stata presa in considerazione. Recentemente però di proculcator sono venute
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fuori altre attestazioni, che si trovano in alcune iscrizioni provenienti dalla Tripolitania, una zona
corrispondente a una parte dell’attuale Libia, nell’antica provincia romana dell’Africa, dove chiaramente non
è possibile pensare a una presenza gotica. Insomma, per il latino tardo sculca nessun etimo germanico. Si
tratta di un nome ricavato dal verbo *sculcare, forma volgare del latino exculcare ‘prestare opera di
ricognizione’.
3. passiamo a stregua, parola molto particolare e la sua particolarità consiste nel fatto che si trova
usata soltanto all’interno di locuzioni. Le locuzioni sono:
1 misura, proporzione, criterio, nelle loc. alla stregua di, alla stessa stregua: giudicare qlcu. alla
stregua di un altro; considerare tutti alla stessa stregua
2 † rata, quota da pagare
[da tregua, con s- - av. 1565]
[Zingarelli 2020]
Abbiamo intravisto l’etimologia, che vediamo meglio nel vocabolario di Cortelazzo-Zolli, ma l’etimologia è più
o meno la stessa in tutti i vocabolari etimologici italiani a partire dalla fine dell’Ottocento. Stregua viene
rimandato a tregua, nel senso di ‘contratto’, con un prefisso s- che a seconda dei vocabolari viene variamente
interpretato. La parola tregua viene dal longobardo e vuol dire ‘sospensione delle ostilità’ e non risulta abbia
il valore di ‘contratto’ ammesso che questo valore sia adeguato a spiegare le locuzioni che abbiamo visto.
Anche il prefisso chiamato in causa si spiega malissimo, per stregua qualche vocabolario parla di valore
intensivo del prefisso, ma questo prefisso con valore intensivo si unisce solo a verbi e poi non si vede quale
possa essere l’intensificazione nella parola stregua. Questa etimologia insomma non va bene affatto. Per
trovare un’altra etimologia serve una parola dove la consonante iniziale non sia un prefisso e una parola in
questa condizione si trova andando a cercare nel latino medievale, cioè nel latino di alcuni documenti redatti
nel medioevo in Italia. La forma è la stessa stregua ed è ben nota perché si trova registrata nel più importante
vocabolario del latino medievale, redatto nel Seicento da Du Cange e aggiornato fino all’Ottocento. Per il
latino medievale questo è tutt’ora un vocabolario indispensabile.
In latino medievale stregua significa ‘idem quod Stapha’, cioè è la stessa cosa di ‘staffa’. Staffa abbiamo visto
che si tratta di una parola di origine longobarda. In Italia accanto a staffa esisteva evidentemente anche una
parola concorrente con lo stesso valore di ‘staffa’. Questa parola è attestata solo nel latino medievale dove
è scritta in vari modi stregua / streuga / streugua e la sua origine è chiara, viene dal francese antico dove ha
la forma estreu / estrieu / estrief. Il francese antico a sua volta discende da una lingua germanica che è il
francone *streup.
Nel libro si vede che la parola stregua con il valore di staffa nei testi in latino medievale viene fuori perché è
collegata a un gesto ufficiale di omaggio, chiamato officium stratoris ‘servizio dello scudiero’. Era una forma
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di omaggio che l’imperatore doveva rendere al papa quando lo incontrava e in particolare prima della
cerimonia della sua incoronazione a imperatore, che era celebrata dal papa. L’officium stratoris fu introdotto
nel XII secolo e tra le altre cose comprendeva questo: l’imperatore doveva tenere la staffa del papa che
arrivava a cavallo. Nei testi in latino medievale stregua compare poi molte altre volte per indicare però un
altro tipo di staffa, quella che si usava per tenere la balestra mentre si tendeva la sua corda.
Come ha fatto la parola stregua con il valore di staffa a finire dentro una locuzione lo vediamo nel libro, di
nuovo con l’aiuto di una novella di Franco Sacchetti. Dobbiamo tener conto del fatto che con staffa si può
indicare anche la cinghia che collega la staffa alla sella, che più precisamente si chiama ‘staffile’. Questa
estensione del significato è chiaramente un fenomeno di metonimia.
La distinguiamo da topica(1):
1 nella retorica classica, teoria dei luoghi comuni a cui si può far ricorso in una dimostrazione
2 arte del trovare gli argomenti
[vc. dotta, lat. tŏpica(m), dal gr. topikḗ, sottinteso téchnē ‘(arte) propria dell'utilizzazione dei luoghi
(tópoi)’ - 1261 ca.]
[Zingarelli 2020]
Anche se etimologicamente parlando si tratta della stessa cosa. Di topica non diciamo nulla se non che nel
punto in cui nel libro si parla di topica Parenti a p.111 ha scritto ‘rifermento’ al posto di ‘riferimento’.
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LEZIONE 15
In questa lezione vediamo le parole zibaldone, trabiccolo e facchino. Queste sono le ultime tre del libro di
testo.
Il significato 2 è noto a tutti perché tutti conoscono lo Zibaldone di Leopardi. Comprende ben 1526 pagine
scritte tra 1817 e 1832. Ma quest’opera si inserisce in una tradizione piuttosto lunga, infatti libri manoscritti
di quel genere hanno cominciato a chiamarsi zibaldoni almeno dal Quattrocento. La prima attestazione di
zibaldone in realtà è del secolo precedente e si trova in una frottola di Franco Sacchetti. Una frottola è un
componimento poetico formato da una lunga serie di versi di varia misura e in successione molto libera sia
nella sintassi che nella disposizione dei contenuti. A volta le frottole sono piene di parole colloquiali e gergali
al punto che non se ne capisce bene il senso. Fatto sta che nella sua prima attestazione zibaldone non si
capisce bene a cosa si riferisca. Si tratta sicuramente di qualcosa di scritto, ma potrebbe essere la frottola
stessa. Goidànich, linguista di origine istriana e docente all’università di Bologna, aveva nel 1914 sfiorato la
corretta etimologia. Di zibaldone Goidànich aveva in mente soprattutto il significato 1, ‘intruglio, mescolanza
confusa’, perché secondo lui il nome partiva da zabaione. Come avrebbe fatto zabaione ad arrivare alla forma
zibaldone? Secondo Goidànich il nome zabaione sarebbe stato avvicinato ad un’altra parola, parola che si
trova in un vecchio vocabolario del dialetto emiliano, ferrarese, dove accanto a zibaldon si trova anche il
lemma zibanda ‘cibaria’. Questa parola si può spiegare come nata da un incrocio tra ‘cibaria’ e ‘vivanda’.
Ripassiamo il meccanismo dell’incrocio, l’avvicinamento formale tra parole di significato simile, perché serve
a spiegare anche zibaldone. Es.: REDDERE ‘rendere’ X PREHENDERE ‘prendere’= italiano rendere.
Secondo il Goidànich allora zabaione sarebbe nato dall’incrocio di zabaione e zibanda e si tratterebbe quindi
di una parola di origine emiliana. Una quarantina d’anni più tardi fu proposto un altro etimo, la proposta
venne da una filologa italianista, Franca Brambilla Ageno, che si stava occupando delle poesie di Sacchetti.
Probabilmente non conosceva l’etimologia del Goidànich e per zibaldone proponeva una ipotesi tutta
diversa, cioè una connessione con un nome di persona, Arcibaldo > Arcibaldone > (Ar)cibaldone (con
pronuncia emiliana = /arzibaldone/) con successiva aferesi. Chi fosse però questo Arcibaldone non si sapeva.
Poco dopo però un Arcibaldone venne fuori e lo trovò il romanista Elwert. E lo trovò nelle prime edizioni a
stampa di un’opera in versi. Si tratta di un poemetto tratto da un trattato di medicina in latino tradotto
dall’arabo, l’Almansore. Il poemetto è ricavato dalla sezione che si occupa di dietetica. In alcune edizioni
stampate a Venezia, questo poemetto termina con dei versi che menzionano un cibaldone dottor singulare,
cioè eccellente. Sarebbe un medico veneziano l’autore del poemetto, che però non ha lasciato nessun’altra
traccia.
Con tutte le incertezze del caso, questa è la sola ipotesi che si trova ricordata nel dizionario etimologico della
lingua italiana (DELI) di Cortelazzo e Zolli e a ben guardare questo dottor ‘cibaldone’ è del tutto evanescente,
infatti altre edizioni del poemetto invece di ‘cibaldone’ hanno ‘almansore’, probabilmente ‘cibaldone’ doveva
essere il titolo del poemetto e per errore è stato inserito come nome dell’autore. Questo perché il poemetto
in origine era toscano. A Venezia quella parola non era conosciuta e chi l’ha stampato l’ha preso per un nome
di persona.
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Per arrivare alla soluzione giusta, quella sfiorata dal Goidànich, ci aiuta questo studioso, Alessandro Perosa,
docente di letteratura umanistica all’università di Firenze. a lui infatti si deve la pubblicazione del primo
zibaldone che porta sicuramente il nome di zibaldone, lo Zibaldone Rucellai. L’autore è un importante
esponente della famiglia Rucellai di Firenze, Giovanni di Paolo, che nel 1457 inizia a raccogliere uno zibaldone
per fare cosa utile soprattutto ai propri figli, mettendo insieme appunto cose utili prese qua e la e facendo
una specie di insalata mista. Questa insalata mista si chiamerà zibaldone quaresimale, cioè si chiamerà come
quelle insalate molto varie tipiche della quaresima, in cui non si può mangiare la carne:
“ò cominciato per dare notitia et amaestramento a Pandolfo et a Bernardo, miei figliuoli, di più cose, ch’io
credo abbia a essere loro utile; et fia una insalata di più erbe, come s’intenderà pe’ lettori; il quale libro si
chiama il Zibaldone quaresimale”.
Ecco dunque la soluzione: a zibaldone > *zibandone per dissimilazione delle consonanti nasali, questa forma
non attestata si spiega come un accrescitivo della forma emiliana zibanda riferita a questa specie di insalata
mista. Lo zabaione non c’entra niente, così come il dottor Alcibaldone. Si tratta insomma di una antica
metafora che si fissa a partire dal nome di una pietanza. Il processo è simile a quello che ha investito la parola
cibreo che anch’essa ha il significato di ‘miscuglio, confusione’. Per zibaldone ci sono paralleli ancora più
stretti però, ci sono cioè nomi che indicano testi di tipo raccogliticcio e che partono proprio dalla metafora
dell’insalata mista:
C’è inoltre un parallelo classico, che è il nome del genere letterario della satira. Il nome si riferisce
all’originario carattere composito della satira, riguardo agli argomenti. In latino la forma più antica del nome
è satura che viene da satura lanx ‘vassoio pieno’. Anche la satura lanx era una specie di insalata mista, anche
se molto lontana dal gusto attuale.
“La satura è composta di uva passa, farinata d’orzo e pinoli, il tutto cosparso di vino al miele”.
2. passiamo a trabiccolo: parola di matrice toscana usata in italiano nell’uso scherzoso descritto in 2.
In toscana si conosceva anche il significato 1. L’oggetto non è più in uso da diversi decenni e si dice si
usasse anche per asciugare i panni umidi. L’uso pop. di ‘prete’ non è corretto.
1 piccola incastellatura di stecche di legno curvate ad arco, in cui un tempo si poneva uno scaldino
per riscaldare il letto SIN. (pop.) prete
2 (scherz.) veicolo vecchio e malsicuro o arnese complicato malfunzionante o poco stabile | (spreg.)
aggeggio complicato
[lat. trabĭculu(m) per trabĭcula(m), variante di trabēcula(m) ‘piccola trave’ - av. 1673]
[Zingarelli 2020]
Inoltre, se fosse una parola popolare come la forma richiede, trabiccolo avrebbe una forma diversa, avremmo
cioè la spirantizzazione dell’occlusiva sonora in posizione intervocalica, fenomeno che nelle parole di origine
latina di tradizione popolare si verifica sempre. Dobbiamo trovare un’altra etimologia e siamo fortunati
perché abbiamo alcuni testi che ci aiutano a farlo senza grossi problemi. Il primo testo è una delle vite di
Giorgio Vasari, noto architetto e famoso soprattutto per la sua raccolta di biografie di artisti. In una di queste
biografie di un suo collaboratore, Cristofano Ghirardi, si usa per due volte la parola trabiccola con il significato
di ‘impalcatura traballante’. La stessa forma con lo stesso significato si riscontra anche in testi più tardi, come
lo Scoprimento del Mondo Umano di Lucio Agatone Prisco del 1696, dove si parla di pericolose trabiccole.
L’aiuto più grosso però ci viene da due testi precedenti, da due lettere di un pittore altrimenti sconosciuto
che parlano di fatti legati a un evento storico, l’assedio di Volterra ordinato nel 1472 da Lorenzo il Magnifico.
Le operazioni d’assedio furono guidate da Federico da Montefeltro, duca di Urbino e in queste operazioni si
utilizzò una macchina da guerra particolare, una specie di grossa catapulta chiamata ‘briccola’, utilizzata già
da lungo tempo negli assedi.
Un uso metaforico di ‘briccola’ si spiega bene se la vediamo come macchina da assedio. In questa lettera del
1472 infatti vediamo un disegno della macchina, con scritte accanto anche due sue varianti, probabilmente
due varianti scherzose della parola, forse nate in quella occasione, ottenute dalla deformazione di ‘briccola’:
trabiccola o strambiccola. È importante anche la seconda lettera, perché ci dice che la briccola, prima di
partire per volterra, fu collaudata in uno spazio aperto dentro le mura di Firenze. Il nome deformato
‘trabiccola’ è nato e si è diffuso in città proprio nell’occasione del collaudo, perché al collaudo avranno di
certo assistito un po’ di abitanti di Firenze, che poi avranno utilizzato trabiccola per metafora per riferirsi a
un oggetto più piccolo simile.
3. ed eccoci a facchino: il significato è noto e vediamo subito l’etimologia dello Zingarelli, che è quella
che da tempo si trova in tutti i vocabolari. Il problema però c’è perché l’etimo sarebbe una parola
araba indicante una persona che fa un mestiere molto diverso.
1 chi per mestiere trasporta carichi o bagagli nelle stazioni, nei porti e sim.: facchino di porto, di
stazione, di piazza
2 (fig., spreg.) persona grossolana e triviale
[etim. discussa: dall'arabo faqīh, in orig. ‘giureconsulto, teologo’ (?) - 1436]
[Zingarelli 2020]
Il fatto è che per facchino non sono a disposizione etimologie migliori, e il linguista che ha proposto questa
etimologia è uno studioso molto importante, Pellegrini. Vediamo su cosa si basa la sua etimologia: nel
medioevo le città marinare d’Italia avevano fitti rapporti commerciali con i paesi di lingua araba, rapporti
regolati da trattati ufficiali che venivano scritti in latino. I giureconsulti arabi, che in arabo si chiamano faqih
in questi trattati compaiono spesso e qui il loro nome si presenta nella forma latinizzata alfachinus con il
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mantenimento dell’articolo arabo. O anche nella forma senza articolo: fachinus. Questa forma è
sostanzialmente identica a quella che si troverà più tardi per indicare i facchini nei documenti di Venezia, è
qui infatti che compare in modo più solido il nome ‘facchino’ all’inizio. Ora, se riprendiamo i tre principi
fondamentali dell’etimologia di cui abbiamo parlato nella prima lezione, non possiamo non notare il fatto
che l’accostamento tra l’arabo e l’italiano risponde molto bene al nostro requisito, quindi a quello della
forma, ma non agli altri due.
Il Pellegrini però trovava una soluzione anche grazie al testo mercantile veneziano del XIV secolo, lo Zibaldone
da Canal. In questo caso il nome zibaldone è stato attribuito al manoscritto in epoca moderna. In questo
manoscritto si parla di alcuni fachini che sono chiaramente i giureconsulti arabi, che sono impegnati a
sorvegliare la consegna dell’olio da parte dei mercanti veneziani. I giureconsulti si trovavano nella dogana.
Sarebbe successo allora che nei decenni successivi i paesi arabi sarebbero stati investiti da una grave crisi
economica, cosa che avrebbe costretto questi giureconsulti a riciclarsi come facchini in quella stessa dogana.
Ma non solo, un secolo più tardi dei personaggi chiamati fachini si trovano a Venezia, o in territori sottoposti
a Venezia, dove pare che facciano i mercanti. Questo documento si riferisce al Cadore, nel veneto
settentrionale, e fa divieto ai fachini di andare in giro per il Cadore a vendere merci. Secondo il Pellegrini si
tratterebbe dei giureconsulti arabi ormai decaduti costretti a fare i venditori ambulanti a Venezia e in veneto
in generale. Il tutto pare però completamente inverosimile.
Al Pellegrini fu fatto notare che i fachini a Venezia non venivano dal mare, ma piuttosto dalla montagna. Uno
dei linguisti che fece notare questo è Mario Alinei, che però propose in cambio una etimologia assurda, con
‘facchino’ che verrebbe da un non attestato *fatichino. Un po’ meno assurda ma comunque inverosimile è
l’etimologia che fu proposta da Cortelazzo, che riuscì solo a far arrabbiare molto il Pellegrini, proponendo
un’origine tedesca del termine da fachen ‘cardare, ‘feltrare la lana’. Pellegrini allora tornò sulla questione per
confermare la propria ipotesi. Tra le conferme ci sarebbe questa: a Venezia c’è un campo dei ‘mori’, i ‘mori’
a Venezia erano gli arabi, quindi a Venezia doveva esserci una colonia araba e all’interno della colonia
dovevano esserci dei giureconsulti decaduti ora venditori ambulanti. In realtà il campo dei mori prende il
nome da alcune statue che rappresentano delle persone in vesti orientali, ma si tratta di mercanti veneziani.
Di arabi a Venezia nel Medioevo liberi di circolare per la città non ce n’erano. Vediamo allora come stanno le
cose: i fachini che si trovano a Venezia a partire dagli anni Venti e Trenta del Quattrocento vengono da altre
parti e il loro nome solo per caso coincide con l’adattamento italiano della parola araba ‘giureconsulto’. I
fachini a Venezia, e lo sappiamo dai documenti di archivio e dalla letteratura venivano dalla zona di Bergamo.
Anzi, in alcuni testi la parola facchino significa non precisamente ‘facchino’ ma Bergamasco.
Questi sono dei versi di un mercante fiorentino da alcuni anni a Venezia, Jacopo d’Albizzotto Guidi (1442):
facchini ‘Bergamaschi’
frullani ‘Friulani’
questo è un articolo del regolamento della confraternita dei vetrai di Murano, dove si fa divieto agli stranieri
di produrre il vetro, ed espressamente questo divieto riguarda i facchini e gli slavoni cioè gli slavi della
Dalmazia allora sotto Venezia. Lo stesso articolo viene citato più avanti nello stesso testo e viene usato il
latino con cui i bergamaschi sono indicati con un nome a noi più chiaro, bergamensibus. Che poi i facchini a
Venezia fossero quasi tutti bergamaschi ce lo dice Teofilo Folengo nel Baldus. Insomma a Venezia dire
‘bergamasco’ e dire ‘facchino’ era la stessa cosa. Ora, perché i facchini di Venezia venissero proprio dalla zona
di Bergamo è ben noto. Nel 1428 la zona di Bergamo entra sotto il dominio di Venezia. Resta da capire ora
perché a Venezia proprio i bergamaschi venissero chiamati fachini. Per capirlo è sufficiente guardare i
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documenti bergamaschi di quel periodo: questi documenti fanno vedere che a Bergamo e dintorni Fachino
era un nome di persona, ed era un nome estremamente diffuso. In questo documento per esempio si
menzionano quattro testimoni e di questi uno si chiama Fachino e altri due hanno il padre che si chiama
Fachino. Documenti come questo sono numerosissimi.
Ci si può chiedere da dove venga questo nome Fachino, ebbene anche se non sembra, Fachino viene da
Lanfranco, o meglio, dalla sua forma diminutiva Lanfranchino, attraverso varie riduzioni di cui una tipica del
bergamasco. Le forme ridotte dei nomi propri come questa vengono chiamate ipocoristici, con termine che
è un equivalente di ‘vezzeggiativo. Gli ipocoristici nascono nel linguaggio familiare e affettivo e possono
allontanarsi anche molto dai nomi di partenza.
Vediamo altri due esempi, famosi, ricordati in un passo del Paradiso di Dante, dove si testimonia che Lapo e
Bindo sono nomi diffusissimi a Firenze ed entrambi sono degli ipocoristici: Lapo di Jacopo, Bindo di
Aldobrando/Ildebrando. I passaggi sono questi e sono tutti documentati:
Aldobrando > Aldobrandino diminutivo > Bandino ipocoristico > Bindino per assimilazione > Bindo per
retroformazione.
Per tornare al nostro ‘facchino’ vediamo un documento bergamasco, una cronaca dell’anno 1380 che riporta
una lista di 58 persone
Che cosa sia successo a Venezia con il nome Facchino ce lo spiega Bruno Migliorini: c’è stato un passaggio dal
nome proprio al nome comune. Il passaggio non è raro e ce ne sono diversi tipi, il nostro è simile a questo:
Baciccia era in Liguria un ipocoristico di Giovanni Battista ed era diffusissimo; nell’Italia settentrionale
baciccia è stato usato per indicare i genovesi e i liguri in generale; in America latina baciccia vale più in
generale ‘emigrante italiano’. Una spiegazione del passaggio è questa: i nomi di persona quando presso una
comunità sono molto frequenti e magari sono anche particolari per forma possono essere usati per
denominare tutti i membri di quella comunità e in questo modo vengono anche un po’ canzonati. Qui
vediamo un altro esempio sempre dal Migliorini, a Modena in passato era frequente il nome femminile
Catalina derivato di Caterina. In passato a Bologna il nome Catalina è stato usato per indicare tutte le
contadine modenesi.
Nome proprio > bergamasco perché tantissimi bergamaschi si chiamavano Fachino > portatore bergamasco
perché a Venezia per lo più i bergamaschi svolgevano questo mestiere > portatore col tempo questa
specializzazione nazionale si è persa e la parola si è generalizzata.
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