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GRAZIELLA TRAVAGLINI
Vedere il simile
LA METAFORA L’ANIMA
E LE COSE IN ARISTOTELE
EDIZIONI ETS
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Vedere il simile
La metafora l’anima e le cose in Aristotele
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A mia madre
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INTRODUZIONE
La ricerca che sta alla base di questo lavoro ha preso avvio dagli
studi di Paul Ricoeur sulla poetica, e dal dialogo da lui istituito con il
pensiero aristotelico. Ha trovato quindi nel pensiero del filosofo fran-
cese, in particolare nel testo La metafora viva1, lo stimolo e le coordi-
nate per portare avanti un lavoro sul linguaggio metaforico. Ma il con-
fronto continuo con Aristotele, che Ricoeur porta avanti per sviluppa-
re la sua metaforologia, fa sorgere da subito l’esigenza di un rapporto
diretto con il filosofo greco che ha posto i problemi fondamentali lega-
ti al linguaggio metaforico e le questioni filosofiche essenziali che per-
mettono di riflettere su di esso. Legame diretto con il pensiero aristo-
telico che, nel divenire di questa ricerca, ha prodotto i presupposti cri-
tici per poter far nascere un discorso autonomo, e anche un distacco
dalla prospettiva interpretativa attraverso la quale Ricoeur legge la ri-
flessione aristotelica sulla metafora.
Mettere in evidenza la genesi e il percorso di una ricerca può
aiutare a comprendere quali sono i nuclei teorici fondamentali intorno
ai quali ruota, e quali sono i motivi che la caratterizzano in modo pre-
cipuo.
La lunga traversata ermeneutica che Ricoeur compie nel proble-
ma del linguaggio metaforico si scandisce in diversi momenti, attraver-
so i quali il tema della metafora viene affrontato prima attraverso il
punto di vista della retorica, poi attraverso le prospettive semantiche e
semiotiche, per arrivare, infine, all’ermeneutica. In questo percorso, il
pensiero di Aristotele rimane il punto di riferimento fondamentale per
affermare il valore ontologico e gnoseologico della metafora e per riba-
dire, a partire da diverse prospettive e approcci, il fondamentale carat-
tere euristico e insieme inventivo e creativo di questo particolare tipo
di linguaggio. All’interno di questo tragitto teorico, la riflessione dello
Stagirita si presenta a pieno titolo come un pensiero in cui la vocazio-
1 P. RICOEUR, La métaphore vive, 1975, trad. it. di G. G RAMPA, La metafora
viva, Jaca Book, Milano 1981.
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Introduzione 13
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Introduzione 15
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Introduzione 17
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passo di De Anima, B8, 420a 26-420b 4 e tutto il terzo libro del De Anima.
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Introduzione 19
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10 I. KANT , Kritik der Urtheilskraft, 1790, trad. it. di A. Gargiulo, Critica del
Introduzione 21
22 Vedere il simile
Introduzione 23
Capitolo Primo
L’AMBIGUITÀ DELL’ONTOLOGIA ARISTOTELICA
E IL LINGUAGGIO METAFORICO
Sommario
1.1. Il ritorno alla dialettica – 1.2. La doxa e la convenzione
1.3. Il linguaggio tra determinatezza ontologica
e universalità dialettica
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mento fondamentale della riflessione ricoeuriana: il ruolo che riveste in riferimento alla
metafora viene sviluppato particolarmente nel saggio The Metaphorical Process as Cogni-
tion, Imagination and Feeling, in «Critical Inquiry», The University of Chicago, vol. 5,
n.1, 1978. Il rapporto tra metafora e attività del giudizio riflettente è evidenziato da H.
ARENDT, The life of the mind, 1978, trad. it. di G. ZANETTI, La vita della mente, Il Muli-
no, Bologna 1987, pp. 188 sgg. Così come da H. G. G ADAMER in Wahrheit und
Methode, 1960, trad. it. di G. VATTIMO , Verità e metodo, Bompiani, Milano 1992,
1983[1], p. 103.
3 I. KANT, Critica del Giudizio, op. cit., § 49.
4 In questo senso si pronuncia A. CAZZULLO, La verità della parola, Jaca Book,
Milano 1987, che rimprovera a tutta la metaforologia di non aver pensato a fondo i pre-
supposti filosofici sui quali si fonda la prima importante teorizzazione della metafora.
Aristotele, avendo elevato la metafora ad oggetto epistemico, fa sì che questa si trasfor-
mi «da un uso spontaneo delle genti a oggetto codificato dal nascente sapere teoretico-
epistemico-veritativo» e stabilendo la differenza tra uso proprio e figurato del linguag-
gio ne definisce quello che sarà il suo destino, cioè appartenere a un ambito separato o
altro, differente dal vero sapere che si definisce attraverso il linguaggio ordinario. Que-
sta prospettiva interpretativa del linguaggio metaforico si colloca sulla linea di pensiero
heideggeriana che stabilisce il binomio meta-forica e meta-fisica, cfr. M. HEIDEGGER,
Unterwegs zur Sprache, 1959, trad. it. di A. CARACCIOLO, In cammino verso il linguaggio,
Mursia, Milano 1990. Nel saggio L’essenza del linguaggio, Heidegger dice: «Resteremmo
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6 Metafisica, IV, 4, 1006a 33-1006b 12, trad. it. di C. A. VIANO, Utet, Torino
1974.
7 De Interpretatione, 1, 16a 7-10, trad. G. COLLI, Laterza, Roma-Bari 1973.
8 Cfr. Confutazioni sofistiche, 1, 165a 5-13, trad. it. di G. COLLI, Laterza, Ro-
ma-Bari 1985: «Tra gli schemi che si possono usare contro di loro [i sofisti], il meglio
fondato e il più popolare è quello che argomenta attraverso la denominazione degli og-
getti. Dato infatti che non è possibile discutere gli oggetti come tali, e che ci serviamo
invece dei nomi, come di simboli che sostituiscano gli oggetti, noi riteniamo allora che i
risultati osservabili a proposito dei nomi si verifichino altresì nel campo degli oggetti,
come avviene a coloro che fanno calcoli usando dei ciottoli. Eppure le cose non stanno
allo stesso modo nei due casi: in effetti, limitato è il numero dei nomi, come limitata è la
quantità dei discorsi, mentre gli oggetti sono numericamente infiniti. È dunque necessa-
rio che un medesimo discorso esprima parecchie cose e che un unico nome indichi più
oggetti».
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me Aristotele possa a pieno titolo essere considerato il fondatore della scienza moderna
e tuttavia individua nel suo pensiero una linea di sviluppo che sfugge a questa colloca-
zione.
12 Cfr. Etica Nicomachea, I, 4, 1096a 23-29, trad. it. di M. ZANATTA, Rizzoli, Mi-
lano 1986. Il noto passo enuncia il principio di unità per analogia dato che «il bene non
è qualcosa di comune secondo un’unica idea». Cfr. anche Metafisica, V, 7, 1017a 22-27.
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13 Questa è l’espressione che P. AUBENQUE (Le problème del l’être chez Aristote,
op. cit, passim) usa per definire il carattere problematico dell’ ontologica aristotelica.
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gung der Naturwissenschaft und die sprachlichen Bedingungen der Prinzipienforschung bei
Aristoteles, 1962, trad. it. di C. G ENTILI , La Fisica di Aristotele, Il Mulino, Bologna
1993, p. 179, p. 177, pp. 291-92.
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il movimento è immanente gli enti di natura, che egli è il fondatore della fisica come
scienza delle cose naturali e che nessuno prima di lui aveva detto che «Movimento e
cambiamento sono i fenomeni fondamentali della natura; chi non intende questi feno-
meni, non intende la natura» (Fisica, III, 1, 200b 14).
18 Cfr. W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit., p. 350.
19 Cfr. P. AUBENQUE , Le problème de l’être chez Aristote, op. cit., pp. 460 sgg.:
«Che ne è oggi di quello che Aristotele chiama to ti en einai e che noi traduciamo, in
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mancanza di meglio, con quiddità, benché la formazione latina di questa parola lasci
sfuggire l’essenziale della formula greca. Aristotele ci dà in via preliminare una definizio-
ne “logica”, vale a dire approssimativa, che non giunge ancora al cuore della cosa. È, di-
ce, “ciò che ogni essere è detto essere per sé” (Metafisica, VII, 4, 1029b 13). Questa de-
finizione è doppiamente esemplare nella sua concisione. Essa si riferisce dapprima al lin-
guaggio: la quiddità si esprime in un discorso attraverso il quale noi diciamo ciò che la
cosa è. Ma, d’altra parte, tutto ciò che la cosa è non appartiene alla quiddità, ma sola-
mente ciò che essa è per sé, esclusi quindi gli accidenti, almeno quegli accidenti che non
sono per sé (symbebekota kath’ayta). […] Aristotele non chiarisce mai questo punto.
[…] Nondimeno rimane che la struttura strana di questa formula, caratterizzata al tem-
po stesso dal raddoppiamento del verbo essere e dall’impiego inconsueto dell’imperfet-
to, non è nata a caso e comportava già per se stessa un significato, che, benché forse già
dimenticato dagli ascoltatori di Aristotele, continuava ad animare segretamente l’uso
che il maestro ne faceva. Il silenzio di Aristotele e la concisione dei commentatori greci
su questo punto hanno dato libero corso all’immaginazione degli esegeti moderni […]».
Secondo l’autore, la scoperta di Aristotele rispetto al pensiero platonico, sta nel fatto di
avere individuato all’interno della distinzione tra sostanza e accidenti un’ulteriore distin-
zione, quella tra accidenti per sé e accidenti propriamente detti: «l’espressione to ti en
einai è specifica, come mostra la definizione che ne dà nel libro Z, nella designazione di
ciò che l’essere è per sé: essa si oppone dunque all’accidente propriamente detto, ma in-
clude degli attributi accidentali per sé, per definire l’essenza individuale concreta […]».
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22 Metafisica, VII, 15, 1039b 19: «Sono sostanze diverse l’insieme di materia e
forma e la definizione. Intendo dire che l’una è sostanza nel senso di definizione assunta
insieme con la materia, mentre l’altra lo è nel senso di definizione presa in assoluto. Del-
la sostanza come insieme di materia e forma c’è distruzione (e infatti di essa c’è anche
generazione), mentre della definizione non c’è distruzione, nel senso che si corrompa (e
infatti non c’è neppure generazione, perché non si genera l’essere della casa ma l’essere
di questa casa particolare), sicché le definizioni sono o non sono, ma senza generazione
e distruzione. […] Per questa ragione neppure delle sostanze sensibili individuali c’è né
definizione né dimostrazione, perché esse hanno materia, la cui natura è tale che può es-
sere e non essere; perciò, tra le sostanze sensibili, tutte quelle che sono individuali sono
corruttibili. La dimostrazione riguarda le cose necessarie e la definizione è quella che
produce scienza. La scienza non può essere ora scienza e ora ignoranza, perché quella
che si comporta a questo modo è l’opinione. Proprio per queste ragioni di ciò che può
essere altrimenti da come è, c’è non dimostrazione né definizione, ma soltanto opinione.
Perciò è chiaro che delle cose individuali sensibili non c’è né definizione né dimostrazio-
ne». Questa contrapposizione tra sostanza individuale, di cui non c’è scienza, e forma
universale, generale e sempre vera di cui c’è definizione e dimostrazione delle cose ne-
cessarie, trova una sorta di mediazione nell’affermazione, che ricorre spesso nella Meta-
fisica, che «ogni scienza è di ciò che è sempre o per lo più, mentre l’accidentale non è in
nessuna di queste due specie di essere» (ivi, XI, 8, 1065 a 4). Il concetto di «per lo più»
(os epi to polu) percorre tutta l’ontologia aristotelica, in quanto gli esseri del mondo su-
blunare sono costituiti nella realtà del movimento, e quindi segnati dalla contingenza:
«Ciò che si muove può anche essere diversamente da come è, sicché il movimento locale
di prima specie, se anche è in atto, proprio in quanto si muove, può essere in modo di-
verso da com’è […] » (Metafisica, XII, 1072b 4). Nella Fisica, II, 9, 199 b 34 sgg., Ari-
stotele sostiene che tutti gli esseri del mondo sublunare sono governati da una necessità
ipotetica (ex hypotheseos) in cui subentra la contingenza. Solo il movimento eterno dei
cieli, il Motore immobile e i fenomeni costanti come i solstizi sono cose che non posso-
no essere diversamente da quello che sono. La necessità ipotetica riguarda il mondo del
divenire, si dà nel campo dei fenomeni contingenti. In ambito etico-pratico in genere il
filosofo usa il termine to eikos «verosimiglianza». La realtà sensibile per Aristotele tiene
insieme necessità, to anankaion, che riguarda «ciò che non può essere altrimenti» (Meta-
fisica, V, 5, 1015a 34-35) e contingenza, to endechomenon, che concerne «ciò che può es-
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sere in modo diverso da com’è»: ciò che permane, nel mondo sublunare, porta con sé la
possibilità del mutamento.
23 In Metafisica, VI, 2, 1026b 13-sgg, Aristotele analizza il modo di essere per
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tura anche ciò da cui deriva la cosa e ciò secondo cui essa diviene; e
infatti ciò che diviene ha una natura, per esempio è una pianta o è un
animale […] 26.
Le realtà sensibili, che si generano e si corrompono, non
sono per Aristotele sostanze in modo secondario e derivato, ma
lo sono «in senso privilegiato», e la loro essenza non deve essere
ricercata in direzione di una condizione immutabile che soggia-
ce al divenire. L’identico, la forma è ciò che permane al loro pe-
rire come individualità, ma pur sempre qualcosa d’immanente a
esse, e la loro essenza è segnata dalla determinatezza e particola-
rità delle sostanze singolari, caratterizzate dalla materialità e dal
divenire.
Il tentativo aristotelico di costruire una scienza unitaria
dell’essere a partire dalla categoria di sostanza, definita univoca-
mente, diventa una «scienza eternamente ricercata», dal mo-
mento che l’indagine sul fondamento stabile e identico incontra,
paradossalmente, come realtà ultima il movimento.
Cosicché nella ricerca dei principi si ritorna – come sotto-
lineano molti interpreti di Aristotele – a una rivalutazione del
metodo dialettico e quindi alla reintroduzione di una compo-
nente intersoggettiva, dialogica e doxastica nella definizione dei
principi primi27.
26 Metafisica, VII, 7, 1032 a 17-23.
27 Cfr. E. BERTI, Retorica, dialettica e filosofia, in «Intersezioni», 1983, n. 3, p.
515. L’autore afferma che la dialettica aristotelica, con il suo metodo critico, può essere
pensata come un modo di fondare un tipo di verità rigorosa, ma storica, che superi il re-
lativismo da una parte e l’astrattezza dell’episteme dall’altra, e insieme un metodo capa-
ce di superare la divisione delle scienze: «Ebbene, proprio il procedimento dialettico
della confutazione consente di stabilire tutta una serie di rapporti tra dialettica, e per
mezzo di questa tra la retorica e la verità, tanto nella forma in cui essa viene indagata
dalla “filosofia pratica”, quanto nella forma in cui essa viene indagata dalla “filosofia
teoretica”, sia quest’ultima intesa come scienza (le scienze particolari), sia essa intesa co-
me filosofia vera e propria (cioè come discorso teoretico diverso da quello delle scienze
particolari, per chi ancora lo ammette)». Cfr. W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op.
cit., p. 256. L’autore parla dei principi primi aristotelici come topoi, facendo riferimento
al pensiero dello Stagirita che sviluppa la dialettica come discussione che si fonda sui
luoghi comuni, sulle opinioni sedimentate nella tradizione, sulle credenze degli eruditi, e
non nella sua versione logica. Cfr. anche I. DÜRING , Aristotele, op. cit., p. 94. L’autore
sostiene che la sillogistica scientifica, che si fonda su proposizioni evidenti e indimostra-
bili, è semplicemente una forma particolare di quella dialettica, e si è formata sulla base
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di questa. Cfr. P. AUBENQUE, Le problème del l’être chez Aristote, passim. Tutti questi in-
terpreti mettono in evidenza come Aristotele non usi quasi mai il metodo sillogistico-de-
duttivo nella sua ricerca e Wieland sostiene che questo metodo non è altro che uno stru-
mento per rappresentare efficacemente delle acquisizioni ottenute per altra via. E.
BERTI, a questo proposito, in Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 34-35, mette in
evidenza che la difformità tra il metodo sillogistico-deduttivo, esposto da Aristotele nei
Secondi Analitici come struttura logica della scienza, e i procedimenti effettivamente
praticati da Aristotele nei trattati scientifici, non può essere risolta assegnando al proce-
dimento deduttivo un fine didattico. La maggior parte di studiosi oggi considera la sud-
detta opera «non come una metodologia della ricerca, bensì come un’indicazione del
modo in cui i risultati della ricerca devono essere organizzati e presentati. Specialmente
il libro I dell’opera, contenente la famosa teoria della dimostrazione, è considerato come
la trattazione del modo in cui il sapere deve essere esposto e reso intelligibile, cioè come
l’illustrazione di quello che oggi si chiama un sistema assiomatizzato». E. KAPP, Greek
Foundations of Traditional Logic, Columbia University Press, New York, 1942, cap. I e
IV, dimostra come la sillogistica aristotelica nasce dalla pratica dialettica. Cfr. anche E.
ZELLER, Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung, II, 2, Leip-
zig, 1879, pp. 242-44.
28 P. AUBENQUE , Le problème de l’être chez Aristote, op. cit., p. 494.
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stiene che la filosofia per Aristotele, non potendo procedere su basi epistemiche, proce-
de attraverso un metodo dialettico. Tuttavia la filosofia è atta a conoscere, mentre la dia-
lettica a criticare e persuadere: «questa differenza di fini e di facoltà impedisce di fare
un confronto tra la filosofia e la dialettica sul piano della verità, per concludere che l’u-
na ha più valore dell’altra. Ma questa stessa differenza rende possibile un impiego delle
argomentazioni dialettiche da parte della filosofia, nel senso che la filosofia può benissi-
mo usare, per conoscere, le stesse argomentazioni che la dialettica usa semplicemente
per vincere la discussione. In tal modo resta ferma la differenza tra filosofia e dialettica,
nel senso che l’una è una scienza e l’altra no, ma nulla vieta che la dialettica possa essere
assunta dalla filosofia come metodo […]». «Insomma la dialettica, la sofistica e la filoso-
fia argomentano tutte nello stesso modo, che non è quello analitico-deduttivo, bensì
quello confutativo; solo che la dialettica è per se stessa semplice metodo, e dunque non
ha alcuna pretesa di conoscere, mentre la filosofia e la sofistica pretendono di conosce-
re, l’una riuscendovi effettivamente, l’altra riuscendovi solo apparentemente […]». «La
dialettica, in quanto esige la presenza del negativo e ne manifesta l’insufficienza, può es-
sere considerata l’espressione logico-strutturale della problematicità della filosofia».
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del rapporto tra la parola e ciò che designa: «In verità io, o Socrate, per quanto ne abbia
più volte disputato con Cratilo e con altri molti, non mi posso persuadere che altra mai
giustezza di nome vi sia se non la convinzione e l’accordo. Mi sembra che, quando uno
dà nome a una cosa, codesto sia il nome giusto; se poi, ancora, sostituisce quel nome
con un altro, e più non adopera il nome di prima, per nulla il secondo sia meno giusto
del primo […] Perché da natura le singole cose non hanno nessun nome, nessuna; bensì
solo per legge e per abitudine di coloro che sono abituati a chiamarle in quel dato modo
e in quel modo le chiamano».
33 Cfr. W. D. ROSS, Aristotle, 1923, trad. it. di A. SPINELLI , Aristotele, Feltrinelli,
1971, pp. 32-33. L’autore sostiene che in questo passo del De Interpretatione Aristotele
esprime una concezione rudimentale della verità, una concezione grossolanamente “rap-
presentativa”, che non è certo il meglio del pensiero aristotelico sull’argomento.
34 A questo proposito è d’obbligo il riferimento al testo di F. LO PIPARO , Aristo-
tele e il linguaggio, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 47, dove l’autore suggerisce di tradurre
il celebre passo aristotelico in questo modo: «[…] le cose che sono nella voce sono sim-
boli delle operazioni logico-cognitive specie-specifiche dell’anima umana». Partendo da
questa traduzione, l’autore sostiene che questo passo può essere reinterpretato alla luce
di un rapporto di cooriginarietà e codeterminazione di significante e significato – possia-
mo dire in termini moderni –, stabilendo un legame immanente tra linguaggio e ciò che
il linguaggio intenziona che, come mostra molto bene Aubenque, interpretando questo
passo, è difficilmente attribuibile ad Aristotele, ma piuttosto al pensiero di un autore
dell’antichità sul quale sono state proiettate o sovrapposte delle categorie proprie della
linguistica moderna. Come il passo mostra, in maniera difficilmente dissimulabile, il rap-
porto di stretta determinazione qui si stabilisce tra pragmata e pathemata. Per Aristotele
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è vero che l’uomo è uomo in quanto parla, ma il linguaggio per il filosofo non è pensabile
in termini di formatività, e non è una facoltà dell’anima intesa in termini moderni.
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35 M. HEIDEGGER, Der Weg zur Sprache, 1959, in Unterweg zur Sprache; trad. it.
della dottrina della memoria e della phantasia e verrà ripreso più avanti nel corso di que-
sto lavoro.
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37 Cfr. W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit., pp. 204 sgg. L’autore, inter-
pretando il passo del De Interpretatione, sostiene che il linguaggio per Aristotele non è
riducibile a un discorso apofantico, quindi soggetto a una valutazione vero-falso, in cui
la funzione significativa si fonda sulla corrispondenza a un’oggettività. Ciò è testimonia-
to da Aristotele nella Retorica, dove vengono trattati quei tipi di linguaggio non riduci-
bili all’enunciato: la preghiera, il comando, la richiesta. Qui si vede chiaramente che il
significato ha un orientamento intersoggettivo e che non si tratta della correlazione di
un segno con un fatto ‘oggettivo’. Tuttavia l’autore, a mio avviso, rileggendo la filosofia
del linguaggio di Aristotele in chiave pragmatica sembra operare una riduzione del me-
todo dialettico alla dimensione dell’intersoggettività; operazione che non rende il valore
e la complessità della riflessione aristotelica sul rapporto tra linguaggio ed essere e, al-
meno in questo contesto interpretativo, non considera il valore del ripensamento della
dialettica operato da Aristotele. Wieland, infatti, sostiene: «parlando secondo la termi-
nologia moderna, pragmatica e semantica non sono dunque, in Aristotele, indipendenti
l’una dall’altra: piuttosto la semantica si fonda sulla pragmatica [corsivo mio], del resto in
completo accordo con le strutture della disposizione naturale osservabili fenomenologi-
camente […] per questo linguisticità e socialità dell’uomo coincidono necessariamente».
L’autore propone infatti di interpretare l’espressione che Aristotele usa per indicare il
rapporto tra phone e pathemata, cioè «kata syntheke», non, come è stato solitamente fat-
to, attraverso la traduzione «per convenzione», ma «in conformità con una convenzio-
ne».
38 De Interpretatione, 4, 17a 2-8.
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39 Ivi, 9, 18a 28-32: «Rispetto agli oggetti che sono e a quelli che sono stati, è
dunque necessario che tra l’affermazione e la negazione una risulti vera e l’altra falsa; si
avrà sempre un giudizio vero contrapposto a un giudizio falso, sia riguardo agli oggetti
universali, presentati in forma universale, sia riguardo agli oggetti singolari, come già si è
detto». Ivi, 18b 5-8: «Ed allora, nulla è né diviene per caso, o secondo due possibilità in-
differenti, e nulla potrà essere o non essere; tutte le cose risultano piuttosto determinate
per necessità, e non sussiste nessuna indifferenza tra due possibilità (in effetti la verità è
detta o da che afferma o da chi nega)».
40 Questa espressione può dare adito a molti fraintendimenti, perché, partendo
da una prospettiva legata al pensiero della modernità, potrebbe indurre a pensare a una
componente soggettivistica forte nella produzione linguistica. In realtà, in Aristotele le
facoltà umane, così come vengono a configurarsi nella riflessione del De Anima, sono
pensate a partire da un orizzonte ontologico, a partire da una primarietà dell’‘oggetto’,
del ‘dato’, del contesto reale in base al quale si caratterizza la facoltà. Non a caso l’anali-
si aristotelica parte dalla considerazione dell’anima come un ‘oggetto’ di analisi che ri-
guarda tutti gli organismi e da una critica alla visione antropocentrica che caratterizza le
posizioni dei predecessori
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41 Nella Retorica, III, 1, 1404a, trad. it. di A. PLEBE , Laterza, Roma-Bari 1961,
Aristotele dice: «i nomi sono imitazioni e la voce è la più mimetica delle nostre facoltà».
Questa affermazione sarà ripresa nei capitoli successivi e interpretata ampiamente.
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Roma 1975, p. 82: «Il nome che è simbolo di un fatto psichico è come uno dei due pezzi
di una tessera divisa in parti. Uno dei due pezzi può stare per l’altro, può fargli da ri-
scontro, del pari ciò che è nella voce può stare per ciò che è nell’anima». Secondo l’au-
tore, il nome per Aristotele è l’indizio di qualcos’altro. Ciò che è nella voce vien dietro a
ciò che è nel pensiero. È una individualità compiuta, che segue il percorso di altra indi-
vidualità compiuta, e quindi non è un’unità che trova la sua definizione in rapporto
complementare a un’altra unità. I nomi non sono per Aristotele una delle due facce del
segno linguistico. Così come parola non è uguale a significante: le parole sono intese nel-
la loro globalità espressiva. Aristotele pensa il segno nella sua natura di rimando a qual-
cosa che sta oltre la natura di segno, e quindi alla natura linguistica, che sono le affezioni
dell’anima, non pensa le affezioni dell’anima come qualcosa di linguistico, di determina-
to all’interno della dimensione segnica. Forse, più che d’individualità compiuta – nella
prospettiva interpretativa qui portata avanti – si può parlare di una individualità forma-
ta. Si tratta di livelli diversi di determinatezza semantica, che entrano in relazione tra lo-
ro. Dove la ‘determinatezza’ assume valore diversi.
43 Metafisica, IX, 10, 1051 a 34-1051 b 8.
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Platons Lehere von der Wahrheit, 1942, trad. it. di A. BIXIO e G. VATTIMO, La dottrina di
Platone sulla verità, Società Editrice Internazionale, Torino 1975, p. 65. Heidegger, co-
me è noto, sottolinea il valore ontologico dell’essere secondo il vero e il falso, e su que-
sto insiste in opposizione a Brentano che accentua l’elemento logico e predicativo, ine-
rente al giudizio, cfr. Von der Mannigfachen Bedeutung des Seienden nach Aristoteles,
1862, trad. it. di G. REALE, Sui molteplici significati dell’essere secondo Aristotele, Vita e
Pensiero, Milano 1995. P. AUBENQUE, Le problème de l’être chez Aristote, op. cit., pp.
168-69, fa notare come l’alternativa è mal posta: «non è falso vedere con M. Heidegger
nella verità ‘logica’ un pallido riflesso della verità ontologica o piuttosto un ‘oblio’ del
suo radicamento in questa. Ma non è neppure falso vedere con Brentano nella verità on-
tologica una sorta di proiezione retrospettiva nell’essere della verità del discorso».
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56 Vedere il simile
45 Cfr. E. BERTI , L’unità del sapere in Aristotele, op. cit., p. 32. L’autore sostiene
che il pensiero aristotelico definisce le condizioni teoretiche per stabilire una completa
autonomia tra scienza e filosofia. Condizione dell’unità di una scienza è l’unità del gene-
re su cui essa verte, ossia l’inclusione di tutti i termini delle sue dimostrazioni in un uni-
co genere. «Pertanto avere scienza significa necessariamente limitare la propria indagine
a un determinato settore della realtà, e sospendere l’inesauribile processo di problema-
tizzazione dell’esperienza a un determinato livello, assumendo come definitivi i principi
ad esso corrispondenti». L’unità del pensiero filosofico, come lo stesso autore afferma, si
fonda sul suo carattere problematico è un’unità esigita che riapre continuamente il per-
corso della ricerca.
46 Cfr. E. G ARRONI in Ricognizione della semiotica, Officina Edizioni, Roma
1977, pp. 21 sgg. L’autore mette in evidenza come l’interpretazione referenzialistica del
significato non abbia certo l’ingenuità di sostenere una teoria banalmente realista. Il re-
ferenzialismo appartiene a una lontana tradizione, e nella sua forma moderna è patrimo-
nio soprattutto di semiotici-logici, da Frege, al primo Wittgenstein, a Tarski e Carnap, il
cui intento è quello di definire le regole di verità del linguaggio della scienza. Carnap
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cit., p. 46. Brentano, commentando il celebre passo di Metafisica, VI, 4, sostiene che
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58 Vedere il simile
l’essere come vero può essere suscettibile di trattazione scientifica: «Aristotele sostiene
la necessità di sviluppare osservazioni al riguardo, solo che esse non spettano alla metafi-
sica. Se non sbagliamo, l’intera logica non ha a che fare con alcun oggetto, quando tratta
del genere, della specie e della differenza, della definizione, del giudizio e della dimo-
strazione. A tutto questo non appartiene minimamente alcun essere al di fuori della
mente».
49 Cfr. Topici, I, 1, 100b 21-23: «Fondati sull’opinione per contro sono gli ele-
menti che appaiono accettabili a tutti, oppure alla grande maggioranza, oppure ai sa-
pienti, e tra questi o a tutti, o alla grande maggioranza, o a quelli oltremodo noti ed illu-
stri».
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60 Vedere il simile
51 De Anima, Γ6, 430a 26 sgg., trad. it. di G. MOVIA, Loffredo Editore, Napoli
1979.
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62 Vedere il simile
64 Vedere il simile
stinction et pathologie, numero speciale di «Les études philosophiques», op. cit. Nella
psicologia di Aristotele viene introdotta questa nuova facoltà che il filosofo chiama
phantasia. È una facoltà ancora poco definita, che non ha ancora certo il potere di rap-
presentare il non conosciuto, e ancor meno di inventarlo, ma è già caratterizzata come la
capacità di rappresentare in absentia, a partire da una conservazione delle tracce dei
sensi, ed è nelle relazioni in absentia che essa svolge il suo ruolo originale e principale.
Quando Aristotele fa intervenire la phantasia nel caso di rappresentazioni in praesentia
questa sta a indicare delle apparizioni senza autentica garanzia di apprensione sensoria-
le, la parola ritorna quasi sempre nei casi dubbiosi o nei casi di illusioni della percezio-
ne. Essa è quindi legata a una patologia della percezione. Per Aristotele la sensazione
realizza una conoscenza della forma, discriminante e non ermeneutica; in questo conte-
sto in praesentia, la phantasia gioca un ruolo debolmente discriminante, caratterizzata
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sulta essere una facoltà capace di giudicare e riguardante il vero e il falso. È necessario
tuttavia far notare che Aristotele usa spesso il termine krinein che ha una estensione se-
mantica ben maggiore di quella che ha il giudizio discorsivo. Anche a propostito dei
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66 Vedere il simile
sensibili propri il filosofo usa spesso questo termine per sostenere che ciascun senso
‘giudica’, ossia riceve e discrimina le differenze del proprio oggetto sensibile. In questo
senso, quello che Aristotele sostiene qui a proposito della phantasia può semplicemente
significare che essa è condizione indispensabile della formazione del giudizio e che sia
implicata nella determinazione del vero e del falso, ma ciò non significa necessariamente
che essa abbia natura proposizionale.
61 Cfr. V. CASTON, Pourquoi Aristote a besoin de l’imagination, op.cit., p. 36.
L’autore sostiene che la dottrina della phantasia, e dei sensibili comuni ad essa connessi,
apre la via a una teoria dell’intenzionalità che non presuppone la struttura concettuale
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che il linguaggio e il pensiero rendono possibile; ciò permette di spiegare gli stati inten-
zionali che restano al di qua di questo suolo. Certo, il deliberare e le forme più alte della
cognizione richiedono l’impiego dei concetti e delle inferenze, ma, anche in questo caso,
Aristotele sottolinea che queste funzioni si costruiscono sul suolo della phantasia. In ter-
mini aristotelici, le forme che sono pensate lo sono «nei» phantasmata (De Anima, Γ7,
431 b 2; Γ8, 432 a 4-6, a 12-14; Γ7, 431 a 14-16). Facendo della phantasia piuttosto che
dell’opinione la moneta corrente in seno agli stati mentali, Aristotele pone l’accento su
una forma di intenzionalità, che è più fondamentale dell’intenzionalità concettuale e
fondamentalmente radicata nel carattere generale dell’esperienza percettiva.
62 De Anima, Γ3, 428b 11 sgg.
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68 Vedere il simile
essere”, del quale si asseriscono le altre categorie. Ciò significa che ousia da una parte
designa il “ciò che è una cosa”, dall’altra la cosa stessa. Nel primo significato, l’ousia dà
risposta alla questione “che cosa è?”, vale a dire “che cosa fa di un X un X, e quale è la
proprietà senza di cui X non può essere X? Nel secondo significato l’ousia è un “che”, e
cioè la cosa concretamente esistente». Cfr. anche Metafisica, VII, 1, 1028a 10-sgg; VII,
13, 1038b 1-6; IX, 1, 1045b 31 sgg., dove l’ousia viene pensata come individuo e come
definizione. Gli interpreti che privilegiano l’idea di sostanza come individuo fanno rife-
rimento per lo più a Categorie, 5, 3b 10-18, trad. it. di G. COLLI, Laterza, Bari-Roma
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stiene che Aristotele definisce la sostanza attraverso una funzione formale vuota, che
viene di volta in volta riempita di significati concreti, e questa concretizzazione può es-
sere realizzata solo in senso deittico, mediante l’intenzione dell’indicare e non in senso
concettuale-contenutistico. Infatti, per Aristotele la sostanza non può mai essere predi-
cato di qualcosa d’altro. Questo è uno dei passi in cui Aristotele sembra toccare i limiti
del linguaggio. Ma, a dire il vero, si tratta di una possibilità già disposta dal linguaggio
stesso: che i nomi propri non possano essere predicati di un enunciato è una circostanza
linguistica.
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70 Vedere il simile
saggio di J EAN LADRIÈRE, Discorso teologico e simbolo, sostiene che il dinamismo del si-
gnificato risulta essere duplice e incrociato e, nel suo interno, ad ogni progresso nella di-
rezione del concetto corrisponde una esplorazione sempre più profonda del campo refe-
renziale. In questo senso – a mio parere – è utile insistere sul fatto che per Aristotele è
una ‘realtà’ o un fenomeno o un ‘dato’ che preme o chiede di essere detto attraverso il
dialogo umano, non è l’ordine linguistico-dialettico che mette in forma un’esperienza
prelinguistica informe e produce attraverso un sistema di relazioni linguistiche la sensa-
tezza del mondo.
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che seguirà una parte dedicata al concetto di mimesis in Aristotele. Mi riservo di trattar-
la più avanti perché la natura di questa nuova facoltà si comprende a pieno, a mio pare-
re, mettendola in relazione con la riflessione poetica dello Stagirita.
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72 Vedere il simile
[…] l’anima è in certo modo tutti gli esseri. […] la facoltà sensi-
tiva e quella intellettiva dell’anima sono in potenza questi oggetti, la
prima il sensibile e la seconda l’intelligibile. Tali facoltà devono essere
identiche o alle cose stesse o alle loro forme. Ora non sono identiche
alle cose stesse, poiché non è la pietra che si trova nell’anima, ma la
sua forma. Di conseguenza l’anima è come la mano, giacché la mano è
lo strumento degli strumenti, e l’intelletto è la forma delle forme e il
senso la forma dei sensibili. Poiché non c’è nessuna cosa, come sem-
bra, che esista separata dalle grandezze sensibili, gli intelligibili si tro-
vano nelle forme sensibili, sia quelli di cui si parla per astrazione sia le
proprietà ed affezioni degli oggetti sensibili. Per questo motivo, se non
si percepisse nulla non si apprenderebbe né si comprenderebbe nulla,
e quando si pensa, necessariamente al tempo stesso si pensa un’imma-
gine. Infatti le immagini sono come le sensazioni, tranne che sono pri-
ve di materia. Ma l’immaginazione è diversa dall’affermazione e dalla
negazione, poiché il vero o il falso consiste in una connessione di no-
zioni. Ma le prime nozioni in che cosa si distingueranno dalle immagi-
ni? Certo neppure le altre sono immagini, ma non si hanno senza im-
magini67.
Questo passo, esemplare del programma teoretico del De
Anima, racchiude alcuni nuclei problematici fondamentali – che
verranno sviluppati più avanti – per comprendere il rapporto
che si istituisce tra linguaggio, pensiero ed essere.
Il primo passo che Aristotele fa è quello di definire l’anima
come ciò che si costituisce in un legame originario con i propri
oggetti68. Questo legame si esprime nel suo essere radicata nella
67 De Anima, Γ8, 431 b 20-432 a 1-15.
68 Cfr. W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit., p. 55, commenta questo pas-
so affermando che il soggettivismo moderno ha creato la distinzione tra mondo esterno
e interiorità, attribuendo ad Aristotele un realismo ingenuo che è l’altra faccia del sog-
gettivismo, e il pendant attraverso il quale con la cristianità si apre la strada all’interio-
rità. Gli elementi di una distinzione rimangono sempre dipendenti l’uno dall’altro: quel-
lo di ‘mondo esterno’ è un concetto che poteva nascere soltanto sotto la premessa del
soggettivismo. Il mondo della natura costituisce l’ambito del ‘mondo esterno’ fintanto-
ché non è scoperto l’ambito della soggettività. Per Aristotele percepire e pensare hanno
senso in quanto si parla contemporaneamente del contenuto di questo percepire e pen-
sare. La percezione è sempre percezione di qualche cosa e il pensiero è sempre pensiero
di qualche cosa. Dunque non si tratta di mediare tra un soggetto e un oggetto, ma questi
sono già reciprocamente correlati in un originario rapporto di corrispondenza. Il con-
cetto di anima, da cui muove Aristotele, è caratterizzato dal fatto che l’anima è già sem-
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pre i suoi propri oggetti. L’alternativa tra soggetto e oggetto è inapplicabile. Questo lo si
può vedere anche nella terminologia che Aristotele usa: nessuno dei concetti fondamen-
tali di Aristotele può essere ordinato univocamente in una delle due sfere (ivi, p. 55)
69 In questo senso è persuasiva la interpretazione sopra citata del carattere non
74 Vedere il simile
dans le livre III du De anima d’Aristote, in «Les études philosophiques», numero specia-
le su Aristote sur l’imagination, 1997, gennaio-marzo, pp. 59-96.
72 Cfr. D. F REDE , The Cognitive Role of Phantasia in Aristotle, in Essays on Ari-
76 Vedere il simile
theorein», saper vedere il simile. Questa forma di theorein, risulta lontana dall’ideale co-
noscitivo disinteressato e contemplativo. Anche questi aspetti saranno sviluppati ampia-
mente nei capitoli successivi.
75 PIERRE AUBENQUE , Le problème de l’être chez Aristote, op cit., pp. 498-499.
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78 Vedere il simile
Capitolo Secondo
LA MIMÈSI POETICA ALL’INTERNO
DELLA DIVISIONE DEI SAPERI
Sommario
2.1. L’arte imita la natura – 2.2. Teleologia naturale e teleologia
artificiale – 2.3. La mimesis come sintesi temporale – 2.4. Le im-
plicazioni etico-pratiche della tragedia – 2.5. Il discorso
metaforico come un «vedere il simile» nel dissimile
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1 Etica Nicomachea, VI, 2, 1139a 5-sgg., trad. it. di M. ZANATTA, Rizzoli, Mila-
no 1986. Il curatore fa notare come questo passo risenta della distinzione platonica tra
episteme e doxa.
2 Ivi, VI, 3, 1139b 20 sgg.
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84 Vedere il simile
mente dell’artefice5.
Pensata in questa prospettiva, la techne si mostra nella sua
natura di attività fondata su principi che trovano la loro ragione
nella vita pratica, nelle sue implicazioni etiche e politiche. Tutta-
via, insieme a questo riconoscimento di un valore primario del-
l’uomo nella definizione della teleologia della produzione6, oc-
corre sottolineare che l’eudaimonia è un fine raggiungibile solo
attraverso il concorrere e l’interagire della eccellenza intellettua-
le (theoria) e della virtù etica (phronesis)7.
La techne, pensata nella sua relazione con la felicità, non è
un’attività che proietta sulla natura l’ordine finalistico della
prassi umana, ma piuttosto un momento in cui sapere teoretico
e saggezza si relazionano costitutivamente, definendo reciproca-
mente i principi a partire dai quali si fonda il loro sapere.
Una testimonianza del valore primariamente teoretico at-
tribuito alla techne la troviamo in Metafisica A, dove Aristotele
distingue l’arte dalle sue applicazioni pratiche, cioè dall’espe-
rienza, sostenendo che la seconda «è conoscenza delle cose indi-
5 Cfr. G. VATTIMO, Il concetto di fare in Aristotele, Pubblicazioni della Facoltà
di Lettere e Filosofia di Torino, Torino 1961, p. 56. L’autore sostiene che la felicità è
pensata da Aristotele nell’arte come una presenza trascendentale che sta a suo fonda-
mento, come esigenza di felicità. Forma-guida che, tuttavia, si configura di volta in volta
a partire dalla scoperta casuale di un piacere, dal suo prodursi contingentemente in
un’esperienza determinata, che nasce spontaneamente, a partire dalla quale l’uomo rie-
sce a costruire sistemi rigorosi, cogliere e fissare quella regola per riprodurla con regola-
rità ai fini della felicità dell’uomo. L’opera rimanda a qualcosa di altro da sé che è il fine
della felicità. È questo rimando che garantisce l’inserimento dell’opera nel mondo uma-
no, ne fa un fatto dell’uomo, un fatto etico.
6 Cfr. W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit., pp. 347-48. Riferendosi al
noto passo di Politica, I, 8, 1256b 15 sgg., dove Aristotele parla della finalizzazione del
mondo naturale sublunare all’uomo, l’autore sostiene che questa non deve essere intesa
come una teleologia universale. Qui non si tratta infatti di una filosofia della natura, ma
di una considerazione pratica del modo in cui l’uomo si dispone nel mondo e delle cose
del mondo fa uso. Il mondo naturale non è finalizzato in sé all’uomo, ma l’uomo può
porre tutte le cose al proprio servizio, può adoperarle, e non per questo le cose mostrano
una tendenza all’uomo. Non sono le cose che in sé hanno bisogno dell’uomo, ma l’uomo
che ha bisogno di esse.
7 Cfr. I. DÜRING , Aristotele, op. cit., p. 530, a proposito della natura complessa
delle affermazioni di Aristotele sulla felicità afferma: «La sua definizione di eudaimonia
è una sintesi di quelle proposte nell’Accademia: i tre pilastri su cui si fonda la felicità so-
no l’intelligenza filosofica, la virtù etica e la gioia».
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86 Vedere il simile
ma, alcune cose che la natura è incapace di effettuare, l’arte le compie; altre, invece, le
imita».
11 Cfr. G. VATTIMO , Il concetto di fare in Aristotele, op. cit., p. 135. L’autore so-
stiene che il rapporto di imitazione sussistente tra natura e arte è da spiegarsi in termini
di una somiglianza strutturale dei due processi, organizzati entrambi finalisticamente. Il
rapporto di somiglianza in questo caso non è un rapporto di dipendenza di una specie
del processo produttivo da una specie del processo naturale, ma una somiglianza gene-
rale che definisce delle caratteristiche strutturali simili.
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88 Vedere il simile
trad. it. di D. G UASTINI, Il piacere del tragico, Jouvence, Roma 2003, p. 83.
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«L’affermazione di una sostanziale non-diversità tra i prodotti dell’arte e quelli della na-
tura, presente in alcuni degli esponenti della nuova scienza, si contrappone radicalmen-
te, come è noto, alla definizione aristotelica dell’arte che porta a compimento l’opera
della natura e la imita nelle sue produzioni […] Nell’aristotelismo e nella medicina ip-
pocratica la natura si presenta come un ideale che è compito dell’arte realizzare o rista-
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90 Vedere il simile
92 Vedere il simile
in se stessa e nella sua possibilità interna una relazione a fini, vale a dire deve essere pos-
sibile soltanto come fine della natura e senza la causalità dei concetti di esseri ragionevo-
li ad essa esterni, si richiede […] che le parti si leghino a formare l’unità del tutto in mo-
do da essere reciprocamente, causa ed effetto della loro forma. Perché solo in tal modo
è possibile che a sua volta l’idea del tutto determini la forma e il legame di tutte le parti:
non in quanto causa – perché allora si avrebbe un prodotto dell’arte – ma per colui che
giudica, come fondamento della conoscenza dell’unità sistematica della forma e del lega-
me di tutto il molteplice contenuto nella materia data» (Critica del Giudizio, op. cit., vol.
II, §65). Kant, ricorrendo alla nota distinzione tra conoscere e pensare, definisce il prin-
cipio del Giudizio teleologico come un principio regolativo e non costitutivo della no-
stra conoscenza della natura e dice che il legame causale, pensato dall’intelletto come le-
game delle «cause efficienti (nexus effectivus)» è un «legame delle cause reali», mentre il
legame causale pensato dalla ragione «è detto delle cause finali (nexus finalis)» ed è un
«legame delle cause ideali». Trasformare il principio del Giudizio teleologico in un prin-
cipio costitutivo significherebbe andare incontro alle note aporie messe in luce dalla
Dialettica trascendentale e fondare la natura su un’idea sovrasensibile che pianifica l’or-
dine finalistico.
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94 Vedere il simile
96 Vedere il simile
19 Parti degli animali, I, 5, 644b 22 sgg., trad. it. di M. VEGETTI e D. LANZA, La-
98 Vedere il simile
20 Questa citazione appare già nel primo capitolo, ma qui viene ripresa ed este-
sa: P. Aubenque, Le problème de l’être chez Aristote, op. cit., pp. 498-501.
21 Cfr. D. G UASTINI , Prima dell’estetica, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 96-97.
22 Questi due concetti verranno trattati più avanti in riferimento alla tragedia.
Cfr. W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit., pp. 324-31. La tesi di fondo del-
l’autore – come già messo in evidenza precedentemente – è che la teleologia occupa un
posto importante nel pensiero aristotelico, ma non costituisce quel principio cosmico
universale che di essa la storia ha fatto. È un fatto di rilievo che Aristotele discuta la te-
leologia nella Fisica (II, 8) soltanto in relazione alla teoria del caso. Di fatto il teleologi-
smo aristotelico può essere correttamente inteso solo accogliendo come premessa la teoria
del caso. Questa non viene discussa da Aristotele premettendo un ordine universale ri-
spetto al quale il caso non sarebbe altro che una perturbazione, ma la nozione di telos
viene concepita in modo che a partire da essa resta aperta la possibilità del caso. Il caso
qui non è ciò che non ha causa, ma è ciò che ha un’altra causa rispetto allo scopo o cau-
sa finale che stava a fondamento di un processo. L’esempio che Aristotele adduce è
quello dell’incontro casuale con un debitore al mercato, con il quale non si aveva ap-
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puntamento. Ciò che avviene per casualità, lo è in rapporto allo scopo originario. Ovun-
que si parli di caso si può sempre trovare anche un’altra causa alla quale il casuale può
essere ricondotto. Per Aristotele quando si parla di caso, abbiamo già premesso delle
strutture teleologiche. La trattazione aristotelica del caso dimostra anche come la teleo-
logia sia una forma di pensiero che, entro l’orizzonte mondano, può essere applicata alle
singole relazioni dell’accadere, e non consente nessun enunciato sull’insieme del mondo
naturale. Il caso è possibile in quanto si possono esperire diverse relazioni teleologiche
autonome.
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23 Riproduzione degli animali, IV, 10, 777b 27-778a 9, trad. it. di M. VEGETTI e
ma, e intendo per forma l’essenza sostanziale e la sostanza prima di ciascuna cosa».
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del cambiamento, che sta in una cosa diversa da quella che subisce il cambiamento o il
movimento, o che sta in quella cosa, ma in quanto in essa c’è una differenza tra ciò che
determina e ciò che subisce il movimento o il cambiamento: per esempio la potenza co-
struttiva è quella che non risiede in ciò che è costruito, e la potenza di guarire può risie-
dere in chi guarisce, ma non in quanto è quello che guarisce. Si dice dunque potenza in
questo senso il principio di cambiamento o di movimento che risiede in una cosa diversa
da quella che cambia o che muove, o che risiede in essa, ma in quanto in essa c’è diffe-
renza tra ciò che determina il cambiamento o il movimento e ciò che cambia o si muove.
In un altro senso si chiama potenza la capacità di subire l’azione di una cosa diversa, o
di subire l’azione di se stessa, ma in quanto c’è differenza tra ciò che agisce e ciò che su-
bisce l’azione».
26 Si veda anche la bella analisi che W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit,
pp. 311 sgg., svolge sull’anima come principio di movimento in quanto muoversi-mosso.
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immagini», eikonopoios. In Metafisica, 1, 1, 981b 17-20 dice: «Tra le molte arti che sono
state trovate, alcune riguardano le cose necessarie, mentre le altre badano solo a rendere
la vita più piacevole; ebbene gli inventori delle seconde furono sempre ritenuti più sa-
pienti di quelli delle prime, perché il loro sapere non ha di mira l’utilità».
32 Cfr. ARISTOTELE , Poetica, a cura di M. VALGIMIGLI , Laterza, Bari-Roma 1966,
1926[1]. Nella sua Introduzione il curatore sostiene che la «mimesi è una vera e propria
attività creatrice dello spirito», p. 27.
33 Il passo è citato all’inizio di questo capitolo
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no, 1927) da lui curata sostiene, coerentemente con la sua interpretazione storico-gene-
tica della poetica aristotelica: «la posizione cronologica della Poetica è anche segnata fra
due opere di altro genere» una è la Politica (libro VIII), che rappresenta il terminus post
quem e l’altra è la Retorica (libro I e III). Questa collocazione evidenzierebbe ulterior-
mente gli aspetti educativi che assume la mimesis poietike. L’autore fa anche notare che i
concetti fondamentali di mimesi, di catarsi e di piacere vengono trattati in modo equiva-
lente nella Politica e nella Poetica (Ivi, pp. XXVIII-XXIX).
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interpretazione platonica e aristotelica della poesia. Molte delle letture del problema
della mimesis in Platone colgono una problematicità della riflessione sulla poesia, la cui
considerazione esula dal compito di questo lavoro. M. C. NUSSBAUM, La fragilità del be-
ne, op. cit., cap. VII, evidenzia particolarmente la riabilitazione che Platone compie del-
la poesia nel Fedro, rispetto alla trattazione che emerge dalla Repubblica. Nel Fedro la
poesia, con le passioni che le sono proprie, è ispirata da una forma di «follia» o mania,
come dono degli dei, ed è legata intimamente alla filosofia. Un’appassionata rilettura
della riflessione platonica sulla mimesis, nel segno di una sua collocazione in un orizzon-
te, quello ovviamente della cultura greca classica, in cui questa figura riveste essenzial-
mente un valore gnoseologico, ontologico ed etico, è quella che D. G UASTINI compie in
Prima dell’estetica, op. cit., cap. II.
36 Retorica, III, 1, 1404a.
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come per i corpi inanimati e gli animali deve esserci sì una grandezza,
ma che sia facile ad abbracciarsi con lo sguardo, così per i racconti de-
ve esserci una lunghezza, ma che sia facile ad abbracciarsi con la me-
moria38.
Quando Aristotele afferma che la parte più importante
della tragedia è la composizione dei fatti (ton pragmaton
systasis) sta enucleando le sei componenti essenziali della trage-
dia: l’intrigo, i caratteri, l’elocuzione, il pensiero, lo spettacolo e
la musica.
La preminenza che il mythos, come «composizione dei fat-
ti», assume nella mimesis tragica è un motivo teorico facilmente
avvicinabile a quella centralità che Aristotele assegna allo sguar-
do esperto dell’uomo di scienza, che cerca di analizzare il mon-
do umano con lo stesso occhio distaccato e oggettivante con il
quale si conosce il mondo della natura. L’accento stesso che il fi-
losofo pone sulla differenza e preminenza dell’intrigo sul carat-
tere mostra come l’azione umana venga primariamente analizza-
ta dal punto di vista della sua struttura ‘oggettiva’, come una
sorta di interazione di forze, come una rete di situazioni e circo-
stanze che si strutturano al di là della volontà, della scelta deli-
berata, della virtù morale e del carattere dei protagonisti. Il
mondo umano è visto attraverso la tragedia come il «mondo
dell’agire e del patire»39: è questo spazio di mediazione e di re-
lazionalità che Aristotele tenta di rendere intelligibile attraverso
la teorizzazione della primarietà dell’intrigo40.
38 Ivi, 7, 1450b 21 sgg., 1451a 1-6.
39 Così definisce Ricoeur, interpretando Aristotele (Tempo e racconto, op. cit.,
passim), l’azione, come un intreccio indirimibile di volontà e deliberazione da una parte
e come un essere situata in una rete di circostanze e situazioni che la definiscono come
un patire, dall’altra.
40 La centralità della nozione di intrigo è un punto sul quale concordano la
maggior parte di interpreti della Poetica, una particolare rilevanza ha nella lettura che ne
fa E. S. BELFIORE, Il piacere del tragico, op. cit., p. 122, che accentua la contrapposizione
tra mythos ed ethos. Questo serve all’autrice per sostenere il valore teoretico del raccon-
to tragico che ha la sua finalità in se stesso in quanto «il dramma non ha una valenza eti-
ca». Così pure M. VALGIMIGLI, Poetica, op. cit., pp. 14-18, che interpreta, tuttavia, la
primarietà della nozione di mythos nella prospettiva di una lettura che pone in primo
piano il valore della coerenza interna dell’opera, assumendo quindi come fondamentale
il principio dell’autonomia dell’esperienza estetica: «Vedremo come il mito sia della tra-
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p. 196. I curatori sostengono, invece, che l’azione diventa il fattore centrale nella
Poetica, mentre nelle etiche ciò che emerge come primario è l’agente. Sulla stessa linea si
colloca P. RICOEUR che in Tempo e racconto, op. cit., p. 67, sostiene che Aristotele nella
Poetica, dando la precedenza all’azione rispetto al personaggio, fissa lo statuto mimetico
dell’azione. Nell’Etica Nicomachea il soggetto precede l’azione nell’ordine delle qualità
morali. Nella Poetica, la composizione dell’azione da parte del poeta determina la qua-
lità etica dei personaggi. Se l’accento deve essere messo sulla connessione, allora l’imita-
zione, la rappresentazione deve riguardare l’azione più che gli uomini e i personaggi.
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Else interpreta l’uso ricorrente di questo coppia terminologica come testimonianza del
fatto che nella Poetica si tematizza un tipo di una necessità che non può mai essere asso-
luta in quanto riguardante il mondo sublunare.
49 Cfr. Fisica, IV, 11, 219b 1-5.
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50 Sulla natura che il telos assume nell’ambito della praxis in Aristotele cfr. D.
55 Cfr. D. G UASTINI , Prima dell’estetica, op. cit., p.110: «[…] la catarsi tragica
non espelle sentimenti come l’eleos e il phobos. Al contrario, li trasforma (quasi, si po-
trebbe dire, li intensifica) da sentimenti che si provano nei confronti di se stessi e della
ristretta cerchia dei propri cari, in un sentimento “filosofico” e “universale” di amicizia
e di umanità che si prova verso chi è homoios, simile a noi, cioè nelle nostre stesse condi-
zioni». L’autore mette in evidenza il carattere conoscitivo ed etico della catarsi tragica
(ivi, p.111).
56 Cfr. P. DONINI , Introduzione alla Poetica, op. cit., p. XL.
57 Questo è un motivo ricoeuriano ricorrente nella definizione della metafora,
riferito alla considerazione che Jakobson fa del linguaggio poetico, che verrà ripreso in
seguito nella trattazione del linguaggio metaforico.
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piuttosto semplice che non duplice, come invece dicono alcuni, e che tratti di un rove-
sciamento non dalla sfortuna alla fortuna ma al contrario dalla fortuna alla sfortuna, e
non a motivo della malvagità ma per un grande errore di un uomo come si è detto e di
uno piuttosto migliore che peggiore dell’ordinario». Non tutti racconti tragici, quindi,
seguono questo sviluppo, ma solo i migliori. Cfr. D. G UASTINI, Prima dell’estetica, op.
cit. pp. 201-3. L’autore sottolinea che «la forma propria che scaturisce dall’imitazione
dei fatti tragici è quella implicata nel termine hamartia». La fenomenolgia dell’azione se-
ria è caratterizzata dal passaggio dalla fortuna alla sfortuna di qualcuno che cade a causa
di un grave errore. Serio è quindi quel personaggio medio che si ritrova per errore in
condizioni straordinarie. La tragedia coglie la natura dell’agire umano non perché i ca-
ratteri dei personaggi emergono in primo piano, ma i personaggi sono funzionali all’a-
zione. L’autore si chiede perché solo l’errore può stare a fondamento dei fatti tragici?
Perché per Aristotele l’errore ha una valenza etica che non posseggono nello stesso gra-
do il fatto del tutto accidentale, o l’ingiustizia deliberata. La hamartia si pone all’incro-
cio tra scelta deliberata e fatalità e si definisce nella circolarità di scelta e destino. L’erro-
re manifesta la natura contingente dell’agire umano e l’incapacità dell’eroe tragico di
fronteggiare le situazioni straordinarie in cui si viene a trovare quasi mai per propria de-
cisione. L’hamartia è l’altra faccia delle possibilità deliberative tipiche della praxis; è l’al-
tro effetto che la contingenza tipica del mondo sublunare produce sull’agire umano.
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per sottolineare il valore ontologico del linguaggio. In questo contesto ribalto gli intenti
ricoeuriani perché la uso per rimarcare il fatto che, secondo Aristotele, è l’ordine del
reale che definisce l’ordine linguistico.
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metaforico così come viene definito in ambito poetico e retorico. Questi due ambiti ver-
ranno messi in relazione nel capitolo successivo con la teoria dell’anima.
70 Il valore primario del mythos e della lexis metaforica è particolarmente evi-
denziato nella lettura ricoeuriana, che insiste sul valore di «sintesi dell’eterogeneo» che i
due elementi rivestono nella mimesis tragica. Cfr. Tempo e racconto, op. cit., e La metafo-
ra viva, op. cit., passim. Sulla centralità del mythos e della lexis vedi anche W. BELARDI,
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stote, in Skhèma/ Figura. Formes et figures chez les Anciens, a cura di M. S. CELENTANO,
P. CHIRON, M.P. NOËL, Edizioni Rue d’Ulm, Paris 2004, p. 116. L’autrice sostiene che il
movimento della epiphora è un movimento che avviene primariamente su un piano verti-
cale dal piano della realtà al piano del nome (come emerge dal noto passo del De Inter-
pretatione dove Aristotele tratta del rapporto tra pragmata. pathemata e phone) e secon-
dariamente uno slittamento laterale da parola a parola.
73 Poetica, 22, 1459a 5-10.
74 Retorica, III, 2, 1405a 5-10.
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della tragedia individua come momento fondamentale della narrazione tragica la peripe-
teia che pone in atto un riconoscimento della verità delle vicende umane totalmente
inaudito, spaesante, sorprendente. Momento che segna la fine della parte nodale della
tragedia fondata sull’hamartia, sull’errore, sull’ignoranza da parte dell’eroe dei moventi
che regolano la propria azione.
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New York 1958, p. 134, che Ricoeur fa propria in La metafora viva, op. cit., p. 292.
79 Retorica, III, 11, 1412a.
80 Questa definizione della metafora è vista come particolarmente infelice da I.
A. RICHARDS, The Philosophy of Rhetoric, 1936, trad. it. di B. PLACIDO, La filosofia della
retorica, Feltrinelli, Milano 1967, p. 85, che sostiene: «Questa affermazione di Aristotele
racchiude tre di quei presupposti che hanno impedito agli studi sulla metafora di pro-
gredire. Primo presupposto sviante: “l’occhio per le rassomiglianze” è un dono di natu-
ra che alcuni hanno e altri no. Ma noi tutti viviamo e parliamo attraverso questo occhio
per le rassomiglianze. Se non lo avessimo periremmo miseramente. È solo una differen-
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za di grado. Secondo presupposto: “questo solo non può essere trasmesso ad altri”. Co-
me individui raggiungiamo la nostra padronanza della metafora nello stessissimo modo
in cui impariamo ogni altra cosa che ci fa specificatamente umani. Come ogni altra cosa
essa ci viene insegnata attraverso il linguaggio che impariamo. E questo implica il terzo e
più dannoso preconcetto. Terzo presupposto: la metafora è qualcosa di speciale ed ecce-
zionale nell’uso del linguaggio, una deviazione dal suo funzionamento normale, invece
di essere l’onnipresente principio di ogni suo spontaneo atteggiarsi».
81 Retorica, III, 10, 1411a. Per una interpretazione di questa definizione della
passim, cfr. P. RICOEUR, Cinque lezioni. Dal linguaggio all’immagine, a cura di RITA MES-
SORI , Centro Internazionale Studi di Estetica, Palermo dicembre 2002.
85 Cfr. E. MELANDRI , La linea e il circolo, op. cit., p. 259.
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gico è invece essenziale che la qualità, proprietà o attributi siano intensivi, cioè suscetti-
bili di gradazione secondo il criterio del “piu-o-meno”».
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92 Secondi Analitici, II, 13, 97b 36-39, trad. it. di G. COLLI , Laterza, Roma-Bari
1988: «D’altronde, se non bisogna discutere con metafore, evidentemente non si dovrà
neppure definire con metafore, o definire espressioni metaforiche: in caso contrario, ri-
sulterebbe difatti inevitabile la discussione mediante metafore».
93 La metafora come metodo per la scoperta scientifica è un motivo ricorrente
ma/ Figura. Formes et figures chez les Anciens, op. cit., pp. 138 sgg. L’autrice sostiene che
una buona definizione metaforica, facendo vedere un essere in movimento, o in atto, o
due esseri fisici agenti l’uno sull’altro, suggerisce degli attributi supplementari permet-
tendo di comprendere i fenomeni nelle loro conseguenze e nella loro complessità. Tutto
ciò che implica l’energeia fisica, vale a dire il legame tra causa ed effetto, costituisce l’im-
plicito di una buona metafora che spetterà ai fisici di testare. La metafora creerà una re-
te di rapporti e di relazioni da indagare. Il piacere della sorpresa evocata nella Retorica è
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l’effetto più importante della metafora: è un «certo modo di conoscenza» che porta una
«disposizione a dimostrare». Essa incita alla ricerca per precisare ed esplicare l’energeia
scoperta. Si può avvicinare il ruolo della metafora a quello dell’induzione, in quanto la
parola significa il passaggio a una nozione generale o a un genere a partire da casi parti-
colari. Aristotele sapeva che nel dominio degli esseri fisici è difficile dare attributi in mo-
do assoluto: così «ciò che è per lo più» è il sostituto dell’universale. L’attribuzione di ciò
che si crede un universale può essere erronea, approssimativa o provvisoria. L’attribuzio-
ne metaforica non è quindi un conoscenza manchevole se essa fa vedere effettivamente
l’atto degli esseri fisici, e per conseguenza conduce a rileggere la causa e l’effetto. Essa
ha il suo posto nella definizione dei principi della «scienza della natura» che è in Aristo-
tele congetturale e non dimostrativa. La metafora è un procedimento euristico le cui dé-
faillances sono il prezzo del suo funzionamento.
95 G. A. LUCCHETTA, Scienza e retorica in Aristotele, Il Mulino, Bologna 1990, p.
43. L’autore analizza una metafora che Aristotele usa nel De Generatione Animalium, II,
4, 739b 16 (trad.di D. LAURENTI ), quella classica che accostava la pianta all’animale:
«Quando poi il prodotto del concepimento si è costituito, agisce subito in modo simile a
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un «certa natura unica», la cui unità non è data attraverso una definizione che proceda
per genere e specie, ma per analogia: «Vi è infine un altro modo di procedere, ossia la
scelta di determinazioni che si fonda sull’analogia. Non è infatti possibile assumere un
medesimo nome, con cui si debba designare l’osso di seppia, la spina di pesce e l’osso.
Anche da questi oggetti conseguiranno però delle determinazioni, come se nel loro com-
plesso essi costituissero una certa natura unica». E. MELANDRI, La linea e il circolo, op.
cit., p. 273, evidenzia come Aristotele consideri il procedimento analogico come porta-
tore di una duplice manchevolezza: l’imprecisione dei termini e l’incompletezza dell’in-
duzione.
98 D. G UASTINI , Aristotele e la metafora: ovvero un elogio dell’approssimazione,
Feeling, op. cit., p. 148, sostiene che nel processo metaforico «ogni nuovo accostamento
si scontra con una precedente categorizzazione che resiste e offre resistenza. Per poter
parlare di metafora è necessario identificare la vecchia incompatibilità attraverso la nuo-
va compatibilità. L’assimilazione predicativa implica una tensione che non è quella tra
soggetto e predicato, ma piuttosto quella tra congruenza e incongruenza semantica. Il
fatto di cogliere le somiglianze è il prodotto del conflitto tra la precedente incompatibil-
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dunque giusto dire al tempo stesso che la potenza preesiste all’atto come condizione
della sua attualità, e che l’atto preesiste alla potenza come rivelatore della sua potenzia-
lità […] L’atto e la potenza sono co-originari; questi non sono che delle estasi del movi-
mento; è reale solo la considerazione della potenza e dell’atto in seno al movimento».
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106 Ivi, p. 459. L’autore fa notare che il termine eidos ha un rapporto semantico
evidente con le forme del verbo orao, vedere. «La forma è ciò che noi vediamo della co-
sa, ciò che a noi è di essa più manifesto». L’autore mette in evidenza come Aristotele ab-
bia a volte identificato l’eidos con l’intelligibile, accogliendo la lezione platonica. «Ma
Aristotele, su questo punto come su tanti altri, sarà più vicino all’origine rispetto a Pla-
tone, vale a dire in questo caso all’etimologia».
107 In Metafisica, VIII, 2 e 3, Aristotele usa i termini atto e forma come equiva-
lenti.
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108 Cfr. W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit., pp. 352 sgg. Le analisi del
continuo e dell’infinito sono uno dei momenti più intensi della bella ricognizione di
questo interprete nei libri della Fisica di Aristotele.
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fatto che tutti i beni procedono da un solo bene o a un solo bene con-
corrono? O non è piuttosto per analogia? Infatti quello che la vista è
nel corpo, l’intelletto è nell’anima, eppertanto un’altra cosa lo è in
un’altra109.
L’impossibilità di risalire attraverso astrazioni a una defini-
zione unitaria dei principi riporta alla necessità di mostrare co-
me ogni categoria logico-linguistica, ogni definizione universale,
richieda di essere definita e determinata a partire da esperienze
particolari.
L’essere aristotelico trova la sua espressione in un linguag-
gio che sa denotare quelle somiglianze che si presentano nelle
cose stesse al parlante a partire da situazioni determinate che ar-
ricchiscono e ridefiniscono le categorie semantiche, e non in
una sussunzione del particolare sotto concetti generali. Il lin-
guaggio naturale, dal quale ogni discorso sull’essere prende le
mosse, si fonda su quella essenziale riserva metaforica che è la
capacità di raggiungere una qualche conoscenza generale co-
gliendo somiglianze; ma qui si tratta di un universale ancora in
qualche modo ‘indeterminato’ o ‘approssimativo’110. Ogni di-
scorso sui principi non può che risalire da questo universale ‘in-
determinato’ a un universale concettuale, che regola la multivo-
cità del linguaggio preriflessivo attraverso l’articolazione catego-
riale, determinando ambiti dell’essere all’interno dei quali la di-
namica del linguaggio si stabilizza e confluisce in definizioni che
dovrebbero garantire la verità del discorso scientifico.
Ma anche all’interno di una forte dominanza della logica
definitoria e dell’universalità concettuale, che risale ai principi
delle cose di cui il linguaggio preriflessivo parla, si ritrova, po-
tremmo dire dialetticamente, la multivocità di un essere che non
può che venire pensato e detto se non attraverso un metodo che
procede analogicamente.
Quando Aristotele si interroga sui principi dell’essere, e
quindi deve rendere conto esplicitamente della formazione del
112 Cfr. W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit.: «Conoscibile non è per Ari-
stotele l’individuale, ma solo l’universale. Solo la percezione ha a che fare con l’indivi-
duale, ma essa non conduce mai al particolare in quanto particolare, ma lo comprende
sempre sotto un aspetto di universalità […]» (ivi, p. 110, n. 39). Ma ogni conoscenza
procede da un’universalità che non è l’universalità concettuale, ma un’universalità-inde-
terminata. «Il termine katholou, nel senso dell’universale-indeterminato, non costituisce
un concetto ordinario di riflessione, ma sta ad indicare ciò che già precede ogni riflessio-
ne differenziante […]» (ivi, p.112). Secondo Wieland, universale generico e universale
particolare presuppongono già un universale indeterminato nel quale la riflessione può
operare queste distinzioni: quindi è mal posta la domanda, che impegnerà gran parte
della tradizione interpretativa, se Aristotele ponga maggiormente l’accento sull’universa-
le o sul particolare, perché sono concetti che si richiamano reciprocamente e che pre-
suppongono un sostrato al quale possono essere applicati. All’inizio della conoscenza
non sta l’individuale, attraverso il quale non risaliamo per induzione all’universale, o l’u-
niversale generico attraverso il quale noi deduciamo il particolare. Individuale e univer-
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sale sono risultati della riflessione. All’inizio del cammino della conoscenza quello che ci
viene dato è un universale-indeterminato, a partire dal quale è possibile distinguere e ri-
chiamare vicendevolmente particolare e universale generico (ivi, pp. 113 sgg.).
113 Metafisica, V, 6, 1016b 30-35.
114 Metafisica, IX, 6, 1048a 35-1048b 8.
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115 A. CAZZULLO , La verità della parola, op. cit., p. 207, sostiene che l’unità per
analogia e insieme quella della metafora sono il grande fastidio di Aristotele, in quanto
fanno traballare la fissità della costruzione razionale al suo interno nel suo principale ac-
cadere. Tale unità, trasgredendo la fissità delle categorie, le muove, accostando cose che,
per il sapere razionale, per il nostro logos logico, non devono stare insieme. Essa infatti
si fonda su una mera «somiglianza» delle cose tra loro e non sull’identità del riferimento
al fisso principio di unità del molteplice (la sostanza, l’ousia).
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caratterizza il linguaggio umano rispetto alle forme proprie degli altri animali è il suo ca-
rattere articolato, dialektos. Così commenta P. Aubenque questo passo in Aristotele e il
linguaggio, op. cit., p. 24: «il linguaggio articolato, per il fatto di non essere naturale, ma
acquisito, dipende dalle tradizioni che sono differenti a seconda dei popoli. Dialektos, è
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in questo senso il dialetto, la lingua, di cui un passo dei Problemi, contrappone la varia-
bilità all’unità specifica della “voce”: Toy anthropoy mia phone alla dialektoi pollai. Ari-
stotele non ignorava dunque la molteplicità delle lingue, e la connette al fatto che l’uo-
mo non è soltanto un prodotto della natura, ma anche della civiltà, un “animale politi-
co”. In questo modo il rapporto tra il linguaggio e la città viene ad essere duplice; se la
possibilità che hanno gli uomini di comunicare tra loro è il fondamento del rapporto so-
ciale – tale è il senso del passo della politica – il linguaggio, per il fatto di aver luogo nel-
l’ambito di comunità finite e molteplici, deve di necessità acquistare un certo grado di
pluralità. La città è nello stesso tempo il prodotto del linguaggio e la causa della plura-
lità delle lingue».
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Capitolo Terzo
LA METAFORA L’ANIMA E LE COSE
Sommario
3.1. Pro ommaton poiein e metafora dei sensi – 3.2. Metafora:
scoperta versus creatività – 3.3. La soglia tra linguistico ed ex-
tralinguistico: phantasia aisthetike e phantasia bouleutike
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4 Ivi, Γ8, 432a 2. Per Aristotele queste due facoltà sono discriminatrici in
quanto ciascuna ‘giudica’ ossia avverte le differenze del proprio oggetto. Il senso ap-
prende le forme sensibili e l’intelletto quelle intelligibili. L’affermazione che l’anima ap-
prende l’eidos e non la materia è diretta contro i fisiologi. Cfr. R. D. HICKS, Aristotle, De
Anima, University Press, Cambridge 1907, p. 542; pp.544-45.
5 L’argomentazione che riguarda la distinzione tra doxa e phantasia è una chia-
ra risposta alla filosofia di Platone, che lega la doxa alla conoscenza sensibile, attestando
in questo modo il valore inessenziale di questo tipo di conoscenza. Il valore che invece
Aristotele attribuisce alla doxa è qui sottolineato e avvicinato alla verità della scienza. M.
C. NUSSBAUM, La fragilità del bene, op. cit., pp. 457-59, sottolinea che il significato attri-
buito dai due filosofi a questo termine è emblematico della distanza che segna il loro
pensiero. L’autrice mette in evidenza come nel sesto libro della Repubblica, Socrate, at-
traverso Platone, si pronunci contro ogni metodo che rimanga dentro il punto di vista
umano ed esorta ad abbandonare le concezioni condivise degli uomini che rimangono
nell’ambito della mera apparenza. Per l’epistemologia greca prearistotelica l’«apparen-
za» è l’opposto del vero e del reale. «In Aristotele, come anche nei suoi predecessori, in-
vece della netta separazione baconiana tra dati rilevati e credenze comuni, troviamo una
vaga e inclusiva nozione di esperienza, ovvero del modo o dei modi con cui un osserva-
tore vede, “coglie” il mondo, usando le sue facoltà cognitive (che da Aristotele vengono
chiamate tutte kritika, “riguardanti la capacità di fare distinzioni”). Questo è, secondo
me, il significato del discorso aristotelico sui phainomena» (ivi, p. 462).
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mo a partire dalle situazioni determinate in cui l’azione è inserita, può essere vista come
il versante o il risvolto etico-pratico della capacità di fare metafore, attitudine a cogliere
quell’universale-particolare che permette di vedere ciò che è simile tra cose differenti.
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25. L’autore sostiene che stabilire la verità o falsità di certi stati mentali richiede che si
abbia una certa presa sulla realtà, senza nello stesso tempo esserne troppo strettamente
dipendenti. Ciò che fa problema ad Aristotele non è il fatto che i suoi predecessori siano
materialisti (Anassagora non lo era) e neppure il fatto che spiegassero gli stati mentali in
termini di cambiamento, perché nessuno può evitare di farlo. Ma è il fatto che non rie-
scano a dare una spiegazione degli stati mentali se non in termini di interazione causale.
Se il contenuto di uno stato mentale corrisponde sempre alla sua causa, allora l’errore
diventa impossibile. Ma se il contenuto mentale non è in nessun modo esplicabile a par-
tire dalla sua causa, manchiamo ancora l’errore. Perché l’errore sia possibile è necessario
che il contenuto di uno stato mentale intrattenga un qualche rapporto con la sua causa.
Ma è anche necessario che contenuto e causa divergano. Conseguentemente, il rapporto
tra stato mentale e ciò a cui si riferisce non può essere semplicemente identificato con la
relazione di causa ed effetto. Così nella sensazione, come nella conoscenza intellettuale,
contenuto e causa coincidono. Il legame di diretta implicazione tra oggetto e stato men-
tale porta alla affermazione che tutte le apparenze sono vere. Né la sensazione, né la co-
noscenza intellettuale sono suscettibili di errori: le due sono infallibili. Ma è ben chiaro
che Aristotele non pensa che ogni stato mentale possa spiegarsi con l’aiuto dello stesso
modello di quello della sensazione e della conoscenza intellettuale. Ogni stato mentale e
altri processi operano virtualmente in modi differenti. L’immaginazione, l’associazione,
la memoria, l’anticipazione, il ragionamento, il deliberare, il desiderio, l’azione, le pas-
sioni e i sogni richiedono l’attività di un altro stato mentale che Aristotele chiama «phan-
tasia». Il filosofo vuole mostrare come questi stati mentali non possono essere compresi
attraverso la sensazione e la conoscenza intellettuale, perché, al contrario della sensazio-
ne e della conoscenza intellettuale, la phantasia e gli stati mentali menzionati possono di-
vergere dalla realtà. Il semplice modello causale non può, allora, applicarsi alla maggior
parte di ciò che noi chiamiamo pensiero.
13 E. BERTI , The Intellection of ‘Indivisibles’ according to Aristotle, De Anima III
6, in Aristotle on Mind, 1978, pp. 143-63. Berti si pone in quella linea interpretativa che
mette in evidenza il metodo fondamentalmente dialettico del pensiero aristotelico, rifiu-
tando quindi l’idea che il filosofo ammetta l’intuizione degli indivisibili.
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phantasia induce a pensare a una difficile definizione unitaria. Nelle interpretazioni re-
centi D. K. W. MODRAK, Aristotle: The Power of Perception, op. cit. e D. F REDE, The Co-
gnitive Role of phantasia in Aristotle, op. cit., sono tra i pochi interpreti che sostengono
una concezione unitaria della dottrina aristotelica della phantasia, nella quale si ritrova-
no i sogni, la memoria, la reminescenza, il pensiero teorico a quello pratico, la retorica
delle passioni o il movimento. D. Frede tuttavia mette in evidenza la difficoltà di defini-
re questa facoltà, che emerge anche dalla stessa problematicità che presenta la traduzio-
ne del termine phantasia, che designa nello stesso tempo la capacità, la funzione, il pro-
cesso, il prodotto e il risultato.
17 De Anima, Γ3, 428b 11 sgg.:«[...] l’immaginazione sembra sia una specie di
movimento […]; in virtù di esso, chi lo possiede può esercitare e subire molte azioni».
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18 Ivi, Γ3, 429a 1-2. Lo stretto rapporto che la phantasia ha con il ruolo primari-
amente recettivo e passivo della sensazione pregiudica ogni possibilità di pensarla in ter-
mini di creatività. Ci vorranno molti secoli prima che l’immaginazione assuma questo
valore e si possa pensare nei termini kantiani di una produzione di una seconda natura.
Cfr. § 49 della Critica del Giudizio, op. cit.
19 Ivi, Γ3, 428b 15-30.
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dei percepibili per accidenti sono collegate forme di phantasia fallibili. Per quanto ri-
guarda i percepibili propri, qui (428b19) Aristotele introduce una restrizione del tutto
imprevedibile sostenendo che «La percezione dei sensibili propri è vera o comporta l’er-
rore nella minima misura possibile». Una spiegazione di questa restrizione si può trova-
re in De Insomniis, 2, 450b 7-13, dove il filosofo dice che se si fissa per lungo tempo
qualche cosa di bianco o di verde, tutto ciò verso cui si dirigerà lo sguardo di seguito ap-
parirà di quel colore – precisamente per mostrare che la phantasia vi è implicata.
22 Tra le interpretazioni della phantasia che ricevono più adesioni c’è quella che
aristotelica della percezione che non prevede l’intervento di un’attività spontanea del
soggetto. L’uso di questo termine, in questo lavoro, va inteso sostanzialmente a partire
dal fatto che Aristotele non intende la sfera dell’aisthesis come mera ricettività, ma come
ambito strutturato, anche se questa organizzazione avviene a partire dal subire una mo-
dificazione, da un processo primariamente passivo. I termini passività e attività devono
essere sempre interpretati relazionalmente, mettendoli in riferimento a ciò rispetto a cui
qualcosa può essere interpretato come attivo o passivo. Per esempio, la phantasia aisthe-
tike può essere vista come il risvolto attivo della percezione, anche se questo momento
attivo è indotto dalla modificazione ricettiva, ma questa deve essere pensata essenzial-
mente nel suo carattere passivo nel momento in cui si mette in rapporto con la phantasia
bouleutike. Anche in questo caso è importante comprendere questa relazionalità sulla
base della dottrina della potenza e atto.
24 Cfr. De Anima, A1, 402a 6-7; 402b 3-7.
25 De Anima, Γ11, 433b 29-30: «Ogni immaginazione poi è razionale o sensiti-
32 Ibidem.
33 Cfr. M. NUSSBAUM, La fragilità del bene, op. cit., p. 511. L’autrice mette in
evidenza il risvolto metafisico della teoria dell’azione animale e umana di Aristotele, so-
stenendo che «sia gli esseri umani che gli animali, nelle loro azioni razionali e non razio-
nali, hanno in comune il fatto che tendono, per così dire, verso parti del mondo che essi
desiderano ottenere. Consideriamo da un lato il sasso in una mano e il motore immobile
dall’altro. Nessuno dei due si muove o agisce. […] Essi non tendono a nulla – sono
completi in se stessi. […] Il movimento è intrinsecamente connesso ad una mancanza di
autosufficienza o di completezza e al moto interiore verso il mondo, di cui la creatura
bisognosa è fornita».
34 De Anima, A4, 408b 14-18: «In realtà forse è preferibile dire non che l’anima
prova compassione o apprende o pensa, ma l’uomo per mezzo dell’anima. E ciò non nel
senso che in essa ci sia movimento, ma nel senso che questo talora giunge fino a lei, talo-
ra parte da lei. Ad esempio la sensazione muove da determinati oggetti, mentre il richia-
mo alla memoria muove dall’anima verso i mutamenti o tracce che permangono negli
organi sensoriali». Aristotele ammette l’associazione tra movimenti corporei e processi
psichici, ma esclude tuttavia che il movimento abbia luogo nell’anima stessa. Tuttavia il
filosofo in molte occasioni non esita a parlare di «modificazioni», come pure di «movi-
menti» dell’anima. G. MOVIA, nella Introduzione al De Anima, op. cit., p. 103, sostiene
che Aristotele con l’idea di anima come motore immobile vuole sostenere la natura non
meramente ricettiva dei processi conoscitivi. Crea una certa difficoltà pensare l’anima
come motore immobile se in effetti gli oggetti esterni creano di fatto delle modificazioni,
questo effetto può a buon diritto essere chiamato movimento. Questa idea ha un’origine
storica che nasce dalla polemica contro Democrito e Platone. Aristotele sostiene che il
movimento dell’anima non può essere associato a qualsiasi altro movimento naturale.
Ciò che Aristotele vuole sostenere non è l’esistenza di una catena causale per cui l’anima
in quanto mossa dagli oggetti esterni produce nel soggetto il movimento, piuttosto vuole
dimostrare una causalità metaempirica. Il movimento dell’anima non può essere ridotto
a un movimento fisico-meccanico, ma esiste un’attività dell’anima che non dipende da
questo tipo di movimento. In Metafisica, IX, 6, 1048b 20-26, Aristotele traccia la distin-
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zione tra kinesis ed energeia sostenendo che i movimenti sono imperfetti perché tendo-
no a un fine che non hanno in sé, mentre le azioni contengono in sé il loro fine e sono
quindi movimenti perfetti: «Ogni movimento è incompleto, come il dimagrire, l’impara-
re, il camminare, il costruire: questi sono movimenti e sono incompleti. E infatti non di-
ciamo che chi cammina ha insieme anche camminato, chi costruisce ha costruito, ciò
che diviene è divenuto o ciò che è mosso è stato mosso: son cose diverse. Ma la stessa
cosa ha visto e insieme vede, pensa e ha pensato. In questo caso parliamo di atto, in
quello di movimento». L’anima come motore immobile è pensata da Aristotele come il
sostituto imperfetto del Primo Motore. Questa non è esente dal movimento, ma all’in-
terno del divenire rintraccia ciò che permane, sottraendo se stessa e i fenomeni alla di-
spersione e al disordine. Essa si definisce come un «portare a compimento» che rispon-
de a un’esigenza di totalità, ma questa tensione verso la perfezione e l’ordine si delinea
in Aristotele come un compito che si rinnova continuamente e che non si realizza mai
pienamente. Così la perfezione e completezza di ogni suo atto si configura sempre come
una immobilità relativa. Nell’universo aristotelico ogni essere porta con sé, nelle moda-
lità che sono ad esso assegnate, la presenza immanente della perfezione e del divino co-
me presenza dell’ordine. L’anima, in questo senso, rappresenta la forma e l’ordine degli
esseri viventi grazie alla quale, anche attraverso la facoltà nutritiva e riproduttiva, ‘parte-
cipano’ «nella misura del possibile, dell’eterno e del divino. Poiché dunque questi esseri
non possono partecipare con continuità dell’eterno e del divino, poiché nessun essere
corruttibile è in grado di sopravvivere identico e uno di numero, ciascuno ne partecipa
per quanto gli è possibile, chi più e chi meno, e sopravvive non in se stesso, ma in un in-
dividuo simile a sé, non uno di numero, ma uno nella specie» (De Anima, B4, 415a 29-
415b 7).
35 L’idea di un’anima che si definisce attraverso una reciprocità di agire e patire,
o di spontaneità e passività sembra trovare una sua limitazione nella dottrina del nous.
Ma anche lì la distinzione tra nous poietikos e nous pathetikos reintroduce la sua natura
di realtà definita attraverso la legge del muoversi-mosso, cfr. W. WIELAND, La fisica di
Aristotele, pp. 311 sgg.
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Peirce, introduce un esempio molto vicino alla dottrina aristotelica della percezione:
«C’è un esempio in CP 5.142 [C. S. Peirce Collected Papers] dove si parla di qualcosa
che in prima istanza mi era apparso come di un bianco perfetto e poi, in una serie di
comparazioni successive, mi appare come bianco sporco. Peirce avrebbe potuto svilup-
pare l’esempio e parlarmi di una casalinga che in un primo momento percepisce il len-
zuolo appena lavato come bianchissimo, ma poi, comparandolo con un altro, ammette
che il secondo è più bianco del primo. Non si creda che sia casuale o malizioso il riferi-
mento allo schema canonico per la pubblicità televisiva dei detersivi: Peirce intendeva
parlare proprio di questo problema. Di fronte alla pubblicità del detersivo, Peirce ci
avrebbe detto che la casalinga ha inizialmente avvertito la bianchezza del primo lenzuo-
lo (puro “tono” della coscienza); poi, una volta passata al riconoscimento dell’oggetto
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una sua tipicità qualitativa, sia pure fluttuante, ma che può comunque essere denomina-
ta e riconosciuta. Parlare di assolutezza del contenuto significa del resto soltanto sottoli-
neare che la qualità precede la relazione e la fonda. Qualcosa non diventa blu cobalto
perché certe relazioni sono state istituite: e nemmeno può accadere che un suono assu-
ma una certa altezza perché si trova nel contesto di altri suoni. Nello stesso tempo è giu-
sto dire che i contenuti, non appena entrano in una scena percettiva, sono essi stessi ri-
sultati delle sintesi di cui sono il fondamento. Una volta impiegato, il colore del tubetto
partecipa ai dinamismi della percezione. La qualità si modifica sotto l’azione delle ten-
denze e delle controtendenze che anima il campo percettivo».
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47 Cfr. W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit., pp. 254-67. L’autore mette
rito alla medesima cosa. Prima e poi non sono quindi pensati
come entità autonome o attimi, ma come stati distinti di una co-
sa in movimento. Il tempo rinvia quindi sempre a un ente tem-
porale.
Per Aristotele la conoscenza si fonda su un atto di adesio-
ne sensibile. Ma questo atto di adesione sensibile si configura
già da subito come un momento di immediatezza e di mediatez-
za, non certo come un rapporto di semplice specularità tra cosa
e oggetto conosciuto; bensì come uno strutturarsi della sensibi-
lità umana secondo modalità compositive spazio-temporali, che
sono misure e criteri iscrivibili all’interno di una legalità del
mondo. La sensibilità per Aristotele è un atto primariamente
passivo (tuttavia, non mera passività), che ha il carattere di una
forma radicata in un momento ricettivo: è un passaggio dalla
potenza all’atto attraverso la modificazione che il dato esterno
produce sulla nostra sensibilità48. Ogni momento ‘attivo’ della
conoscenza si fonda su questo dato primario che si viene defi-
nendo per gradi, senza che tuttavia nessun momento attivo o
successivo possa cancellarlo retroagendo su di esso reinventan-
dolo. Lo stesso momento della koine aisthesis si definisce non
tanto come una unità della coscienza, ma piuttosto come una
condizione comune dei sensi, fondata su criteri compositivi spa-
zio-temporali che l’anima imita, mutuandoli dai ritmi e da una
‘legalità’ della realtà ‘oggettiva’ del movimento: le figure del mo-
vimento che il senso comune rintraccia imitano le figure del mo-
vimento delle realtà individuali. Ma ogni apparenza di queste
realtà come figure dell’anima è simile o analoga a una realtà che,
nella sua individualità, può manifestarsi e farsi presente alla co-
noscenza umana solo attraverso un processo che tiene insieme
un momento di adesione o imitazione e un momento di trasfor-
mazione. Non si delinea, in questa prospettiva, una contrappo-
sizione tra realtà esterna e interna, ma piuttosto un ordine dina-
mico del mondo nel quale l’anima è inserita49. Le rappresenta-
48
Cfr. De Anima, B5.
49
Cfr. W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit., pp. 407-16. L’autore sostie-
ne può quindi intendere la misura del tempo come confronto di movimenti. E sono i
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movimenti esterni quelli che l’anima mette a confronto. Non è dunque un movimento
proprio dell’anima a rappresentare in questo modo l’unità di misura. Per salvare l’oppo-
sizione e nello stesso tempo l’unità tra tempo e movimento, Aristotele si trova costretto
ad interrogarsi sulla natura di un movimento distinto che non coincide con il tempo nel
quale pur tuttavia esso può essere immediatamente rilevato. Come è noto Aristotele tro-
va questo movimento distinto nel movimento circolare del cielo. L’unità di misura del
tempo non è quindi impostata arbitrariamente, ma figura già data dalla natura: la con-
versione del cielo rappresenta l’unità di misura con cui numerare tutti gli altri movimen-
ti. Il tempo è il movimento misurato dall’anima, nel quale l’anima non ricava l’unità di
misura da se stessa, ma dal movimento del cielo distinto da tutti gli altri movimenti. La
durata temporale di un qualunque movimento è sempre misurata mediante una certa
enumerazione di queste unità (giorni, mesi, anni) riferite al movimento del cielo.
50 De Anima, A4, 408b 13-17, 20-27.
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132-33. L’autore, parlando del linguaggio poetico, fa notare come le nozioni di strania-
mento, attualizzazione, orientamento sul messaggio e, in particolare, reificazione metta-
no in evidenza più il carattere metaoperativo e costruttivo dell’attività poetica che non il
suo carattere specificamente semiotico e comunicativo: «Il carattere essenziale di quegli
indici è di essere restrizioni o alterazioni del materiale in cui si realizza il messaggio in
senso stretto; e la loro condizione generale non va ricercata nei fattori della comunica-
zione, ma nella manipolazione operativa cui è soggetto anche il materiale comunicati-
vo.[…] per fare poesia bisogna disporsi di fronte al linguaggio come un artigiano dinan-
zi al suo materiale […] trar fuori da esso un oggetto o qualcosa che sta a metà strada tra
il discorso e l’oggetto e che, proprio perché a metà strada, sviluppa capacità simboliche
e semantiche insospettate. Da un punto di vista linguistico è impossibile rendersi conto
dello specifico simbolismo della poesia e di tutte le sue possibilità simboliche e formali;
né una analisi, per quanto minuta e attenta ai giochi di equivalenza tra parole, lessemi,
morfemi, sillabe, unità foniche, riuscirà mai a dare conto del simbolismo di secondo gra-
do che si sviluppa da certa poesia […] in quanto essa si operativizza e si offre a ulteriori
investimenti simbolici, esattamente come un opera plastica o musicale».
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56 I. KANT, Critica del Giudizio, op. cit., § 49. Cfr. anche sulla nozione di simbo-
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di tradurre quel kata syntheken con «in conformità con una convenzione» sottolineando
la primarietà di quello che in termini moderni viene definito il valore pragmatico del si-
gnificato e trascurando, in questa argomentazione, gli aspetti ‘referenzialistici’ che il lin-
guaggio ha in Aristotele.
60 Un esempio contrastivo, rispetto alla concezione aristotelica del senso comu-
ne, che sembra essere il versante ‘passivo’ della phantasia, quella phantasia aisthetike che
accomuna uomo e animale, è quello del senso comune kantiano. Kant, nella terza critica
scrive: «Ma per sensus communis si deve intendere l’idea di un senso che abbiamo in co-
mune, cioè di una facoltà di giudicare che nella sua riflessione tien conto a priori del mo-
do di rappresentare di tutti gli altri, per mantenere in certo modo il giudizio nei limiti
della ragione umana nel suo complesso». La facoltà del giudizio riflettente per Kant si
articola attraverso modalità che ne mettono in evidenza aspetti molteplici e risvolti di-
versi, che lo definiranno come gusto, come genio e come senso comune. Attraverso il
senso comune, Kant mette in evidenza una capacità propria del soggetto di anticipare
esteticamente la consensualità del senso. Per questo aspetto cfr. P. MONTANI, Estetica ed
ermeneutica, Laterza, Roma-Bari 1996, cap. I., e U. E CO in Kant e l’ornitorinco, op. cit.,
p. 79. Eco fa notare come nella terza critica, assumendo il problema dei concetti empiri-
ci, Kant non possa fare a meno di introdurre la comunità nell’orizzonte trascendentale.
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il giudizio e la doxa è chiaramente attestato alla fine di Γ11, 434a 16-21, dove Aristotele
introduce il sillogismo pratico, mostrando come le due premesse esprimano ciò che
muove il soggetto all’azione. L’interpretazione che riscuote più consensi è quella secon-
do la quale la phantasia logistike è simile all’intelletto pratico. Così si pronunciano G.
RODIER, Aristote, Traité de l’âme, Leroux, Paris 1900, p. 552 e pp. 539-40; J. L. LABAR-
RIÈRE , Imagination humaine et imagination animale chez Aristote, in «Phronesis», 1984,
pp. 17-49; M. C. NUSSBAUM Aristotle’s De motu animalium, Princeton 1978, pp. 265-67.
Critica rispetto a questa identificazione è la posizione di M. CANTO-SPERBER, Mouve-
ment des animaux et motivation humaine dans le livre III du De anima d’Aristote, in «Les
études philosophiques», op. cit., p. 62.
62 De Anima, Γ8, 431a 8-18.
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72 Cfr. M. C. NUSSBAUM, La fragilità del bene, op. cit., p. 512: «Il “bene” e il
74 Si è più volte messo in evidenza come Aristotele nel De Anima definisca le at-
tività conoscitive come kinesis, e in particolare parli della phantasia come movimento.
75 Cfr. W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit., p. 431. L’autore sottolinea
che l’analogia strutturale tra mondo naturale e anima riposa infine sul fatto che l’anima,
insieme con i suoi stessi movimenti, appartiene a questo mondo, quantunque, per altro
verso, non sia nata per appartenervi. A essa infatti appartiene una posizione esemplare
tra le altre cose: essa è in certo modo, e cioè nel modo della possibilità (dynamis) tutte le
cose, secondo l’espressione centrale del De Anima (431b 21). Questo concetto di anima
non incorre nelle difficoltà di dover contrapporre anima e mondo come sfere intese se-
condo i soliti dettagli. L’affermazione per cui l’anima è in certo modo tutte le cose, non
vale solo per il pensiero e l’intelletto, nell’esame dei quali essa viene enunciata, ma vale
altrettanto per la percezione, anch’essa è in se stessa pura e semplice possibilità, ma nel-
la sua attualità essa è tutt’uno con il percepito (425 b 26). Essa ha dunque il suo essere
specifico non in sé, ossia in una sfera soggettiva, ma in un altro. Questa “esteriorità” ca-
ratteristica dell’anima in Aristotele è anche la ragione per cui abbiamo a che fare nella
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psicologia con affermazioni che possono rientrare nella fisica. Troviamo così tra gli og-
getti del senso comune la grandezza e il movimento.
76 Cfr. D. F REDE , The Cognitive Role of Phantasia in Aristoteles, in Essai on Ari-
occhi, come fanno coloro che dispongono le cose nei luoghi mnemonici e si costruisco-
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il passo di Politica, 1, 8, 1256b 15 sgg., dove Aristotele parla della finalizzazione all’uomo
del mondo naturale sublunare: il filosofo non sostiene una teleologia intenzionale.
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79 Nella Fisica (11, 218 b 21), Aristotele sostiene che la percezione del tempo è
come diciamo, non fa niente senza scopo e l’uomo, solo tra gli animali, ha la parola: la
voce indica quel che è doloroso e gioioso e pertanto l’hanno anche gli altri animali […]
ma la parola è fatta per esprimere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo e, di conseguen-
za il giusto e l’ingiusto: questo è, infatti proprio dell’uomo rispetto agli altri animali, di
avere, egli solo, la percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e degli altri
valori […]».
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INDICE
Introduzione 11
Capitolo Primo
L’AMBIGUITÀ DELL’ONTOLOGIA ARISTOTELICA
E IL LINGUAGGIO METAFORICO 25
1.1. Il ritorno alla dialettica 41
1.2. La doxa e la convenzione 47
1.3. Il linguaggio tra determinatezza ontologica
e universalità dialettica 67
Capitolo Secondo
LA MIMÈSI POETICA ALL’INTERNO
DELLA DIVISIONE DEI SAPERI 81
2.1. L’arte imita la natura 87
2.2. Teleologia naturale e teleologia artificiale 91
2.3. La mimesis come sintesi temporalea 105
2.4. Le implicazioni etico-pratiche della tragedia 116
2.5. Il discorso metaforico come un «vedere il simile»
nel dissimile 127
Capitolo Terzo
LA METAFORA L’ANIMA E LE COSE 159
3.1. Pro ommaton poiein e metafora dei sensi 171
3.2. Metafora: scoperta versus creatività 194
3.3. La soglia tra linguistico ed extralinguistico:
phantasia aisthetike e phantasia bouleutike 204
Bibliografia 225
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05 indice-pp. f.pdf 20-11-2007 14:08 Pagina 241
Filosofia
xxxxxxxx