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Filosofia
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GRAZIELLA TRAVAGLINI

Vedere il simile
LA METAFORA L’ANIMA
E LE COSE IN ARISTOTELE

EDIZIONI ETS
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Vedere il simile
La metafora l’anima e le cose in Aristotele
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A mia madre
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INTRODUZIONE

La ricerca che sta alla base di questo lavoro ha preso avvio dagli
studi di Paul Ricoeur sulla poetica, e dal dialogo da lui istituito con il
pensiero aristotelico. Ha trovato quindi nel pensiero del filosofo fran-
cese, in particolare nel testo La metafora viva1, lo stimolo e le coordi-
nate per portare avanti un lavoro sul linguaggio metaforico. Ma il con-
fronto continuo con Aristotele, che Ricoeur porta avanti per sviluppa-
re la sua metaforologia, fa sorgere da subito l’esigenza di un rapporto
diretto con il filosofo greco che ha posto i problemi fondamentali lega-
ti al linguaggio metaforico e le questioni filosofiche essenziali che per-
mettono di riflettere su di esso. Legame diretto con il pensiero aristo-
telico che, nel divenire di questa ricerca, ha prodotto i presupposti cri-
tici per poter far nascere un discorso autonomo, e anche un distacco
dalla prospettiva interpretativa attraverso la quale Ricoeur legge la ri-
flessione aristotelica sulla metafora.
Mettere in evidenza la genesi e il percorso di una ricerca può
aiutare a comprendere quali sono i nuclei teorici fondamentali intorno
ai quali ruota, e quali sono i motivi che la caratterizzano in modo pre-
cipuo.
La lunga traversata ermeneutica che Ricoeur compie nel proble-
ma del linguaggio metaforico si scandisce in diversi momenti, attraver-
so i quali il tema della metafora viene affrontato prima attraverso il
punto di vista della retorica, poi attraverso le prospettive semantiche e
semiotiche, per arrivare, infine, all’ermeneutica. In questo percorso, il
pensiero di Aristotele rimane il punto di riferimento fondamentale per
affermare il valore ontologico e gnoseologico della metafora e per riba-
dire, a partire da diverse prospettive e approcci, il fondamentale carat-
tere euristico e insieme inventivo e creativo di questo particolare tipo
di linguaggio. All’interno di questo tragitto teorico, la riflessione dello
Stagirita si presenta a pieno titolo come un pensiero in cui la vocazio-
1 P. RICOEUR, La métaphore vive, 1975, trad. it. di G. G RAMPA, La metafora
viva, Jaca Book, Milano 1981.
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12 Vedere il simile

ne ontologica del linguaggio si definisce come l’attestazione di una


cooriginarietà di parola e cosa, riconducendo un pensiero, che si muo-
ve in una visione assai lontana dall’idea di una formatività della lingua,
o dall’idea del linguaggio come luogo disvelativo dell’essere, a delle ca-
tegorie moderne che risultano alquanto inadeguate a rendere conto
dell’orizzonte in cui si muove la riflessione del filosofo greco. In que-
sta prospettiva, entro la quale il tema della metafora in Aristotele ap-
pare attraente soprattutto a partire dalla categoria del precorrimento –
alla quale da sempre pare difficile sottrarsi –, sembrano muoversi mol-
te delle letture linguistiche, semiologiche ed epistemologiche contem-
poranee, che non tengono conto dello sfondo ‘referenzialistico’ sul
quale si definisce la riflessione aristotelica sul linguaggio. La teorizza-
zione dello Stagirita sulla metafora si sottrae infatti all’alternativa er-
meneutica, che sembra caratterizzare la storia delle sue interpretazioni,
secondo la quale, da una parte, considerata a livello lessicale, si ridur-
rebbe a una figura retorica ornamentale, un artificio stilistico che non
ha implicazioni di carattere semantico o referenziale; ma, d’altra parte,
porsi in un’ottica interpretativa che vada al di là di una concezione so-
stitutiva del meccanismo metaforico non significa necessariamente
proiettare sulla riflessione del filosofo greco un’idea di linguaggio co-
me luogo in cui si costruisce creativamente la conoscenza. La metafora
non «scopre ciò che crea o inventa ciò che trova» – come sostiene in-
vece Ricoeur – e non è per Aristotele il luogo del linguaggio in cui
«manifestazione e creazione si uniscono», non è un’invenzione lingui-
stica che viene proiettata sul mondo per vedere se la realtà risponde ai
modelli che ci costruiamo su di essa. La metafora per Aristotele è stru-
mento di conoscenza proprio in quanto, ponendo le cose davanti agli
occhi, fa sì che il linguaggio esibisca, paradossalmente, i propri limiti e
rimandi all’ambito dell’aisthesis in cui l’anima aderisce all’ordine del
mondo. E la metafora ridefinisce la nostra esperienza in quanto l’ordi-
ne contingente e mutevole del mondo sublunare rimette continuamen-
te in movimento il linguaggio che lo dice. Da questo punto di vista, la
metafora è sì un metodo di scoperta che si serve del linguaggio, ma il
valore ontologico che essa assume non è un rapporto di definizione
della realtà che parte dal linguaggio, bensì dall’extralinguistico.
Questo aspetto si evince facilmente attraverso un esempio con-
trastivo. Nel Corso di linguistica generale 2, che notoriamente ha defini-

2 F. DE SAUSSURE, Cours de linguistique générale, 1922, trad. it. di T ULLIO DE


MAURO, Corso di linguistica generale, Laterza, Roma-Bari 1979, 1969 [1].
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Introduzione 13

to le basi della linguistica moderna, al quinto capitolo, dedicato ad


Analogia ed evoluzione, il metodo analogico viene esibito come esem-
pio di meccanismo innovativo della lingua. Saussure porta il caso della
parola «viendre», che poggia sulla proporzione: éteindrai : éteindre =
viendrai : x; dove x = viendre. Parlando dei mutamenti della lingua,
egli sostiene che «la lingua non cessa mai di interpretare e decomporre
le unità che le sono date», e nel caso dell’analogia «è evidente che essa
dipende ad ogni istante dall’ambiente associativo del termine», e più
avanti sostiene: «Ma una cosa interessa in particolare il linguista: nella
massa enorme dei fenomeni analogici, che rappresentano qualche se-
colo di evoluzione, quasi tutti gli elementi sono conservati; soltanto
che essi sono distribuiti altrimenti. Le innovazioni dell’analogia sono
più apparenti che reali. La lingua è un vestito coperto di toppe fatte con
la sua stessa stoffa». Da queste poche righe si riesce a capire che il lin-
guista ginevrino pensa il meccanismo analogico come un meccanismo
controllato fondamentalmente dal sistema di valori che è la lingua. È
vero che il capitolo inizia con l’affermazione che ogni atto di cambia-
mento del sistema avviene a livello di parole, e quindi è un atto indivi-
duale, ma le sue condizioni di possibilità sono primariamente determi-
nate dall’inquadramento in un sistema solidale che determina fonda-
mentalmente la direzione che può prendere: «In questo senso si può
dire che l’analogia, proprio perché utilizza sempre la materia antica
per le sue innovazioni, è eminentemente conservatrice». Difficile sa-
rebbe inquadrare attraverso queste coordinate la teorizzazione che
Aristotele compie del meccanismo analogico, definito dal filosofo co-
me meccanismo elettivo della metafora. Ma non è arduo solo rispetto a
una linguistica della langue, ma lo è anche adottando le categorie di
una linguistica della enunciazione o del discorso. Per il filosofo non è a
partire dal linguaggio, né pensato nella sua dimensione intersoggettiva,
pragmatica, storica, né tanto meno pensato nei suoi aspetti strutturali,
che si determina l’ordine della nostra esperienza del mondo. La con-
cettualità linguistica, i significati sedimentati nella tradizione sono una
condizione indispensabile per produrre conoscenza, ma questi «porta-
no a compimento» un ordine che l’anima riceve nel suo rapporto di
adesione sensibile alla realtà, un ordine prelinguistico, a partire dal
quale riceve una ‘legalità’ che si ridefinisce e determina correlandosi
alla dimensione della universalità linguistica.
Per questo il meccanismo analogico, che Aristotele considera
per eccellenza produttore di conoscenza, è un metodo euristico: per-
ché mette in relazione i significati pregressi con una unità sensibile,
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funzionante come una sorta di condizione-guida, che permette di ride-


finire lo spazio della concettualità linguistica, consentendo, al tempo
stesso, di definire quella congenericità di cui Aristotele parla nella Re-
torica3 a proposito della metafora per analogia. Per Aristotele sono le
forme che l’anima ‘subisce’ (nel senso del pathein), che si danno pri-
mariamente attraverso una sua modificazione e recettività, nel suo es-
sere radicata nella dimensione sensibile, che definiscono la universalità
linguistica, e non una materialità indeterminata che produce un movi-
mento che il linguaggio rimette in ordine a partire da una legalità e
una rete di valori e di rapporti, che costituiscono una condizione
profonda della esperienza. Il meccanismo metaforico, diventa per Ari-
stotele uno straordinario strumento euristico, di scoperta di relazioni e
proprietà non ancora venute alla luce, non in quanto proietta, prima-
riamente, un sistema di relazioni linguistiche sull’extralinguistico, ma
in quanto riesce ad accogliere la determinatezza del reale ridefinendo
le maglie dell’universale. Per Aristotele la narrazione tragica così come
la metafora sono momenti di produzione di conoscenza, in quanto il
talento di «vedere il simile» (to homoion theorein)4 o l’irrompere del
tragico nello spazio della narrazione significano, secondo la bella
espressione di Enzo Melandri, che l’arte e la scienza dispongono
«sempre di una speciale poetica con cui far violenza al linguaggio-di-
scorso e aprirsi una via di accesso alla realtà»5.
Il tentativo portato avanti in questa ricerca è stato dunque quello
di interpretare il valore denotativo che il filosofo attribuisce alla paro-
la, cercando tuttavia di sottrarre la peculiarità del pensiero aristotelico
sul rapporto tra essere e linguaggio a un referenzialismo grossolano,
che ridurrebbe il piano della phone a una semplice espressione esterio-
re, un mero suono che sta o rimanda a una verità che si dà nella sua in-
seità e nella sua compiutezza già prima di ogni intervento del linguag-
gio. In questo senso, la teorizzazione che Aristotele compie della me-
tafora diventa una sorta di riflessione-guida per comprendere, da una
parte, la primarietà di quel rapporto che il filosofo individua nel De
Interpretatione 6 tra pragmata e pathemata e, dall’altra, per capire che
tipo di legame si definisce tra esso e la dimensione dialogica, doxastica

3 Retorica, III, 10, 1410b.


4 Questa è l’espressione che Aristotele usa per definire «to metaphorikon» in
Poetica, 22, 1459a 6-8.
5 E. MELANDRI, La linea e il circolo, il Mulino, Bologna 1968, p. 259.
6 De Interpretatione, 1, 16a 4-9.
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Introduzione 15

e pragmatica della formazione dei significati.


Quindi, la prospettiva ermeneutica di questo lavoro si è venuta
delineando attraverso una presa di posizione critica rispetto alle inter-
pretazioni più diffuse della teoria della metafora in Aristotele, e ha
quindi tentato di recuperare e riportare all’evidenza l’orizzonte metafi-
sico e la vocazione ‘referenzialistica’ che segna la riflessione del filo-
sofo greco; ma, al tempo stesso, il tentativo è stato quello di mostrare
come il linguaggio metaforico, pur collocandosi in questa prospettiva,
riesca a restituire un realismo non schiacciato su una contrapposizione
tra oggettivismo-soggettivismo, mondo esterno-mondo interno, ma un
realismo ancora oggi in grado di fornirci i parametri fondamentali per
ripensare il rapporto tra linguaggio, mondo e pensiero non più nei ter-
mini di un ordine del mondo definito a partire da una dimensione lin-
guistica totalizzante.
Questa collocazione critica della ricerca rimanda, contempora-
neamente, alla necessità, che si presenta immediatamente nel momen-
to in cui si cerca di affrontare il tema del linguaggio metaforico in Ari-
stotele, di comprendere che posto questo possa occupare all’interno di
un’ontologia definita a partire da un rapporto privilegiato con il lin-
guaggio ordinario. Definirne quindi la cittadinanza e la centralità (che
molte letture hanno invece escluso, individuando nella teorizzazione
della mimesis metaphorike un aspetto secondario del pensiero aristote-
lico), senza tuttavia rimanere vincolati all’alternativa ermeneutica, di
cui si è precedentemente parlato.
Il compito della ricerca non avrebbe potuto essere quello di af-
frontare, in modo esaustivo dal punto di vista storiografico, un con-
fronto con le più importanti tradizioni interpretative dell’ontologia
aristotelica. Il suo metodo è stato orientato dall’interesse teoretico per
alcuni problemi fondamentali posti da Aristotele in riferimento al lin-
guaggio poetico e retorico, e la lettura che viene proposta della sua on-
tologia si colloca in una linea interpretativa che negli anni sessanta si è
delineata attraverso interpreti quali P. Aubenque, W. Wieland, in parte
seguita dalla lettura di I. Düring, e che ancora oggi trova una conti-
nuità negli studi di E. Berti. Sicuramente, il punto di riferimento teori-
co fondamentale di questo lavoro è l’appassionata riflessione che Au-
benque compie sul problema dell’essere in Aristotele. L’ontologia si ri-
solve, in questa prospettiva, in una ricerca che procede attraverso un
metodo dialettico; ma questo muoversi attraverso i significati trasmessi
dalla tradizione, dai saggi, dalle opinioni condivise non si risolve mai
nella attestazione di un essere che, diremmo oggi in termini moderni,
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si identifica con il prodotto di una pratica linguistica, una creazione


del dialogo umano. Il linguaggio per Aristotele ha primariamente una
funzione referenziale, è rivolto intenzionalmente alle cose; ma questo
mondo di cose è per il filosofo segnato dalla realtà fondamentale del
movimento e della caducità, che nega ogni possibilità di definire una
qualsiasi essenza data come autoevidente e immediata. Per il filosofo il
rapporto tra uomo e mondo non è ordinato dalla legalità umana, ma
dal modo in cui l’intelligibilità metafisica ha costituito i modi della co-
noscenza umana. E l’uomo, per Aristotele, si caratterizza sì per la sua
linguisticità, ma questa non autoproduce la sua esperienza, che si defi-
nisce primariamente nell’appartenenza a un ordine del mondo. Il lin-
guaggio, in questo senso, è contemporaneamente luogo di scoperta
della molteplicità, perché l’uomo attraverso il dialektos7 (così Aristote-
le definisce il linguaggio articolato umano) ha la possibilità di scoprire
la molteplicità degli ordini sensibili, e, nello stesso tempo, il mezzo per
ricomporre questa pluralità e complessità attraverso il dialogo umano,
il suo fissarsi nella dimensione periastica, doxastica e comunicativa.
Per questo nella Retorica il linguaggio viene definito una techne, e i no-
mi delle imitazioni: «la voce è la più mimetica delle nostre facoltà»8.
La techne per Aristotele imita la natura: «non è la natura che imita le
capacità umane, ma queste imitano la natura, e la capacità esiste per
aiutare la natura a compiere ciò che essa ha lasciato incompiuto». Il
linguaggio imita o denota una ‘verità’ che si costituisce a livello prelin-
guistico, nella sfera della aisthesis, dove l’anima coglie le forme sensibi-
li. Ma il riferimento del dialogo a un significato implicito e prelingui-
stico lo imita trasformandolo in una forma che presuppone l’accordo e
dei valori codificati dalla pratica linguistica.
La realtà per Aristotele è fatta di sostanze individuali, unità di
materia e forma, ma queste esistenze determinate fanno parte di un
universo di corrispondenze che le definisce come potenze attive e pas-
sive, che si determinano, al tempo stesso, nel loro essere in rapporto.
L’ordine del mondo aristotelico è un ordine dinamico e in movimento,
dove il linguaggio umano scopre, insieme alla molteplicità, dei domini
di stabilità, ma inserendosi nella realtà fondamentale del movimento.
Il linguaggio metaforico è dentro questo stesso movimento ed è al
tempo stesso l’immagine del movimento. La metafora «mette le cose
davanti agli occhi» e rappresenta «le cose in azione», perché esibisce

7 Storia degli animali, IV, 9, 535a 26 sgg.


8 Retorica, III, 1, 1404a.
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Introduzione 17

un meccanismo di sintesi sensibile, a partire dal quale i significati sedi-


mentati e codificati del linguaggio vengono rimessi in movimento, gra-
zie alle modificazioni che gli oggetti dei sensi producono nell’anima.
Per Aristotele, il metaphorein è «il talento di saper vedere il simile», in
quanto la sua capacità di produrre conoscenza non è legata a un mec-
canismo creativo della lingua, ma piuttosto al suo collocarsi a metà
strada tra determinatezza ontologica e universalità semantica, in quel
luogo in cui l’aporia o la tensione tra sostanza individuale e universale
si determina in una forma di conoscenza. Il pensiero aristotelico si
muove nei limiti stabiliti dal linguaggio, e la sua ontologia non si confi-
gura certo come la ricerca di una sostanza che si dà nella pienezza del-
la sua evidenza, al di là dei limiti in cui il linguaggio la può dire. L’esse-
re per Aristotele si dice attraverso i modi in cui il dialogo umano lo
universalizza nella concettualità linguistica, ma i molteplici modi in cui
si esprime nelle parole rimandano sempre a un ambito prelinguistico e
precategoriale che sembra fornire il filo conduttore e la condizione
unitaria della molteplicità categoriale.
In questo senso, la metafora sembra propriamente rimandare al-
la dinamica ontologico-gnoseologica o esibire il meccanismo attraver-
so il quale il dato, la realtà individuale, le cose diventano qualcosa di
sensato e apparente alla nostra conoscenza. La metafora così si presen-
ta come un processo che mette in mostra lo stratificarsi dei livelli di
‘significato’, rimandando, da un lato, a un ordine ontologico e, dall’al-
tro, alle dinamiche dell’anima in cui questo si manifesta e si stabilizza
attraverso la individuazione di quella congenericità che rinvia, a sua
volta, da una parte alla sfera dell’aisthesis e dall’altra alla concettualità
linguistica, attraverso la quale si definisce la sua universalità ‘indeter-
minata’. Questa congenericità rappresenta la violazione di quella meta-
basis eis allo genos, quel divieto di trasgressione categoriale che sta a
fondamento del linguaggio epistemico, e fornisce l’indicazione fonda-
mentale per comprendere dove andare a cercare ciò che fonda quell’u-
nità per analogia, che lo stesso Aubenque rileva essere un punto pro-
blematico nella storia delle interpretazioni del pensiero aristotelico.
Per capire che cosa può violare l’ordine categoriale, e quindi po-
ter dar conto a livello esplicativo dell’aporia tra i molteplici significati
dell’essere e il riferimento all’uno, si deve far riferimento alle dottrine
della koine aisthesis e della phantasia come si definiscono nel De Ani-
ma9. Qui il filosofo mette in evidenza un riconoscimento primario del-

9 Particolare importanza rivestirà nell’argomentazione dell’ultimo capitolo il


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l’oggetto che ha natura percettiva e prelinguistica, e che orienta la for-


mazione dei concetti. Ciò significa che nel momento in cui si entra nel-
le categorie del linguaggio, e quindi nell’ambito dello scambio e del
contatto con i propri simili, si è già formata una condizione unitaria,
seppure ancora fluida e ‘indeterminata’ (l’indeterminatezza viene qui
considerata da un punto di vista gnoseologico e non ontologico), ap-
prossimativa, che si dà nelle forme sensibili che l’anima ‘riceve’ ade-
rendo all’ordine del mondo, e che disporrà alla formazione di certi si-
gnificati. Ovviamente, non si tratta di un rapporto di derivazione delle
forme universali inteso, come si potrebbe interpretare attraverso l’em-
pirismo moderno, in maniera semplicemente induttiva. Aristotele sa
bene, e tutto il suo metodo di pensiero lo comprova, che la verità e la
conoscenza umana procedono per via dialettica, e quindi attraverso un
patrimonio di concetti, di conoscenze e di pensieri che ci costituisce in
quanto animali linguistici. Lo sguardo esperto dell’uomo di scienza è
lo sguardo educato dal patrimonio di conoscenze trasmesse, e ogni ri-
cerca deve fare i conti preliminarmente con le verità sedimentate nelle
opinioni comuni e in quelle dei saggi. Questa verità, che ha carattere
doxastico, periastico e critico entra costitutivamente a far parte di
qualsiasi ricerca, e ogni riconoscimento di un oggetto della conoscenza
ha bisogno di una preconoscenza concettuale, che per il filosofo risie-
de nelle forme universali che si definiscono e stabilizzano nel dialogo
umano. Aristotele è consapevole che da questo paradosso fondamen-
tale in cui si forma conoscenza non si esce, tuttavia lo sguardo esperto
che l’uomo di scienza rivolge alle cose, alla natura, all’ordine del mon-
do non può per lui risolversi nella verità che gli uomini costruiscono
attraverso il dialogo della vita umana associata, nella dimensione inter-
soggettiva e della paideia. Le poche pagine che il filosofo dedica al lin-
guaggio metaforico possono fare da esempio per comprendere a fondo
il rapporto di interdipendenza e di codeterminazione che si istituisce
tra sapere teoretico e pratico (dove per theorein, vedere, si deve inten-
dere l’atto sensibile) e per capire come la dialettica aristotelica sia una
dialettica profondamente ripensata attraverso tutta la critica, che per-
corre gran parte del suo pensiero, all’eristica e alla sofistica.
La specificità della teoria aristotelica della metafora si compren-
de appieno solo se si inserisce il problema nell’orizzonte metafisico
che caratterizza il pensiero del filosofo. La metafora scopre, risale un
ordine del mondo che essa non inventa e non crea. Essa individua,

passo di De Anima, B8, 420a 26-420b 4 e tutto il terzo libro del De Anima.
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Introduzione 19

nella molteplicità e nell’universo di corrispondenze che è la realtà se-


gnata dal movimento, dei percorsi di composizione, non il percorso,
ma uno dei tanti. L’idea che la metafora esprima un ordine che l’anima
riceve in un legame di adesione sensibile con le cose, che non si tradu-
ce in Aristotele in un realismo ingenuo o in un referenzialismo grosso-
lano, è comprensibile appieno facendo riferimento alla teoria dell’ani-
ma.
L’impianto teoretico del De Anima mette chiaramente in eviden-
za i presupposti interpretativi attraverso i quali occorre muoversi per
delineare una teoria della conoscenza o una teoria del linguaggio in
Aristotele: ogni ratio cognoscendi è un modo in cui la intelligibilità del
mondo si è data a una specie particolare ed è quindi primariamente
una ratio essendi. La critica – che Aristotele muove ai suoi predecesso-
ri – di avere definito delle dottrine dell’anima antropocentriche, e il
tentativo di fondare una psicologia che riguardi tutti gli esseri viventi,
la primarietà che il filosofo assegna agli oggetti, rispetto alle funzioni e
alle facoltà, l’idea di un’anima che è «già sempre i suoi propri oggetti»:
tutti questi motivi sono emblematici di un pensiero secondo il quale
ogni modalità della conoscenza umana può essere compresa solo nella
sua dipendenza dall’ambito ontologico. Per questo possono risultare
inappropriate, in riferimento al pensiero del filosofo greco, tutte quel-
le teorizzazioni sul linguaggio, e in particolare sul linguaggio metafori-
co, che cercano di ricondurre la sua riflessione a una lettura che parte
da una considerazione semiologica o linguistica, o in chiave di teoria
della mente: l’orizzonte metafisico della sua riflessione non dovrebbe
essere dimenticato, e il valore cognitivo della metafora può essere
compreso appieno solo se lo si definisce in relazione allo sfondo onto-
logico in cui si colloca. Questa è anche la ragione per cui nel primo ca-
pitolo si è spesso usato, rispetto al rapporto tra linguaggio ed essere,
l’espressione «pensiero dell’essere»: per sottolineare che il logos, l’or-
dine, la legalità, l’intelligibilità, la conoscenza delle cause e dei principi,
non è una razionalità definita dalla conoscenza umana che proietta
sulla realtà una sua legalità, ma un modo di darsi dell’ordine del mon-
do in cui l’anima è inserita e che può risalire dall’interno. Ad Aristote-
le era del tutto estranea la divisione kantiana tra conoscere e pensare,
ma ogni lettura attuale ha il compito di tenere conto delle stratificazio-
ni semantiche che questi concetti hanno assunto nella tradizione filo-
sofica: è necessario, quindi, usare i termini cercando di esprimere l’i-
dea di un sapere in cui gli aspetti gnoseologici sono legati indissolubil-
mente a quelli ontologici, e in cui la conoscenza non è in alcun modo
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20 Vedere il simile

riconducibile a una teoria della conoscenza intesa in termini moderni.


Per questa ragione, il presente lavoro si svolge cercando di mettere in
evidenza, attraverso il concetto di mimesis metaforica, come la rifles-
sione sulla poiesis sia per il filosofo al tempo stesso una riflessione sul-
l’essere, una riflessione gnoseologica ed etica.
Per restituire il realismo aristotelico, senza schiacciarlo su un
grossolano referenzialismo, è stato estremamente proficuo mettere in
relazione quindi la teoria della mimesis, e lo sfondo metafisico sul qua-
le si definisce, con la teoria dell’anima. Nel terzo capitolo di questo la-
voro, si è cercato di comprendere che cosa significhi questa primarietà
dell’ordine ontologico, considerandola in rapporto all’ordine gnoseo-
logico. Il concetto di mimesis poietike e metaphorike è stato analizzato
in rapporto alla dynamis (‘facoltà’) dell’anima, con la quale Aristotele
stesso lo mette in relazione: la phantasia. Questa capacità si definirà in
termini assai complessi, perché tiene insieme molteplici motori e mol-
teplici oggetti. Ciò che va messo in evidenza, preliminarmente, è che
questa dynamis non assume in Aristotele quel carattere di creatività
che la caratterizzerà essenzialmente nella modernità, e che permetterà
a Kant di definire l’immaginazione come capacità di creare una «se-
conda natura»10. Aristotele introduce questa facoltà attraverso il pro-
blema dell’errore: comprendere come irrompe l’errore nella conoscen-
za e nella prassi umana può restituire in modo precipuo il carattere
particolare di questa dynamis nella teoria aristotelica dell’anima.
L’errore che caratterizza la conoscenza e la prassi umana non na-
sce per Aristotele dalla difficoltà di tenere insieme l’orizzonte delle
opinioni comuni legate al passato con la possibilità di ridefinirle ‘crea-
tivamente’ in vista del futuro, non ha la sua causa nel complesso com-
pito di adeguare, accordare la verità legata alla tradizione, ai topoi, ai
luoghi comuni, con la invenzione di un nuovo criterio della sensatezza
da parte della soggettività. L’irrompere dell’errore, tematizzato attra-
verso questa nuova facoltà che è la phantasia, nasce nello spazio di
continuità e scissione tra mondo umano e mondo naturale. Per Aristo-
tele le leggi della prassi si inseriscono sì in una ratio che ha natura me-
tafisica, ma non creano un ordine pacificato: i processi teleologici che
governano la realtà sono processi in cui la teleologia umana si inserisce
creando un momento di rottura, di discontinuità, di scissione.
Ciò ha il suo corrispettivo anche a livello di analisi del processo

10 I. KANT , Kritik der Urtheilskraft, 1790, trad. it. di A. Gargiulo, Critica del

Giudizio, Laterza, Roma-Bari 1979, 1970 [1], § 49.


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Introduzione 21

conoscitivo. Aristotele, infatti, introduce questa nuova facoltà definen-


dola attraverso una duplice modalità di funzione, parlando di phanta-
sia aisthetike e di phantasia bouleutike, e individuando, a partire da
una dominanza degli aspetti sensibili o degli aspetti razionali, diverse
produzioni di ‘oggetti’ della conoscenza, mostrando, così, come la
concettualità linguistica si inserisca su un livello di ‘apparenza’ o di
contenuto intenzionale già formato, in qualche grado, a livello della
sensibilità. Per Aristotele – come si è più volte sottolineato – l’ordine
del reale è presupposto della conoscenza e non un prodotto di questa;
l’anima umana non può che appartenere a questo ordine, ma il suo ca-
rattere peculiare la rende atta a scoprire questa legalità del mondo nel-
la sua molteplicità e, nello stesso tempo, la rende capace di individuare
la possibilità di molteplici percorsi di ricomposizione dei processi te-
leologici. Il linguaggio apre verso la molteplicità, possiamo anche dire
verso il rischio di disordine e di errore, e nello stesso tempo individua
dei percorsi di ricomposizione e di stabilità; ma l’aprirsi della moltepli-
cità ha sempre come condizione fondante una unità del senso che si
definisce in un rapporto imitativo con il reale. Nel presente lavoro,
questa dinamica conoscitiva viene resa mostrando come i significati
del linguaggio si formino attraverso il correlarsi di due livelli di inten-
zionalità, che Aristotele rende attraverso l’identità-differenza di phan-
tasia bouleutike e aisthetike. La metafora, in questa prospettiva, diven-
ta il linguaggio che riesce a far emergere questo movimento della co-
noscenza che si istituisce nella soglia tra linguistico e extralinguistico.
Essa, così come il discorso tragico, mette in mostra questa dinamica
che caratterizza la conoscenza umana: il suo aderire a un ordine del
mondo che gli viene dato attraverso le forme della ‘passività’ sensoria-
le e il suo individuare, attraverso il linguaggio, la molteplicità degli or-
dini possibili. Ma questa molteplicità non è per Aristotele il dischiu-
dersi delle forme sensibili alle possibilità aperte dalla creatività umana.
Questa molteplicità di modi in cui il linguaggio può dire di volta in
volta l’essere deve essere restituito a una unità dei sensi che fa da filo
conduttore e da forma-guida alle categorie del linguaggio. Per il filo-
sofo, l’errore tragico e l’errore che interviene nel processo conoscitivo
nascono dall’incapacità di adeguare l’ambito dell’universalità linguisti-
ca, della verità intersoggettiva e doxastica, delle verità pregresse, alle
forme della passività, del pathein, che l’anima riceve in un rapporto di
adesione sensibile al mondo, e che hanno il valore di forme-guida per
determinare le generalizzazioni, segmentazioni proprie delle categorie
linguistiche. Secondo Aristotele la dimensione del possibile, e quindi
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22 Vedere il simile

della progettualità umana, si apre a partire dalla categoria di realtà.


Non tutte le verità sono aperte all’uomo partendo dalla defini-
zione dei dati sensibili che la immaginazione opera, ma solo quelle sta-
bilite dalle situazioni e circostanze determinate, dalle condizioni sensi-
bili che gli sono date. Ogni verità e unità deve trovare per Aristotele il
suo debito fondamentale e il suo orientamento nei principi che l’anima
riceve in un legame imitativo con il reale, che hanno carattere percetti-
vo (il termine imitazione ha una connotazione assai complessa che
verrà esaminata nel corso del lavoro: ovviamente non si intende sem-
plice rispecchiamento di una realtà data). Si comprende da queste po-
che argomentazioni preliminari, come qui il termine phantasia non sia
connotato in senso creativo. La capacità adattativa propria dell’anima-
le uomo sta nel riadeguare continuamente le forme della concettualità
a delle forme passive, che non hanno in Aristotele nessun carattere co-
struttivo, e nel ricercare continuamente, nella molteplicità che si apre
attraverso il linguaggio, quell’unità che l’anima non crea attraverso
una scissione con il mondo sensibile e un riferimento a un’idea sovra-
sensibile, ma restituendo l’intelletto al suo valore di nous pathetikos e
alla sua dipendenza dalle forme della sensibilità, rispetto alle quali
ogni principio sovrasensibile è immanente.
Per Aristotele l’errore e, insieme, la possibilità di riconoscere e
ritrovare un’ulteriore congruenza dei processi naturali e pratici sono
legati a questa capacità tipicamente umana di vedere tutte le cose come
se fossero finalizzate al mondo umano, ma, per lui, ogni processo te-
leologico, anche quelli legati alla techne, ha come principio fondante
una legge della physis, che si dà come principio di movimento di ogni
fenomeno. La phantasia permette all’uomo di regolarizzare il proprio
rapporto con il mondo e di progettare il futuro, ma la sua modalità di
phantasia logistike, legata alla linguisticità, è per il filosofo una fase del
processo conoscitivo che apre verso una pluralità, a partire dalla quale
la conoscenza si apre al rischio dell’errore. Il linguaggio non può per
Aristotele rispondere al compito di ritrovare congruenza ricreando
delle forme ex novo. La libertà del linguaggio dal suo aderire perfetta-
mente a un mondo di essenze già date sta proprio in questa scoperta
della molteplicità degli ordini del mondo, in cui il linguaggio si inseri-
sce scoprendo i percorsi di ricomposizione. La nostra libertà di esseri
linguistici è per il filosofo legata, quindi, alla capacità di radicarci an-
cora più a fondo nel mondo sensibile attraverso il linguaggio, perché
attraverso questo è possibile scoprire la sua complessità e cogliere la
ricchezza della differenza. In questo senso, per Aristotele la phantasia
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Introduzione 23

è nell’uomo, al tempo stesso, phantasia aisthetike e bouleutike, perché


l’apertura del linguaggio verso la molteplicità significa la capacità del-
l’uomo di scoprire la meraviglia e la complessità del mondo fenomeni-
co e non un distaccarsi da esso autoproducendo mondi possibili: l’er-
rore nasce nel momento in cui si crea una scissione tra aspetti razionali
e la sfera del pathein, e quando il linguaggio si allontana dai propri
fondamenti sensibili. Così la phantasia apre verso la pluralità per ritro-
vare l’unità non verso l’idea, ma verso la ratio del reale, alla quale l’or-
dine linguistico deve essere sempre riconsegnato e riadeguato, per po-
ter riconoscere l’errore e ricostruire la congruenza dell’agire e della co-
noscenza umana.
È questo movimento di adeguazione e di accordo tra le categorie
del linguaggio e le forme che l’anima riceve in un rapporto di adesione
sensibile all’ordine del mondo, ciò che caratterizza fondamentalmente
la phantasia, ed è questo movimento che riesce a rendere conto di quel
particolare linguaggio che è la metafora e del suo valore euristico e
non creativo.

Ringrazio le persone che hanno contribuito con i loro suggeri-


menti, le loro riflessioni e l’impegno della lettura a far sì che questo la-
voro giungesse a compimento: il relatore di tesi Vincenzo Fano, le cui
perspicue osservazioni, le critiche e l’attenzione per la ricerca sono sta-
te sempre accompagnate da un intelligente rispetto e da una fiducia
nell’autonomia del percorso di studio che stavo conducendo; Daniele
Guastini, che ha seguito la ricerca come esperto di poetica antica e mi
ha dato le indicazioni teoretiche fondamentali per affrontare lo studio
di Aristotele; Fabio Frosini, che ha sostenuto il mio lavoro con la sua
lettura attenta e produttiva di consigli; Venanzio Raspa, per le sue pre-
ziose obiezioni da attento studioso di Aristotele; Pietro Montani, che è
stato mio relatore di tesi di laurea e riferimento intellettuale costante
dei miei anni di studio.
Ringrazio inoltre Augusto Illuminati e Alberto Gualandi per l’at-
tenzione rivolta al mio lavoro.
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Capitolo Primo
L’AMBIGUITÀ DELL’ONTOLOGIA ARISTOTELICA
E IL LINGUAGGIO METAFORICO

Sommario
1.1. Il ritorno alla dialettica – 1.2. La doxa e la convenzione
1.3. Il linguaggio tra determinatezza ontologica
e universalità dialettica
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Affrontare il problema della metafora in Aristotele signifi-


ca anzitutto chiedersi in che modo sia possibile mettere in rap-
porto la sua teoria del linguaggio metaforico con le riflessioni fi-
losofiche che pensano questo stesso linguaggio come luogo in
cui si fonda una ontologia dell’identità-differenza, della storicità
dell’essere, della finitezza e temporalità della comprensione:
concezioni che, evidenziando la dipendenza della logica defini-
toria del concetto da un processo precategoriale, congiuntamen-
te, revocano senza negoziazione la pretesa di fissare una verità
a-temporale e a-storica1. Così il processo metaforico viene pen-
sato o come linguaggio che mostra in maniera esemplare l’isti-
tuirsi di verità segnate fondamentalmente dalla contingenza o
come garante del dinamismo della nostra comprensione del
mondo; di un dinamismo dei concetti che trovano il loro mecca-
nismo generativo in criteri d’ordine non intellettuale, i quali sta-
biliscono regole di associazione dei dati esperienziali non fonda-
ti su comunanze generiche e universali, ma fondati piuttosto
sulla legge della somiglianza. In questo processo, la necessità di
assurgere al generale, propria dell’intelletto, non assorbe all’in-
terno della sua orbita la molteplicità, la determinatezza e diffe-
renziatezza dell’esperienza, ma convive con essa in una perenne
tensione, alla quale il linguaggio metaforico sa dare espressione.
Così la metafora può essere interpretata, kantianamente, come
esempio di una regola non intellettuale che rende possibile risa-
lire dal particolare all’universale2, come ‘rappresentazione’ che
1 Oltre a quella di P. RICOEUR, La metafora viva, op. cit., una delle letture più
schierate in questo senso è quella di Ernesto Grassi, La preminenza della parola metafori-
ca, Mucchi, Modena 1987.
2 La riflessione kantiana sull’immaginazione produttiva è un punto di riferi-
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28 Vedere il simile

si costituisce nella zona liminare tra datità e idealità, tra sensibi-


lità e intelletto, dove si costituiscono quelle che Kant chiama
«idee estetiche» (descrizione esatta del simbolo), che sono «rap-
presentazioni dell’immaginazione, che danno occasione a pensa-
re molto, senza che però un qualunque pensiero o concetto pos-
sa essere loro adeguato»3; il simbolo non si lascia ridurre allo
schema concettuale, esso dona continuamente pensiero senza che
si lasci mai completamente saturare da una definizione concet-
tuale o da una interpretazione esaustiva. Quindi simbolo e me-
tafora sembrano caratterizzati primariamente dalla loro polise-
mia e multivocità.
Fatte queste premesse, è possibile ravvisare in Aristotele le
linee di una riflessione sull’essere o di una gnoseologia di questo
tipo, che si situi al di là di un’ontologia delle forme sostanziali e
immutabili, o non sarebbe piuttosto più adeguato trattare la sua
metaforologia come una teoria separata da quello che egli consi-
derava l’autentico ambito della conoscenza, l’episteme, o co-
munque considerarla un ambito secondario nella gerarchia dei
saperi4?

mento fondamentale della riflessione ricoeuriana: il ruolo che riveste in riferimento alla
metafora viene sviluppato particolarmente nel saggio The Metaphorical Process as Cogni-
tion, Imagination and Feeling, in «Critical Inquiry», The University of Chicago, vol. 5,
n.1, 1978. Il rapporto tra metafora e attività del giudizio riflettente è evidenziato da H.
ARENDT, The life of the mind, 1978, trad. it. di G. ZANETTI, La vita della mente, Il Muli-
no, Bologna 1987, pp. 188 sgg. Così come da H. G. G ADAMER in Wahrheit und
Methode, 1960, trad. it. di G. VATTIMO , Verità e metodo, Bompiani, Milano 1992,
1983[1], p. 103.
3 I. KANT, Critica del Giudizio, op. cit., § 49.
4 In questo senso si pronuncia A. CAZZULLO, La verità della parola, Jaca Book,
Milano 1987, che rimprovera a tutta la metaforologia di non aver pensato a fondo i pre-
supposti filosofici sui quali si fonda la prima importante teorizzazione della metafora.
Aristotele, avendo elevato la metafora ad oggetto epistemico, fa sì che questa si trasfor-
mi «da un uso spontaneo delle genti a oggetto codificato dal nascente sapere teoretico-
epistemico-veritativo» e stabilendo la differenza tra uso proprio e figurato del linguag-
gio ne definisce quello che sarà il suo destino, cioè appartenere a un ambito separato o
altro, differente dal vero sapere che si definisce attraverso il linguaggio ordinario. Que-
sta prospettiva interpretativa del linguaggio metaforico si colloca sulla linea di pensiero
heideggeriana che stabilisce il binomio meta-forica e meta-fisica, cfr. M. HEIDEGGER,
Unterwegs zur Sprache, 1959, trad. it. di A. CARACCIOLO, In cammino verso il linguaggio,
Mursia, Milano 1990. Nel saggio L’essenza del linguaggio, Heidegger dice: «Resteremmo
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L’ambiguità dell’ontologia aristotelica 29

Sicuramente, la teoria aristotelica della metafora si colloca


all’interno di un processo di profondo ripensamento, che ha
prodotto una radicale trasformazione, del modo di intendere il
rapporto tra linguaggio, pensiero ed essere. Il linguaggio in Ari-
stotele perde il suo carattere profetico e sacrale, di orizzonte co-
stitutivo dell’esperienza, per diventare oggetto epistemico, orga-
non, strumento del pensiero: quest’ultimo assume come punto
di partenza i limiti del linguaggio umano come condizione costi-
tutiva di ogni comprensione dell’essere. Ma insieme a questa as-
sunzione, il pensiero aristotelico opera una profonda ricognizio-
ne della coscienza o atteggiamento irriflesso connesso al lin-
guaggio ordinario, tentando in questo modo di amministrare, e
in qualche modo neutralizzare, i suoi limiti e le sue ambiguità
mediante un’analisi normativa.
Il tentativo di Aristotele, che passa attraverso una critica
all’eristica e alla sofistica – e che impegnerà tutta la sua riflessio-
ne – sarà quello di superare le ambiguità del linguaggio naturale
per imporre al nostro uso linguistico l’esigenza di univocità5,
cioè l’esigenza di una trasparenza totale del linguaggio; questa si
può ottenere – secondo il filosofo – stabilendo una relazione
biunivoca tra significato e segno:
Supponiamo che la parola «uomo» significhi una cosa sola, e sia
questa cosa «animale bipede». Quando dico che significa una cosa so-
la intendo questo: se uomo è questa cosa, e se esiste una cosa che sia
uomo, allora questa cosa sarà ciò che costituisce l’essere dell’uomo. E
non importa se si dice che una parola indica non una cosa sola ma più
di una, purché siano in numero definito. Infatti in questo caso si può
sostituire ogni definizione con un nome diverso. Per esempio, se si di-
cesse che la parola «uomo» non significa una sola cosa, ma ne indica
molte, di una sola delle quali l’unica definizione è «animale bipede»,
allora ci sarebbero più definizioni diverse l’una dall’altra, ma tuttavia

impigliati nella metafisica, se prendessimo l’espressione hölderliniana “parole come fio-


ri” per una metafora», p. 163. In altro modo P. Donini, nella sua Introduzione alla Poeti-
ca, trad. it. di M. VALGIMIGLI, Laterza, Roma-Bari 1997, p. LVII, sostiene che la metafo-
ra ha un posto marginale nella teoria aristotelica della tragedia, in quanto appartiene a
un ambito secondario della mimesis, cioè quello della lexis.
5 Cfr. P. AUBENQUE, Aristotele e il linguaggio, in «Vichiana», 1967, IV, fasc. III,
p. 35.
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30 Vedere il simile

finite di numero, e si potrebbe porre un nome proprio per ciascuna


definizione. Ma, se si dicesse che la parola indica un numero di cose
non finito, ma infinito, allora è evidente che non ci sarebbe neppure
un discorso, perché il non indicare una cosa sola è non indicare nulla,
e se si elimina il significato dei nomi, si elimina il discorso degli uni
con gli altri, ma, in verità, anche quello con se stessi: infatti non può
pensare nulla chi non pensa una cosa sola, e se può pensare, allora può
anche porre un unico nome alla cosa che pensa.
Ammettiamo dunque, come si diceva al principio, che il nome
significhi una cosa e significhi una cosa sola6.
Ma se questo legame tra significato e segno è stabilito, se-
condo Aristotele, per convenzione ed è in qualche modo nor-
mativizzabile, «suoni e lettere risultano segni, anzitutto, delle af-
fezioni dell’anima, che sono le medesime per tutti e costituisco-
no le immagini di oggetti, già identici per tutti»7. Il problema,
che Aristotele porta alla luce, della sproporzione tra il numero
infinito di cose e il numero limitato delle parole8 trova una solu-
zione, attraverso la quale il filosofo riuscirà a spiegare la possibi-
lità della comprensione del dialogo umano, nell’unità del gene-
re, che trova, a sua volta, il suo radicamento ontologico nella ca-
tegoria di ousia.
Il dire dei sofisti, secondo Aristotele, fonda la sua potenza
sulla plurivocità del linguaggio naturale, sulla molteplicità dei
significati della parola: preso nell’accidentalità del suo significa-
re di volta in volta diversamente, il riferimento ontologico del

6 Metafisica, IV, 4, 1006a 33-1006b 12, trad. it. di C. A. VIANO, Utet, Torino
1974.
7 De Interpretatione, 1, 16a 7-10, trad. G. COLLI, Laterza, Roma-Bari 1973.
8 Cfr. Confutazioni sofistiche, 1, 165a 5-13, trad. it. di G. COLLI, Laterza, Ro-
ma-Bari 1985: «Tra gli schemi che si possono usare contro di loro [i sofisti], il meglio
fondato e il più popolare è quello che argomenta attraverso la denominazione degli og-
getti. Dato infatti che non è possibile discutere gli oggetti come tali, e che ci serviamo
invece dei nomi, come di simboli che sostituiscano gli oggetti, noi riteniamo allora che i
risultati osservabili a proposito dei nomi si verifichino altresì nel campo degli oggetti,
come avviene a coloro che fanno calcoli usando dei ciottoli. Eppure le cose non stanno
allo stesso modo nei due casi: in effetti, limitato è il numero dei nomi, come limitata è la
quantità dei discorsi, mentre gli oggetti sono numericamente infiniti. È dunque necessa-
rio che un medesimo discorso esprima parecchie cose e che un unico nome indichi più
oggetti».
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L’ambiguità dell’ontologia aristotelica 31

linguaggio si annulla. La dialettica perde completamente, nella


sua versione sofistica ed eristica, il legame con la verità, e viene
sostituita dalla violenza della persuasione, nel cui orizzonte l’es-
sere dell’ente si identifica, è immanente al linguaggio stesso: la
parola autoproduce la sua verità.
Per poter smascherare i trucchi dei sofisti, che si fondano a
ben vedere tutti sulla pluralità di significati delle parole, occorre
regolamentare la molteplicità semantica del linguaggio e anco-
rarlo alla sua funzione di espressione di un significato che lo
fondi a livello ontologico. Le parole, che rimandano a un nume-
ro infinito di cose o di individui, possono trovare allora la loro
unità semantica nella identità dell’ousia:
[…] l’essere è supposto dalla filosofia come l’orizzonte obiettivo
della comunicazione. Quindi ogni linguaggio in quanto è compreso
dall’altro presuppone l’essere. Da questo punto di vista, l’essere non è
altro che l’unità delle intenzioni umane che rispondono nel dialogo.
L’ontologia quindi ha come fine la comprensibilità del dialogo tra gli
uomini9.
In questa prospettiva, l’orizzonte comune del linguaggio
può diventare conoscibile attraverso una «scienza delle cose», e
l’ontologia assumere il compito di «stabilire le condizioni a
priori che permettono all’uomo di comunicare»10.
Entrare nella complessa e assai stratificata questione della
ontologia aristotelica è un compito che eccede la prospettiva di
questo lavoro, in cui verranno discusse solo alcune questioni ne-
cessarie per mettere a fuoco il problema del linguaggio metafo-
rico e collocarlo in rapporto al più generale problema dell’onto-
logia aristotelica. Questi temi verranno trattati a partire da una
prospettiva interpretativa che ha un forte debito verso la lettura
dell’ontologia aristotelica di Pierre Aubenque, che individua
nella metafisica aristotelica una duplice tendenza: accanto al
tentativo di ancorare il linguaggio alla categoria di sostanza at-
traverso un «processo di dissacrazione e assunzione tecnica del
linguaggio», «trasformazione che in un certo senso fa passare il
9 P. AUBENQUE, Le problème de l’être chez Aristote, PUF, Paris 1962, p. 131.
10 Ibidem.
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32 Vedere il simile

linguaggio dallo stadio teologico allo stadio positivo»11 impo-


nendo la norma dell’univocità, accanto a questo progetto, si de-
finisce l’impossibilità di realizzarlo compiutamente, e il procedi-
mento definitorio e dimostrativo delle scienze particolari, che
Aristotele colloca nel gradino più alto della gerarchia dei saperi,
come sapere necessario, si dimostra del tutto inadeguato al pro-
cedimento di quella scienza prima che dovrebbe definire l’esse-
re in quanto essere, perché l’essere non è un genere12.
Possiamo quindi rintracciare nell’ontologia aristotelica,
che si fonda sul linguaggio naturale, la stessa duplice tendenza o
vocazione propria di questo stesso linguaggio. Da una parte il
nostro parlare ordinario racchiude la vocazione irriflessa a tran-
sitare verso le cose, a indicare un mondo di oggetti e di cose
percepite come datità, rispetto alle quali il linguaggio non sareb-
be altro che la mera espressione esteriore. La comprensibilità ed
efficacia comunicativa del linguaggio ordinario si fonda, anche,
sulla insita capacità di rendersi trasparente, di essere sentito co-
me mezzo o strumento di un mondo di cose date nella loro in-
seità, si fonda sulla fiducia irriflessa in un rapporto ingenuamen-
te referenzialistico tra linguaggio e mondo.
Il tentativo di superare il metodo eristico e dialettico, per
fondare una verità non più disancorata da una scienza dell’esse-
re e non più prodotta dalla persuasione, ma iscritta nella ‘cosa’,
intesa a partire dalla categoria di sostanza (come ciò che dà va-
lore unitario alla molteplicità delle significazioni delle parole), è
un tentativo di fondare teoreticamente una vocazione insita nel-
l’uso del linguaggio, e che lo caratterizza nella sua costitutiva
paradossalità, in quanto questa vocazione semplicemente deno-
tativa vive insieme alla sua ambiguità e polivocità.
L’ontologia delle forme sostanziali e immutabili, che la sco-

11 P. AUBENQUE , Aristotele e il linguaggio, op. cit., p. 27. L’autore fa notare co-

me Aristotele possa a pieno titolo essere considerato il fondatore della scienza moderna
e tuttavia individua nel suo pensiero una linea di sviluppo che sfugge a questa colloca-
zione.
12 Cfr. Etica Nicomachea, I, 4, 1096a 23-29, trad. it. di M. ZANATTA, Rizzoli, Mi-

lano 1986. Il noto passo enuncia il principio di unità per analogia dato che «il bene non
è qualcosa di comune secondo un’unica idea». Cfr. anche Metafisica, V, 7, 1017a 22-27.
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L’ambiguità dell’ontologia aristotelica 33

lastica medievale ha privilegiato nella interpretazione di Aristo-


tele, è una prospettiva presente progettualmente nel pensiero
dello Stagirita, ma mostrerà anche la sua inadeguatezza nel dive-
nire della sua riflessione, e il disegno di normativizzare il lin-
guaggio ordinario a partire da significati fondanti, stabiliti attra-
verso la categoria di ousia e attraverso il principio di non con-
traddizione, è un percorso che si configurerà come una «scienza
eternamente ricercata»13. Una ricerca che, spingendosi verso
l’essenziale per cercare ciò che va al di là della molteplicità acci-
dentale in direzione dell’unità, ritrova la fonte di una contingen-
za ineliminabile e ripensa a livello più originario l’altro aspetto
fondamentale del linguaggio ordinario, la sua costitutiva ambi-
guità e polivocità, non più interpretata come il limite e il difetto
da superare, ma come l’ineliminabile traccia della contingenza
in ogni definizione dell’essere.
Aristotele fonda la sua ontologia a partire dal problema
della comunicabilità e comprensibilità del discorso umano. La
sua ricerca segue, nelle sue fasi preparatorie, l’atteggiamento og-
gettivante di questo stesso discorso e cerca di rimuovere la sua
costitutiva multivocità. Il linguaggio per poter significare ha il
compito di dominare la contingenza, di ricomporre la moltepli-
cità accidentale. È vero che il linguaggio ordinario considera
una cosa da aspetti differenti, ma è anche vero che di volta in
volta la nostra comprensione si fonda sulla fiducia irriflessa che
esso racchiuda una presenza denotativa, un oggetto che si dà
nella piena trasparenza della sua essenza. La ricerca aristotelica
prende le mosse da questo atteggiamento che si affida al potere
oggettivante del linguaggio, ma la sua ontologia, che avrebbe
dovuto configurarsi come il compimento di questo progetto, de-
nuncia il suo limite costitutivo, e sancisce l’impossibilità di co-
noscere l’essere attraverso una definizione univoca e definitiva,
riaprendo il pensiero allo spazio di quell’altro aspetto essenziale
del dialogo umano, che Aristotele aveva tentato di rimuovere, la
sua costitutiva polivocità.

13 Questa è l’espressione che P. AUBENQUE (Le problème del l’être chez Aristote,

op. cit, passim) usa per definire il carattere problematico dell’ ontologica aristotelica.
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34 Vedere il simile

Non è affatto pacifico, quindi, come sostiene W. Wieland


nella sua riflessione sulla Fisica, che la ricerca aristotelica dei
principi si sia sempre mossa nell’ambito di una moteplicità irri-
ducibile:
Per definire i principi delle cose in divenire, Aristotele esamina i
diversi modi nei quali noi parliamo del divenire. In queste diverse for-
me linguistiche diviene per lui possibile cogliere la pre-conoscenza ir-
riflessa che noi già possediamo e presupponiamo prima di ogni ricerca
tematica.
[…] l’ambito di applicabilità della dottrina dei principi è costi-
tuito dalle singole cose, di cui facciamo esperienza e delle quali parlia-
mo, mai però del mondo come un tutto. L’ipotesi di un sostrato uni-
versale per tutti i mutamenti che hanno luogo nel mondo, sul quale si
possono fare affermazioni dotate di senso, e rispetto al quale tutte le
cose non sarebbero che momenti o accidenti, è del tutto non aristoteli-
ca.
[…] Aristotele – come gli è stato rimproverato abbastanza spes-
so – non fornisce alcun fondamento ultimo di tutto il sapere: ciò di-
pende in lui proprio dalla molteplicità dei punti di vista – secondo i
quali un oggetto può essere considerato. Soltanto in questo modo egli
può giungere a definire un oggetto da tutti i punti di vista, all’«empiria
totale», come la chiamava Hegel; essa sarebbe stata soltanto svalutata
dall’introduzione troppo affrettata di un principio unitario […] Ma si
può probabilmente dire che Aristotele ha indicato la possibilità di un
sapere filosofico che non abbisogna incondizionatamente di un fonda-
mento ultimo, in quanto egli né insegue il fantasma di una certezza as-
soluta, né crede alla possibilità di un assoluto dubbio14.
Wieland conduce la sua analisi del pensiero aristotelico sul
filo dell’assunzione che il punto di partenza della ricerca dei
principi in Aristotele è il linguaggio ordinario, che questa ricer-
ca si fonda sulla molteplicità dei modi di parlare delle cose, non
per andare al di là di questa stessa pluralità, ma per ritrovare a
partire da questa varietà la molteplicità dei principi.

14 W. WIELAND, Die Aristotelische Physik. Untersuchungen über die Grundle-

gung der Naturwissenschaft und die sprachlichen Bedingungen der Prinzipienforschung bei
Aristoteles, 1962, trad. it. di C. G ENTILI , La Fisica di Aristotele, Il Mulino, Bologna
1993, p. 179, p. 177, pp. 291-92.
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L’ambiguità dell’ontologia aristotelica 35

È un fatto incontestabile che l’ontologia aristotelica pren-


de le mosse dall’analisi del linguaggio comune, ma non parte da
questo con l’intento di costruire la sua scienza dell’essere accor-
dandola alla polivocità del linguaggio ordinario, che in prima
istanza egli cerca invece di amministrare. In realtà, non è del
tutto pacifico che Aristotele non insegua «il fantasma di una
certezza assoluta». Il concetto di taxis, di un ordine del mondo,
di una razionalità della natura, è un assunto che orienta tutta la
ricerca aristotelica15; idea che non si definirà mai come un ordi-
ne metafisico universale dato una volta per tutte, ma che è il se-
gno di una vocazione o di un progetto che accompagna costan-
temente la riflessione aristotelica. Quella riflessione che, tutta-
via, spingendosi verso la ricerca dei principi per cercare l’unità,
o il fine ultimo o l’ordine assiologico ne ricava la molteplicità, e
l’impossibilità di ridurre il mondo fenomenico a un principio
unitario fondante16: il progetto aristotelico prende le mosse in

15 Cfr. I. DÜRING , Aristoteles. Darstellung und Interpretation seines Denkens,

1966, trad. it. di P. DONINI, Aristotele, Mursia, Milano 1976, p. 36 e p. 277.


Cfr. anche I. CUBBEDDU, Una certa scienza, Quaderni dell’Istituto di Filosofia di
Urbino, Editrice Montefeltro, 2004, pp. 74-77. L’autore sottolinea come la frequenza del
concetto di taxis nelle pagine del Corpus sia assai alta «nell’Index Bonitz elenca una set-
tantina di occorrenze, con mezzi meccanici se ne possono contare più di duecento; si
trovano in maggior numero nella Politica (51, salvo errore), poi sempre di meno, nella
Metafisica, nel de caelo, nelle Divisiones e in altri trattati o frammenti; negli Analitici e
nei Topici non compare quasi mai, nelle loro pagine però è ben presente l’idea di un or-
dine razionale delle cose e dei discorsi».
16 Cfr. E. BERTI , L’unità del sapere in Aristotele, Pubblicazioni della Scuola di

Perfezionamento in Filosofia dell’Università di Padova, Cedam 1965, pp. 50 sgg. L’auto-


re fa riferimento al noto passo dell’Etica Eudemea, I, 8, 1217b 25-1218a 1, perfettamen-
te equivalente nell’argomentazione all’Etica Nicomachea, I, 4, 1096a 23-29, dove Aristo-
tele nega l’esistenza di una scienza dell’essere, o del bene, la quale pretenda di essere
strutturata in dimostrazioni, e dunque presupponga l’univocità e l’omogeneità del suo
oggetto. La scienza che Aristotele esclude è quella che si fonda sulla persuasione che il
bene sia un termine univoco, un genere unico: Aristotele rifiuta l’idea di unità del sapere
come univocità. Non ogni tentativo di costruire una scienza universale viene però con-
dannato da Aristotele, bensì soltanto quello fondato sulla pretesa che i principi comuni
a tutte le cose siano elementi, e che tale comunanza si ponga al di sopra della distinzione
fra i molti sensi dell’essere, vale a dire dell’irriducibile molteplicità dei generi. Aristotele
si oppone alla concezione dell’unità del sapere come riduzione di tutto il sapere a un’u-
nica scienza dimostrativa universale, perché ciò che rimane come fondamentale è l’irri-
ducibile molteplicità dei generi, ovvero la multivocità dell’essere. Dal punto di vista teo-
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36 Vedere il simile

direzione dell’unità, e procedendo su quella via ritrova la molte-


plicità e il mutamento come realtà ultima17. Sicuramente, asse-
gnando al concetto di telos un valore sostanziale, come ha fatto
la tradizione tomistica, si occulta la problematicità e produtti-
vità del pensiero aristotelico, ma va comunque tenuto fermo
che, anche volendo individuare in esso un dato
dell’esperienza18, e non un principio metafisico, resta tuttavia il
fatto che questa stessa esperienza viene pensata a partire da un
principio d’ordine, che trova poi il suo limite nella ricerca effet-
tiva, e non dall’assunzione di una contingenza primaria che con-
duce alla pluralità dei principi.
Il problema centrale dell’ontologia aristotelica diventa, nel
momento in cui il progetto di fondarla su basi epistemiche mo-
stra i suoi limiti, quello di trovare una definizione dell’essere
che permetta al pensiero di uscire dal dilemma tra un’essenza
vuota e un essere disperso in un’accidentalità senza substrato,
tra la povertà del discorso essenziale (la definizione generica) e
l’abbondanza indefinita del discorso accidentale, tra l’unità e la
molteplicità dei significati dell’essere. La mediazione sembra
rintracciabile nella definizione di ousia come to ti en einai, che
si colloca a metà strada tra l’idea di essenza come genere e la
molteplicità accidentale19. La quiddità si esprime attraverso una

retico tale multivocità è l’espressione dell’inesauribile problematicità dell’esperienza (ivi,


p. 76). La problematicità della ricerca ontologica è la sua caratteristica fondamentale.
L’unità stessa acquista il carattere di un’esigenza e di una tensione che si traduce in una
ricerca inarrestabile: «Tale unità non è mai data, non è mai oggetto di un’apprensione
immediata, ma è sempre richiesta, sempre esigita. Dell’essere insomma noi cogliamo sol-
tanto la molteplicità e il divenire, una molteplicità irriducibile e un divenire inarrestabi-
le, che però si rivelano sempre bisognosi di un’unità capace di renderli pienamente e de-
finitivamente intelligibili». L’autore riporta il passo di Metafisica, VII, 1, 1028b 2-4 in
cui Aristotele afferma che la natura dell’essere è qualcosa «che si è cercato fin dall’inizio,
si cerca ora e si cercherà sempre, e di cui sempre si farà questione» (ivi, p. 78).
17 Cfr. I. DÜRING , Aristotele, op. cit., p. 344. L’autore sostiene che per Aristotele

il movimento è immanente gli enti di natura, che egli è il fondatore della fisica come
scienza delle cose naturali e che nessuno prima di lui aveva detto che «Movimento e
cambiamento sono i fenomeni fondamentali della natura; chi non intende questi feno-
meni, non intende la natura» (Fisica, III, 1, 200b 14).
18 Cfr. W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit., p. 350.
19 Cfr. P. AUBENQUE , Le problème de l’être chez Aristote, op. cit., pp. 460 sgg.:

«Che ne è oggi di quello che Aristotele chiama to ti en einai e che noi traduciamo, in
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L’ambiguità dell’ontologia aristotelica 37

definizione che implica una compresenza di genere e attributi in


sé. Questa mediazione, grazie alla quale Aristotele trova una
possibilità di far entrare all’interno del concetto di ousia la ma-
teria e la sua accidentalità, senza tuttavia scivolare in una con-
tingenza irriducibile, conduce il pensiero al di là di una intuizio-
ne noetica delle essenze, per approdare a una sintesi discorsiva
in cui diviene costitutivo il fattore temporale, perché non c’è
un’essenza che noi possiamo comprendere immediatamente,
che si dà nell’evidenza della sua inseità, ma una quiddità in cui
il movimento proprio di tutti gli esseri sublunari viene a deter-
minare gli attributi propri, che diventano costitutivi del to ti en
einai. La forma viene ad assumere non il valore di una forma se-
parata, immobile e universale di una materia accidentale, ma si
dà come principio di composizione che si ridefinisce di volta in
volta attraverso le determinazioni di una materia in continuo
movimento, e l’essere, come principio di unità, si proietta verso
i propri accidenti. Questo principio non determina la materia o
la definisce esaustivamente, ma la ricompone in una sintesi mai
compiuta una volte per tutte, sul fondamento di una scissione

mancanza di meglio, con quiddità, benché la formazione latina di questa parola lasci
sfuggire l’essenziale della formula greca. Aristotele ci dà in via preliminare una definizio-
ne “logica”, vale a dire approssimativa, che non giunge ancora al cuore della cosa. È, di-
ce, “ciò che ogni essere è detto essere per sé” (Metafisica, VII, 4, 1029b 13). Questa de-
finizione è doppiamente esemplare nella sua concisione. Essa si riferisce dapprima al lin-
guaggio: la quiddità si esprime in un discorso attraverso il quale noi diciamo ciò che la
cosa è. Ma, d’altra parte, tutto ciò che la cosa è non appartiene alla quiddità, ma sola-
mente ciò che essa è per sé, esclusi quindi gli accidenti, almeno quegli accidenti che non
sono per sé (symbebekota kath’ayta). […] Aristotele non chiarisce mai questo punto.
[…] Nondimeno rimane che la struttura strana di questa formula, caratterizzata al tem-
po stesso dal raddoppiamento del verbo essere e dall’impiego inconsueto dell’imperfet-
to, non è nata a caso e comportava già per se stessa un significato, che, benché forse già
dimenticato dagli ascoltatori di Aristotele, continuava ad animare segretamente l’uso
che il maestro ne faceva. Il silenzio di Aristotele e la concisione dei commentatori greci
su questo punto hanno dato libero corso all’immaginazione degli esegeti moderni […]».
Secondo l’autore, la scoperta di Aristotele rispetto al pensiero platonico, sta nel fatto di
avere individuato all’interno della distinzione tra sostanza e accidenti un’ulteriore distin-
zione, quella tra accidenti per sé e accidenti propriamente detti: «l’espressione to ti en
einai è specifica, come mostra la definizione che ne dà nel libro Z, nella designazione di
ciò che l’essere è per sé: essa si oppone dunque all’accidente propriamente detto, ma in-
clude degli attributi accidentali per sé, per definire l’essenza individuale concreta […]».
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38 Vedere il simile

mai sanabile definitivamente, perché l’ousia così risolta è uguale


a se stessa e contemporaneamente sempre diversa, identica e co-
stitutivamente determinata dalla molteplicità delle determina-
zioni categoriali.
Occorre, in effetti, ricordare che le nozioni di materia e forma
sono essenzialmente relative, perché non designano degli elementi, ma
dei momenti nel pensiero dell’essere in movimento: ciò che è materia
in rapporto a tale forma è essa stessa forma in rapporto a una materia
più primitiva. Ora, se il rapporto tra forma e materia può essere chia-
ro, vale a dire deducibile, a livello più alto della composizione, non lo
è più quando ci si avvicina alla materia prima, che custodisce la sor-
gente di una contingenza fondamentale20.
Leggere l’ontologia aristotelica nella prospettiva di una
cooriginarietà di potenza e atto, e della correlativa coppia di
materia e forma, significa, al tempo stesso, sancire l’impossibi-
lità di ravvisare in essa una primarietà dell’atto compiuto, che
esiste, in realtà, solo come ideale che perdura eternamente nella
tensione infinita che regge il movimento di tutti gli esseri sensi-
bili21: ciò implica una perdita a livello ontologico del valore
prioritario dell’ideale conoscitivo epistemico, fondato sulla nor-
ma della sostanza definita univocamente. Quel movimento di
analisi del linguaggio ordinario, che viene sottratto all’uso delle
genti per venire amministrato come strumento di un ideale epi-
stemico, sembra ridescrivere, nel momento della sua fondazione
ontologica, un contromovimento che mostra la necessità di re-
stituire il linguaggio definitorio, dimostrativo e univoco al dive-
nire in cui è inserito l’essere degli enti sensibili, e quindi a un
linguaggio che è immagine di questo stesso movimento.
Individuare nel to ti en einai il senso più autentico del con-
cetto di ousia significa quindi trovare una via d’uscita dall’apo-
ria fondamentale che caratterizza la ricerca aristotelica di una
scienza dell’«essere in quanto essere»; ricerca presa in questa

20 P. AUBENQUE, Le problème de l’être chez Aristote, op. cit., p. 480.


21 La relatività funzionale dei concetti di materia e forma è messa in evidenza da
I. DÜRING , Aristotele, op. cit., p. 698. L’autore sostiene che il telos in Aristotele ha il va-
lore di un principio euristico più che costitutivo della scienza.
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L’ambiguità dell’ontologia aristotelica 39

oscillazione fondamentale tra un’essenza individuale, persa nella


molteplicità infinita delle cose, che decreta il fallimento e lo
smacco costitutivo di ogni discorso nella sua possibilità di dire
l’essere, e un’essenza universale e vuota che nega la costitutiva
codeterminazione di materia e forma, annullando sostanzial-
mente tutta la critica aristotelica al platonismo22.
Il to ti en einai si definisce quindi come una relazione ori-
ginaria tra una predicazione generica e accidenti propri. Il pro-
blema è di comprendere come avviene questa sintesi predicativa
che ci permette di attribuire a Socrate, oltre una predicazione

22 Metafisica, VII, 15, 1039b 19: «Sono sostanze diverse l’insieme di materia e

forma e la definizione. Intendo dire che l’una è sostanza nel senso di definizione assunta
insieme con la materia, mentre l’altra lo è nel senso di definizione presa in assoluto. Del-
la sostanza come insieme di materia e forma c’è distruzione (e infatti di essa c’è anche
generazione), mentre della definizione non c’è distruzione, nel senso che si corrompa (e
infatti non c’è neppure generazione, perché non si genera l’essere della casa ma l’essere
di questa casa particolare), sicché le definizioni sono o non sono, ma senza generazione
e distruzione. […] Per questa ragione neppure delle sostanze sensibili individuali c’è né
definizione né dimostrazione, perché esse hanno materia, la cui natura è tale che può es-
sere e non essere; perciò, tra le sostanze sensibili, tutte quelle che sono individuali sono
corruttibili. La dimostrazione riguarda le cose necessarie e la definizione è quella che
produce scienza. La scienza non può essere ora scienza e ora ignoranza, perché quella
che si comporta a questo modo è l’opinione. Proprio per queste ragioni di ciò che può
essere altrimenti da come è, c’è non dimostrazione né definizione, ma soltanto opinione.
Perciò è chiaro che delle cose individuali sensibili non c’è né definizione né dimostrazio-
ne». Questa contrapposizione tra sostanza individuale, di cui non c’è scienza, e forma
universale, generale e sempre vera di cui c’è definizione e dimostrazione delle cose ne-
cessarie, trova una sorta di mediazione nell’affermazione, che ricorre spesso nella Meta-
fisica, che «ogni scienza è di ciò che è sempre o per lo più, mentre l’accidentale non è in
nessuna di queste due specie di essere» (ivi, XI, 8, 1065 a 4). Il concetto di «per lo più»
(os epi to polu) percorre tutta l’ontologia aristotelica, in quanto gli esseri del mondo su-
blunare sono costituiti nella realtà del movimento, e quindi segnati dalla contingenza:
«Ciò che si muove può anche essere diversamente da come è, sicché il movimento locale
di prima specie, se anche è in atto, proprio in quanto si muove, può essere in modo di-
verso da com’è […] » (Metafisica, XII, 1072b 4). Nella Fisica, II, 9, 199 b 34 sgg., Ari-
stotele sostiene che tutti gli esseri del mondo sublunare sono governati da una necessità
ipotetica (ex hypotheseos) in cui subentra la contingenza. Solo il movimento eterno dei
cieli, il Motore immobile e i fenomeni costanti come i solstizi sono cose che non posso-
no essere diversamente da quello che sono. La necessità ipotetica riguarda il mondo del
divenire, si dà nel campo dei fenomeni contingenti. In ambito etico-pratico in genere il
filosofo usa il termine to eikos «verosimiglianza». La realtà sensibile per Aristotele tiene
insieme necessità, to anankaion, che riguarda «ciò che non può essere altrimenti» (Meta-
fisica, V, 5, 1015a 34-35) e contingenza, to endechomenon, che concerne «ciò che può es-
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40 Vedere il simile

generica che è la sua umanità, una serie di attributi propri, per


esempio la saggezza, che non disperdano l’essenza in una molte-
plicità incongruente, ma che riescano a tenere insieme la natura
individuale e la definizione generale.
Aubenque sostiene che la risposta al problema del come si
selezionino gli attributi essenziali rispetto a quelli meramente
accidentali è da ricercare in quel tempo imperfetto del verbo es-
sere attraverso il quale viene designata l’ousia, quel en einai che
indica che non vi sono attributi essenziali che all’imperfetto.
Questo imperfetto è espressione di un valore, profondamente
radicato nello spirito greco, dell’esperienza della morte come
esperienza essenziale che porta allo scoperto ciò che appartiene
costitutivamente all’essenza degli esseri del mondo sublunare23.
Ma ciò che conta ai fini della nostra argomentazione è il fatto
che, secondo Aubenque, il discorso che ha il compito di espri-
mere in modo eminente questa sintesi attributiva legata alla
temporalità dell’essere in movimento è propriamente il discorso
tragico24.

sere in modo diverso da com’è»: ciò che permane, nel mondo sublunare, porta con sé la
possibilità del mutamento.
23 In Metafisica, VI, 2, 1026b 13-sgg, Aristotele analizza il modo di essere per

accidente e, al contrario di quanto si possa facilmente pensare, lega il concetto di nascita


e morte non alla natura accidentale della materia, bensì alle cose che esistono non per
accidente: «Perciò, in un certo senso, non faceva male Platone a classificare la sofistica
tra le attività che vertono intorno al non-essere. Infatti i ragionamenti dei sofisti vertono
soprattutto, si può dire, intorno all’accidente, perché si pongono questioni come queste:
se siano o no la stessa cosa musico e grammatico, e Corisco musico e Corisco; oppure se,
poiché tutto ciò che c’è, ma non è eterno è nato, allora se chi era musico è diventato
grammatico, e tutti gli altri ragionamenti di questo genere: è evidente che l’accidente è
qualcosa di vicino al non-essere. E ciò risulta anche da queste considerazioni: delle cose
che esistono in modo diverso da quello accidentale, ci sono nascita e morte, che non ci
sono per le cose accidentali». Nascita e morte sono in relazione a qualcosa che ha per-
manenza, anche se questo permanere può essere segnato dalla caducità e dalla corruzio-
ne. Cfr. sul tema della morte anche Etica Nicomachea, I, 11, 1100a 10 sgg.
24 Cfr. P. AUBENQUE , Le problème de l’être chez Aristote, op. cit., p. 469.

In una prospettiva analoga si pone la lunga riflessione di P. RICOEUR, Temps e re-


cit, 1983, trad. it. di G. G RAMPA, Jaca Book, Milano 1986, passim. Il filosofo individua
nella Poetica di Aristotele una risposta non speculativa ai paradossi della temporalità.
L’esperienza umana, per Ricoeur, costitutivamente temporale, si struttura secondo dei
moduli narrativi, e gli schemi d’ordine della nostra esperienza sono fondamentalmente
temporali e narrativi.
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L’ambiguità dell’ontologia aristotelica 41

1.1. Il ritorno alla dialettica


L’ontologia aristotelica si definisce in questa prospettiva
interpretativa come «una scienza eternamente ricercata», in cui
l’ideale epistemico perde il suo valore primario in quanto sapere
assoluto e definitivo (ancorato a dei principi universali che si
danno a partire da un’evidenza legata a un’intuizione noetica), e
l’essere può trovare una definizione soltanto attraverso una mol-
teplicità regolata dei modi della predicazione.
La realtà fondamentale del mondo sublunare emerge come
la realtà del movimento, a partire dalla quale i concetti fonda-
mentali di “materia”, “forma”, “potenza”, “atto”, “privazione”,
la dottrina delle cause, si definiscono essenzialmente come
«principi relazionali»25: questi termini non denotano il passag-
gio da una condizione sostanziale a un’altra, ma rimandano
piuttosto a un ordine fenomenico che si può comprendere solo
attraverso il carattere dinamico e relazionale di tali principi. Co-
sì, non esistono una materia o una forma in sé: questi due prin-
cipi diventano articolazioni dell’essere in movimento e si defini-
scono in rapporto a un determinato contesto ontologico e lin-
guistico. Le due ‘realtà’ si costituiscono l’una in rapporto all’al-
tra e in un legame di interdipendenza: ciò che ha la funzione di
materia in una definizione può assumere il posto della forma in
un’altra; solo relazionalmente questi due principi potranno deli-
nearsi di volta in volta come tali.
L’essere degli enti sensibili è quindi fondamentalmente se-
gnato dalla realtà della scissione e del movimento, a partire dalla
quale si definiscono il principio materiale e la contingenza:
I processi di generazione sono quelli che riguardano le cose la
cui generazione ha la propria radice nella natura. In questi casi ciò da
cui deriva la cosa è quella che chiamiamo materia, ciò ad opera di cui
diviene è qualcuno degli esseri naturali, ciò che diviene è qualcosa co-
me uomo, o pianta, o qualcuna delle altre cose di questo genere, che
diciamo sostanze in senso privilegiato. Tutte le cose che diventano o
per natura o per arte hanno materia, perché ciascuna di esse può esse-
re o non essere, e questo è, in ciascuna la materia. Ma in generale è na-
25 W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit., pp. 67-68.
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42 Vedere il simile

tura anche ciò da cui deriva la cosa e ciò secondo cui essa diviene; e
infatti ciò che diviene ha una natura, per esempio è una pianta o è un
animale […] 26.
Le realtà sensibili, che si generano e si corrompono, non
sono per Aristotele sostanze in modo secondario e derivato, ma
lo sono «in senso privilegiato», e la loro essenza non deve essere
ricercata in direzione di una condizione immutabile che soggia-
ce al divenire. L’identico, la forma è ciò che permane al loro pe-
rire come individualità, ma pur sempre qualcosa d’immanente a
esse, e la loro essenza è segnata dalla determinatezza e particola-
rità delle sostanze singolari, caratterizzate dalla materialità e dal
divenire.
Il tentativo aristotelico di costruire una scienza unitaria
dell’essere a partire dalla categoria di sostanza, definita univoca-
mente, diventa una «scienza eternamente ricercata», dal mo-
mento che l’indagine sul fondamento stabile e identico incontra,
paradossalmente, come realtà ultima il movimento.
Cosicché nella ricerca dei principi si ritorna – come sotto-
lineano molti interpreti di Aristotele – a una rivalutazione del
metodo dialettico e quindi alla reintroduzione di una compo-
nente intersoggettiva, dialogica e doxastica nella definizione dei
principi primi27.
26 Metafisica, VII, 7, 1032 a 17-23.
27 Cfr. E. BERTI, Retorica, dialettica e filosofia, in «Intersezioni», 1983, n. 3, p.
515. L’autore afferma che la dialettica aristotelica, con il suo metodo critico, può essere
pensata come un modo di fondare un tipo di verità rigorosa, ma storica, che superi il re-
lativismo da una parte e l’astrattezza dell’episteme dall’altra, e insieme un metodo capa-
ce di superare la divisione delle scienze: «Ebbene, proprio il procedimento dialettico
della confutazione consente di stabilire tutta una serie di rapporti tra dialettica, e per
mezzo di questa tra la retorica e la verità, tanto nella forma in cui essa viene indagata
dalla “filosofia pratica”, quanto nella forma in cui essa viene indagata dalla “filosofia
teoretica”, sia quest’ultima intesa come scienza (le scienze particolari), sia essa intesa co-
me filosofia vera e propria (cioè come discorso teoretico diverso da quello delle scienze
particolari, per chi ancora lo ammette)». Cfr. W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op.
cit., p. 256. L’autore parla dei principi primi aristotelici come topoi, facendo riferimento
al pensiero dello Stagirita che sviluppa la dialettica come discussione che si fonda sui
luoghi comuni, sulle opinioni sedimentate nella tradizione, sulle credenze degli eruditi, e
non nella sua versione logica. Cfr. anche I. DÜRING , Aristotele, op. cit., p. 94. L’autore
sostiene che la sillogistica scientifica, che si fonda su proposizioni evidenti e indimostra-
bili, è semplicemente una forma particolare di quella dialettica, e si è formata sulla base
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L’ambiguità dell’ontologia aristotelica 43

Il pensiero stabilizzante, vale a dire la scienza, è evidentemente


meno adeguato, benché non si inserisca che all’interno del movimen-
to, a unirsi con ciò che c’è di movente nel movimento stesso. La scien-
za produce il necessario, vale a dire ciò che non può essere altrimenti,
sul fondamento della contingenza, vale a dire di ciò che può essere al-
trimenti. Ma se la contingenza non può mai essere bandita dal suo
orizzonte, la scienza è meno attenta all’orizzonte stesso che a quel nu-
cleo di stabilità che in esso ritrova. Non è dunque a essa, ma ad un’al-
tra disciplina dell’anima, a un altro modo del discorso, che bisognerà
ricorrere per pensare non più questo o quel dominio all’interno di
questo orizzonte, ma l’orizzonte stesso. Se, nel mondo sublunare, la
necessità nasce sul fondamento della contingenza, è a un pensiero più
ampio, a un discorso più generale del pensiero e del discorso sul ne-
cessario, che spetterà il compito di pensare il mondo sublunare come
orizzonte dei fenomeni che si producono, vale a dire come mondo
contingente. Noi abbiamo già incontrato e descritto ampiamente […]
questo pensiero aperto all’indeterminato, questo discorso che si muo-
ve al di là di tutti i generi: è ad esso che Aristotele ha dato il nome di
dialettica28.
Quella «scienza prima», che avrebbe dovuto fondare ogni
scienza regionale e che Aristotele definisce come «una scienza
unica di genere [alla quale] spetterà studiare tutte le specie del-

di questa. Cfr. P. AUBENQUE, Le problème del l’être chez Aristote, passim. Tutti questi in-
terpreti mettono in evidenza come Aristotele non usi quasi mai il metodo sillogistico-de-
duttivo nella sua ricerca e Wieland sostiene che questo metodo non è altro che uno stru-
mento per rappresentare efficacemente delle acquisizioni ottenute per altra via. E.
BERTI, a questo proposito, in Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 34-35, mette in
evidenza che la difformità tra il metodo sillogistico-deduttivo, esposto da Aristotele nei
Secondi Analitici come struttura logica della scienza, e i procedimenti effettivamente
praticati da Aristotele nei trattati scientifici, non può essere risolta assegnando al proce-
dimento deduttivo un fine didattico. La maggior parte di studiosi oggi considera la sud-
detta opera «non come una metodologia della ricerca, bensì come un’indicazione del
modo in cui i risultati della ricerca devono essere organizzati e presentati. Specialmente
il libro I dell’opera, contenente la famosa teoria della dimostrazione, è considerato come
la trattazione del modo in cui il sapere deve essere esposto e reso intelligibile, cioè come
l’illustrazione di quello che oggi si chiama un sistema assiomatizzato». E. KAPP, Greek
Foundations of Traditional Logic, Columbia University Press, New York, 1942, cap. I e
IV, dimostra come la sillogistica aristotelica nasce dalla pratica dialettica. Cfr. anche E.
ZELLER, Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung, II, 2, Leip-
zig, 1879, pp. 242-44.
28 P. AUBENQUE , Le problème de l’être chez Aristote, op. cit., p. 494.
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44 Vedere il simile

l’essere in quanto essere e le specie di queste specie»29, ritrova


come realtà originaria e orizzonte di ogni discorso sull’essere il
movimento. L’essere non si dà attraverso un discorso definito-
rio, che lo determina come un genere di tutti i generi; ciò che lo
caratterizza più originariamente sembra essere piuttosto la nega-
zione di ogni possibilità di esprimerlo attraverso un genere som-
mo e comune. Ciò che è stabile, ciò che permane, in quanto
prodotto del sapere epistemico, si costituisce solo attraverso un
discorso fondante, quello dialettico, che può parlare della tota-
lità solo in termini negativi, critici, periastici.
La fondamentale struttura dialettica del pensiero aristoteli-
co emerge in maniera evidente in ogni ricerca del filosofo. Il
dialogo con la tradizione e con i predecessori, in cui si articola
l’accesso problematico alla scienza, è il presupposto di ogni ri-
flessione aristotelica. Questo passaggio propedeutico non ha so-
lo un carattere dossografico, di semplice esposizione o di valuta-
zione estrinseca delle posizioni dei pensatori che hanno trattato
un determinato ambito dell’essere, ma diventa essenziale e fon-
dante della ricerca stessa: non è una fase che deve essere supera-
ta in nome di una conoscenza superiore, ma entra a costituire i
principi stessi del sapere scientifico.
La stessa nozione di ousia trova una definizione – come
abbiamo visto – non attraverso una unità generica e vuota, ma
attraverso i molteplici ambiti o modi del linguaggio a partire dai
quali essa viene considerata. In questa prospettiva, il metodo
dialettico, da cui Aristotele prende le mosse per criticarlo e su-
perarlo in nome di una “scienza della cosa”, riacquista la sua le-
gittimità e centralità. Ma la lunga elaborazione critica, che Ari-
stotele dedica al compito di rispondere ai sofisti, agli eristi e ai
dialettici, non condurrà solamente a un ripensamento dell’ideale
conoscitivo della episteme, ma porterà, al tempo stesso, a una ri-
definizione della dialettica in termini più originari.
Il metodo dialettico, ripensato essenzialmente, acquista un
nuovo valore conoscitivo30. La ricerca di una scienza di tutte le

29 Metafisica, IV, 2, 1003b 15-18.


30 Cfr. E. BERTI, L’unità del sapere in Aristotele, op. cit., pp. 170-80. L’autore so-
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L’ambiguità dell’ontologia aristotelica 45

scienze, fondata su un ideale epistemico, non lascerà semplice-


mente il posto a un sapere succedaneo e imperfetto, che sancirà
la perdita definitiva di ogni possibilità di conoscere l’essere del-
l’ente se non come prodotto esclusivo del dialogo umano. La
componente intersoggettiva della verità, che diventerà centrale
per il pensiero aristotelico, si definirà, nel più originario modo
di intendere la dialettica, come un movimento infinito del lin-
guaggio verso l’essere, il quale si manifesta solo attraverso la pa-
rola degli uomini, ma non è autoprodotto da questa. L’incontro
con l’‘altro’ dal linguaggio non si configura solo come una verità
che si traccia semplicemente attraverso il dialogo infinito tra uo-
mini: questo dialogo ha già sempre l’incarico di transitare verso
i limiti del linguaggio e rapportarsi agli enti, con il compito mai
saturabile di definire, in maniera sempre provvisoria, il loro es-
sere segnato dalla realtà fondamentale del movimento e della
scissione. Potremmo dire, in termini paradossali, che la comuni-
cazione umana s’istituisce sul fondamento di quella contingenza
dell’essere che l’uomo è chiamato continuamente a nominare, e
il metodo dialettico diventa quella modalità di pensiero da cui
emerge quel carattere mai definitivo della verità, che tiene il dia-
logo umano legato al suo compito di dire l’essere escludendo
ogni possibilità di restituire un significato ultimo. Aristotele ac-
cede all’ontologia partendo dalla questione della comprensibi-

stiene che la filosofia per Aristotele, non potendo procedere su basi epistemiche, proce-
de attraverso un metodo dialettico. Tuttavia la filosofia è atta a conoscere, mentre la dia-
lettica a criticare e persuadere: «questa differenza di fini e di facoltà impedisce di fare
un confronto tra la filosofia e la dialettica sul piano della verità, per concludere che l’u-
na ha più valore dell’altra. Ma questa stessa differenza rende possibile un impiego delle
argomentazioni dialettiche da parte della filosofia, nel senso che la filosofia può benissi-
mo usare, per conoscere, le stesse argomentazioni che la dialettica usa semplicemente
per vincere la discussione. In tal modo resta ferma la differenza tra filosofia e dialettica,
nel senso che l’una è una scienza e l’altra no, ma nulla vieta che la dialettica possa essere
assunta dalla filosofia come metodo […]». «Insomma la dialettica, la sofistica e la filoso-
fia argomentano tutte nello stesso modo, che non è quello analitico-deduttivo, bensì
quello confutativo; solo che la dialettica è per se stessa semplice metodo, e dunque non
ha alcuna pretesa di conoscere, mentre la filosofia e la sofistica pretendono di conosce-
re, l’una riuscendovi effettivamente, l’altra riuscendovi solo apparentemente […]». «La
dialettica, in quanto esige la presenza del negativo e ne manifesta l’insufficienza, può es-
sere considerata l’espressione logico-strutturale della problematicità della filosofia».
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46 Vedere il simile

lità della comunicazione umana, individuando come nucleo cru-


ciale il problema del riferimento comune del dialogo, che deve
essere fondato sulla categoria di sostanza, definita in termini
univoci e perfettamente trasparenti. Il punto di partenza della
sua ontologia dissimula completamente quella condizione altret-
tanto essenziale, che rende possibile, insieme a quella di un oriz-
zonte comune della comprensione, ogni dialogo umano, cioè la
impossibilità di un accordo completo fondato su un significato
che si dà nella sua evidenza e immediatezza. Se alla parola uma-
na fosse dato accedere senza limiti costitutivi a un essere che si
dà nella piena trasparenza, se le cose o l’oggetto ci fossero dati
come oggetti totali, il linguaggio umano si ridurrebbe al silen-
zio, annullato dalla pienezza dell’essere che non ha bisogno di
parole come sostituti imperfetti di una conoscenza prima irrag-
giungibile. La ricerca ontologica di Aristotele muove dal lin-
guaggio ordinario con il fine primario di superare i limiti del lin-
guaggio stesso – e in questo aspetto vi è sicuramente un legame
con il pensiero platonico – per arrivare a un essere, o potremmo
chiamarlo in termini linguistici a un supersignificato, che stia ol-
tre il linguaggio e la sua costitutiva ambiguità e polivocità; ma la
sua riflessione, spingendosi a fondo, ritrova che questa moltepli-
cità non è il frutto della inesperienza umana che equivoca la ve-
rità delle cose, ma trova la sua ragione nell’ordine dell’essere dei
fenomeni sublunari, segnati dalla realtà del movimento e della
scissione, per cui l’essere è nello stesso tempo sempre identico a
se stesso e sempre altro da sé, contemporaneamente univoco ed
equivoco. La dialettica ripensata essenzialmente attraverso una
riflessione ontologica, che ricerca una verità che si ponga al di là
dei limiti del linguaggio, ritrova questi limiti in ciò che fonda il
linguaggio stesso, che diventa, contemporaneamente, il mezzo
esemplare per dominare la contingenza e mediazione costitutiva
e temporale attraverso la quale conoscere l’essere dell’ente.
La verità nella ricerca aristotelica avrà sempre questa du-
plice valenza, o si potrebbe dire in termini semantici che il lin-
guaggio per Aristotele ha sempre questa duplice intenzionalità.
Che cosa si incontra se si vogliono risalire i limiti del linguaggio
stesso per comprendere verso cosa si orienta e quale valenza ve-
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L’ambiguità dell’ontologia aristotelica 47

ritativa abbia? Il movimento che porta il linguaggio sempre ver-


so i propri limiti, il suo riferimento ab extra è una tensione che
incontra solo la parola dell’interlocutore o ha la sua referenza
nell’ordine delle cose? La riscoperta della dialettica sembra ri-
comporre due ambiti che, nelle fasi iniziali della ricerca ontolo-
gica, Aristotele cerca di porre in un ordine fondazionale, pen-
sando alla theoria come metodo del sapere primo e superiore.

1.2. La doxa e la convenzione


A partire da questo modo di interpretare il legame che si
istituisce nel pensiero aristotelico tra linguaggio ed essere, come
collocare questa stessa lettura in relazione al celebre passo del
De Interpretatione che tematizza espressamente il rapporto tra
pragmata, pathemata e phone?
Ordunque, i suoni della voce sono simboli delle affezioni che
hanno luogo nell’anima, e le lettere scritte sono simboli dei suoni della
voce. Allo stesso modo poi che le lettere non sono le medesime per
tutti, così neppure i suoni sono i medesimi; tuttavia, suoni e lettere ri-
sultano segni, anzitutto, delle affezioni dell’anima, che sono le medesi-
me per tutti e costituiscono le immagini degli oggetti, già identici per
tutti. Orbene, di questi argomenti si è parlato nei libri che riguardano
l’anima: essi appartengono infatti a disciplina differente31.
Questo passo ha prodotto una storia delle interpretazioni
notevole, all’interno della quale si può individuare, in rapporto
a certi nuclei teorici, una linea ermeneutica caratterizzata da una
certa uniformità. Dalla tradizione aristotelica cristiana agli stu-
diosi della moderna linguistica, molti degli interpreti di questo
testo ritrovano in esso una concezione referenzialistica e con-
venzionalistica del linguaggio, che troverà il suo pieno sviluppo
nella Stoa32.
31 De Interpretatione, 1, 16 a 4-9.
32 La prima versione del convenzionalismo antico, come è noto, viene formulata
da Democrito, secondo il quale le parole sono «espressioni convenzionali», indicanti i
«simulacri», ma non avendo nessun legame naturale con l’aggregato che designano. Ri-
torna nel Cratilo di Platone (484c-485d, trad. it. di L. MINIO-PALUELLO, Laterza, Roma-
Bari 1993), dove Ermogene sostiene, in contrasto con Socrate, il carattere convenzionale
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48 Vedere il simile

Risulta difficile in effetti ricavare, a partire da questo pas-


so, un’idea di linguaggio che possa andare al di là di quella ten-
denza del pensiero aristotelico – più sopra messa in luce – di vo-
ler fondare il linguaggio a partire da un significato che si radichi
al di là dei limiti della parola umana e della sua costitutiva pluri-
vocità. Il linguaggio sembra essere phone, mera espressione este-
riore, etichetta o nome posti per convenzione a una verità che si
istituisce a livello prelinguistico, attraverso un rapporto imme-
diato con le cose. Ritrovata o rintracciata questa verità, oltre la
multivocità del linguaggio naturale, si è scoperto il radicamento
ontologico del linguaggio al di là di esso e non attraverso esso.
Effettivamente, la frase del De Interpretatione non lascia
spazio a grandi manovre interpretative33. E di fatto, i tentativi di
restituire a questo passo una sua ‘attualità’, nel senso di inter-
pretarlo alla luce delle acquisizioni delle teorie linguistiche mo-
derne, risultano lontane dalla peculiarità del pensiero aristoteli-
co34.

del rapporto tra la parola e ciò che designa: «In verità io, o Socrate, per quanto ne abbia
più volte disputato con Cratilo e con altri molti, non mi posso persuadere che altra mai
giustezza di nome vi sia se non la convinzione e l’accordo. Mi sembra che, quando uno
dà nome a una cosa, codesto sia il nome giusto; se poi, ancora, sostituisce quel nome
con un altro, e più non adopera il nome di prima, per nulla il secondo sia meno giusto
del primo […] Perché da natura le singole cose non hanno nessun nome, nessuna; bensì
solo per legge e per abitudine di coloro che sono abituati a chiamarle in quel dato modo
e in quel modo le chiamano».
33 Cfr. W. D. ROSS, Aristotle, 1923, trad. it. di A. SPINELLI , Aristotele, Feltrinelli,

1971, pp. 32-33. L’autore sostiene che in questo passo del De Interpretatione Aristotele
esprime una concezione rudimentale della verità, una concezione grossolanamente “rap-
presentativa”, che non è certo il meglio del pensiero aristotelico sull’argomento.
34 A questo proposito è d’obbligo il riferimento al testo di F. LO PIPARO , Aristo-

tele e il linguaggio, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 47, dove l’autore suggerisce di tradurre
il celebre passo aristotelico in questo modo: «[…] le cose che sono nella voce sono sim-
boli delle operazioni logico-cognitive specie-specifiche dell’anima umana». Partendo da
questa traduzione, l’autore sostiene che questo passo può essere reinterpretato alla luce
di un rapporto di cooriginarietà e codeterminazione di significante e significato – possia-
mo dire in termini moderni –, stabilendo un legame immanente tra linguaggio e ciò che
il linguaggio intenziona che, come mostra molto bene Aubenque, interpretando questo
passo, è difficilmente attribuibile ad Aristotele, ma piuttosto al pensiero di un autore
dell’antichità sul quale sono state proiettate o sovrapposte delle categorie proprie della
linguistica moderna. Come il passo mostra, in maniera difficilmente dissimulabile, il rap-
porto di stretta determinazione qui si stabilisce tra pragmata e pathemata. Per Aristotele
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L’ambiguità dell’ontologia aristotelica 49

Questo passo è una delle poche espressioni di una ‘metate-


roria linguistica’ che tratta il problema del rapporto tra linguag-
gio ed essere: di fatto Aristotele tematizza questa relazione sem-
pre a partire dall’ambito di ricerca che sta svolgendo. Compren-
dere, quindi, come si definisce nella riflessione aristotelica il
rapporto tra linguaggio, essere e pensiero implica necessaria-
mente comprendere che ruolo ha il linguaggio di volta in volta,
a partire dalla ricerca concreta, nella definizione dei principi.
Ma questo può non significare affatto che ciò che emerge nel
pensiero del linguaggio a partire dalla ricerca concreta sia di fat-
to sovrapponibile perfettamente alla teorizzazione diretta del
rapporto tra linguaggio ed essere.
Con Aristotele il linguaggio viene assunto a oggetto della
riflessione in quanto orizzonte del pensiero dell’essere, ma que-
sto oggetto, che il filosofo tenta di sottoporre ad analisi normati-
va per restituire una primarietà all’ambito ontologico, non di-
venta mai per Aristotele il prodotto di una teoria: il linguaggio
come ‘oggetto’ è sempre oggetto che viene esaminato di volta in
volta a partire dal suo essere sempre coinvolto in un discorso
concreto, in un linguaggio che parla delle cose e di un ambito
dell’essere. La riflessione sul linguaggio è sempre una riflessione
che avviene risalendo dall’interno il contesto esperienziale, una
riflessione che segue di volta in volta il cammino di una espe-
rienza determinata.
La riflessione aristotelica sul linguaggio si muoverà sempre
in questa condizione aporetica, per cui da una parte emerge il
tentativo di oggettivarlo di renderlo strumento disponibile della
conoscenza ma, dall’altra, questo tentativo si risolve in un pen-
siero che si muove sempre all’interno dei limiti del linguaggio
naturale, oltre i quali non esiste interrogazione ontologica.
Questa tendenza aporetica del pensiero aristotelico può
essere esemplificata, nel caso del passo del De Interpretatione,
attraverso la lettura che Heidegger compie di questo celebre
brano in due scritti di In cammino verso il linguaggio. Il passo è

è vero che l’uomo è uomo in quanto parla, ma il linguaggio per il filosofo non è pensabile
in termini di formatività, e non è una facoltà dell’anima intesa in termini moderni.
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50 Vedere il simile

riportato in due saggi di questa raccolta con una variazione nel-


la traduzione alla quale corrisponde uno scarto interpretativo
notevole. Nel primo saggio35, «il rapporto tra l’indicare e l’indi-
cato» (symbola) viene reso dall’autore attraverso il verbo sostan-
tivato das Zeigen (il mostrare), che, come tale, porta in sé le trac-
ce di un pensiero originario – secondo Heidegger – del linguag-
gio come disvelare (aletheia); nel secondo saggio, attraverso il
sostantivo die Zeichen (segni), la struttura del linguaggio viene
pensata in base al paradigma rappresentativo, cioè il linguaggio
è phone semantike, mera espressione esteriore di un significato
che la precede. Questo testo viene una volta interpretato come
testimonianza di un pensiero originario del linguaggio e un’altra
volta come il punto di partenza di tutta una tradizione metafisi-
ca (che si esplicita con gli Stoici e la loro concezione convenzio-
nalistica) che porterà all’elaborazione dell’idea di metalinguag-
gio.
Il punto di vista problematico, che emerge dalla lettura
heideggeriana, può farci da filo conduttore, assunto tuttavia in
maniera critica e contrastiva a tratti, per comprendere questo
passo così ampiamente interpretato.
Partiamo dal corno del dilemma che evidenzia la lettura li-
neare del rapporto tra cose, affezioni dell’anima e parole. È ve-
ro, come sostengono molti interpreti, che risulta difficile conci-
liare una lettura di questo passo fondata su un referenzialismo
ingenuo, con l’affermazione, che segue poche righe più avanti,
che il termine «ircocervo» significa qualcosa36, ma soprattutto
con un pensiero del linguaggio così come emerge dalla Retorica,
dalla Poetica e in tantissimi altri luoghi della riflessione aristote-
lica, dove la parola, più che denominare un mondo di cose già

35 M. HEIDEGGER, Der Weg zur Sprache, 1959, in Unterweg zur Sprache; trad. it.

di A. CARACCIOLO , Il cammino verso il linguaggio in In cammino verso il linguaggio,


Mursia, Milano 1990, 1973 [1], pp. 191-92. Il saggio in cui è contenuta una traduzione
differente è Das Wesen der Sprache, 1957-58, L’essenza del linguaggio, p. 160, contenuto
nella stessa raccolta.
36 Il problema degli oggetti immaginari ritornerà con insistenza nella trattazione

della dottrina della memoria e della phantasia e verrà ripreso più avanti nel corso di que-
sto lavoro.
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L’ambiguità dell’ontologia aristotelica 51

date, sembra contribuire costitutivamente a elaborare esperien-


za. Alcune forme di linguaggio rendono impossibile pensare la
funzione semantica in base a un rapporto di corrispondenza di-
retta tra designante e designato. Il discorso definitorio, che do-
vrebbe esprimere l’essenza dell’ente affermando l’appartenenza
non accidentale di qualcosa a qualcos’altro designando una con-
dizione dell’essere, diventa una modalità di discorso (caratteri-
stica della episteme) tra altri discorsi, i quali assumono un’im-
portanza fondamentale nella filosofia della praxis, nella poetica
e nella retorica37.
Dichiarativi sono, però, non già tutti i discorsi, ma quelli in cui
sussiste un’enunciazione vera oppure falsa. Tale enunciazione non sus-
siste certo in tutti: la preghiera, ad esempio, è un discorso, ma non ri-
sulta né vera né falsa. Prescindiamo dunque dagli altri discorsi, dal
momento che l’indagine al riguardo è più pertinente alla retorica o alla
poetica. Il discorso dichiarativo spetta invece alla presente considera-
zione38.
Il compito di questa ricerca sarà, anche, quello di mostrare

37 Cfr. W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit., pp. 204 sgg. L’autore, inter-

pretando il passo del De Interpretatione, sostiene che il linguaggio per Aristotele non è
riducibile a un discorso apofantico, quindi soggetto a una valutazione vero-falso, in cui
la funzione significativa si fonda sulla corrispondenza a un’oggettività. Ciò è testimonia-
to da Aristotele nella Retorica, dove vengono trattati quei tipi di linguaggio non riduci-
bili all’enunciato: la preghiera, il comando, la richiesta. Qui si vede chiaramente che il
significato ha un orientamento intersoggettivo e che non si tratta della correlazione di
un segno con un fatto ‘oggettivo’. Tuttavia l’autore, a mio avviso, rileggendo la filosofia
del linguaggio di Aristotele in chiave pragmatica sembra operare una riduzione del me-
todo dialettico alla dimensione dell’intersoggettività; operazione che non rende il valore
e la complessità della riflessione aristotelica sul rapporto tra linguaggio ed essere e, al-
meno in questo contesto interpretativo, non considera il valore del ripensamento della
dialettica operato da Aristotele. Wieland, infatti, sostiene: «parlando secondo la termi-
nologia moderna, pragmatica e semantica non sono dunque, in Aristotele, indipendenti
l’una dall’altra: piuttosto la semantica si fonda sulla pragmatica [corsivo mio], del resto in
completo accordo con le strutture della disposizione naturale osservabili fenomenologi-
camente […] per questo linguisticità e socialità dell’uomo coincidono necessariamente».
L’autore propone infatti di interpretare l’espressione che Aristotele usa per indicare il
rapporto tra phone e pathemata, cioè «kata syntheke», non, come è stato solitamente fat-
to, attraverso la traduzione «per convenzione», ma «in conformità con una convenzio-
ne».
38 De Interpretatione, 4, 17a 2-8.
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52 Vedere il simile

come il discorso apofantico sia debitore verso modalità di di-


scorso più originarie, dalle quali deriva la possibilità di mettere
in corrispondenza la parola con un’oggettualità e discernere il
falso dal vero39: occorre tuttavia, insieme a questo aspetto, tener
ferma la non riducibilità del valore semantico del linguaggio,
nella riflessione ontologica aristotelica, al suo orientamento in-
tersoggettivo. Anche i termini che denominano oggetti immagi-
nari, come «ircocervo», non sono semplicemente una produzio-
ne della comunità linguistica, ma hanno anche essi un orienta-
mento verso la ‘cosa’, in questo caso tuttavia i dati sensibili sono
mediati da una forte componente ‘immaginativa’40.
È possibile cercare di capire le ragioni che inducono Ari-
stotele ad affermare in maniera così netta la sproporzione tra il
piano necessario, universale e stabile dell’essere e l’accidentalità
multiforme delle fonie (che sembrano rivestire solo un ruolo
estrinseco nella conoscenza dell’essere) senza ricadere in un
grossolano referenzialismo, e, nello stesso tempo, senza stravol-
gere l’intento aristotelico con letture che tendono a rimuovere la
sproporzione che Aristotele mette in evidenza?
E qui s’inserisce la lettura tracciata dall’altro corno del di-
lemma. Il percorso che propone Heidegger con la sua traduzio-
ne del passo del De Interpretatione nel saggio Il cammino verso

39 Ivi, 9, 18a 28-32: «Rispetto agli oggetti che sono e a quelli che sono stati, è

dunque necessario che tra l’affermazione e la negazione una risulti vera e l’altra falsa; si
avrà sempre un giudizio vero contrapposto a un giudizio falso, sia riguardo agli oggetti
universali, presentati in forma universale, sia riguardo agli oggetti singolari, come già si è
detto». Ivi, 18b 5-8: «Ed allora, nulla è né diviene per caso, o secondo due possibilità in-
differenti, e nulla potrà essere o non essere; tutte le cose risultano piuttosto determinate
per necessità, e non sussiste nessuna indifferenza tra due possibilità (in effetti la verità è
detta o da che afferma o da chi nega)».
40 Questa espressione può dare adito a molti fraintendimenti, perché, partendo

da una prospettiva legata al pensiero della modernità, potrebbe indurre a pensare a una
componente soggettivistica forte nella produzione linguistica. In realtà, in Aristotele le
facoltà umane, così come vengono a configurarsi nella riflessione del De Anima, sono
pensate a partire da un orizzonte ontologico, a partire da una primarietà dell’‘oggetto’,
del ‘dato’, del contesto reale in base al quale si caratterizza la facoltà. Non a caso l’anali-
si aristotelica parte dalla considerazione dell’anima come un ‘oggetto’ di analisi che ri-
guarda tutti gli organismi e da una critica alla visione antropocentrica che caratterizza le
posizioni dei predecessori
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L’ambiguità dell’ontologia aristotelica 53

il linguaggio si presenta altrettanto impercorribile: quell’essere


simboli (symbola) che sta a indicare il rapporto tra cose, affezio-
ni dell’anima e suoni viene tradotto, attraverso il termine das
Zeigen (il mostrare) grazie al quale il linguaggio acquisisce un
valore disvelativo, manifestativo dell’essere. Si è già evidenziato,
all’inizio di questo percorso, che nel pensiero aristotelico il lin-
guaggio perde il suo valore sacrale, come invece aveva per esem-
pio in Eraclito – filosofo particolarmente amato da Heidegger –:
il linguaggio non è movimento disvelativo dell’essere per lo Sta-
girita, ma lo designa, un ssere che sembra definirsi primaria-
mente in quello spazio che sta tra i pragmata e i pathemata. Il
linguaggio per Aristotele dipende da un ordine dell’essere, al
quale noi possiamo accedere solo attraverso il dialogo umano,
ma questo è predefinito nell’ordine del reale. Ordine che può
trovare la sua espressione privilegiata nel dialogo che gli uomini
istituiscono su di esso, ma non per una componente che caratte-
rizza la parola come portatrice di una legge della physis che agi-
sce in essa in modo elettivo e, appunto, sacrale. Il linguaggio è
per il filosofo un mezzo per pensare l’essere perché la realtà del
movimento e della scissione trova un suo compimento nel dialo-
go umano che la sottrae alla dispersione e alla irriducibile cadu-
cità, sapendo esso dirimere ciò che in essa dilegua nella molte-
plicità accidentale da ciò che struttura i fenomeni secondo una
forma che li connette in un legame teleologico sostenuto da una
necessità ipotetica. Ma Aristotele non sembra mai pensare un
principio della physis che ha un rapporto precipuo con la mate-
rialità del linguaggio (come invece è per Heidegger), attraverso
la quale sarebbe dato all’uomo il compito di pensare l’essere.
L’ontologia aristotelica trova la sua fondazione attraverso il lin-
guaggio, ma questo imita41, trasformandolo, un livello prelingui-
stico, precategoriale dell’esperienza, dove i materiali linguistico-
acustico-sonori non aprono nessun accesso privilegiato all’esse-
re. Questo rapporto di dipendenza, tuttavia, non autorizza

41 Nella Retorica, III, 1, 1404a, trad. it. di A. PLEBE , Laterza, Roma-Bari 1961,

Aristotele dice: «i nomi sono imitazioni e la voce è la più mimetica delle nostre facoltà».
Questa affermazione sarà ripresa nei capitoli successivi e interpretata ampiamente.
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54 Vedere il simile

un’interpretazione del legame che s’istituisce tra linguaggio ed


essere in termini banalmente referenzialistici42. La riflessione
aristotelica sul linguaggio non può essere compresa nella sua
specificità ponendo l’alternativa ermeneutica che evidenzia o il
valore sacrale del linguaggio o la sua funzione di mera nomen-
clatura.
In Metafisica IX Aristotele sostiene:
L’essere e il non-essere si dicono o secondo le figure delle cate-
gorie, o secondo la potenza o l’atto (o i loro contrari) di queste, o se-
condo il vero o il falso. Questi, riferiti alle cose, consistono nello stare
insieme o nell’essere separati, sicché è nel vero chi crede che siano se-
parate le cose separate e che stiano insieme le cose che stanno insieme,
mentre è nel falso chi ha una posizione contraria alle cose. Ma allora
quando c’è, o non c’è, ciò che si dice vero o falso? Questo bisogna ap-
punto indagare, che cosa intendiamo dire quando parliamo del vero e
del falso. Infatti non perché noi crediamo, essendo nel vero, che tu sei
bianco, ma perché tu sei bianco, noi diciamo la verità, dicendo che sei
bianco43.
L’essere vero e l’essere falso sono in rapporto al giudizio:
cioè un giudizio è vero quando connette ciò che nella realtà è
connesso, è falso quando lega ciò che nella realtà non è unito.
La verità, a partire da questo passo, non può che essere

42 Cfr. W. B ELARDI , Il linguaggio nella filosofia di Aristotele, Kappa Edizioni,

Roma 1975, p. 82: «Il nome che è simbolo di un fatto psichico è come uno dei due pezzi
di una tessera divisa in parti. Uno dei due pezzi può stare per l’altro, può fargli da ri-
scontro, del pari ciò che è nella voce può stare per ciò che è nell’anima». Secondo l’au-
tore, il nome per Aristotele è l’indizio di qualcos’altro. Ciò che è nella voce vien dietro a
ciò che è nel pensiero. È una individualità compiuta, che segue il percorso di altra indi-
vidualità compiuta, e quindi non è un’unità che trova la sua definizione in rapporto
complementare a un’altra unità. I nomi non sono per Aristotele una delle due facce del
segno linguistico. Così come parola non è uguale a significante: le parole sono intese nel-
la loro globalità espressiva. Aristotele pensa il segno nella sua natura di rimando a qual-
cosa che sta oltre la natura di segno, e quindi alla natura linguistica, che sono le affezioni
dell’anima, non pensa le affezioni dell’anima come qualcosa di linguistico, di determina-
to all’interno della dimensione segnica. Forse, più che d’individualità compiuta – nella
prospettiva interpretativa qui portata avanti – si può parlare di una individualità forma-
ta. Si tratta di livelli diversi di determinatezza semantica, che entrano in relazione tra lo-
ro. Dove la ‘determinatezza’ assume valore diversi.
43 Metafisica, IX, 10, 1051 a 34-1051 b 8.
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L’ambiguità dell’ontologia aristotelica 55

pensata come prefigurata o dipendente dall’ordine delle cose,


ma essa «si disvela solo in occasione del discorso che noi isti-
tuiamo su di essa»44.
Questo brano può essere interpretato in chiave ingenua-
mente referenzialistica, ed essere avvicinato, in questa prospetti-
va, al passo del De Interpretatione.
In realtà, quando Aristotele afferma che a livello di giudi-
zio si stabiliscono la verità e la falsità non sta dicendo banal-
mente che questa dipende linearmente dallo stato delle cose, ma
sta affermando che a livello di giudizio si definiscono le condi-
zioni, i criteri per verificare come stanno effettivamente le cose.
Che il linguaggio abbia per Aristotele un radicamento ontologi-
co è un’assunzione difficilmente contestabile, ma questo radica-
mento non è la semplice corrispondenza tra una realtà fuori di
noi e il linguaggio. Come si è già evidenziato, non si capisce
quale tipo di realtà possa corrispondere direttamente alla pre-
ghiera, al comando, al discorso metaforico o agli oggetti imma-
ginari. Quando Aristotele sostiene nel libro E della Metafisica
che l’essere in quanto vero dipende dall’altro genere dell’essere,
facendo riferimento alle categorie (passo messo in evidenza da
Brentano), sta dicendo propriamente che il discorso apofantico,
quindi quello che può essere sottoposto a una valutazione del
vero e del falso, non è tale perché si costituisce in un rapporto
diretto di dipendenza da una realtà extralinguistica, ma è un di-
scorso che istituisce questo riferimento immediato a un oggetto
attraverso un sistema di regole o un paradigma teorico che sta-

44 A questo passo della Metafisica fa riferimento particolarmente Heidegger in

Platons Lehere von der Wahrheit, 1942, trad. it. di A. BIXIO e G. VATTIMO, La dottrina di
Platone sulla verità, Società Editrice Internazionale, Torino 1975, p. 65. Heidegger, co-
me è noto, sottolinea il valore ontologico dell’essere secondo il vero e il falso, e su que-
sto insiste in opposizione a Brentano che accentua l’elemento logico e predicativo, ine-
rente al giudizio, cfr. Von der Mannigfachen Bedeutung des Seienden nach Aristoteles,
1862, trad. it. di G. REALE, Sui molteplici significati dell’essere secondo Aristotele, Vita e
Pensiero, Milano 1995. P. AUBENQUE, Le problème de l’être chez Aristote, op. cit., pp.
168-69, fa notare come l’alternativa è mal posta: «non è falso vedere con M. Heidegger
nella verità ‘logica’ un pallido riflesso della verità ontologica o piuttosto un ‘oblio’ del
suo radicamento in questa. Ma non è neppure falso vedere con Brentano nella verità on-
tologica una sorta di proiezione retrospettiva nell’essere della verità del discorso».
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56 Vedere il simile

bilizza dei significati univoci, ritagliando all’interno dei molte-


plici significati dell’essere un ambito epistemico determinato, in
cui si definiscono determinate regole e un linguaggio normati-
vizzato.
Abbiamo visto che l’ontologia aristotelica prende le mosse
dalla necessità di fondare attraverso la categoria di sostanza un
significato che racchiuda la molteplicità delle significazioni del
linguaggio naturale. Ma questo progetto ha come esito l’acquisi-
zione che l’essere si fonda su una scissione fondamentale, e la ri-
cerca dei principi primi ritrova come realtà prima il movimento,
che segna tutti gli esseri del mondo sublunare di una costitutiva
contingenza. La possibilità di costruire un linguaggio rigoroso,
in cui la relazione tra denotante e denotato è data in maniera
univoca, rimane un tentativo che riguarda l’ambito delle scienze
particolari, dove l’essere viene sottratto alla molteplicità dei suoi
significati e considerato a partire da un sistema di assiomi e di
definizioni che ritagliano un ambito regionale dell’essere45. È
chiaro, in questa prospettiva, che il vero e il falso dipendono
dall’altro genere dell’essere, dal momento che vengono conside-
rati a partire da un determinato significato categoriale, e a parti-
re da un sistema ‘metalinguistico’ o metateorico, che definisce le
regole secondo le quali si possono determinare la verità e falsità
di un enunciato46. Come il passo di Metafisica £ non sia l’atte-

45 Cfr. E. BERTI , L’unità del sapere in Aristotele, op. cit., p. 32. L’autore sostiene

che il pensiero aristotelico definisce le condizioni teoretiche per stabilire una completa
autonomia tra scienza e filosofia. Condizione dell’unità di una scienza è l’unità del gene-
re su cui essa verte, ossia l’inclusione di tutti i termini delle sue dimostrazioni in un uni-
co genere. «Pertanto avere scienza significa necessariamente limitare la propria indagine
a un determinato settore della realtà, e sospendere l’inesauribile processo di problema-
tizzazione dell’esperienza a un determinato livello, assumendo come definitivi i principi
ad esso corrispondenti». L’unità del pensiero filosofico, come lo stesso autore afferma, si
fonda sul suo carattere problematico è un’unità esigita che riapre continuamente il per-
corso della ricerca.
46 Cfr. E. G ARRONI in Ricognizione della semiotica, Officina Edizioni, Roma

1977, pp. 21 sgg. L’autore mette in evidenza come l’interpretazione referenzialistica del
significato non abbia certo l’ingenuità di sostenere una teoria banalmente realista. Il re-
ferenzialismo appartiene a una lontana tradizione, e nella sua forma moderna è patrimo-
nio soprattutto di semiotici-logici, da Frege, al primo Wittgenstein, a Tarski e Carnap, il
cui intento è quello di definire le regole di verità del linguaggio della scienza. Carnap
01 cap1-25.qxd 20-11-2007 9:29 Pagina 57

L’ambiguità dell’ontologia aristotelica 57

stazione di un realismo ingenuo è comprensibile a partire dalla


dichiarazione di Metafisica E:
Il falso e il vero non sono nelle cose, come se il bene fosse vero e
il male senz’altro falso, ma sono nel pensiero […].
L’unione e la divisione sono nel pensiero, ma non nelle cose, sic-
ché l’essere preso in questo senso è un essere diverso da quello delle
cose che hanno l’essere in senso forte; questo è o l’essenza, o la qualità,
o la quantità o una della altre cose che il pensiero unisce o divide. Per-
tanto bisogna escludere che l’essere accidentale e l’essere nel senso di
vero; infatti la causa dell’uno è indefinita, e la causa dell’altro è un’af-
fezione del pensiero, e entrambi si riferiscono alle altre forme di esse-
re, e non rivelano una natura indipendente. Perciò queste cose devono
essere abbandonate, e bisogna cercare le cause e i principi dell’essere
stesso in quanto è47.
Il discorso apofantico, che sta a fondamento della
episteme, non può che costruirsi a partire da un’astrazione ri-
spetto ai molteplici significati dell’essere, e quindi deve ricono-
scere il suo debito verso modalità linguistiche più originarie. Se
ci mettiamo dal punto di vista del linguaggio definitorio, quello
della episteme, diventa ovvio considerare come primario il pun-
to di vista logico, cioè il punto di vista che considera la verità
primariamente come una proiezione del giudizio sull’ambito on-
tologico48. Quando Aristotele considera il vero e il falso si pone

formula il principio dell’andare a vedere come stanno effettivamente le cose. Se io dico


che «New York è un lago», l’enunciato è vero se e solo se, andando a vedere come stan-
no le cose, accerto che New York è effettivamente un lago. Ma in questo caso il signifi-
cato ha un valore puramente analitico e non sintetico. Non ci preoccupiamo in realtà di
cosa il linguaggio ci dice, ma lo presupponiamo come dato. Non ci sogneremmo mai, in
effetti, di effettuare l’operazione di andare a vedere come stanno le cose se non avessimo
formulato quell’enunciato. P. AUBENQUE in Aristotele e il linguaggio, op. cit., p. 261, so-
stiene che la scienza ha impiegato secoli a liberarsi di Aristotele, ma senza di lui non sa-
rebbe mai divenuta ciò che è. La norma dell’univocità diventa la norma principale a par-
tire dalla quale il linguaggio che organizza il mondo dell’esperienza si fa linguaggio og-
getto. E questo modello di linguaggio diventa il modello per ogni organizzazione dell’e-
sperienza fondata sull’impiego del linguaggio, il che è fondamentale per la scienza e la
tecnica.
47 Metafisica, VI, 4, 1027b 25-1028a 2.
48 Cfr. F. BRENTANO , Sui molteplici significati dell’essere secondo Aristotele, op.

cit., p. 46. Brentano, commentando il celebre passo di Metafisica, VI, 4, sostiene che
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58 Vedere il simile

a un livello di considerazione del linguaggio non ontologico,


non sta certo spiegando come avviene che una ‘cosa’ possa di-
ventare significato linguistico, ma si pone a un livello di consi-
derazione interna all’ambito del pensiero e considera l’‘oggetto’
linguistico come un dato primario, preso in esame dal punto di
vista della funzione conoscitiva che riveste e del valore di verità
che acquista a partire da un sistema di relazioni linguistiche. Il
discorso definitorio della scienza non nasce a partire da una cor-
rispondenza con la realtà, ma a partire da un dialogo con la tra-
dizione e con la credenza, fondata sull’opinione49, e sedimentata
nel linguaggio naturale, dal quale l’ambito della scienza regiona-
le ritaglia, seleziona, attraverso un procedimento dialettico, un
sistema di significati e di definizioni a partire dal quale si deter-
mina il criterio della verificazione. L’enunciato apofantico, quin-
di, non trova la sua condizione immediata di possibilità nella
realtà, ma in un altro ordine linguistico, che è quello definito at-
traverso i topoi, e il principio di corrispondenza, o dell’andare a
vedere come stanno effettivamente le cose, si definisce come un
rapporto tra un metalinguaggio della scienza e un linguaggio og-
getto, che è quello della conoscenza naturale: solo attraverso
questa corrispondenza si stabilisce il rapporto di verificazione.
Questo non significa a sua volta che il linguaggio per Aristotele
non abbia valore ontologico, ma che questo rapporto con l’esse-
re si istituisce primariamente in un altro ordine linguistico ri-
spetto a quello apofantico.
Abbiamo visto come il tentativo di fondare una scienza di
tutte le scienze allontani la ricerca ontologica aristotelica dall’i-
deale epistemico fondato sull’idea di forme immutabili e univer-

l’essere come vero può essere suscettibile di trattazione scientifica: «Aristotele sostiene
la necessità di sviluppare osservazioni al riguardo, solo che esse non spettano alla metafi-
sica. Se non sbagliamo, l’intera logica non ha a che fare con alcun oggetto, quando tratta
del genere, della specie e della differenza, della definizione, del giudizio e della dimo-
strazione. A tutto questo non appartiene minimamente alcun essere al di fuori della
mente».
49 Cfr. Topici, I, 1, 100b 21-23: «Fondati sull’opinione per contro sono gli ele-

menti che appaiono accettabili a tutti, oppure alla grande maggioranza, oppure ai sa-
pienti, e tra questi o a tutti, o alla grande maggioranza, o a quelli oltremodo noti ed illu-
stri».
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L’ambiguità dell’ontologia aristotelica 59

sali, perché dell’essere non è possibile dare una definizione vali-


da una volta per tutte, esso è sempre preso nella molteplicità
delle sue determinazioni categoriali, è sempre uguale a se stesso
e sempre diverso, definito univocamente ed equivocamente. Il
discorso sull’essere quindi può prodursi solo a partire da un
fondamento dialettico.
In questa prospettiva, per comprendere il legame che si
stabilisce tra linguaggio ed essere, occorre primariamente defi-
nire quali sono le condizioni di possibilità di questa verità verso
la quale il discorso apofantico è debitore: solo quel «pensiero
aperto all’indeterminato» e «un discorso che si muove al di là di
tutti i generi», qual è per Aristotele la dialettica, è l’orizzonte
della conoscenza adeguato al mondo dei fenomeni sublunari se-
gnato dalla contingenza. All’interno di questo orizzonte aperto
alla totalità, il discorso apofantico ritaglia le sue isole di verità e
falsità cercando di sottrarle alla caducità, alla polivocità, al mo-
vimento.
In questo modo, il legame di corrispondenza tra l’oggetto
e il giudizio non è affatto un legame immediato, ma definito dal
sistema di significati in cui è iscritto ciò di cui si parla. Un siste-
ma di significati ritagliato all’interno della complessità, moltepli-
cità, eterocliticità che emerge dalla sedimentazione di una tradi-
zione che si esprime nel linguaggio naturale.
L’idea di una scienza costruita attraverso il metodo sillogi-
stico-deduttivo, come viene sviluppata nei Secondi Analitici,
non può essere un modello trasferibile alla ricerca filosofica,
perché la filosofia, come indagine sui principi, ha il compito di
ricercare proprio quelle condizioni che una scienza costruita sil-
logisticamente deve dare come già presupposte50. Di fatto Ari-
stotele non si serve mai nei trattati filosofici delle possibilità del-
la sillogistica. Si serve del metodo deduttivo solo come rappre-
sentazione di risultati già acquisiti, e come metodo di controllo
della correttezza delle teorie. L’insuccesso del progetto di
un’ontologia costruita sul modello della conoscenza epistemica
ritorna inevitabilmente, visto il legame indissolubile che scienza

50 Cfr. W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit., p. 23.


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60 Vedere il simile

e filosofia contraggono nel pensiero aristotelico, in tutta la ri-


flessione sulle scienze particolari, producendo quella “moltepli-
cità di principi” che caratterizzerà ogni ambito di ricerca del fi-
losofo.
Ritornando al passo del De Interpretatione, si può ora
comprendere il legame che si istituisce tra pragmata, pathemata
e phone partendo non dal discorso apofantico, che, come abbia-
mo visto, ci riporterebbe a una sorta di alternativa tra referen-
zialismo ingenuo e idealismo linguistico del tutto estranea ad
Aristotele, ma cercando di capire quali siano le condizioni che
rendono possibile ogni discorso apofantico. E, in questo modo,
tentare di dar conto delle ragioni per cui quella verità, se consi-
derata a livello di enunciato definitorio, non può che essere
spiegata dal punto di vista logico-linguistico, ma riporta, se con-
siderata a un livello di discorso più originario, a una primarietà
del piano ontologico. Questa priorità che il filosofo assegna alla
sfera dell’essere non si traduce mai in un realismo linguistico in-
genuo, che rimarrebbe, in realtà, interno a un pensiero che atte-
sta una primarietà della sfera logica.
Il tentativo di questa ricognizione è quello di restituire una
problematicità a questo passo del De Interpretatione, mettendo
al tempo stesso in evidenza l’inappropriatezza di una lettura in-
dirizza a proiettarvi categorie proprie della linguistica modera,
visto che questo brano sembra spiegarsi primariamente a partire
da quella inclinazione del pensiero aristotelico tendente a ogget-
tivare il linguaggio e a restituirlo nel suo carattere di nomencla-
tura. È tuttavia necessario andare al di là di questa riduzione
reificante, per cogliere nella ricerca del filosofo un pensiero più
originario del linguaggio, anche se questa problematizzazione
del referenzialismo aristotelico non può che mantenere come
nucleo ermeneutico fondamentale quel legame privilegiato che
si istituisce tra pragmata e pathemata.
Rileggendo questo rapporto alla luce di alcune argomenta-
zioni del De Anima, si può restituire una qualche complessità e
produttività a questo passo del De Interpretatione, ed è possibile
superare quell’alternativa ermeneutica che l’interpretazione hei-
deggeriana pone, la quale, da una parte, legge nel testo aristote-
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L’ambiguità dell’ontologia aristotelica 61

lico un’idea di linguaggio inserita nella logica dicotomica sog-


getto-oggetto, mondo esterno-mondo interno e, dall’altra, l’idea
della parola come luogo disvelativo dell’essere. Potremmo dire,
in via del tutto provvisoria, che per Aristotele la parola non co-
struisce quell’ordine della sensatezza nel quale la nostra espe-
rienza si muove, come in una mappa costituita dal linguaggio.
Per Aristotele l’ordine del mondo è un ordine prelinguistico, in
cui il linguaggio stesso è inserito, e che il linguaggio stesso porta
a compimento grazie alla sua capacità di dominare la contingen-
za. Certo, tutto il pensiero aristotelico testimonia l’impossibilità
di andare al di là dei limiti della parola, tutta la sua ricerca si po-
ne all’interno dell’ordine linguistico, e il filosofo è ben consape-
vole che ogni interrogazione sull’essere non può che avvenire al-
l’interno del linguaggio stesso, tanto è vero che ogni problema
viene affrontato dal filosofo prendendo le mosse dai modi in cui
«si dice»; tuttavia, la tensione interna a questo stesso pensiero
mostra continuamente un suo perenne orientarsi verso i limiti
del linguaggio stesso, il suo costitutivo e incessante proiettarsi
verso l’extralinguistico.
Aristotele stesso nel De Interpretatione – nella frase succes-
siva al passo citato – rimanda al De Anima. Effettivamente, ri-
sulta assai difficile comprendere il rapporto tra linguaggio ed es-
sere prescindendo dalla dottrina dell’anima.
L’argomentazione del De Anima che più immediatamente
possiamo mettere in relazione con questo primo capitolo del De
Interpretatione è svolta in Γ6:
L’intellezione degli indivisibili riguarda le cose circa le quali non
è possibile il falso. Nelle cose, invece, riguardo a cui sono possibili il
falso e il vero, c’è una sintesi di nozioni, le quali formano un’unità. Al
modo in cui Empedocle disse «ad essa [la terra] di molti germinarono
teste senza collo», che poi furono congiunte dall’Amicizia, così le no-
zioni, prima separate, sono unite insieme: ad esempio quella di ‘in-
commensurabile’ e di ‘diagonale’. […] Ciò che produce l’unità di cia-
scuna composizione è l’intelletto51.

51 De Anima, Γ6, 430a 26 sgg., trad. it. di G. MOVIA, Loffredo Editore, Napoli
1979.
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62 Vedere il simile

Laddove, poche righe sotto al passo citato del De Interpre-


tatione, Aristotele scrive:
D’altro canto, come nell’anima talvolta sussiste una nozione, che
prescinde dal vero o dal falso, e talvolta invece sussiste qualcosa, cui
spetta necessariamente o di essere vero o di essere falso, così avviene
pure per quanto si trova nel suono della voce. In effetti, il falso e il ve-
ro consistono nella congiunzione e nella separazione. In sé, i nomi e i
verbi assomigliano dunque alle nozioni, quando queste non siano con-
giunte a nulla né separate da nulla; essi sono ad esempio i termini ‘uo-
mo’, o ‘bianco’, quando manchi una qualche precisazione, poiché in
tal caso non sussiste ancora né falsità né verità. Ciò è provato dal fatto,
ad esempio, che il termine ‘becco-cervo’ significa bensì qualcosa, ma
non indica ancora alcunché di vero o di falso, se non è stato aggiunto
l’essere oppure il non essere, con una determinazione assoluta o tem-
porale52.
Posto in questo modo, il problema dell’errore diventa fa-
cilmente risolvibile, perché si definisce tutto all’interno della
sfera dell’apprensione intellettuale. Le nozioni primarie sono
«intellezioni degli indivisibili» date nella loro evidenza imme-
diata, e quindi non sottoposte al problema della decidibilità tra
vero e falso; queste vengono unificate attraverso un’operazione
dell’intelletto che controlla attraverso regole oggettive, il meto-
do sillogistico, il procedimento di attribuzione di un “qualcosa”
a “qualcos’altro”. In questo senso, quindi, il problema della cor-
rispondenza tra realtà e linguaggio diventa un problema facil-
mente risolvibile attraverso una normativizzazione del linguag-
gio, grazie a un metodo di controllo delle parole e delle loro re-
gole di composizione, che permette di sottrarle a tutta una serie
di fenomeni aventi a che fare con gli aspetti pragmatici, sensibili
e multivoci del linguaggio.
In realtà, il problema dell’errore emerge in Aristotele in
maniera assai più complessa in altre sezioni del De Anima, dove
subentrano fattori che possono farci ripensare quel rapporto tra
pragmata e phatemata non nei termini di una apprensione imme-
diata di un oggetto che si dà nella sua inseità, rispetto al quale la

52 De Interpretatione, 1, 16a 9-20.


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L’ambiguità dell’ontologia aristotelica 63

parola non sarebbe che mera espressione esteriore, secondaria e


inessenziale, ma come un rapporto che pone già dal suo interno
il problema della verità e della falsità. Aristotele, infatti, nel De
Anima introduce una funzione cognitiva che contiene intrinse-
camente la possibilità dell’errore, senza che il contenuto che
questa intenziona possa essere sottoposto a prova di decidibilità
razionale della sua fallacia.
Il problema della verità e falsità, e quindi del rapporto che
si stabilisce tra l’essere e il giudizio, espresso attraverso la molte-
plicità categoriale, non può trovare una soddisfacente spiegazio-
ne tramite una semplice scelta tra piano ontologico o piano logi-
co53, che ci riporterebbe, se mal posta, a un referenzialismo o a
una concezione della verità come corrispondenza, intesi in sen-
so grossolano. Questa ottica interpretativa non spiegherebbe af-
fatto il problema, visto che l’apprensione intellettuale degli indi-
visibili e la composizione che avviene a partire da questi, con-
trollabile a partire da regole intellettuali, non riuscirebbero a
dar conto del fatto che «l’errore […] è la condizione più carat-
teristica degli animali, nella quale l’anima trascorre più tempo»?.
Quando in De Anima Γ3, Aristotele presenta una nuova
‘facoltà’ media tra sensazione e intelletto, la introduce attraverso
la trattazione del problema dell’errore. Aristotele rimprovera i
predecessori di non essere riusciti a dar conto, attraverso il ri-
corso al pensiero concettuale e alla sensazione, del problema
dell’errore, e introduce una nuova ‘funzione cogniva’, la phanta-
sia55.
[…] Se allora l’immaginazione è ciò mediante cui diciamo che si
produce in noi un’‘apparenza’, e non se diciamo qualcosa con un uso

53 Se il problema della verità viene considerato dal punto di vista dell’enunciato

epistemico, e quindi come il problema della corrispondenza tra proposizione e cosa, è


chiaro, come sostiene Brentano, che il vero e il falso devono essere espulsi dall’ambito
della metafisica ed essere inseriti nell’ambito della logica. Se invece il problema della ve-
rità viene affrontato in termini più ampi e più originari, come il problema del rapporto
tra linguaggio ed essere, si può riaffermare una primarietà del piano ontologico, con il
quale istituiscono un legame precipuo quelle forme di linguaggio che Aristotele, nel pro-
getto della sua ontologia, avrebbe voluto superare: la polivocità del linguaggio naturale,
le forme dell’argomentazione retorica, il linguaggio poetico e metaforico.
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64 Vedere il simile

metaforico di ‘immaginazione’, essa è una delle facoltà o abiti con le


quali giudichiamo e siamo nel vero e nel falso. Tali facoltà o abiti sono
la sensazione, l’opinione, la scienza e l’intelletto. […] la maggior parte
delle immagini risultano false56.
Poche righe più avanti, Aristotele sostiene che l’immagina-
zione è strettamente legata alla sensazione, così come il suo va-
lore di verità dipende dal tipo di percezione cui è connessa; af-
ferma il carattere sempre vero dei sensibili propri e l’insinuarsi
della possibilità dell’errore nella percezione dei sensibili comu-
ni.
In realtà, che la phantasia rivesta un ruolo costitutivo nella
formazione della intenzionalità in generale non è affatto ricono-
sciuto unanimemente dagli interpreti di Aristotele57. Si tratta

54 De Anima, Γ3, 427b 1-2.


55 Cfr. V. CASTON, Le besoin de l’imagination, numero speciale di «Les études
philosophiques» su Aristote sur l’imagination, gennaio-marzo, 1997, p. 4 e nota 2. L’au-
tore sostiene: «l’oggetto principale di questo capitolo è il problema dell’errore: bisogna
dar conto del fatto che il contenuto degli stati mentali può eventualmente divergere da
ciò che si dà effettivamente nel mondo […] Farò quindi l’ipotesi, che è esattamente per
questa ragione, che [Aristotele] introduce la phantasia: per evitare l’accusa di non poter
lui stesso spiegare la possibilità dell’errore […] ‘Errore’, nel senso in cui utilizzo questo
termine, ha una estensione più ampia di quanto la si trovi nei contenuti proposizionali,
in modo da includere anche l’inesattezza nei contenuti non proposizionali – un ritratto
inesatto, per esempio, commette un errore senza per questo essere falso nel senso stret-
tamente proposizionale. Allo stesso modo, Aristotele oscilla tra due usi dei “falso”, insi-
stendo più spesso sul senso strettamente proposizionale, ma usandolo a volte in modo
più ampio […] A noi interessa qui l’“errore” inteso in senso ampio, che non implica il
consenso o l’affermazione».
56 De Anima, Γ3, 428a 1 sgg.
57 In questo senso è esemplare la posizione di R. Lefebvre, Subliminalité, indi-

stinction et pathologie, numero speciale di «Les études philosophiques», op. cit. Nella
psicologia di Aristotele viene introdotta questa nuova facoltà che il filosofo chiama
phantasia. È una facoltà ancora poco definita, che non ha ancora certo il potere di rap-
presentare il non conosciuto, e ancor meno di inventarlo, ma è già caratterizzata come la
capacità di rappresentare in absentia, a partire da una conservazione delle tracce dei
sensi, ed è nelle relazioni in absentia che essa svolge il suo ruolo originale e principale.
Quando Aristotele fa intervenire la phantasia nel caso di rappresentazioni in praesentia
questa sta a indicare delle apparizioni senza autentica garanzia di apprensione sensoria-
le, la parola ritorna quasi sempre nei casi dubbiosi o nei casi di illusioni della percezio-
ne. Essa è quindi legata a una patologia della percezione. Per Aristotele la sensazione
realizza una conoscenza della forma, discriminante e non ermeneutica; in questo conte-
sto in praesentia, la phantasia gioca un ruolo debolmente discriminante, caratterizzata
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L’ambiguità dell’ontologia aristotelica 65

qui, assegnando o meno questa funzione alla phantasia, di consi-


derare la possibilità dell’errore o la non chiarezza come insita ad
ogni conoscenza.
In questa fase dell’argomentazione, si può lasciare in so-
speso il problema del ruolo cognitivo della phantasia, ma non si
può negare l’evidenza del ruolo costitutivo che rivestono i sensi-
bili comuni nella definizione dell’oggetto. Aristotele, infatti, so-
stiene che alla koine aisthesis sono legate le percezioni del movi-
mento, della quiete, della grandezza, del numero, della figura e
dell’unità58.
Risulta chiaro, dalla argomentazione portata avanti da Ari-
stotele, il fatto che il problema dell’errore si insinua a livello an-
tepredicativo59. In questo senso, la questione del vero e del fal-
so, pensata come connessione del giudizio, deve essere messa in
relazione con un ambito, un primo livello di determinazione o
conformazione dei dati sensibili, in cui entra costitutivamente la
possibilità dell’errore, come possibilità, ovviamente, non più
controllabile attraverso regole esplicite.
Riguardo al pensiero, poiché è diverso dalla sensazione e sembra
includere da un lato l’immaginazione e dall’altro l’apprensione intel-
lettiva, dopo aver trattato dell’immaginazione, si dovrà parlare anche
dell’apprensione. Se allora l’immaginazione è ciò mediante cui dicia-
mo che si produce in noi un’‘apparenza’, e non se diciamo qualcosa
con un uso metaforico di ‘immaginazione’, essa è una delle facoltà o
abiti con le quali giudichiamo e siamo nel vero o nel falso60.

dalla fallacia e dall’imprecisione (ivi, p. 55).


58 De Anima, Γ1, 425a 15-17.
59 Il carattere proposizionale delle rappresentazioni della phantasia e degli stati

mentali connessi alla koine aisthesis è sostenuto da S. CASHDOLLAR, Aristotle’s Account


of Incidental Perception, in «Phronesis», 1973, n. 18, pp. 156-75; D. K. W. MODRAK, Ari-
stotle: The Power of Perception, University of Chicago Press, Chicago 1989, pp.100-07 e
da R. Sorabji Intentionality and Physiological Processes in Essays on Aristotle’s De Ani-
ma, a cura di M. C. NUSSBAUM e A. OKSENBERG RORTY , Clarendon Press, Oxford 1992,
p. 197. In realtà, è vero che in queste due condizioni dell’anima si diano relazioni rap-
presentazionali, ma non si può certo sostenere che vi sia tra esse una relazione semiotica.
60 De Anima, Γ3, 427b 28-428a 1-4. In base a questo passo, l’immaginazione ri-

sulta essere una facoltà capace di giudicare e riguardante il vero e il falso. È necessario
tuttavia far notare che Aristotele usa spesso il termine krinein che ha una estensione se-
mantica ben maggiore di quella che ha il giudizio discorsivo. Anche a propostito dei
01 cap1-25.qxd 20-11-2007 9:29 Pagina 66

66 Vedere il simile

A questa zona di ‘medietà’ tra sensibilità e intelletto ven-


gono ascritti da Aristotele tutta una serie di fenomeni come la
memoria, l’anticipazione, il pensiero, il ragionamento, il deside-
rio.
La trattazione della phantasia sviluppata nel De Anima, e
quella ad essa strettamente connessa della koine aisthesis, ver-
ranno tematizzate più ampiamente nei capitoli successivi di que-
sto lavoro in rapporto alla questione del linguaggio e del proces-
so metaforico. A questo punto dell’argomentazione, è importan-
te soprattutto spiegare – a livello propedeutico, in prima ap-
prossimazione – come può essere letta quella primarietà del rap-
porto che Aristotele stabilisce tra pragmata e pathemata, tenen-
do ferma, al tempo stesso, la non riducibilità del piano della
phone a qualcosa di semplicemente secondario e derivato. Quel
legame originario, pur essendo prioritario nella costituzione del
significato, richiede necessariamente l’intervento del linguaggio
come mezzo fondamentale per determinare, dare chiarezza,
portare a compimento un livello ontologico-cognitivo che si de-
finisce come una primaria strutturazione sensibile e dinamica,
legata intrinsecamente alla materialità dei fenomeni del mondo
sublunare segnati dal movimento.
Queste nuove funzioni dell’anima vengono a determinare
la possibilità di pensare a una forma sensibile, che porta con sé
costitutivamente la condizione dell’errore, e che diventerà fon-
damentale per spiegare i sogni, la memoria, le anticipazioni, il
desiderio, ma soprattutto per comprendere a quale tipo di ‘pro-
va di verità’ possano essere sottoposte certe forme di linguaggio
diverse dall’enunciato apofantico, forme verso le quali questo ti-
po di linguaggio sembra essere debitore61.

sensibili propri il filosofo usa spesso questo termine per sostenere che ciascun senso
‘giudica’, ossia riceve e discrimina le differenze del proprio oggetto sensibile. In questo
senso, quello che Aristotele sostiene qui a proposito della phantasia può semplicemente
significare che essa è condizione indispensabile della formazione del giudizio e che sia
implicata nella determinazione del vero e del falso, ma ciò non significa necessariamente
che essa abbia natura proposizionale.
61 Cfr. V. CASTON, Pourquoi Aristote a besoin de l’imagination, op.cit., p. 36.

L’autore sostiene che la dottrina della phantasia, e dei sensibili comuni ad essa connessi,
apre la via a una teoria dell’intenzionalità che non presuppone la struttura concettuale
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L’ambiguità dell’ontologia aristotelica 67

Tematizzando questa zona di medietà, che possiamo indi-


viduare come una sorta di condizione complementare di fonda-
zione epistemologica della realtà ontologica del movimento, di-
venta evidente come la conoscenza teoretica perda il suo carat-
tere di fissità, di separatezza, per diventare esperienza di una ve-
rità dinamica, di un rapporto con il mondo della natura svinco-
lato da una logica deterministica, e contraddistinto dalla flessi-
bilità, adattatività e plasticità; infatti «l’immaginazione sembra
sia una specie di movimento […]; in virtù di esso, chi lo possie-
de può esercitare e subire molte azioni»62: movimento che sem-
bra ricomporre quella scissione tra sapere teoretico e pratico nei
termini, come vedremo più avanti, di una loro codeterminazio-
ne e di una loro relazione originaria.
Rileggendo attraverso il De Anima il famoso passo del De
Interpretatione, che rimanda espressamente a quel trattato, il
rapporto preferenziale tra cose e affezioni, che nel secondo sem-
bra essere ancora legato a una apprensione immediata delle es-
senze (rispetto alla quale il linguaggio rivestirebbe un ruolo di
mera nomenclatura), può essere reinterpretato mettendo in luce
la priorità, nel processo conoscitivo, del delinearsi di una forma
antepredicativa dei dati sensibili; forma che si correla necessa-
riamente con l’ordine linguistico, e che sarà trattata da Aristote-
le attraverso le funzioni della koine aisthesis e della phantasia.

1.3. Il linguaggio tra determinatezza ontologica e universa-


lità dialettica
L’ontologia aristotelica definisce i confini della sua ricerca

che il linguaggio e il pensiero rendono possibile; ciò permette di spiegare gli stati inten-
zionali che restano al di qua di questo suolo. Certo, il deliberare e le forme più alte della
cognizione richiedono l’impiego dei concetti e delle inferenze, ma, anche in questo caso,
Aristotele sottolinea che queste funzioni si costruiscono sul suolo della phantasia. In ter-
mini aristotelici, le forme che sono pensate lo sono «nei» phantasmata (De Anima, Γ7,
431 b 2; Γ8, 432 a 4-6, a 12-14; Γ7, 431 a 14-16). Facendo della phantasia piuttosto che
dell’opinione la moneta corrente in seno agli stati mentali, Aristotele pone l’accento su
una forma di intenzionalità, che è più fondamentale dell’intenzionalità concettuale e
fondamentalmente radicata nel carattere generale dell’esperienza percettiva.
62 De Anima, Γ3, 428b 11 sgg.
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68 Vedere il simile

attraverso un movimento aporetico, che caratterizza fondamen-


talmente il tentativo di determinare il concetto di ousia.
La tensione costitutiva, in cui si determinano il pensiero e
il linguaggio, tra un essere pensato come singolare e la sua defi-
nizione universale, tra una sostanza prima come unità di materia
e forma e una sostanza seconda individuata dai modi della pre-
dicazione, diventa lo spazio in cui si fonda ogni pensiero e ogni
linguaggio dell’essere, che non può mostrarsi se non attraverso i
significati della universalità concettuale, i quali, tuttavia, non si
danno e non possono esistere se non facendo riferimento a un
soggetto che non può essere predicato di altro, e il cui rimando
diventa il limite del linguaggio stesso63.
L’analisi dei principi aristotelica rimane sempre all’interno
dei limiti del linguaggio, ma parte sempre dal presupposto di un
suo radicamento in un ordine ontologico. Il linguaggio non crea
quest’ordine, ma lo dice dal suo interno, risalendo le condizioni
del suo stesso manifestarsi, come movimento collocato nel mo-
vimento stesso di tutti gli esseri sublunari; ma portando a parola
questo ordine contingente, lo sottrae al dominio del mutamen-
to, restituendo una forma compiuta a un essere costitutivamente
segnato dalla caducità e dalla realtà del divenire.
L’essere, la copula del linguaggio enunciativo, quindi, non
esprime una identità tra soggetto e predicati, ma racchiude una
tensione fondamentale che tiene aperto il linguaggio a questo
movimento aporetico mai superabile, che dischiude questo gio-
co di rimandi infiniti tra un concetto universale, mai in grado di
definire esaustivamente quell’uno verso il quale tende, e il sog-
getto che eccede continuamente la sua predicazione in direzione
di un riferimento al dato, che si viene a definire in Aristotele co-
63 Cfr. DÜRING , Aristotele, op. cit., pp. 688-89: «La categoria ousia è il “primo

essere”, del quale si asseriscono le altre categorie. Ciò significa che ousia da una parte
designa il “ciò che è una cosa”, dall’altra la cosa stessa. Nel primo significato, l’ousia dà
risposta alla questione “che cosa è?”, vale a dire “che cosa fa di un X un X, e quale è la
proprietà senza di cui X non può essere X? Nel secondo significato l’ousia è un “che”, e
cioè la cosa concretamente esistente». Cfr. anche Metafisica, VII, 1, 1028a 10-sgg; VII,
13, 1038b 1-6; IX, 1, 1045b 31 sgg., dove l’ousia viene pensata come individuo e come
definizione. Gli interpreti che privilegiano l’idea di sostanza come individuo fanno rife-
rimento per lo più a Categorie, 5, 3b 10-18, trad. it. di G. COLLI, Laterza, Bari-Roma
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L’ambiguità dell’ontologia aristotelica 69

me un continuo esorbitare dell’ordine ontologico rispetto a


quello linguistico-gnoseologico. La primarietà che Aristotele as-
segna alla ousia come identificazione singolarizzante, che è rife-
rimento unitario mai definibile esaustivamente, diventa priorita-
ria nella assegnazione di un qualcosa a qualcos’altro64.
La dinamica semantica, che costituisce la produzione degli
enunciati, non è un meccanismo tutto interno al linguaggio, in
cui entrano in relazione due o più concetti diversi, ma mostra
una asimmetria dove è il riferimento all’extralinguistico che ac-
quista una primarietà, anche se questa dominanza può essere
pensata solo all’interno dei limiti del linguaggio stesso, e la pa-
rola stessa la dice attraverso un’operazione universalizzante.
1988: «Pare d’altronde che ogni sostanza debba esprimere un oggetto immediato (tode
ti). Da un lato, nel caso della sostanze prime, è incontestabilmente vero che la sostanza
esprime un oggetto immediato (la sostanza che rivela è infatti indivisibile e numerica-
mente una); d’altro lato però, riguardo alle sostanze seconde, nonostante che la forma
della denominazione – se qualcuno, ad esempio, parla di ‘uomo’ o di ‘animale’ – dia
l’impressione che venga significato un oggetto immediato, ciò non è tuttavia vero, ed un
termine cosiffatto significherà piuttosto una qualità. In effetti, il sostrato non è allora
uno, come è una la sostanza prima; al contrario, la nozione di ‘uomo’ e quella di ‘anima-
le’ si dicono di molti oggetti». Il traduttore, nella nota a questo passo, mette in evidenza
che compare qui per la prima volta il termine tecnico tode ti, di grande importanza per
la filosofia aristotelica: «Quale sia il significato di tode ti è sino a un certo punto cosa no-
ta; tuttavia, riguardo alla precisazione di tale significato si notano diverse sfumature, ne-
gli interpreti e nei traduttori. Con tode ti Aristotele vuole indicare “l’oggetto” in con-
trapposizione a tutte quante le categorie (anche se, tra queste, la sostanza prima lo rivela
compiutamente). Il tode ti è estraneo alla sfera della predicazione e la denominazione to-
de ti non deve essere tradotta in riferimento a tale sfera. Né si può dire che tode ti indi-
chi “ciò cui si riportano in modo irreversibile tutte le categorie”: la cosa è vera piuttosto
per la sostanza rispetto alle altre categorie. La sostanza non si predica di nulla, e neppu-
re “si predica” di tode ti, bensì “esprime” tode ti: quest’ultimo, dal canto suo, né si pre-
dica di qualcosa, né riceve alcuna predicazione» (ivi, p. 12). Cfr. anche Categorie, 2, 1b
5-10: «[…] D’altro canto, gli oggetti indivisibili e tutto ciò che è numericamente uno, in
termini assoluti, non si dicono di alcun sostrato».
64 Cfr. anche W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit., p. 223. L’autore so-

stiene che Aristotele definisce la sostanza attraverso una funzione formale vuota, che
viene di volta in volta riempita di significati concreti, e questa concretizzazione può es-
sere realizzata solo in senso deittico, mediante l’intenzione dell’indicare e non in senso
concettuale-contenutistico. Infatti, per Aristotele la sostanza non può mai essere predi-
cato di qualcosa d’altro. Questo è uno dei passi in cui Aristotele sembra toccare i limiti
del linguaggio. Ma, a dire il vero, si tratta di una possibilità già disposta dal linguaggio
stesso: che i nomi propri non possano essere predicati di un enunciato è una circostanza
linguistica.
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70 Vedere il simile

Questa polarità costitutiva del linguaggio non può essere risolta


attraverso un rapporto di derivazione, perché – come abbiamo
visto – l’essere per Aristotele si dà attraverso il dialogo che gli
uomini istituiscono a proposito di esso, e quindi attraverso il ca-
rattere dialettico dei suoi significati. Non si può parlare del sin-
golare o dell’individuale se non attraverso l’universale, e vice-
versa. Soggetto e predicato sono in una relazione originaria in
cui si definiscono reciprocamente, ma nello stesso tempo espri-
mono dominanze diverse della loro componente semantica: il
soggetto esprime primariamente la componente referenziale e
ontologica del linguaggio, il predicato la componente concet-
tuale e univeralizzante65. La copula esprime la relazione, e non
l’identità, il codeterminarsi di queste due componenti del lin-
guaggio che, definendosi reciprocamente, esprimono contrasti-
vamente due valori diversi dei termini che entrano nella propo-
sizione. La componente universalizzante esprime non tanto una
universalità logica ottenuta per astrazione dei tratti che le singo-
le cose hanno in comune, ma è un’universalità che ha carattere
dialettico, intersoggettivo, doxastico.
Abbiamo visto come il tentativo di fondare il dialogo uma-
no (la possibilità che si dia comunicazione) su una verità pro-
dotta da condizioni epistemiche è un movimento che riporta il
pensiero aristotelico a una riconsiderazione del metodo dialetti-
co. Se mostriamo ciò nella valutazione del rapporto soggetto-
predicato – come si è detto – la copula non esprime più un rap-
porto di identità perfetta tra il soggetto e i suoi predicati defini-
tori, che mostrerebbe a sua volta una perfetta sovrapposizione
tra l’essere dell’ente e la sua conoscenza. Piuttosto, questo rap-
porto si traduce in una tensione tra un essere, espresso nel sog-
65 Cfr. PAUL RICOEUR, La metafora viva, op cit., p. 393, facendo riferimento a un

saggio di J EAN LADRIÈRE, Discorso teologico e simbolo, sostiene che il dinamismo del si-
gnificato risulta essere duplice e incrociato e, nel suo interno, ad ogni progresso nella di-
rezione del concetto corrisponde una esplorazione sempre più profonda del campo refe-
renziale. In questo senso – a mio parere – è utile insistere sul fatto che per Aristotele è
una ‘realtà’ o un fenomeno o un ‘dato’ che preme o chiede di essere detto attraverso il
dialogo umano, non è l’ordine linguistico-dialettico che mette in forma un’esperienza
prelinguistica informe e produce attraverso un sistema di relazioni linguistiche la sensa-
tezza del mondo.
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L’ambiguità dell’ontologia aristotelica 71

getto (che non si dà mai come oggetto totale e trasparente, ma


segnato da una scissione radicale che ci restituisce sempre dei
significati parziali che si dischiudono a partire da esso), e il dia-
logo infinito che l’uomo attua su di esso. Per questa ragione il
problema della sostanza prima e seconda è un movimento apo-
retico non risolvibile, perché in esso si esprime il paradosso co-
stitutivo del rapporto tra linguaggio ed essere.
Ma questa tensione aporetica diventa teoricamente pro-
duttiva se la inseriamo in una prospettiva ermeneutica più com-
plessa, in cui viene problematizzata in relazione alla teoria ari-
stotelica dell’anima, e in particolare considerando questa nuova
‘facoltà’, la phantasia, media tra sensazione e intelletto.
Questa nuova ‘facoltà’66 può essere considerata come una
sorta di crocevia che apre possibili percorsi di analisi in grado di
dar conto produttivamente delle aporie di fondo che caratteriz-
zano la Metafisica. Non si tratta di riproporre un nuovo approc-
cio sistematico all’ontologia aristotelica, ma piuttosto di traccia-
re un percorso ermeneutico in cui le aporie si ripropongono a li-
vello più profondo, riuscendo a diventare elemento esplicativo
fondamentale per pensare il rapporto tra essere, pensiero e lin-
guaggio, e quindi non presentarsi nella forma di una impasse di
fronte alla quale la comprensione si ferma.
Dalla trattazione che Aristotele sviluppa di questa nuova
facoltà emerge chiaramente che il legame tra linguaggio ed esse-
re in Aristotele non può essere pensato come un rapporto di im-
manenza e di identità. Il linguaggio non è per il filosofo uno
strumento che mette in forma una materia indeterminata, pro-
ducendo l’ordine che regola l’esperienza dell’uomo, e non è
neppure un mero nome attraverso il quale si esprime una realtà
che gli preesiste. La forma linguistica non fa che ridescrivere,
dare stabilità e sottrarre alla contingenza, portare a compimento
un ordine in cui l’anima è inserita e che è tutt’uno con l’anima
stessa.
66 La trattazione della phantasia sarà sviluppata in un capitolo di questo lavoro

che seguirà una parte dedicata al concetto di mimesis in Aristotele. Mi riservo di trattar-
la più avanti perché la natura di questa nuova facoltà si comprende a pieno, a mio pare-
re, mettendola in relazione con la riflessione poetica dello Stagirita.
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72 Vedere il simile

[…] l’anima è in certo modo tutti gli esseri. […] la facoltà sensi-
tiva e quella intellettiva dell’anima sono in potenza questi oggetti, la
prima il sensibile e la seconda l’intelligibile. Tali facoltà devono essere
identiche o alle cose stesse o alle loro forme. Ora non sono identiche
alle cose stesse, poiché non è la pietra che si trova nell’anima, ma la
sua forma. Di conseguenza l’anima è come la mano, giacché la mano è
lo strumento degli strumenti, e l’intelletto è la forma delle forme e il
senso la forma dei sensibili. Poiché non c’è nessuna cosa, come sem-
bra, che esista separata dalle grandezze sensibili, gli intelligibili si tro-
vano nelle forme sensibili, sia quelli di cui si parla per astrazione sia le
proprietà ed affezioni degli oggetti sensibili. Per questo motivo, se non
si percepisse nulla non si apprenderebbe né si comprenderebbe nulla,
e quando si pensa, necessariamente al tempo stesso si pensa un’imma-
gine. Infatti le immagini sono come le sensazioni, tranne che sono pri-
ve di materia. Ma l’immaginazione è diversa dall’affermazione e dalla
negazione, poiché il vero o il falso consiste in una connessione di no-
zioni. Ma le prime nozioni in che cosa si distingueranno dalle immagi-
ni? Certo neppure le altre sono immagini, ma non si hanno senza im-
magini67.
Questo passo, esemplare del programma teoretico del De
Anima, racchiude alcuni nuclei problematici fondamentali – che
verranno sviluppati più avanti – per comprendere il rapporto
che si istituisce tra linguaggio, pensiero ed essere.
Il primo passo che Aristotele fa è quello di definire l’anima
come ciò che si costituisce in un legame originario con i propri
oggetti68. Questo legame si esprime nel suo essere radicata nella
67 De Anima, Γ8, 431 b 20-432 a 1-15.
68 Cfr. W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit., p. 55, commenta questo pas-
so affermando che il soggettivismo moderno ha creato la distinzione tra mondo esterno
e interiorità, attribuendo ad Aristotele un realismo ingenuo che è l’altra faccia del sog-
gettivismo, e il pendant attraverso il quale con la cristianità si apre la strada all’interio-
rità. Gli elementi di una distinzione rimangono sempre dipendenti l’uno dall’altro: quel-
lo di ‘mondo esterno’ è un concetto che poteva nascere soltanto sotto la premessa del
soggettivismo. Il mondo della natura costituisce l’ambito del ‘mondo esterno’ fintanto-
ché non è scoperto l’ambito della soggettività. Per Aristotele percepire e pensare hanno
senso in quanto si parla contemporaneamente del contenuto di questo percepire e pen-
sare. La percezione è sempre percezione di qualche cosa e il pensiero è sempre pensiero
di qualche cosa. Dunque non si tratta di mediare tra un soggetto e un oggetto, ma questi
sono già reciprocamente correlati in un originario rapporto di corrispondenza. Il con-
cetto di anima, da cui muove Aristotele, è caratterizzato dal fatto che l’anima è già sem-
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L’ambiguità dell’ontologia aristotelica 73

sfera del sensibile, le cui forme sono condizione necessaria di


ogni forma intelligibile. Ma se le forme della sensibilità si defini-
scono nel De Anima come primariamente passive, cioè come
una modificazione della nostra capacità recettiva, è anche vero,
come abbiamo visto in precedenza, che le immagini si presenta-
no come una prima configurazione o attività compositiva del
molteplice intuitivo. ‘Attività’, quindi, che si struttura a partire
da una primaria dipendenza dell’immaginazione dalla compo-
nente passiva e recettiva dell’aisthesis. È a partire da queste pri-
marie forme dell’aisthesis che il pensiero e il linguaggio operano
le loro determinazioni e le loro generalizzazioni. Si tratta di pen-
sare quindi non più nei termini di un’alternativa tra un realismo
linguistico grossolano, da una parte, per cui il linguaggio dareb-
be solo espressione a oggetti preesistenti in sé, e un idealismo
linguistico, dall’altra, che ricondurrebbe il pensiero aristotelico
a una sorta di logocentrismo, per cui l’essere verrebbe ridotto a
una produzione linguistica e la parola assurgerebbe a forma di
una esperienza sensibile informe.
In questo passo del De Anima – come nei passi messi in
evidenza precedentemente – il livello di sintesi linguistico-con-
cettuale sembra legato intrinsecamente a un ‘contenuto’ prelin-
guistico, infatti Aristotele afferma che «l’immaginazione è diver-
sa dall’affermazione e dalla negazione, poiché il vero o il falso
consiste in una connessione di nozioni».
Ciò che si ricava primariamente è il delinearsi di due livelli
di intenzionalità correlati, ma non identificabili69. A questo pro-
posito, è importante ricordare che le facoltà dell’anima hanno
per Aristotele il carattere di funzioni e non sono separate. In B4
Aristotele dichiara espressamente la primarietà dell’atto, e quin-
di la priorità degli oggetti e delle funzioni rispetto alle facoltà, e

pre i suoi propri oggetti. L’alternativa tra soggetto e oggetto è inapplicabile. Questo lo si
può vedere anche nella terminologia che Aristotele usa: nessuno dei concetti fondamen-
tali di Aristotele può essere ordinato univocamente in una delle due sfere (ivi, p. 55)
69 In questo senso è persuasiva la interpretazione sopra citata del carattere non

proposizionale del contenuto intenzionale della phantasia. Le interpretazioni che tendo-


no ad assimilare le rappresentazioni dell’immaginazione alla sintesi proposizionale sono
caratteristiche di un atteggiamento pansemiotico.
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74 Vedere il simile

in questo modo respinge l’idea platonica di una localizzazione


delle varie facoltà in diverse parti corporee. L’anima non ha esi-
stenza trascendente, non esiste un’anima in sé per sé, ma essa si
definisce attraverso le sue funzioni, che vengono distinte dal
punto di vista gnoseologico, ma che non hanno un’esistenza se-
parata. Ora, ciò che interessa in questa prima fase argomentati-
va è il fatto che la phantasia, con i suoi prodotti, i phantasmata,
venga fondata, da una parte, come una facoltà autonoma, con i
suoi propri oggetti, e, dall’altra, come una facoltà del tutto par-
ticolare, implicata in tutta una serie di fenomeni che la configu-
rano come dipendente strettamente dalla sfera dell’aisthesis, per
cui viene assumendo il ruolo di un’attività subordinata alla ri-
cettività della sensazione; ma nella sua orbita entrano anche de-
gli aspetti riguardanti l’attività razionale, come nel caso della
phantasia bouleutike.
Inoltre c’è la facoltà immaginativa, che da un lato è essenzial-
mente diversa da tutte, e dall’altro è molto difficile dire a quale di que-
ste parti sia identica e da quale sia diversa, se si ammettono parti sepa-
rate dell’anima […] (De Anima, Γ9, 432a 30-432b 2).
[…] Ora mentre risulta che l’intelletto non muove senza la ten-
denza […], la tendenza muove invece anche contro la ragione, giacché
il desiderio è una forma di tendenza (De Anima, Γ10, 433a 23-26).
[…] In generale dunque, come si è detto, è in quanto ha la fa-
coltà di tendere che l’animale è capace di muovere se stesso, e non
possiede questa facoltà senza l’immaginazione. Ogni immaginazione
poi è razionale o sensitiva, e di quest’ultima sono forniti anche gli altri
animali (De Anima, Γ10, 433b 28-30).
In questi passi, Aristotele sostiene che la causa del movi-
mento nell’animale è la facoltà desiderante e non l’intelletto pra-
tico. Molti interpreti hanno considerato la fine del capitolo Γ10,
dove Aristotele introduce l’immaginazione come componente
essenziale del movimento dell’animale, distinguendo phantasia
aisthetike e bouleutike, come una riaffermazione del ruolo pri-
mario dell’intelletto pratico nella spiegazione dell’agire
umano70, in quanto la phantasia bouleutike non sarebbe altro
70 Anche questo aspetto verrà ripreso nell’ultimo capitolo di questo lavoro.
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L’ambiguità dell’ontologia aristotelica 75

che una un pensiero che calcola e ragiona in vista di un fine.


L’intelletto deliberante è qui pensato come una facoltà che ha
bisogno di immagini per svolgere la sua attività di trovare i mez-
zi per raggiungere i propri fini. Tuttavia, questa identificazione
di intelletto pratico e phantasia bouleutike non risulta del tutto
persuasiva, perché appare riduttiva rispetto alla complessità del-
la filosofia dell’azione aristotelica, ricondotta, attraverso questa
sovrapposizione, a un intellettualismo forte, che definisce ines-
senziale il ruolo delle passioni nella produzione del movimento
umano71.
La phantasia bouleutike, di cui sono dotati solo gli animali
razionali, è pensata da Aristotele come la facoltà di produrre
immagini, una capacità di anticipare attraverso rappresentazioni
il fine dell’azione, l’oggetto, l’orekton, verso il quale tende il mo-
vimento animale. Diventa chiaro, allora, come il linguaggio, la
tradizione trasmessa attraverso esso, la credenza, i topoi entrino
costitutivamente a creare queste rappresentazioni. Va sottolinea-
to, tuttavia, che si tratta sempre di un’interdipendenza e di un
legame tra livelli diversi di attività (phantasia aisthetike e phanta-
sia bouleutike), che entrano in relazione stretta tra loro influen-
zandosi reciprocamente, senza mai risolversi l’uno nell’altro. Il
percorso contorto e difficoltoso, disseminato di contraddizioni,
che il filosofo compie per definire la phantasia, testimonia una
complessità che appartiene alla natura stessa di questa dynamis,
che si presenta, più che una facoltà vera e propria con proprie
regole, come un movimento72. Movimento che si definisce in
stretta dipendenza dalla percezione, alla quale è legata intrinse-
camente nelle sue forme rappresentative, ma che intrattiene,
contemporaneamente, rapporti con le forme discorsive, che en-
trano a determinare questa stessa dinamica, senza mai tuttavia
ridurla o inglobarla nella propria orbita73.

71 Cfr. M. CANTO -SPERBER, Mouvement des animaux et motivation humaine

dans le livre III du De anima d’Aristote, in «Les études philosophiques», numero specia-
le su Aristote sur l’imagination, 1997, gennaio-marzo, pp. 59-96.
72 Cfr. D. F REDE , The Cognitive Role of Phantasia in Aristotle, in Essays on Ari-

stotle’s De Anima, op. cit., pp. 279-98.


73 Se le strutture della percezione fossero linguistiche non si comprenderebbe
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76 Vedere il simile

A questo punto dell’argomentazione, è importante eviden-


ziare – anche se in modo ancora approssimativo – che una lettu-
ra del De Anima rende possibile fondare, dal punto di vista epi-
stemologico, quel legame tra essere e linguaggio che si definisce
in Aristotele come un codeterminarsi di istanze pragmatiche e
teoretiche; interrelazione che si può individuare nei modi in cui
l’esperienza sensibile entra, con il suo grado di formazione, a
determinare il livello concettuale-dialettico-linguistico, produ-
cendo una dinamica conoscitiva in cui i due ambiti non sono as-
similabili e non riducibile, quindi, alla sussunzione del partico-
lare all’universale.
Il fatto che risulta particolarmente rilevante per lo svilup-
po di questo percorso teorico è che il linguaggio metaforico si
presenta come il modello esemplare di questa dinamica conosci-
tiva. Ma per cogliere quale ontologia si profila, in connessione
essenziale con gli aspetti epistemologici, a partire dal linguaggio
metaforico, occorre collocare questo problema all’interno della
trattazione più generale del concetto di mimesis.
Nella Poetica il concetto di lexis metaforica si definisce in
rapporto al poema tragico considerato nella sua totalità, e quin-
di si comprende pienamente a partire dalle nozioni fondamenta-
li di poiesis, di mimesis e di mythos. La lexis è definita da Aristo-
tele come una forma di mimesis, come «composizione dei ver-
si», ed è uno degli elementi attraverso i quali si creano gli sche-
mi di congruenza della tragedia, una delle condizioni che rendo-
no la descrizione poietica del reale. Ma se la metafora risulta es-
sere uno degli elementi, tra i sei, che costituiscono il processo
mimetico che sta a fondamento della tragedia, contemporanea-
mente, sembra profilarsi come il modello di questo stesso pro-
cesso, la sua espressione esemplare.
come mai Aristotele distingue nettamente doxa e phantasia. In De Anima, Γ3, 428a 24-
b9, Aristotele critica la dottrina platonica della phantasia come mescolanza di opinione e
sensazione. Preoccupato di salvaguardare l’autonomia dell’immaginazione, Aristotele
porta l’esempio della grandezza del sole, rispetto all’apprensione della quale immagina-
zione e opinione sono in disaccordo: «Ad esempio il sole appare della grandezza di un
piede, ma si è convinti che sia più grande della terra abitata» (ivi, Γ3, 428b 4-5). Per
Aristotele noi continuiamo ad avere la stessa percezione del sole, nonostante la pistis ci
induca a ridefinirla.
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L’ambiguità dell’ontologia aristotelica 77

La mimesis diventa, in questo percorso interpretativo,


l’ambito in cui il sapere dialettico, il cui metodo – come si è vi-
sto – fonda l’ontologia aristotelica, trova il suo compimento,
unendosi inscindibilmente a un sapere teoretico74; e dove que-
st’ultimo si ridefinisce in termini del tutto peculiari rispetto alla
conoscenza epistemica, così come si delinea negli Analitici. Il
luogo in cui quell’aporia radicale, che caratterizza la natura del
linguaggio, diventa una aporia produttiva di nuove forme di in-
telligibilità della realtà del mondo sublunare.
[...] Aristotele ha detto «l’arte imita la natura» ma ha anche det-
to «compie ciò che essa non ha potuto condurre al bene» [Fisica II, 8,
199 a 15-17]. […] Imitare la natura non significa raddoppiarla inutil-
mente, ma supplire le sue defaillance [Protrettico, 11 w], il compiersi
verso se stessa, non umanizzarla, ma semplicemente naturalizzarla.
Imitare la natura è rendere la natura più naturale, vale a dire sforzarsi
di colmare la scissione che la separa da se stessa, dalla sua propria es-
senza o idea. In termini più chiari, è utilizzare la contingenza contro sé
stessa per regolarizzarla [Et. Nich., VI, 4] per fare in modo che la na-
tura del mondo sublunare imiti, malgrado la contingenza, l’ordine che
regna nel Cielo75.
Revocato il progetto di un’ontologia il cui compito avreb-
be dovuto essere quello di ancorare il linguaggio a dei significati
definiti univocamente e dati una volta per tutte, la ricerca meta-
fisica aristotelica riscopre a livello più originario il metodo dia-
lettico. Ma questo metodo universale, rimane per il filosofo un
sapere negativo, periastico e critico. La dialettica ritrovata non
può che condurre a una sua riconsiderazione all’interno di un
sapere in cui il dialogo umano venga riconsegnato alla sua capa-
cità di restituire un ordine ontologico, grazie al suo radicarsi
nella dimensione della sensibilità. Questa ‘immediatezza ritrova-
ta’ attraverso le mediazioni infinite, che mettono l’«uomo esper-
to» in dialogo continuo con la tradizione, si delinea attraverso
74 Aristotele nella Poetica, 22, 1459a 8, definisce la metafora come «to homoion

theorein», saper vedere il simile. Questa forma di theorein, risulta lontana dall’ideale co-
noscitivo disinteressato e contemplativo. Anche questi aspetti saranno sviluppati ampia-
mente nei capitoli successivi.
75 PIERRE AUBENQUE , Le problème de l’être chez Aristote, op cit., pp. 498-499.
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78 Vedere il simile

l’attività mimetica, che riesce a dare forma a quella tensione ver-


so la totalità e compiutezza da sempre pensata dal filosofo come
ideale conoscitivo. Ma la forma che si definisce attraverso l’atti-
vità mimetica non ha più, ovviamente, il carattere di una entele-
chia, o di un telos pensato nei termini sostanziali di un fine che
supera o annulla il processo del divenire. Si tratta qui di una
forma che si costituisce in quella scissione o tensione fondamen-
tale che segna il mondo sensibile, una forma che si dischiude nel
processo del movimento, che allontana le essenze da se stesse
per ricomporle di volta in volta in una produzione compiuta,
che dà forma a una esigenza di totalità mai saturabile, che si fis-
sa nella sproporzione tra finito e infinito, tra movimento e stasi,
tra compiutezza e privazione. La mimesis è un’immagine dell’es-
sere che restituisce la dinamica del suo accadere nel movimento
e nel tempo, portando a compimento la legge che la physis ha ad
essa impresso attraverso il radicarsi dell’anima dell’artefice nella
sfera della aisthesis. La poiesis così come, più in generale, la te-
chne non sono per Aristotele delle forme di attività che proietta-
no sulla natura una teleologia prodotta da un ragionamento ve-
ro che ha la sua origine nel fare dell’uomo, ma un’attività umana
che si costituisce a partire da una primarietà della legalità della
physis, che imprime il suo movimento alla attività mimetica.

[…] ciò che è generato per natura è generato in ragione di qual-


cosa ed è costituito sempre in vista di qualcosa che è meglio di ciò in
vista del quale sono generate le cose per l’arte: non è infatti la natura a
imitare l’arte, ma è l’arte che imita la natura ed esiste per aiutarla e per
colmare le deficienze. E mentre per alcune cose sembra che la natura
stessa sia capace di portarle a compimento per se stessa e non abbia
bisogno di alcun aiuto, per altre invece riesce a farlo a stento oppure è
del tutto incapace, come per esempio per quanto riguarda la nascita:
alcuni semi, certamente, qualunque sia la terra in cui cadono, fiorisco-
no senza che sia necessaria alcuna cura, altri invece hanno bisogno
dell’arte dell’agricoltura […]
Se dunque l’arte imita la natura, è dalla natura che tutte le arti
derivano la caratteristica che tutti i loro prodotti sono generati in ra-
gione di uno scopo. Per cui potremmo porre che tutto ciò che produ-
ce qualcosa di bello, è generato rettamente, e tutto ciò che si genera o
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L’ambiguità dell’ontologia aristotelica 79

si è generato produce, se il processo naturale si svolge normalmente,


qualcosa di bello76.
Questo passo del Protreptico racchiude una ricchezza pro-
blematica notevole, ma ciò che evidenzia primariamente è il
rapporto tra teleologia naturale e teleologia umana. Quest’ulti-
ma sembra definirsi in un rapporto di dipendenza dagli scopi
tracciati dalla physis, in base ai quali si costituisce anche la realtà
della bellezza. Tuttavia, è importante sottolineare come l’ordine
teleologico aristotelico non sia un ordine deterministico, e come
in quest’ordine la realtà della imitazione non sia solamente la
mera copia di un essere che si definisce stabilmente su un altro
piano ontologico.
La ricerca di un atto compiuto, dalla quale prende le mos-
se la metafisica aristotelica, abdica davanti al mondo della natu-
ra, il cui ordine imperfetto e mai totalizzabile trova un sostituto
o un compimento nella techne e nella attività mimetica, che di-
cono la totalità riaprendosi continuamente alla contingenza.
In questo senso, il linguaggio metaforico potrà essere pen-
sato come una forma del tutto precipua di attività imitativa, che
saprà esprimere, insieme, la forma di quella scissione e la ricom-
posizione temporale che caratterizzano l’essere secondo Aristo-
tele.

76 Protreptico, W 11. La traduzione qui riportata, con qualche modifica, è quel-

la di G. G IANNANTONI e R. LAURENTI, Laterza, Roma-Bari 1984.


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Capitolo Secondo
LA MIMÈSI POETICA ALL’INTERNO
DELLA DIVISIONE DEI SAPERI

Sommario
2.1. L’arte imita la natura – 2.2. Teleologia naturale e teleologia
artificiale – 2.3. La mimesis come sintesi temporale – 2.4. Le im-
plicazioni etico-pratiche della tragedia – 2.5. Il discorso
metaforico come un «vedere il simile» nel dissimile
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Nel VI libro dell’Etica Nicomachea Aristotele, dopo avere


definito le virtù dianoetiche collegandole alla parte razionale
dell’anima, procede con l’analisi di quest’ultima e delle sue arti-
colazioni: distingue una parte «scientifica», attraverso la quale si
conoscono le realtà e i principi necessari, cioè tali che non pos-
sono essere diversamente da quelli che sono, e un’altra «calcola-
trice», il cui compito è deliberare, che conosce il contingente,
cioè ciò che può essere diversamente da come è1. L’episteme, in
questo contesto, è pensata in base ai suoi oggetti, che sono le
realtà eterne e semplici, quali il Motore Immobile, gli astri, i fe-
nomeni costanti e quelle conoscenze prime e «intuitive» dalle
quali procede la scienza e il suo argomentare dimostrativo attra-
verso il procedimento sillogistico2.
Tuttavia, l’anima razionale non ha come oggetto esclusiva-
mente la conoscenza necessaria che caratterizza la scienza, essa
include il logos che guida l’azione e la produzione:
Ciò che può essere diversamente da quello che è, è oggetto tanto
della produzione che dell’azione. Ma produzione ed azione sono cose
differenti.
[…] Ogni arte concerne il far venire all’esistenza, e usare l’arte è
considerare com’è possibile far venire all’esistenza una di quelle cose
che possono sia essere che non essere ed il cui principio è in chi pro-
duce e non nella cosa prodotta. Infatti l’arte non ha per oggetto né le
cose che sono o divengono necessariamente, né quelle che sono o di-
vengono per natura: queste infatti hanno in sé stesse il principio.

1 Etica Nicomachea, VI, 2, 1139a 5-sgg., trad. it. di M. ZANATTA, Rizzoli, Mila-
no 1986. Il curatore fa notare come questo passo risenta della distinzione platonica tra
episteme e doxa.
2 Ivi, VI, 3, 1139b 20 sgg.
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84 Vedere il simile

Poiché dunque la produzione è altro dall’azione, segue necessa-


riamente che l’arte ha per oggetto la produzione e non l’azione.
Ed in certo senso la fortuna e l’arte vertono sugli stessi oggetti,
come dice anche Agatone «l’arte ama la fortuna e la fortuna l’arte».
[…] In conclusione l’arte, come s’è detto, è una disposizione ac-
compagnata da ragionamento vero che dirige il produrre, e la mancan-
za d’arte, il suo contrario, è una disposizione che dirige il produrre ac-
compagnato da ragionamento falso. Entrambe concernono ciò che
può essere diversamente da quello che è3.
In questo passo, Aristotele introduce un’ulteriore distinzione in-
terna a quel ragionamento vero riferito all’ambito del contingente:
quella tra produzione (poiesis) e azione (praxis). Il fine della produzio-
ne non è la produzione stessa, ma l’oggetto prodotto, mentre l’azione
è autotelica: l’azione morale è virtuosa in sé e trova il suo scopo nel
proprio attuarsi, «infatti la buona condotta è fine in senso assoluto ed
il desiderio ha questo fine per oggetto»4.
Che la techne sia quindi per Aristotele una disposizione ac-
compagnata da una forma di conoscenza tra le più elevate, in
quanto hexis meta logou alethous poietike, è un’acquisizione il
cui significato può essere compreso a fondo solo considerandola
da una duplice prospettiva: dal punto di vista delle sue implica-
zioni etico-pratiche e dal punto di vista teoretico.
Dal punto di vista etico-pratico, la techne è strettamente
connessa con il fine ultimo di ogni attività umana, che è sempre
teleologicamente guidata dalla ricerca della eudaimonia. La tech-
ne, vista in questa prospettiva, è orientata da principi che trova-
no il loro agente nell’uomo; principi che stanno a fondamento
dell’attività del produrre come capacità di trasformare la natura
in strumento adeguato alla realizzazione di ciò che è utile all’uo-
mo, concorrendo così alla sua felicità. L’idea che ogni attività
umana, sia essa attività speculativa o attività in senso vero e pro-
prio come praxis, abbia come fine la felicità è un motivo ricor-
rente della riflessione aristotelica. Nel caso della produzione, es-
sa acquista il valore di un eidos, propriamente pensato come
un’idea, che orienta il principio di produzione che sta nella

3 Ivi, VI, 4, 1140a.


4 Ivi, VI, 2, 1139b 1-3.
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 85

mente dell’artefice5.
Pensata in questa prospettiva, la techne si mostra nella sua
natura di attività fondata su principi che trovano la loro ragione
nella vita pratica, nelle sue implicazioni etiche e politiche. Tutta-
via, insieme a questo riconoscimento di un valore primario del-
l’uomo nella definizione della teleologia della produzione6, oc-
corre sottolineare che l’eudaimonia è un fine raggiungibile solo
attraverso il concorrere e l’interagire della eccellenza intellettua-
le (theoria) e della virtù etica (phronesis)7.
La techne, pensata nella sua relazione con la felicità, non è
un’attività che proietta sulla natura l’ordine finalistico della
prassi umana, ma piuttosto un momento in cui sapere teoretico
e saggezza si relazionano costitutivamente, definendo reciproca-
mente i principi a partire dai quali si fonda il loro sapere.
Una testimonianza del valore primariamente teoretico at-
tribuito alla techne la troviamo in Metafisica A, dove Aristotele
distingue l’arte dalle sue applicazioni pratiche, cioè dall’espe-
rienza, sostenendo che la seconda «è conoscenza delle cose indi-
5 Cfr. G. VATTIMO, Il concetto di fare in Aristotele, Pubblicazioni della Facoltà
di Lettere e Filosofia di Torino, Torino 1961, p. 56. L’autore sostiene che la felicità è
pensata da Aristotele nell’arte come una presenza trascendentale che sta a suo fonda-
mento, come esigenza di felicità. Forma-guida che, tuttavia, si configura di volta in volta
a partire dalla scoperta casuale di un piacere, dal suo prodursi contingentemente in
un’esperienza determinata, che nasce spontaneamente, a partire dalla quale l’uomo rie-
sce a costruire sistemi rigorosi, cogliere e fissare quella regola per riprodurla con regola-
rità ai fini della felicità dell’uomo. L’opera rimanda a qualcosa di altro da sé che è il fine
della felicità. È questo rimando che garantisce l’inserimento dell’opera nel mondo uma-
no, ne fa un fatto dell’uomo, un fatto etico.
6 Cfr. W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit., pp. 347-48. Riferendosi al
noto passo di Politica, I, 8, 1256b 15 sgg., dove Aristotele parla della finalizzazione del
mondo naturale sublunare all’uomo, l’autore sostiene che questa non deve essere intesa
come una teleologia universale. Qui non si tratta infatti di una filosofia della natura, ma
di una considerazione pratica del modo in cui l’uomo si dispone nel mondo e delle cose
del mondo fa uso. Il mondo naturale non è finalizzato in sé all’uomo, ma l’uomo può
porre tutte le cose al proprio servizio, può adoperarle, e non per questo le cose mostrano
una tendenza all’uomo. Non sono le cose che in sé hanno bisogno dell’uomo, ma l’uomo
che ha bisogno di esse.
7 Cfr. I. DÜRING , Aristotele, op. cit., p. 530, a proposito della natura complessa
delle affermazioni di Aristotele sulla felicità afferma: «La sua definizione di eudaimonia
è una sintesi di quelle proposte nell’Accademia: i tre pilastri su cui si fonda la felicità so-
no l’intelligenza filosofica, la virtù etica e la gioia».
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86 Vedere il simile

viduali, mentre la [prima] è conoscenza degli universali»8 e che


«gli empirici sanno che cos’è, ma non sanno perché, mentre chi
possiede l’arte sa perché e conosce le cause»:
I lavoratori manuali sono come certi esseri inanimati, i quali ope-
rano senza sapere ciò che fanno, come il fuoco che brucia, con la diffe-
renza che le cose inanimate fanno ciascuna di queste operazioni per
natura, mentre i lavoratori manuali agiscono per abitudine. Perciò co-
loro che posseggono l’arte saranno più sapienti non perché sanno fare
le cose, ma perché posseggono la ragione di ciò che fanno e ne cono-
scono le cause.
[…] È verisimile che dapprincipio chi trovò un’arte andando ol-
tre le sensazioni comuni fosse oggetto di ammirazione da parte degli
uomini, non soltanto per l’utilità di qualcuna delle invenzioni, ma co-
me un sapiente e un uomo che si distingueva dagli altri9.
La distinzione che Aristotele opera tra arte come forma di
sapienza e conoscenza dei principi, quindi come logou alethous
– secondo la definizione dell’etica – e le sue applicazioni prati-
che emerge in questo passo della Metafisica in maniera assai net-
ta, riassegnando un valore primario alla conoscenza speculativa
e disinteressata, al cui dominio l’arte, come conoscenza delle
cause, sembra appartenere.
Ma il metodo di pensiero aristotelico procede, come ab-
biamo già visto, per definizioni di concetti (in questo caso del-
l’arte), dei quali il filosofo tende a evidenziare alcuni aspetti a
partire dal contesto della riflessione in cui sono inseriti. E que-
sta riflessione sull’arte viene introdotta nel capitolo iniziale della
Metafisica, che ha come scopo quello di giustificare la ricerca di
una scienza prima, modello esemplare del sapere teoretico, fine
superiore verso cui tende ogni conoscenza umana.
In realtà, attraverso un’analisi che ripercorra e metta in re-
lazione alcuni momenti fondamentali della riflessione aristoteli-
ca sul concetto di techne, si può chiaramente scorgere un intrec-
cio indirimibile di principi etico-pratici e di aspetti ontologici,
che rende impercorribile porre la dicotomia tra arte e natura, o

8 Metafisica, I, 1, 981a 15 sgg.


9 Ivi, I, 1, 981b 14-16.
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 87

tra arte come prodotto esculsivamente umano e arte come mera


riproduzione di una realtà che può essere oggetto di pura con-
templazione, o applicazione meccanica di un progetto ideale.

2.1. L’arte imita la natura


La riflessione aristotelica fa spesso uso dell’analogia tra il
processo naturale e quello dell’arte, e il rapporto tra questi è te-
matizzato esplicitamente nella Fisica, dove Aristotele sostiene
che la techne imita la natura, oppure porta a compimento un’o-
pera che la natura non ha potuto compiere o ha dimenticato10.
Il rapporto di imitazione o di somiglianza che esiste tra i
due processi non deve indurre a pensare a una sovrapposizione
dell’ordine teleologico umano, definito a partire da un funzio-
nalimo pragmatico, all’ordine della natura. Per Aristotele la
conformità del processo allo scopo, e quindi l’ordine della suc-
cessione delle fasi del processo, il suo organizzarsi in vista di
uno scopo sono stabiliti a partire da una legalità della physis che
vive nella materia, di cui è fatto il prodotto dell’arte, e, insieme,
da quel rapporto di dipendenza che la forma del processo pro-
duttivo ha con la forma del processo naturale, dipendenza
espressa dal filosofo attraverso il concetto di mimesis11.
Attraverso la nozione di mimesis, tuttavia, Aristotele non
stabilisce solo una relazione generale di analogia tra processi
della natura e processi dell’arte, fondata su una considerazione
della struttura finalistica che li rende simili. Il rapporto imitati-
vo, oltre che riguardare la struttura intelligibile, in base alla qua-
le i processi naturali e il fare umano si fondano sulla stessa strut-
tura aitiologica organizzata a partire da una primarietà della
10 Fisica, II, 8, 199a 15, trad. it. di A. Russo, Laterza, Roma-Bari 1995: «Insom-

ma, alcune cose che la natura è incapace di effettuare, l’arte le compie; altre, invece, le
imita».
11 Cfr. G. VATTIMO , Il concetto di fare in Aristotele, op. cit., p. 135. L’autore so-

stiene che il rapporto di imitazione sussistente tra natura e arte è da spiegarsi in termini
di una somiglianza strutturale dei due processi, organizzati entrambi finalisticamente. Il
rapporto di somiglianza in questo caso non è un rapporto di dipendenza di una specie
del processo produttivo da una specie del processo naturale, ma una somiglianza gene-
rale che definisce delle caratteristiche strutturali simili.
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88 Vedere il simile

causa finale, implica un rapporto di somiglianza che ha natura


sensibile, percettiva12. I processi produttivi, proprio in quanto
processi che hanno natura contingente (la materia, fonte della
contingenza, li costituisce in maniera essenziale), formano og-
getti imitando i modi di organizzazione dinamica dei fenomeni
del mondo sublunare. Ma la realtà del movimento non può es-
sere imitata attraverso una forma intuita noeticamente che la su-
peri, la quale riprodurrebbe attraverso uno sguardo contempla-
tivo una qualche struttura sovrasensibile e immutabile della
realtà, ma è una forma in cui la centralità del momento sensibile
(aisthesis) restituisce al processo produttivo il suo legame con la
legalità della physis. Le cui forme in divenire possono essere
imitate solo attraverso un processo dinamico, che, come la natu-
ra, tiene insieme l’ordine razionale e il suo darsi di volta in volta
nella infinita molteplicità individuale, la tensione verso un fine,
che ordina i momenti del processo, e il determinarsi di questo
fine in una molteplicità di relazioni che definiscono il processo
in maniera per nulla unidirezionale e quindi non deterministica.
L’arte per Aristotele è procedimento accompagnato da ra-
gionamento vero non perché procede deduttivamente e finalisti-
camente a partire dall’eidos dell’artefice; ma piuttosto è capacità
di cogliere i principi dinamici del mondo naturale e porli al ser-
vizio della felicità umana.
La techne ha come fine la eudaimonia, e questa si realizza
attraverso la compresenza e l’interdipendenza di conoscenza
teoretica e saggezza, perché per Aristotele la massima espressio-
ne della coscienza morale è, per certi aspetti, rappresentata dalla
capacità di guardare la natura stessa in modo ‘disinteressato’ e
‘contemplativo’. Ma la conoscenza speculativa e teoretica – co-
me evidenziato precedentemente – si definisce nella ricerca ari-
stotelica in maniera assai più complessa rispetto al modello co-
noscitivo epistemico esposto nei Secondi Analitici. Definire i li-
miti di validità del metodo scientifico presentato in quell’opera
non significa, per contrasto, passare a identificare conoscenza

12 Cfr. E. S. B ELFIORE , Tragic Pleasures. Aristotle on Plot and Emotion, 1992,

trad. it. di D. G UASTINI, Il piacere del tragico, Jouvence, Roma 2003, p. 83.
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 89

teoretica e pratica, o pensare una loro perfetta sovrapposizione,


ma piuttosto considerare questi due ambiti del sapere come in-
trinsecamente correlati e interdipendenti. Quindi, se lo scopo fi-
nale della techne è la felicità, questa stessa felicità per Aristotele
è raggiungibile solo attraverso una conoscenza dell’ordine del
reale, in cui l’uomo è inserito, all’interno del quale l’uomo può
svolgere le attività pratiche e poietiche, finalizzate al bene e alla
felicità. Ma quest’ordine è segnato dalla realtà del movimento,
del divenire, che produce una scissione fondamentale nell’essere
delle cose: l’universo aristotelico non è definito da un assetto
metafisico dato una volta per tutte, che l’uomo può contempla-
re attraverso uno sguardo disinteressato, ma un orizzonte segna-
to dalla contingenza, nella cui definizione si inserisce costituti-
vamente l’ordine della legge umana e della sua prassi.
Nell’ambito della produzione umana, la conoscenza teore-
tica, condizione necessaria della felicità e pensata in alcune ar-
gomentazioni delle Etiche come il fine ultimo dell’agire, non
può essere più considerata come fine in sé, ma come momento
che si definisce in interdipendenza con delle leggi che determi-
nano le implicazioni etico-pratiche della poiesis. La techne, in
questa duplice prospettiva, nasce da un ragionamento vero in
quanto imita una legge di natura che l’anima riceve attraverso
un’adesione sensibile ai fenomeni in divenire (conoscenza che
per Aristotele non può identificarsi con la saggezza o con la co-
noscenza pratica), ma trova, al tempo stesso, il suo compimento
grazie all’intervento dell’uomo, che realizza la sua felicità sco-
prendo e inserendosi nell’ordine del mondo, cercando di ripro-
durre in esso il simulacro di quella perfezione che non è mai da-
to raggiungere. L’arte per Aristotele è una prosecuzione del
mondo naturale, e non certo una premessa attraverso la quale
costruiamo le nostre assunzioni su di esso13: è primariamente

13 Cfr. PAOLO ROSSI , I filosofi e le macchine, Feltrinelli, Milano 1971, p. 139.:

«L’affermazione di una sostanziale non-diversità tra i prodotti dell’arte e quelli della na-
tura, presente in alcuni degli esponenti della nuova scienza, si contrappone radicalmen-
te, come è noto, alla definizione aristotelica dell’arte che porta a compimento l’opera
della natura e la imita nelle sue produzioni […] Nell’aristotelismo e nella medicina ip-
pocratica la natura si presenta come un ideale che è compito dell’arte realizzare o rista-
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90 Vedere il simile

adesione sensibile alle sue leggi e al suo ordine contingente, e


non costruzione umana che struttura il mondo naturale.
Il processo produttivo porta all’evidenza un tipo di verità
in cui persiste una forma di teoresi definita, in qualche modo,
nei suoi tratti di conoscenza ‘disinteressata’ (come è emerso dal
passo di Metafisica I), ma si tratta di una forma di appartenenza
del pensiero umano all’ordine della natura, la cui scoperta è
condizione necessaria di qualsiasi ricerca di felicità. Condizione
necessaria che implica tuttavia costitutivamente dei risvolti eti-
co-pratici. In tale processo, la ricerca di ciò che è utile all’uomo
non può non fondarsi sulla conoscenza della ratio che guida il
mondo sublunare, segnato dalla realtà del movimento, della ge-
nerazione e corruzione. Conoscenza che Aristotele non pensa
mai come autoprodotta dalla ragione umana, ma piuttosto come
preliminare a ogni possibilità di fondare la legge umana in
conformità col suo fine ultimo che è l’eudaimonia. La ricerca
della felicità, del bene, e della libertà è per il filosofo una ricerca
che può avere buon esito a condizione che l’uomo rimanga radi-
cato nella propria dimensione sensibile, e non certo attraverso
una scissione che emancipa l’anima da una dipendenza dalla
sfera dell’aisthesis.
Si può affermare, che l’arte pone in essere una dissociazio-
ne dei fini: sembra orientata come fine ultimo al mondo della
praxis, ma, a sua volta, il mondo della praxis sembra avere come
ideale ultimo la conoscenza teoretica. Nella produzione sembra
crearsi un cortocircuito tra theoria e praxis, dove il telos si defi-
nisce in maniera perspicua come un principio relazionale 14. Le
implicazioni pratiche, l’utilità dell’oggetto prodotto dall’artigia-
no, il fine educativo della tragedia possono essere tali se il pro-
cesso produttivo ha valore ontologico, cioè riesce a scoprire i
principi e le cause che stanno a fondamento del mondo del di-
venire. La teleologia del processo produttivo può essere definita
da un’interscambiabilità di fini e di mezzi, poiché in essa cono-
bilire come una norma della quale l’arte, per raggiungere i suoi scopi, deve seguire i pre-
cetti e le indicazioni.»
14 L’idea che i principi aristotelici siano «principi relazionali» è un motivo che

fonda la riflessione di W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit., pp. 67-68.


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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 91

scenza teoretica e saggezza pratica si intrecciano in una relazio-


ne complessa, che, nella determinazione dello scopo dell’attività
produttiva, entrano di volta in volta con dominanze diverse.
Per Aristotele la mimesis rappresenta una forma di cono-
scenza e definisce un tipo di verità fondamentali. In essa cono-
scenza teoretica e saggezza (phronesis) determinano reciproca-
mente una forma di verità che riesce a tenere insieme, in modo
esemplare, la contingenza, la finitezza e la molteplicità delle for-
me di esperienza con la ricerca di un ordine intelligibile; ricerca
che rimane per Aristotele un’aspirazione fondamentale del pen-
siero.
Ma per capire più a fondo il tipo di relazione che la techne
istituisce con la natura, occorre analizzare il rapporto di analo-
gia che Aristotele individua tra teleologia dell’arte e teleologia
naturale.

2.2. Teleologia naturale e teleologia artificiale


Ripartiamo dal noto passo della Fisica in cui Aristotele
mette in evidenza la somiglianza tra processi naturali e processi
artificiali:
Inoltre, in tutte le cose che hanno un fine, in virtù di questo si
fanno alcune cose prima, altre dopo. Quindi, come una cosa è fatta,
così essa è disposta per natura e, per converso, come è disposta per
natura, così è fatta, purché non vi sia qualche impaccio. Ma essa è fatta
per un fine; dunque per natura è disposta ad un tale fine. Ad esempio:
se la casa facesse parte dei prodotti naturali, sarebbe generata con le
stesse caratteristiche con le quali è ora prodotta dall’arte; e se le cose
naturali fossero generate non solo per natura, ma anche per arte, esse
sarebbero prodotte allo stesso modo di come lo sono per natura. Ché
l’una cosa ha come fine l’altra15.
Nell’arte, così come nella natura, ciò che spiega l’ordinata
successione e le singole tappe di un processo è il fine. I due tipi
di processi sembrano regolati da una strutturazione causale si-
mile. La distinzione tra i due ambiti può avvenire solo a partire
15 Fisica, II, 8, 199a 8-15.
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92 Vedere il simile

dalla natura esterna o interna della causa finale. Se nel processo


produttivo, il principio che imprime movimento alla creazione
di un oggetto è esterno al processo stesso, in quanto eidos che
sta nella mente dell’artefice, per quanto riguarda invece il pro-
cesso naturale, Aristotele rifiuta risolutamente l’idea che vi sia
un’istanza pianificatrice che interviene nella generazione e nel-
l’organizzazione finalistica dei fenomeni naturali. Le cose che
divengono per natura possiedono internamente il loro principio
di movimento.
Ogni arte concerne il far venire all’esistenza, e usare l’arte è con-
siderare com’è possibile far venire all’esistenza una di quelle cose che
possono sia essere che non essere e il cui principio è in chi produce.
Infatti l’arte non ha per oggetto né le cose che sono o divengono ne-
cessariamente, né quelle che sono o divengono per natura: queste in-
fatti hanno in sé stesse il loro principio16.
Nei fenomeni naturali il divenire si fonda su «un principio
di movimento e di quiete per la cosa nella quale si trova imme-
diatamente e per essenza e non per accidente».
La distinzione che Aristotele opera tra i due ambiti del di-
venire, in base a un principio che si caratterizza una volta come
interno al processo naturale e l’altra come esterno al prodotto
artistico, mette in evidenza alcuni aspetti essenziali della teleolo-
gia aristotelica.
Il primo aspetto è che l’ordine finalistico del cosmo non è
teologico, non è un ordine metafisico universale definito a parti-
re da un artefice che lo ha prodotto e che interviene nella realtà.
La teleologia aristotelica non parte da un principio sovrasensibi-
le per cercare di ricondurre la molteplicità fenomenica a un’i-
stanza pianificatrice che l’ha plasmata e prodotta. Il Primo Mo-
tore muove perché oggetto di amore, la sua immobilità esclude
la possibilità che l’atto puro muova in quanto causa efficiente di
movimento, ma piuttosto perché tutti gli esseri tendono infinita-
mente a raggiungere la sua perfezione17.
16 Etica Nicomachea, VI, 4, 1140a 11-15.
17 Cfr. W. WIELAND, La fisica di Aristotele,op. cit., pp. 334-46. L’autore sostiene
che l’enfasi che Aristotele pone sulla causa finale può essere spiegata dal fatto che que-
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 93

Sotto questo aspetto, la teleologia aristotelica può essere


confrontata con quella kantiana e pensata come teleologia inin-
tenzionale, per cui l’analogia tra arte e natura può essere estesa
fino al punto in cui non si sovrappone al mondo della natura l’i-
dea di un artefice che fonda la catena dei fini in base a un’idea
di armonia universale che guida il mondo del divenire18.

sto è un aspetto determinante di differenziazione dalla dottrina dei materialisti. Attra-


verso la causa materiale non può essere certo spiegato l’ordine della natura, perché tutto
nascerebbe dal caso se prima è la causa materiale. Un muro non ha mai la sua origine
necessariamente nei materiali dati. La primarietà che Aristotele assegna al concetto di
causa “per cui” non può essere trasformata in una teleologia cosmica universale. In Ari-
stotele la teleologia deve essere pensata fin dall’inizio in modo che caso e necessità siano
fondati nel suo concetto. Ciò vuol dire: caso e necessità non esistono in Aristotele a di-
spetto della teleologia ma a motivo di essa. Certamente, Aristotele interpreta la natura se-
guendo il filo conduttore dell’arte. Ma questo è soltanto un punto di vista metodico.
Egli respinge con rigore conclusioni nel senso di un’istanza pianificatrice che sarebbe
dietro alle cose della natura. In questo esso si differenzia da Platone in quanto la teleolo-
gia non può essere considerata come un ordine disposto da un’istanza riflessiva e piani-
ficatrice. Questi nel Timeo riesce a spiegare l’ordine del mondo naturale solo attraverso
l’ipotesi di un saggio artefice. Non c’è un’anima del mondo come non c’è un’istanza pia-
nificatrice nell’ordine cosmologico aristotelico. La fondazione in Aristotele di una teleo-
logia non teologica potrà essere adeguatamente apprezzata solo quando si osservi il mo-
do in cui questa si differenzia criticamente secondo due aspetti opposti: una prima volta
contro la concezione teologica di Platone e di Senofonte; una seconda volta contro la
teoria anti-teologica e anti-mitica dei filosofi naturalisti che non riescono a dar conto
dell’ordine del mondo e si richiamano al caso.
18 Kant sostiene: «se una cosa, in quanto prodotto della natura, deve contenere

in se stessa e nella sua possibilità interna una relazione a fini, vale a dire deve essere pos-
sibile soltanto come fine della natura e senza la causalità dei concetti di esseri ragionevo-
li ad essa esterni, si richiede […] che le parti si leghino a formare l’unità del tutto in mo-
do da essere reciprocamente, causa ed effetto della loro forma. Perché solo in tal modo
è possibile che a sua volta l’idea del tutto determini la forma e il legame di tutte le parti:
non in quanto causa – perché allora si avrebbe un prodotto dell’arte – ma per colui che
giudica, come fondamento della conoscenza dell’unità sistematica della forma e del lega-
me di tutto il molteplice contenuto nella materia data» (Critica del Giudizio, op. cit., vol.
II, §65). Kant, ricorrendo alla nota distinzione tra conoscere e pensare, definisce il prin-
cipio del Giudizio teleologico come un principio regolativo e non costitutivo della no-
stra conoscenza della natura e dice che il legame causale, pensato dall’intelletto come le-
game delle «cause efficienti (nexus effectivus)» è un «legame delle cause reali», mentre il
legame causale pensato dalla ragione «è detto delle cause finali (nexus finalis)» ed è un
«legame delle cause ideali». Trasformare il principio del Giudizio teleologico in un prin-
cipio costitutivo significherebbe andare incontro alle note aporie messe in luce dalla
Dialettica trascendentale e fondare la natura su un’idea sovrasensibile che pianifica l’or-
dine finalistico.
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94 Vedere il simile

Presupporre una distinzione tra principio regolativo e sog-


gettivo, prodotto di un’esigenza della ragione, e principio costi-
tutivo, oggettivo, e conoscitivo prodotto dall’intelletto è estra-
neo al pensiero aristotelico, dove la categoria di realtà è prima-
ria e definisce l’orizzonte della conoscenza e del pensiero uma-
no. La fede incondizionata che Aristotele pone nell’idea che
l’ordine della conoscenza è debitore di un ordine del mondo
non contempla la possibilità di leggere la teleologia aristotelica
semplicemente come un concetto della riflessione. Lo spazio in
cui si iscrive la libertà dell’agire e del produrre umano, e quindi
l’istanza della possibilità, nell’orizzonte aristotelico, non si costi-
tuisce a partire dalla frattura tra conoscenza del mondo della
natura e mondo morale. L’essere stesso e il mondo fenomenico
per Aristotele sono segnati dal divenire, che pone la realtà del
movimento come la relazione fondante e mai compiuta del pas-
saggio dalla potenza all’atto. In questo universo, tutti gli esseri
sensibili sono consegnati alla loro caducità materiale e nello
stesso tempo portano in sé la traccia del divino, del sovrasensi-
bile, dell’eterno, che non può che darsi nella corruzione e tra-
smissione di forme in continuo divenire, e in un mondo di fini
mai compiuti pienamente. Il divino e il sovrasensibile sono im-
manenti al mondo stesso della contingenza, come regolarità di
forme, interne alla materia stessa, che diviene seguendo una ne-
cessità ipotetica che definisce ciò che permane nel suo intrinse-
co mutare in individui di volta in volta determinati.
La regolarità, la conformità allo scopo e alla legge, la razio-
nalità dell’ordine naturale sono per Aristotele il modo in cui il
divino si dà nell’immanenza del mondo sensibile, e l’unico mo-
do in cui il sovrasensibile si dà e si manifesta: nella contingenza,
nella caducità e nella mutevolezza, nel suo riprodursi in una for-
ma che permane, ma che permane all’interno di una realtà sen-
sibile che la riespone continuamente alla possibilità del cambia-
mento.
Aristotele non pone mai l’alternativa tra mondo esterno e
mondo interno, tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto,
ed è la ratio essendi, alla quale la ratio cognoscendi appartiene, a
definire la relazione tra sensibile e sovrasensibile, tra divino e
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 95

mortale, tra forma e materia: non esiste un soggetto, al quale


pertiene il compito di istituire l’ambito della certezza, contrap-
posto a una molteplicità di enti sensibili dispersi in una informe
mutevolezza che può trovare il suo principio d’ordine solo nel-
l’anima di chi conosce.
L’idea di una perfezione iscritta nella caducità e mutevo-
lezza del mondo sensibile è espressa in modo particolarmente
persuasivo nel celebre passo che apre il De Partibus Animalium:
Delle realtà che sussistono per natura, alcune, ingenerate e in-
corruttibili, esistono per la totalità del tempo, altre invece partecipano
della generazione e della distruzione.
Circa le prime, che sono nobili e divine, ci tocca di aver minori
conoscenze, giacché pochissimi sono i fatti accertati dall’osservazione
sensibile a partire dai quali si possa condurre l’indagine su tali realtà,
cioè su quanto aneliamo sapere.
Quanto invece alle cose corruttibili, piante e animali, la nostra
conoscenza di esse è più agevole grazie alla comunanza di ambiente:
molte conoscenze relative a ciascun genere può infatti ottenere chi vo-
glia adoperarvisi adeguatamente.
Ma entrambi i campi di ricerca hanno la loro bellezza. Per quan-
to poco noi possiamo attingere delle realtà incorruttibili, tuttavia, gra-
zie alla nobiltà di questa conoscenza, ce ne viene più gioia che da tutto
ciò che è intorno a noi, così come una visione fuggitiva e parziale della
persona amata ci è più dolce che un’esatta conoscenza di molte altre
cose per quanto importanti esse siano.
Le altre realtà, però, grazie alla possibilità di conoscerle in modo
più profondo e più esteso, danno luogo a una scienza più vasta; inol-
tre, giacché sono più vicine a noi e più familiari alla nostra natura, ri-
stabiliscono in qualche modo l’equilibrio con la filosofia vertente sulle
cose divine […]
E persino circa quegli esseri che non presentano attrattive sensi-
bili, tuttavia, al livello dell’osservazione scientifica, la natura che li ha
foggiati offre grandissime gioie a chi sappia comprenderne le cause,
cioè sia autenticamente filosofo. Sarebbe del resto illogico e assurdo,
dal momento che ci rallegriamo osservando le loro immagini poiché al
tempo stesso vi riconosciamo l’arte che le ha foggiate, la pittura o la
scultura, se non amassimo ancor di più l’osservazione degli esseri stessi
così come sono costituiti per natura, almeno quando siamo in grado di
coglierne le cause.
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96 Vedere il simile

Non si deve dunque nutrire un infantile disgusto verso lo studio


dei viventi più umili: in tutte le realtà naturali v’è qualcosa di meravi-
glioso.
E come Eraclito, a quanto si racconta, parlò a quegli stranieri
che desideravano rendergli visita, ma che una volta entrati, ristavano
vedendo che si scaldava presso la stufa di cucina (li invitò ad entrare
senza esitare: «anche qui – disse – vi sono dèi»), così occorre affronta-
re senza disgusto l’indagine su ognuno degli animali, giacché in tutti
v’è qualcosa di naturale e di bello.
Non infatti il caso, ma la finalità è presente nelle opere della na-
tura, e massimamente: e il fine in vista del quale esse sono state costi-
tuite o si sono formate, occupa la ragione del bello […]
Similmente occorre ritenere che quando si discute intorno a una
parte o a un oggetto qualsiasi non si richiama l’attenzione sulla materia
né si discute in funzione di essa, bensì della forma totale: si parla, per
esempio, di una casa, ma non dei mattoni, della calce, del legno; e allo
stesso modo – quando si tratta della natura – si parla della totalità sin-
tetica della cosa stessa, non di quelle parti che non si danno mai sepa-
rate dalla cosa stessa cui appartengono19.
La scienza qui viene difesa in modo appassionato non per
il suo carattere contemplativo, o per la sua capacità di osserva-
zione distaccata del mondo della natura: le cose corruttibili so-
no più vicine a noi e più affini alla nostra natura, fra esse noi cre-
sciamo e viviamo. L’uomo non si separa dal mondo in cui cresce
e vive attraverso uno sguardo che lo avvicina al divino (che per-
metterebbe di cogliere noeticamente le essenze), ma vive la stes-
sa sorte di tutti gli esseri corruttibili, e insieme ad essi partecipa
della presenza del divino che è in essi. La natura, svelando al-
l’osservazione scientifica la sua potenza creatrice, «offre gran-
dissime gioie a chi sappia comprenderne le cause, cioè sia au-
tenticamente filosofo».
In questo passo vengono accostati concetti che risultano
fondamentali per comprendere quale tipo di teleologia pensa
Aristotele in rapporto al mondo della natura: il suo legame co-
stitutivo e interno all’ordine soprasensibile e il suo essere in re-

19 Parti degli animali, I, 5, 644b 22 sgg., trad. it. di M. VEGETTI e D. LANZA, La-

terza, Roma-Bari 1984.


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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 97

lazione con la realtà della bellezza, con il concetto di kalos e di


ordine come forma complessiva.
Da questo passo emerge in maniera perspicua come il divi-
no sia accessibile all’uomo solo attraverso la molteplicità e la
contingenza del mondo fenomenico: l’uomo di scienza può
scorgerne le tracce anche negli esseri di «qualità più umile»,
giacché ritrovare la ratio e la struttura che li percorre è qualcosa
di assai «mirabile». Quest’ordine interno per Aristotele ha una
disposizione teleologica, poiché per il filosofo tutti gli esseri di
natura sono mossi da una tensione verso il raggiungimento di
una compiutezza e di una totalità, che rimane, tuttavia, il movi-
mento infinito di tutte le cose verso una perfezione mai raggiun-
gibile. Il processo finalistico nel mondo sublunare ha come
realtà prima il divenire e la sproporzione, mai sanabile, tra una
forma compiuta e finita e il riaprirsi di una potenzialità mai sa-
turabile da un atto pienamente realizzato (entelechia), e organiz-
zato in modo definitivo rispetto a un fine ultimo.
Se l’ordine teleologico è per Aristotele un dato di esperien-
za, allo stesso modo il divino è il medesimo ordine che si mani-
festa nella stessa esperienza sensibile. Il sistema teleologico non
è per il filosofo il prodotto di una mente che pianifica e organiz-
za la generazione e corruzione degli esseri del mondo sublunare
a partire dal progetto di una specie di armonia prestabilita, ma
piuttosto l’assunzione di una regolarità e perfezione alla quale
tutti gli enti aspirano, e che è insita a tutti i fenomeni, che ten-
dono infinitamente al raggiungimento di un riposo e a una eter-
nità sempre di là da venire.
L’imitazione aristotelica non è una relazione discendente dal mo-
dello alla copia come era l’imitazione platonica, ma una relazione
ascendente attraverso la quale l’essere inferiore tenta di realizzare, con
i mezzi di cui dispone, un po’ della perfezione che intravede nel termi-
ne superiore e che quello non ha potuto fare discendere fino a lui. L’i-
mitazione platonica richiedeva la presenza del Demiurgo. L’imitazione
aristotelica, al contrario, suppone una certa impotenza del modello,
poiché è questa impotenza che si tratta di compensare. Si ha torto a
soffermarsi su uno solo dei membri della frase dove Aristotele afferma
«l’arte imita la natura», poiché egli dice anche che l’arte «compie alcu-
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98 Vedere il simile

ne cose che la natura è incapace di effettuare» [Fisica, II 8 199 a 15].


[...] Imitare la natura non è raddoppiarla inutilmente, ma sopperire al-
le sue mancanze [...].
L’esempio dell’arte umana, che non è che un caso particolare del
movimento del mondo sublunare, quello del movimento riflesso e vo-
lontario, illustra il paradosso di un’imitazione che imita l’immobilità
solo attraverso il movimento e la necessità attraverso la contingenza.
Tuttavia esiste imitazione in quanto esiste, nell’arte come nella natura,
nel mondo sublunare come nel mondo celeste, nel mondo celeste co-
me in Dio, l’identità di fine che è il Bene. È al Bene che tende il lavoro
e l’azione degli uomini, come i movimenti di una natura che non fa
niente invano. [...]
L’imitazione, così come la intende Aristotele, dipende dunque
più da una praxis che da una poiesis; essa non conduce a opere che sia-
no soltanto imitazioni di un modello, ma si esaurisce nel suo stesso
movimento, come se il fallimento del suo scopo divenisse qui ancora la
sua realtà più propria. L’imitazione appare allora meno come la realiz-
zazione di una copia che come l’immagine degradata dell’atto sussi-
stente nel modello20.
Il telos va inteso quindi come una tendenza della cosa ad
attuarsi in un certo modo21, come una necessità che porta in sé
la possibilità del mutamento: tendenza sottoposta alla contin-
genza, alla realtà del divenire, e quindi anche dell’intervento del
‘caso’ e della fortuna22.

20 Questa citazione appare già nel primo capitolo, ma qui viene ripresa ed este-

sa: P. Aubenque, Le problème de l’être chez Aristote, op. cit., pp. 498-501.
21 Cfr. D. G UASTINI , Prima dell’estetica, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 96-97.
22 Questi due concetti verranno trattati più avanti in riferimento alla tragedia.

Cfr. W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit., pp. 324-31. La tesi di fondo del-
l’autore – come già messo in evidenza precedentemente – è che la teleologia occupa un
posto importante nel pensiero aristotelico, ma non costituisce quel principio cosmico
universale che di essa la storia ha fatto. È un fatto di rilievo che Aristotele discuta la te-
leologia nella Fisica (II, 8) soltanto in relazione alla teoria del caso. Di fatto il teleologi-
smo aristotelico può essere correttamente inteso solo accogliendo come premessa la teoria
del caso. Questa non viene discussa da Aristotele premettendo un ordine universale ri-
spetto al quale il caso non sarebbe altro che una perturbazione, ma la nozione di telos
viene concepita in modo che a partire da essa resta aperta la possibilità del caso. Il caso
qui non è ciò che non ha causa, ma è ciò che ha un’altra causa rispetto allo scopo o cau-
sa finale che stava a fondamento di un processo. L’esempio che Aristotele adduce è
quello dell’incontro casuale con un debitore al mercato, con il quale non si aveva ap-
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 99

La teleologia aristotelica definisce una dimensione ontolo-


gica e non solo conoscitiva, ma l’ordine dell’essere non è per il
filosofo una realtà statica data una volta per tutte, dove lo scopo
al quale i fenomeni tendono è determinato su un piano metafisi-
co a se stante, ma è un universo in movimento, dove il processo
teleologico ha come tratto primario il tendere verso una forma
mai pienamente compiuta, cosicché – come ben sottolinea Au-
benque – il «fallimento del suo scopo» diventa «la realtà più
propria».
L’universo di Aristotele è costituito da enti in divenire e in
relazione, dove è impossibile individuare un primo momento as-
soluto: soltanto all’interno di un determinato processo si può di-
stinguere il fine, e ciò che è in vista della finalità, ma mai usare i
concetti in modo assoluto.
La luna è un principio per la comunità col sole e per l’aver parte
della luce. È infatti come un altro sole più piccolo, per questo contri-
buisce a tutti i processi di riproduzione e di compimento. Sono infatti
i caldi e i freddi fino a una certa proporzione che provocano le nascite
e dopo queste le morti, e sono movimenti di questi astri che ne deter-
minano il limite dell’inizio e della fine.
Come vediamo il mare e ogni natura liquida gonfiarsi e mutare
secondo il movimento e la stasi delle correnti e l’aria e le correnti se-
condo il girare del sole e della luna, così anche ciò che nasce da questi
elementi e in essi sta deve necessariamente adeguarsi. È conforme a ra-
gione anche che i periodi delle cose meno importanti si adeguino a
quelli delle cose più importanti.
La natura dunque tende a misurare con la misura di questi [due
astri] le nascite e le morti, ma non è precisa, sia per l’indeterminatezza
della materia, sia per l’insorgere di molti principi che, impedendo le
formazioni e le distruzioni conformi a natura, spesso sono la causa del-

puntamento. Ciò che avviene per casualità, lo è in rapporto allo scopo originario. Ovun-
que si parli di caso si può sempre trovare anche un’altra causa alla quale il casuale può
essere ricondotto. Per Aristotele quando si parla di caso, abbiamo già premesso delle
strutture teleologiche. La trattazione aristotelica del caso dimostra anche come la teleo-
logia sia una forma di pensiero che, entro l’orizzonte mondano, può essere applicata alle
singole relazioni dell’accadere, e non consente nessun enunciato sull’insieme del mondo
naturale. Il caso è possibile in quanto si possono esperire diverse relazioni teleologiche
autonome.
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100 Vedere il simile

le circostanze contro natura23.


Questo passo mostra in maniera esemplare il fatto che Ari-
stotele pensa la regolarità e razionalità come un ordine inscritto
nell’imperfetto mondo degli esseri materiali corruttibili. La ten-
sione verso il fine è la manifestazione del divino come realtà im-
manente a tutti i fenomeni del mondo sublunare. In questo or-
dine, si inserisce il processo teleologico dell’arte umana, capace
di scoprire, nella complessità delle relazioni teleologiche che si
vengono a determinare e nel dinamismo della rete di rapporti
che gli enti intrattengono tra loro, delle forme o strutture in di-
venire, alle quali l’artefice riesce a dare una regolarità, a pianifi-
care come progetti ripetibili e in qualche modo generalizzabili
(di che tipo di generalità si tratti lo vedremo nel corso dell’argo-
mentazione).
In questa prospettiva, la legge che sta a fondamento del
processo produttivo non è individuabile univocamente in quella
«forma contenuta nell’anima» dell’artefice che, secondo il passo
di Metafisica VII, 1032b 1-2, sarebbe il principio del movimento
dell’arte24.
In questo brano, Aristotele considera la techne a partire da
una teleologia esterna. Questo passo può essere ricondotto a
quello già citato della Politica, dove il filosofo considera anche i
processi naturali dal punto di vista di un loro scopo estrinseco.
Qui la natura del processo produttivo viene considerata a parti-
re da una primarietà del pensiero umano, che proietta sui mate-
riali naturali il progetto finalistico prodotto dall’eidos, come
causa prima che sta nella mente dell’artefice. Anche in questo
caso, tuttavia, Aristotele esprime un punto di vista particolare,
interno a un determinato contesto di ricerca, che può essere va-
lutato opportunamente solo inserendolo in un’analisi della tech-
ne più ampia, che metta in relazione le considerazioni che il filo-
sofo fa sull’arte in ambiti diversi dei saperi. Anche in questa ri-

23 Riproduzione degli animali, IV, 10, 777b 27-778a 9, trad. it. di M. VEGETTI e

D. LANZA, Laterza, Roma-Bari 1984.


24 «Divengono per opera dell’arte tutte le cose la cui forma è contenuta nell’ani-

ma, e intendo per forma l’essenza sostanziale e la sostanza prima di ciascuna cosa».
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 101

flessione di Metafisica VII, tuttavia, è individuabile un aspetto


della trattazione del “fare” in cui appare evidente il ruolo pri-
mario che ha la physis nella determinazione del movimento pro-
duttivo. Quando Aristotele sostiene: «sono produzioni tutte
quelle [cose] che avvengono o a opera dell’arte, o a opera di
una potenza, o a opera del pensiero. Di queste alcune avvengo-
no anche spontaneamente e per caso, press’a poco come nelle
cose che divengono per opera della natura, perché anche in na-
tura le medesime cose possono nascere da un seme, oppure
no», il filosofo sta ponendo l’accento sullo scopo del processo,
considerandolo dal punto di vista della finalità posta dal pensie-
ro dell’uomo, ma, al tempo stesso, evidenzia come la «guarigio-
ne» possa essere prodotta dall’arte o spontaneamente. L’eidos
della salute non è un’invenzione o creazione della tecnica uma-
na, ma trova le sue condizioni nel processo naturale, in cui la sa-
lute è prodotta dal riscaldamento. Qui si ritrova un ulteriore
esempio di come le quattro cause, che stanno a fondamento del-
la struttura teleologica dei fenomeni, non siano da intendersi
come dati sostanziali, e quindi immutabili, di un processo finali-
stico organizzato in maniera deterministica, in cui la causa finale
predispone la determinazione delle altre cause. In realtà, la rela-
zione causale si definisce a seconda della situazione determina-
ta, e del relativo punto di vista dal quale viene considerato un
processo. Non c’è nella concezione aristotelica del mondo natu-
rale un primo assoluto e un fine ultimo definiti in base a un
principio fondante, che determina una volta per tutte la destina-
zione di ogni ente e processo naturale. Sicuramente, Aristotele
attribuisce un primato alla legalità del mondo naturale in cui
l’essere umano è inserito, ma questo ordine non è un universo
determinato staticamente, ma piuttosto segnato dal divenire,
dalla complessità e molteplicità, e dall’incontro di infiniti pro-
cessi teleologici. In esso l’uomo interviene, attraverso la techne,
per scoprire, rintracciare, riprodurre, pianificare una regolarità
e un ordine già inscritti nella realtà del mondo sublunare, e non
fa altro, quindi, che restituire una stabilità e una ripetibilità, e
così anche anticipare una legalità e progettualità, alle nature
esposte alla contingenza e alla mutabilità della materia. Aristote-
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102 Vedere il simile

le, in questo passo di Metafisica VII, non sostiene che la salute è


una forma autoprodotta dal pensiero dell’artefice, ma piuttosto
che questa si genera anche spontaneamente e che, più che porre
la causa finale e formale del processo di guarigione, il medico
imita una forma dinamica (energeia) interna alla legalità della
physis. La teleologia dell’arte, con il suo principio appartenente
al pensiero umano, si pone all’interno del processo teleologico
naturale come un proseguimento o un compimento che si attua
attraverso l’intervento del logos dell’artefice. Logos che si defini-
sce come causa finale e formale (che secondo Aristotele sono le
cause più fondamentali), e quindi principio del movimento pro-
duttivo, se si considera il processo in rapporto all’operare uma-
no, ma che si definisce più originariamente come causa efficien-
te, se si considera l’artefatto nel suo rapporto fondamentale con
il mondo naturale. Il pensiero aristotelico parte sempre dall’as-
sunzione di una corrispondenza fondamentale tra razionalità
della natura e razionalità umana. Nelle analisi che il filosofo
compie sul rapporto tra arte e natura emerge in maniera perspi-
cua il carattere fondamentalmente dinamico dell’essere, nella
cui definizione si distingue, come uno dei suoi significati prima-
ri, il concetto di dynamis25, di potenza attiva e passiva, che ca-
ratterizza la natura dei fenomeni nel loro essere in relazione, nel
loro agire e patire in un universo di corrispondenze. In questo
orizzonte, l’anima o il logos dell’artefice non si pone in una zona
riflessiva, a partire dalla quale crea il suo progetto di artefatto26.
25 Metafisica, V, 12, 1019a 14-21: «Si dice potenza il principio del movimento o

del cambiamento, che sta in una cosa diversa da quella che subisce il cambiamento o il
movimento, o che sta in quella cosa, ma in quanto in essa c’è una differenza tra ciò che
determina e ciò che subisce il movimento o il cambiamento: per esempio la potenza co-
struttiva è quella che non risiede in ciò che è costruito, e la potenza di guarire può risie-
dere in chi guarisce, ma non in quanto è quello che guarisce. Si dice dunque potenza in
questo senso il principio di cambiamento o di movimento che risiede in una cosa diversa
da quella che cambia o che muove, o che risiede in essa, ma in quanto in essa c’è diffe-
renza tra ciò che determina il cambiamento o il movimento e ciò che cambia o si muove.
In un altro senso si chiama potenza la capacità di subire l’azione di una cosa diversa, o
di subire l’azione di se stessa, ma in quanto c’è differenza tra ciò che agisce e ciò che su-
bisce l’azione».
26 Si veda anche la bella analisi che W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit,

pp. 311 sgg., svolge sull’anima come principio di movimento in quanto muoversi-mosso.
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 103

L’anima, nella prospettiva produttiva, è inserita in una di-


namica temporale in cui si inscrive, essendo anch’essa dynamis,
come istanza attiva e passiva: essa è in grado di conoscere la
struttura del mondo fenomenico (risalendo dal suo interno un
ordine che la costituisce) e di inserire in esso la sua ‘attività’,
con il compito di scoprire la molteplicità dei processi teleologici
e, al tempo stesso, intensificare la loro regolarità e stabilità, in
quanto tutti i fenomeni del mondo sublunare sono segnati dalla
contingenza connessa alla dimensione materiale e governati da
una molteplicità di principi che definiscono un ordine comples-
so e dinamico.
Difatti la funzione più naturale degli esseri viventi, di quelli che
hanno raggiunto lo sviluppo e non sono menomati o non derivano da
generazione spontanea, è di produrre un altro individuo simile a sé:
l’animale un animale e la pianta una pianta, e ciò per partecipare, nella
misura del possibile, dell’eterno e del divino. In effetti è a questo che
tutti gli esseri tendono ed è per questo fine che operano gli esseri che
operano secondo natura (‘fine’ ha due significati: ‘ciò’ in vista di cui’ e
‘colui a vantaggio del quale’). Poiché dunque questi esseri non posso-
no partecipare con continuità dell’eterno e del divino, in quanto nes-
sun essere corruttibile è in grado di sopravvivere identico e uno di nu-
mero, ciascuno ne partecipa per quanto gli è possibile, chi più e chi
meno, e sopravvive non in se stesso, ma in un individuo simile a sé,
non uno di numero, ma uno nella specie27.
Il movimento produttivo è interno, quindi, a questo movi-
mento di tutti gli esseri sensibili che partecipano del divino at-
traverso la riproduzione di qualcosa di simile. L’arte, in questo
senso, diventa il sostituto imperfetto di quella eternità, che il
produrre progetta intensificando la regolarità dei fenomeni natu-
rali. Quando Aristotele sostiene nel De Anima essere l’anima il
principio del movimento come motore non mosso, non pensa a
questa come qualcosa che ha esistenza autonoma e separata (tesi
che viene puntualmente smentita dalle argomentazioni che de-
scrivono le modificazioni risultanti dal suo carattere recettivo
come movimenti). Con l’idea di anima come motore immobile,

27 De Anima, B4, 415a-b 2.


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104 Vedere il simile

il filosofo vuole sostenere la natura non meramente passiva dei


processi conoscitivi. Il carattere complesso del movimento pro-
duttivo, l’idea di una forma-fine che si definisce di volta in volta
nel produrre determinato, il suo essere intrinsecamente condi-
zionata dal movimento e dal divenire (e quindi inconciliabile
con l’idea di una forma-prima autoprodotta dall’anima dell’arte-
fice come principio che guida il processo teleologico volto a
creare un artefatto), il suo tenere insieme forme di sapere che,
nel suo progetto ideale, Aristotele avrebbe voluto separare: que-
sti tratti salienti della techne si riescono a comprendere in ma-
niera più chiara in riferimento alla dottrina dell’anima, e all’idea
di fondo che la caratterizza secondo la quale «l’anima è in certo
modo tutti gli esseri»28. Che l’anima venga definita come «for-
ma e atto primo», ciò non significa che abbia una esistenza a sé,
ma più propriamente evidenzia il fatto che il filosofo pensa l’a-
nima primariamente attraverso i suoi oggetti e le sue funzioni,
piuttosto che a partire dalle sue facoltà, in quanto «conoscenza
in atto che è identica all’oggetto»29. L’idea di un’anima come
forma e atto primo, che è origine del movimento animale poiché
pone il fine verso il quale questo movimento tende, non è da in-
tendere nel senso di un’anima che autoproduce spontaneamente
un eidos pensato in conformità a uno scopo posto dall’intelletto
pratico che ragiona in vista dell’utile. L’analogia tra produzione
naturale e produzione umana, fondata sulla struttura teleologica
di entrambe, non è un’analogia puramente strutturale, che per-
metterebbe di considerare la techne come una forma di cono-
scenza in grado di proiettare su uno schema vuoto dei contenuti
finalizzati ad essere funzionali alle pratiche umane. L’orekton,
l’oggetto che si prefigura come il fine che muove l’animale uma-
no, si determina come un oggetto che ha la sua origine nella sfe-
ra sensibile, che tiene insieme mondo umano e mondo naturale,
e che definisce più che un’anima come motore immobile una
molteplicità di motori30. Il vedere della theoria si configura nel-
28 Ivi, Γ8, 431b 20-21.
29 Ivi, Γ7, 431a 1-2.
30 Cfr. De Anima, Γ12. Il problema del movimento in rapporto all’attività prati-

ca verrà ripreso nell’ultimo capitolo di questo lavoro. A proposito dell’introduzione da


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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 105

l’atto produttivo come uno sguardo radicato nella natura pro-


cessuale, dinamica del mondo sensibile, nel cui ordine teleologi-
co aperto si inserisce la capacità della tecnica umana di ridefini-
re il mondo dei fini naturali secondo le leggi della praxis e della
saggezza, in vista del loro uso nella comunità umana. Il processo
produttivo ha per Aristotele un radicamento nella legalità della
physis, ma nella techne la comprensione del divenire in base a
un fine si comprende solo attraverso una dissociazione dei fini
che diventano molteplici. La forma-fine è insieme forma natura-
le, forma progettata dalla mente dell’artefice e insieme forma
che vive nella fruizione del prodotto da parte di chi lo usa. In
questo senso i motori del movimento sono più originariamente
definibili attraverso il concetto aristotelico di dynameis come
potenze attive e passive, che entrano in relazione e determinano
un processo teleologico in cui l’essenza dei fenomeni si caratte-
rizza fondamentalmente come un ordine inserito in una molte-
plicità di processi, in cui il compito del progetto umano è quello
di rintracciare, scoprire, sottrarre alla contingenza e alla cadu-
cità, concedere stabilità e regolarità, attraverso il procedimento
del rendere simile imitando, le molteplici forme dei processi na-
turali sublunari.

2.3. La mimesis come sintesi temporale


In numerosi luoghi della riflessione aristotelica, la techne
assume il valore di una forma di conoscenza. Certo, una forma
di conoscenza del tutto particolare rispetto alla teoresi epistemi-
ca, ma che risulta a tutti gli effetti un sapere se si familiarizza
con il pensiero aristotelico aderendo al suo metodo che tende
continuamente a compenetrare gli ambiti conoscitivi.
Aristotele definisce attraverso il concetto di mimesis sia
l’arte utile che la poiesis, intesa come produzione di immagini
atte a rendere piacere31.
parte di Aristotele del verbo orexis, per dar conto del fenomeno del movimento come
realtà generale che caratterizza tutti gli animali, si veda la bella analisi di M. C. NUS-
SBAUM, La fragilità del bene, op. cit., pp. 508 sgg.
31 Nella Poetica, 25, 1460b 9, Aristotele definisce il poeta come «produttore di
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106 Vedere il simile

La ricerca aristotelica, quindi, procede attraverso un meto-


do di pensiero che non opera mediante una separazione dei sa-
peri, e la definizione di una conoscenza poetica si delinea solo a
partire da una interdipendenza di gnoseologia, ontologia ed eti-
ca, lontana com’è la teoria aristotelica della tragedia dal definirsi
nei termini di una teoria di un’autonomia dell’esperienza esteti-
ca32. In questa prospettiva, riprendendo la riflessione che Ari-
stotele dedica all’arte nel primo libro della Metafisica, si può ca-
pire che tipo di conoscenza pone in essere la mimesi tragica ri-
spetto alla conoscenza propria delle arti volte a produrre oggetti
utili. La nota definizione di poesia come «più filosofica della
storia perché la poesia dice l’universale, mentre la storia il parti-
colare» può essere confrontata con la definizione dell’arte di
Metafisica I, in cui Aristotele contrappone la competenza del-
l’artista alla realizzazione del prodotto33. L’arte, tuttavia, non è
pensata dal filosofo come una competenza separata, ma piutto-
sto come un sapere universale (in questo senso avvicinabile alla
teoresi) che è il risvolto conoscitivo dell’atto produttivo, e come
tale inseparabile e intrinsecamente legato all’atto del produrre
di volta in volta oggetti determinati. Anche qui la scissione delle
competenze, che Aristotele tende a evidenziare, è da interpreta-
re non tanto come una vocazione alla specializzazione del sape-
re, ma piuttosto come esigenza di rappresentare in modo per-
suasivo le modalità o gli aspetti molteplici in cui si articola ogni
forma di conoscenza. In questo senso, la produzione poetica
può essere pensata, evidenziando a partire dal campo di analisi
in cui è inserita dei tratti piuttosto che altri, come una forma di
sapere universale determinata essenzialmente dalle sue finalità
etico-pratiche, quindi come una forma di theoria che si definisce

immagini», eikonopoios. In Metafisica, 1, 1, 981b 17-20 dice: «Tra le molte arti che sono
state trovate, alcune riguardano le cose necessarie, mentre le altre badano solo a rendere
la vita più piacevole; ebbene gli inventori delle seconde furono sempre ritenuti più sa-
pienti di quelli delle prime, perché il loro sapere non ha di mira l’utilità».
32 Cfr. ARISTOTELE , Poetica, a cura di M. VALGIMIGLI , Laterza, Bari-Roma 1966,

1926[1]. Nella sua Introduzione il curatore sostiene che la «mimesi è una vera e propria
attività creatrice dello spirito», p. 27.
33 Il passo è citato all’inizio di questo capitolo
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 107

in una relazione originaria con la phronesis, cioè con la saggezza


pratica.
Se nel processo teleologico, che porta alla produzione di
oggetti utili, l’aspetto conoscitivo, quella competenza universale
sottolineata in Metafisica I, viene a costituire il valore di una
causa efficiente subordinata alla causa finale (per cui il significa-
to del progetto appare tutto assorbito nella funzionalità del pro-
dotto), nella produzione di immagini, invece, il processo cono-
scitivo diventa fine e mezzo. Per Aristotele la tragedia, come
ogni altro prodotto, segue le fasi di un processo organizzato fi-
nalisticamente: numerosi sono i passi in cui il filosofo la parago-
na a un organismo. Ma, se nella produzione di oggetti utili lo
scopo si definisce nell’uso dell’oggetto, il fine della tragedia è
produrre immagini del reale che abbiano valore conoscitivo, e
proprio in ragione del loro valore conoscitivo, nella prospettiva
aristotelica, le rappresentazioni rimandano a una realtà alla qua-
le risultano debitrici: il prodotto dell’operare poetico non è ri-
conducibile primariamente a quell’eidos o quel progetto che sta
nella mente dell’artefice. A differenza del prodotto utile, il cui
fine si misura principalmente a partire da una prospettiva tutta
interna alla strumentalità e funzionalità pratica, la produzione di
immagini atte a rendere piacere porta con sé il valore di cono-
scenza della struttura del reale rappresentato, che è condizione
essenziale per la formazione delle valenze etiche ed educative
della tragedia. Quel processo teleologico, pensato nel prodotto
dell’arte utile come un processo che ha a suo fondamento un’i-
stanza pianificatrice umana, può trovare il suo significato più
originario attraverso la rappresentazione poetica, grazie alla
quale viene inserito in un orizzonte che ne rende possibile una
comprensione più ampia, e caratterizzata da un grado maggiore
compiutezza e totalità: nella teleologia della tragedia il processo
produttivo si mostra come inscritto in un ordine del reale, che la
mente dell’artefice non fa che scoprire, per cogliere quelle somi-
glianze che restituiscono il mondo fenomenico nella sua regola-
rità e compiutezza. Il poeta produce immagini rintracciando
percorsi ordinati all’interno del mondo della contingenza e della
caducità, e individuando, al tempo stesso, lo spazio per un’auto-
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108 Vedere il simile

determinazione razionale, definendo così a quali condizioni


l’uomo progetta il proprio del futuro. Quindi, da una parte il fi-
ne ultimo della produzione poetica può essere identificato con il
suo valore etico-pratico, mentre, dall’altra, questo fine non può
mai essere disgiunto dal suo valore di verità, non può essere co-
struito su una invenzione o creazione dell’artefice, ma può esse-
re perseguito solo attraverso una rappresentazione che porti allo
scoperto la struttura dinamica che regola l’agire umano: vedre-
mo infatti che Aristotele definisce la tragedia come mimesis
praxeos.
L’analisi del particolare tipo di sapere che la tragedia pone
in atto si articolerà mettendo in evidenza tre aspetti salienti del
valore conoscitivo della mimesis poietike.
Il primo aspetto riguarda l’evidente valore teoretico che
Aristotele assegna alla tragedia. Questo è attestato dalla prima-
rietà della nozione di intrigo (mythos), e dalla considerazione
della immagine come rappresentazione di una verità che la mi-
mesis porta allo scoperto.
Il secondo tratto determinante, che emerge dalla trattazio-
ne della mimesis tragica, è il legame indissolubile di aspetti gno-
seologici e ontologici con aspetti etico-pratici34.
Il terzo aspetto fondamentale definisce la poesia come
qualcosa che porta allo scoperto un’universalità contingente,
che aderisce alle circostanze dell’agire umano e alla sua mutevo-
lezza: un universale determinato, che configura una verità in cui
entrano come momenti fondamentali gli aspetti passionali.
Il valore che la mimesis poietike assume nella riflessione
aristotelica sulla tragedia definisce tutta la distanza da certi
aspetti della riflessione platonica sulla poesia, lontana com’è dal

34 A. ROSTAGNI nella Introduzione alla edizione della Poetica (Chiantore, Tori-

no, 1927) da lui curata sostiene, coerentemente con la sua interpretazione storico-gene-
tica della poetica aristotelica: «la posizione cronologica della Poetica è anche segnata fra
due opere di altro genere» una è la Politica (libro VIII), che rappresenta il terminus post
quem e l’altra è la Retorica (libro I e III). Questa collocazione evidenzierebbe ulterior-
mente gli aspetti educativi che assume la mimesis poietike. L’autore fa anche notare che i
concetti fondamentali di mimesi, di catarsi e di piacere vengono trattati in modo equiva-
lente nella Politica e nella Poetica (Ivi, pp. XXVIII-XXIX).
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 109

rintracciare una nozione di imitazione come copia imperfetta di


un modello, collocata ontologicamente due volte lontana dal ve-
ro e pensata come realtà intrisa di elementi sensibili (e per que-
sto lontani dal vero) e passionali che distolgono l’animo dalla ri-
cerca della verità35.
Radicalizzare la contrapposizione tra la riflessione poetica
di Platone e Aristotele riduce tuttavia la complessità e la proble-
maticità del loro pensiero. In numerosi momenti della riflessio-
ne del secondo troviamo un riscontro alla condanna della poesia
espressa da Platone nella Repubblica. Certo, non portata avanti
nei termini radicali con cui si pronuncia Platone, nella cui rifles-
sione la predominanza di valori morali tende a produrre un’ec-
cessiva enfasi nell’esprimere la natura ingannatrice della mimesis
poietike. La continuità con la posizione platonica, nella riflessio-
ne aristotelica, è solitamente connessa alla trattazione delle for-
me di poesia che precedono lo sviluppo della tragedia. Nella
Retorica il linguaggio dei «primi poeti» è associato alla decaden-
za dei costumi, perché parola che si fonda sulla capacità persua-
siva dell’elocuzione e non sul pensiero:
Poiché i poeti, pur dicendo cose futili, apparvero acquistarsi
questa fama, per questo per prima sorse l’elocuzione poetica, qual è
quella di Gorgia. E anche adesso molti di coloro che sono privi di edu-
cazione ritengono che costoro siano quelli che parlano meglio di tutti.
Ciò non è vero, bensì l’elocuzione della prosa e quella della poesia so-
no diverse. Lo dimostra questo fatto: che coloro che compongono tra-
gedie non usano più lo stesso modo di espressione36.
35 In realtà questa è la lectio facilior che riguarda la differenza di posizioni tra

interpretazione platonica e aristotelica della poesia. Molte delle letture del problema
della mimesis in Platone colgono una problematicità della riflessione sulla poesia, la cui
considerazione esula dal compito di questo lavoro. M. C. NUSSBAUM, La fragilità del be-
ne, op. cit., cap. VII, evidenzia particolarmente la riabilitazione che Platone compie del-
la poesia nel Fedro, rispetto alla trattazione che emerge dalla Repubblica. Nel Fedro la
poesia, con le passioni che le sono proprie, è ispirata da una forma di «follia» o mania,
come dono degli dei, ed è legata intimamente alla filosofia. Un’appassionata rilettura
della riflessione platonica sulla mimesis, nel segno di una sua collocazione in un orizzon-
te, quello ovviamente della cultura greca classica, in cui questa figura riveste essenzial-
mente un valore gnoseologico, ontologico ed etico, è quella che D. G UASTINI compie in
Prima dell’estetica, op. cit., cap. II.
36 Retorica, III, 1, 1404a.
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110 Vedere il simile

«Coloro che compongono tragedie non usano più lo stesso


modo di espressione» poiché, nella fase di pieno sviluppo della
poesia, la tragedia si è emancipata dalla mera forma esteriore,
connessa, secondo il filosofo, al valore persuasivo della parola
che, in questo modo, fa leva su sentimenti soggettivi privandola
di qualsiasi valore ontologico. Questa scissione tra poesia e ve-
rità ritorna in alcuni passi della Poetica, dove Aristotele pensa
alle fasi preparatorie della tragedia come forme di linguaggio
episodico, intriso di elementi emozionali (intesi in senso dete-
riore anche in questo contesto) e fondato sulla descrizione dei
singoli caratteri.
Nonostante questi controesempi, il fatto che Aristotele at-
tribuisca in generale alla mimesis poietike un valore conoscitivo
è testimoniato esplicitamente da numerosi passaggi della Poeti-
ca, opera dedicata alla trattazione della tragedia. Il mythos tragi-
co, l’ordinata composizione delle azioni, ton pragmaton systasis,
è un modo per rintracciare nel mondo della praxis dei criteri
d’intelligibilità, per individuare i moventi che regolano l’agire;
una composizione formale che si presenta, tuttavia, in maniera
del tutto particolare.
Ma la parte più importante di tutti è la composizione delle azio-
ni. La tragedia infatti è imitazione non di uomini, ma di azioni e di
un’esistenza37.
[…] la composizione dei fatti, giacché questa è la parte più im-
portante e prima della tragedia.
[…] la tragedia è imitazione di un’azione compiuta e costituente
un tutto che abbia una certa grandezza. Ma tutto è ciò che ha princi-
pio, mezzo e fine. Principio è quel che non deve di necessità essere do-
po l’altro, mentre dopo di esso per sua natura qualche altra cosa c’è o
nasce; fine è quel che per sua natura è dopo altro o di necessità o per
lo più, mentre dopo di esso non c’è niente; mezzo è quel che è esso
stesso dopo altro e dopo di esso non c’è altro.
Ancora, ciò che è bello, sia un animale sia ogni altra cosa costi-
tuita di parti, deve avere non soltanto queste parti ordinate al loro po-
sto, ma anche una grandezza che non sia casuale; il bello infatti sta nel-
la grandezza e nell’ordinata disposizione delle parti. […] Dimodoché,
37 Poetica, 6, 1450a 15-20, trad. it. di D. PESCE, Rusconi, Milano 1995.
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 111

come per i corpi inanimati e gli animali deve esserci sì una grandezza,
ma che sia facile ad abbracciarsi con lo sguardo, così per i racconti de-
ve esserci una lunghezza, ma che sia facile ad abbracciarsi con la me-
moria38.
Quando Aristotele afferma che la parte più importante
della tragedia è la composizione dei fatti (ton pragmaton
systasis) sta enucleando le sei componenti essenziali della trage-
dia: l’intrigo, i caratteri, l’elocuzione, il pensiero, lo spettacolo e
la musica.
La preminenza che il mythos, come «composizione dei fat-
ti», assume nella mimesis tragica è un motivo teorico facilmente
avvicinabile a quella centralità che Aristotele assegna allo sguar-
do esperto dell’uomo di scienza, che cerca di analizzare il mon-
do umano con lo stesso occhio distaccato e oggettivante con il
quale si conosce il mondo della natura. L’accento stesso che il fi-
losofo pone sulla differenza e preminenza dell’intrigo sul carat-
tere mostra come l’azione umana venga primariamente analizza-
ta dal punto di vista della sua struttura ‘oggettiva’, come una
sorta di interazione di forze, come una rete di situazioni e circo-
stanze che si strutturano al di là della volontà, della scelta deli-
berata, della virtù morale e del carattere dei protagonisti. Il
mondo umano è visto attraverso la tragedia come il «mondo
dell’agire e del patire»39: è questo spazio di mediazione e di re-
lazionalità che Aristotele tenta di rendere intelligibile attraverso
la teorizzazione della primarietà dell’intrigo40.
38 Ivi, 7, 1450b 21 sgg., 1451a 1-6.
39 Così definisce Ricoeur, interpretando Aristotele (Tempo e racconto, op. cit.,
passim), l’azione, come un intreccio indirimibile di volontà e deliberazione da una parte
e come un essere situata in una rete di circostanze e situazioni che la definiscono come
un patire, dall’altra.
40 La centralità della nozione di intrigo è un punto sul quale concordano la

maggior parte di interpreti della Poetica, una particolare rilevanza ha nella lettura che ne
fa E. S. BELFIORE, Il piacere del tragico, op. cit., p. 122, che accentua la contrapposizione
tra mythos ed ethos. Questo serve all’autrice per sostenere il valore teoretico del raccon-
to tragico che ha la sua finalità in se stesso in quanto «il dramma non ha una valenza eti-
ca». Così pure M. VALGIMIGLI, Poetica, op. cit., pp. 14-18, che interpreta, tuttavia, la
primarietà della nozione di mythos nella prospettiva di una lettura che pone in primo
piano il valore della coerenza interna dell’opera, assumendo quindi come fondamentale
il principio dell’autonomia dell’esperienza estetica: «Vedremo come il mito sia della tra-
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112 Vedere il simile

Ed è proprio attraverso questo elemento strutturante che


la tragedia acquista la dignità di un sapere, e viene distinta dalle
altre forme di poesia che l’hanno preceduta, che, nella visione
teleologica aristotelica, sembrano assumere la funzione di fasi
preparatorie alla tragedia. La poesia acquista pienamente il suo
valore conoscitivo solo nella sua modalità drammatica, nel suo
svilupparsi in una forma che l’ allontani dallo stile narrativo, in
cui il poeta parla in prima persona: ciò che diventa racconto è
primariamente lo strutturarsi delle vicende umane. Per caratte-
rizzare la tragedia rispetto all’epopea, nel capitolo 23 della Poe-

gedia l’elemento primo e più importante. E si definisce la tragedia mimesi di un’azione


compiuta in se stessa e tale da costituire un tutto vivente di una sua propria vita e orga-
nicamente perfetto. […] La legge di coerenza per necessità o verisimiglianza è l’unica
sua legge. […]ogni riconoscimento e peripezia debbono scaturire dall’intima struttura
della favola, per verisimiglianza e necessità, e non devono essere introdotti per arbitrio o
artificio del poeta, “perché così voglia il poeta e non il mito”. Quello che preme soprat-
tutto e sempre, e Aristotele non si stanca di ripetere, è che ogni mutamento, a qualun-
que fine sia volto e per quanto improvviso, non apra fenditure o intervalli nella succes-
sione saldamente coerente, ben plasmata e compatta degli avvenimenti. Anche qui, l’u-
nica legge è la coerenza». A. ROSTAGNI, Poetica, op. cit., pp. LXXVI-VII, sostiene che la
primarietà della nozione di mythos mette in evidenza come l’idea di autonomia dell’e-
sperienza estetica, così familiare per noi, sia del tutto estranea ad Aristotele, e afferma
che questo primato del racconto nella Poetica sia da legarsi al valore universale che ha la
poesia: «Il possibile o universale della poesia si confonde per lui, come una sola e indefi-
nita cosa, con l’universale e l’astratto della scienza: ed è assurdo pensare ch’egli possa
non confonderli, perché dall’intelletto non ha mai separato l’immaginazione; ed è diffi-
cile anche che voglia, perché questa confusione aiuta a sorreggere il suo apprezzamento
pragmatico-morale dell’arte». L. PAREYSON in Il verisimile nella Poetica di Aristotele,
Giappichelli Editore, Torino, 1950, pp. 17-18, sostiene invece, ponendosi in una pro-
spettiva molto diversa, che la drammatizzazione è già contenuta nel carattere e individua
nel carattere il nucleo sul quale si definisce il concetto di verisimiglianza: «Il poeta rap-
presenta visioni conformi alla storia dell’anima umana, traendole da se stesso, dalla pro-
pria esperienza di vita, dalla storia stessa della sua persona, dall’esperienza di contatti
umani con altre persone. Si tratta della rappresentazione del mondo umano, che presup-
pone la conoscenza vissuta della natura umana». Pareyson sostiene che l’enfasi con la
quale Aristotele tratta la nozione di intrigo è suggerita al filosofo dai grandi modelli del-
la tragedia del V secolo che sono drammi di intreccio. Questo potrebbe essere plausibi-
le, a mio avviso, se non ci fosse un’esplicita contrapposizione tra la poesia di carattere e
quella di intreccio. In Poetica, 6, 1450 a 35-40 si afferma: «[…] i principianti riescono
prima a produrre qualcosa di preciso nell’elocuzione e nei caratteri che non a mettere
assieme le azioni come è il caso di quasi tutti i primi poeti. E dunque principio e quasi
anima della tragedia è il racconto[…] essa è dunque imitazione di un’azione e soltanto a
motivo di questa lo è anche di persone che agiscono».
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 113

tica (1459a 16-29), Aristotele dice:


Quanto poi all’arte narrativa che imita in versi, è chiaro che essa
deve comporre i suoi racconti al modo stesso della tragedia, e cioè
comporli drammatici e attorno ad un’unica azione e in sé compiuta,
avente principio, mezzo e fine, di modo che l’opera, divenuta un tutto
unitario come un organismo vivente, produca il piacere che le è pro-
prio. Le composizioni dunque non debbono essere simili alla storia,
nella quale di necessità si fa l’esposizione non di una sola azione, ma
d’un solo periodo di tempo, narrando tutte quelle cose che in questo
periodo accadono ad una o più persone, pur essendoci tra questi fatti
una relazione meramente casuale. Giacché come la battaglia navale di
Salamina avvenne nello stesso tempo in cui fu in Sicilia la battaglia
contro i Cartaginesi, senza che i due eventi tendessero allo stesso fine,
così anche nelle sequenze di tempo accade a volte che un fatto segua
ad un altro senza che da essi risulti un unico fine. Eppure quasi tutti i
poeti fanno a questo modo.
L’idea di una poietike mimesis, che si struttura in modo
compiuto e unitario, imitando la forma dell’agire umano (che
attraverso la tragedia viene colto negli schemi essenziali del suo
divenire), e quindi l’emergere primario della nozione di mythos
è ciò che qualifica la tragedia nella sua eccellenza rispetto ad al-
tre forme di poesia. In numerosi luoghi della Retorica e della
Poetica, Aristotele insiste sul valore della poesia omerica, perché
capace di distaccarsi da qualsiasi istanza soggettivistica: «il poe-
ta infatti in persona propria deve parlare il meno possibile, in
quanto non è imitatore in questo modo»41.
Il consueto modo oggettivistico di intendere la forma, per
cui i poeti, più che inventori e creatori, sono visti nella loro ec-
cellenza come scopritori di strutture esistenti, riemerge nel pas-
so che segue la definizione della tragedia come azione compiuta,
dove Aristotele paragona di nuovo la narrazione tragica a un or-
ganismo, e inferisce da questa analogia la nozione di bellezza:
Ancora, ciò che è bello, sia un animale sia ogni altra cosa costi-
tuita di parti, deve avere non soltanto queste parti ordinate al loro po-
sto, ma anche una grandezza che non sia casuale; il bello infatti sta nel-

41 Poetica, 24, 1460a 7-9.


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114 Vedere il simile

la grandezza e nell’ordinata disposizione delle parti. […] Dimodoché,


come per i corpi inanimati e gli animali deve esserci sì una grandezza,
ma che sia facile ad abbracciarsi con lo sguardo, così per i racconti de-
ve esserci una lunghezza, ma che sia facile ad abbracciarsi con la me-
moria42.
Le nozioni di bellezza, di piacere e di composizione armo-
nica sono tutte legate alla qualifica di «organismo», che caratte-
rizza la tragedia, in analogia con i processi naturali, come un
tutto organizzato finalisticamente. La primarietà della nozione
di intreccio indica una capacità di guardare al mondo dell’agire
con lo sguardo esperto dell’uomo di scienza, in grado di con-
trollarlo, e, in questo modo, limitare e dominare la contingenza
attraverso schemi conoscitivi che permettono di creare modelli
universali grazie ai quali direzionare e anticipare l’agire futuro.
Ma vedremo che questi aspetti della conoscenza teoretica si de-
finiranno in maniera del tutto particolare nel caso della tragedia.
L’accostamento tra il piacere della contemplazione degli
oggetti naturali e quelli dell’arte lo ritroviamo nel De Partibus
Animalium (I, 5, 645a 12-15), dove Aristotele sostiene che pro-
viamo piacere anche nel guardare le immagini di animali disgu-
stosi, perché in questo modo godiamo della «tecnica che le ha
foggiate, ad esempio pittura o scultura»; ma a maggior ragione
deve piacerci «studiare questi esseri stessi, come la natura li ha
organizzati, almeno quando riusciamo a riconoscere le cause»: il
piacere, in entrambi i casi, sta nel contemplare una struttura or-
dinata e organizzata e «riconoscere» le cause e i principi che la
costituiscono. Infatti, «nelle opere della natura non regna il ca-
so, ma la finalità nel più alto grado. Ora, il fine in vista di cui un
essere esiste o è prodotto, tiene il posto del bello […]».
Anche nella Poetica il concetto di kalos indica spesso la
riuscita, il venir bene, il raggiungimento del fine, l’adeguazione
dell’oggetto al fine, della materia alla forma, come sintesi com-
piuta fra leggi proprie della materia e l’esigenza di finalità: il
bello è associato all’organizzazione teleologica, all’ordine, al lo-
gos, che devono appartenere sia ai prodotti della natura che a
42 Ivi, 7, 1450b 37-1451a 3.
02 cap2-81.pdf 20-11-2007 14:07 Pagina 115

La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 115

quelli dell’arte come qualità oggettive, e non appartenenti al


soggetto contemplante.
Di nuovo ritorna l’idea di una legalità e di un ordine del
reale che definisce un logos comune tra conoscente e conosciu-
to, tra razionalità del mondo e razionalità umana, che l’arte in
generale, e la poesia in particolare, proprio perché si eleva a
mezzo di conoscenza al di là di qualsiasi vocazione creativa del
poeta, può rintracciare e portare allo scoperto. Sicuramente,
questo ordine e questa legalità riguardano il mondo umano, nel
caso della tragedia, ma non è attraverso un legame di partecipa-
zione psicologica che il poeta restituisce una rappresentazione
essenziale della natura umana, ma attraverso la scoperta della
struttura causale e dei nessi formali che regolano l’azione del-
l’uomo. Di questo ordine non può che seguire ‘oggettivamente’
lo svolgersi nel tempo e, come questo ordine, segue le leggi di
uno sviluppo teleologico.
La conoscenza del mondo umano, così come scaturisce
dalla mimesi tragica, radicalizza la linea di pensiero che emerge
dalle Etiche 43: il carattere trova la sua definizione e la sua forma-
zione attraverso le azioni che gli uomini compiono, e queste
possono essere guidate dall’educazione. La virtù morale è indis-
solubilmente legata per Aristotele alla capacità e alla saggezza di
sapere inserire la propria azione nella complessità delle circo-
stanze e delle situazioni in cui l’individuo si trova ad agire. La
storia interiore, i moventi psicologici, la legge morale, come leg-
ge che scaturisce dall’interiorità, non hanno cittadinanza nella
Poetica, se non come definizione di un carattere attraverso la
forma dell’azione. Quando nell’Etica Nicomachea (IV, 8, 1125 a
11) Aristotele distingue tra azioni volte al possesso di cose utili e
43 Cfr. R. DUPONT-ROC e J. LALLOT , La Poétique, Editions du Seuil, Paris 1980,

p. 196. I curatori sostengono, invece, che l’azione diventa il fattore centrale nella
Poetica, mentre nelle etiche ciò che emerge come primario è l’agente. Sulla stessa linea si
colloca P. RICOEUR che in Tempo e racconto, op. cit., p. 67, sostiene che Aristotele nella
Poetica, dando la precedenza all’azione rispetto al personaggio, fissa lo statuto mimetico
dell’azione. Nell’Etica Nicomachea il soggetto precede l’azione nell’ordine delle qualità
morali. Nella Poetica, la composizione dell’azione da parte del poeta determina la qua-
lità etica dei personaggi. Se l’accento deve essere messo sulla connessione, allora l’imita-
zione, la rappresentazione deve riguardare l’azione più che gli uomini e i personaggi.
02 cap2-81.pdf 20-11-2007 14:07 Pagina 116

116 Vedere il simile

quelle volte al possesso del bello, e lega la bellezza all’attività


che l’uomo compie secondo la parte migliore di sé, che è la con-
templazione disinteressata, non pensa alla bellezza come un mo-
mento teoretico scisso dalle implicazioni pratiche, ma piuttosto
– come si è visto analizzando la struttura del processo teleologi-
co produttivo e del suo rapporto con quello naturale – si tratta
di due momenti dello stesso processo, di due articolazioni o due
modalità che sono componenti essenziali ed ineliminabili del
movimento umano, dove lo stesso viene analizzato secondo
punti di vista differenti44.
L’autore tragico non crea un ordine nell’incongruenza del
mondo umano, ma scopre un ordine dell’azione umana esisten-
te, che, tuttavia, non essendo definibile attraverso principi sem-
pre veri e immutabili, trova nella tragedia una forma di cono-
scenza in grado di fissare schemi per dominare la contingenza e
fornire dei modelli per orientare la prassi.

2.4. Le implicazioni etico-pratiche della tragedia


La primarietà assegnata da Aristotele alla nozione d’intri-
go, l’analogia tra processi naturali e arte, il pensare la tragedia
come organismo e l’idea di mimesis come capacità connaturata
all’uomo perché in grado di contemplare, riproducendole, le
strutture della natura: tutto questo induce ad avvicinare la tra-
gedia a una forma di theoria.
In realtà, la saggezza pratica è una modalità fondamentale
della conoscenza che la tragedia pone in essere, come emerge
dall’analisi del modo di procedere della ricerca scientifica ari-
stotelica, che si definisce costitutivamente attraverso un metodo
dialettico, e quindi attraverso un dialogo con la tradizione.
Il particolare carattere di «sintesi dell’eterogeneo»45 è ciò
che conduce Aristotele ad affermare che «[…] la poesia è cosa
più nobile e più filosofica della storia, perché la poesia tratta

44 Cfr. G. VATTIMO, Il concetto di fare in Aristotele, op. cit., p. 188.


45 Così PAUL RICOEUR in Tempo e racconto, op. cit., e La metafora viva, op. cit.,
definisce il mythos e la metafora, passim.
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 117

piuttosto dell’universale, mentre la storia del particolare»46, e


«compito del poeta è di dire non le cose accadute, ma quelle
che potrebbero accadere e le possibili secondo verosimiglianza
e necessità»47.
La coppia concettuale «verosimiglianza e necessità» ritor-
na numerosissime volte nella Poetica48 ed è riconducibile a un
tipo di verità che può apparire solo attraverso un compimento
temporale e storico. La forma dell’agire, che la tragedia scopre,
non è pensata come qualcosa di statico e sussistente al di là delle
vicende umane, ma il carattere di synthesis o di systasis, che è
proprio del mythos, è una strutturazione processuale e dinami-
ca, che opera, attraverso una schematizzazione narrativa, una se-
lezione e sintesi di quelli che sono i tratti essenziali dell’agire.
Questa forma non è data da un atto immediato di intuizione
noetica, ma ha bisogno di tempo, ed è nel tempo come misura
del movimento49 che può accadere. La necessità che emerge
dalla tragedia è una necessità o una strutturazione causale del
mondo non deterministica, dove l’ordine teleologico dell’agire
diventa comprensibile nei suoi principi solo nel momento in cui
giunge a compimento. Ma questo compimento non è la piena
attuazione di una forma, il suo definitivo mostrarsi nella pienez-
za della sua essenza, ma è una struttura che continuamente si
riapre al mondo del divenire e alla contingenza dell’agire uma-
no, è una ‘regola’ che permette all’uomo di orientare e di antici-
pare il proprio rapporto con il mondo, ma che domina la con-
tingenza solo per riaprirsi continuamente ad essa. Il poeta dice
quello che potrà accadere, il possibile, l’universale come antici-
pazione dell’esperienza, ma lo dice tematizzando proprio quella
contingenza ineliminabile che ci descrive il criterio fondamenta-
le attraverso il quale leggere, orientarci e rendere intelligibile il

46 Poetica, 9, 1451b 5 sgg.


47 Ivi, 9, 1451a 37 sgg.
48 Cfr. G. F. E LSE , Aristotle’s Poetics: The Argument, Cambridge 1957, p. 305.

Else interpreta l’uso ricorrente di questo coppia terminologica come testimonianza del
fatto che nella Poetica si tematizza un tipo di una necessità che non può mai essere asso-
luta in quanto riguardante il mondo sublunare.
49 Cfr. Fisica, IV, 11, 219b 1-5.
02 cap2-81.pdf 20-11-2007 14:07 Pagina 118

118 Vedere il simile

mondo a venire, il futuro. La forma o struttura del mythos tragi-


co è una forma che può guidare la nostra conoscenza del mon-
do e il nostro agire solo se pensata come un telos che trova le
sue determinazioni essenziali nel mondo del divenire50.
Che la mimesis abbia per Aristotele un valore filosofico,
insieme ontologico e gnoseologico, è attestato in maniera per-
spicua anche da un’altra argomentazione della Poetica.
In generale due sembrano essere le cause che hanno dato origine
all’arte poetica, e tutte e due naturali. E infatti in primo luogo l’imitare
è connaturato agli uomini fin da bambini, ed in questo l’uomo si diffe-
renzia dagli altri animali perché è quello più proclive ad imitare e per-
ché i primi insegnamenti se li procaccia per mezzo dell’imitazione; ed
in secondo luogo tutti si rallegrano delle cose imitate. Prova ne è quel
che accade in pratica, giacché cose che vediamo con disgusto le guar-
diamo invece con piacere nelle immagini quanto più siano rese con
esattezza, come ad esempio le forme delle bestie più ripugnanti e dei
cadaveri. La ragione poi di questo fatto è che l’apprendere riesce pia-
cevolissimo non soltanto ai filosofi ma anche agli altri, per quanto po-
co ne possano partecipare. Per questo infatti si rallegrano nel vedere le
immagini, perché succede che a guardarle apprendono e ci ragionano
sopra riconoscendo ad esempio chi è la persona ritratta […] 51
Il valore conoscitivo della mimesis sembra qui di nuovo av-
vicinato al piacere della conoscenza teoretica, che è capacità di
contemplare la struttura delle cose in modo distaccato e disinte-
ressato, dove il piacere nasce dalla scoperta della intelligibilità
del reale.
In realtà, il tipo di riconoscimento che pone in atto la tra-
gedia fa emergere un tipo di verità in cui aspetti ontologici, gno-
seologici ed etici si richiamano costitutivamente e cooriginaria-
mente.
Esaminiamo quale tipo particolare di referenza, di riferi-
mento al mondo si definisce attraverso la mimesis tragica. Nel
quadro il riconoscimento della verità della rappresentazione av-

50 Sulla natura che il telos assume nell’ambito della praxis in Aristotele cfr. D.

G UASTINI, Prima dell’estetica, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 96 sgg.


51 Poetica, 4, 1448b 5-18.
02 cap2-81.pdf 20-11-2007 14:07 Pagina 119

La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 119

viene attraverso il riferimento diretto a una ‘realtà’, che il qua-


dro restituisce nei suoi tratti essenziali, per cui la conoscenza
nasce dal rapporto tra rappresentazione e rappresentato, cosic-
ché si apprende immediatamente che «questo è quello». Nella
narrazione tragica, invece, il momento del riconoscimento, del
«rivolgimento dall’ignoranza alla conoscenza»52 non avviene at-
traverso il passaggio dal piano del mondo dell’agire alla sua
«trasfigurazione in forma»53, ma avviene all’interno della narra-
zione tragica stessa. Il passaggio dalla opacità del mondo dell’a-
gire e del patire al «riconoscimento» delle ragioni, delle cause o
principi che regolano le vicende umane è una dinamica messa in
atto dalla stessa costruzione tragica che giunge attraverso la peri-
peteia al «rivolgimento dei fatti verso il loro contrario […] se-
condo il verosimile e il necessario»54, con il conseguente ricono-
scimento, da parte dell’eroe tragico, della propria condizione di
essere mortale e vulnerabile, il cui agire non ha come movente
fondamentale l’intenzione che riposa nell’animo dell’agente, ma
è il risultato di una complessa rete di circostanze e situazioni
che lo trascendono, di cui non potrà mai avere una comprensio-
ne piena e trasparente, ma continuamente soggetta ad errore. È
come se la rappresentazione tragica mettesse in mostra, portasse
allo scoperto la necessitante struttura dinamica e temporale di
ogni verità, che può accadere solo attraverso uno sviluppo pro-
cessuale. Ciò che nella rappresentazione pittorica ci appare co-
me un atto di immediata apprensione dei tratti essenziali della
realtà rappresentata, qui appare attraverso un ineliminabile pro-
cesso preparatorio che è costitutivo della verità stessa. Questo
riassorbimento di un grado di ‘realtà’ all’interno della narrazio-
ne si definisce parallelamente anche sul piano delle passioni, che
entrano come fattori determinanti sia della componente cono-

52 Ivi, 11, 1452a 31.


53 Questo concetto è un motivo ricorrente della riflessione di H. G. G ADAMER
sull’arte, Verità e metodo, op. cit., pp. 162-68, che assegna alla mimesis il valore di un in-
cremento d’essere. Le belle pagine che il filosofo dedica all’analisi della tragedia vanno
ricordate in questo contesto anche in riferimento all’interpretazione del concetto di ca-
tarsi e al valore filosofico attribuito alla mestizia tragica.
54 Ivi, 11, 1452a 23 sgg.
02 cap2-81.pdf 20-11-2007 14:07 Pagina 120

120 Vedere il simile

scitiva sia degli aspetti etici della tragedia. Il produrre «pietà e


terrore» è uno dei motivi più ricorrenti di tutta la Poetica: il
mythos tragico può essere fonte di verità e di insegnamento solo
se lo spettatore si immedesima con il destino dell’eroe, e quindi
partecipa emotivamente alle sue vicissitudini; ma queste passio-
ni di «primo grado», legate al mondo dell’agire e del patire,
vengono riattualizzate all’interno della rappresentazione tragica,
per cui il dispiacere non è più legato, come in rapporto al qua-
dro, alla visione diretta della realtà (dispiacere che si trasforma
in piacere nel momento in cui avviene una trasposizione sul pia-
no della mimetico), ma entra all’interno del senso della narra-
zione, come momento propedeutico, ma anche fondante, al ri-
conoscimento della verità della vicenda tragica. È all’interno
della rappresentazione tragica che interagiscono i due piani
emozionali, quello di «pietà e terrore» e quello della catarsi, in-
terazione che diventa fondamentale per accedere alla verità tra-
gica. Solo attraverso il tempo della narrazione, che trasfigura il
tempo della vita, è possibile compiere il passaggio da un senti-
mento legato al mondo dell’agire e del patire a un sentimento fi-
losofico, etico e conoscitivo al tempo stesso55.
Questa struttura della tragedia sembra ridurre il distacco
tra piano della realtà e quello della mimesis56 chiudendo la rap-
presentazione in una sfera autoreferenziale. Si potrebbe invece
individuare in questa struttura di rimando della narrazione tra-
gica a se stessa un modo per fare interagire due livelli di realtà
che codeterminano la verità della tragedia, la quale si attuereb-
be nella relazione tensionale di una «referenza sdoppiata»57.

55 Cfr. D. G UASTINI , Prima dell’estetica, op. cit., p.110: «[…] la catarsi tragica

non espelle sentimenti come l’eleos e il phobos. Al contrario, li trasforma (quasi, si po-
trebbe dire, li intensifica) da sentimenti che si provano nei confronti di se stessi e della
ristretta cerchia dei propri cari, in un sentimento “filosofico” e “universale” di amicizia
e di umanità che si prova verso chi è homoios, simile a noi, cioè nelle nostre stesse condi-
zioni». L’autore mette in evidenza il carattere conoscitivo ed etico della catarsi tragica
(ivi, p.111).
56 Cfr. P. DONINI , Introduzione alla Poetica, op. cit., p. XL.
57 Questo è un motivo ricoeuriano ricorrente nella definizione della metafora,

riferito alla considerazione che Jakobson fa del linguaggio poetico, che verrà ripreso in
seguito nella trattazione del linguaggio metaforico.
02 cap2-81.pdf 20-11-2007 14:07 Pagina 121

La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 121

La verità che pone in essere la rappresentazione tragica si


delineerebbe in questo modo come una verità in cui entrerebbe-
ro in maniera codeterminante due livelli di «necessità o verosi-
miglianza».
Per comprendere questo aspetto è necessario analizzare il
significato che Aristotele attribuisce al termine «verosimiglian-
za», to eikos, nell’ambito della poiesis. Molti interpreti rimanda-
no alla definizione che Aristotele ne dà nella Retorica: «il verosi-
mile è ciò che avviene per lo più, non però assolutamente, come
alcuni definiscono, ma ciò che, nell’ambito di ciò che può essere
diversamente, è, rispetto alla cosa rispetto a cui è verosimile, co-
me l’universale rispetto al particolare»58. Nell’ambito della
praxis il vero, non potendosi definire attraverso il concetto di
necessità, si definisce attraverso un concetto legato a “ciò che è
probabile che avvenga”, secondo un criterio di verità legato alla
endoxa, all’opinione comune e all’opinione dei saggi. Il discorso
dialettico ha come strumento della sua verità l’entimema, il sil-
logismo dialettico, che, dal punto di vista formale, ha la stessa
struttura rigorosa del sillogismo scientifico, ma, dal punto di vi-
sta dei contenuti, procede da premesse il cui valore di verità è
stabilito dalla doxa, dall’opinione59.
Così definito nell’ambito della dialettica, il concetto di ve-
rosimiglianza sembra non riuscire a dar conto del tipo di verità
che si istituisce attraverso la composizione tragica60.
Se questo concetto sembra avere una capacità esplicativa
del legame consequenziale delle azioni che compongono la
struttura narrativa della tragedia nella sua parte nodale (quella
che va dal prologo all’inizio della peripezia), questa capacità vie-
ne meno quando le vicende umane subiscono un totale rove-
sciamento attraverso la peripeteia, che pone in atto un riconosci-
mento della verità delle vicende umane totalmente inaudito,
spaesante, sorprendente, in cui il concetto di probabilità o di
«ciò che avviene per lo più» diventa del tutto inadeguato.
58 Retorica, I, 2, 1357a.
59 Cfr. Primi Analitici, I, 1, 24a 23-24b 13, trad. it. di G. COLLI, Laterza, Roma-
Bari 1988; Retorica, I, 1, 1355a; 2, 1358a.
60 Così si pronuncia anche DONINI , Introduzione alla Poetica, op. cit, p. XXX.
02 cap2-81.pdf 20-11-2007 14:07 Pagina 122

122 Vedere il simile

Ma poiché la tragedia è imitazione non soltanto di un’azione


compiuta, ma anche di casi terribili e pietosi, questo effetto nasce so-
prattutto quando i fatti si svolgono gli uni dagli altri contro l’aspettati-
va, giacché avranno a questo modo ben più del sorprendente che se si
producessero per caso o fortuitamente, infatti anche degli eventi for-
tuiti sembrano più sorprendenti quelli che appaiono prodursi come di
proposito; e infatti sembra che i fatti come questo non avvengano a ca-
so, cosicché segue di necessità che i racconti di questo genere siano i
più belli61.
Aristotele, con la sua fiducia nella possibilità di scoprire e
rendere intelligibile il mondo, sostiene nella Fisica una teoria del
caso e della spontaneità che viene così interpretata da Wieland:
Si può invece in primo luogo ricordare che, dovunque si parli di
caso, si può sempre trovare anche un’altra causa alla quale il casuale
può essere ricondotto. Richiamarsi al caso non significa dunque mai
essere sollevati dal compito di trovare la causa specifica; anche ciò che
si verifica per caso accade in fatti sulla base di una determinata
causa62.
Il Wieland poi mostra che per Aristotele non si tratta di
definire un ordine teleologico universale in cui la molteplicità
dell’esperienza viene ricondotta a pochi fini, ma, al contrario:
[…] l’impostazione di un telos costituisce il punto di riferimento
per giungere alle molteplici condizioni che devono essere realizzate
posto che il telos stesso debba essere possibile. Ma sulle condizioni ci
si può interrogare solo sapendo per che cosa esse devono essere condi-
zioni. La considerazione teleologica è dunque in questo caso quella
che più di tutte riesce a dar conto della molteplicità dell’esperienza63.
Nella Fisica Aristotele usa due termini per indicare il caso,
partendo dall’uso linguistico, parla di tyche, quando si tratta del
mondo umano e di automaton quando parla dei fenomeni natu-
rali, ma di fatto egli tratta i due concetti in modo analogo perché
non sussiste separazione tra ragione umana e ordine naturale64.
61 Poetica, 9, 1452a 2-11.
62 W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit., p. 330.
63 Ivi, p. 326 e p. 339.
64 Cfr. M. C. NUSSBAUM, La fragilità del bene. L’autrice sostiene che tra i due
02 cap2-81.pdf 20-11-2007 14:07 Pagina 123

La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 123

Nella Poetica Aristotele sostiene che i fatti terribili e pieto-


si nascono dai fatti quando questi si svolgono gli uni dagli altri
contro l’aspettativa:
[…] giacché avranno a questo modo ben più del sorprendente
che se si producessero per caso o fortuitamente; ed infatti anche degli
eventi fortuiti sembrano più sorprendenti quelli che appaiono produr-
si come di proposito, come quando, per esempio, in Argo la statua di
Miti cadde adosso al colpevole della morte di Miti che la stava guar-
dando, e uccise65.
Perché l’ordine dei fatti si può stabilire solo a posteriori?
Proprio perché la teleologia aristotelica non si fonda né total-
mente su presupposti doxastici, né su un determinismo della
natura. Quando nel Protreptico, Aristotele fa intervenire l’arte
come mezzo per portare a compimento ciò che la natura ha la-
sciato incompiuto non sta descrivendo un sistema teleologico
perfettamente congruente, dove mondo umano e natura si com-
penetrerebbero in un ordine perfetto. L’esigenza di compiutez-
za, verso la quale tende la natura e alla quale la produzione e la
techne convengono, nasce da un’incongruenza di fondo dell’or-
dine teleologico, o meglio dall’aprirsi dell’ordine teleologico in
molteplici direzioni, che danno origine a molteplici possibilità
di costruire legami causali che conducono a un determinato sco-
po: questo ordine, quindi, può essere costruito solo a posteriori.
Nel momento in cui Aristotele distingue i fatti inaspettati,
che possono essere ricondotti a un ordine causale, da quelli for-
tuiti sta sostenendo che c’è sempre un ordine ulteriore che può
essere individuato a partire dall’ordine del probabile. Il movi-
mento umano, sia esso poiesis o praxis si inserisce nella legge di
natura, ma non crea un ordine pacificato attraverso la proiezio-
ne di una legge umana sui processi naturali, ma un ordine in cui
le realtà del movimento e della scissione ritornano come ele-
menti fondamentale, spezzando la sequenza degli eventi e inter-
venendo, anche, sul ‘determinismo’ del «ciò che avviene innan-
zitutto e perlopiù», sull’ordine in qualche modo pacificato della
concetti non c’è differenza sostanziale.
65 Poetica, 9, 1452a 1-10
02 cap2-81.pdf 20-11-2007 14:07 Pagina 124

124 Vedere il simile

tradizione e delle convinzioni comuni. In questo senso, la dop-


pia espressione che Aristotele usa per definire il tipo di legame
che regge la narrazione tragica, il fatto che gli eventi si devono
svolgere secondo «verosimiglianza e necessità» fa pensare a una
interazione di due livelli di verità che si determinano reciproca-
mente, senza però identificarsi. Due livelli di verità entrambi ri-
guardanti il mondo sublunare, caratterizzati dalla contingenza, e
quindi equivalenti dal punto di vista logico poiché entrambi so-
no relativi a «ciò che può essere altrimenti», ma che si differen-
ziano intenzionalmente, in quanto to eikos è connesso ai princi-
pi etico-pratici che stanno a fondamento della tragedia, mentre
to anagkaion riguarda la necessità ipotetica66 che caratterizza il
mondo naturale.
La tragedia come mimesis praxeos mostra il mondo umano
da un duplice prospettiva: come un organismo naturale (la nar-
razione tragica è paragonata di sovente da Aristotele a un orga-
nismo), come una totalità organizzata finalisticamente, apparte-
nente come tutti gli esseri viventi alla realtà fondamentale del
movimento, ma, al tempo stesso, il movimento umano è pensa-
to, nella sua specificità, come capacità di scoprire in questo or-
dine del mondo una molteplicità di sviluppi teleologici, e, con-
temporaneamente, in grado di rintracciare all’interno di questo
mondo della temporalità e della mutevolezza dei criteri di auto-
determinazione. L’intervento umano sulla natura non è una
umanizzazione della natura, ma non è neppure il semplice com-
pimento di un ordine che attraverso questo diventa perfetto. Il
movimento umano si inserisce nell’ordine teleologico generale
comprendendolo come un ordine molteplice, e non come un or-
dine in cui gli stadi del processo sono già definiti a priori, ri-
spetto ai quali il compito dell’uomo non sarebbe altro che quel-
lo di prendere in consegna uno sviluppo già definito nelle sue
direttrici fondamentali. È proprio questa scoperta della molte-
plicità ad aprire lo spazio dell’errore tragico (hamartia)67.

66 Rimando a proposito della necessità ipotetica (anagkaion ex hypotheseos) Fi-

sica, II, 9, 199b 34 sgg.


67 Poetica, 13, 1453a 12-17: «È dunque necessario che un racconto ben fatto sia
02 cap2-81.pdf 20-11-2007 14:07 Pagina 125

La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 125

Attraverso l’imitazione della natura, la rappresentazione


tragica mostra il luogo di quella scissione, e quindi l’interazione
tra due livelli di teleologia, mai perfettamente sovrapponibili,
dove si apre lo spazio del sorprendente come possibilità di cono-
scere diversi sviluppi teleologici a partire da premesse date.
Questo intervento dell’umano sulla natura non significa
per Aristotele che l’arte può plasmare la natura e funzionalizzar-
la ai propri scopi, ma significa che la natura mostra, attraverso
l’intervento umano, una molteplicità di processi teleologici.
La poetica aristotelica tematizza propriamente questo in-
tervento della contingenza e della incongruenza nell’ordine te-
leologico. La legge umana è interna a una legalità metafisica e
interviene per cercare di intensificare la regolarità dei fenomeni
sensibili, e in questo modo limitare la contingenza stessa. Que-
sto compito si definisce, tuttavia, come un’attività inesauribile,
perché l’universo aristotelico è costituito da complesse relazioni
di fenomeni, che, interagendo tra loro, danno vita a una molte-
plicità infinita di processi teleologici, il cui ordine è possibile in-
dividuare solo a posteriori, o è possibile anticipare e prevedere
assumendo la logica della probabilità e la costitutiva contingen-
za insita in ogni processo sensibile. Per questo la poesia «è più

piuttosto semplice che non duplice, come invece dicono alcuni, e che tratti di un rove-
sciamento non dalla sfortuna alla fortuna ma al contrario dalla fortuna alla sfortuna, e
non a motivo della malvagità ma per un grande errore di un uomo come si è detto e di
uno piuttosto migliore che peggiore dell’ordinario». Non tutti racconti tragici, quindi,
seguono questo sviluppo, ma solo i migliori. Cfr. D. G UASTINI, Prima dell’estetica, op.
cit. pp. 201-3. L’autore sottolinea che «la forma propria che scaturisce dall’imitazione
dei fatti tragici è quella implicata nel termine hamartia». La fenomenolgia dell’azione se-
ria è caratterizzata dal passaggio dalla fortuna alla sfortuna di qualcuno che cade a causa
di un grave errore. Serio è quindi quel personaggio medio che si ritrova per errore in
condizioni straordinarie. La tragedia coglie la natura dell’agire umano non perché i ca-
ratteri dei personaggi emergono in primo piano, ma i personaggi sono funzionali all’a-
zione. L’autore si chiede perché solo l’errore può stare a fondamento dei fatti tragici?
Perché per Aristotele l’errore ha una valenza etica che non posseggono nello stesso gra-
do il fatto del tutto accidentale, o l’ingiustizia deliberata. La hamartia si pone all’incro-
cio tra scelta deliberata e fatalità e si definisce nella circolarità di scelta e destino. L’erro-
re manifesta la natura contingente dell’agire umano e l’incapacità dell’eroe tragico di
fronteggiare le situazioni straordinarie in cui si viene a trovare quasi mai per propria de-
cisione. L’hamartia è l’altra faccia delle possibilità deliberative tipiche della praxis; è l’al-
tro effetto che la contingenza tipica del mondo sublunare produce sull’agire umano.
02 cap2-81.pdf 20-11-2007 14:07 Pagina 126

126 Vedere il simile

filosofica della storia», perché riesce a rintracciare un processo


teleologico compiuto, laddove il movimento umano porta allo
scoperto l’incombere del caso nell’ordine del mondo, aprendolo
alla molteplicità delle sue forme e delle sue finalità.
Il sorprendente, ciò che produce stupore e meraviglia, il
thaumaston, è legato per Aristotele alla scoperta della struttura
delle cose, e non all’incombere dell’assoluta casualità. È defini-
to, piuttosto, dall’emergere di una verità inaudita, che irrompe
nell’ordine del probabile e della tradizione, ridefinendo la sua
intelligibilità e comprensibilità. La ‘dialettica’ che tiene insieme
la legge degli uomini e quella naturale si risolve nel racconto tra-
gico nell’attestazione di una primarietà dell’ordine di natura,
che assume il significato del divino. Ai mortali è assegnato un
ruolo particolare in questo ordine, la loro conoscenza e la loro
azione dischiudono la molteplicità del mondo sublunare, conce-
dendo all’uomo la possibilità di deliberare, di progettarsi, di
prefigurare il futuro. Ma il racconto tragico educa gli uomini ad
agire bene esortandoli a non allontanarsi dalla propria condizio-
ne di appartenenza a un ordine naturale, dalla propria condizio-
ne di esseri mortali, finiti, radicati nella sfera della sensibilità.
Lo spazio della volontà e della deliberazione umana non deve
segnare il distacco tra mondo sensibile e sovrasensibile, non de-
ve autoprodurre una sua legalità, piuttosto la tragedia insegna
all’uomo come autodeterminarsi partendo dalle propria condi-
zione di essere sensibile, che significa, da una parte, consapevo-
lezza della propria appartenenza a un mondo storico, religioso,
morale, ma, dall’altra, e più originariamente, riconoscimento del
debito fondamentale che l’ umano contrae con l’ ordine della
natura.
La narrazione tragica così mette in mostra, porta alla luce
un tipo di theorein, un modo di vedere in profondità, che ha bi-
sogno della saggezza trasmessa e dei suoi topoi per poter acca-
dere, ma li assume per poterli ribaltare e ridefinire a partire da
un criterio di congruenza e di sensatezza di un altro ordine, che
ridescrive, mostra sotto un’altra luce quella verità della praxis
che regge la struttura narrativa e causale della parte nodale della
tragedia. Il nuovo ordine di intelligibilità, che si crea nel mo-
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 127

mento in cui la narrazione tragica si risolve nel riconoscimento


dell’errore sulla quale si reggeva la congruenza dell’agire dell’e-
roe, è l’irrompere di un criterio nuovo di verità, che ha come
sua condizione necessaria la saggezza pratica, ma che va oltre
questa saggezza, ridefinendola a partire da un atto del theorein,
un atto del vedere in profondità, che si determinerà nella mime-
sis tragica, e nella synthesis o systasis che la narrazione poetica
realizza, con delle caratteristiche del tutto particolari rispetto a
quelle che parte della tradizione interpretativa aristotelica ha
voluto attribuire alla teoresi epistemica.
Evidenziare il valore teoretico della poietike mimesis, in
questa prospettiva interpretativa, non significa contrapporre
questo valore ai suoi aspetti etico-pratici, ma piuttosto sottoli-
neare la capacità eccedente che il theorein assume rispetto alle
leggi della praxis nel definire la verità della tragedia, il ruolo che
svolge nel ridisegnare l’orizzonte della tradizione irrompendo
con la sua «veemenza ontologica»68.
In questo senso, il ruolo di paideia che la tragedia riveste è
un ruolo particolare, perché legato alla capacità, propria del
dramma, di tematizzare esplicitamente, di ‘rappresentare’ il mo-
mento in cui si crea una rottura nell’orizzonte garantito della
tradizione e delle opinioni condivise: la tragedia educa sì gli uo-
mini a orientare la propria prassi, e quindi a fare esperienza del-
la capacità di autodeterminarsi, ma lo fa insegnando ad assu-
mersi, al tempo stesso, la consapevolezza della propria condizio-
ne di esseri mortali e vulnerabili, continuamente esposti alla
contingenza e all’incombere della fortuna.

2.5. Il discorso metaforico come un «vedere il simile» nel


dissimile
Si è visto nel primo capitolo come Aubenque attribuisca
alla narrazione tragica e al momento del «riconoscimento» la
68 Questa espressione è usata da Ricoeur in Tempo e racconto, op. cit., passim,

per sottolineare il valore ontologico del linguaggio. In questo contesto ribalto gli intenti
ricoeuriani perché la uso per rimarcare il fatto che, secondo Aristotele, è l’ordine del
reale che definisce l’ordine linguistico.
02 cap2-81.pdf 20-11-2007 14:07 Pagina 128

128 Vedere il simile

funzione di selezionare, sintetizzare nella molteplicità accidenta-


le quegli attributi propri che entrano a costituire la quiddità, in-
tesa come definizione generica determinata dagli attributi pro-
pri, cioè il to ti en einai.
A partire da questa definizione estremamente perspicua
della tragedia, si svilupperà in questa analisi della mimesis me-
taphorike un tipo di argomentazione intertestuale, mettendo in
relazione principalmente Poetica, Retorica e De Anima, volta a
evidenziare come il linguaggio metaforico metta in mostra o esi-
bisca un meccanismo di sintesi sensibile, che Aristotele abbozza
nella sua teoria della koine aisthesis e della phantasia, attraverso
il quale è possibile spiegare, dal punto di vista epistemologico,
quella strategia formale che la tragedia mette in produzione.
Questa ricognizione permetterà di spiegare quel «to homoion
theorein», che appare nella Poetica come definizione della me-
tafora, primariamente nei termini di apprensione di una forma
sensibile 69.
L’argomentazione precedente ha evidenziato il valore on-
tologico e conoscitivo che il processo mimetico acquista in Ari-
stotele, e si è visto come questa duplice vocazione sia legata so-
prattutto a uno dei sei elementi della tragedia, che è il mythos.
Insieme a questo fattore determinante della tragedia, che è la
strutturazione delle azioni, a partire dal capitolo 20 della
Poetica, Aristotele introduce l’analisi di quello che risulta essere
l’altro costituente primario, e cioè la lexis. Questo elemento as-
sume in modo evidente il valore di una forma di conoscenza at-
traverso le poche, ma incisive parole che Aristotele dedica alla
lexis metaforica70.
Partiamo da una prima definizione che Aristotele propone
della metafora nella Poetica: «La metafora è il trasferimento a

69 In questo capitolo sarà affrontato primariamente il problema del linguaggio

metaforico così come viene definito in ambito poetico e retorico. Questi due ambiti ver-
ranno messi in relazione nel capitolo successivo con la teoria dell’anima.
70 Il valore primario del mythos e della lexis metaforica è particolarmente evi-

denziato nella lettura ricoeuriana, che insiste sul valore di «sintesi dell’eterogeneo» che i
due elementi rivestono nella mimesis tragica. Cfr. Tempo e racconto, op. cit., e La metafo-
ra viva, op. cit., passim. Sulla centralità del mythos e della lexis vedi anche W. BELARDI,
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 129

una cosa di un nome proprio di un’altra o dal genere alla specie


o dalla specie al genere o della specie alla specie o per
analogia»71.
Ricoeur elabora una lunga interpretazione di questa defini-
zione, mostrando che l’essenziale in essa non è l’elemento della
sostituzione di un nome con un altro, che dovrebbe fornire una
funzione estetizzante meglio riuscita, ma piuttosto il fenomeno
della epiphora, cioè il processo di trasferimento, di movimento
che porta alla sostituzione. Questo processo metterebbe in mo-
to una dinamica dell’ordine semantico che ridescriverebbe l’or-
dine categoriale, ponendo in essere una ridefinizione dell’ordine
logico-linguistico. Ma l’ontologia ermeneutica di Ricoeur mo-
stra i suoi limiti, nell’interpretazione della teoria aristotelica del-
la metafora, quando si tratta di restituire l’orizzonte metafisico
che fonda la riflessione dello Stagirita sul rapporto tra linguag-
gio ed essere. Infatti, questo ordine logico, coerentemente con
la fede insindacabile che Aristotele pone in un radicamento on-
tologico del linguaggio, viene ridefinito a partire dalla capacità
della metafora di esprimere un ordine del reale72. Vediamo qua-
le valore ontologico esprime il linguaggio metaforico: «Ma la co-
sa più importante di tutte è riuscire nelle metafore. È la sola co-
sa questa che non si può apprendere da altri, ed è segno di una
naturale disposizione di ingegno; infatti il saper trovare belle
metafore significa vedere e cogliere la somiglianza delle cose fra
loro»73. Questo motivo del talento naturale ritorna nella Retori-
ca, dove Aristotele afferma, riferendosi alla metafora, che «non
si può apprendere il suo uso da nessun altro»74.

Il linguaggio nella filosofia di Aristotele, op. cit., p. 235.


71 Poetica, 21, 1457b 5-10.
72 L. CALBOLI -MONTEFUSCO , Le fondament logique de la métaphore selon Ari-

stote, in Skhèma/ Figura. Formes et figures chez les Anciens, a cura di M. S. CELENTANO,
P. CHIRON, M.P. NOËL, Edizioni Rue d’Ulm, Paris 2004, p. 116. L’autrice sostiene che il
movimento della epiphora è un movimento che avviene primariamente su un piano verti-
cale dal piano della realtà al piano del nome (come emerge dal noto passo del De Inter-
pretatione dove Aristotele tratta del rapporto tra pragmata. pathemata e phone) e secon-
dariamente uno slittamento laterale da parola a parola.
73 Poetica, 22, 1459a 5-10.
74 Retorica, III, 2, 1405a 5-10.
02 cap2-81.pdf 20-11-2007 14:07 Pagina 130

130 Vedere il simile

La definizione della metafora data nella Poetica riprende e


mette insieme due aspetti fondamentali, due dei nodi teorici che
definiscono per Aristotele il sapere necessario dell’episteme:
quel theorein, che qui si specifica come un vedere o contemplare
la somiglianza delle cose tra loro, e quella primarietà assegnata
da Aristotele a una verità detta attraverso un linguaggio che
esprime primariamente una referenza alle cose più che una ve-
rità dialogica, dialettica, in cui l’argomentare prende le mosse
da «una premessa dimostrativa [che] differisce da quella dialet-
tica, in quanto la premessa dimostrativa è l’assunzione di una
delle due parti della contraddizione (chi dimostra infatti non in-
terroga, bensì assume) mentre quella dialettica è la domanda
che presenta la contraddizione come un’alternativa»75. Il tenta-
tivo aristotelico di fondare il sapere epistemico su un metodo
assiomatico-deduttivo sembra porre lo sguardo esperto dell’uo-
mo di scienza come un talento ‘contrapposto’ a un sapere che si
può insegnare o apprendere attraverso il dialogo e l’educazione.
La svolta che Aristotele imprime al modo in cui l’uomo si rap-
porta al linguaggio appare, per certi versi, configurarsi come un
passaggio «dal dialogo della disputa al monologo della scien-
za»76.
Questa contrapposizione, che percorre gli scritti logici, per
essere compresa a fondo – come si è visto in precedenza – deve
venire problematizzata all’interno di un’analisi più ampia della
riflessione aristotelica, che restituisca la complessità di un oriz-
zonte di pensiero in cui la divisione dei saperi, nonostante una
esplicita teorizzazione del filosofo, non è ancora operativa. In
questa prospettiva, allora, si può vedere come il dialogo della di-
sputa e il monologo della scienza non siano due saperi antitetici,
si può mettere in evidenza che i loro ambiti si definiscono in un
rapporto di implicazione reciproca, e mostrare come il metodo
dialettico diventi il metodo fondamentale del pensiero aristoteli-
co, anche se nei termini di una dialettica ripensata nella sua ca-

75 Primi Analitici I, 1, 23-26a.


76 C. T HUROT , Etudes sur Aristote: politique, dialectique, rhétorique, Durand,
Paris 1860, p. 152.
02 cap2-81.pdf 20-11-2007 14:07 Pagina 131

La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 131

pacità di esprimere un riferimento alle cose, al mondo, agli og-


getti.
La teoresi si ridefinisce, quindi, in maniera totalmente
nuova, e la mimesis sembra esibire un tipo di verità che è insie-
me praktike e theoretike, dove saggezza pratica e sapere teroreti-
co si codeterminano. Questa interdipendenza emerge esemplar-
mente dalla conoscenza che la tragedia realizza, conoscenza fon-
data su una necessaria presupposizione della verità legata al
mondo della praxis: questa verità non viene superata da una in-
tuizione intellettuale che l’annulla, ma la sintesi, che pone in at-
to la tragedia, ha bisogno come suo momento ineliminabile del
percorso storico e temporale legato al mondo delle vicende
umane. Il momento del riconoscimento e del vedere, del passag-
gio dall’ignoranza alla conoscenza77, si definisce attraverso una
forma dinamica, una forma legata alla materialità degli esseri in
movimento, una forma che si definisce in rapporto a un primato
della aisthesis. Se la dialettica deve essere interpretata come pre-
paratoria e propedeutica alla verità della teoresi, che non può,
quindi, più essere pensata come sguardo disinteressato di una
forma che si dà nella immediatezza di un atto intuente, il tipo di
teoresi che emerge dalla narrazione tragica si configurerà come
un vedere che si fonda su principi del tutto peculiari rispetto a
quelli propri della conoscenza epistemica. La tragedia «mette
sotto gli occhi», esibisce, facendo interagire tematizzandoli
esplicitamente, due livelli di verità cooriginari: un livello in cui
vale ancora la legge della verosimiglianza come «ciò che accade
per lo più», definito in riferimento alle opinioni dei saggi e alle
credenze comuni, e un livello in cui si produce un rivolgimento,
e questo primario e indispensabile radicamento nei topoi subi-
sce una ridefinizione attraverso una peripeteia che opera un di-
stanziamento dai criteri di congruenza della prassi, per ridise-

77 Poetica, 11, 1452a 22 sgg. Si è visto precedentemente che la teoria aristotelica

della tragedia individua come momento fondamentale della narrazione tragica la peripe-
teia che pone in atto un riconoscimento della verità delle vicende umane totalmente
inaudito, spaesante, sorprendente. Momento che segna la fine della parte nodale della
tragedia fondata sull’hamartia, sull’errore, sull’ignoranza da parte dell’eroe dei moventi
che regolano la propria azione.
02 cap2-81.pdf 20-11-2007 14:07 Pagina 132

132 Vedere il simile

gnarli attraverso un vedere che ha delle caratteristiche del tutto


peculiari. Il discorso tragico ricompone in qualche modo la scis-
sione, che sembra determinante negli scritti logici, tra discorso
dialettico e discorso epistemico, non certo operando una ridu-
zione o sovrapposizione dei due, ma mostrando, in modo apo-
retico (visto che ciò non può avvenire se non a partire dal lin-
guaggio), come ogni discorso, e ogni significato comune e con-
diviso siano sottoposti all’irrompere dell’inaudito, alla forza del
reale, che riporta il linguaggio a dover continuamente fare i con-
ti con l’extralinguistico: momenti che il tragico tematizza attra-
verso l’hamartia e la peripeteia. Cosicché, se accettiamo l’idea ri-
coeuriana che la metafora sia, al pari del mythos, l’altro fonda-
mentale elemento conoscitivo della mimesis, e che essa ponga in
atto in modo particolarmente perspicuo, con la forza dell’«evi-
denza» e della «chiarezza» (che la rende meccanismo elettivo di
persuasione, oltre che di produzione poetica), un procedimento
conoscitivo che può indurre a definirla una sorta di «poema in
miniatura»78, allora attraverso la metafora si può apprendere
che «le cose sono all’opposto di quanto si credeva, [e]diventa
evidente che si è imparato e sembra che la nostra mente dica:
“Così era in verità, io invece sbagliavo”»79.
La metafora si definisce, quindi, come un «talento», ma
ciò non significa pensarla come espressione di una forma di in-
tuizione intellettuale, che, in quanto tale, si può attuare solo at-
traverso il rapporto immediato con la cosa, e non attraverso l’e-
ducazione, né, d’altra parte, può significare che in questa defini-
zione si possa intravedere la prima traccia di una poetica del ge-
nio80. Quando Aristotele parla di un talento non sta dicendo né

78 Questa è una definizione di M. C. BEARDSLEY , Aesthetics, Brace and World,

New York 1958, p. 134, che Ricoeur fa propria in La metafora viva, op. cit., p. 292.
79 Retorica, III, 11, 1412a.
80 Questa definizione della metafora è vista come particolarmente infelice da I.

A. RICHARDS, The Philosophy of Rhetoric, 1936, trad. it. di B. PLACIDO, La filosofia della
retorica, Feltrinelli, Milano 1967, p. 85, che sostiene: «Questa affermazione di Aristotele
racchiude tre di quei presupposti che hanno impedito agli studi sulla metafora di pro-
gredire. Primo presupposto sviante: “l’occhio per le rassomiglianze” è un dono di natu-
ra che alcuni hanno e altri no. Ma noi tutti viviamo e parliamo attraverso questo occhio
per le rassomiglianze. Se non lo avessimo periremmo miseramente. È solo una differen-
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 133

che la forma di rappresentazione che la mimesis metaforica po-


ne in atto è una immagine occasionale, che riveste un valore me-
ramente esteriore e deviante rispetto alla verità legata al linguag-
gio ordinario, né tantomeno che essa è il prodotto creativo della
soggettività di un genio. Quando Aristotele parla di un talento
che non si apprende da altri avvicina, probabilmente, il vedere
metaforico allo sguardo esperto dell’uomo di scienza, che non
usa belle figure retoriche per allietare lo spettatore, ma sa co-
gliere la fondamentale struttura dinamica del mondo sublunare
segnato dal movimento, sa capire la connessione necessaria de-
gli eventi radicandosi nel mondo della prassi e dell’esperienza.
Il dialogo umano e il sapere pregresso diventano condizione ne-
cessaria di questa conoscenza, ma non condizione sufficiente,
perché il momento in cui la verità della prassi viene interpretata
a livello ulteriore presuppone l’intervento di un altro principio
o criterio di congruenza dei fenomeni; un principio che non è il
talento di costruire rappresentazioni belle, ma suppone una ca-
pacità di dar conto della struttura dei fenomeni e delle vicende
umane di altro tipo. Questa struttura non si cara come un ordi-
ne logico dato una volta per tutte, ma come una forma dinami-
ca, che sembra riconnotare il linguaggio di una forte componen-
te sensibile, sopraffatta nell’uso ordinario dalla dominanza della
codificazione:
[…] questa appunto è una metafora e porta l’oggetto sotto gli
occhi81.
[…] Occorre specificare che cosa intendiamo per «dinanzi agli
occhi» e come ciò si ottenga. Esso è l’effetto prodotto dalle parole che
rappresentano le cose in azione. […] in tutte queste espressioni, a cau-

za di grado. Secondo presupposto: “questo solo non può essere trasmesso ad altri”. Co-
me individui raggiungiamo la nostra padronanza della metafora nello stessissimo modo
in cui impariamo ogni altra cosa che ci fa specificatamente umani. Come ogni altra cosa
essa ci viene insegnata attraverso il linguaggio che impariamo. E questo implica il terzo e
più dannoso preconcetto. Terzo presupposto: la metafora è qualcosa di speciale ed ecce-
zionale nell’uso del linguaggio, una deviazione dal suo funzionamento normale, invece
di essere l’onnipresente principio di ogni suo spontaneo atteggiarsi».
81 Retorica, III, 10, 1411a. Per una interpretazione di questa definizione della

metafora cfr. anche G. Morpurgo-Tagliabue, Linguistica e stilistica di Aristotele, Edizioni


dell’Ateneo, Roma, 1967, pp. 256 sgg.
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134 Vedere il simile

sa dell’animare l’inanimato vi è vigore. […] E così fa spesso Omero,


rendendo animate le cose inanimate attraverso la metafora82.
La metafora qui diventa la forma di linguaggio in cui il
movimento del discorso riesce ad essere immagine del movi-
mento delle cose83. Questo porre dinnanzi agli occhi fa pensare a
una componente sensibile, pittorica o iconica nella produzione
dei significati, che il linguaggio metaforico riesce a esibire come
momento fondamentale del processo semantico84.
Il linguaggio nella sua funzione ontologica non è pensato
primariamente nella sua dimensione logico-apofantica, ma
emerge nella sua capacità di esprimere un legame con la sfera
della aisthesis. Questo «vedere le cose in azione» ci restituisce
un valore ontologico del linguaggio non legato alla logica stabi-
lizzante dell’identità, ma piuttosto alla sua capacità di ridefinirsi
a partire da una realtà che si mostra nel tempo e nel movimento,
e che trova la sua via di accesso alla parola solo attraverso la
possibilità che il linguaggio possiede di riconfigurare le proprie
categorie semantiche a partire da un dato sensibile, al quale la
metafora fa riferimento attraverso una tensione tra l’uso proprio
dei termini e l’uso improprio. Questo porre le cose sotto gli oc-
chi, porle come presenti, significa per Aristotele ristabilire che
l’arte e la scienza dispongono «sempre di una speciale poetica
con cui far violenza al linguaggio-discorso e aprirsi una via di
accesso alla realtà»85. In questo senso, il sapere teoretico, pur
pensato nella sua relazione costitutiva con quello dialettico, può
acquisire il suo valore eccedente rispetto al linguaggio radicato
nelle opinioni comuni.
82 Retorica, III, 11, 1411b.
83 Cfr. P. AUBENQUE, Le problème de l’être chez Aristote, op. cit., p. 492. Cfr. an-
che La metafora viva, op. cit., p. 410, dove Ricoeur sostiene che Aristotele attribuisce al
poeta la capacità di «rappresentare lo sbocciare dell’apparire. Se c’è un punto della no-
stra esperienza in cui l’espressione viva dice l’esistenza viva, è quello in cui il movimento
che ci fa risalire la china entropica del linguaggio incontra il movimento che ci porta al
di là delle distinzioni tra atto, azione, produzione, movimento».
84 Sul carattere iconico del linguaggio metaforico, oltre La Metafora viva,

passim, cfr. P. RICOEUR, Cinque lezioni. Dal linguaggio all’immagine, a cura di RITA MES-
SORI , Centro Internazionale Studi di Estetica, Palermo dicembre 2002.
85 Cfr. E. MELANDRI , La linea e il circolo, op. cit., p. 259.
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 135

In questa prospettiva, la metafora diventa la forma di mi-


mesis che esibisce in maniera particolarmente perspicua, e con
la forza della sua brevità, quella dinamica ontologica del lin-
guaggio che si può caratterizzare attraverso quello che Jakob-
son, a proposito del linguaggio poetico, chiama il «riferimento
sdoppiato»86. Ma questa dinamica, che il linguista esamina par-
tendo dalla capacità che il linguaggio possiede di ridefinire il
‘reale’, viene pensata dal filosofo nei termini di un dinamismo
del reale che il linguaggio esprime scoprendo un ordine. Un or-
dine in cui vale tuttavia la legge dell’identità-differenza, per cui
il radicamento ontologico del linguaggio, la sua capacità di
esprimere il reale non è legata alla logica definitoria epistemica e
al principio del terzo escluso87. Il meccanismo metaforico di-
venta per Aristotele uno straordinario strumento euristico, di
scoperta di relazioni e proprietà non ancora venute alla luce,
non in quanto proietta, primariamente, un sistema di relazioni
linguistiche sull’extralinguistico, ma in quanto riesce ad acco-
gliere la determinatezza del reale nell’universale. Questo si serve
dei significati linguistici sedimentati nella tradizione, ma se ne
serve non come criteri tassonomici per inserire le nuove scoper-
te all’interno di un sapere determinato in un orizzonte chiuso
del passato, ma piuttosto come ‘materiali’ da ridefinire a partire
da un meccanismo conoscitivo che ha come momento fondante
le forme della sensibilità. La trasformazione dell’ordine logico-
linguistico e la messa in relazione di concetti che nell’uso pro-
prio del linguaggio risultano lontani non sono processi che av-
vengono interamente all’interno di un orizzonte linguistico, per
cui la conoscenza che si produce a partire dal processo metafo-

86 Cfr. R. J AKOBSON, Linguistica e poetica, in Essais de linguistique générale,

trad. it. di L. HEILMANN e L. G RASSI, Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano


1978, p. 209: «Il predominio della funzione poetica rispetto a quella referenziale non an-
nulla il riferimento, ma lo rende ambiguo. Ad un messaggio disemico corrisponde un
mittente sdoppiato, un destinatario sdoppiato, un riferimento sdoppiato. Ciò risulta in
maniera evidente nei preamboli della fiabe di vari popoli: tale è, per esempio, l’esordio
abituale dei narratori maiorchini: Aixo era y no era (Era e non era)».
87 Cfr. E MELANDRI , La linea e il circolo, op. cit., p. 413: «Per il giudizio analo-

gico è invece essenziale che la qualità, proprietà o attributi siano intensivi, cioè suscetti-
bili di gradazione secondo il criterio del “piu-o-meno”».
02 cap2-81.pdf 20-11-2007 14:07 Pagina 136

136 Vedere il simile

rico diventa un effetto del linguaggio, ma piuttosto un meccani-


smo che prende le mosse dalla primarietà dell’ordine dell’aisthe-
sis. Ma cerchiamo di comprendere per gradi che cosa Aristotele
intende con l’espressione della Poetica «to homoion theorein»,
«vedere il simile», cogliere il simile «tra cose molto differenti».
In un passo dei Topici, Aristotele definisce il tipo di ap-
prendimento che si realizza attraverso questo procedimento del
cogliere le somiglianze, ci mostra quale cittadinanza acquisisce
all’interno del sapere epistemico, e che tipo di vedere realizza.
Bisogna infine ricercare le somiglianze in oggetti che apparten-
gono a generi diversi, notando sia che un oggetto è rispetto a qualche
oggetto nello stesso rapporto in cui un altro oggetto è rispetto a qual-
che altro – ad esempio, che la scienza risulta, rispetto a ciò che è cono-
sciuto scientificamente, nello stesso rapporto in cui la sensazione è ri-
spetto al sensibile – sia che un oggetto è contenuto in qualche oggetto
nello stesso modo in cui un altro oggetto è contenuto in qualche altro;
ad esempio, che la visione è contenuta nell’occhio nello stesso modo in
cui l’intuizione è contenuta nell’anima, e ancora, che la bonaccia si ri-
trova nel mare nello stesso modo in cui la calma dei venti si ritrova
nell’aria. Ci si deve poi esercitare soprattutto riguardo agli oggetti as-
sai divergenti tra loro: ci sarà così più facile per i rimanenti di scorgere
in complesso le somiglianze. Occorre per altro osservare, anche rispet-
to agli oggetti compresi nel medesimo genere, se a tutti quanti spetta
una qualche determinazione identica. Nel caso, ad esempio, dell’uo-
mo, del cavallo e del cane, questi oggetti invero sono simili, in quanto
appartenga ad essi alcunché di identico88.
[…]L’osservazione della somiglianza è infine utile per formulare
le espressioni definitorie, poiché una volta in grado di scorgere che co-
sa sia identico nei singoli oggetti, non saremo in dubbio in quale gene-
re si debba porre, nel definire l’oggetto della discussione; in effetti tra
i predicati comuni, quello che più di ogni altro risulta immanente al-
l’essenza è il genere. In modo analogo, la considerazione della somi-
glianza è utile per le espressioni definitorie anche nei confronti degli
oggetti assai distanti tra loro, ad esempio, quando si osserva un’iden-
tità tra la bonaccia nel mare e l’assenza di vento nell’aria (in entrambi i
casi si tratta difatti di calma), e ancora, tra il punto contenuto nella li-
nea e l’unità contenuta nel numero (ciascuno dei due è invero un prin-
88 Topici, I, 17, 108a 7-16.
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 137

cipio). A questo modo, se assegneremo come genere la determinazione


comune a tutti i casi, la nostra definizione non apparirà estranea al-
l’oggetto89.
In questo passo, Aristotele confronta due modalità della
homoiosis: una che si attua attraverso la forza della evidenza e
della immediatezza e un’altra che si definisce attraverso un vede-
re che procede per mediazioni, per gradi, come una ricerca dif-
ficile e segnata dal dubbio e dall’incertezza. Ma queste due mo-
dalità del «vedere il simile» conducono entrambe all’apprendi-
mento del genere.
Per comprendere la differenza che si stabilisce tra queste
due modalità di apprendimento del genere, possiamo mettere in
relazione questo passo con una delle definizioni che Aristotele
propone della metafora nella Retorica:
Le parole esprimono un significato, quindi quelle parole che ci
fanno imparare qualcosa, sono le più piacevoli. […]
Noi apprendiamo soprattutto dalle metafore. Quando infatti il
poeta chiama la vecchiaia stoppia, realizza un apprendimento e una
conoscenza attraverso il genere: entrambe le cose sono infatti
sfiorite90.
Appare evidente sia dal passo dei Topici, sia nel caso della
metafora, esposto nella Retorica, che si tratta in entrambi i casi
della messa in evidenza di una definizione di “genere” molto di-
versa rispetto a quella secondo la quale esso è ciò che «si predi-
ca invero in senso proprio della specie»91: in quest’ultima defi-
nizione, il genere esprime una identità che si coglie per astrazio-
ne, e «in effetti tra i predicati comuni, [il genere è] quello che
più di ogni altro risulta immanente all’essenza». Il progetto di
edificazione di un sapere epistemico, definito nei Secondi Anali-
tici, pone come condizione fondante del proprio sapere il lin-
guaggio ordinario, che deve essere normativizzato per poter di-
venire strumento di definizioni univoche (definizioni che espri-
mono attraverso il genere e la specie un’essenza universale otte-
89 Ivi, 108b 20-35.
90 Retorica, III, 10, 1410b.
91 Topici, IV, 3, 123a 35.
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138 Vedere il simile

nuta per astrazione), e bandisce dall’ambito dell’episteme l’uso


del linguaggio metaforico92.
In realtà, la condanna programmatica che Aristotele pro-
nuncia nei Secondi Analitici non trova una corrispondenza nel-
l’uso che poi il filosofo stesso fa della metafora all’interno dei
trattati scientifici93. I trattati scientifici portano allo scoperto un
universo in movimento, un ordine complesso, dove il metodo
sillogistico-deduttivo viene usato da Aristotele solo per rappre-
sentare risultati già acquisiti o come procedimento di prova
(tuttavia anche a livello dimostrativo molto spesso Aristotele
reintroduce il metodo analogico): la ricerca e la scoperta dei
concetti, delle leggi e dei principi si sviluppa secondo un per-
corso diverso da un procedimento di astrazione.
Il metodo di cui si serve Aristotele per la scoperta scientifi-
ca è un metodo che procede per congetture, per avvicinamenti
graduali, ricercando nell’eterogeneità e nella molteplicità dei
processi naturali delle relazioni non ancora apparenti, che sono
in grado non di unificare oltre il molteplice, ma piuttosto di mo-
strare un genere che si configura come una sorta di attività, di
energeia, che ci permette di cogliere il legame causale dei feno-
meni e i loro principi esplicativi94. Principi che riescono a dar

92 Secondi Analitici, II, 13, 97b 36-39, trad. it. di G. COLLI , Laterza, Roma-Bari

1988: «D’altronde, se non bisogna discutere con metafore, evidentemente non si dovrà
neppure definire con metafore, o definire espressioni metaforiche: in caso contrario, ri-
sulterebbe difatti inevitabile la discussione mediante metafore».
93 La metafora come metodo per la scoperta scientifica è un motivo ricorrente

degli studi metaforologici contemporanei. In particolare sono da ricordare: M. HESSE,


Models and Analogies in Science, trad. it. di C. B ICCHIERI , Modelli e analogie nella
scienza, Feltrinelli, Milano 1979. L’autrice sostiene un modello di razionalità secondo il
quale il nostro linguaggio si deve continuamente adattare a una esperienza in continua
espansione, individuando nella metafora uno dei mezzi principali di tale adattamento;
cfr. anche M. BLACK, Models and Metaphors, Cornell University Press, Ithaca 1962.
94 Cfr. C. DALIMIER, L’usage scientifique de la métaphore chez Aristote, in Skhé-

ma/ Figura. Formes et figures chez les Anciens, op. cit., pp. 138 sgg. L’autrice sostiene che
una buona definizione metaforica, facendo vedere un essere in movimento, o in atto, o
due esseri fisici agenti l’uno sull’altro, suggerisce degli attributi supplementari permet-
tendo di comprendere i fenomeni nelle loro conseguenze e nella loro complessità. Tutto
ciò che implica l’energeia fisica, vale a dire il legame tra causa ed effetto, costituisce l’im-
plicito di una buona metafora che spetterà ai fisici di testare. La metafora creerà una re-
te di rapporti e di relazioni da indagare. Il piacere della sorpresa evocata nella Retorica è
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 139

conto di questa molteplicità, spiegarla e non annullarla. Coglie-


re quell’energeia o genere comune significa dischiudere una
nuova prospettiva della ricerca epistemica, che apre nuovi lega-
mi causali tra le cose: individuare una rete di relazioni e di rap-
porti che ci guidano nella ricerca di ciò che non è dato all’osser-
vazione diretta.
La conoscenza che si realizza attraverso il processo me-
taforico non è una conoscenza che conduce alla soppressione
della diversità. La comparazione tra cose molto lontane porta
allo scoperto tutta una serie di caratteristiche degli ambiti diver-
si del mondo fenomenico che li caratterizza ancora più a fondo
nella loro diversità, specificità e determinatezza. Si può parlare
di un mostrare qualcosa di comune che nello stesso tempo evi-
denzia i tratti caratteristici, e può condurre alla spiegazione del-
la molteplicità fonomenica. La metafora, individuando ciò che
unisce i processi del mondo sublunare, riesce a rilevare, nello
stesso tempo e ancora più a fondo, le loro specificità. Il genere
che la metafora per analogia individua non è la scoperta di una
forma ottenuta per astrazione da fenomeni diversi, attraverso la
cui individuazione si arriva a un’unità che supera la moltepli-
cità, ma è forma che porta alla luce il suo essere costitutivamen-
te legata ad esseri materiali, in movimento, che vivono in un
universo di relazioni producendo un ordine complesso95.

l’effetto più importante della metafora: è un «certo modo di conoscenza» che porta una
«disposizione a dimostrare». Essa incita alla ricerca per precisare ed esplicare l’energeia
scoperta. Si può avvicinare il ruolo della metafora a quello dell’induzione, in quanto la
parola significa il passaggio a una nozione generale o a un genere a partire da casi parti-
colari. Aristotele sapeva che nel dominio degli esseri fisici è difficile dare attributi in mo-
do assoluto: così «ciò che è per lo più» è il sostituto dell’universale. L’attribuzione di ciò
che si crede un universale può essere erronea, approssimativa o provvisoria. L’attribuzio-
ne metaforica non è quindi un conoscenza manchevole se essa fa vedere effettivamente
l’atto degli esseri fisici, e per conseguenza conduce a rileggere la causa e l’effetto. Essa
ha il suo posto nella definizione dei principi della «scienza della natura» che è in Aristo-
tele congetturale e non dimostrativa. La metafora è un procedimento euristico le cui dé-
faillances sono il prezzo del suo funzionamento.
95 G. A. LUCCHETTA, Scienza e retorica in Aristotele, Il Mulino, Bologna 1990, p.

43. L’autore analizza una metafora che Aristotele usa nel De Generatione Animalium, II,
4, 739b 16 (trad.di D. LAURENTI ), quella classica che accostava la pianta all’animale:
«Quando poi il prodotto del concepimento si è costituito, agisce subito in modo simile a
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140 Vedere il simile

Il procedere per metafore e analogie è un motodo che il fi-


losofo usa sistematicamente, e che definisce fondamentalmente
anche la sua ricerca metafisica. Tanto che, nel passo citato dei
Topici, egli sostiene che questo metodo di pensiero, che ricerca
ciò che è simile anche in ciò che appare molto lontano e diver-
so, è in grado di esercitare in noi quello sguardo per le somiglian-
ze, che, in questo luogo della riflessione aristotelica, sembra di-
ventare, più che qualcosa di immediato e direttamente connesso
alla conoscenza, uno sguardo che la complessità del mondo fe-
nomenico mette sempre nella condizione di dover ridefinire e
riadeguare attraverso una ricerca e un esercizio continuo.
Come appare evidente dal passo della Retorica, e dalla dif-
ferenza che Aristotele definisce nei Topici tra il genere che viene
usato nella definizione dell’identico e il genere che viene stabili-
to a partire da realtà molto lontane tra loro, la scoperta di un
tratto comune a cose differenti non è il venire alla luce di un
unità astratta che soggiace alle differenze, ma ha il carattere di
un’universalità determinata, segnata dalla contingenza e tempo-
ralità dell’essere, un’universalità che vive in una tensione costi-
ciò che viene seminato, perché anche i semi posseggono in loro stessi il primo principio.
Quando questo, che prima era in potenza, si è formato, emette il germoglio e la radice.
E la radice è ciò per mezzo di cui la pianta, che abbisogna di accrescimento, si procura
alimento. […] Dal momento che il prodotto del concepimento è, sì, in potenza un ani-
male, ma incompiuto, deve necessariamente procurarsi l’alimento da altro. Per questo fa
uso dell’utero e di colei che lo porta come la pianta della terra, per procurarsi l’alimento
fino a che sia compiuto, essendo ormai in potenza un animale dotato di locomozione.
[…] Le vene sono allacciate come radici all’utero e per esse l’embrione si procura l’ali-
mento». L’autore commenta: «L’insieme [del discorso] è intersecato da varie analogie
che spesso si susseguono e si sovrappongono fino a ingrovigliare i rapporti delineati; ciò
è dovuto al tentativo di descrivere un unico processo determinandolo con precisione da
più punti di vista, magari prendendo in esame le diverse funzionalità che sono o entrano
in atto contemporaneamente. D’altronde il fenomeno da spiegare gode notoriamente di
un alto livello di complessità: varie sono le parti in causa che interagiscono e varie sono
le fasi evolutive distinguibili: l’attrazione del seme, la fecondazione dell’ovulo la prima
trasformazione dell’embrione in feto, la sua nutrizione e sviluppo, il problema della sua
respirazione». L’intento di Aristotele, come fa notare l’autore, è quello di spiegare i due
fenomeni attraverso una identità di funzioni in ambiti diversi. Ma come vediamo dal
brano quello che la comunanza mette in evidenza è una scoperta di caratteristiche e di
leggi sempre più profonda degli ambiti in questione. Così la catena analogica terra-se-
me-pianta porta alla scoperta di quella meno visibile all’osservazione diretta, quella ute-
ro-sperma-feto.
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 141

tutiva con il suo proiettarsi verso l’accidentalità delle sue deter-


minazioni, un’unità cercata nelle differenze e interna ad esse, e
non posta oltre la molteplicità del mondo fenomenico96. Quan-
do Aristotele fa riferimento alla definizione metaforica della
vecchiaia come stoppia, e dice che attraverso questa noi appren-
diamo il genere perché la vecchiaia e la paglia sono entrambe
sfiorite, individua un modo di scoprire le proprietà del reale che
procede con una certa ‘indeterminatezza’97, evidenziando, al
tempo stesso, una capacità ontologica del linguaggio non più le-
gata immediatamente alla logica definitoria e all’univocità: la ca-
pacità del linguaggio di approssimarsi all’essere, di scoprire pro-
prietà, apre la strada a un’universalità semantica che non possie-
de più i tratti dell’univocità e determinatezza conoscitiva; cosic-
ché alla imprecisione conoscitiva sembra corrispondere una
maggiore capacità di esprimere la determinatezza e particolarità
degli esseri sensibili, e quindi una più originaria capacità di ade-
sione ontologica98.

96 La scienza qualitativa aristotelica, per quanto il programma della logica for-

male è un tentativo di fondare la scienza distaccandola dalla plurivocità e dinamicità del


linguaggio naturale, è, come abbiamo visto attraverso l’analisi di W. Wieland, una scien-
za della molteplicità dei principi e caratterizzata da un dinamismo profondo.
97 Nei Secondi Analitici, II, 14, 98a 20-23, Aristotele parla di oggetti che hanno

un «certa natura unica», la cui unità non è data attraverso una definizione che proceda
per genere e specie, ma per analogia: «Vi è infine un altro modo di procedere, ossia la
scelta di determinazioni che si fonda sull’analogia. Non è infatti possibile assumere un
medesimo nome, con cui si debba designare l’osso di seppia, la spina di pesce e l’osso.
Anche da questi oggetti conseguiranno però delle determinazioni, come se nel loro com-
plesso essi costituissero una certa natura unica». E. MELANDRI, La linea e il circolo, op.
cit., p. 273, evidenzia come Aristotele consideri il procedimento analogico come porta-
tore di una duplice manchevolezza: l’imprecisione dei termini e l’incompletezza dell’in-
duzione.
98 D. G UASTINI , Aristotele e la metafora: ovvero un elogio dell’approssimazione,

in «Isonomia», Rivista elettronica dell’Istituto di Filosofia dell’Università degli Studi di


Urbino, 2005: «Va detto che l’importanza della metafora sta esattamente nella capacità
che essa ha, pur pagando un prezzo di maggiore approssimazione logica, di trasgredire
l’uso proprio, facendo esulare il discorso dalle relazioni più dirette e comuni, più uni-
versali nel senso stretto del termine, così da riuscire in tal modo a scendere con maggior
dettaglio nel particolare. Essere come la paglia non è una qualità della vecchiaia nello
stesso senso in cui la mortalità è una qualità di tutti gli uomini e quindi di ogni singolo
uomo e mortale. E nondimeno ‘essere come la paglia’ è una qualità ugualmente determi-
nante della vecchiaia: mostra una congenericità che, se noi non scoprissimo attraverso
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142 Vedere il simile

Il metodo che procede per analogie, in questa prospettiva,


non può essere ridotto a un puro metodo logico applicato al
mondo dell’esperienza, per ritracciare in esso i generi superiori
che lo fondano. Se così fosse, questo processo tenderebbe alla
unificazione di tutto il sapere a partire da principi generalissimi.
Il metodo di pensiero esibito dalla metafora proporzionale non
è una pura relazione tra forme logiche applicate alla realtà che
corrisponde ad esse in maniera isomorfa, e nella quale si può
rintracciare un ordine unitario superiore, ma si fonda essenzial-
mente sulla multivocità del linguaggio, sulla flessibilità dell’ordi-
ne linguistico-dialettico (non quindi nel linguaggio pensato pri-
mariamente nei suoi aspetti strutturali) che è sempre un parlare
di cose determinate, in cui i concetti non possono essere fatti
corrispondere a simboli formali, perché considerati essenzial-
mente nella loro dinamicità, che è il movimento di approssima-
zione della conoscenza all’ordine dinamico del reale. Dal punto
di vista della logica formale, l’assimilazione predicativa che si
verifica nella metafora proporzionale sarebbe considerata un er-
rore di categoria. Il rapporto analogico, proprio del linguaggio
metaforico, si fonda sulla insita potenzialità di espansione dei
concetti, sulla loro plasticità e sulla possibilità di una loro ridefi-
nizione attraverso una dinamica conoscitiva che ha il suo princi-
pio nella sfera dell’aisthesis: l’analogia, quindi, non si fonda sul-
l’idea di un ordine metafisico universale da definire una volta
per tutte attraverso concetti generalissimi. La comunanza che
l’analogia e la metafora proporzionale rintracciano è una comu-
nanza che non va al di là delle differenze, ma acquista la sua
pertinenza solo grazie al rapporto di identità e differenza tra le
realtà che entrano in relazione99.

questa trasposizione, questa trasgressione dell’uso proprio dei termini, perderemmo,


perdendo con essa qualcosa di essenziale della vecchiaia».
99 P. RICOEUR in The Metaphorical Process as Cognition, Imagination and

Feeling, op. cit., p. 148, sostiene che nel processo metaforico «ogni nuovo accostamento
si scontra con una precedente categorizzazione che resiste e offre resistenza. Per poter
parlare di metafora è necessario identificare la vecchia incompatibilità attraverso la nuo-
va compatibilità. L’assimilazione predicativa implica una tensione che non è quella tra
soggetto e predicato, ma piuttosto quella tra congruenza e incongruenza semantica. Il
fatto di cogliere le somiglianze è il prodotto del conflitto tra la precedente incompatibil-
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 143

In questo senso, il metodo analogico si definisce come me-


todo di ricerca di ogni sapere, e come un metodo euristico nel-
l’ambito delle scienze particolari, in grado di rintracciare una
rete di relazioni e di rapporti che possono far emergere dalla
complessità dei concetti e dei principi esplicativi. Il genere che
il processo analogico e quello metaforico portano allo scoperto
non è l’universale generico, ma piuttosto l’energeia legata alla
esperienza della natura dinamica del reale. Ciò che emerge da
questo modo di procedere della conoscenza è una certa natura
unica, che non entra esplicitamente nella definizione epistemica,
ma sembra diventare condizione preliminare e necessaria di
ogni formazione concettuale e di ogni definizione scientifica. La
metafora «mette le cose sotto gli occhi» in quanto rappresenta
«le cose in atto» (energounta). L’uso che Aristotele fa delle me-
tafore e dell’analogia nella ricerca scientifica mostra in maniera
particolarmente perspicua come la divisione dei saperi non sia
affatto operativa nel suo pensiero, anche se fa parte di una ten-
denza programmatica. Quel linguaggio ordinario che, depurato
dalle ambiguità e imprecisioni legate alla dimensione pragmati-
ca, sarebbe dovuto diventare strumento epistemico, riemerge
invece all’interno della scienza stessa nei suoi aspetti multivoci,
polisemici, legati primariamente a una logica della conoscenza
non identitaria, ma metaforica e analogica, verso la quale ogni
definizione, ogni dimostrazione e ogni formalizzazione, risulta-
no debitrici.
La conoscenza che la metafora realizza è quella di un gene-
re che «non ha ancora raggiunto la pace concettuale»100, che vi-

ità e la nuova compatibilità. La distanza è conservata all’interno della prossimità. Vedere


il simile è vedere lo stesso attraverso e nonostante le differenze. Questa tensione tra
identità e differenza caratterizza la struttura logica dell’analogia». Questo processo, che
Ricoeur spiega come un fatto semantico, si caratterizza in Aristotele come un cogliere
delle relazioni nella realtà che non sono «al di là delle differenze, ma attraverso e nonos-
tante le differenze». La metafora non coglie un ordine ulteriore o sovrasensibile che sta
oltre la molteplicità, ma tiene insieme ordini differenti, portando allo scoperto una co-
munanza, il cui significato è dato pienamente solo dalla coesistenza di ciò che è proprio
e ciò che è improprio.
100 P. RICOEUR, The Metaphorical Process as Cognition, Imagination and Feeling,

op. cit, p. 148


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144 Vedere il simile

ve ancora nella tensione tra identità e differenza. Si è visto come


questo porre davanti agli occhi faccia pensare a una componente
sensibile, pittorica o iconica nella produzione dei significati.
Nella metafora proporzionale i concetti, con i loro significati se-
dimentati dall’uso ordinario, vengono rimessi in movimento
grazie a una somiglianza che viene colta a livello sensibile. È
questa somiglianza colta come dato sensibile che crea le catene
associative e le relazioni tra concetti che nell’uso proprio del lin-
guaggio risultano lontani tra loro, ed è questa somiglianza che ci
guida nell’individuazione di una congenericità. Questi concetti
acquistano così una nuova caratterizzazione a partire da una di-
namica messa in moto da un meccanismo della sensibilità. Al
genere così trovato non corrisponde quindi una proprietà so-
stanziale ottenuta per astrazione intellettuale, ma piuttosto un
‘tratto’ che pertiene alla realtà osservata, una ‘proprietà’ sentita
o percepita che non può essere astratta dal pensiero in maniera
univoca, ma che può essere esemplificata mettendo in relazione i
casi particolari in cui si presenta, come un filo conduttore che
viene ridefinendosi attraverso le determinazioni che acquista al-
l’interno di una dinamica conoscitiva in cui entra in molteplici
relazioni e confronti, dove si viene tracciando per gradi, attra-
verso un ineliminabile percorso nei significati sedimentati del
linguaggio. Il procedimento metaforico mostra così il processo
di scoperta conoscitiva come una dinamica che parte da una co-
munanza percepita, che guida le nuove relazioni che si stabili-
scono tra concetti linguistici. Il linguaggio può dire questa con-
dizione del suo significare solo attraverso i casi particolari in cui
si presenta, esibendo i modi in cui compare, e mettendo sotto gli
occhi un concetto, quello di genere, in cui il processo si stabiliz-
za e si definisce. Il genere che la metafora porta allo scoperto
non ha nessuna corrispondenza con una proprietà definita uni-
vocamente per astrazione, ma piuttosto può essere visto come
l’inizio e la fine di questo stesso processo o, contemporanea-
mente, come la sua dynamis e la sua energeia, poiché trova la
sua origine in una ‘proprietà’ percepita, che viene definendosi
solo attraverso le molteplici relazioni che si creano a partire da
un contesto esperienziale, che diventa sempre e costitutivamen-
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 145

te anche un contesto linguistico.


Se la metafora per analogia viene pensata come un tipo di
epagoge cioè come «procedimento che dai particolari porta al-
l’universale»101, il tipo di induzione che si realizza attraverso l’a-
nalogia non è l’estensione di una proprietà a tutti i membri di
una classe a partire da giudizi singolari, ma è piuttosto il proce-
dimento attraverso il quale si arriva a definire una proprietà co-
mune a partire da casi particolari che la esemplificano. L’analo-
gia non esprime semplicemente una comunanza di fatto tra le
cose che il linguaggio deve semplicemente denotare. Qui l’indu-
zione avviene attraverso esempi, dove i significati pregressi o le
categorie ormai codificate sono usati come giudizi particolari;
questi esibiscono una somiglianza percepita che fa da filo con-
duttore per unificare i rapporti che entrano nella analogia, ma
che non può che definirsi attraverso questi rapporti. Tenendo
conto che i concetti di materia e forma sono in Aristotele con-
cetti relazionali, possiamo dire che la metafora per analogia usa i
significati pregressi come materiali per creare una nuova con-
gruenza: la forma che guiderà la messa in relazione di concetti
che nell’uso proprio sono logicamente lontani sarà una forma
della sensibilità, che si correlerà alle categorie della lingua, pro-
ducendo così due livelli semantici che si definiranno in un lega-
me di interdipendenza.
Quello che nella Retorica Aristotele definisce come un caso
di induzione, l’esempio, che sembrerebbe servire solo come ‘rap-
pesentante’ singolare di una verità universale già data e che vie-
ne usato come «testimonianza che implica persuasione»102, di-
venta il modo in cui l’analogia esibisce una comunanza non an-
cora venuta all’evidenza, e che si definirà attraverso l’analogia
stessa.
Nella Retorica Aristotele, dopo aver portato degli esempi
di come la metafora proporzionale «mette le cose davanti agli
occhi», sostiene che «in tutte queste espressioni, a causa dell’a-
nimare l’inanimato, vi è vigore: infatti l’essere svergognati, bra-

101 Topici, I, 12, 105a 12-13.


102 Retorica, II, 20, 1393b-1394a.
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146 Vedere il simile

mosi, ecc. implica energia; e queste qualità sono state applicate


attraverso la metafora proporzionale […]»103.
È importante cercare di capire se tra la nozione di atto co-
me viene usata nella Retorica e il significato cinetico dello stesso
termine dato nella Metafisica vi sia analogia. Questo accosta-
mento può mettere in evidenza dei risvolti semantici del concet-
to di atto, che rimanendo all’interno degli ambiti conoscitivi di
appartenenza non emergerebbero chiaramente, non risultereb-
bero evidenti:
Il nome “atto”, che si connette all’attualità, deriva soprattutto
dai movimenti, e si è esteso anche alle altre cose. L’atto sembra essere
soprattutto movimento, perciò alle cose che non ci sono non si attri-
buisce la capacità di muoversi, ma a esse si riferiscono altri predicati,
per esempio si dice che le cose che non ci sono sono pensabili o desi-
derabili, mentre non si dice che esse sono in movimento, e questo per-
ché, senza essere in atto, sarebbero in atto. Delle cose che non ci sono
alcune sono in potenza, ma non esistono, perché non sono in atto104.
Appare chiaro come la primarietà che Aristotele assegna
all’atto nella definizione della ousia non sia l’attestazione di esi-
stenza di un dato che si dà come presenza compiuta, ma piutto-
sto l’emergere di una presenza che porta con sé la possibilità del
mutamento. La distinzione di potenza e atto è necessaria ad Ari-
stotele per spiegare, in polemica contro gli Eleati e i Megarici,
ciò che appare come il dato fondamentale che caratterizza ogni
esperienza, la realtà del movimento, a partire dalla quale si defi-
niscono la potenza e l’atto come «estasi del movimento»105.

103 Retorica, III, 11, 1412 a.


104 Metafisica, IX, 3,1047a 30-1047b 2. Qui il termine atto, nella sua definizione
cinetica, viene reso con il termine entelechia. Secondo G. Reale la differenza semantica
che molti interpreti hanno individuato tra entelechia ed energeia, ravvisando nel primo
termine il significato di atto compiuto e nel secondo il significato di atto come movi-
mento, non trova un riscontro nei testi, Prefazione al libro IX della Metafisica, Rusconi,
1992.
105 P. AUBENQUE , Le problème de l’être chez Aristote, op. cit., pp. 442-43: «È

dunque giusto dire al tempo stesso che la potenza preesiste all’atto come condizione
della sua attualità, e che l’atto preesiste alla potenza come rivelatore della sua potenzia-
lità […] L’atto e la potenza sono co-originari; questi non sono che delle estasi del movi-
mento; è reale solo la considerazione della potenza e dell’atto in seno al movimento».
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 147

La priorità che il filosofo assegna all’atto o alla forma non


è il tentativo di riproporre un fondamento sovrasensibile sepa-
rato dalla realtà fenomenica. La primarietà dell’atto è qui vista
come l’emergere di una forma o di una esistenza attuale a partire
dalla quale possiamo parlare di possibilità o potenzialità. Il con-
cetto di forma o di eidos ha un evidente legame con il platoni-
smo, ma in Aristotele non assume il significato di una forma in-
telligibile separata; piuttosto ha a che fare con ciò che si manife-
sta della cosa, ciò che noi vediamo, ciò che viene all’evidenza, e
ha un legame stretto con il phainesthai, con ciò che si manifesta
nella presenza modificando la nostra capacità sensitiva106. Il
concetto di atto nella sua definizione cinetica può essere messo
in relazione con una forma107 che il discorso metaforico è in
grado di «porre davanti agli occhi», una forma la cui intelligibi-
lità è legata in modo costitutivo alla sensibilità e al mondo feno-
menico.
La primarietà che Aristotele attribuisce alle nozioni di atto
e causa finale non ha quindi il valore di un’attestazione di acces-
sibilità conoscitiva a un oggetto totale restituito nella pienezza
della sua datità, ma è piuttosto l’affermazione di una priorità
dell’ordine del reale, della sua manifestatività, a partire dalla
quale si danno il pensiero e il linguaggio dell’uomo. E questa le-
galità non è un ordine metafisico stabile, ma mutevole e tempo-
rale, che la conoscenza restituisce attraverso la testimonianza di
una regolarità che si dà a partire da come i fenomeni si sono at-
tuati «per lo più», che diventa a sua volta la predisposizione di
un fenomeno ad attuarsi in un certo modo: una permanenza,
dunque, costitutivamente segnata dalla mutabilità e soggetta al-
l’incombere del caso e della fortuna.

106 Ivi, p. 459. L’autore fa notare che il termine eidos ha un rapporto semantico

evidente con le forme del verbo orao, vedere. «La forma è ciò che noi vediamo della co-
sa, ciò che a noi è di essa più manifesto». L’autore mette in evidenza come Aristotele ab-
bia a volte identificato l’eidos con l’intelligibile, accogliendo la lezione platonica. «Ma
Aristotele, su questo punto come su tanti altri, sarà più vicino all’origine rispetto a Pla-
tone, vale a dire in questo caso all’etimologia».
107 In Metafisica, VIII, 2 e 3, Aristotele usa i termini atto e forma come equiva-

lenti.
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148 Vedere il simile

In questa prospettiva, il linguaggio metaforico, nell’espri-


mere o porre davanti agli occhi una forma che porta con sé l’im-
magine del movimento come «effetto prodotto dalle parole che
rappresentano le cose in azione», diventa una modalità del lin-
guaggio in cui la tensione verso la forma e la compiutezza fa
emergere, contemporaneamente, la natura processuale e dina-
mica dei fenomeni: il concetto di infinito e di potenza riacqui-
stano, così, una loro centralità nella definizione dell’universo
aristotelico, e nel modo in cui questo ordine diventa parola
umana.
Questa natura in movimento del linguaggio appartiene alla
stessa natura di tutti i fenomeni sublunari, che vivono in questa
relazione costitutiva di potenza e atto, dove non esiste pieno
compimento della forma, perché il linguaggio stesso può essere
visto come ciò che è in potenza di divenire, anch’esso è un pro-
cesso inserito nella realtà del movimento, il cui essere è dato
dalla tensione mai superabile di potenza e atto.
Questa analogia tra il concetto di infinito e il linguaggio
metaforico può trovare la sua spiegazione interpretando il lin-
guaggio non più primariamente come strumento pensato in
chiave logico-definitoria, ma ridefinendo le categorie codificate
della lingua come dynameis, come potenze che possono essere
continuamente modificate a partire da forme date nella sensibi-
lità108.
Sicuramente, quando si considerano a livello ontologico i
principi che fondano la realtà, come per esempio ciò che è il be-
ne, per fare riferimento al noto passo dell’Etica Nicomachea,
non si usano definizioni ‘generiche’ o ‘approssimative’, o me-
tafore poetiche, ma le definizioni che ci forniscono le scienze
particolari. Tuttavia:
[...] il bene non è qualcosa di comune secondo un’idea. Ma in
che senso si predica allora il bene? Infatti non assomiglia ai termini
che hanno casualmente lo stesso nome. Ma è dunque omonimo per il

108 Cfr. W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit., pp. 352 sgg. Le analisi del

continuo e dell’infinito sono uno dei momenti più intensi della bella ricognizione di
questo interprete nei libri della Fisica di Aristotele.
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 149

fatto che tutti i beni procedono da un solo bene o a un solo bene con-
corrono? O non è piuttosto per analogia? Infatti quello che la vista è
nel corpo, l’intelletto è nell’anima, eppertanto un’altra cosa lo è in
un’altra109.
L’impossibilità di risalire attraverso astrazioni a una defini-
zione unitaria dei principi riporta alla necessità di mostrare co-
me ogni categoria logico-linguistica, ogni definizione universale,
richieda di essere definita e determinata a partire da esperienze
particolari.
L’essere aristotelico trova la sua espressione in un linguag-
gio che sa denotare quelle somiglianze che si presentano nelle
cose stesse al parlante a partire da situazioni determinate che ar-
ricchiscono e ridefiniscono le categorie semantiche, e non in
una sussunzione del particolare sotto concetti generali. Il lin-
guaggio naturale, dal quale ogni discorso sull’essere prende le
mosse, si fonda su quella essenziale riserva metaforica che è la
capacità di raggiungere una qualche conoscenza generale co-
gliendo somiglianze; ma qui si tratta di un universale ancora in
qualche modo ‘indeterminato’ o ‘approssimativo’110. Ogni di-
scorso sui principi non può che risalire da questo universale ‘in-
determinato’ a un universale concettuale, che regola la multivo-
cità del linguaggio preriflessivo attraverso l’articolazione catego-
riale, determinando ambiti dell’essere all’interno dei quali la di-
namica del linguaggio si stabilizza e confluisce in definizioni che
dovrebbero garantire la verità del discorso scientifico.
Ma anche all’interno di una forte dominanza della logica
definitoria e dell’universalità concettuale, che risale ai principi
delle cose di cui il linguaggio preriflessivo parla, si ritrova, po-
tremmo dire dialetticamente, la multivocità di un essere che non
può che venire pensato e detto se non attraverso un metodo che
procede analogicamente.
Quando Aristotele si interroga sui principi dell’essere, e
quindi deve rendere conto esplicitamente della formazione del

109 Etica Nicomachea, I, 4, 1096b 25-30.


110 Sottolineo nuovamente il fatto che questa indeterminatezza è considerata dal
punto di vista gnoseologico e non ontologico.
02 cap2-81.pdf 20-11-2007 14:07 Pagina 150

150 Vedere il simile

concetto, si pone nell’ambito di un meta-discorso, che articola


attraverso una molteplicità regolata, che è quella categoriale, la
multivocità e polivocità di quello che la logica moderna chiama
linguaggio-oggetto. Il discorso speculativo mostra attraverso
principi il modo in cui l’essere è espresso attraverso le categorie
del linguaggio: l’essere accede alla universalità del concetto at-
traverso modalità determinate dalle categorie. Ma abbiamo an-
che visto come la determinazione concettuale e la stabilità data
all’interno di un ambito categoriale vengano di nuovo rimesse in
gioco nel momento in cui Aristotele cerca di definire una scien-
za dei principi primi, e la regolarità categoriale, attraverso la
quale il filosofo cerca di rappresentare l’essere, riporta a una
unità di riferimento che precede ontologicamente qualsiasi mo-
do in cui si può definire attraverso i modi della predicazione.
In definitiva, il discorso speculativo, articolando lo spazio
proprio che è quello del concetto e delle sue leggi, non può che
riconoscere di nuovo il debito che ogni conoscenza concettuale
e definitoria – insieme al suo movimento aporetico – contrae
verso un’unità non definibile attraverso un procedimento astrat-
tivo, che procede per generi e specie. Dire l’essere per Aristotele
significa muoversi in questo spazio aporetico della conoscenza,
che, da una parte, tende alla fissità concettuale e alla definizione
stabilizzante della episteme; mentre è dall’altra parte vero che il
discorso speculativo, che procede per concetti e definizioni, si
ritrova a dover tematizzare, a partire dall’ambito che gli è pro-
prio, il debito originario che ogni conoscenza concettuale con-
trae continuamente con la particolarità dell’esperienza sensibile.
Si è visto che Aristotele nelle Categorie definisce la sostan-
za come ciò che non si può predicare di altro, facendo riferi-
mento al momento in cui il linguaggio tocca la soglia dell’extra-
linguistico. Per il filosofo si dà conoscenza dell’essere solo attra-
verso le categorie universali espresse dai modi della predicazio-
ne, ma ciò che unisce o fa da filo conduttore, quel pros en, quel
riferimento «ad una unità e ad una realtà determinata»111 ri-
manda a una sostanza prima, la sostanza individuale, di cui non

111 Metafisica, IV, 2, 1003a 33-b10.


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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 151

si dà conoscenza, che sembra trovare il suo primo anello lingui-


stico nel linguaggio ‘impreciso’ della metafora.
La ricerca metafisica aristotelica procede attraverso i signi-
ficati e i principi definiti mediante i singoli ambiti dell’essere, e
quindi si determina in un rapporto dialogico con la logica defi-
nitoria epistemica, ma questa logica definitoria ed epistemica
non è in grado di dire l’unità di riferimento che è la categoria di
ousia. Questa inappropriatezza del linguaggio definitorio riapre
il discorso ontologico a un metodo di pensiero analogico, che
mostra come le categorie e i principi definiti all’interno degli
ambiti categoriali non possano che trovare un’unità a partire da
un riferimento ultimo che è una comunanza precategoriale e ‘in-
determinata’. Unità che ha a che fare con un atto ostensivo del
linguaggio, per cui la regolarità delle modalità categoriali ritrova
il suo centro di attribuzione in una regola implicita, o potrem-
mo dire sensibile, una regola che ha a che fare con quella capa-
cità di cogliere le somiglianze; talento legato in modo primario
alla conoscenza sensibile, e che trova la sua dicibilità in quel ge-
nere flessibile che il linguaggio metaforico esprime. L’aporia di
un essere che è allo stesso tempo sostanza prima, di cui non si
può dare scienza, e sostanza seconda, espressa dalla definizione
per generi e specie, sembra trovare la mediazione tra universa-
lità linguistica e determinatezza ontologica in quel genere che la
metafora rintraccia e che esprime una certa unità112.

112 Cfr. W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit.: «Conoscibile non è per Ari-

stotele l’individuale, ma solo l’universale. Solo la percezione ha a che fare con l’indivi-
duale, ma essa non conduce mai al particolare in quanto particolare, ma lo comprende
sempre sotto un aspetto di universalità […]» (ivi, p. 110, n. 39). Ma ogni conoscenza
procede da un’universalità che non è l’universalità concettuale, ma un’universalità-inde-
terminata. «Il termine katholou, nel senso dell’universale-indeterminato, non costituisce
un concetto ordinario di riflessione, ma sta ad indicare ciò che già precede ogni riflessio-
ne differenziante […]» (ivi, p.112). Secondo Wieland, universale generico e universale
particolare presuppongono già un universale indeterminato nel quale la riflessione può
operare queste distinzioni: quindi è mal posta la domanda, che impegnerà gran parte
della tradizione interpretativa, se Aristotele ponga maggiormente l’accento sull’universa-
le o sul particolare, perché sono concetti che si richiamano reciprocamente e che pre-
suppongono un sostrato al quale possono essere applicati. All’inizio della conoscenza
non sta l’individuale, attraverso il quale non risaliamo per induzione all’universale, o l’u-
niversale generico attraverso il quale noi deduciamo il particolare. Individuale e univer-
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152 Vedere il simile

Il metodo di pensiero di Aristotele – come abbiamo visto –


si definisce a ogni livello della sua ricerca come un metodo in
cui la divisione dei saperi, nonostante una sua eplicitazione pro-
grammatica, non è ancora operativa. Si può così osservare come
la metafora per analogia, teorizzata nell’ambito della poiesis e
del discorso retorico, si fondi su un metodo di pensiero che ca-
ratterizza tutta la ricerca aristotelica. Nella Metafisica il filosofo
annette l’analogia tra i modi in cui le cose si possono dire un’u-
nità:
Inoltre alcune cose costituiscono un’unità secondo il numero, al-
tre secondo la specie, altre secondo il genere, altre secondo proporzio-
ne. Costituiscono un’unità secondo il numero quelle che hanno un’u-
nica materia, secondo la specie, quelle che hanno un’unica definizione,
secondo il genere quelle che rientrano nella medesima categoria, se-
condo proporzione quelle che stanno come una cosa rispetto ad un’al-
tra113.
Nel libro IX Aristotele, dopo aver definito cineticamente
l’atto, passa alla sua definizione ontologica, ma questa risulta
possibile solo attraverso analogie ricavate da esempi particolari.
Ciò che intendiamo dire risulta chiaro con un’induzione sui casi
individuali, e del resto non bisogna cercare la definizione di ogni cosa,
ma bisogna anche cogliere le cose mediante analogia: chi costruisce sta
a chi è capace di costruire, come chi è sveglio sta a chi dorme, chi
guarda sta a chi chiude gli occhi pur avendoli, ciò che è ricavato dalla
materia sta alla materia, e come ciò che è modellato sta a ciò che non
lo è. […] L’essere in atto non si dice di tutte le cose allo stesso modo,
ma piuttosto per analogia: come una cosa è in una certa cosa o in rela-
zione a una certa cosa, così un’altra cosa è in un’altra cosa o in relazio-
ne a un’altra: alcuni atti sono come il movimento rispetto alla potenza,
altri come la sostanza rispetto a una materia114.
Il carattere relazionale e analogico di potenza e atto rie-

sale sono risultati della riflessione. All’inizio del cammino della conoscenza quello che ci
viene dato è un universale-indeterminato, a partire dal quale è possibile distinguere e ri-
chiamare vicendevolmente particolare e universale generico (ivi, pp. 113 sgg.).
113 Metafisica, V, 6, 1016b 30-35.
114 Metafisica, IX, 6, 1048a 35-1048b 8.
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 153

merge con particolare evidenza in un capitolo che tratta di que-


sti concetti in termini essenziali, ma che viene dopo la trattazio-
ne cinetica di essi. Le definizioni essenziali di potenza e atto qui
non sono altro che il risvolto ontologico della realtà del movi-
mento, a partire dalla quale questi due concetti si possono defi-
nire solo in termini di relazioni tra stadi di un processo; dove il
concetto di atto è legato indissolubilmente a quello di movimen-
to e non all’idea di attuazione piena di una forma che si dà co-
me stabile e immutabile. Atto e potenza si definiscono, quindi,
in una dinamica relazionale, come momenti di volta in volta de-
terminati di un processo: ci si approssima all’essere attraverso
casi particolari, attraverso un processo di ‘induzione’ (epagoge)
che può trovare il suo metodo di ricerca nei rapporti analogi-
ci115. L’analogia, quindi, diventa il metodo di ricerca ontologica
adeguato a un essere che si dà primariamente nella realtà del
movimento: attraverso questo procedere, la scoperta dell’uni-
versale non diventa impoverimento dell’essere, depurazione dal-
la complessità per raggiungere un’essenza stabile, ma piuttosto
ricerca di un ordine che si carica di significati determinati e
molteplici, di un’unità che non annulla la complessità, ma la evi-
denzia ricercando nello stesso tempo dei principi esplicativi.
Attraverso il linguaggio metaforico e il metodo dell’analo-
gia, Aristotele scopre un modello epistemico non più fondato
sull’idea di un rapporto univoco tra linguaggio e sostanza, ma
un procedimento che può dar conto esemplarmente della ten-
sione tra la molteplicità dei significati dell’essere e la sua unità,
del suo essere contemporaneamente equivoco ed univoco, del re-
ciproco dischiudersi del linguaggio verso la specificità dei feno-
meni e la loro universalità. Questo modello, quindi, non è la
scoperta di una struttura logica esplicativa di un ordine metafi-

115 A. CAZZULLO , La verità della parola, op. cit., p. 207, sostiene che l’unità per

analogia e insieme quella della metafora sono il grande fastidio di Aristotele, in quanto
fanno traballare la fissità della costruzione razionale al suo interno nel suo principale ac-
cadere. Tale unità, trasgredendo la fissità delle categorie, le muove, accostando cose che,
per il sapere razionale, per il nostro logos logico, non devono stare insieme. Essa infatti
si fonda su una mera «somiglianza» delle cose tra loro e non sull’identità del riferimento
al fisso principio di unità del molteplice (la sostanza, l’ousia).
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154 Vedere il simile

sico in cui rientrerebbero pensiero, linguaggio e cose, dove l’or-


dine e la connessione delle idee sarebbero lo stesso che l’ordine
e la connessione delle cose, dove non ci sarebbe più scissione
tra le cose e la loro definizione linguistica, ma piuttosto porta al-
lo scoperto una necessità costitutivamente segnata dalla contin-
genza, legata a un linguaggio che trova il suo riferimento ontolo-
gico non nella sua possibilità di denotare univocamente una so-
stanza, ma in un genere che esprime la tensione tra determina-
tezza della sostanza individuale e l’universalità delle forme della
predicazione. Il linguaggio per Aristotele denomina una realtà
che trova la sua libertà dalle parole nel suo essere una sostanza
individuale, unità di potenza e atto, di materia e forma. Il carat-
tere ontologico del linguaggio non si definisce nel suo proiettar-
si su una materialità informe che verrebbe strutturata e costruita
a partire da leggi linguistiche. Tuttavia, il filosofo è consapevole
che l’essere si dice in molti modi, che nonostante il limiti attivi e
passivi che esso pone alla nostra capacità di tradurlo in linguag-
gio, noi possiamo pensarlo solo attraverso di esso e le sue forme
universali. Il movimento del linguaggio che si mostra nella me-
tafora proporzionale è una dinamica che porta con sé il riferi-
mento all’extralinguistico, come un ‘dato’ che guida il movi-
mento del linguaggio nella sua espansione concettuale e che,
nello stesso tempo, può trovare la sua definizione solo all’inter-
no della stessa dinamica della concettualità linguistica.
L’essere delle cose è unità di potenza e atto, ma abbiamo
anche visto che per Aristotele l’ordine è un ordine in movimen-
to in cui non esistono atti perfettamente compiuti. In questo or-
dine ogni atto porta in sé una potenza da dispiegare e ogni po-
tenza ha in sé un atto già in parte realizzato. Il linguaggio si in-
scrive in questo ordine, aprendo all’uomo la possibilità di sco-
prire la sua intrinseca molteplicità, che gli è accessibile solo in
quanto animale linguistico116, ma la parola assume, al tempo
116 Nella Storia degli animali, IV, 9, 535a 26 sgg., Aristotele sostiene che ciò che

caratterizza il linguaggio umano rispetto alle forme proprie degli altri animali è il suo ca-
rattere articolato, dialektos. Così commenta P. Aubenque questo passo in Aristotele e il
linguaggio, op. cit., p. 24: «il linguaggio articolato, per il fatto di non essere naturale, ma
acquisito, dipende dalle tradizioni che sono differenti a seconda dei popoli. Dialektos, è
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 155

stesso, il compito di rispondere a un’esigenza di totalità e di


compiutezza, che il dischiudersi della molteplicità porta come
suo risvolto inevitabile.
Quel «mettere le cose davanti agli occhi», che esprime il
«vigore» e l’«energia» delle cose in movimento, prodotto dalla
metafora non è il gioco immaginario di un soggetto creatore, ma
ha a che fare propriamente con la soglia sensibile del linguaggio,
dove il linguaggio ‘rappresenta’ qualcosa che fonda la rappre-
sentazione stessa e che lo vincola. Se il processo conoscitivo è,
come ogni altro ordine, un processo teleologico, dove la defini-
zione di un fenomeno avviene all’interno di un ambito catego-
riale in cui acquista una determinata funzione, il momento in
cui si individua il genere attraverso il processo analogico espri-
me una unità transcategoriale, che può essere letta come l’anello
di congiunzione, il momento di passaggio, il luogo di tensione
tra esperienza sensibile e momento linguistico-intellettuale, tra
quell’essere come sostanza individuale e i modi della predicazio-
ne attraverso i quali il linguaggio dice quel riferimento all’uno.
Per Aristotele la conoscenza umana non è momento di supera-
mento della realtà sensibile e riduzione di questa all’unità, ma è
radicata in essa: tale appartenenza si caratterizza primariamente
come capacità dell’anima di far emergere da questo ordine la
sua natura molteplice e complessa, e non come ricerca in esso di
una istanza unificatrice trascendente. Il vincolo primario che la
sostanza individuale pone alla conoscenza umana, e alle sue mo-
dalità linguistiche, è un vincolo che si inserisce in una dinamica
relazionale e temporale in cui viene allo scoperto la molteplicità
del suo articolarsi in riferimento a quel vincolo originario. La

in questo senso il dialetto, la lingua, di cui un passo dei Problemi, contrappone la varia-
bilità all’unità specifica della “voce”: Toy anthropoy mia phone alla dialektoi pollai. Ari-
stotele non ignorava dunque la molteplicità delle lingue, e la connette al fatto che l’uo-
mo non è soltanto un prodotto della natura, ma anche della civiltà, un “animale politi-
co”. In questo modo il rapporto tra il linguaggio e la città viene ad essere duplice; se la
possibilità che hanno gli uomini di comunicare tra loro è il fondamento del rapporto so-
ciale – tale è il senso del passo della politica – il linguaggio, per il fatto di aver luogo nel-
l’ambito di comunità finite e molteplici, deve di necessità acquistare un certo grado di
pluralità. La città è nello stesso tempo il prodotto del linguaggio e la causa della plura-
lità delle lingue».
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156 Vedere il simile

consapevolezza che ogni riflessione ontologica non può che pro-


cedere attraverso i modi in cui l’essere si dice non si traduce nel
pensiero aristotelico nella convinzione che la parola abbia un
valore disvelativo, che essa nominandolo faccia apparire l’essere
delle cose, ma neppure, all’opposto, nell’idea che il linguaggio
sia semplicemente uno strumento nomenclatorio di una realtà
che si costituisce in modo definitivo già prima della sua espres-
sione linguistica; piuttosto, questa consapevolezza si risolve nel-
la fiducia che attraverso la linguisticità, propria dell’uomo come
animale che progetta il proprio futuro, egli possa scoprire la
molteplicità in cui si apre l’essere, ma, al tempo stesso e para-
dossalmente, attraverso il linguaggio ritrovare la sua unità sem-
pre provvisoria.
Il rapporto tra essere e linguaggio in Aristotele è un rap-
porto di immanenza e trascendenza insieme. La libertà del lin-
guaggio dal suo aderire perfettamente a un mondo di essenze
già date sta proprio in questa scoperta della molteplicità degli
ordini del mondo, dove il linguaggio si inserisce scoprendo per-
corsi di ricomposizione. Ad Aristotele era estranea l’idea, che
per noi moderni è diventata così familiare, di un linguaggio pen-
sato unicamente nella sua dimensione intersoggettiva, che vive
un’autonomia pressoché assoluta rispetto all’oggettività del rea-
le. La nostra libertà di esseri linguistici, per il filosofo è legata al-
la capacità di radicarci ancora più a fondo nel mondo sensibile
attraverso il linguaggio, perché attraverso questo è possibile sco-
prire la sua complessità e cogliere la ricchezza della differenza.
Nel De Sensu (437 a 15) il filosofo, riflettendo sul rapporto tra
udito (condizione fisiologica del linguaggio) e vista, evidenzia la
diversa incidenza che i due sensi hanno nello sviluppo dell’intel-
ligenza: «perciò i ciechi sono più intelligenti dei sordomuti».
Aristotele considera i sensi come capacità di discriminare, per
cui ogni senso speciale ‘giudica’ (krinein), cioè avverte le diffe-
renze del proprio oggetto sensibile: la sensibilità non è una mol-
teplicità informe, ma è la dynamis che ci permette di cogliere le
forme sensibili. E spesso Aristotele mette in relazione il maggio-
re o il minore grado di capacità ‘giudicante’ dei sensi con la
maggiore o minore capacità di pensiero.
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La mimèsi poetica all’interno della divisione dei saperi 157

La realtà per Aristotele è primariamente data da essenze


individuali, e non certo da una molteplicità informe sulla quale
il linguaggio proietta le sue strutture. Ma questi sinoli di materia
e forma sono entità in movimento e in relazione, dove si posso-
no riconoscere delle identità solo in quanto si definiscono attra-
verso le fasi del loro procedere teleologico, e riconosciamo que-
ste fasi solo attraverso una comparazione con altre essenze.
L’ousia non è conoscibile attraverso un atto diretto del vedere,
al quale il linguaggio darebbe semplicemente la veste fonica, ma
volgendo lo sguardo verso qualcos’altro, qualcosa di diverso, in-
serendo quell’‘oggetto originario’ in un insieme di relazioni e di
comparazioni dove entra necessariamente anche l’ambito lingui-
stico. Lo sguardo esperto del sapiente raggiunge la sua eccellen-
za attraverso questo esercitarsi «soprattutto riguardo agli oggetti
assai divergenti tra loro [...] sarà così più facile per i rimanenti
di scorgere in complesso le somiglianze». La forma o l’atto di
una cosa si può cogliere solo in un processo in cui questa forma
si dà nella sua privazione e nel confronto con altri esseri.
Il linguaggio metaforico diventa così quel linguaggio in
movimento, immagine del movimento delle cose, che Omero sa-
peva usare magistralmente: nella Retorica Aristotele afferma che
«egli infatti rende mobili e viventi tutte le cose; e il vigore è mo-
vimento»117.
Vediamo allora che il problema di stabilire se la metafora
proporzionale sia il tipo di metafora più fondamentale, al quale
si possono ricondurre tutti gli altri tipi di metafora, o se questa
si affianchi ad altre tipologie del linguaggio metaforico non ri-
ducibili a essa, non è una questione del tutto rilevante a livello
di analisi ontologica e gnoseologica118: «ogni specie di metafora

117 Retorica, III, 11,1412a.


118 Il problema potrebbe essere rilevante se distinguessimo la metafora concet-
tuale-sintattica e metafora lessical-eidetica o immagine-parola, come fa per esempio
Morpurgo sostenendo che il pro ommaton, il mettere le cose davanti agli occhi, nella pri-
ma ha il significato di enargeia, di evidenza, mentre nella seconda ha il significato di
energeia, di animazione e movimento. Questa distinzione avrebbe senso se si definisse
l’analogia come un processo puramente astrattivo, ma se si rintraccia in esso un proces-
so che ha la sua origine nella sensibilità, questa distinzione diventa superflua.
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158 Vedere il simile

richiede un principio analogico di trasposizione semantica»119,


principio che definisce fondamentalmente il metodo del sapere
aristotelico. Se l’analogia può essere letta come un processo co-
noscitivo che mostra eminentemente l’identità-differenza del-
l’essere degli enti sensibili, in grado di esprimere quell’universa-
lità determinata e soggetta al mutamento che sembra rappresen-
tare il senso più autentico dell’essere aristotelico, per compren-
dere più originariamente su che cosa si fondi quell’unità nella
molteplicità, questo processo che insieme generalizza e determi-
na definendo universali empirici, occorre mettere in relazione il
carattere ontologico dell’analogia con i suoi risvolti epistemolo-
gici. Esiste una dynamis dell’anima capace di fondarla, a livello
di considerazione epistemologica, più originariamente rispetto
all’attività dell’intelletto, che potrebbe darne conto solo nei ter-
mini di un processo di riduzione all’uno, come ha fatto la scola-
stica?
Vedremo nel prossimo capitolo come il linguaggio metafo-
rico si possa definire un tipo di linguaggio capace di esibire una
forma o un meccanismo della sensibilità in grado di convertire e
di relazionare i diversi registri percettivi.
Il linguaggio metaforico si carica di una forte componente
sensibile, che sembra diventare la modalità attraverso la quale
l’universale linguistico ‘esprime’ la componente sensibile e de-
terminata della sostanza individuale: oltre questa soglia lingui-
stica

Aristotele sa bene che non c’è conoscenza e nessun modo


di pensare l’essere.

119 E. MELANDRI, La linea e il circolo, op. cit., p. 371.


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Capitolo Terzo
LA METAFORA L’ANIMA E LE COSE

Sommario
3.1. Pro ommaton poiein e metafora dei sensi – 3.2. Metafora:
scoperta versus creatività – 3.3. La soglia tra linguistico ed ex-
tralinguistico: phantasia aisthetike e phantasia bouleutike
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Abbiamo visto nel primo capitolo come collocare all’inter-


no dell’ontologia aristotelica il problema del linguaggio metafo-
rico, e in che modo questo possa essere letto come una sorta di
crocevia che permette di ridefinire l’aporia tra sostanza prima e
seconda come una ‘dialettica’.
Nel secondo capitolo si è cercato di sviluppare o di artico-
lare in modo più analitico il modo in cui Aristotele ha pensato il
concetto di mimesis nei suoi risvolti ontologici, gnoseologici ed
etici, evidenziando il posto che all’interno dell’idea generale di
imitazione occupa il tema del linguaggio metaforico.
In questa ultima fase del lavoro, si cercherà di collocare il
problema della mimesis metaphorike in una prospettiva in cui
gli aspetti ontologici verranno evidenziati nel loro risvolto epi-
stemologico. Mettere in primo piano queste istanze non signifi-
ca ridurre la visione aristotelica del linguaggio metaforico a una
prospettiva soggettivistica, ma piuttosto mostrare come attraver-
so la dottrina dell’anima il filosofo individui meccanismi cono-
scitivi in grado di dar conto del linguaggio metaforico nella sua
fondamentale valenza ontologica. Il tentativo è quello portare
all’evidenza, attraverso questa complementarità di epistemolo-
gia, etica e ontologia, un più profondo livello esplicativo che
permetta di ripensare produttivamente le aporie che caratteriz-
zano l’ontologia aristotelica. Per Aristotele la teoria dell’anima
definisce nello stesso tempo una ratio cognoscendi, cioè è una
teoria della conoscenza del mondo, e un modus essendi, vale a
dire un modo in cui l’ordine del mondo è dato con la sua intelli-
gibilità, e quindi è sempre anche una teoria metafisica1.

1 Nel primo capitolo si è evidenziata la prospettiva ontologica in cui Aristotele


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162 Vedere il simile

Collocare la questione della mimesis metaforica nella pro-


spettiva della dottrina dell’anima è un problema che può essere
immediatamente affrontato attraverso una manovra teorica che,
in via preliminare, non fa altro che attestare l’identità tra l’e-
spressione che Aristotele usa nel De Anima per designare l’atti-
vità di produrre immagini, come una capacità di «raffigurarsi
qualcosa davanti agli occhi», e la definizione della metafora nel-
la Retorica come un «porre le cose davanti agli occhi»2:
L’immaginazione è infatti diversa sia dalla sensazione sia dal pen-
siero, però non esiste senza sensazione, e senza di essa non c’è appren-
sione intellettiva. […] Questa affezione infatti dipende da noi, quando
lo vogliamo (è possibile infatti raffigurarsi qualcosa davanti agli occhi,
come fanno coloro che dispongono le cose nei luoghi mnemonici e si
costruiscono delle immagini), ma avere un’opinione non dipende da
noi, poiché necessariamente con essa o si è nel falso o nel vero. Inoltre,
quando siamo dell’opinione che una cosa è paurosa o temibile, provia-
mo immediatamente l’emozione corrispondente, e così pure quando
riteniamo che una cosa è rassicurante, mentre nel caso dell’immagina-
zione ci troviamo in una situazione analoga a quella di vedere cose te-
mibili o rassicuranti in un dipinto3.
Il passo presenta una densità problematica notevole, e
apre la possibilità a interpretazioni non del tutto lineari, e in
parte anche incongruenti.
Il primo punto da rilevare di questa argomentazione, che
prosegue il nostro primo movimento interpretativo, è che l’atti-
vità di «porre le cose davanti agli occhi» è propria di una facoltà
dell’anima diversa dalla aisthesis e dal nous, alle quali solitamen-
te Aristotele attribuisce il compito di produrre conoscenza, in
quanto «l’intelletto è la forma delle forme e il senso la forma dei
colloca la dottrina dell’anima. Ricordo a questo proposito il noto passo del De Anima,
Γ8, 431b 20, in cui il filosofo afferma: «[…] l’anima è in certo modo tutti gli esseri. […]
la facoltà sensitiva e quella intellettiva dell’anima sono in potenza questi oggetti, la pri-
ma il sensibile e la seconda l’intelligibile. Tali facoltà devono essere identiche o alle cose
stesse o alle loro forme».
2 L’espressione che Aristotele usa nel passo sopra riportato del De Anima è
«pro ommaton gar esti poiesasthai», mentre nella Retorica III, 11, 1412a è «pro ommaton
poiein».
3 De Anima, Γ3, 427b 15-24.
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La metafora l’anima e le cose 163

sensibili»4. Questa dynamis, la phantasia, si situa nello spazio li-


minare tra sensazione e pensiero, svolgendo – almeno secondo
le prime affermazioni contenute in questo passo – una chiara
funzione cognitiva, in quanto «senza di essa non c’è apprensio-
ne intellettiva».
Tuttavia, nella stessa pagina, il filosofo la contrappone al-
l’opinione «poiché necessariamente con essa [l’opinione] o si è
nel falso o nel vero». Poche righe più sotto afferma: «Se allora
l’immaginazione è ciò mediante cui diciamo che si produce in
noi un’apparenza […] essa è una delle facoltà o abiti con le qua-
li giudichiamo e siamo nel vero o nel falso».
È evidente che si tratta di due prospettive diverse a partire
dalle quali Aristotele affronta il problema del vero e del falso.
Nel primo caso, distingue la phantasia dalla doxa considerando-
la dal punto di vista della capacità di decidibilità di vero e
falso5. Qui il vero e il falso sono considerati a livello di giudizio,
quindi dal punto di vista della logica argomentativa, come risul-
tato di un procedimento controllabile attraverso delle regole
formali ed esplicite, che in questo caso sono le leggi del sillogi-

4 Ivi, Γ8, 432a 2. Per Aristotele queste due facoltà sono discriminatrici in
quanto ciascuna ‘giudica’ ossia avverte le differenze del proprio oggetto. Il senso ap-
prende le forme sensibili e l’intelletto quelle intelligibili. L’affermazione che l’anima ap-
prende l’eidos e non la materia è diretta contro i fisiologi. Cfr. R. D. HICKS, Aristotle, De
Anima, University Press, Cambridge 1907, p. 542; pp.544-45.
5 L’argomentazione che riguarda la distinzione tra doxa e phantasia è una chia-
ra risposta alla filosofia di Platone, che lega la doxa alla conoscenza sensibile, attestando
in questo modo il valore inessenziale di questo tipo di conoscenza. Il valore che invece
Aristotele attribuisce alla doxa è qui sottolineato e avvicinato alla verità della scienza. M.
C. NUSSBAUM, La fragilità del bene, op. cit., pp. 457-59, sottolinea che il significato attri-
buito dai due filosofi a questo termine è emblematico della distanza che segna il loro
pensiero. L’autrice mette in evidenza come nel sesto libro della Repubblica, Socrate, at-
traverso Platone, si pronunci contro ogni metodo che rimanga dentro il punto di vista
umano ed esorta ad abbandonare le concezioni condivise degli uomini che rimangono
nell’ambito della mera apparenza. Per l’epistemologia greca prearistotelica l’«apparen-
za» è l’opposto del vero e del reale. «In Aristotele, come anche nei suoi predecessori, in-
vece della netta separazione baconiana tra dati rilevati e credenze comuni, troviamo una
vaga e inclusiva nozione di esperienza, ovvero del modo o dei modi con cui un osserva-
tore vede, “coglie” il mondo, usando le sue facoltà cognitive (che da Aristotele vengono
chiamate tutte kritika, “riguardanti la capacità di fare distinzioni”). Questo è, secondo
me, il significato del discorso aristotelico sui phainomena» (ivi, p. 462).
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164 Vedere il simile

smo dialettico. Quindi questa affermazione è riconducibile al


passo di Metafisica, E, 1027b 25-1028a 2, dove Aristotele affer-
ma che il falso e il vero sono nel pensiero, e in questa prospetti-
va considerati primariamente da un punto di vista logico.
Quando più sotto il filosofo parla di vero e di falso non sta
argomentando dal punto di vista della verificazione di una pro-
posizione già data, ma connette il vero e il falso al ruolo che la
phantasia ha nella produzione della intenzionalità. Qui il giudi-
zio non è da intendersi nel senso della proposizione linguistica,
ma piuttosto nel senso di quel to krinon, ciò che giudica, come
capacità discriminante o capacità kritiké che produce delle for-
me, ha una funzione conoscitiva e concorre alla produzione dei
significati6. In questa prospettiva Aristotele si sta chiedendo co-
me si formano le «apprensioni intellettive» o, per meglio dire,
come si formano quei concetti e quei giudizi che poi sottoponia-
mo a prova di verità. In questo caso verità e falsità hanno un si-
gnificato primariamente gnoseologico, in quanto si riferiscono

6 L’idea che l’immaginazione sia una facoltà in grado di giudicare è sostenuta


da Hicks, op. cit., p. 125; 427b-428 a, da R. LAURENTI, Aristotele, Dell’Anima, Il Tripo-
de, Napoli-Firenze 1970, pp. 163-64. D. ROSS, Aristotele, op cit., pp. 139-41, di diverso
avviso, afferma che la phantasia non è una facoltà critica e la considera una sorta di atti-
vità che ostacola la conoscenza; cfr. anche su questa linea interpretativa D. W. HAMLYN,
Aristotle’s De Anima Book II and III, Clarendon Press, Oxford 1968, p. 53. Aristotele ri-
conduce in Γ3 (428a 2-428a 7) il termine phantasia una volta al termine «apparenza»
(phantasma) e «apparire» (phainesthai) e un’altra volta (429 a 3) alla luce (phaos) soste-
nendo: «la vista è il senso per eccellenza, l’immaginazione (phantasia) ha preso il nome
dalla luce (phaos) giacché senza la luce non è possibile vedere». Gli interpreti che hanno
insistito sul valore illusorio dei prodotti della phantasia (Cfr. M. SCHOFIELD, Aristotle on
the Imagination, in Essay on Aristotle’s De Anima, op. cit., p. 452, che parla di «espe-
rienze sensoriali non ordinarie», o il già citato R. LEFEBVRE e M. C. NUSSBAUM o D.
ROSS che la riconducono nell’orbita della percezione, non assegnandole quindi nessun
ruolo autonomo, e interpretandola come la parte attiva della aisthesis) non hanno dato
importanza all’acquisizione che emerge dal duplice significato del termine phantasia. La
luce (phaos) connessa alla verità non può che porre alla vista apparenze che portano con
sé la possibilità dell’errore. I passi in cui Aristotele connette questa attività a delle rap-
presentazioni ingannevoli ed illusorie non possono essere scissi da quelli in cui lo stesso
filosofo parla di queste attività come momenti fondamentali per produrre conoscenza. I
prodotti della phantasia sono in alcuni momenti della trattazione aristotelica caratteriz-
zati dalla passività riproduttiva e dalla patologia, come sindromi del carattere, ma questo
è uno degli aspetti della phantasia che può creare anche certi prodotti (cfr. De Anima,
Γ3, 428a 4 sgg.; 429a 2-10).
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La metafora l’anima e le cose 165

alla capacità che ha la phantasia di discriminare un oggetto, di


riconoscerlo, attraverso un legame di stretta dipendenza dall’ai-
sthesis, e di renderlo apparente alla conoscenza.
Ma questo mostrarsi o apparire dell’oggetto porta con sé
costitutivamente la possibilità dell’errore, che si insinua a livello
antepredicativo, e quindi non filtrabile attraverso regole di con-
trollo intellettuali ed esplicite.
L’atteggiamento che accompagna la ricerca aristotelica è
caratterizzato dalla fiducia nella possibilità di restituire un ordi-
ne razionale del mondo.
Ma questa disposizione razionale non è un sistema metafi-
sico scisso dal legame con il mondo fenomenico, bensì un ordi-
ne segnato dalla contingenza e mutevolezza propria degli esseri
sensibili: il mondo sublunare si dà nella realtà evidente e inde-
fettibile del movimento e della caducità, che, paradossalmente,
nega ogni possibilità di restituire qualsiasi altra evidenza e im-
mediatezza sull’essenza dei fenomeni.
La legalità teleologica, che definisce la struttura processua-
le e in divenire degli esseri sensibili, non si svolge secondo una
logica deterministica, ma prevede costitutivamente l’irrompere
del caso e della fortuna (intesi, come si è sottolineato, nel senso
non della mera mancanza di relazione causale o di ordine fonda-
tivo). In questo universo mutevole e molteplice, l’errore entra
come fattore ineliminabile della conoscenza, che può ritrovare
la sua immediatezza solo attraverso una serie infinita di media-
zioni.
La conoscenza non è un atto di apprensione intellettuale
che coglie immediatamente delle forme immutabili astratte dalla
molteplicità accidentale, ma è un processo interno alla comples-
sità e mutevolezza del mondo sensibile, un processo che si svi-
luppa per tentativi, per gradi, per approssimazioni, e quindi es-
senzialmente segnato dalla fallibilità. La necessità di rintracciare
una legalità del mondo, sia naturale che umano, si fonde sem-
pre, nella ricerca aristotelica, con l’esigenza di mantenere il pen-
siero entro i limiti dell’esperienza umana con le sue mancanze,
le opacità e le sue fallacie: ciò emerge in maniera esemplare nel
racconto tragico, la cui verità si costituisce a partire dalla centra-
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166 Vedere il simile

lità dell’hamartia7. L’errore tragico evidenzia propriamente que-


sta dialettica che si istituisce tra ordine e caso, tra razionalità e
fortuna, poiché mostra come la scelta deliberata, il desiderio di
autodeterminazione dell’uomo, la tensione verso il dominio del-
la contingenza, la fiducia in una conoscenza che renda il più
possibile trasparente l’ordine delle cose siano sempre interni al-
l’essere radicato dell’uomo nella realtà sensibile, in una trama di
fenomeni e di circostanze in cui sia la conoscenza teoretica, sia
la saggezza pratica sono inserite8. «Noi cresciamo e viviamo» in
questo mondo della molteplicità e delle cose corruttibili: il com-
pito della ricerca umana rimane perennemente consegnato alla
necessità di scoprire e restituire un ordine che si mostra sempre
a partire da uno sguardo interno al mondo fenomenico. Dice
Aristotele: «per le cose corruttibili, [rispetto alle realtà eterne],
sia piante che animali, sono a nostra disposizione più ampie
7 Considerare la trattazione della tragedia come momento dimostrativo del
problema dell’errore, che può essere esteso anche alla conoscenza scientifica è, mi sem-
bra, giustificato dalla trattazione che si è svolta in precedenza. Su questo problema si
confronti anche E. Belfiore, Il piacere del tragico, op. cit., pp. 71-73, la quale sostiene che
«l’intrigo tragico assomiglia alla systasis di tipo biologico». La sostanziale unità che carat-
terizza il metodo del sapere aristotelico, che, come abbiamo più volte sottolineato, pro-
cede in modo dialettico, non autorizza tuttavia a identificare sapere teoretico e pratico.
8 Questa tensione (tipica della cultura greca antica) mai risolvibile, che tiene
insieme, da una parte, l’esperienza della finitezza umana, del nostro essere esposti alla
fortuna, alla fragilità e alla vicissitudine e dall’altra la ricerca di autodeterminazione e di
dominio della contingenza, è messa in luce in maniera particolarmente persuasiva e raf-
finata da M. C. NUSSBAUM, La fragilità del bene, op. cit., la cui analisi prende le mosse
da un’ode di Pindaro, Nemea VIII: «Ma cresce l’umana eccellenza,/ come si slancia la
vite, da verdi rugiade nutrita,/ tra gli uomini saggi e tra i giusti/ levandosi all’etere liqui-
do./ Vario è il bisogno che hai dell’amico:/ supremo nei triboli; ma brama la gioia/ an-
che posare gli occhi su un uomo sicuro» (ivi, pp. 37 sgg.). L’autrice sostiene che l’eccel-
lenza della persona è qualcosa che cresce nel mondo, esposta e vulnerabile, qualcosa che
cresce e diventa, che si acquisisce nel tempo e che si forma continuamente, non qualcosa
di puramente autosufficiente e razionale. Cfr. in particolare la Prefazione Etica e fortuna,
pp. 45 sgg. Cfr. anche D. G UASTINI, Prima dell’estetica, op cit., p. 101. L’autore si chiede
le ragioni per cui solo l’errore può stare a fondamento dei fatti tragici. Perché per Ari-
stotele l’errore ha una valenza etica che non possiedono nello stesso grado il fatto del
tutto accidentale, o l’ingiustizia deliberata. La hamartia si pone all’incrocio tra scelta de-
liberata e fatalità e si istituisce quindi in un rapporto di circolarità tra scelta e destino.
L’errore manifesta la natura contingente dell’agire umano, l’incapacità dell’eroe tragico
di fronteggiare le situazioni straordinarie in cui si viene a trovare quasi mai per propria
decisione.
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La metafora l’anima e le cose 167

fonti di conoscenza, perché noi cresciamo e viviamo fra esse».


All’uomo non è dato accedere alla conoscenza degli ordini del
mondo attraverso uno sguardo che lo avvicina al divino, cosa
che gli renderebbe facilmente accessibili anche gli enti incorrut-
tibili, di cui invece «abbiamo una conoscenza ridotta, perché
soltanto poche delle loro manifestazioni sono accessibili alla no-
stra percezione»9. Il suo sguardo distanziante o ‘oggettivante’ si
fonda su un primario radicamento e appartenenza alla dimen-
sione sensibile, che definisce la conoscenza come un risalimento
interno di ordini dell’esperienza, che lo sguardo esperto dell’uo-
mo di scienza e la saggezza (phronesis) dell’uomo virtuoso pos-
sono effettuare attraverso la presenza ineludibile dell’errore. Il
piacere della conoscenza nasce anche dall’accettazione di questo
limite, giacché esso non è il limite provvisorio e superabile una
volta per tutte dal pensiero umano, che tende alla completa tra-
sparenza dell’essere delle cose, ma è la sua sfida costitutiva, che
continuamente si ripropone. La meraviglia, lo stupore (thauma-
ston), che caratterizza l’atteggiamento del filosofo rispetto al
mondo, non si fonda sulla ricerca e sulla scoperta di una realtà
divina o sovrasensibile da contemplare, superando la corruzione
del mondo sensibile, ma nella fiducia che la conoscenza umana
potrà sempre ritrovare o scoprire una legalità o un ordine razio-
nale ulteriore, capace di rispondere alle continue ‘domande’ che
il mondo fenomenico pone alla conoscenza: il pensiero umano
in questo senso è adeguazione a un ordine intelligibile che ha na-
tura ontologica10. Per questo, l’hamartia è pensata da Aristotele
non semplicemente come l’incombere della fortuna, intesa co-
me puro caso, come ciò che è senza causa nell’azione umana, o
l’aprirsi di una dimensione destinale di cui l’uomo non dispone.
La tyche e l’ automaton segnano il mondo naturale e quello
umano in quanto realtà che procedono teleologicamente secon-
do fasi e cause molteplici, le quali possono risultare del tutto di-
verse rispetto a una presunta evidenza, o rispetto a ciò che si
9 De Partibus Animalium, 1, 5. Anche qui Aristotele ripete che una qualsiasi
comprensione di ciò che è divino ed elevato non può che passare attraverso la dimensio-
ne della sensibilità.
10 Cfr. D. G UASTINI , Prima dell’estetica, op. cit., pp. 12-13.
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168 Vedere il simile

prefigura secondo regole definite del sapere della tradizione,


delle opinioni condivise, della legalità dei topoi, un sapere testi-
moniato dalla autorità del passato. L’errore, in questo caso, è al
tempo stesso una condizione ineliminabile della nostra cono-
scenza e una responsabilità umana, poiché la ricerca aristotelica
muove sempre dalla fiducia nel fatto che l’intelligibilità del
mondo sia un orizzonte in qualche modo garantito: anche se è
sempre in movimento, e l’uomo è continuamente chiamato a ri-
definire in esso la propria conoscenza.
L’ignoranza delle circostanze in cui l’eroe tragico si trova
ad agire fa parte dell’esistenza umana e della sua costitutiva vul-
nerabilità, e quindi in parte definisce una condizione destinale
dell’uomo; ma la fiducia che Aristotele ripone nella possibilità
di ricostruire continuamente la congruenza e la compiutezza
della prassi umana, e più in generale della conoscenza del mon-
do, connota l’hamartia di una componente di responsabiltà, co-
nessa alla mancanza di phronesis11. Questa componente etica si
dà solo se si parte dall’assunzione di una possibilità sempre
aperta al pensiero umano di accedere alla legalità del mondo
sensibile.
L’emergere dell’errore come momento fondamentale della
verità della tragedia, con le sue valenze ontologiche ed etiche,
trova il suo corrispettivo epistemologico nella dottrina della
phantasia, che viene introdotta da Aristotele proprio problema-
tizzando la presenza ineludibile dell’errore nella conoscenza
umana.
In questa prospettiva, il fatto che il filosofo contrapponga
l’opinione alle ‘apparenze’ non significa che queste ultime siano
mere produzioni del soggetto – il che sarebbe in palese contrad-
dizione con l’affermazione fatta immediatamente prima – e nep-
pure che l’immaginazione sia una capacità di creare immagini
mentali riproduttive, ma piuttosto rivela che a questo livello in-
terviene un principio o un fattore della conoscenza di cui non si
11 La saggezza pratica, come capacità di esprimere l’eccellenza morale dell’uo-

mo a partire dalle situazioni determinate in cui l’azione è inserita, può essere vista come
il versante o il risvolto etico-pratico della capacità di fare metafore, attitudine a cogliere
quell’universale-particolare che permette di vedere ciò che è simile tra cose differenti.
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La metafora l’anima e le cose 169

può dar conto attraverso la relazione immediata di causa-effet-


to. Principio che sfugge quindi a una spiegazione fondativa ba-
sata su un rapporto di semplice relazione causale che si stabili-
sce tra oggetto e dynamis, per cui il ‘dato’ non farebbe altro che
attualizzare una facoltà dell’anima (sensazione o intelletto) pro-
ducendo una identificazione completa tra soggetto e oggetto12.
Se l’attività della phantasia interviene nella «apprensione degli
intelligibili», risulta evidente che questa non è sempre vera, co-
me Aristotele sostiene in Γ6, 430a-sgg., e che l’errore interviene
anche nella formazione dei concetti e non solo nella loro combi-
nazione proposizionale13. La riproposizione di immagini che l’a-
nima attua attraverso la memoria non è un atto meramente ri-
12 Cfr. V. CASTON, Pourquoi Aristote a besoin de l’imagination, op. cit., pp. 21-

25. L’autore sostiene che stabilire la verità o falsità di certi stati mentali richiede che si
abbia una certa presa sulla realtà, senza nello stesso tempo esserne troppo strettamente
dipendenti. Ciò che fa problema ad Aristotele non è il fatto che i suoi predecessori siano
materialisti (Anassagora non lo era) e neppure il fatto che spiegassero gli stati mentali in
termini di cambiamento, perché nessuno può evitare di farlo. Ma è il fatto che non rie-
scano a dare una spiegazione degli stati mentali se non in termini di interazione causale.
Se il contenuto di uno stato mentale corrisponde sempre alla sua causa, allora l’errore
diventa impossibile. Ma se il contenuto mentale non è in nessun modo esplicabile a par-
tire dalla sua causa, manchiamo ancora l’errore. Perché l’errore sia possibile è necessario
che il contenuto di uno stato mentale intrattenga un qualche rapporto con la sua causa.
Ma è anche necessario che contenuto e causa divergano. Conseguentemente, il rapporto
tra stato mentale e ciò a cui si riferisce non può essere semplicemente identificato con la
relazione di causa ed effetto. Così nella sensazione, come nella conoscenza intellettuale,
contenuto e causa coincidono. Il legame di diretta implicazione tra oggetto e stato men-
tale porta alla affermazione che tutte le apparenze sono vere. Né la sensazione, né la co-
noscenza intellettuale sono suscettibili di errori: le due sono infallibili. Ma è ben chiaro
che Aristotele non pensa che ogni stato mentale possa spiegarsi con l’aiuto dello stesso
modello di quello della sensazione e della conoscenza intellettuale. Ogni stato mentale e
altri processi operano virtualmente in modi differenti. L’immaginazione, l’associazione,
la memoria, l’anticipazione, il ragionamento, il deliberare, il desiderio, l’azione, le pas-
sioni e i sogni richiedono l’attività di un altro stato mentale che Aristotele chiama «phan-
tasia». Il filosofo vuole mostrare come questi stati mentali non possono essere compresi
attraverso la sensazione e la conoscenza intellettuale, perché, al contrario della sensazio-
ne e della conoscenza intellettuale, la phantasia e gli stati mentali menzionati possono di-
vergere dalla realtà. Il semplice modello causale non può, allora, applicarsi alla maggior
parte di ciò che noi chiamiamo pensiero.
13 E. BERTI , The Intellection of ‘Indivisibles’ according to Aristotle, De Anima III

6, in Aristotle on Mind, 1978, pp. 143-63. Berti si pone in quella linea interpretativa che
mette in evidenza il metodo fondamentalmente dialettico del pensiero aristotelico, rifiu-
tando quindi l’idea che il filosofo ammetta l’intuizione degli indivisibili.
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170 Vedere il simile

produttivo di una percezione passata, ma vedremo come piutto-


sto sia un effetto o solo uno dei prodotti di una facoltà che entra
costitutivamente in ogni processo conoscitivo. Qui Aristotele,
nonostante alcuni esempi possano trarre in inganno, non sta
parlando della produzione di immagini visive: queste sono solo
un effetto, tra molti altri, di una dynamis o di una capacità di in-
dividuare delle forme e degli schemi di composizione nel mon-
do fenomenico. D’altra parte, quando leggiamo il paragone tra i
prodotti dell’immaginazione e le rappresentazioni pittoriche
non bisogna dimenticare che nella Poetica Aristotele sostiene
«che cose che vediamo con disgusto le guardiamo invece con
piacere nelle immagini quanto più siano rese con esattezza», e
questo perché attraverso le immagini coloro che guardano «ap-
prendono e ci ragionano sopra riconoscendo ad esempio chi è la
persona ritratta»14.
È evidente che questa zona di medietà tra sensazione e in-
telletto non può essere riassorbita all’interno dell’orbita della ai-
sthesis, come mera riproduzione passiva (che avviene in
absentia) degli oggetti sensibili15, e neppure all’interno dell’orbi-
ta dell’intelletto, come attività spontanea del nous, che si rap-
presenterebbe in questo modo visivamente degli oggetti ideali,
assurgendo a nous poietikos: il filosofo attribuisce alla attività
del produrre immagini una funzione conoscitiva che ha a che fa-
re con la capacità di cogliere la struttura del mondo fenomeni-
co. Funzione conoscitiva legata alla percezione e implicata, al
tempo stesso, nel ragionamento e nel pensiero, e tuttavia diffe-
rente da questo poiché diversa dalla scienza e dall’opinione.
Il fatto è che questa ‘struttura del reale’ si definisce nelle
rappresentazioni della poiesis come dinamica e processuale, le-
gata alla realtà del movimento, dove la definizione di una forma
sembra portare all’evidenza una forte componente sensibile.

14 Poetica, 4, 1448b 10-18.


15 La descrizione della phantasia come produttrice di «sensazioni deboli», mere
copie sbiadite di percezioni passate, si ritrova in alcuni passi del De Anima (Γ2, 425b
24-25; Γ3, 429a 4; A4, 408b 18) e nella Retorica, I, 11, 1370a. Questa concezione del-
l’immaginazione viene spesso messa in rapporto con la dottrina hobbesiana del decaying
sense che viene esposta nel Leviatano 1.2
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La metafora l’anima e le cose 171

3.1. Pro ommaton poiein e metafora dei sensi


Aristotele introduce questa nuova facoltà, la phantasia, do-
po aver concluso la trattazione della dottrina dell’aisthesis e pri-
ma di presentare l’argomentazione che riguarda il nous. La defi-
nizione di questa nuova dynamis risulta particolarmente proble-
matica, e le difficoltà che la riflessione incontra sembrano legate
all’ardua designazione di una zona liminare in cui si colloca la
phantasia, la cui natura sembra essere un «movimento», un
oscillare continuo tra senso e intelletto. Questa appare la carat-
teristica peculiare della phantasia: una tensione costitutiva tra
due poli, che non si risolve mai in uno degli estremi, una capa-
cità di collegare intelletto e sensazione, che, più che una facoltà
vera e propria, funzionante secondo principi determinati, si de-
finisce soltanto attraverso i suoi prodotti, cioè attraverso la sua
capacità di adattare di volta in volta le forme sensibili alle forme
dell’intelletto16. Quindi, sembra caratterizzarsi come una vera e
propria dynamis adattativa17, in grado di ridefinire continua-
mente il pensiero a partire dalle situazioni in cui si determina.
Stabilito che il problema del vero e del falso, per quanto
riguarda la phantasia, non può essere ricondotto a un procedi-
mento di verificazione, ma piuttosto concerne la formazione dei
concetti e dei giudizi, occorre comprendere che tipo di relazio-
ne si stabilisce tra il dato, i pragmata, e questa dynamis, che in-
troduce all’interno della conoscenza una dinamica che non per-
mette più di darne conto semplicemente a partire da un mecca-
nismo di rapporto immediato tra causa ed effetto. Tuttavia, è da
16 Il carattere composito ed eterogeneo dei processi con cui ha a che fare la

phantasia induce a pensare a una difficile definizione unitaria. Nelle interpretazioni re-
centi D. K. W. MODRAK, Aristotle: The Power of Perception, op. cit. e D. F REDE, The Co-
gnitive Role of phantasia in Aristotle, op. cit., sono tra i pochi interpreti che sostengono
una concezione unitaria della dottrina aristotelica della phantasia, nella quale si ritrova-
no i sogni, la memoria, la reminescenza, il pensiero teorico a quello pratico, la retorica
delle passioni o il movimento. D. Frede tuttavia mette in evidenza la difficoltà di defini-
re questa facoltà, che emerge anche dalla stessa problematicità che presenta la traduzio-
ne del termine phantasia, che designa nello stesso tempo la capacità, la funzione, il pro-
cesso, il prodotto e il risultato.
17 De Anima, Γ3, 428b 11 sgg.:«[...] l’immaginazione sembra sia una specie di

movimento […]; in virtù di esso, chi lo possiede può esercitare e subire molte azioni».
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172 Vedere il simile

tenere sempre presente che Aristotele, attribuendo a questa fa-


coltà capacità discriminatorie, le assegna nello stesso tempo il
compito di selezionare e ‘giudicare’ a partire sempre da una
presa sul dato reale e sensibile. Tanto che il filosofo la definisce
in uno stretto rapporto con i meccanismi dell’aisthesis, e in rap-
porto alle funzioni della sensibilità ne determina il contenuto di
verità, la sua capacità di aderire o di rassomigliare alla realtà; co-
sicché «l’immaginazione sarà un movimento risultante dalla sen-
sazione in atto»18 e la sua capacità di indurre conoscenza dipen-
derà dal suo legame con la sensazione:
Tale movimento non può prodursi senza sensazione né trovarsi
in esseri non forniti di sensazione; in virtù di esso, chi lo possiede può
esercitare e subire molte azioni, ed esso può essere vero o falso. Ciò
avviene per i seguenti motivi. La percezione dei sensibili propri è vera
o comporta l’errore nella minima misura possibile. In secondo luogo
c’è la percezione che gli oggetti che accedono a questi sensibili, vi ac-
cedono di fatto, e in questo caso è già possibile ingannarsi. Che infatti
vi sia del bianco, non ci si inganna, ma ci si inganna sul fatto che il
bianco sia questo o un altro oggetto. In terzo luogo abbiamo la perce-
zione dei sensibili comuni e concomitanti a quelli accidentali in cui
ineriscono quelli propri (intendo, ad esempio, il movimento e la gran-
dezza): è soprattutto riguardo ai sensibili comuni che è possibile l’er-
rore nella sensazione. Ora il movimento che risulta dall’attività della
sensazione sarà diverso a seconda che provenga da uno o l’altro di
questi tre tipi di sensazione. La prima specie di movimento è vera fin-
ché la sensazione è presente, mentre gli altri due movimenti, sia in pre-
senza sia in assenza di sensazione, possono essere falsi, e specialmente
qualora l’oggetto sensibile sia distante19.
Questo passo riattesta un motivo costante della riflessione
aristotelica sulla phantasia, e cioè il suo ruolo strettamente di-
pendente dalla aisthesis, per cui la sua capacità cognitiva dipen-

18 Ivi, Γ3, 429a 1-2. Lo stretto rapporto che la phantasia ha con il ruolo primari-

amente recettivo e passivo della sensazione pregiudica ogni possibilità di pensarla in ter-
mini di creatività. Ci vorranno molti secoli prima che l’immaginazione assuma questo
valore e si possa pensare nei termini kantiani di una produzione di una seconda natura.
Cfr. § 49 della Critica del Giudizio, op. cit.
19 Ivi, Γ3, 428b 15-30.
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La metafora l’anima e le cose 173

de dal carattere della sensazione corrispondente.


Per comprendere lo statuto di questa facoltà, tenendo con-
to della sua collocazione liminare, occore spiegare come si defi-
niscono le diverse modalità del suo articolarsi in relazione alla
sensibilità e all’intelletto. Quindi è necessario, in primo luogo,
capire che ruolo essa svolge in rapporto alla definizione della
dottrina della aisthesis.
Aristotele formula una dottrina della sensibilità che non ha
precedenti nel pensiero greco, elaborando una teoria che ne re-
stituisce una complessità molto lontana dalle restrizioni che ca-
ratterizzano la riflessione dei suoi predecessori20. Il filosofo di-
stingue diversi livelli nell’ambito della conoscenza sensibile, at-
tribuendole il carattere di ‘giudizio’ e di facoltà critica. Una mo-
dalità delle sue funzioni è definita attraverso i sensibili propri,
che sono sempre veri21, mentre i sensibili per accidente e comu-
ni sono soggetti ad errore. All’interno della sfera sensibile è già
in atto un meccanismo di sintesi, che prevede l’intervento della
phantasia, come momento di connessione o relazione dei sensi-
bili propri in cui può intervenire l’errore22.
Occorre tuttavia comprendere come mai Aristotele non si
accontenti di introdurre una funzione ‘attiva’ della percezione23,

20 Cfr. R. SORABJI , Intentionality and Physiological Processes: Aristotle’s Theory

of a Sense-Perception, in Essais on Aristotle’s De Anima, Clarendon Press, Oxford 1992,


pp. 195-27. L’autore mette in evidenza come Aristotele definisca una dottrina della per-
cezione tra le più avanzate nella storia della filosofia greca, assegnando ai contenuti per-
cettivi non un carattere meramente passivo, ma la capacità di cogliere le differenze e le
similitudini. Il confronto viene posto primariamente con la dottrina platonica della sen-
sibilità che non attribuisce ai sensi una valenza discriminante, per cui la capacità di co-
gliere le essenze è affidata esclusivamente alla ragione.
21 Alle forme di percezione soggette ad errore, quelle dei percepibili comuni e

dei percepibili per accidenti sono collegate forme di phantasia fallibili. Per quanto ri-
guarda i percepibili propri, qui (428b19) Aristotele introduce una restrizione del tutto
imprevedibile sostenendo che «La percezione dei sensibili propri è vera o comporta l’er-
rore nella minima misura possibile». Una spiegazione di questa restrizione si può trova-
re in De Insomniis, 2, 450b 7-13, dove il filosofo dice che se si fissa per lungo tempo
qualche cosa di bianco o di verde, tutto ciò verso cui si dirigerà lo sguardo di seguito ap-
parirà di quel colore – precisamente per mostrare che la phantasia vi è implicata.
22 Tra le interpretazioni della phantasia che ricevono più adesioni c’è quella che

la riduce al versante attivo della percezione. Vedi nota 6 di questo capitolo.


23 Il termine «attività» può ingenerare numerosi equivoci rispetto alla dottrina
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174 Vedere il simile

e per quale ragione emerga la necessità di porre questa nuova


facoltà mediatrice. È necessario, a tal proposito, tenere conto
che la prospettiva teoretica del De Anima, comune d’altronde
ad ogni ricerca aristotelica, parte da una critica ai predecessori
che – secondo Aristotele – hanno costruito una psicologia an-
tropocentrica. Contrastivamente, il filosofo rivendica a sé il me-
rito di avere gettato le basi di una psicologia generale, ossia di
una teoria dell’anima come principio di vita che sta a fondamen-
to dei fenomeni che riguardano tutti gli esseri viventi24. La pro-
spettiva in cui Aristotele colloca, quindi, la trattazione della
phantasia deve, a partire da questa considerazione generale o
estensionale, tenere insieme le caratteristiche comuni che questa
facoltà ha in tutti gli animali che la possiedono, e la definizione
della stessa nei suoi tratti specificamente umani. A differenza
delle altre facoltà, la phantasia sembra accumunare e nello stes-
so tempo distinguere uomo e animale. La difficoltà di definire
questa nuova dynamis prende forma anche in questo aspetto
estensionale, per cui da una parte la phantasia identifica uomo e
animale e nello stesso tempo li differenzia, nella sua valenza di
phantasia bouleutike, in cui entra in gioco la capacità deliberati-
va umana, il legame con l’intelletto pratico e insieme l’interven-
to dei processi intersoggettivi e linguistici25.
Procedendo per gradi, si può portare ad evidenza, attra-
verso i meccanismi conoscitivi che Aristotele descrive, come il

aristotelica della percezione che non prevede l’intervento di un’attività spontanea del
soggetto. L’uso di questo termine, in questo lavoro, va inteso sostanzialmente a partire
dal fatto che Aristotele non intende la sfera dell’aisthesis come mera ricettività, ma come
ambito strutturato, anche se questa organizzazione avviene a partire dal subire una mo-
dificazione, da un processo primariamente passivo. I termini passività e attività devono
essere sempre interpretati relazionalmente, mettendoli in riferimento a ciò rispetto a cui
qualcosa può essere interpretato come attivo o passivo. Per esempio, la phantasia aisthe-
tike può essere vista come il risvolto attivo della percezione, anche se questo momento
attivo è indotto dalla modificazione ricettiva, ma questa deve essere pensata essenzial-
mente nel suo carattere passivo nel momento in cui si mette in rapporto con la phantasia
bouleutike. Anche in questo caso è importante comprendere questa relazionalità sulla
base della dottrina della potenza e atto.
24 Cfr. De Anima, A1, 402a 6-7; 402b 3-7.
25 De Anima, Γ11, 433b 29-30: «Ogni immaginazione poi è razionale o sensiti-

va, e di quest’ultima sono forniti anche gli altri animali».


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La metafora l’anima e le cose 175

processo di scoperta ontologica che il linguaggio metaforico po-


ne in atto trovi il suo luogo di fondazione epistemologica pro-
prio in questa zona liminare che definisce la soglia tra linguisti-
co ed extralinguistico, e che nella dottrina dell’anima viene trac-
ciata attraverso la identità-differenza di phantasia bouleutike e
phantasia aisthetike. In questa zona di mediazione accade qual-
cosa che può dar conto di come il dato, la realtà o le cose si tra-
sformino in significati linguistici attraverso un processo di tra-
sposizione analogica che ha il suo luogo di fondazione in un
meccanismo della sensibilità.
Definiamo in primo luogo lo statuto della sensazione in
Aristotele. Come abbiamo visto dal passo citato, Aristotele defi-
nisce tre tipi di aisthesis, accogliendo in via preliminare la dot-
trina presocratica della sensazione come una forma di alterazio-
ne o mutamento, che implica una forma di ricettività, dipenden-
za o contatto con l’oggetto. Questa continuità con la concezione
dei predecessori viene riformulata in base alla sua teoria dell’at-
to e potenza: la facoltà sensitiva si attualizza per l’azione di un
oggetto sensibile in atto, è dynamis, possibilità che si attualizza a
partire dallo stimolo esterno.
[…]la sensazione consiste nell’essere mossi e nel subire un’azio-
ne, giacché sembra che sia una specie di alterazione […] la falcoltà
sensitiva non è in atto, ma soltanto in potenza. […] Poiché «percepi-
re» si dice in due accezioni (giacché diciamo che ascolta e vede sia chi
ascolta e vede in potenza, anche se per caso dorma, sia chi presente-
mente ascolta e vede in atto), anche la facoltà sensitiva ha due signifi-
cati: in quanto è in potenza e in quanto è in atto. La stessa cosa vale
per l’oggetto sensibile: o è tale in potenza o in atto. […] Ora ogni esse-
re che subisce un’azione ed è mosso, lo è ad opera di un agente che è
in atto. È pertanto possibile, come abbiamo detto, che una cosa subi-
sca l’azione del simile come pure del dissimile. La cosa infatti che su-
bisce è il dissimile, ma quanto ha subito è simile26.
Risulta chiaro da questo passo che la necessità dello stimo-
lo e del contatto esterno si accompagna a una disposizione del-
l’anima all’incontro: in questo senso la dynamis ha propriamente
26 De Anima, B5, 416b 34-35, 417a 12 e sgg.
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176 Vedere il simile

il significato cinetico che Aristotele le attribuisce in Metafisica,


Θ, 1046a, quando parla di potenza attiva e passiva come ciò
«che è principio di mutamento in altra cosa o nella medesima
cosa in quanto altra»?. Lo aisthanesthai non è una semplice alte-
razione passiva: il paschein è una condizione necessaria ma non
sufficiente dello aisthanesthai, che è capacità di apprendere, di
‘giudicare’ (krinein) forme sensibili che si danno attraverso l’at-
tualizzazione di una potenzialità, e non come ‘mera materialità’
che richiede l’intervento dell’intelletto per elaborare dei dati an-
cora del tutto disorganizzati e sconnessi.
Da un punto di vista generale, riguardo ad ogni sensazione, si
deve ritenere che il senso è ciò che è atto ad assumere le forme sensibi-
li senza la materia, come la cera riceve l’impronta dell’anello senza il
ferro o l’oro: riceve bensì l’impronta dell’oro o del bronzo, ma non in
quanto è oro o bronzo28.
L’aisthesis è descritta come una facoltà ricettiva delle for-
me sensibili senza la materia. Gli eide sensibili sono le forme o
qualità presenti negli oggetti materiali, ossia i colori, i suoni, i
sapori ecc. L’anima è forma, e lo è anche il senso che apprende
solo la forma degli oggetti.
La facoltà sensitiva è logos tis kai dynamis (B12, 424a 27-
28), ossia una potenzialità e ‘capacità’ operativa dell’organo29.
27 Cfr. Ivi, B5.
28 Ivi, B12, 424 17-20.
29 Cfr. G. PIANA, I problemi della fenomenologia, Mondadori, Milano 1966, pp.

174-76. L’autore, riferendosi al tema della ricezione in Esperienza e giudizio di Husserl,


dove vengono usati espressamente termini aristotelici, sostiene che il «soggetto è sempre
percezione possibile o percezione all’inizio ed è in rapporto a questa potenzialità percetti-
va del soggetto che il dato può apparire come quasi attivo, come uno stimolo.[…] L’at-
tributo di passività che noi continueremo ad attribuire al soggetto ricettivo […] ha dun-
que un senso diverso da quello comune» per cui la percezione ha un carattere di mera
passività. «In realtà, bisogna intendere la percezione come una praxis, sia pure una
praxis dell’osservatore, dal momento che anche l’osservare richiede un complesso di atti
corporei, un volgersi del corpo verso l’oggetto, un dirigersi concretamente verso di es-
so». L’autore cita un passo di Esperienza e giudizio di Husserl: «Possiamo anche dire che
prima di ogni movimento conoscitivo vi è già l’oggetto della conoscenza come ‘dynamis’
che deve diventare ‘entelechia’». Questa riflessione ha un’evidente analogia con il passo
del De Anima (Γ8, 431 b 20) in cui Aristotele afferma « l’anima è in certo modo tutti gli
esseri. […] la facoltà sensitiva e quella intellettiva dell’anima sono in potenza questi og-
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La metafora l’anima e le cose 177

Aristotele sostiene che attraverso la aisthesis si assumono le for-


me sensibili senza la materia dell’oggetto in questione, anche se
queste forme terminano nei singolari e non negli universali.
Questa teoria della sensibilità sembra definirsi primariamente
sulla base di una reazione critica ai suoi predecessori (Empedo-
cle e Democrito), per i quali la percezione comportava un’as-
sunzione da parte degli organi sensori di particelle staccatesi da-
gli oggetti. La tesi di Aristotele è comprensibile quando si tratta
della vista e dell’udito, ma non è affatto chiaro, in prima analisi,
come non possa esserci trasmissione di materia nella percezione
del sapore o di un odore30. In realtà, Aristotele, proponendo il
primato della forma nella costituzione degli oggetti sensibili,
vuole sottolineare il ruolo discriminante (il filosofo parla di lo-
gos) e selettivo che spetta alla sensazione, che non è mera inde-
terminatezza materiale. Il momento di adesione sensibile alle
cose per Aristotele comincia già a configurare e selezionare quei
tratti che diventeranno costitutivi della conoscenza dell’oggetto.
Il non accogliere la materialità in questo ambito ha il significato
di voler affermare il fatto che esso non è costituito da una mol-
teplicità irriducibile di tratti accidentali: l’aisthesis si definisce
all’interno della relazione fondamentale di potenza e atto, in cui
lo aisthaneshai è, rispetto allo stimolo sensibile, una forma rela-
tiva a una materia relativa. La forma in Aristotele si determina
in un legame costitutivo con la materia e in rapporto ad essa, so-
lo relazionalmente possiamo stabilire cosa in un processo occu-
pa il posto della forma e della materia: la sensazione è per il filo-
sofo una modalità del movimento infinito che produce la conti-
nuità dei due momenti come «estasi del movimento»31.
La dinamica conoscitiva, che si viene delineando attraver-
so la dottrina dell’anima, mette di nuovo in evidenza che i prin-
cipi fondanti l’intelligibilità del mondo si possono definire solo
attraverso una tensione originaria e mai risolvibile di potenza e
atto, per cui si può dire che la potenza preesiste all’atto come

getti, la prima il sensibile e la seconda l’intelligibile».


30 Cfr. G. MOVIA, Introduzione all’edizione da lui curata del De Anima, p. 96.
31 P. Aubenque, Le problème de l’être chez Aristote, op. cit., p. 443.
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178 Vedere il simile

condizione della sua attualità, e che l’atto preesiste alla potenza


come rivelatore della sua potenzialità32. La relazionalità e defini-
bilità reciproca di potenza e atto si riproduce nel processo co-
noscitivo in quanto realtà inserita nell’ordine del mondo sublu-
nare, che assegna ai suoi esseri una condizione di costitutiva im-
perfezione, e li pone nella disposizione, che si rinnova continua-
mente, a incontrarsi e mettersi in movimento verso qualcosa d’al-
tro33. Non a caso Aristotele non esita a tenere insieme l’idea di
un’anima come motore immobile e definire al tempo stesso ogni
processo conoscitivo come kinesis, movimento, che porta con sé
la natura di una possibilità mai pienamente compiuta, il caratte-
re di una potenzialità che si dispiega all’infinito34. Così il rap-

32 Ibidem.
33 Cfr. M. NUSSBAUM, La fragilità del bene, op. cit., p. 511. L’autrice mette in
evidenza il risvolto metafisico della teoria dell’azione animale e umana di Aristotele, so-
stenendo che «sia gli esseri umani che gli animali, nelle loro azioni razionali e non razio-
nali, hanno in comune il fatto che tendono, per così dire, verso parti del mondo che essi
desiderano ottenere. Consideriamo da un lato il sasso in una mano e il motore immobile
dall’altro. Nessuno dei due si muove o agisce. […] Essi non tendono a nulla – sono
completi in se stessi. […] Il movimento è intrinsecamente connesso ad una mancanza di
autosufficienza o di completezza e al moto interiore verso il mondo, di cui la creatura
bisognosa è fornita».
34 De Anima, A4, 408b 14-18: «In realtà forse è preferibile dire non che l’anima

prova compassione o apprende o pensa, ma l’uomo per mezzo dell’anima. E ciò non nel
senso che in essa ci sia movimento, ma nel senso che questo talora giunge fino a lei, talo-
ra parte da lei. Ad esempio la sensazione muove da determinati oggetti, mentre il richia-
mo alla memoria muove dall’anima verso i mutamenti o tracce che permangono negli
organi sensoriali». Aristotele ammette l’associazione tra movimenti corporei e processi
psichici, ma esclude tuttavia che il movimento abbia luogo nell’anima stessa. Tuttavia il
filosofo in molte occasioni non esita a parlare di «modificazioni», come pure di «movi-
menti» dell’anima. G. MOVIA, nella Introduzione al De Anima, op. cit., p. 103, sostiene
che Aristotele con l’idea di anima come motore immobile vuole sostenere la natura non
meramente ricettiva dei processi conoscitivi. Crea una certa difficoltà pensare l’anima
come motore immobile se in effetti gli oggetti esterni creano di fatto delle modificazioni,
questo effetto può a buon diritto essere chiamato movimento. Questa idea ha un’origine
storica che nasce dalla polemica contro Democrito e Platone. Aristotele sostiene che il
movimento dell’anima non può essere associato a qualsiasi altro movimento naturale.
Ciò che Aristotele vuole sostenere non è l’esistenza di una catena causale per cui l’anima
in quanto mossa dagli oggetti esterni produce nel soggetto il movimento, piuttosto vuole
dimostrare una causalità metaempirica. Il movimento dell’anima non può essere ridotto
a un movimento fisico-meccanico, ma esiste un’attività dell’anima che non dipende da
questo tipo di movimento. In Metafisica, IX, 6, 1048b 20-26, Aristotele traccia la distin-
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La metafora l’anima e le cose 179

porto tra le facoltà conoscitive si struttura secondo la relazione


di potenza e atto, per cui l’attualità dei sensibili diventa poten-
zialità degli oggetti dell’immaginazione e questi diventano le po-
tenze delle apprensioni intellettive35. Il processo conoscitivo,
con la sua struttura di potenza e atto, ha il suo risvolto metafisi-
co in un universo di fenomeni che definiscono il loro essere in
relazione con gli altri esseri, come realtà potenzialmente dispo-
ste a subire e ad agire su altre realtà, e capaci di corrispondere a
un’attitudine ad accogliere determinate forme. La teoria dell’a-
nima e dei processi conoscitivi, come si è più volte sottolineato,
acquista la sua piena comprensibilità solo se viene messa in rela-
zione con l’ambito ontologico e con la visione metafisco-cosmo-
logica aristotelica.

zione tra kinesis ed energeia sostenendo che i movimenti sono imperfetti perché tendo-
no a un fine che non hanno in sé, mentre le azioni contengono in sé il loro fine e sono
quindi movimenti perfetti: «Ogni movimento è incompleto, come il dimagrire, l’impara-
re, il camminare, il costruire: questi sono movimenti e sono incompleti. E infatti non di-
ciamo che chi cammina ha insieme anche camminato, chi costruisce ha costruito, ciò
che diviene è divenuto o ciò che è mosso è stato mosso: son cose diverse. Ma la stessa
cosa ha visto e insieme vede, pensa e ha pensato. In questo caso parliamo di atto, in
quello di movimento». L’anima come motore immobile è pensata da Aristotele come il
sostituto imperfetto del Primo Motore. Questa non è esente dal movimento, ma all’in-
terno del divenire rintraccia ciò che permane, sottraendo se stessa e i fenomeni alla di-
spersione e al disordine. Essa si definisce come un «portare a compimento» che rispon-
de a un’esigenza di totalità, ma questa tensione verso la perfezione e l’ordine si delinea
in Aristotele come un compito che si rinnova continuamente e che non si realizza mai
pienamente. Così la perfezione e completezza di ogni suo atto si configura sempre come
una immobilità relativa. Nell’universo aristotelico ogni essere porta con sé, nelle moda-
lità che sono ad esso assegnate, la presenza immanente della perfezione e del divino co-
me presenza dell’ordine. L’anima, in questo senso, rappresenta la forma e l’ordine degli
esseri viventi grazie alla quale, anche attraverso la facoltà nutritiva e riproduttiva, ‘parte-
cipano’ «nella misura del possibile, dell’eterno e del divino. Poiché dunque questi esseri
non possono partecipare con continuità dell’eterno e del divino, poiché nessun essere
corruttibile è in grado di sopravvivere identico e uno di numero, ciascuno ne partecipa
per quanto gli è possibile, chi più e chi meno, e sopravvive non in se stesso, ma in un in-
dividuo simile a sé, non uno di numero, ma uno nella specie» (De Anima, B4, 415a 29-
415b 7).
35 L’idea di un’anima che si definisce attraverso una reciprocità di agire e patire,

o di spontaneità e passività sembra trovare una sua limitazione nella dottrina del nous.
Ma anche lì la distinzione tra nous poietikos e nous pathetikos reintroduce la sua natura
di realtà definita attraverso la legge del muoversi-mosso, cfr. W. WIELAND, La fisica di
Aristotele, pp. 311 sgg.
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180 Vedere il simile

Anche il pensiero nel carattere ‘finito’ e ‘compiuto’ della


sintesi concettuale, che risale la realtà del movimento per sco-
prire delle condizioni che definiscono dei domini di stabilità, si
mostra, a un’analisi più attenta, come un’esigenza di totalità mai
raggiungibile, e la ricerca di un ordine compiuto si riapre conti-
nuamente alla realtà processuale del mondo sensibile: lo spazio
logico-concettuale può essere rivisto, a partire da una prospetti-
va ontologica, come una ‘materialità’ che si ridefinisce continua-
mente attraverso il suo adeguarsi a delle forme sensibili. Questo
aspetto viene mostrato in maniera esemplare dal linguaggio me-
taforico, dove la dinamica del linguaggio, che gioca sulla tensio-
ne tra significato proprio e improprio, esibisce, attraverso un
gioco che sfugge alle regole logiche, perché fondamentalmente
paradossale, una capacità di scoprire ‘strutture’ o configurazioni
dell’esperienza di natura sensibile: si tratta di una prima condi-
zione di unità che risulta ‘indeterminata’, se la si considera dal
punto di vista della capacità di definire esplicitamente i signifi-
cati della nostra conoscenza, ma con una maggiore determina-
tezza ontologica, perché adeguata sensibilmente alla realtà. È da
questo ambito di adeguatezza ‘indeterminata’, in cui si danno le
configurazioni implicite e precategoriali del mondo, che l’intel-
letto procede a definire e ridefinire i propri spazi logici.
Riguardo all’oggetto sensibile, Aristotele sostiene la tesi
che la sensazione in atto termina negli individui singolari sensi-
bili del mondo esterno36, mentre la conoscenza intellettuale e
scientifica termina negli universali. Anche questa affermazione
troverà una problematizzazione nel corso della trattazione della
dottrina della aisthesis.
Nel passo citato, Aristotele distingue tre forme di aistheta:
i sensibili propri e i sensibili comuni, che definisce «per sé»,
cioè percepibili in sé immediatamente e direttamente, e i sensi-
bili per accidente. I primi sono quelli legati alle sensazioni pro-
prie di ciascun senso, per cui la vista distingue un colore, l’udito
un suono, ecc., e sono sempre veri.
Comuni sono i sensibili colti dai cinque sensi, poiché tutti i

36 Cfr. De Anima, B5, 417b 22-26.


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La metafora l’anima e le cose 181

cinque sensi contribuiscono alla loro percezione, e sono: il mo-


vimento, il numero, la figura, la forma, il tempo, la grandezza.
Per accidente sono i sensibili che si colgono per associazio-
ne a un sensibile per sé: per esempio, se si vede con la vista lo
zucchero gli si associa immediatamente il dolce.
Il sensibile può denotare tre specie di oggetti: due diciamo che
sono sensibili per sé ed uno per accidente. Dico ‘proprio’ quello che
non può essere percepito con un altro senso, e rispetto a cui non è
possibile l’errore: ad esempio per la vista il colore, per l’udito il suono
e per il gusto il sapore, mentre il tutto ha per oggetto molte varietà di
sensibili. Tuttavia ogni senso giudica almeno i propri oggetti, e non si
inganna sul fatto che un colore o un suono ci sia, ma su che cosa e do-
ve sia l’oggetto colorato o sonoro. […]
I sensibili comuni sono invece il movimento, la quiete, il nume-
ro, la figura, la grandezza, giacché essi non sono propri di alcun senso,
ma comuni a tutti, in quanto un dato movimento è percepibile sia al
tatto che alla vista. Si parla, poi, di sensibile per accidente quando, ad
esempio, il bianco è figlio di Diare. Difatti il figlio di Diare lo perce-
piamo accidentalmente, perché il bianco accede il figlio di Diare che è
percepito37.
È evidente, anche da questa prima esposizione generale,
che Aristotele attribuisce alla percezione un ruolo discriminante
e selettivo. La percezione è il punto di partenza di ogni atto co-
noscitivo, che ha a suo fondamento sempre una intuizione indi-
viduale data nei sensibili propri, e non un molteplice intuitivo.
Ma questa ‘qualità’ di partenza non è un’essenza astratta dall’in-
telletto, che la isola e la definisce rispetto agli attributi acciden-
tali. Questo dato di partenza viene già da subito inserito in un
processo percettivo, che lo definisce in una dinamica relazionale
e contrastiva, che permette di determinarlo e di renderlo ‘appa-
rente’ alla conoscenza. Quindi l’apparire di un oggetto all’anima
non è la semplice riproduzione passiva di una datità, bensì un
processo di definizione che avviene all’interno di una complessa
rete di rapporti e di similitudini. Potremmo dire, con una certa
cautela, che per Aristotele il processo percettivo si svolge in

37 Ivi, B6, 418a 7-23.


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182 Vedere il simile

avanti, fino a un certo punto, e non all’indietro, nel senso che


quella che si potrebbe definire come una ‘qualità originaria’ è sì
qualcosa che si determina per gradi, che permane e muta allo
stesso tempo, come un calco che lascia una traccia che si conser-
va e varia nel corso dell’intero processo conoscitivo, ma le dina-
miche relazionali che di produrranno a partire da essa, non pos-
sono per Aristotele risolverla in sé. Parlare di somiglianza o di
mimesis significa prendere atto che per il filosofo ogni cono-
scenza parte da questo rapporto immediato di stimolo-risposta,
che identifica soggetto e oggetto e l’anima con i suoi oggetti: esi-
ste a questo livello un rapporto di adeguazione sensoriale che
nulla ha a che fare con il concetto di adeguazione inteso come
corrispondenza tra giudizio e cose38. Come si è più volte sottoli-
neato, questo legame, che fonda il realismo di Aristotele, non si
riduce a un rapporto tra conoscenza e mondo determinabile in
termini di referenzialismo ingenuo. Da quel punto di contatto
immediato e immedesimante, si sviluppa in avanti tutta una se-
rie di dinamiche relazionali che non hanno nulla a che vedere
con un atto di epurazione dagli accidenti. Il sensibile proprio va
pensato come un momento di attualizzazione che contiene co-
stitutivamente un’eccedenza della potenza, che lo pone imme-
diatamente in correlazione e lo codetermina all’interno di una
rete di similarità e di rapporti. Infatti, Aristotele fa intervenire,
già a livello di percezione, un meccanismo di sintesi sensibile e
di unità percettiva che entra costitutivamente a definire l’ogget-
to della conoscenza: in quest’ambito, che il filosofo greco defini-
sce la koine aisthesis, vengono a costituirsi le configurazioni uni-
tarie del movimento, della quiete, della figura, della grandezza,
del numero e dell’unità. Aristotele introduce anche un’altra mo-
dalità di relazione tra i sensi ed è quella dei sensibili per acci-
dente, che ci inducono a convertire, indirettamente, un sensibile
proprio in un sensibile appartenente a un altro senso speciale,
così quando percepisco il bianco in atto, il sensibile per acci-
dente può percepire indirettamente il dolce. Il filosofo, dunque,
intende con «sensibili per accidente» il prodotto di un meccani-

38 Cfr. U. E CO, Kant e l’ornitorinco, Bompiani, Milano 1999, pp.81-87.


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La metafora l’anima e le cose 183

smo associativo che ha luogo nell’atto della percezione: una ca-


pacità di convertire o associare le sensazioni, per esempio una
visiva in una gustativa39.
Il fatto è che Aristotele è ben consapevole che ogni nostra
conoscenza non è mai conoscenza del singolare, e che quel dato
irrelato, puntuale, individuale che l’anima subisce come azione
dell’oggetto dei sensi, del tutto ininterpretato, che è condizione
per cui ci si pone in cammino per dire qualcosa, diventa qualco-
sa o ‘appare’ e diventa ‘significativo’ per la conoscenza solo nel
momento in cui si inserisce in una rete di relazioni che ‘genera-
lizzano’ questa individualità. E nel momento in cui si fa signifi-
cativo per la conoscenza si insinua la possibilità dell’errore, «la
condizione più caratteristica degli animali, nella quale l’anima
trascorre più tempo»40. La percezione di un colore è un dato
primario ed evidente che non implica errore, per Aristotele, ma
il nostro pensiero la può porre come anteriore o come una qua-
lità che promana dall’oggetto solo attraverso il suo apparire in
una rete di relazioni41.
39 De Anima Γ1, 425a 23-25: «Questo ci è possibile [percepire il dolce con la

vista] perché ci troviamo ad avere la percezione di entrambi questi sensibili, mediante la


quale li riconosciamo nello stesso tempo in cui si presentano insieme». R. D. HIKS, Ari-
stotle, De Anima, op. cit., p. 111, mette in evidenza che aisthesis sta qui a indicare il sen-
so comune, in quanto la percezione simulatanea di più sensibili di genere diverso non
spetta che al senso comune. Nello stesso senso si pronuncia D. Ross, Aristotele, op. cit.,
pp. 137-39. Di diverso avviso è D. W. HAMLYN, Aristotle’s De Anima Book II and III,
op. cit., p. 118, che sostiene non necessario interpretare questo passo in base all’idea di
una percezione simultanea, ma piuttosto come un atto in cui interviene la memoria co-
me riattualizzazione di una percezione già avuta.
40 De Anima, Γ3, 427b 1-2.
41 In un passo di Kant e l’ornitorinco, op. cit., U. E CO , p. 83, interpretando

Peirce, introduce un esempio molto vicino alla dottrina aristotelica della percezione:
«C’è un esempio in CP 5.142 [C. S. Peirce Collected Papers] dove si parla di qualcosa
che in prima istanza mi era apparso come di un bianco perfetto e poi, in una serie di
comparazioni successive, mi appare come bianco sporco. Peirce avrebbe potuto svilup-
pare l’esempio e parlarmi di una casalinga che in un primo momento percepisce il len-
zuolo appena lavato come bianchissimo, ma poi, comparandolo con un altro, ammette
che il secondo è più bianco del primo. Non si creda che sia casuale o malizioso il riferi-
mento allo schema canonico per la pubblicità televisiva dei detersivi: Peirce intendeva
parlare proprio di questo problema. Di fronte alla pubblicità del detersivo, Peirce ci
avrebbe detto che la casalinga ha inizialmente avvertito la bianchezza del primo lenzuo-
lo (puro “tono” della coscienza); poi, una volta passata al riconoscimento dell’oggetto
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184 Vedere il simile

Nel momento in cui una qualche ‘rappresentazione’ è da-


ta, Aristotele sa bene che non ha più il carattere della singolarità
e dell’individualità, ma viene inserita in una serie di similitudini,
in un dominio di tratti simili che ci rendono possibile l’apparire
dell’oggetto. È emblematico, infatti, che per il filosofo, l’identità
dell’oggetto della conoscenza si fonda in quella soglia tra mon-
do e anima che si configura come un’attività complessa della
percezione, che prevede la relazione dei sensibili, e non come
un dato primario nato da una relazione immediata di causa-ef-
fetto. Quando Aristotele ci dice che il «figlio di Diare» è una
‘inferenza’ accidentale rispetto al dato immediato del bianco,
sembra sostenere un rapporto inverso di fondazione rispetto a
quello che negli Analitici42 aveva definito come rapporto tra so-
stanza e accidente, dove il bianco corrisponderebbe alla predi-
cazione accidentale o impropria. L’idea di un intelletto che
astrae dalle intuizioni le essenze delle cose producendo l’intelle-
zione degli indivisibili è una prospettiva che percorre gli scritti
logici. Ciò che conta, invece, nel passaggio argomentativo che
stiamo commentando è il fatto che Aristotele consideri il pro-
cesso conoscitivo non come un semplice processo di identifica-
zione tra ciò che pensiamo e ciò che è pensato, ma come un
processo in cui si insinua costantemente una tensione e una dif-

(Secondness) e avere iniziato una comparazione nutrita di inferenze (Thirdness), sco-


prendo che la bianchezza si presenta attraverso gradi, può affermare che il secondo len-
zuolo è più bianco del primo, ma al tempo stesso non può cancellare l’impressione pre-
cedente, che come pura qualità è stata: e pertanto dice “credevo (prima) che il mio len-
zuolo fosse bianco, ma ora che ho visto il suo, eccetera”». Questo momento puntuale e
irrelato del processo conoscitivo è il momento iconico:«Dal punto di vista cognitivo l’i-
cona, vista nella sua natura di pura qualità, stato di coscienza, assolutamente irrelata, è
una Likeness perché è uguale (adeguata) a ciò che ne ha stimolato la nascita (e lo è an-
che se non viene comparata al proprio modello, anche se non è vista ancora in connes-
sione con alcun oggetto esterno dei sensi). Dal punto di vista cosmologico l’icona è la di-
sponibilità di qualcosa a incontrarsi con qualcosa d’altro. Se Peirce fosse venuto a cono-
scenza della teoria del codice genetico, avrebbe certamente giudicato iconico il rapporto
che permette a catene di basi azotate di produrre successioni di aminoacidi, o a triplette
di DNA di essere sostituite da triplette di RNA». Questo riferimento mi sembra partico-
larmente adeguato a dar conto del rapporto che si istituisce tra qualità date dai sensibili
propri e le relazioni che le definiscono.
42 Cfr. Primi Analitici, 1, 27, 43a 32-6; Secondi Analitici, 1, 19, 81b 23-9.
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La metafora l’anima e le cose 185

ferenza, che si intreccia con l’identità, tra sostanza individuale e


sostanza universale, tra conoscenza sensibile e intellettuale, tra
mondo e anima. L’idea di un soggetto della proposizione che ha
la funzione di ‘designare’ la sostanza in quanto espressione di
un’intellezione di un indivisibile non trova nessun riscontro nel-
l’ambito della percezione, dove l’oggetto a cui pertengono certi
tratti «propri» non ha alcuna immediatezza (non nel senso di
una relazione immediata di causa-effetto tra dato e oggetto sen-
sibile). La percezione dei sensibili propri è un dato irrelato, sin-
golare, che non dice ancora nulla sull’oggetto e non è inerente a
nessun oggetto: è un tratto immediato attraverso il quale una so-
stanza individuale ha modificato la sensibilità, e l’anima la con-
sidera quindi attraverso un certo ‘sguardo’. Non si sa ancora
quale genere di oggetto si ha davanti, ma lo si considera sotto il
profilo della traccia immediata che ha lasciato nell’anima. L’ade-
guatezza del sensibile proprio al mondo non ha alcuna corri-
spondenza immediata con l’idea di adeguatezza pensata a livello
di conoscenza razionale43. Per Aristotele la realtà primaria è fat-
ta di sostanze individuali che modificano con le loro qualità i
sensi propri. Ogni conoscenza è un processo che, a partire da
questo ‘calco primario’, si forma progressivamente attraverso
generalizzazioni, che strutturano questo ‘significato’, ridefinen-
dolo in relazioni via via più complesse dal punto di vista cono-
scitivo. Così quando si arriva ad esprimere il giudizio «Socrate è
bianco» non c’è corrispondenza diretta e immediata tra il giudi-
zio e la cosa. Il soggetto della proposizione non sta a denomina-
re nessuna sostanza che si definisce univocamente attraverso le
predicazioni. Il verbo essere non esprime un’identità, ma un
movimento del linguaggio, che nella tensione, nella relazione di
soggetto e predicato, quindi nel gioco delle posizioni che i ter-
mini vengono ad assumere nella proposizione, esprime di volta
in volta la dialettica che tiene insieme il suo debito verso una so-
stanza individuale, che modifica l’anima con i suoi attributi sen-
sibili (sostanza non dicibile, ma che imprime il movimento che
trova il suo compimento sempre provvisorio nel linguaggio), e

43 Cfr. U. E CO, Kant e l’ornitorinco, op. cit., pp. 84-87.


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186 Vedere il simile

una sostanza seconda che non può che conoscere la prima se


non attraverso una universalità linguistica. Ogni conoscenza
parte da una realtà singolare che imprime il suo calco all’anima.
Questo fondamento non ha nulla della sostanza definita univo-
camente attraverso una proprietà essenziale, ma è qualcosa che
domanda di essere detto come «il calco dell’anello» la che si im-
prime sulla cera dell’anima, o come qualcosa che «batte sulla
porta della mia anima e sta sulla soglia»44, avviando a partire da
questo atto primario il processo conoscitivo. Quando Aristotele
sostiene che attraverso i sensibili propri si percepisce il bianco,
che attribuiamo attraverso i sensibili per accidente al figlio di
Diare, sta propriamente affermando che si coglie qualcosa a par-
tire dal sensibile proprio che ci ha modificato. Dal punto di vi-
sta di una intellezione delle essenze non può che essere una qua-
lità accidentale e dal punto di vista di una sostanza seconda, che
si dà attraverso una definizione formale per generi e specie,
quanto di più lontano dall’essenziale. Si è visto, tuttavia, che per
Aristotele l’oggetto si dà alla conoscenza in quella zona di me-
dietà in cui la tensione tra sostanza prima e sostanza seconda si
esprime nella identità-differenza racchiusa nel verbo essere. In
questo senso non è necessario individuare tra le affermazioni
degli Analitici e quelle del De Anima una contrapposizione insa-
nabile. Piuttosto bisogna porsi di nuovo in quella prospettiva
interpretativa secondo la quale il pensiero aristotelico può esser
colto nella sua ampiezza e problematicità solo mettendo in rela-
zione i diversi ambiti a partire dai quali Aristotele affronta i pro-
blemi. Negli scritti logici il problema di Aristotele è quello di
capire come possiamo parlare con rigore delle cose, come si può
costruire il linguaggio univoco della scienza a partire dal lin-
guaggio ordinario. Nel De Anima il problema diventa anche un
problema epistemologico e viene affrontato a livello di critica

44 C. S. PEIRCE , Collected Papers (7.619), Thoemmes Press, Bristol 1998. Il filo-

sofo statunitense ha sviluppato il suo pensiero in un rapporto costante con l’aristoteli-


smo, e le riflessioni sull’iconismo primario, sul problema del Ground, della Primità, il
tentativo di dar conto del processo conoscitivo a partire da un’evidenza assoluta e im-
mediata nella sua singolarità sono temi che segnano il realismo di Peirce in chiara asso-
nanza con i problemi che Aristotele si pone nel De Anima.
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La metafora l’anima e le cose 187

dei fondamenti: come accade che qualcosa si mostri alla nostra


conoscenza e diventi qualcosa di detto, di comunicabile. Per
Aristotele ci si pone in cammino per dire qualcosa a partire da
un’adesione sensibile all’ordine del mondo. Ma la qualità dei
sensibili propri, questa traccia primaria che l’oggetto sensibile
lascia nella nostra anima, si definirà come oggetto della cono-
scenza solo a condizione di progressive generalizzazioni e di
rapporti di similarità, che ridefiniranno infine quell’impronta
della sostanza individuale come un prodotto della comunità lin-
guistica. Ma ciò che è il limite della parola, l’extralinguistico per
Aristotele è un dato positivo, per questo individuale, nel senso
che non è il mero rifiuto di un essere che oppone resistenza alla
parola, ma è qualcosa di ‘determinato’, anche se la sua appari-
zione conoscitiva è possibile solo attraverso confronti, associa-
zioni, relazioni che lo desingolarizzano. Questo momento dal
quale prende avvio la conoscenza può essere definito in termini
logico-linguistici e non precisamente identificato in termini gno-
seologici. Nel momento in cui proviamo a coglierlo all’interno
del processo conoscitivo è già divenuto effetto dell’interpreta-
zione e del linguaggio. Il pensiero lo pone come suo fattore fon-
dante di adesione al reale, ma non è individuabile come dato co-
noscitivo. Ma queste successive generalizzazioni dell’esperienza
sensibile non sono affatto per Aristotele una costruzione ex no-
vo delle facoltà umane, ma sono funzioni strutturanti che l’ani-
ma accoglie, secondo le modalità proprie di ciascuna specie di
essere vivente, mutuandole da una legalità del mondo.
Cerchiamo di capire come nel De Anima si vengano defi-
nendo queste relazioni e reti di similitudini che costituiscono il
processo conoscitivo. Tutte quelle attività, che si mostrano come
funzioni sintetiche della sensibilità (i sensibili comuni, per acci-
dente, il sentire il sensibile), sembra si possano ricondurre a
un’attività originaria comune, che Aristotele descrive in un pas-
so che porta con sé una forte produttività teorica.
Nel capitolo ottavo del secondo libro del De Anima, dedi-
cato all’udito, Aristotele afferma:
Quanto poi alle differenze tra i corpi sonori, esse si manifestano
nel suono in atto. Come infatti senza la luce non si vedono i colori, co-
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188 Vedere il simile

sì senza il suono non si distinguono l’acuto e il grave. Questi due ter-


mini sono assunti per metafora dagli oggetti del tatto, giacché l’acuto
muove il senso molto in poco tempo, mentre il grave poco in molto
tempo. Non è però che l’acuto s’identifichi col veloce e il grave col
lento, ma nel primo caso il movimento si effettua nel modo descritto a
causa della velocità, nel secondo a causa della lentezza. Tali qualità del
suono sembrano avere un’analogia con l’acuto e l’ottuso percepiti dal
tatto. L’acuto infatti, per così dire, punge, mentre l’ottuso spinge, poi-
ché l’uno muove il senso in poco tempo e l’altro in molto, sicché ne
consegue che l’uno è veloce e l’altro lento45.
La differenza fondamentale tra i suoni, quella tra acuto e
grave è mutuata dalle sensazioni tattili. Questa possibilità è mo-
tivata da Aristotele ricorrendo a dei parametri spazio-temporali.
È quindi la possibilità di tradurre in strutturazioni spazio-tem-
porali le percezioni, che è propria del senso comune, che ci per-
mette di convertire una percezione in un’altra per analogie co-
struite su una relazionalità spazio-temporale, consentendoci di
percepire qualcosa «accidentalmente». I processi di passaggio,
di trasposizione e di conversione delle percezioni trovano quin-
di la loro condizione di possibilità in una strutturazione spazio-
temporale della sensibilità.
Quando Aristotele parla di «senso comune» è evidente che
intende gli oggetti della percezione come unità strutturate se-
condo un ordine spaziale e temporale; lo attesta il fatto che egli
indichi come prodotti del senso comune la grandezza, il movi-
mento, il numero, la figura, la quiete. Ma Aristotele pensa – e il
passo lo attesta chiaramente – questa strutturazione relazionale
in un rapporto di interdipendenza con quelle qualità ‘assolute’
che si definiscono attraverso i sensibili propri46. Non è senza si-

45 De Anima, B8, 420a 26-420b 4.


46 G. PIANA, Elementi di una dottrina dell’esperienza, Il Saggiatore, Milano
1979, p. 53. L’autore nella sua analisi dei processi percettivi sostiene che c’è «una sorta
di circolarità tra la “qualità” e la “relazione”. Questo è un punto ovvio e che tuttavia è
stato talvolta ampiamente contestato. Uno degli aspetti in cui si manifesta una tendenza
logicizzante nell’ambito della dottrina dell’esperienza consiste proprio nel tentativo di
dissolvere il momento propriamente qualitativo nella relazione.[…] Di fronte a ciò non
esiteremo a parlare della possibilità di considerare i contenuti nello loro assolutezza: di
questo o di quel colore così come si trova nel tubetto, prima del suo impiego, che ha
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La metafora l’anima e le cose 189

gnificato che il filosofo greco sostenga che la percezione dei sen-


sibili comuni avvenga attraverso i sensi speciali, e che non vi sia
un ulteriore senso per apprenderli. Ogni qualità, un suono acu-
to o un colore, si trasforma correlativamente in una qualità inse-
rita in una configurazione spazio-temporale, ogni strutturazione
del tempo e dello spazio richiede la presenza di un contenuto
sensoriale che apra il campo delle relazioni percettive. Questi
due aspetti entrano nel processo sensibile in una relazione di
determinazione reciproca, senza tuttavia mai risolversi o annul-
larsi l’uno nell’altro.
Le operazioni unificanti, che fondano una configurazione
spazio-temporale dei dati percettivi, agiscono a partire da ritmi,
scansioni, permanenze, reiterazioni che si definiscono sempre
tramite una ‘metrica’ o ‘misura’ legata indissolubilmente a un
colore, a un suono a una qualità tattile, che produce una legalità
o una norma di sintesi nello spazio di continuità tra anima e
mondo. Così, per esempio, la durata temporale sarà legata alla
permanenza di un colore o le scansioni dipenderanno da come
una superficie divide la sensazione tattile che induce nella ma-
no. La percezione diventa in questo modo un processo di sintesi
passiva dinamica, in cui si produce un’‘attività’ indotta dall’og-
getto percepito (che non dipende dalla spontaneità soggettiva),
grazie alla quale si costituisce una norma di organizzazione che
si dà di volta in volta a partire dall’esperienza determinata dei
sensi: una regola di organizzazione implicita dei dati della per-
cezione che permette, in absentia di un sensibile proprio, di per-
cepire indirettamente un suono, un odore, un colore seguendo
un processo che si autorganizza, a partire dal dato percepito, in
ritmi spazio-temporali che permettono di passare analogicamen-

una sua tipicità qualitativa, sia pure fluttuante, ma che può comunque essere denomina-
ta e riconosciuta. Parlare di assolutezza del contenuto significa del resto soltanto sottoli-
neare che la qualità precede la relazione e la fonda. Qualcosa non diventa blu cobalto
perché certe relazioni sono state istituite: e nemmeno può accadere che un suono assu-
ma una certa altezza perché si trova nel contesto di altri suoni. Nello stesso tempo è giu-
sto dire che i contenuti, non appena entrano in una scena percettiva, sono essi stessi ri-
sultati delle sintesi di cui sono il fondamento. Una volta impiegato, il colore del tubetto
partecipa ai dinamismi della percezione. La qualità si modifica sotto l’azione delle ten-
denze e delle controtendenze che anima il campo percettivo».
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190 Vedere il simile

te da un senso proprio a un altro sulla base di una sorta di misu-


ra o ‘legalità’ dello spazio-tempo, che crea connessioni tra i sen-
si. Il movimento che caratterizza il mondo naturale come un
universo di corrispondenze, dove tutti gli enti sono individui
determinati, unità di potenza e atto, e nello stesso tempo poten-
ze prime e seconde perennemente in movimento e in relazione
con altre potenze, diventa tempo, cioè qualcosa di sensato e or-
dinato per l’uomo, a partire dal movimento attraverso il quale le
cose modificano la nostra sensibilità. Ma – come sostiene Wie-
land – la norma, alla quale si attiene costantemente la dottrina
del tempo, resta quella del movimento esterno delle cose: «il mo-
vimento è sempre il movimento di una cosa mossa» che ha mo-
dificato un sensibile proprio, il luogo è il luogo di un ente, il
tempo è il tempo di un elemento e la continuità la continuità di
un continuo47. Che ogni movimento rimandi a una cosa in movi-
mento ha un’importanza anche per la teoria del tempo: è infatti
la cosa in movimento, e non l’anima, ciò in base a cui vengono
distinti nel movimento il prima e il poi. Il movimento rimane in-
fatti in tutte le sue fasi un’unità, perché esso rimane sempre rife-

47 Cfr. W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit., pp. 254-67. L’autore mette

in evidenza come la concezione del continuo in Aristotele si fondi sull’interdipendenza


delle dimensioni del tempo, dello spazio e del movimento: «Aristotele giunge ad una de-
finizione definitiva del continuo: divisibile in ciò che è sempre nuovamente divisibile
(Fisica, 231 b 16)». L’importanza non sta nella parte in quanto tale, ma nella suddivisio-
ne. Che la primarietà spetti al concetto di suddivisione è chiaro dal fatto che ogni parte
si definisce dall’essere a sua volte anch’essa suddivisibile. Il concetto di continuità non
ha dunque alcun significato di contenuto, ma formale perché si tratta del significato for-
male della capacità di essere suddiviso all’infinito in entità omogenee. La struttura della
continuità si manifesta soltanto quando grandezza, tempo e movimento si mescolano
l’una con l’altra, o essi sono tutti e tre continui o non lo è nessuno. Infatti, se una di que-
ste tre dimensioni viene suddivisa, vengono contemporaneamente suddivise anche le al-
tre La continuità è per questo una qualità che non può presentarsi ‘in sé’ in nessuna del-
le tre ‘dimensioni’ – grandezza, tempo e movimento – ma solo in quanto esse vengono
poste in relazione l’una con l’altra. Il concetto di continuo non è un concetto superiore
generico, ma consente di lasciare intatti grandezza, tempo e movimento come concetti
fondamentali non più riducibili. Il problema del continuo non può essere ovviamente
affrontato in questo contesto. Ma si vede, anche attraverso un approccio preliminare,
che l’idea di continuo non può che fondarsi su un ordine di relazioni e di corrisponden-
ze che si formano nell’ambito dell’aisthesis, anche se è necessario che quest’ordine entri
in correlazione con l’attività discretizzante dell’intelletto.
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La metafora l’anima e le cose 191

rito alla medesima cosa. Prima e poi non sono quindi pensati
come entità autonome o attimi, ma come stati distinti di una co-
sa in movimento. Il tempo rinvia quindi sempre a un ente tem-
porale.
Per Aristotele la conoscenza si fonda su un atto di adesio-
ne sensibile. Ma questo atto di adesione sensibile si configura
già da subito come un momento di immediatezza e di mediatez-
za, non certo come un rapporto di semplice specularità tra cosa
e oggetto conosciuto; bensì come uno strutturarsi della sensibi-
lità umana secondo modalità compositive spazio-temporali, che
sono misure e criteri iscrivibili all’interno di una legalità del
mondo. La sensibilità per Aristotele è un atto primariamente
passivo (tuttavia, non mera passività), che ha il carattere di una
forma radicata in un momento ricettivo: è un passaggio dalla
potenza all’atto attraverso la modificazione che il dato esterno
produce sulla nostra sensibilità48. Ogni momento ‘attivo’ della
conoscenza si fonda su questo dato primario che si viene defi-
nendo per gradi, senza che tuttavia nessun momento attivo o
successivo possa cancellarlo retroagendo su di esso reinventan-
dolo. Lo stesso momento della koine aisthesis si definisce non
tanto come una unità della coscienza, ma piuttosto come una
condizione comune dei sensi, fondata su criteri compositivi spa-
zio-temporali che l’anima imita, mutuandoli dai ritmi e da una
‘legalità’ della realtà ‘oggettiva’ del movimento: le figure del mo-
vimento che il senso comune rintraccia imitano le figure del mo-
vimento delle realtà individuali. Ma ogni apparenza di queste
realtà come figure dell’anima è simile o analoga a una realtà che,
nella sua individualità, può manifestarsi e farsi presente alla co-
noscenza umana solo attraverso un processo che tiene insieme
un momento di adesione o imitazione e un momento di trasfor-
mazione. Non si delinea, in questa prospettiva, una contrappo-
sizione tra realtà esterna e interna, ma piuttosto un ordine dina-
mico del mondo nel quale l’anima è inserita49. Le rappresenta-

48
Cfr. De Anima, B5.
49
Cfr. W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit., pp. 407-16. L’autore sostie-
ne può quindi intendere la misura del tempo come confronto di movimenti. E sono i
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192 Vedere il simile

zioni del movimento, della grandezza, della figura, del numero e


dell’unità sono per Aristotele ‘rappresentazioni’ mimetiche o si-
mili della realtà a due livelli del processo conoscitivo: nel mo-
mento in cui la realtà individuale imprime la sua traccia nel sen-
sibile proprio e quando si definiscono le prime configurazioni
percettive. Queste per Aristotele sono forme che si danno in
una relazione originaria con il corpo, giacché per il filosofo ogni
anima ha un suo corpo proprio:
Le assurdità in cui incorrono sia la dottrina del Timeo sia la mag-
gior parte delle teorie sull’anima è la seguente: congiungono l’anima al
corpo e la pongono in esso, senza tuttavia indicare la ragione di questa
unione e la condizione del corpo. […] Costoro invece si sforzano d’in-
dicare soltanto la natura dell’anima, ma, riguardo al corpo che dovrà
riceverla, non aggiungono alcuna spiegazione, come se fosse possibile,
secondo i miti pitagorici, che qualunque anima entri in qualunque cor-
po. In realtà è manifesto che ogni corpo ha una specie e forma appro-
priata. Questi filosofi si esprimono come chi dicesse che l’arte del car-
pentiere entra nei flauti. La tecnica deve invece servirsi dei suoi stru-
menti e l’anima del suo corpo50.
Ma questa unità di corpo e anima non definisce per il filo-
sofo una identità che autoproduce le griglie che strutturano la
nostra esperienza. L’animale uomo conosce il mondo secondo
modalità proprie, ma queste modalità sono l’articolazione, pro-
pria di una specie, di una legalità che ha carattere ontologico.
La capacità, legata al senso comune, di connettere, convertire,

movimenti esterni quelli che l’anima mette a confronto. Non è dunque un movimento
proprio dell’anima a rappresentare in questo modo l’unità di misura. Per salvare l’oppo-
sizione e nello stesso tempo l’unità tra tempo e movimento, Aristotele si trova costretto
ad interrogarsi sulla natura di un movimento distinto che non coincide con il tempo nel
quale pur tuttavia esso può essere immediatamente rilevato. Come è noto Aristotele tro-
va questo movimento distinto nel movimento circolare del cielo. L’unità di misura del
tempo non è quindi impostata arbitrariamente, ma figura già data dalla natura: la con-
versione del cielo rappresenta l’unità di misura con cui numerare tutti gli altri movimen-
ti. Il tempo è il movimento misurato dall’anima, nel quale l’anima non ricava l’unità di
misura da se stessa, ma dal movimento del cielo distinto da tutti gli altri movimenti. La
durata temporale di un qualunque movimento è sempre misurata mediante una certa
enumerazione di queste unità (giorni, mesi, anni) riferite al movimento del cielo.
50 De Anima, A4, 408b 13-17, 20-27.
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La metafora l’anima e le cose 193

trasporre analogicamente i sensibili propri non è per Aristotele


una capacità costruttiva della sensibilità umana, ma è legata alla
dimensione ontologica del movimento e della continuità, che
creano quella realtà di corrispondenze tra gli enti che non si dà
come rete di relazioni autoprodotte dal soggetto, ma piuttosto
come un ordine molteplice e infinito, in cui il tempo e lo spazio
dell’anima individuano di volta in volta ordini particolari, confi-
gurando relazioni tra presente passato e futuro a partire da un
patire e un essere modificata dagli oggetti della sensazione.
Il movimento è il sostrato del senso comune, che viene
strutturando delle forme dell’essere in movimento; queste forme
non sono che schemi o misure del movimento attraverso le quali
si costituisce il tempo:
[…] Soltanto quando si aggiunge un “prima” e un “dopo” noi
parliamo di tempo. Con ciò abbiamo la risposta alla nostra questione,
che cosa sia il tempo: è il numero del movimento in relazione al “pri-
ma” e al “dopo”. Il tempo non è dunque identico al movimento, ma è
il movimento in quanto questo ha un numero51.
Si può ora porre la questione di qual sia il rapporto del tempo
con l’anima, e perché l’universo è nel tempo. La risposta è che il tem-
po è una proprietà o un modo di essere del movimento, e che l’univer-
so e tutto ciò che in esso ha un luogo si muovono. Dove c’è movimen-
to o possibilità di movimento, là c’è anche il tempo. La misurazione
del tempo è però, come ogni specie di numerazione, un’attività della
mente. Se dunque non esistesse un uomo dotato di anima, non ci sa-
rebbe un tempo numerato. Ma il tempo come fenomeno quale noi de-
finiamo esiste allo stesso modo del movimento, anche se nessuna ani-
ma li osserva52.
Aristotele non fonda una teoria soggettivistica del tempo.
Il tempo qui sembra porsi in una zona liminare, a metà strada
tra realtà ontologica e gnoseologica, tra oggetto e soggetto: «Il
tempo non è nell’anima, ma la misurazione del tempo presup-
pone l’attività di una ragione pensante»53.

51 Fisica, IV, 11, 219a 34-b 3.


52 Ivi, 223a 22-28.
53 I. DÜRING , Aristotele, op. cit., p. 371.
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194 Vedere il simile

[…] i sensibili comuni, che percepiamo accidentalmente con


ciascun senso, come il movimento, la quiete, la figura, la grandezza, il
numero e l’unità. Difatti tutti questi sensibili li percepiamo mediante il
movimento. Ad esempio mediante il movimento percepiamo la gran-
dezza (e quindi anche la figura, giacché la figura è una grandezza),
mentre ciò che è in quiete lo percepiamo per mancanza di movimento,
e il numero mediante la negazione del continuo54.
Wieland mette l’accento sul fatto che Aristotele introduce
il numero tra i gli ‘oggetti’ della koine aisthesis, non distinguen-
dolo dall’insieme, mentre nella Fisica viene trattato come un
prodotto dell’intelletto che numera. Ma solo a partire dai dati
della percezione il pensiero può realizzarsi dividendo ed enume-
rando. Per sé soltanto, vale a dire senza riferimento ai dati fon-
damentali della percezione, non si trova nel pensiero ancora
nulla della struttura della successione: in questa prospettiva l’in-
telletto è interpretato come una istanza operativa, che non pro-
duce nulla se non sulla base delle forme della percezione.
Analogamente, i concetti linguistici possono essere pensati
nella loro capacità di segmentare, determinare e definire l’espe-
rienza solo riferendosi a una primaria condizione unificante che
si definisce nella percezione. Visti in questo modo, essi possono
essere riattualizzati dal senso, e continuamente ridefiniti, grazie
a un meccanismo di pertinentizzazione che avviene attraverso i
significati pregressi, usati in questo caso come ‘materiali’, che
vengono ridefiniti a partire da unità dei dati percettivi avente
carattere prelinguistico; unità determinate attraverso ritmi,
scansioni, permanenze, reiterazioni che creano una forma orga-
nizzata spazio-temporalmente trovando la loro legalità nello
spazio di continuità tra anima e mondo.

3.2. Metafora: scoperta versus creatività


L’affermazione di Aubenque che «il linguaggio è nel movi-
mento e dice il movimento del mondo sublunare» trova il suo
luogo di fondazione epistemologica nella koine aisthesis e nella

54 De Anima, Γ1, 425a 14-24.


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La metafora l’anima e le cose 195

phantasia. Il linguaggio dice il movimento del mondo sublunare


perché le sue categorizzazioni hanno come condizione fondante
una strutturazione degli esseri in movimento che ha carattere
percettivo. Ed è nel movimento del mondo sublunare perché le
categorie linguistiche vivono in questa condizione di costitutiva
tensione e correlazione con i processi sensibili, che le rimettono
in movimento definendo delle condizioni unitarie che produco-
no slittamenti nello spazio del logos. Il linguaggio esprime que-
sto movimento; e queste configurazioni unitarie, avvicinando
concetti che nell’uso proprio del linguaggio risultano lontani, ri-
definiscono la concettualità linguistica attraverso un filo con-
duttore implicito che nasce nello spazio della sensibilità.
Occorre tuttavia comprendere come mai Aristotele attri-
buisca una capacità euristica, di ridefinizione della conoscenza e
dei significati linguistici, proprio alla metafora, che lavora a par-
tire da meccanismi della sensibilità in modo del tutto particola-
re. Perché Aristotele non prende in considerazione i fenomeni
di espansione semantica partendo da un’attività della sensibilità
che lavora attraverso l’uso dei materiali sonori, e quindi non
considera la poesia nella sua capacità di ridefinire la conoscenza
prendendo in esame gli aspetti formali che nascono dal lavorare
sul linguaggio come se fosse un oggetto, come un materiale so-
noro55? Perché questa attività del senso, che si struttura secon-
55 E. G ARRONI , Ricognizione della semiotica, Officina Edizioni, Roma 1977, pp.

132-33. L’autore, parlando del linguaggio poetico, fa notare come le nozioni di strania-
mento, attualizzazione, orientamento sul messaggio e, in particolare, reificazione metta-
no in evidenza più il carattere metaoperativo e costruttivo dell’attività poetica che non il
suo carattere specificamente semiotico e comunicativo: «Il carattere essenziale di quegli
indici è di essere restrizioni o alterazioni del materiale in cui si realizza il messaggio in
senso stretto; e la loro condizione generale non va ricercata nei fattori della comunica-
zione, ma nella manipolazione operativa cui è soggetto anche il materiale comunicati-
vo.[…] per fare poesia bisogna disporsi di fronte al linguaggio come un artigiano dinan-
zi al suo materiale […] trar fuori da esso un oggetto o qualcosa che sta a metà strada tra
il discorso e l’oggetto e che, proprio perché a metà strada, sviluppa capacità simboliche
e semantiche insospettate. Da un punto di vista linguistico è impossibile rendersi conto
dello specifico simbolismo della poesia e di tutte le sue possibilità simboliche e formali;
né una analisi, per quanto minuta e attenta ai giochi di equivalenza tra parole, lessemi,
morfemi, sillabe, unità foniche, riuscirà mai a dare conto del simbolismo di secondo gra-
do che si sviluppa da certa poesia […] in quanto essa si operativizza e si offre a ulteriori
investimenti simbolici, esattamente come un opera plastica o musicale».
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196 Vedere il simile

do criteri spazio-temporali, attraverso i quali la percezione sin-


tetizza, converte, mutua i registri percettivi, non viene conside-
rata come condizione necessaria di espansione semantica in
quanto lavoro che avviene sui materiali sonori (che renderebbe
il linguaggio come qualcosa che si fa sentire nella sua materia-
lità), e invece Aristotele attribuisce la capacità di scoperta cono-
scitiva alla metafora, che è un meccanismo del linguaggio che la-
vora sui significati e non sui suoni? La risposta a questa doman-
da, probabilmente, è da rintracciare in quella vocazione realista
e ‘referenzialistica’ che caratterizza il pensiero aristotelico, e nel-
la difesa di una sostanza individuale che imprime quella ‘memo-
ria’ originaria al processo conoscitivo, istituendo quella relazio-
ne immediata tra soggetto e oggetto; traccia che può diventare
oggetto del discorso umano solo a condizione di progressive ge-
neralizzazioni. Il linguaggio per Aristotele non dice il mondo
perché trova la sua condizione di possibilità in una sintesi sensi-
bile del molteplice intuitivo che ha carattere ‘costruttivo’, ma il
suo valore ontologico è legato a una capacità sensibile di orga-
nizzare dei rapporti di somiglianza che si definisce in una rela-
zione di interdipendenza con una qualità ‘assoluta’ sempre
identica e sempre diversa; qualità indotta dalla sostanza indivi-
duale, che imprime la sua traccia immediata e la sua determina-
tezza nell’anima. Come si è più volte sottolineato, Aristotele af-
ferma esplicitamente l’impossibilità di conoscere e dire l’indivi-
duale, e tuttavia il filosofo greco attribuisce il carattere di esi-
stenza solo alla sostanza prima. Il linguaggio si muove sempre
nell’universale, ma dall’interno della sua sfera semantica può ri-
mandare, o ‘significare’, attraverso una dinamica racchiudente
una valenza ostensiva che rinvia ai suoi limiti, non solo a quel
meccanismo della sensibilità che lo riattualizza, ma a quella
‘traccia’ primaria che sta a fondamento di ogni rappresentazio-
ne e di ogni apparenza, che per Aristotele è un ‘dato’ positivo e
in qualche modo ‘significativo’, e non solo il limite, la resistenza,
il rifiuto che l’essere pone alla conoscenza umana e al linguag-
gio. La metafora per il filosofo non esprime primariamente un
meccanismo costruttivo o creativo della nostra esperienza, esi-
bendo esclusivamente una capacità propria dei sensi di organiz-
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La metafora l’anima e le cose 197

zare il molteplice intuitivo attivamente attraverso una trasposi-


zione analogica dei diversi registri percettivi. Le relazioni di so-
miglianza, che il processo conoscitivo mette in atto, producendo
apparenze sin dal livello della aisthesis, sono sempre guidate da
una sorta di traccia, che è quel farsi presente della sostanza indi-
viduale. La metafora quindi non esibisce un’attività dell’anima
che ha a che fare con il gioco costruttivo sui materiali dati nella
sensibilità, ma il suo lavorare sui significati e sui rapporti tra si-
gnificati porta all’emergenza un processo che, attraverso innu-
merevoli relazioni e mediazioni è orientato, sempre in modo di-
verso, dalla tensione verso la definizione di quel ‘significato’ che
è il grado zero della rappresentazione, e che è il ‘presentarsi’
della sostanza individuale nella intuizione singolare. Per Aristo-
tele il molteplice dell’intuizione non è dato da materiali grezzi
che la soggettività deve organizzare, ma le qualità date nei sensi-
bili propri si definiscono in un processo sintetico e relazionale,
che non viene prodotto dal soggetto, ma viene indotto dal mani-
festarsi stesso delle sostanze individuali ai sensi, la cui funzione
è primariamente passiva e recettiva, caratterizzata dall’essere un
processo di modificazione sintetica.
Nella metafora i concetti, con i loro significati sedimentati
nell’uso ordinario, vengono rimessi in movimento grazie a una
somiglianza che viene colta a livello sensibile.
Il fatto che Aristotele metta in evidenza un meccanismo di
espansione dei concetti linguistici che si fonda su una relazione,
un gioco semantico, sta a testimoniare che le cose non diventa-
no significative grazie all’anima che elabora costruttivamente dei
dati sensibili, ma che in qualche modo e a un livello diverso lo
sono già in sé. L’identità dell’oggetto, che appare a livello di sin-
tesi sensibile, non è il dato primario e significativo, non ulterior-
mente risalibile, verso il quale il linguaggio contrae il suo debi-
to. Per Aristotele l’ordine del mondo si dà come significativo ad
ogni livello e lo è già prima che le cose si presentino all’anima. Il
linguaggio non può dire la sostanza individuale, nel momento in
cui esprime o porta all’evidenza un significato non può che tra-
sformarla, in quanto non può che esprimere l’universale. Gli og-
getti linguistici sono il prodotto di una stratificazione complessa
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198 Vedere il simile

del processo conoscitivo, e la loro formazione implica sempre


relazione, confronto, rapporti di somiglianza che sembrano ave-
re il luogo di fondazione in quei meccanismi analogici che Ari-
stotele descrive quando parla del senso comune. Ma per il filo-
sofo esiste una sostanza individuale che desta la nostra attenzio-
ne e che si impone all’anima con le sue ‘proprietà’. Un livello in-
feriore del ‘significato’ che rimane come una traccia e una me-
moria a partire dalla quale si formano i processi analogici e co-
noscitivi, e che tali relazioni ridefiniscono continuamente. Il lin-
guaggio che dice l’essere per Aristotele porta sempre la traccia
di questo momento di immediatezza o di adeguazione sensibile.
Per questo il linguaggio metaforico «coglie il simile» tra le cose,
ha valore ontologico, perché mette in mostra, esibisce come l’i-
dentità dell’oggetto si formi, ‘appaia’ in quello spazio di media-
zione tra intuizione e intelletto, ma il suo lavorare sui significati
e non sui materiali sonori, come fa il verso, mette contempora-
neamente in evidenza il modo in cui un ‘significato’ non ulte-
riormente risalibile viene trasformato in un universale e come
l’universale porti con sé sempre la traccia di quella datità prima-
ria. La conoscenza degli esseri sensibili per Aristotele può avve-
nire a partire da una intelligibilità e un principio sovrasensibile
che è immanente a essi e non si fonda certo a partire dalla sog-
gettività umana, che semmai è ratio cognoscendi che si iscrive in
una generale ratio essendi. Per questo il valore cognitivo della
metafora si basa su un meccanismo semantico, perché per Ari-
stotele la realtà è significativa in sé ed è costituita di sostanze in-
dividuali e determinate a partire dalla quali si dà conoscenza. La
metafora per Aristotele non esibisce, come invece accade nella
nozione di simbolo in Kant, un principio sovrasensibile sogget-
tivo operando costruttivamente e creativamente sul materiale
molteplice della sensibilità. Ciò che dona pensiero per il filosofo
greco non è il gioco «vivificante dell’animo», che trae la sua ma-
teria dalla natura trasformandola in un’altra natura, e «la elabo-
ra in vista di qualcos’altro, vale a dire in vista di ciò che trascen-
de la natura»56. Ciò verso cui tendono i significati che entrano

56 I. KANT, Critica del Giudizio, op. cit., § 49. Cfr. anche sulla nozione di simbo-
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La metafora l’anima e le cose 199

in gioco nel linguaggio metaforico non è un’idea del pensiero


che entra in relazione con un lavoro costruttivo dell’immagina-
zione sui materiali, creando una seconda natura. Per Aristotele,
quel luogo di mediazione, che si profila come una sintesi del
senso comune, si correla alla sostanza individuale, che si dà im-
mediatamente attraverso un «mero dato della sensazione», e la
imita trasferendola su un piano manifestativo di similitudini. Le
stratificazioni di senso, che produrranno diversi piani di ricono-
scimento dell’oggetto, portano la ‘memoria’ di questo tratto,
che permarrà e muterà nei processi analogici che porteranno al-
la luce l’identità dell’oggetto conoscitivo. È il significare della
sostanza individuale che dona pensiero e il suo presentarsi all’a-
nima, e non l’operare creativo del soggetto sensibile su dei ma-
teriali, operare che il linguaggio metaforico dovrebbe esibire co-
me fonte del significato. Anche per Aristotele l’oggetto appare
alla conoscenza in quella zona di medietà, come per Kant, ma
non è a partire da un gioco vivificante dell’animo che si dona e
che dona pensiero, ma a partire da un presentarsi della cosa,
che è l’atto di adeguazione immedesimante tra anima e mondo.
Aristotele mette in evidenza una stratificazione del proces-
so conoscitivo in cui la definizione dell’identità dell’oggetto da
una parte è presupposta come identità a sé, come sostanza indi-
viduale, che è già unità di materia e forma, ma, dall’altra questa
stessa sostanza individuale viene posta, considerandola dal pun-
to di vista di questo stesso processo, come la causa efficiente del
suo movimento, il cui fine (che abbiamo visto essere sempre re-
lativo) diventa un significato linguistico, il suo stabilizzarsi in
una comunità di parlanti. Il processo conoscitivo si inserisce nel
più generale ordine intelligibile dell’universo, dove i fenomeni
divengono seguendo uno sviluppo teleologico, le cui fasi sono
definite dalla potenza e atto come momenti dell’essere in movi-
mento, dove l’atto contiene sempre un’eccedenza della potenza
e dove lo stesso fine del movimento conoscitivo è un telos che
continuamente si riapre alla realtà del divenire. Per Aristotele
l’oggetto appare, si forma già a un primo livello di identità nella

lo il tanto discusso §59.


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200 Vedere il simile

sfera della sensibilità. Il senso comune, attraverso la sua capacità


di tracciare delle configurazioni unitarie e generali dei dati irre-
lati dei sensi propri, costituisce un primo grado di identità gno-
seologica dell’oggetto, che appare ancora fluida, ‘indeterminata’
dal punto di vista concettuale, e tuttavia con una maggiore de-
terminatezza ontologica; identità che troverà la sua fissazione e
anche il suo incremento semantico nella espressione linguistica.
La metafora evidenzia questo stratificarsi dei livelli semantici.
Quando il filosofo greco la definisce come ciò che «mette le co-
se davanti agli occhi» e fa vedere tutte le cose come animate, in
movimento, considera la sua referenza come qualcosa che si co-
stituisce nella temporalità della percezione e nel suo aderire alla
realtà fondamentale del movimento; ma questa strutturazione
sensibile contrae nella conoscenza umana un legame necessario
con la sfera linguistica, che definisce ciò che permane in una
tensione costitutiva e ineliminabile con la realtà del divenire. Il
linguaggio metaforico esibisce un movimento della conoscenza
che avviene in uno spazio liminare tra sensibilità e intelletto si
intersecano due livelli di intenzionalità: una primaria struttura-
zione ‘indeterminata’, che rimanda alla presenza della sostanza
individuale che modifica la nostra anima, e una rete di significa-
ti linguistici che definiscono l’oggetto della conoscenza come
oggetto stabile all’interno di una comunità linguistica. Nel pri-
mo capitolo si è parlato di due livelli di intenzionalità che entra-
no in correlazione, e nella conoscenza umana si uniscono in un
intreccio indirimibile senza che l’uno si possa risolvere nell’al-
tro. A questo livello di analisi, si riesce a dar conto di cosa possa
significare, riferendosi al noto passo del De Interpretatione, quel
rapporto privilegiato che si istituisce tra pragmata e pathemata,
rispetto al quale il linguaggio sembrerebbe rivestire un ruolo de-
rivato, connotandosi di un valore denotativo rispetto alla costi-
tuzione dell’oggetto della conoscenza. Tuttavia, il valore refe-
renziale che Aristotele assegna al linguaggio non si traduce nella
riduzione di questo a mera espressione esteriore di una verità
che è già pienamente data prima del suo comparire nella phone:
la parola è il momento costitutivo di trasformazione, di fissazio-
ne, di generalizzazione e di incremento di un significato che fa
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La metafora l’anima e le cose 201

la sua prima apparizione nella sfera della sensibilità, ma che non


può darsi se non attraverso la sua ridefinizione e la sua stabiliz-
zazione nella dimensione intersoggettiva e comunicativa. Per
Aristotele, la definizione dell’oggetto avviene primariamente at-
traverso un atto di adesione sensibile al mondo, attraverso un
atto di intenzionalità rivolto alle cose: la comunicazione e il dia-
logo tra gli uomini si inseriscono, interagendo, su un livello di
contenuto già in qualche modo formato (anche se in via provvi-
soria) prima del linguaggio e della comunicazione57.
Si è visto nel capitolo precedente che Aristotele parla nella
Retorica della metafora come di un metodo per individuare una
congenericità tra cose che nel linguaggio ordinario vengono pen-
sate come molto distanti tra loro. Attraverso un percorso nel De
Anima si è rintracciato un momento del processo conoscitivo in
cui si viene a creare una comunanza generica precategoriale.
Questa condizione primaria di unità entra in relazione con lo
spazio della concettualità linguistica creando una sorta di classe
fluida e aperta di possibili significati, la quale rimette in movi-
mento lo spazio categoriale, producendo legami nuovi tra con-
cetti, e dando vita così, a partire da una dinamica messa in moto
da un meccanismo della sensibilità, a nuove pertinentizzazioni.
Diventa chiaro così, anche da un’analisi epistemolgica, che il
meccanismo metaforico non è un processo che gioca sui signifi-
cati della lingua per creare o per produrre conoscenza attraverso
un movimento tutto interno al linguaggio: il rapporto tra signifi-
cato proprio e improprio di un termine è primariamente un mo-
do per rinviare a una tensione e correlazione tra significato lin-

57 In questo senso si è mossa anche la fenomenologia. G. PIANA, I problemi del-

la fenomenologia, Mondadori, Milano 1966, p. 18. L’autore, interpretando Husserl so-


stiene: «Ogni giudizio che abbia forma “S è p” presuppone che vi sia già un oggetto di
fronte a noi, l’oggetto appunto sul quale esso si pronuncia. Prima del giudizio, vi è già
“qualcosa”: ma questo “qualcosa” deve avere già una struttura unitaria e una identità,
dal momento che esso è già un oggetto ed è proprio “questa identità […] che costituisce
il concetto pregnante dell’oggetto”. Di qui la necessità di mostrare in che modo si formi-
no, a partire dalla fluidità del campo sensoriale, degli oggetti come possibili sostrati del
giudizio. Ma come abbiamo visto il processo di oggettualizzazione si svolge in diverse
fasi e vi saranno dunque anche diversi gradi dell’identità dell’oggetto. […] solo nel mo-
mento in cui la conoscenza è affidata al linguaggio si può parlare di scienza».
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202 Vedere il simile

guistico e extralinguistico, dove l’oggetto ‘indeterminato’ o l’u-


nità generica e «fluida», che si viene definendo a livello percetti-
vo, diventa condizione e fondamento delle pertinentizzazioni
operate dal linguaggio. Il rapporto di trasposizione analogica,
che il meccanismo metaforico mette in atto, è un rapporto che
può essere letto come imitativo: il linguaggio in questo senso
trasforma e segue un movimento che è la dinamica dei rapporti
analogici e di somiglianza che si istituiscono prima della com-
parsa di un significato linguistico. Ogni livello di senso ha un
rapporto di identità e di differenza con quello che lo precede, e
istituisce un rapporto di imitazione e trasposizione su un altro
piano. Ma il genere che la metafora pone sotto gli occhi ha sì un
rapporto di dipendenza imitativa con una unità che si definisce
a livello di sensibilità, ma non esprime un gioco costruttivo dei
registri percettivi che lavorano sui materiali. L’unità ‘indetermi-
nata’, che si crea a livello di sensibilità attraverso una commuta-
bilità dei sensi, ha anch’essa un legame di imitazione con un ‘si-
gnificato’ ulteriore, che è il calco primario e immedesimante che
la sostanza individuale imprime nell’anima. Emerge, anche a li-
vello dell’apparenza che si configura nella sensibilità e la sua
espressione linguistica, un legame imitativo, di somiglianza, che
può dar conto di ciò che Aristotele sostiene nella Retorica: «i
nomi sono imitazioni e la voce è la più mimetica delle nostre fa-
coltà»58. Il linguaggio imita o denota una ‘verità’ che si dà a li-
vello prelinguistico e dalla quale dipende, ma dicendola la assu-
me e la trasforma in un significato sottoposto alle categorizza-
zioni, alle maglie linguistiche e comunicative della conoscenza.
Ora è chiaro – come sostiene Wieland – che il linguaggio
non significa in virtù di un riferimento a un oggetto che si dà in
sé, a partire dal quale la comunità costruirebbe un accordo con-
venzionale attribuendo a questa datità autoevidente una phone.
Se un suono della voce significa qualcosa, ciò avviene perché es-
so rimanda non solo a una esperienza prelinguistica, ma perché,
al tempo stesso, la pratica comunicativa umana ha trasformato
queste forme precategoriali e implicite in valori universali, codi-

58 Retorica, III, 1, 1404a.


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La metafora l’anima e le cose 203

ficati ed espliciti. La funzione significativa del linguaggio si pro-


duce per Aristotele attraverso una duplice intenzionalità: ‘deno-
ta’ un ‘qualcosa’ di prelinguistico, ma è rivolta al tempo stesso
all’ambito della ‘intersoggettività’, che trasforma questo primo
livello di senso in un significato inserito nelle maglie universali
dell’esperienza comunicativa. Quindi la ‘convenzione’ non sta a
significare un su come assegnare un suono a un significato già
dato in sé, ma il riferimento a un livello di senso prelinguistico
diventa significativo in conformità con un accordo che è sempre
presupposto59. Le rappresentazioni che si formano a livello di
sintesi della sensibilità non hanno ancora assunto dei tratti rife-
ribili alla comunicazione, al con-venire, alla comunità60. Ma,
d’altra parte, la comunità non sta semplicemente ad attestare,
attraverso un accordo esplicito, una corrispondenza tra un si-
gnificato già dato prima di ogni comunicazione e la veste fonica
che lo trasmette. Il dialogo umano interviene a definire il signifi-
cato linguistico, ma non lo produce; si inserisce su un livello di
senso già dato sul piano percettivo. Questo livello di unità con-
trae nell’uomo, già da sempre, una correlazione con le categorie
linguistiche, che trasformano e stabilizzano l’oggetto dei sensi.
Questa sorta di ‘oggetto’ fluido, che potremmo pensare come

59 Cfr. W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit, p. 206-09. L’autore propone

di tradurre quel kata syntheken con «in conformità con una convenzione» sottolineando
la primarietà di quello che in termini moderni viene definito il valore pragmatico del si-
gnificato e trascurando, in questa argomentazione, gli aspetti ‘referenzialistici’ che il lin-
guaggio ha in Aristotele.
60 Un esempio contrastivo, rispetto alla concezione aristotelica del senso comu-

ne, che sembra essere il versante ‘passivo’ della phantasia, quella phantasia aisthetike che
accomuna uomo e animale, è quello del senso comune kantiano. Kant, nella terza critica
scrive: «Ma per sensus communis si deve intendere l’idea di un senso che abbiamo in co-
mune, cioè di una facoltà di giudicare che nella sua riflessione tien conto a priori del mo-
do di rappresentare di tutti gli altri, per mantenere in certo modo il giudizio nei limiti
della ragione umana nel suo complesso». La facoltà del giudizio riflettente per Kant si
articola attraverso modalità che ne mettono in evidenza aspetti molteplici e risvolti di-
versi, che lo definiranno come gusto, come genio e come senso comune. Attraverso il
senso comune, Kant mette in evidenza una capacità propria del soggetto di anticipare
esteticamente la consensualità del senso. Per questo aspetto cfr. P. MONTANI, Estetica ed
ermeneutica, Laterza, Roma-Bari 1996, cap. I., e U. E CO in Kant e l’ornitorinco, op. cit.,
p. 79. Eco fa notare come nella terza critica, assumendo il problema dei concetti empiri-
ci, Kant non possa fare a meno di introdurre la comunità nell’orizzonte trascendentale.
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204 Vedere il simile

un dominio di significati possibili (in quanto si presta a molte-


plici pertinentizzazioni linguistiche) è la condizione prelinguisti-
ca che si forma attraverso quel rapporto privilegiato tra pragma-
ta e pathemata, nel quale Aristotele individua il momento pri-
mario della formazione dei contenuti della conoscenza. Il lin-
guaggio per il filosofo si inserisce su una configurazione prima-
ria dei dati che è opera dell’aisthesis, e non può agire a ritroso
sui livelli sensibili della conoscenza definendo una capacità per-
cettiva che ha le caratteristiche di un processo semiotico. In via
di principio, non si può parlare di un oggetto se non attraverso
il linguaggio, e queste stratificazioni dello sviluppo conoscitivo
possono essere risalite solo attraverso un processo di riduzione
che parte dal significato linguistico, dal momento che nell’uomo
le rappresentazioni sensibili non possono che contrarre, neces-
sariamente, un legame costitutivo con i processi formativi del
linguaggio e con le sue categorizzazioni universali. Ogni oggetto
per Aristotele è anche un prodotto della comunità, ma nello
stesso tempo per il filosofo greco questa costitutiva componente
pragmatica ha per condizione e si inscrive su una strutturazione
unitaria dei dati sensibili che ha carattere prelinguistico.

3.3. La soglia tra linguistico ed extralinguistico: phantasia


aisthetike e phantasia bouleutike
Si è visto che la dottrina del senso comune definisce una
capacità di sintetizzare i dati della percezione secondo delle
strutturazioni spazio-temporali che mostrano le figure, le gran-
dezze, il numero, la quiete e il movimento. Questa funzione del-
la percezione può essere identificata con la componente o il ri-
svolto primariamente passivo della phantasia, che è strettamente
dipendente dal carattere ricettivo della sensibilità. A questo li-
vello, l’anima produce ‘apparenze’ che non hanno ancora natura
consensuale, comunicativa, linguistica, ma che nell’uomo si cor-
relano necessariamente con il linguaggio.
Aristotele non si accontenta di introdurre una funzione
‘attiva’ della percezione, perché in questa zona di medietà si de-
finiscono tutta una serie di fenomeni complessi come la memo-
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La metafora l’anima e le cose 205

ria, l’anticipazione, il desiderio, che non possono non intratte-


nere rapporti con l’intelletto pratico e le forme discorsive, che
contraggono un rapporto di interdipendenza con l’ambito della
sensibilità senza mai inglobarlo nella propria orbita. I significati
linguistici non sono per Aristotele – come si è più volte sottoli-
neato – categorie, dei taxa, che strutturano il molteplice sensibi-
le subordinandolo a sé, ma qualcosa che vive in una relazione
fondamentale con un livello di intenzionalità che si forma nello
spazio dell’aisthesis. È il movimento interminabile che tiene in-
sieme e disgiunge questi due livelli e li condiziona reciproca-
mente, senza mai identificarli, che definisce l’oggetto della co-
noscenza umana, la sua identità si fonda in quella zona liminare
in cui si incontrano le due disposizioni fondamentali attraverso
le quali l’anima scopre il mondo: quel theorein che è vedere e
contemplare le somiglianze, inteso come adesione sensibile a un
ordine del reale, e la componente etico-politica dell’anima uma-
na, il suo orientamento linguistico e intersoggettivo.
Vediamo come nel De Anima Aristotele inserisca la distin-
zione tra un livello di immaginazione legato strettamente ai
meccanismi della percezione e un livello, di cui sono dotati gli
animali razionali, in cui intervengono i fenomeni linguistici e co-
municativi.
Inoltre c’è la facoltà immaginativa, che da un lato è essenzial-
mente diversa da tutte, e dall’altro è molto difficile dire a quale di que-
ste parti sia identica e da quale sia diversa, se si ammettono parti sepa-
rate dell’anima (Γ9, 432a 30-432b 2).
[…] Ora mentre risulta che l’intelletto non muove senza la ten-
denza […], la tendenza muove invece anche contro la ragione, giacché
il desiderio è una forma di tendenza (Γ10, 433a 23-26).
[…] In generale dunque, come si è detto, è in quanto ha la fa-
coltà di tendere che l’animale è capace di muovere se stesso, e non
possiede questa facoltà senza l’immaginazione. Ogni immaginazione
poi è razionale o sensitiva, e di quest’ultima sono forniti anche gli altri
animali (Γ10, 433b 28-30).
Aristotele introduce la distinzione tra immaginazione ra-
zionale (bouleutike o logistike) e sensitiva nel momento in cui
deve spiegare il movimento degli animali e definire lo statuto
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206 Vedere il simile

della facoltà locomotoria. L’immaginazione, in questo contesto,


acquista la funzione di selezionare e convertire le apparenze
sensibili in oggetti verso i quali tende il movimento animale. Ne-
gli animali l’orekton, l’oggetto del desiderio verso il quale tendo-
no, è selezionato da una risposta istintuale, da un impulso piace-
vole o doloroso, negli uomini l’oggetto della tendenza si forma
in una relazione costitutiva con i fenomeni intersoggetivi, lingui-
stici, doxastici, perché in questo caso l’immaginazione contrae
un rapporto di dipendenza con l’intelletto pratico, che definisce
l’orekton come oggetto del bene e della felicità umana61.
Il percepire è simile al dire e al pensare; quando invece l’oggetto
è piacevole o doloroso, l’anima lo persegue o lo evita come se affer-
masse o negasse. Provare piacere e dolore è agire con la medietà sensi-
tiva riguardo al bene o al male, in quanto tali. La ripulsa e l’appetizio-
ne, quella in atto, sono la stessa cosa, e la facoltà appetitiva e quella re-
pulsiva non sono diverse né tra loro né dalla facoltà sensitiva, benché
la loro essenza sia differente. Nell’anima razionale le immagini sono
presenti al posto delle sensazioni, e quando essa afferma o nega il bene
o il male, lo evita o lo persegue. Perciò l’anima non pensa mai senza
un’immagine62.
Dopo avere trattato delle capacità critiche o discriminato-
rie, il senso e l’intelletto, Aristotele introduce la facoltà che sta a
fondamento del movimento animale. In realtà, il tentativo di
fondare una facoltà autonoma con principi propri, che dovreb-
be fungere da primo motore del movimento, si risolve nella de-
finizione di una molteplicità di motori, che sembrano trovare un

61 Che la phantasia bouleutike contragga un rapporto di stretta dipendenza con

il giudizio e la doxa è chiaramente attestato alla fine di Γ11, 434a 16-21, dove Aristotele
introduce il sillogismo pratico, mostrando come le due premesse esprimano ciò che
muove il soggetto all’azione. L’interpretazione che riscuote più consensi è quella secon-
do la quale la phantasia logistike è simile all’intelletto pratico. Così si pronunciano G.
RODIER, Aristote, Traité de l’âme, Leroux, Paris 1900, p. 552 e pp. 539-40; J. L. LABAR-
RIÈRE , Imagination humaine et imagination animale chez Aristote, in «Phronesis», 1984,
pp. 17-49; M. C. NUSSBAUM Aristotle’s De motu animalium, Princeton 1978, pp. 265-67.
Critica rispetto a questa identificazione è la posizione di M. CANTO-SPERBER, Mouve-
ment des animaux et motivation humaine dans le livre III du De anima d’Aristote, in «Les
études philosophiques», op. cit., p. 62.
62 De Anima, Γ8, 431a 8-18.
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La metafora l’anima e le cose 207

punto di convergenza e di unità nell’identità dell’orekton63, del-


l’oggetto desiderato, del fine verso cui tende il movimento: que-
sta unità si determina come il prodotto dell’immaginazione.
L’immaginazione, che Aristotele introduce in Γ3 come facoltà
critica, diventa fattore determinante della facoltà locomotoria64.
La causa del movimento e dell’azione è l’orekton, che Ari-
stotele definisce come il motore immobile dell’azione, il fine
prefigurato dall’anima che orienta la praxis e la poiesis. Nell’uo-
mo e nell’animale muoversi significa cercare di avere l’oggetto
che si desidera e agire per averlo. L’unità dell’oggetto o dello
scopo verso cui tende il movimento umano si forma per il filo-
sofo attraverso una capacità, del tutto specifica dell’uomo, di
definire degli scopi determinati, e di ordinare la propria espe-
rienza temporale attraverso una ricerca di mezzi orientata dal-
l’oggetto prefigurato. Ma questo oggetto, che è fine dell’azione
degli animali razionali, è un prodotto composito che si viene
formando attraverso il concorso di diverse attività dell’anima e
di diversi fattori: dalla percezione, dal desiderio, dalla volontà,
dalla deliberazione. Queste componenti diverse, che convergo-
no nella formazione dell’orekton, sembrano tenersi insieme at-
traverso la capacità, che l’immaginazione possiede di passare
63 L’orektikon, come facoltà desiderante, non può essere definita una facoltà

unitaria, poiché Aristotele stesso ne evidenzia il carattere molteplice e mostra il contra-


sto che si crea negli animali razionali tra diversi tipi di orexis.
64 Da questo motivo della riflessione aristotelica emergono con particolare per-

spicuità le aporie che caratterizzano la definizione di immaginazione. Il carattere unita-


rio sembra in qualche modo garantito dall’unità dei suoi oggetti e, nello stesso tempo, la
difficoltà di definire una facoltà con principi propri viene testimoniata dalla convergen-
za di molteplici motori nella produzione dell’orekton. Cfr. M. CANTO-SPERBER, Mouve-
ment des animaux et motivation humaine dans le livre III du De anima d’Aristote, op.
cit., p. 91. L’autrice sostiene che Aristotele si muove in un dilemma rispetto al principio
del movimento, dilemma che può essere superato sostenendo che da una parte è vero
che l’oggetto desiderato è il motore esterno all’agente, ma nello stesso tempo esso è l’og-
getto prodotto dal desiderio, è quindi oggetto esterno ed interno insieme; il desiderio si
orienta a partire dal carattere morale dell’agente e dalla educazione che esso ha ricevuto.
L’immaginazione nel De Anima e nel De Motu Animalium è presentata come una facoltà
costitutiva di ciò che viene desiderato, intermediaria tra il mondo e l’uomo. Essa contri-
buisce, e così raggiunge la prospettiva dell’Etica Nicomachea, a fare dell’agente un re-
sponsabile delle proprie azioni. Ma nello stesso tempo evidenzia la stretta dipendenza
dell’oggetto del desiderio da ciò che in generale deve essere desiderato.
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208 Vedere il simile

analogicamente da una dinamica dell’anima all’altra e di accor-


dare i diversi ambiti. Si comprende già da questo intreccio di
elementi sensibili, passionali, razionali e deliberativi che il bene
verso il quale tende il movimento umano non è l’idea platonica
del bene in sé, intellettualisticamente definita, ma un bene e una
felicità che di volta in volta si costituiscono all’interno delle si-
tuazioni e delle circostanze date, un bene e una felicità che si
danno a partire dagli eventi determinati in cui l’uomo si ritrova
ad agire, sul fondamento delle possibilità che le condizioni sen-
sibili offrono alla sua capacità di deliberare. Il bene come ogget-
to del desiderio umano viene chiamato da Aristotele to prakton
agathon65, il «bene pratico», il bene in quanto si rapporta alla
sfera delle azioni, il bene come bene possibile, la cui possibilità
è stabilita dal suo definirsi all’interno di un ordine del mondo in
divenire: l’anima è inscritta in questo ordine, conosce e agisce in
esso a condizione di una primaria adesione sensibile.
La trattazione della facoltà locomotoria, in cui si analizza-
no i moventi essenziali che producono il movimento di tutti gli
animali, evidenzia con particolare incisività la distanza dal pen-
siero socratico-platonico, che individuava nell’intelletto la fa-
coltà fondamentale che spinge l’uomo ad agire. Nell’Etica Nico-
machea Aristotele distingue tre tipi di orexis: l’epithymia (il desi-
derio irrazionale), il thymos (le affezioni, il cuore) e la boulesis
(il desiderio razionale)66. I moventi dell’azione sono molteplici e
non «si può dire che ciò che muove sia la facoltà razionale», an-
che se negli uomini virtuosi il movimento è necessariamente
connesso alla valutazione morale67.
Nell’argomentazione di questi capitoli del De Anima va
particolarmente evidenziato il tentativo di definire una dynamis
che riesca a spiegare, dal punto di vista epistemologico, la praxis
come ambito del reale che tiene insieme, da una parte, i caratte-
re di fallibilità, vulnerabilità e contingenza dell’esistenza umana,
65 Cfr. De Anima, Γ10, 433b 16.
66 Cfr. Etica Nicomachea, III, 4, 1111b 10; così anche in Retorica, I, 10, 1369a
11; Politica, VII, 16, 1334b 22.
67 Cfr. De Anima, Γ9, 432b 26 sgg. In Γ10, 433a 9 Aristotele riconduce i princi-

pi del movimento dell’uomo a due, il desiderio e l’intelletto, l’orexis e il nous.


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La metafora l’anima e le cose 209

consegnata alla sua natura di pathein, e, dall’altra, il desiderio di


autodeterminazione (la progettualità tipicamente umana), che
definisce la prassi nei suoi aspetti attivi e deliberativi68. Secondo
Aristotele, ciò che rende particolarmente fallibili ed esposte alla
fortuna le azioni umane non è semplicemente il suo essere radi-
cata nella natura sensibile e nella caducità del mondo sublunare
(si pensi a come per il filosofo greco tutti gli esseri ‘partecipino’
del divino), come è invece l’etica socratico-platonica. Ciò che
consegna l’uomo all’infelicità, per il filosofo, è l’incapacità di
definire l’eccellenza morale come un’esigenza della ragione che
si determina di volta in volta a partire dalle circostanze e situa-
zioni particolari in cui l’uomo si ritrova ad agire, l’incapacità di
tenere insieme e comporre le diverse anime desideranti e di tro-
vare un equilibrio tra esigenze razionali e passionali.
In questi capitoli del De Anima, l’attitudine ad armonizza-
re le varie componenti che inducono all’azione e di accordarle
per raggiungere la virtù etica per eccellenza, la phronesis, sem-
bra essere assegnata alla phantasia bouleutike: il motore immo-
bile, il movente ‘non mosso’ in quanto espressione dell’eccellen-
za dell’agire umano, è rappresentato da un fine prefigurato dal-
l’immaginazione, l’orekton. L’immaginazione, in questa prospet-
tiva, diventa una dynamis in grado di convertire l’ordine sensibi-
le del mondo sublunare, in un movimento che, nell’animale ra-
zionale, raggiunge la sua perfezione trasformandosi in azione,
avente il suo fine in un oggetto che si definisce, costitutivamen-
te, attraverso valenze intersoggettive, dialettiche, periastiche, le-
gate alla comunicazione e alla paideia.
La phantasia aisthetike, e le sue formazioni si correlano ne-
cessariamente nell’animale razionale con il linguaggio, che pro-
duce in esse delle determinazioni e delle specificazioni che imi-
tano e traspongono, delimitandole, su un altro piano, le configu-
razioni ‘indeterminate’ legate alla sensibilità. È la comunità lin-
guistica che rende l’‘oggetto indeterminato’ della immaginazio-
ne sensitiva un oggetto stabile, definito attraverso le regole del

68 A questo proposito, si è già fatto riferimento a M. C. NUSSBAUM, La fragilità

del bene, op. cit, passim.


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210 Vedere il simile

dialogo e della comunicazione umana; ma questo convenire sui


significati delle parole, già da sempre presupposto, vive nella di-
namica della sua formazione in un rapporto indirimibile e in
una tensione mai risolvibile con una condizione sensibile prelin-
guistica della formazione dei significati, già in grado di determi-
nare un primo livello di intenzionalità, seppure ancora fluttuan-
te e ‘approssimativo’.
Bisogna esaminare anche riguardo agli animali imperfetti, nei
quali è presente soltanto il senso del tatto, che cos’è ciò che li muove,
ossia se in essi possono o no trovarsi immaginazione e desiderio. Risul-
ta infatti che in essi sono presenti il dolore e il piacere, e se hanno que-
sti, necessariamente hanno anche il desiderio. Ma in che modo si tro-
verà in loro l’immaginazione? Forse, come essi si muovono in modo
indeterminato, così queste funzioni sono bensì presenti, ma in forma
indeterminata. L’immaginazione sensitiva, come si è detto, si trova an-
che negli altri animali, mentre la deliberativa soltanto in quelli forniti
di ragione. Infatti decidere se fare questo o quello è ormai compito del
ragionamento, ed è necessario misurare con un’unica cosa, poiché si
persegue un bene più grande, e di conseguenza di più immagini si può
formare una sola69.
Il passo traccia una linea di demarcazione tra phantasia ai-
sthetike e bouleutike, disegnandola sulla base di una contrappo-
sizione tra rappresentazioni indeterminate e approssimative, che
l’immaginazione produce negli animali inferiori, e la capacità di
definire e di rivolgersi a uno scopo determinato e preciso negli
uomini70. Aristotele qui parla di animali inferiori, riferendosi
probabilmente ad alcuni tipi di insetti dotati soltanto di tatto:
sembrerebbe che, a scopo esplicativo, sia più efficace rendere la
differenza tra immaginazione sensibile e razionale esemplifican-
dola attraverso due tipi di movimento radicalmente diversi; ma
l’argomentazione che il filosofo usa per segnare la discontinuità
tra l’immaginazione degli animali inferiori e l’uomo, cioè l’idea
di una capacità di formare ‘apparenze’ chiare e distinte, può es-

69 De Anima, Γ11, 434a 1-10.


70 Cfr. T. E NGBERG -PEDERSEN, Aristotle’s Theory of Moral Insight, Oxford, Uni-
versity Press, 1983.
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La metafora l’anima e le cose 211

sere usata sicuramente per definire il tratto che distingue la


phantasia bouleutike da quella aisthetike. Nell’animale si forma-
no apparenze dell’oggetto, orientanti la tendenza, che lo pongo-
no in contatto con l’ambiente circostante attraverso delle rap-
presentazioni che non definiscono ancora un vero e proprio og-
getto determinato, che è condizione grazie alla quale si costitui-
sce una progettualità. L’oggetto verso il quale tende il movimen-
to umano si forma con l’intervento del linguaggio, del dialogo
umano, che scopre la molteplicità e, al tempo stesso, individua
percorsi di ricomposizione. È tramite il loro correlarsi intrinse-
camente con il linguaggio come ambito dell’intersoggettività e
della comunicazione, che le forme della percezione producono
molteplici immagini, e si dà nello stesso tempo la condizione del
loro ricomporsi in un processo unitario. Processo regolato, nella
sua struttura teleologica, da uno scopo prefigurato a partire da
un lavoro di sintesi dell’immaginazione. Nella definizione dell’o-
rekton, l’immaginazione non funziona come un’attività che sus-
sume il particolare sotto l’univerale, producendo immagini a
partire da concetti e idee del bene in sé che orientano la prassi
umana. La phantasia bouleutike definisce l’oggetto del desiderio
a partire da una complessa attività di ‘giudizio’, di selezione e di
critica, dove l’intelletto pratico non orienta l’azione attraverso
degli ‘imperativi categorici’ che agiscono in maniera normativa.
L’idea di giusto e di ingiusto e l’idea del bene per Aristotele na-
scono nella pratica comunicativa umana, nello spazio periastico,
nell’ambito delle opinioni condivise e comuni71. Ma il valore
pragmatico dei significati, questo stabilizzarsi in regole univer-
sali condivise, non autorizza a pensare, con Aristotele, un’attitu-
dine del linguaggio ad autoprodurre l’esperienza. Questo si può
evidenziare attraverso la capacità propria della phantasia di met-
tere in relazione due livelli di intenzionalità: una prima intenzio-
nalità che definisce una condizione unitaria dell’esperienza che
ha carattere percettivo e antepredicativo, in cui le forme dell’a-
nima si definiscono in un rapporto di adesione all’ordine sensi-
bile del mondo e alla determinatezza dell’esperienza e una in-

71 Cfr. Politica, I, 2, 1253a 12-18.


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212 Vedere il simile

tenzionalità seconda che si definisce in un rapporto di codeter-


minazione con la prima, ma che riconfigura, determina e gene-
ralizza, attraverso le forme del dialogo e della comunicazione
umana, quella primaria organizzazione sensibile. Per Aristotele,
il movimento dell’animale razionale, sia esso praxis o poiesis,
non è determinato da un fine, o da un oggetto, l’orekton, auto-
prodotto dalla comunità umana attraverso il linguaggio, il giudi-
zio, la doxa, ma è un ‘motore immobile’ costituito da molteplici
motori, un’unità che vive in un costitutivo dinamismo, e in una
costitutiva molteplicità dove entrano momenti percettivi, pas-
sionali, razionali e deliberativi. L’orekton, in quanto effetto an-
che del linguaggio, non può essere prodotto senza una primaria
apprensione critica e discriminatrice che ha valenze percettive72.
Il bene come fine del movimento umano è per Aristotele
un phainomenon agathon, non è un prodotto della noesis, un og-
getto in sé prefigurato dal pensiero morale che orienta la prassi
umana, ma è il prodotto stesso di questa prassi, che si sedimenta
nelle opinioni comuni e trova la sua espressione nel giudizio e
nel linguaggio. Ma se la tradizione, l’opinione dei saggi, i signifi-
cati sedimentati nel linguaggio sono l’orizzonte a partire dal
quale l’uomo può deliberare, occorre, secondo Aristotele, saper
adattare questi giudizi alle situazioni determinate che si presen-
tano di volta in volta, e quindi saper definire gli oggetti come fi-
ni dell’azione tenendo conto dei mezzi che vengono offerti dalle
circostanze in cui ci si ritrova ad agire. Il ragionamento e il cal-
colo mentale non producono mezzi atti a raggiungere un fine,
ma individuano mezzi in circostanze determinate che concorro-
no a definire l’oggetto del desiderio.
L’immaginazione, che nel movimento animale configura
l’oggetto del desiderio come una risposta immediatamente figu-
rata a partire da condizioni di forte dipendenza dell’animale
non umano al proprio mondo-ambiente, si definisce nell’uomo
come un’attività complessa, che crea le sue rappresentazioni,
orientanti l’azione, attraverso il suo mettere in relazione la com-

72 Cfr. M. C. NUSSBAUM, La fragilità del bene, op. cit., p. 512: «Il “bene” e il

“possibile” devono congiungersi perché possa avere luogo il movimento».


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La metafora l’anima e le cose 213

ponente sensibile e la componente linguistica e «calcolatrice». È


attraverso l’intersezione e correlazione di questi due momenti
che l’immaginazione riesce a rintracciare, nella situazione sensi-
bile, diverse possibilità verso le quali orientare il movimento, e
produrre quindi diverse immagini dell’orekton, fino a scegliere
tra i diversi percorsi e oggetti prefigurati quello che meglio tiene
insieme le esigenze dell’intelletto e il desiderio razionale con la
sensibilità e il desiderio irrazionale, di modo che «di più imma-
gini se ne può formare una sola».
La facoltà intellettiva pensa le forme nelle immagini, e come in
quelle forme si determina per essa l’oggetto da perseguire o da evitare,
così, al di fuori della sensazione, quando si rivolge alle immagini, è
mossa. Ad esempio, chi percepisce la torcia perché è fuoco, sa, veden-
dola in movimento, che essa segnala il nemico. Talvolta però, per mez-
zo delle immagini o pensieri che si trovano nell’anima, il soggetto, co-
me se le vedesse, calcola e delibera circa le cose future in relazione a
quelle presenti; e quando ci dice lì, che un oggetto è piacevole o dolo-
roso, così qui si evita o si persegue; ed è ciò che generalmente avviene
per l’azione73.
Questo passo esemplifica due modalità proprie dell’attività
dell’immaginazione in rapporto all’azione. Nell’esempio della
torcia che segnala il nemico, l’attività dell’immaginazione è pen-
sata nella dominanza delle sue modalità sensibili: concomitante
alla percezione del vedere una torcia in movimento si sa dell’esi-
stenza del nemico, anche se non lo si vede. In questo caso, l’im-
maginazione riattualizza delle percezioni passate a partire da
un’associazione messa in moto dalla percezione in atto per pro-
durre una ‘figura’ possibile, quella del nemico. Il lavoro dell’im-
maginazione, in questo contesto, è riconducibile a quell’attività
di coordinazione dei sensibili che permette di sintetizzare e con-
vertire i diversi registri percettivi a partire dal movimento in at-
to di una cosa fuori di noi, nella fattispecie la torcia. Il compito
fondamentale dell’immaginazione sembra quello di definire del-
le relazioni temporali tra le percezioni, sulla base del movimen-
to che avviene in praesentia, tracciando figure che portano con
73 De Anima, Γ7, 431b 2-10.
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214 Vedere il simile

sé un qualche tipo di desiderio. In questo esempio, l’immagina-


zione mostra delle ‘apparenze’ che producono risposte imme-
diate di piacere, e quindi di attrazione, o di dispiacere, e quindi
di repulsione, e funziona, in questo caso, attraverso dei mecca-
nismi relazionali che secondo Aristotele sono comuni ad animali
razionali e non. Nell’uomo i due livelli di phantasia, quella ai-
sthetike e quella bouleutike sono condizione costitutiva di ogni
apparenza, ma attraverso questi esempi sembra evincersi la vo-
lontà di distinguere piani diversi della definizione dei contenuti
conoscitivi, che, come si è sostenuto in precedenza, sono inter-
dipendenti, ma non si risolvono mai l’uno nell’altro, e formando
‘rappresentazioni’ che diventano esempi della dominanza dell’u-
no o dell’altro. Il movimento, che definisce la realtà fondamen-
tale del mondo sublunare, si specifica nell’ordine umano attra-
verso questa strutturazione composita, che sta a fondamento del
venire all’essere di ogni oggetto della conoscenza74. Se l’ordine
cosmologico-metafisico è definito da Aristotele attraverso la
realtà del movimento, è attraverso la realtà del movimento uma-
no, del suo produrre e del suo agire che si può definire l’intelli-
gibilità degli oggetti della conoscenza; tenendo, tuttavia, sempre
presente che ogni processo produttivo e ogni azione sono volti a
un fine che si definisce sul fondamento di una legge che l’anima
riceve aderendo sensibilmente a un ordine del mondo, al quale
essa appartiene75. L’anima appartiene alla realtà del divenire, ma

74 Si è più volte messo in evidenza come Aristotele nel De Anima definisca le at-

tività conoscitive come kinesis, e in particolare parli della phantasia come movimento.
75 Cfr. W. WIELAND, La fisica di Aristotele, op. cit., p. 431. L’autore sottolinea

che l’analogia strutturale tra mondo naturale e anima riposa infine sul fatto che l’anima,
insieme con i suoi stessi movimenti, appartiene a questo mondo, quantunque, per altro
verso, non sia nata per appartenervi. A essa infatti appartiene una posizione esemplare
tra le altre cose: essa è in certo modo, e cioè nel modo della possibilità (dynamis) tutte le
cose, secondo l’espressione centrale del De Anima (431b 21). Questo concetto di anima
non incorre nelle difficoltà di dover contrapporre anima e mondo come sfere intese se-
condo i soliti dettagli. L’affermazione per cui l’anima è in certo modo tutte le cose, non
vale solo per il pensiero e l’intelletto, nell’esame dei quali essa viene enunciata, ma vale
altrettanto per la percezione, anch’essa è in se stessa pura e semplice possibilità, ma nel-
la sua attualità essa è tutt’uno con il percepito (425 b 26). Essa ha dunque il suo essere
specifico non in sé, ossia in una sfera soggettiva, ma in un altro. Questa “esteriorità” ca-
ratteristica dell’anima in Aristotele è anche la ragione per cui abbiamo a che fare nella
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La metafora l’anima e le cose 215

essa può risalire dall’interno questa realtà scoprendo strutture


temporali mediante l’attività della phantasia. Questa, nei suoi ri-
svolti legati alle forme della passività sensoriale, svolge il compi-
to primario di definire le configurazioni unitarie dei sensibili
propri, che Aristotele individua nella figura, nel numero, nella
grandezza, nel movimento e nella quiete. Su questa primaria
condizione unitaria e ‘indeterminata’, che si struttura secondo
relazioni spazio-temporali, definite dall’anima in stretta relazio-
ne con i movimenti degli oggetti esterni, si inseriscono le deter-
minazioni, le segmentazioni, le generalizzazioni del linguaggio.
In questo senso la phantasia svolge una duplice attività: ha il
ruolo fondamentale di synthesis e ritenzione delle percezioni e
un ruolo fondamentale nell’applicazione del pensiero agli ogget-
ti dei sensi76. È nella sua funzione di phantasia bouleutike che il
tempo del mondo diventa un tempo tipicamente umano, attra-
verso la capacità, legata costitutivamente al linguaggio, di imita-
re trasformando in qualcosa di stabile, di riproducibile, qualco-
sa di progettabile, preordinabile e compiuto, il movimento infi-
nito che tiene tutti gli enti del mondo sublunare in una condi-
zione mai superabile di tensione verso una finitezza e un riposo
mai raggiungibili.
La capacità di far emergere dai dati percettivi delle ‘appa-
renze’ strutturate temporalmente, tipica dell’immaginazione, è,
come abbiamo visto in Γ3 del De Anima, una capacità che si
può separare dal suo legame immediato con una percezione
presente e prodursi in absentia. Questa attività negli animali ra-
zionali può assumere un ruolo forte nella produzione di cono-
scenza, in quanto può estendersi e generalizzarsi entrando in
correlazione con la concettualità linguistica. Aristotele, quando
parla della capacità di «mettere le cose davanti agli occhi» come
di un’attività che «dipende da noi»77, sta descrivendo la produ-

psicologia con affermazioni che possono rientrare nella fisica. Troviamo così tra gli og-
getti del senso comune la grandezza e il movimento.
76 Cfr. D. F REDE , The Cognitive Role of Phantasia in Aristoteles, in Essai on Ari-

stotle’s De Anima, op. cit., pp. 279-96.


77 « [..] quando lo vogliamo, è possibile infatti raffigurarsi qualcosa davanti agli

occhi, come fanno coloro che dispongono le cose nei luoghi mnemonici e si costruisco-
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216 Vedere il simile

zione di immagini dal punto di vista della ‘spontaneità’, della


produttività dell’anima. In altri termini, qui viene mostrato co-
me nel percorso conoscitivo umano la facoltà di strutturare dei
dati attraverso una correlazione dei sensi, che permette di trac-
ciare una figura anche attraverso percezioni assenti (per cui se si
vede una cosa bianca la si sente come se fosse dolce), si correli
con i significati linguistici, e venga inserita in una generalità e
progettualità proprie della praxis e della poiesis: ciò consente di
considerare queste ‘apparenze’ dal punto di vista di una capa-
cità, propria dell’anima, di inserirle in un progetto che ha per fi-
ne la felicità umana. Nell’uomo l’attività di ‘immaginare’ una
proprietà che appare in stretta relazione con la percezione (ca-
pacità che definisce le prime configurazioni unitarie dei sensi) si
specifica, attraverso la relazione con i significati linguistici, in
una capacità di cogliere le strutture dinamiche dei fenomeni su-
blunari come se fossero finalizzate alla progettualità umana78.
Ma per Aristotele, le possibilità che l’uomo ha di progettare e
anticipare la propria esperienza, di trasformare l’oggetto della
percezione in un oggetto del linguaggio e del dialogo umano, e
quindi il momento in cui l’anima ‘dispone’ di quelle apparenze
e le inserisce in un progetto produttivo o pratico (pensa un
qualcosa che emana «calore», come se si potesse avvicinare al
corpo umano per produrre salute, o come se fosse qualcosa at-
traverso la quale si possa sciogliere la cera), è un momento che
si inscrive in un processo conoscitivo che prende le mosse dalle
forme dinamiche della sensibilità. Le forme in divenire della na-
tura vengono determinate, si stabilizzano e generalizzano attra-
verso le forme della prassi e della comunicazione umana. Gli
oggetti della phantasia bouleutike trovano la loro condizione di
possibilità in quella capacità di sintesi sensibile che permette di
figurarsi delle percezioni assenti, e che si attualizza in concomi-
tanza con le modificazioni prodotte dalle impressioni sensibili.

no delle immagini, ma avere un’opinione non dipende da noi, poiché necessariamente


con essa o si è nel falso o nel vero» (De Anima, Γ3, 427b 16-18).
78 A questo proposito si è visto nel capitolo precedente come si debba intendere

il passo di Politica, 1, 8, 1256b 15 sgg., dove Aristotele parla della finalizzazione all’uomo
del mondo naturale sublunare: il filosofo non sostiene una teleologia intenzionale.
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La metafora l’anima e le cose 217

Il momento in cui questa dynamis si determina attraverso una


primaria ricettività non crea una rappresentazione statica che at-
tualizza pienamente una potenzialità, ma la dynamis continua ad
esprimere la sua eccedenza di potenza congiunta all’atto, corre-
landosi nell’animale razionale alla concettualità linguistica. La
duplice modalità attraverso la quale si caratterizza la phantasia,
come phantasia bouleutike e aisthetike, può essere ricondotta al-
la teorizzazione della potenza attiva e passiva. Il lavoro dell’im-
maginazione è, da una parte, primariamente determinato dal le-
game con le forme della passività, della ricettività (un lavoro che
avviene in concomitanza con le modificazioni che l’oggetto
esterno produce nell’anima) e, dall’altra, definito nel suo ver-
sante attivo. In questo ultimo caso, la capacità di «mettere le co-
se davanti agli occhi», di figurarle, viene considerata nel suo
rapporto con i significati linguistici, e quindi anche pensata a
fondamento della possibilità di ‘costruire’ oggetti immaginari,
come per esempio l’unicorno. Qui l’immaginazione lavora con
una dominanza del momento attivo e può operare in absentia.
Quando Aristotele dice che «per mezzo delle immagini o
pensieri che si trovano nell’anima, il soggetto, come se le vedes-
se, calcola e delibera circa le cose future in relazione a quelle
presenti» non sta sostenendo un’attività della phantasia in grado
di figurare oggetti come motori immobili del movimento uma-
no, autoprodotti dalla spontaneità del pensiero, ma sta analiz-
zando questa facoltà dal punto di vista della sua capacità ‘pro-
duttiva’, considerando il ruolo che essa ha nel compito tipica-
mente umano di progettare il futuro, di distaccarsi dal proprio
mondo-ambiente, di essere aperti all’avvenire e alla dimensione
del possibile. Ma questo aspetto, nella prospettiva aristotelica,
va considerato nel suo legame primario con le forme della passi-
vità, e quindi nel suo essere primariamente radicato nella sfera
della sensibilità e della recettività. Per Aristotele anche gli og-
getti immaginari hanno la loro condizione di possibilità nelle
forme della percezione, e non sono semplici immagini inventate
dal linguaggio. La capacità di figurarsi l’unicorno nasce nella
sfera delle percezioni che operano in absentia, producendo
un’organizzazione delle forme della sensibilità non indotta di-
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218 Vedere il simile

rettamente da un oggetto esterno, ma che dipende comunque


dai contenuti ritenuti e dalle modalità di strutturazione della
percezione.
L’immaginazione pone l’oggetto prefigurante il futuro e il
possibile come un oggetto attuale, che si pone davanti agli occhi
come presente, attualizzando percezioni passate, e operando
una sintesi in cui il tempo sensato della percezione diviene, at-
traverso la phantasia bouleutike, il tempo umanizzato che si rap-
porta alla concettualità linguistica. La capacità di sentire il bian-
co come se fosse dolce, che definisce le forme precategoriali, si
converte allora nella capacità di figurarmi questa unità dei sensi
come la vedrebbe qualcun altro, determinandola, generalizzan-
dola e definendola attraverso le forme della comunicazione che
si strutturano a partire da un convenire, da un riferimento con-
diviso a questa condizione precategoriale di universalità indeter-
minata, questa condizione implicita che le forme del linguaggio
determinano in molteplici modi. Ma i modi in cui il linguaggio
concettualizza trovano come condizione preliminare queste pre-
disposizioni al significato che appartengono alla sfera della sen-
sibilità. Le categorie aristoteliche come modi fondamentali della
predicazione sono orientate da queste primarie configurazioni
percettive, che l’anima definisce in un rapporto mimetico con
l’ordine del mondo. Aristotele parla di figura, movimento, gran-
dezza, quiete, numero. L’analisi aristotelica non ha certo la pre-
tesa di un estremo rigore epistemologico, ciò è dovuto forse al
fatto che la sua considerazione dei problemi parte da una pri-
marietà della prospettiva metafisica. Ciò che conta, tuttavia, e
che ha particolare interesse dal punto di vista della formazione
dell’oggetto della conoscenza, è il fatto che a livello di sintesi
sensibile si individuino delle primarie condizioni che definisco-
no delle figure di unità, che si specificheranno attraverso le cate-
gorie linguistiche. Per Aristotele, prendere atto che certi modi
della predicazione fanno già da sempre parte della esperienza,
significa pensare che questi hanno un qualche rapporto di corri-
spondenza con l’ordine delle cose. La nostra esperienza sensibi-
le, caratterizzata da una primarietà del momento ricettivo e pas-
sivo, si definisce attraverso qualità inserite in una rete di corri-
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La metafora l’anima e le cose 219

spondenze e di rapporti spazio-temporali, che creano immagini


del movimento, della grandezza, della quiete, della figura, del
numero. Il linguaggio non fa che esprimere, articolando, deter-
minando e segmentando, queste condizioni unitarie dell’espe-
rienza. Ogni oggetto ci è dato vedendolo in movimento e in
quiete, attraverso una figura e la sua grandezza. Nel linguaggio
noi possiamo oggettivarlo, di volta in volta e secondo il punto di
vista dal quale lo consideriamo, come una quantità, o attraverso
la sua collocazione nello spazio, o vedere il movimento delle co-
se come esplicitamente inserito nel progetto dell’agire umano. Il
linguaggio definitorio della scienza non fa che stabilizzare, siste-
matizzare e costruire quel sistema di assiomi e definizioni che
determinano secondo principi i modi fondamentali in cui di vol-
ta in volta il linguaggio ordinario articola questa oggettivazione.
Ma i modi in cui definiamo e oggettiviamo, secondo prospettive
linguistiche diverse, rimandano a un’unità precategoriale che ha
natura sensibile. Per questo il linguaggio per Aristotele ha una
valenza denotativa, non perché sia mera phone, volta a esprime-
re secondo convenzione dei significati già definiti una volta per
tutte prima del linguaggio, ma perché il linguaggio ridefinisce
una condizione unitaria prelinguistica che si dà in un rapporto
di ‘immediatezza’ tra pragmata e pathemata. Quando si dice «x è
qualcosa», ci si riferisce a un qualche ‘oggetto’ sia pure non an-
cora determinato (dal punto di vista gnoseologico) e stabile, ma
che deve essere già apparso nell’anima. E questa unità è già data
come una qualità in movimento, che ha una certa grandezza e
figura.
Nel capitolo decimo del terzo libro del De Anima, Aristo-
tele connette la capacità di pensiero alla dimensione della tem-
poralità e sostiene che «l’intelletto ordina di resistere in vista del
futuro, mentre il desiderio comanda sulla base del presente,
giacché ciò che è immediatamente piacevole gli appare piacevo-
le in senso assoluto e bene in senso assoluto, per il fatto che non
considera il futuro». Il filosofo mostra come il conflitto tra le di-
verse anime desideranti è proprio solo di quegli animali «che
hanno la percezione del tempo». In altri luoghi della sua rifles-
sione, il filosofo non esclude affatto la dimensione della tempo-
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220 Vedere il simile

ralità nella produzione dell’oggetto del desiderio degli animali


non razionali. In questi ultimi, tuttavia, il legame di immediatez-
za che si crea tra rappresentazioni sensibili e oggetto del deside-
rio fa pensare a un tempo in cui la dimensione del presente as-
sume una dominanza rispetto al futuro, in quanto l’oggetto del
desiderio si produce in un rapporto di stretta contiguità con
uno stimolo in praesentia, e acquista il carattere di bene assoluto
per gli animali non razionali e per gli incontinenti79. Appare
chiaro, anche mettendo in relazione questo passo del De Anima
con quello di Politica, I, 2, 1253a 12-1880, che la dimensione del
futuro e della progettualità assume una centralità nell’uomo gra-
zie al linguaggio. È grazie al linguaggio, e attraverso le forme del
dialogo, che l’uomo definisce i molteplici modi di riferirsi a
quella primaria condizione di unità (in cui si creano le direttrici
fondamentali, le condizioni precategoriali di unità). La capacità
propria di tutti gli animali di vedere una pietra come se fosse
dura, nell’uomo si è specificata attraverso il linguaggio e la di-
mensione intersoggettiva, intensificandosi, generalizzandosi e
prendendo la forma di una capacità adattativa. Condizione che
permette all’esperienza umana di divenire e progettarsi attraver-
so i modi in cui la vita associata, il dialogo e l’educazione posso-
no dare stabilità, definire e portare a compimento questa condi-
zione primaria di adesione al mondo sensibile. Il linguaggio può
«mettere davanti agli occhi», oggettivare la nostra esperienza
sensibile, e oggettivandola rintracciare in essa i modi in cui può
essere determinata, stabilizzata e sottratta alla dispersione. In
questo modo, esso è in grado di aprire lo spazio della progettua-
lità umana e del futuro, ma non creare o inventare dal suo inter-

79 Nella Fisica (11, 218 b 21), Aristotele sostiene che la percezione del tempo è

propria anche di altri animali.


80 Trad. it. R. LAURENTI , Laterza Editore, Roma-Bari 1989: «Perché la natura,

come diciamo, non fa niente senza scopo e l’uomo, solo tra gli animali, ha la parola: la
voce indica quel che è doloroso e gioioso e pertanto l’hanno anche gli altri animali […]
ma la parola è fatta per esprimere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo e, di conseguen-
za il giusto e l’ingiusto: questo è, infatti proprio dell’uomo rispetto agli altri animali, di
avere, egli solo, la percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e degli altri
valori […]».
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La metafora l’anima e le cose 221

no la sfera del possibile: la dimensione della possibilità si radica


nella scoperta di un oggetto dinamico dei sensi, con le sue linee
di tendenza. In questo dinamismo primario, i significati lingui-
stici si inseriscono scoprendo la molteplicità e, al tempo stesso,
individuando dei percorsi di ricomposizione e di stabilità. Non
tutti i percorsi, ma quelli che si articolano a partire dai modi in
cui si strutturano le figure dei sensibili comuni: le categorie, in
questa prospettiva, non saranno altro che i modi in cui il lin-
guaggio oggettiverà di volta in volta uno dei fattori costitutivi
che concorrono a definire l’oggetto dei sensi.
Il linguaggio come strumento per dominare la contingenza
dei fenomeni del mondo sublunare e il linguaggio metaforico
come un modo di vedere tutte le cose come se fossero in movi-
mento, in azione: questa paradossalità costitutiva del linguaggio
viene mostrata in modo esemplare dal processo metaforico, che
esibisce questo movimento, tipico della phantasia bouleutike, di
oscillazione e tensione continua tra la sensibilità e l’intelletto;
dinamica attraverso la quale le forme della phantasia aisthetike
si correlano alla universalità linguistica. In questa tensione si
produce il moltiplicarsi dei suoi oggetti e, contemporaneamen-
te, si sviluppa il percorso di ricomposizione all’interno dei signi-
ficati pregressi del linguaggio: questa correlazione crea quella
congenericità descritta nella Retorica. Il linguaggio metaforico,
in questa prospettiva, rappresenta l’espressione della tempora-
lità tipica dell’uomo, che si definisce in un legame costitutivo
con il linguaggio. È attraverso il linguaggio metaforico, che «po-
ne le cose davanti agli occhi», che i significati linguistici sedi-
mentati nell’uso si riattualizzano attraverso i sensi, creando la
condizione per una loro estensione guidata da un movimento di
unificazione che ha la sua origine nelle percezioni: lavoro che si
viene definendo per gradi e in interdipendenza con i significati
del linguaggio, stabilizzandosi in quel genere approssimativo e
indeterminato che la metafora mette sotto gli occhi.
Come il linguaggio e in particolare la mimesis metaforica si
inseriscano nell’ordine teleologico aristotelico è stato trattato
nel precedente capitolo. Ma può essere reso in termini ulterior-
mente esplicativi alla luce delle acquisizioni che la dottrina del-
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222 Vedere il simile

l’anima ci fornisce. Abbiamo visto come la techne, compreso il


linguaggio, riesca a dare regolarità, stabilità e condurre a compi-
mento quello che la natura del mondo sublunare non riesce a
portare a termine. Per spiegare l’intervento del caso, Aristotele
in Fisica, II, 3, 196 a 3-sgg. porta l’esempio, estendibile secondo
il filosofo alle cose di natura (thyche e automaton sono infatti
definibili secondo le stesse dinamiche), di chi va al mercato e in-
contra per caso un debitore. L’incontro diventa casuale solo dal
punto di vista dello scopo che ci si era prefissati nell’andare al
mercato, ma non lo è più se noi ci fossimo recati apposta al mer-
cato per incontrarlo. Quello che Aristotele vuole mettere in evi-
denza è il fatto che si può rintracciare sempre una causa ulterio-
re a partire dalla quale il processo teleologico si ridefinisce in
maniera congruente. Ma questa molteplicità degli ordini teleo-
logici, e la dialettica che si istituisce tra caso e fine, è possibile
individuarla e scoprirla solo attraverso il linguaggio: il linguag-
gio apre verso la pluralità e scopre percorsi di ricomposizione
molteplici. L’animale, nel momento in cui interviene il caso nel
suo rapporto con il mondo-ambiente, non è in grado di distac-
carsi dall’incombere del disordine e rintracciare un ulteriore
processo congruente. L’uomo ha questa capacità adattativa che
gli permette non di autoprodurre una seconda natura che crea
le forme della sua prassi, ma di definire le forme della sua cono-
scenza in un legame con una realtà sensibile in divenire, alla
quale il dialogo umano risponde attraverso la molteplicità delle
sue forme di ricomposizione. Il linguaggio metaforico esprime
esemplarmente la dinamica che si istituisce tra forme sensibili e
forme dell’universalità linguistica. Mostra come si possa vedere
l’apparato riproduttivo come se fossero le radici di una pianta,
ricostruendo, a partire da nuovi tratti dati nella sensibilità, nuo-
vi legami di congruenza tra i significati. Il linguaggio metaforico
mostra questo lavoro di intermediazione della phantasia, ed esi-
bisce il correlarsi di una forma implicita della sensibilità con i si-
gnificati del linguaggio, producendo quell’esibizione analogica i
cui rapporti sono guidati da questa primaria configurazione sen-
sibile. Questo processo trova il suo compimento nell’individua-
zione di una con genericità, che ha il suo riferimento in una sin-
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La metafora l’anima e le cose 223

tesi sensibile che si definisce nel linguaggio in una universalità


‘indeterminata’. Universalità che troverà le sue specificazioni nel
linguaggio definitorio delle scienze particolari.
Si comprende, a partire dalla dottrina dell’anima, come
l’unità per analogia, che Aristotele definisce nella Metafisica e
nell’Etica Nicomachea, trovi la sua condizione esplicativa in
quell’unità del senso e nel suo correlarsi con i molteplici modi
in cui il dialogo umano ne fa parola, articolando così le forme
della percezione nelle situazioni della prassi e della dimensione
intersoggettiva: il linguaggio, riferendosi a un contenuto non an-
cora esplicito e determinato, lo imita trasformandolo nelle mol-
teplici forme di ricomposizione del dialogo umano. L’unità per
analogia viene espressa da quel genere che la metafora pone sot-
to gli occhi, dove il linguaggio esprime la sua capacità ontologica
mettendo in evidenza la dominanza di una forma sensibile. I
modi della predicazione, attraverso i quali il linguaggio artico-
lerà questa condizione primaria di unità, seguiranno le strutture
legate all’esperienza sensibile, esplicitando di volta in volta la
dominanza di un aspetto o di un costituente di questa stessa
esperienza.
La dialettica che tiene insieme nel giudizio la determina-
tezza della sostanza individuale e la forma universale troverà il
suo luogo di fondazione epistemologica nel senso comune e nel-
la phantasia: questa zona liminare della conoscenza da una parte
rimanda alla sostanza individuale, che la metafisica aristotelica
presuppone nella sua determinatezza come il momento da cui
prende le mosse ogni processo conoscitivo, e dall’altra ai modi
in cui gli oggetti diventano significati linguistici, forme del dia-
logo umano.
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INDICE

Introduzione 11

Capitolo Primo
L’AMBIGUITÀ DELL’ONTOLOGIA ARISTOTELICA
E IL LINGUAGGIO METAFORICO 25
1.1. Il ritorno alla dialettica 41
1.2. La doxa e la convenzione 47
1.3. Il linguaggio tra determinatezza ontologica
e universalità dialettica 67

Capitolo Secondo
LA MIMÈSI POETICA ALL’INTERNO
DELLA DIVISIONE DEI SAPERI 81
2.1. L’arte imita la natura 87
2.2. Teleologia naturale e teleologia artificiale 91
2.3. La mimesis come sintesi temporalea 105
2.4. Le implicazioni etico-pratiche della tragedia 116
2.5. Il discorso metaforico come un «vedere il simile»
nel dissimile 127

Capitolo Terzo
LA METAFORA L’ANIMA E LE COSE 159
3.1. Pro ommaton poiein e metafora dei sensi 171
3.2. Metafora: scoperta versus creatività 194
3.3. La soglia tra linguistico ed extralinguistico:
phantasia aisthetike e phantasia bouleutike 204

Bibliografia 225
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