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i cento talleri

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ANDREA SANGIACOMO

SCORCI
ONTOLOGIA E VERITÀ NELLA FILOSOFIA
DEL NOVECENTO

PREFAZIONE DI GIORGIO BRIANESE

Direttori di collana
Jacopo Agnesina, Diego Fusaro
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Scorci

Prefazione
A mia madre
C’è bisogno – c’è sempre bisogno, tanto più oggi, quando
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, il nostro sembra davvero il tempo del «niente al potere»
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. e del «grado zero del logos»1 – di richiamare l’attenzione
Codesto solo oggi possiamo dirti,
sul valore e sulla presenza del discorso filosofico. Il quale
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
non è qualcosa che interessa gli antiquari del pensiero,
(E. Montale - Ossi di seppia) bensì relazione e cammino dialogico che ci conduce là
dove il nostro thumòs (per dirla al modo di Parmenide)
desidera giungere, al luogo cui (già da sempre?) apparte-
niamo. C’è bisogno – c’è sempre bisogno – di sottolineare
che la filosofia, anche e soprattutto quando rinvia ad un
passato all’apparenza lontanissimo – non è semplicemen-
te una più o meno attendibile ricostruzione storica e filo-
logica di ciò che è già stato pensato, ma ha sempre di
nuovo a che fare con il nostro qui ed ora, con il senso
5 attuale della nostra esistenza.
Andrea Sangiacomo – che, prima di questo, ha già pub-
blicato un libro impegnativo e suggestivo, La sfida di
Parmenide, del quale questo lavoro si presenta insieme
come l’approfondimento e lo sviluppo – lo sa bene ed è
consapevole che anche la sua riflessione si colloca su «quel
sentiero che già da sempre riporta ciascuno all’Essere e
alla sua Verità».
In questo senso la corretta comprensione del binomio
ontologia-verità, cui l’indagine di Sangiacomo dichiarata-
mente si rivolge, non solo è indispensabile per interpreta-
re adeguatamente lo sviluppo complessivo della filosofia
Ringraziamenti contemporanea, ma è cruciale per intendere a fondo la
nostra storia, il nostro presente, il nostro destino. Per com-
Diego Fusaro per la sua fiducia e Daniela Benvenuti per la con- prendere cioè che quella occidentale «è la civiltà della soli-
sueta intelligenza con cui ha saputo accompagnarmi e sostener- tudine», sempre di nuovo vanamente impegnata a cercar
mi: a loro i miei ringraziamenti. riparo dal nulla e dalla morte e destinata, come una sorta

note
1
F. Cordero, Nere lune d’Italia, Milano, Garzanti, 2004, pp. 57-59.
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di Tantalo, a non riuscire a spegnere mai la propria sete e ma di ciò che, come hanno insegnato una volta per tutte
la propria fame di “essere”. Perché quella dell’Occidente Eraclito e i Pitagorici, «si riesce o si sa udire» prestando
è, in un senso più ampio e insieme più radicale rispetto a ascolto al logos.
quello denunciato da Nietzsche in un celebre capitolo del Ed è la musica, risuonando nel «miracolo di un silenzio»
Crepuscolo degli idoli2, la storia della favola della verità, che, come emerge dalle pagine suggestive dell’“Inter-
ossia la storia di un errore: di quell’errore che condanna mezzo”, non è mancanza, bensì «la concreta presenza del
ciascuno di noi a pensare a sé come a un mortale destina- Tutto come tale», a presentarsi come «la più radicale e
to al non-essere e perciò condannato sin d’ora a essere concreta negazione di ogni isolamento». Le parole di
niente. Sangiacomo hanno qui la radicalità e la freschezza di cui
Sangiacomo tutto questo lo sa bene e il suo confronto con solo un giovane è capace, e sembrano idealmente rispon-
il discorso filosofico di Emanuele Severino (che in questo dere alla domanda che Emanuele Severino poneva nel
libro, come nel precedente, viene articolato con impegno primo dei molti libri che ha dato alle stampe, ultimato
teoretico e sensibilità interpretativa e allargato a una con- esattamente sessant’anni fa: «Se nella musica la libertà è
siderazione non episodica con il pensiero dello Heidegger totale, in che rapporto si pone la musica con la realtà?»3.
di Sein und Zeit) è ben più che un momento di contorno La musica – scrive Sangiacomo - è «l’evento grazie al quale
della sua proposta filosofica. Ma sa anche – e lo mostra si fa avanti qualcosa come la realtà», «un modo originario
con molta efficacia riferendosi in modo pensato e stimo- 6 7 in cui il Tutto parla di sé», e, più radicalmente ancora
lante ai versi di Omero – che la storia dell’Occidente è della filosofia, «esemplifica l’impossibilità materiale del-
anche «il lungo poema che narra l’assedio e la guerra con- l’isolamento». Perché il senso autentico dell’Essere –
tro una città che comanda all’uomo di esistere pensando variamente smarrito dalla civiltà occidentale – dice del-
[la propria] esistenza come nullità». Una guerra che si l’oltrepassamento della solitudine, di ogni solitudine. La
profila come la «guerra di liberazione» per eccellenza, quale non è semplicemente una “malattia dell’anima” per
orientata com’è all’abbattimento delle mura che hanno la quale sia possibile approntare una più o meno efficace
condannato l’Occidente all’isolamento, cioè alla volontà di “terapia” psicologica4, bensì il male sottile che anima l’in-
potenza. E che travalica distinzioni, ampie ma pur sem- tero sviluppo della nostra storia e del nostro tempo.
pre troppo anguste, come quella, ormai quasi alla moda, L’esito al quale Sangiacomo conduce passo dopo passo il
tra analitici e continentali, perché non può che essere con- lettore, rovescia, a me pare, il punto di vista estremo del-
dotta alla luce di quell’ontologia fondamentale che «non è il l’ultimo Nietzsche. Se questi poteva scrivere: «io sono la
discorso che qualcuno vuole fare intorno alle cose che sono, solitudine fatta persona... Il fatto che nessuna parola mi
quanto piuttosto il logos stesso dell’Essere che prende la
parola». Sì che il problema che anche e soprattutto oggi note
sfida il pensiero non è tanto quello di ciò che si vuole dire, 3
E. Severino, La coscienza. Pensieri per un’antifilosofia, Brescia,
Vannini, 1948, p. 87.
note 4
Sulla “cultura terapeutica” che ha invaso il nostro tempo cfr.
2
Cfr. F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, “Come il mondo vero F. Furedi, Il nuovo conformismo, trad. ital., Milano, Feltrinelli,
divenne finalmente favola”. 2005.
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raggiungesse mai, mi costrinse a raggiungere me stesso»5, della “follia” essenziale in cui il nichilismo consiste ed è
Sangiacomo richiama invece la nostra attenzione sulla per ciò destinata ad essere oltrepassata. Perché prestare
possibilità (sulla necessità?) di un ascolto del senso auten- ascolto al logos significa poter affermare, guardando alla
tico dell’essere che sia ad un tempo oltrepassamento della vita dei mortali: «sono solo soltanto in apparenza, ma se
solitudine ed educazione a un senso nuovo, davvero inau- anche fossi solo del tutto la mia solitudine sarebbe più
dito, della libertà: il «retrobottega» nel quale abita «la ricca del loro accompagnarsi»8.
nostra vera libertà» non è, come voleva Montaigne, quel-
lo della «nostra solitudine»6, bensì quello della necessaria Venezia, novembre 2007
relazione che ciascuno di noi intrattiene con ogni essente
e della «inseparabilità necessaria di ogni cosa da ciò che
essa è».
Sta qui, a mio modo di vedere, uno dei non pochi motivi
d’interesse di questo scritto, che sono lieto di presentare:
nell’invitarci a riflettere filosoficamente sul senso autenti-
co del nostro non essere destinati né alla solitudine né alla
morte. Schopenhauer afferma che, in qualsiasi modo l’uo-
mo cerchi di combatterla, la paura della morte «rimane 8 9
inevitabilmente sullo sfondo e può ad ogni istante farsi
avanti»7. Ma il libro di Sangiacomo mostra bene, sulla
scorta dell’indicazione filosofica severiniana, come quella
paura dipenda dall’anima nichilistica che, nel sottosuolo,
accompagna sin dall’inizio la storia dell’Occidente, pre-
tendendo di isolare la terra dalla verità dell’essere. E come
«l’autentica trasvalutazione di tutti i valori», con buona
pace di Nietzsche, sia non quella guidata dalla volontà di
potenza, bensì quella guidata dal destino della necessità.
Perché anche la solitudine della terra e del mortale è parte

note
5
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, 25[7], trad. ital.
di S. Giametta, in «Opere di F. Nietzsche», Milano, Adelphi,
19863, p. 411.
6
M. de Montaigne, Saggi, Libro I, cap. XXXIX (Della solitudi-
ne), trad. ital., Milano, Mondadori, 1970, vol. I, p. 315.
7
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, § 57, note
trad. ital. mia. 8
C. Michelstaedter, Epistolario, Milano, Adelphi, 1993, p. 451.
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Andrea Sangiacomo Scorci

Avvertenza PARTE PRIMA

Pur essendo formalmente indipendenti 9, i saggi qui raccolti sono La civiltà della solitudine
stati pensati e scritti con intento unitario. Quelli della prima
parte hanno funzione negativa, cercando di mostrare i limiti Prendemmo a spargere le carte sul tavolo, scoperte, come per imparare
entro i quali il problema della verità e, in senso più lato, quel- a riconoscerle, e dare loro il giusto valore nei giochi, o il vero signifi-
lo dell’Essere, sono stati intesi e portati alle loro estreme conse- cato nella lettura del destino. Eppure non sembrava che alcuno di noi
guenze lungo il corso della storia dell’Occidente. Quelli della avesse voglia d’iniziare una partita, e tanto meno di mettersi a inter-
seconda parte costituiscono invece un discorso con intento positivo, rogare l’avvenire, dato che d’ogni avvenire sembravamo svuotati,
sospesi in un viaggio né terminato né da terminare.
ove si tenta di vagliare più in dettaglio le posizioni di Martin
Heidegger ed Emanuele Severino, onde metterne in luce alcuni (I. Calvino - Il castello dei destini incrociati)
nuclei concettuali fondamentali. L’intermezzo si pone come un
punto di snodo, da cui pure inizia ad affacciarsi qualcosa di 1. Ilio dalle solide mura
quel diverso modo di pensare sul quale si vorrebbe richiamare
l’attenzione, e di cui già s’è iniziato a chiarire qualche tratto nel All’uomo non è indifferente il luogo dove spende la propria
precedente volume, intitolato La sfida di Parmenide. Verso la esistenza, abitare è per lui il verbo dal significato più affine
Rinascenza (il prato, Padova 2007), rispetto al quale il pre- 10 11 a quell’altro verbo, così austero e misterioso, Essere. L’uomo
sente costituisce un approfondimento e uno sviluppo. abita, è un abitatore di spazi. Ogni spazio è una campata di
Il fine delle presenti riflessioni non è fornire una posizione con- cielo e una fuga di sguardi, un’apertura inventata dall’oriz-
clusiva ma indicare piuttosto una direzione da cui partire. zonte suo custode, una volta per tutte o forse ogni volta
E tuttavia, gli orizzonti che da qui s’intravedono, anche se anco- diversa. Abitare un luogo è imparare a pensare e a pensarsi
ra solo in scorcio, rivelano già qualche tratto di quel sentiero in rapporto alla geografia del dove, all’ordine dello spazio
che da sempre riporta ciascuno all’Essere e alla sua Verità: per- che lì si dispiega, in relazione alla luce che in quella con-
correrlo, esserne capaci, si mostra ormai oggi come il Destino trada il giorno conosce. Esser nati tra colli tranquilli, o tra
non solo della filosofia futura, ma di tutti noi. valichi montani, o sulle spiagge del mare senza fine, sono
diverse domande a cui ciascuno dovrà rispondere esistendo.
A. S. Ma l’uomo non abita solo gli spazi e i luoghi che la natu-
ra disegna, anzi, egli, forse, abita soprattutto quegli spazi
ideali che sono le parole. È infatti nel cerchio del dire che
note le cose, prendendo la parola, si fanno incontro agli uomini
9
Dei testi presentati, il primo saggio è stato pubblicato sulla e si lasciano da loro comprendere, si raccontano. Quando si
rivista «Koinè» nel dicembre 2007. Il terzo è invece una riela- pone la propria esistenza nel luogo del dire, nello spazio
borazione, sia concettuale che formale, della mia tesi di laurea,
della parola, si incontrano le cose in modo diverso, non
discussa nel luglio 2007 presso l’Università di Genova sotto la
guida del prof. Domenico Venturelli come relatore e del prof. più come mute e indeterminate cose in sé, chiuse nel miste-
Francesco Camera come correlatore, e a loro va il mio sentito ro del loro silenzio inviolato, ma come cose per me, voci che
ringraziamento. prendono ad abitare con me la mia esistenza.
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Oggi si fa un gran parlare di “Civiltà Occidentale”. Se ciò Andare alla ricerca del significato dell’espressione
accade è senz’altro perché questi due termini così riuniti “Civiltà Occidentale”, nel tentativo di cogliere il “che
danno voce all’esserci di qualcosa. Eppure, nonostante le cosa è”, il senso dell’essere di ciò che queste parole nomi-
energie profuse da apologeti e detrattori per condurre nano, ebbene, tale ricerca avrà dunque da portare in luce
guerre più o meno civili, più o meno sante, più o meno la fisionomia di quello spazio originario nella cui idea tutti
armate di buone ragioni o di eserciti, il significato di cosa i fatti che comunemente si menzionano pongono il loro
sia questa “Civiltà Occidentale”, non pare del tutto chia- fondamento, ovvero quella città paradigmatica che sta
ro. In genere, quando interrogati in proposito, ci si limi- all’origine dell’Occidente in quanto Civiltà e in cui per-
ta ad alludere ai fatti, storici, culturali, politici, sociali ed tanto abita il significato con cui l’uomo occidentale, il
economici avvenuti in una determinata area geografica, o cittadino di questa Civiltà, pensa le parole del proprio
si tenta, al più, di redigere un decalogo di valori di cui tale esserci. Ma proprio perché ci siamo messi in cerca di una
Civiltà sarebbe portatrice e promotrice. città che è anzi tutto un luogo di parole, sorge spontaneo
Dunque, in simili determinazioni, la “Civiltà Occidentale” alla memoria il nome di Ilio dalle solide mura.
è pensata essenzialmente come un fatto, cioè come qualco- Ilio non è un sito archeologico, né una didascalia segnata
sa che ci si può porre innanzi come un oggetto o a cui ci si su un atlante, Ilio, piuttosto, è la città protagonista del
può rapportare in qualche modo dall’esterno, come a un poema che abita le origini di ciò che siamo, l’Iliade. Una
altro, amico o nemico che sia. Ciò risulta, tuttavia, insod- 12 13 sorta di miracolo si compie in questa poesia antica di più
disfacente, perché se qualcosa come una “Civiltà Oc- di tre millenni: proprio qui, ciò che esisteva come sempli-
cidentale” esiste, allora questa, prima di tutto, è un’idea, ce fatto viene per la prima volta trasfigurato in Idea, a cui
ovvero un luogo del pensiero, uno spazio di parola, in cui guarda tutto ciò che all’interno di questa pone la dimora
si sta dentro: si abita. Essere abitatori dell’Occidente e della della propria esistenza. Ilio è lo sfondo dell’epopea, anzi,
sua Civiltà significa concepire l’esistenza a partire dall’idea delle infinite epopee che nel suo nome intrecciano il loro
che apre l’orizzonte in cui tale Civiltà consiste. Se la contrappunto. Eppure, poiché il senso degli eventi narra-
“Civiltà Occidentale” inizia ad esser concepita come spazio ti si inscrive tutto entro quello determinato da questo
in cui l’esistere si offre in un certo modo, secondo un dato sfondo, esso se ne mostra come vero e proprio orizzonte tra-
senso, allora si può pensare che tutti i fatti che solitamente scendentale.
si menzionano come sue cifre caratterizzanti non siano Una descrizione dei luoghi interni, di cosa o chi sia dentro
altro che le testimonianze della struttura in cui tale spazio le solide mura, la incontriamo nel VI canto, quando Ettore
trova il suo ordine. Acquista improvviso interesse quell’as- lascia il campo di battaglia per rientrare in città:
sonanza che esiste tra la parola “civiltà” e la parola “città”,
tra civitas e civilitas: così come la città è il modo in cui l’uo- alle porte Scee Ettore giunse intanto, e alla quercia; e
mo impara ad abitare un certo luogo fisico, costruendovi subito gli furono intorno le spose dei Teucri e le figlie
gli edifici e le vie della propria esistenza a partire dalle chiedendo notizie di figli fratelli parenti e sposi; ma lui le
peculiarità intrinseche di questo, così pure la Civiltà è allo- invitata, tutte, a pregare gli dei: su molte di loro la scia-
ra, in origine, quell’archetipo ideale stando nel quale edifi- gura incombeva. Giunse poi alla splendida reggia di
chiamo per la nostra esistenza un determinato senso. Priamo, dai portici luminosi; vi erano in essa cinquanta
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stanze di pietra chiara, costruite l’una accanto all’altra: E dentro Ilio, oltre le porte Scee? Ci sono le stanze della
qui dormivano i figli di Priamo accanto alle spose; dall’al- reggia di Priamo e in una specialmente fugge l’unico eroe
tra parte, di fronte, vi erano le dodici stanze delle figlie, a cui della guerra non importa proprio nulla, pure se l’ha
dodici stanze di pietra chiara con il tetto a terrazza, innescata. Con divina, sorprendente disinvoltura trovia-
costruite l’una accanto all’altra: qui dormivano i generi di mo infatti Paride, da tutti disprezzato, che appena può
Priamo accanto alle nobili spose. E come fu giunto alla scappa dal combattimento. Per far cosa? Per ritrovare
reggia gli venne incontro la madre dolcissima che stava Elena, che «volgendo altrove lo sguardo rivolse allo sposo
recandosi da Laodice, la figlia più bella10. parole di biasimo: “Sei dunque tornato dalla battaglia;
vorrei che tu fossi morto là”»12. Ma a Paride questo non
Ad accogliere Ettore sono donne: le spose dei Teucri, le importa, dentro la città non si combatte, s’ha da fare una
figlie, sua madre Ecuba, poco dopo sarà la volta di Elena, sola cosa: fare all’amore. «Le rispose Paride allora: “No,
e infine di sua moglie Andromaca. Chi è restato in città? donna, non straziarmi l’animo con offese crudeli; oggi
Le donne. Gli uomini sono fuori, alla guerra, le loro Menelao ha vinto con l’aiuto di Atena, un’altra volta sarò
mogli, madri e figlie li attendono, nella speranza di io a vincere lui; anche noi abbiamo i nostri dèi. Ma ora,
vederli tornare. Su Ilio splende la reggia di Priamo, il re sdraiamoci e facciamo l’amore; mai fino ad ora il deside-
amato da Zeus. Perché amato da Zeus? Perché detentore di rio mi prese il cuore in tal modo”»13.
una sterminata prole d’eroi: cinquanta figli e dodici 14 15 Dunque, non è vero, come invece sarebbe potuto sembra-
figlie, e per ciascuno un talamo nuziale. La ricchezza di re in un primo momento, che nell’Iliade, pòlemos è padre
Ilio è la vita: Ilio è la città della vita, chi vi resta è chi si di tutte le cose. Il detto di Eraclito non vale per ciò che
salva dalla guerra, chi non è chiamato dalle Parche a abita dentro la città, ma solo per ciò che sta fuori.
morire sul campo di battaglia, ma anche chi ama di un Le bianche mura di Ilio segnano il cerchio della vita, della
amore così carnalmente avvolgente che smemora addirit- fertilità che genera e di Eros dio d’amore che unisce e con-
tura il combattimento e l’onore. giunge. La vita è dentro queste mura.
L’amore che troviamo nell’accampamento acheo è intriso Ilio è città ben difesa, le sue fortificazioni per nove anni
di morte e sangue, è l’amore precario e votato alla trage- resistono all’assedio delle truppe achee. Ilio è città ricca e
dia di Achille per Briseide e Patroclo, amore della sua prospera perché il suo re, Priamo, è il re amato da Zeus,
stessa madre, Teti, che piange le sorti del figlio che ha ovvero è quel re a cui Zeus ha concesso di avere molti
generato: «figlio mio, perché ti ho cresciuto, io, madre figli. Ilio è città assediata perché nella sua rocca custodi-
infelice? [...] Sei votato a morte precoce e ora sei anche sce un tesoro rubato: la bella Elena. Chi è fuori dalla città
infelice fra tutti: per un triste destino ti ho messo al non è che combatta per entrare, ma è chiamato a combat-
mondo, nella reggia di Peleo»11. tere, cioè a morire, proprio in quanto sta fuori. La vita è rac-
chiusa nel cerchio ben sicuro delle mura. Fuori c’è il
note
10
Omero, Iliade, trad. it. a cura di Maria Grazia Ciani, Marsilio, note
Venezia 1990, p. 118. 12
Ivi, p. 62.
11 13
Omero, Iliade, cit., p. 15. Ibidem.
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campo di battaglia, ovvero il regno di Hýpnos e Thanatos. morte a reclamare indietro le spoglie di ciò che ha amato:
E la prima grandiosa immagine di ciò che sta fuori da Ilio il re amato da Zeus, Priamo, si reca da Achille a supplica-
l’avevamo incontrata infatti fin da subito, all’inizio del re indietro il corpo straziato del suo figlio più valoroso, e
primo canto, quando Apollo discese, con l’ira nel cuore; unendosi l’eroe stesso al cordoglio del vecchio, nel ricor-
sulle spalle portava l’arco e la chiusa faretra; risuonavano do di altre morti e altre sventure, Achille l’eroe acconsen-
i dardi sulle sue spalle mentre avanzava in preda alla col- te a restituire la salma, giacché, pare suggerire Omero,
lera; veniva avanti, simile alla notte. Si fermò lontano tutti siamo uguali quando piangiamo la morte di chi
dalle navi e scagliò una freccia: emise un suono sinistro abbiamo amato.
l’arco d’argento; prima colpiva i muli e i cani veloci, ma E l’Iliade si conclude cantando una solenne celebrazione
poi prese di mira gli uomini con il suo dardo acuto. Fitti funebre:
e senza tregua ardevano i fuochi dei roghi. Per nove gior-
ni volarono per il campo le frecce del dio14. aggiogarono ai carri muli e buoi, e rapidamente si radu-
narono davanti alla città; per nove giorni portarono legna,
Apollo furente esaudisce la preghiera di Crise, la cui figlia in gran quantità; ma quando, il decimo giorno, si levò la
Agamennone non vuole liberare, e per nove giorni infuria luminosa Aurora, allora, piangendo, trasportarono il
la pestilenza sugli Achei. Così come per nove anni, fuori corpo del valoroso Ettore, lo posero sulla sommità della
da Troia, infuria la morte, per Elena la bella che la città 16 17 pira e appiccarono il fuoco. Quando al mattino apparve
ha rapito e tiene chiusa entro le sue mura. Poiché la vita l’Aurora con la sua luce rosata, allora il popolo tutto si
è chiusa al sicuro in un luogo, fuori da questo luogo non raccolse intorno alla pira di Ettore glorioso. E dopo che
resta che la morte. La vita è donna, giacché è la donna che furono tutti riuniti, allora per prima cosa spensero il rogo
chiude in sé la vita nascente e la dà alla luce. Ma la vita, versando il vino fulgente là dove si erano levate le fiam-
fin dal suo concepimento è chiusa e protetta, prima nel me; i fratelli e gli amici raccolsero poi le bianche ossa e
ventre materno, poi difesa entro la città. E poiché tutta la piangevano, il volto inondato di lacrime. Raccolsero le
vita si raccoglie in questo luogo sicuro, allora fuori non ossa e le misero in un’urna d’oro che avvolsero in morbi-
resta che il regno inospitale della morte. Non si muore de stoffe di porpora; poi la collocarono in una fossa pro-
perché si vuole accedere o conquistare la vita, ma si muore fonda che ricoprirono con un fitto strato di pietre; in fret-
perché, fuori dalla città della vita e dell’amore, non resta ta elevarono un tumulo e tutt’intorno vi posero guardie
altro da fare che combattere per morire. perché gli Achei dalle belle armature non attaccassero
Non è un caso, allora, che l’Iliade non termini con la presa prima del tempo. Dopo aver eretto la tomba tornarono
della città, di questo, anzi, non dice nulla, come nulla indietro, in città, e qui, tutti insieme riuniti, presero
della città raccontava prima che a questa le navi veloci parte al sontuoso banchetto nella reggia di Priamo, il re
degli Achei portassero l’assedio. Termina il poema, inve- amato da Zeus. Così celebrarono il rito per Ettore, doma-
ce, l’immagine dell’amore che scende nei campi della tore di cavalli15.
note note
14 15
Ivi, p. 4. Ivi, p. 504.
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Così come per nove anni si era consumato lo scempio Zeus, e voi divinità del cielo, fate che questo mio figlio
della stirpe di Priamo, così per nove giorni si stette a rac- sia come me, che si distingua fra i Teucri per forza e valo-
cogliere legna su cui bruciare le spoglie dell’eroe più re, che regni sovrano su Ilio. E vedendolo tornare dalla
forte. E ciò che di lui rimase, le ossa, in quanto resto ulti- battaglia un girono qualcuno dirà: “È molto più forte del
mo della sua viva esistenza, le si chiusero in un’urna pre- padre”. Lui tornerà portando le spoglie insanguinate dei
ziosa, e l’urna fu sotterrata e fu fatto elevare un tumulo di nemici uccisi e la madre ne sarà lieta in cuore17.
pietre protetto dalle guardie: anche a questo ultimo ricor-
do di vita venivano così tributati gli onori tributati alla Dunque Priamo ed Ettore sono concordi nel porre come
vita tutta, ovvero la protezione, il venir racchiuso e messo loro orizzonte fondamentale l’idea che è nella guerra che
al sicuro dentro qualcosa che possa difendere e separare da si decide il valore di un uomo e che è della guerra un’in-
ciò che sta fuori. Ed eretta la tomba fuori dalle mura, il trinseca bellezza: la vita bella è quella spesa combattendo, que-
corteo dei vivi rientra nel suo luogo naturale e qui consu- sto è il primo e l’ultimo comandamento che riempie i
ma il suo banchetto in onore del morto. Questo il rito per silenzi tra un verso e l’altro di tutto il poema.
Ettore, domatore di cavalli. Cos’è la vita? Ciò che vien chiuso, racchiuso, difeso entro
Eppure, era stato Priamo a dire a Ettore, e proprio per cer- una linea che tutta la circonda e che dentro di sé la salva,
care di trattenerlo e non farlo scendere in quello che sareb- come nel ventre materno, da quello che sta fuori. Questa
be stato il suo ultimo duello, era stato proprio il re amato da 18 19 linea è esemplificata materialmente dalle le fortificazioni
Zeus a proferire quelle parole che a noi suonano così tremen- entro cui Ilio sta sicura, Ilio che appunto è chiamata dalle
de: «quando un giovane muore, ucciso in battaglia, e giace solide mura. È proprio dell’idea del muro difensivo il dover
a terra straziato dalle acute armi di bronzo, tutto a lui si difendere: laddove esiste un muro difensivo si presuppone
addice, tutto quello che si vede di lui, anche se è morto, è che tutto ciò che stia oltre quel muro sia un possibile
bello»16. E il suo intento era chiaramente dissuaderlo dalla nemico. Il muro è ciò che già da sempre sta combattendo
guerra, rammentargli che, se lui così giovane e forte fosse il primo nemico: il fuori in quanto tale. Alla città ben pro-
caduto, il suo vecchio padre avrebbe certamente offerto una tetta dalle sue mura si può accedere, se lo si vuole, solo e
scena meschina quando fosse rimasto inerme innanzi all’ar- unicamente attraverso le porte: ovvero quelle aperture prov-
ma del nemico. Ma, appunto, come, il vecchio Priamo, visorie nella cinta che consentono e regolano i contatti
cerca di dissuadere Ettore? Invocando che, essendo ormai con l’esterno secondo la legge imposta dal re della città.
anziano, per lui ormai non sarebbe bello morire in battaglia. Attraverso le porte il re domina non solo su chi entra e chi
Ma Priamo stesso sta affermando: per un uomo nel fiore esce, ma sulla possibilità stessa di questo entrare o uscire.
degli anni è bello morire in battaglia, ed Ettore è un uomo Il nemico è chi vuole abbattere il muro, oltrepassarlo elu-
nel fiore degli anni, il più bello e il più forte di Ilio. dendo il dominio. Innanzi al nemico le porte vengono
Ettore stesso, salutando per l’ultima volta il suo piccolo rinserrate, o aperte solo per lasciar uscire gli eserciti chia-
Astianatte, aveva pregato: mati alla guerra, ovvero gli alleati del muro che devono

note note
16 17
Ivi, p. 435. Ivi, p. 125.
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sostenere quest’ultimo nella sua eterna lotta contro il Perché «niente vale la vita»? Perché la vita «non ritorna
fuori. Il nemico non deve poter varcare le porte, non deve indietro, quando ha passato la barriera dei denti». Niente
avere accesso, non deve poter entrare dentro la città. vale la vita, perché la vita è mortale e lo è perché, per sal-
Ma chi è il nemico? Chi sta fuori. E se la città è il luogo varsi dalla morte, deve morire. Per ogni vita esiste un
dove ben protetta sta sicura la vita, chi può attendere tempo estremo in cui la morte la chiama a difendersi,
fuori, se non la morte stessa? La morte è il nemico. Essa morte minaccia di vincere le solide mura e quindi costrin-
sta fuori dalla città ove abita la vita. Alla morte è fatto ge i vivi ad uscirne e battersi e morire. Bisognerà neces-
divieto di varcare le porte, per la morte non c’è spazio né sariamente sempre difendere ciò che si erige per difender-
ci deve essere dentro la città. Eppure, per tenere la morte si: ogni opera costruita per la difesa è un’opera che postu-
fuori, occorre lottare. Le solide mura già da sempre lotta- la l’esistenza di un nemico potente tanto da imporci una
no. Ma quando la lotta si fa accanita e la morte non giun- costruzione difensiva. Ma costruita l’opera difensiva, pro-
ge sola ma accompagnata da eserciti ed eserciti di uomi- prio perché la sua edificazione è determinata dalla poten-
ni, pronti a morire per conquistare la vita, ebbene, allora za del nemico, si presuppone e si sa già che prima o poi
bisogna uscire dalla città per difenderla, uscire dalla vita bisognerà a nostra volta difenderla.
per difendere la vita: la vita è salva solo se muore. Gli La vita è quella che sta chiusa entro solide mura, perché
Achei sono coloro che accettano la morte, lo star fuori, fuori esiste un nemico, così potente da imporci di erigere
pur di poter entrare e dar conquista alla città della vita. I 20 21 solide mura, se davvero vogliamo sfuggirgli. Questo
Troiani sono coloro che la città della vita abitano e che dai nemico è la morte. La vita può vivere solo se accetta di
nemici assedianti fuori devono difendersi. Entrambi con- chiudersi in una rocca, in cui attendere e poi consumare i
dividono il medesimo assunto fondamentale: per vivere giorni del suo assedio. Cosa è, dunque, la morte?
bisogna morire, tutto sta a scegliere come. In un’immagine, sola per grandezza e forza, l’Iliade ce lo
E proprio questo convincimento risuona sulle labbra del- mostra:
l’eroe che più di tutti conosce la morte e il pianto per la
morte di chi ha amato, Achille, che così risponde a Aveva appena parlato e la morte lo avvolse, l’anima abban-
Odisseo, quando questi lo supplica di abbandonare la sua donò il corpo e volò verso l’Ade piangendo il suo destino,
ira e ridiscendere in battaglia: la forza e la giovinezza perdute. Era morto, e il divino
Achille gli diceva: “Tu, muori; io accoglierò il mio desti-
Niente, per me, vale la vita: non i tesori che la città di Ilio no quando Zeus e gli altri dei immortali vorranno che si
fiorente possedeva prima, in tempo di pace, prima che compia”. Disse così e strappò dal cadavere l’asta di bron-
giungessero i figli dei Danai; non le ricchezze che, dietro zo, la mise da parte, poi gli tolse dal corpo le armi insan-
la soglia di pietra, racchiude il tempio di Apollo signore guinate. Tutti gli Achei accorsero intorno, ammiravano il
dei dardi, a Pito rocciosa; si possono rubare buoi, e peco- corpo di Ettore e la sua bellezza e tutti, standogli accanto,
re pingui, si possono acquistare tripodi e cavalli dalle gli vibravano un colpo e poi, guardandosi l’uno con l’altro,
fulve criniere; ma la vita dell’uomo non ritorna indietro,
non si può rapire o riprendere, quando ha passato la bar- note
18
riera dei denti18. Ivi, p. 175.
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dicevano: “certo, è molto più morbido da toccare, Ettore, Ettore aveva detto ad Achille: «sento in me il coraggio di
ora, di quanto appiccava il fuoco ardente alle navi”. Così starti di fronte: ti ucciderò o mi ucciderai»20. Nemico
dicevano e lo colpivano da vicino. Ma il divino Achille [...] innanzi a nemico, non c’è scelta: uno dei due deve morire,
intanto preparava per Ettore un oltraggio indegno. Nella ovvero esser consegnato all’altro. L’unica differenza è il
parte posteriore dei piedi forò i tendini, tra caviglia e tal- modo in cui ciò può avvenire, Ettore promette di rispetta-
lone, vi passò della corregge e le legò al carro, lasciando re il corpo di Achille se questi dovesse cadere, Achille
che la testa fosse trascinata per terra. Poi salì sul carro por- sprezza tale promessa. Ma anche queste differenze confer-
tando le armi famose e con un colpo di frusta stimolò i mano ciò che stiamo mostrando: la morte è il più radica-
cavalli che di slancio presero il volo. Una nuvola nera si le assoggettamento all’altro, è l’uscire di sé per cadere in
leva intorno al corpo trascinato, i capelli bruni si spargono mano al nemico. Così l’anima di chi muore fugge all’Ade,
intorno, nella polvere giace la testa che prima era così bella passa la barriera dei denti, esce dal corpo. E il corpo, da cui
e che ora Zeus ha abbandonato ai nemici perché le rechino è così uscita la vita, muore in quanto si lascia dominare
oltraggio nella sua stessa patria19. dal nemico che ora su di lui ha il potere di fare ciò che
vuole e trasformarlo in cadavere e oltraggiarne l’onore, la
Morire significa perdere la forza, la giovinezza e la bellez- morte entra e compie il suo saccheggio, la sua razzia, la
za, vuol dire lasciare la parte migliore di sé, in questo caso sua devastazione nella città ormai espugnata.
il corpo, in balia del nemico, dei suoi scherni e del suo 22 23 Proprio perché resta fermo il punto che la morte è questo
oltraggio: la morte è impotenza, ovvero fine della propria uscire da sé per cadere in mano all’altro, acquista impor-
potenza. La potenza è la forza, la giovinezza e la bellezza, tanza assoluta il modo in cui ciò avvenga: visto che la
ovvero l’aver forza e tempo e meriti per imporre il proprio morte, in quanto tale, è qualcosa di irresistibile, tutto sta e
volere. La fine di questa potenza è l’esser ridotti in balia tutto si gioca nel come viene affrontata e su questo come si
dell’altro, il non poter più far valere la propria forza, il decide ogni valore, ogni senso e ogni gloria della propria
non poter più godere della propria gioventù, il vederla esistenza.
corrompere, rovinata nella polvere della disfatta. Morire Morire è l’uscire da sé, l’andare altrove, il cadere sotto il
significa finire nella polvere, la morte è l’esser consegnati potere di chi ci è estraneo, di chi sta fuori di noi, per que-
all’altro da sé, nel modo più radicale in cui ciò è possibi- sto la vita va protetta, per questo va cinta da mura che
le, da cima a fondo: l’altro può disporre totalmente di possano salvarla e tenerla sicura, ferma in sè. La morte è
tutto ciò che di me valeva e che era solo mio, il corpo. La fuori perché è ciò che ci trascina fuori di noi, cioè ci fa
morte è l’altro da me che mi domina integralmente e può diventare altro da ciò che siamo. E la morte vince sempre,
far di me ciò che vuole, umiliare la mia gioventù, insoz- perché il fuori costantemente ci assedia e incombe, fino a
zare la mia bellezza, calpestare la mia forza ormai resa costringerci ad uscire di nostra volontà, per scegliere alme-
impotente innanzi ai suoi scherni. La morte è l’altro che no il modo della nostra sconfitta. La morte è il diventar
impossessandosi di me mi annulla. altro, e se vogliamo restare ciò che siamo, se vogliamo

note note
19 20
Ivi, pp. 445-6. Ivi, p. 441.
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restare nella vita, dobbiamo difenderci da questo divenire. 2. La Repubblica


Chi abita Ilio, è colui che vive solo in quanto è nato per
morire, ovvero per uscire dalla città e scegliere in batta- Quando tu incontri gente che loda Omero e sostiene che
glia in che modo dire addio a se stesso, in che modo uscire questo poeta ha educato l’Ellade e che merita di essere
da sé e farsi ridurre ad altro. Chi abita Ilio è l’uomo inte- preso e studiato per amministrare ed educare il mondo
so come il mortale, colui che è chiamato a esistere solo per umano, e che secondo le regole di questo poeta si organiz-
uscire dalla città fiorente della sua stessa esistenza. Il valo- za e si vive tutta le propria vita, questa gente si deve sì
re di questa vita è dunque il valore della cosa fuggevole, baciarla e abbracciarla come quanto mai eccellente, e rico-
che va colta fino a che c’è e che va goduta sino a che non noscere che Omero è il massimo poeta e il primo tra gli
sia chiamata all’estrema difesa di se stessa, ovvero alla autori tragici; ma si deve anche sapere che della poesia
lotta per scegliere come perdere sé nel diventar altro. bisogna ammettere nello stato solamente la parte costi-
Vivere, per contro, è essere uno, essere se stessi, sempre tuita da inni agli dèi ed elogi agli onesti. Ma se vi ammet-
uguali, in sé stessi esistere e in sé stessi stare, muore chi terai la sdolcinata Musa lirica o epica, nel tuo stato regne-
esce, giacché la morte abita il fuori in quanto tale. Nella ranno piacere e dolore anziché legge e quella che da tutti
Civiltà di Ilio, vivere è lo stare in quel luogo fuori dal concordemente è sempre giudicata l’ottima ragione21.
quale si diventa altro da sé, si muore. Vivere è chiudersi
nella rocca ben protetta del proprio sé stesso identico sol- 24 25 In effetti proprio così ci interromperebbe a questo punto
tanto a sé: se ne esce solo per andarsi a scegliere la propria Platone, non permettendoci di proseguire più oltre nelle
morte. Ilio dalle solide mura, civiltà del Limite, della soli- nostre osservazioni. Ma come, pretendiamo di esser filo-
tudine che spetta all’Uno che non esce da sé e dentro di sé sofi e poi andiamo dietro alle parole di un poeta?
resta ben protetto, proprietario di quell’esistenza che sco-
pre così la possibilità di pronunciare la parola “mio”. Resti detto tuttavia che, se la poesia imitativa rivolta al
piacere dimostrasse con qualche argomento che deve
avere il suo posto in uno stato ben governato, noi sarem-
mo ben lieti di riaccoglierla, perché siamo consci di subi-
re il suo fascino22.

Certo, Platone, quando ci muove queste osservazioni, sta


discutendo la sua Politeia, ovvero della fondazione dello
Stato giusto e, più in generale, di cosa sia la giustizia in
sé. Il problema è squisitamente educativo, dove si assume

note
21
Platone, Repubblica, 606d-607a, trad. it., Laterza, Roma-Bari
2001, p. 675.
22
Ivi, 607c, p. 675.
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l’educazione nel senso più radicale del termine, come edi- so, ciò che deve restare protetto e unito. Non a caso,
ficazione dell’individuo e dello Stato assieme. Tutto il dia- quando la filosofia, fin dai suoi albori, dovette pensare la
logo può essere letto in chiave pedagogica, ovvero come il morte, la pensò, in modo più o meno articolato, come
tentativo di giungere alla determinazione di quale sia il disgregazione, ovvero dispersione di quell’unità che, stando
percoso formativo necessario per fare di un uomo un giu- raccolta sicura nell’identità con sé medesima, era appun-
sto. E se questo è l’intento, allora ben si comprende per- to il vivere.
ché Socrate così ammonisca: Dunque, possiamo anche contestare che il modo scelto
dagli eroi omerici di affrontare la vita e la morte non sia
tutte le battaglie divine inventate da Omero, non si devo- affatto un esempio di virtù, o, almeno, che non sia un
no ammettere nello stato, abbiano o non abbiano queste esempio di quella che Platone intende essere la virtù. Ciò
invenzioni carattere di allegoria. Il giovane non è in grado non toglie, però, che quell’archetipo, quel paradigma che
di giudicare ciò che è allegoria e ciò che non lo è: tutte le gli eroi declinavano a modo loro, non sia rimasto invariato
impressioni che riceve a tale età divengono in genere incan- almeno nei suoi tratti essenziali e non sia comune anche a
cellabili e immutabili. Ecco perché è assai importante che Platone stesso, sicché si potrebbe addirittura avanzare la
le prime cose udite dai giovani siano favole narrate nel tesi che legge nella Politeia non tanto una contestazione al
miglior modo possibile con l’intento di incitare alla virtù23. fondamento di quella che potremmo chiamare la Civiltà
26 27 Omerica, quanto piuttosto al modo in cui gli eroi cantati da
Certamente, se stiamo a vedere i “modelli educativi” for- Omero hanno abitato l’Idea che stava alla base di tale
niti dall’Iliade, non possiamo che concordare con Platone, Civiltà, una critica quindi non al paradigma in quanto
basti pensare, oltre ai vari esempi ricordati nel dialogo, al tale, ma ad una sua specifica declinazione.
caso forse ancora più emblematico di Achille che, in Nel Filebo, Socrate avrà da affermare:
fondo, per una questione di onore personale «infiniti
addusse lutti agli Achei e molte anzi tempo all’Orco gli antichi, che erano migliori di noi e che stavano più
generose travolse alme d’Eroi». Ma tuttavia, come diceva- vicini agli dèi, ci hanno trasmesso questo oracolo: che le
mo all’inizio, le vicende degli uomini e degli dèi prendo- cose che si dice che sempre sono, sono costituite di uno e
no senso e si comprendono solo se si accetta di seguirle di molti, e hanno per natura in se stesse limite e illimita-
all’interno dello sfondo, dell’orizzonte in cui sono iscrit- tezza. Dunque, poiché queste cose sono ordinate in que-
te. L’Iliade non è solo poema che narra di una guerra epica, sto modo, bisogna che noi poniamo e cerchiamo, ogni
ma è, forse prima di tutto, canto di quello che oggi, con volta, sempre un’unica Idea per ogni cosa24.
espressione un poco banalizzante, potremmo chiamare
uno “stile di vita”, ovvero un preciso modo d’intendere E nella Repubblica chiede: «possiamo dunque citare per lo
l’esistenza. L’Idea fondamentale di questa concezione sta Stato un male maggiore di quello che lo divide e lo fa di
nel pensare la vita come ciò che è ben racchiuso in se stes-
note
note 24
Platone, Filebo, 16c, trad. it., in Platone, Tutti gli scritti,
23
Ivi, 378d-e, p. 131. Bompiani, Milano 2000, p. 432.
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uno molteplice? O un bene maggiore di quello che lega parti dell’anima s’ingeriscano le une nelle funzioni delle
lo Stato e lo fa uno?»25 altre; ma instaurando un reale ordine nel suo intimo,
Ma non è allora troppo difficile intendere come, per diventa signore di se stesso e disciplinato e amico di se
Platone, Uno Limite e Bene coincidano e siano tre parole medesimo e armonizza le tre parti della sua anima [...]
che danno voce ad una medesima realtà, anzi, a quella dopo averle legate tutte ed essere divenuto uno di molti27.
realtà che sta al fondamento di tutte le cose, all’unica vera
achè. Ma questa archè è il medesimo archetipo che Omero Gli abitanti della Politeia platonica sono pertanto i mede-
raffigura nella città di Ilio: l’Essere stesso, quando si simi abitanti di Ilio, divenuti però in qualche modo più
declina come l’esistere in questa città, è considerato, dai saggi, più sapienti, ovvero più lucidamente coerenti con
mortali, proprio in quanto Uno, Limite, Bene. Proprio le regole del luogo in cui vivono. Ciò che Omero cantava
sulla base di tale sostanziale assunzione del paradigma in poesia, Platone lo radicalizza temprandolo nel fuoco
archetipico tratteggiato dalla poesia di Omero, Platone, dell’ottima ragione e ponendolo come pietra angolare di
dandone sanzione metafisica, può contestare il modo in cui tutto il suo edificio metafisico. Ilio dalle solide mura risor-
in Omero l’Idea era, dal suo punto di vista, malamente ge così non più nel dominio fantastico e mitico delle epo-
realizzata, deducendo quindi, con estremo rigore e coe- pee narrate dagli aedi, ma acquista la dignità e la solidità
renza, quale invece debba essere il modello dello Stato di un sistema di pensiero che sbarra la strada al nemico
giusto, in cui i cittadini devono essere indirizzati ciascu- 28 29 opponendogli la forza del proprio logos.
no a quell’attività per cui hanno naturale disposizione, Lo sviluppo di una città è spesso il suo fortificarsi e
uno solo a un’opera sola, perché ciascun individuo, atten- ingrandirsi attorno al nucleo originario. La storia della
dendo all’unica opera che gli è propria, non diventi mol- Civiltà Occidentale è la storia di come le solide mura di
teplice ma resti uno, e così tutto lo stato sia unitario, non Ilio si siano fatte sempre più solide, sempre più forti,
molteplice. [...] I dirigenti dello stato devono insistere su sempre più invalicabili. Sempre più chiuse a proteggere
questo principio, se vogliono evitare che lo si distrugga a qualcosa come il singolo. Platone è tappa centrale in que-
loro insaputa e salvaguardarlo in ogni circostanza26. sto processo giacché per primo ha tentato di tradurre
quello che era ancora solo un orizzonte poeticamente
E va allora da sé che per l’individuo la giustizia non sia taciuto come sfondo in un sistema di ragioni filosofiche
altro che la traduzione, all’interno della soggettività, di che sfidano l’invincibilità dell’incontrovertibile, aspiran-
questa medesima norma che consiste nell’adempire i pro- do a porsi come epistéme.
pri compiti non esteriormente, ma interiormente, in La civiltà nata in Ilio dall’idea stessa che l’esistere è il
un’azione che coinvolge veramente la propria personalità chiudersi nel limite invalicabile del finito, diventa così la
e carattere, per cui l’individuo non permette che ciascuno civiltà che parla la lingua del fine, del telos, e quindi del
dei suoi elementi esplichi compiti propri di altri né che le valore, diventa propriamente Civiltà Occidentale, ovvero
che guarda all’Occidente, al punto dove il Sole, simbolo
note
25
Platone, Repubblica, 462b, cit., p. 331. note
26 27
Ivi, 423d-424b, p. 237. Ivi, 443d-e, p. 289.
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platonico del Bene, sempre tende e dove sempre va a ter- Eppure, nonostante questa apparente sicurezza, ciò non è
minare la sua corsa quotidiana. sufficiente, serve il mito. Evidentemente, siamo qui
Non è certo un caso, del resto, la preoccupazione di Platone innanzi a qualcosa di più che un corollario metafisico.
per giungere a dimostrare razionalmente l’immortalità L’immortalità dell’anima è la formulazione rigorosa data
dell’anima individuale: il non riuscire a salvare per sempre dalla metafisica platonica per pensare il più grande deside-
la vita dalla morte doveva infatti parere all’illustre atenie- rio di ogni abitante di Ilio: non essere mai chiamati a uscir
se una debolezza filosofica imperdonabile, giacché, in que- fuori, poter essere difesi da mura così forti, da logoi così
sto modo, tutto l’edificio finiva per fallire il suo scopo, le solidi, che nessun nemico potrà mai penetrarvi. Essere
mura non si mostravano più così solide come avrebbero immortale, essere eterno: il significato di queste espres-
dovuto, visto che alla fine non giungevano a difendere una sioni allude al poter essere sempre uguali, al poter stare
volta per sempre ciò per la cui difesa erano state edificate. sempre nel medesimo luogo, dove il luogo è inteso in senso
E a Platone, del resto, non interessa l’immortalità in quan- lato come quel certo spazio in cui l’esistenza viene ad abi-
to tale, come concetto generico o astratto, ma sempre l’im- tare. E perché Platone sente quest’esigenza? Ma proprio
mortalità dell’anima individuale che si porta all’Ade le sue perché lui, il più greco dei greci, non ha mai smesso di
colpe e le sue virtù in modo da poter essere giudicata in abitare Ilio dalle solide mura, né ha mai smesso di pensare
base a ciò che è stata: in modo più radicale non si potreb- come fosse possibile rendere queste mura ancora più soli-
be pensare l’esser-sempre-me, il restar sempre io e sempre 30 31 de, infinitamente più solide: eterne.
proprio io, che sono immortale proprio perché, anche nella
morte, non divento totalmente altro e anche nell’aldilà
vado con tutto quello che sono stato e ho vissuto.
Ma questa dimostrazione è forse per il logos un compito
troppo alto e laddove il logos è costretto al silenzio, occor-
re ammettere la voce del mito che con la sua parola fanta-
stica eppure verosimile soddisfi quell’esigenza di ribadire la
valenza etica dell’immortalità e quindi suggellare in que-
sta la cifra di una finitezza irriducibile, di un essere asso-
lutamente limitato nel sé, proprio dell’essere dell’anima
in quanto mia. Non è un caso, allora, che la Politeia si con-
cluda con il grande mito escatologico di Er, narrato pro-
prio subito dopo che Socrate, mostrato, forse un po’ trop-
po frettolosamente, come nella dimostrazione razionale
dell’immortalità «non c’è alcuna difficoltà», aveva con-
cluso: «ebbene, quando una cosa non perisce per male
alcuno, né suo né non suo, è chiaro che deve esistere sem-
pre e, se esiste sempre, è immortale. Ecco dunque un note
28
punto acquisito»28. Ivi, 611a, p. 685.
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3. Equivoco e liberazione della Parola dice Figlio dell’Uomo e che fa segni tali da testimoniare che
con lui è Dio stesso. La notte, quando tace la battaglia
C’era tra i farisei un uomo chiamato Nicodèmo, un capo combattuta, e resta quella delle parole chiamate a ordire
dei Giudei. Egli andò da Gesù, di notte, e gli disse: l’assalto del giorno che ha da sorgere, o anche solo a dipin-
“Rabbì, sappiamo che sei un maestro venuto da Dio; nes- gere i sogni del rimpianto che il giorno trascorso ha
suno infatti può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lasciato dietro di sé, in questa notte un capo e maestro
lui”. Gli rispose Gesù: “In verità, in verità ti dico, se uno incontra qualcuno che parla, fa segni, tali da manifestare
non rinasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio”. Gli innegabilmente una potenza divina. Questo qualcuno,
disse Nicodèmo: “Come può un uomo nascere quando è avanza la richiesta inaudita che si rinasca dall’alto, e come
vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo premio di ciò promette in cambio la vita eterna.
di sua madre e rinascere?”. Gli rispose Gesù: “In verità, in Il Cristianesimo promette, con l’autorità di Dio, ciò che il
verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non logos platonico sempre si era affannato a dimostrare, ovve-
può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla carne ro tenere fermo e lontano dal dubbio, legato ben solido
è carne e quel che è nato dallo Spirito, è Spirito. Non ti nei lacci degli argomenti per non permettergli di sfuggi-
meravigliare se t’ho detto: dovete rinascere dall’alto. Il re altrove, cioè convertirsi nel suo contrario, vacillare e
vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di cadere nel non essere. È per questo che la Repubblica ha da
dove viene e dove va; così è chiunque è nato dallo 32 33 ascoltare questa parola, raccogliendone i segni divini.
Spirito”. Replicò Nicodèmo: “Come può accadere que- Eppure, tale parola è parola nemica della legge su cui si
sto?”. Gli rispose Gesù: “Tu sei maestro in Israele e non fondava già Ilio, giacché chiede agli uomini di rinascere,
sai queste cose? In verità, in verità ti dico, noi parliamo perché le cose di cui parla il profeta di questo nuovo e
di quel che sappiamo e testimoniamo quel che abbiamo diverso logos non sono della terra ma del cielo, cioè di altro-
veduto; ma voi non accogliete la nostra testimonianza. Se ve, stanno fuori. Se si vuole la vita eterna, che in Ilio suona
vi ho parlato di cose della terra e non credete, come cre- come l’eterno poter restare in sé medesimi, sempre se
derete se vi parlerò di cose del cielo? Eppure nessuno è stessi per sempre, si deve diventare altro da ciò che si è, dun-
mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disce- que morire.
so dal cielo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, E se questo pare incomprensibile o contraddittorio è solo
così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché perché non si tratta di un logos qualsiasi, di un argumentum
chiunque crede abbia la vita eterna”29. nel senso platonico del termine, quanto piuttosto di qual-
cosa che fin da subito è prospettato come una fede, cioè un
Anche la Politeia di Platone fu una città assediata, e, come credere che non ha più la coerenza platonica ma anzi, nel
Ilio, assediata prima di tutto dal fuori. Nel passo che qui confronto, il carattere della suprema contraddizione. È
si ricorda sta già inscritto il destino di questo assedio. proprio perché agli occhi della ragione questa promessa
Nicodèmo, maestro in Israele, incontra di notte colui che si ha il carattere del paradosso, che, se si vuole ottenere ciò
che la promessa prospetta, occorre credere in essa. Si crede,
note dunque, in qualcosa di invisibile, incredibile, tanto da aver
29
Giovanni, 3, 1-15. bisogno di qualcuno che lo mostri agli uomini, che altri-
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menti senz’altro ne resterebbero del tutto ignari, giacché problemi che il loro significato qui pone, le segue fintanto
«nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che glielo consento i confini che qui si impongono agli
che è disceso dal cielo». Ciò in cui si ha fede è qualcosa spazi del vivere, dell’esistere e del pensare.
che, essendo essenzialmente oggetto di dubbio, può essere Proprio qui, di questa Parola che annuncia l’invisibile, nel
tenuto fermo e scacciare il suo contraddittorio solo in base senso di ciò che per natura non può mai esser visto, si può
ad un atto di volontà: se la fede non si radicasse su questo portare testimonianza solo per fede, ovvero volendo crede-
dubbio non avrebbe bisogno di dirsi fede ma sarebbe epi- re ciò che, costitutivamente, si pone come oggetto di
stéme, la scienza dell’incontrovertibile. dubbio. La fede può esistere solo come volontà: per entra-
Io esisto e concepisco la mia esistenza, in quanto abitato- re in Ilio, questa Parola scandalosa deve farsi scortare dalla
re di Ilio, secondo il senso del Limite e del finito che rac- volontà. Volontà di che cosa? Di essere eternamente,
chiudendola entro le proprie mura ne fa qualcosa di deter- ovvero di non dover mai essere altro da sé, di non dover
minato, la fa essere. Io so questo: che Io sono e che tale mai uscire da sé, poter continuare a vivere ed essere se
essere è l’esser-Io, ovvero l’esser-Uno e Limitato entro stessi. Io voglio che le mura di Ilio restino solide e vinca-
questo Uno, l’esser-solo-me. Dunque, posso testimoniare sol- no sul fuori, sull’altro, sul nemico. Io voglio la potenza, per
tanto questo Io. Ma la Parola che mi promette di farmi eter- questo voglio credere di poter essere sempre e non dover cedere smet-
no nella mia solitudine, mi chiede anche di dar testimo- tendo di essere ciò che sono. Pur di donare alla mia difesa ulte-
nianza di ciò che è totalmente altro da me. La fede che mi 34 35 riore potenza, accetto di far entrare nella città e nella
si chiede è una testimonianza impossibile, impossibile rocca questa Parola che promette eternità al mio volere:
proprio perché all’interno del senso che per me ha l’esiste- nella notte quando tacciono le armi avviene il complotto
re, non incontro, né mai potrei incontrare, ciò di cui mi che svuota i templi dei loro simulacri e vi rinchiude l’im-
si chiede di testimoniare e del quale non potrò quindi mai magine invisibile del nuovo Dio.
essere testimone. Come si può testimoniare qualcosa che La ragione non può testimoniare nulla di quello che la fede
non s’è mai visto? Se salvarmi per me ha il significato del le chiede di testimoniare, non perché ciò sia irragionevole
restar protetto dentro il mio me stesso, nella mia identità, in se stesso, ma proprio perché è l’assolutamente altro da
come potrò salvarmi rinascendo, cioè diventando altro? ciò che tale ragione pensa e intende essere l’esistenza: la
L’unica cosa che vede Nicodèmo nella notte, è questo rabbì legge di Ilio vieta e mette al bando la possibilità di inten-
che gli chiede di rinascere e che, con l’autorità di segni divi- dere la Parola fuori dal sistema di sensi e significati che
ni, gli promette vita eterna in cambio della sua fede. Costui vige nella città. Non è dunque possibile dimostrare l’esi-
sa che la testimonianza che lui sta portando non può essere stenza di Dio, non tanto perché Dio in sé non esista, ma
accolta, perché parla di cose che, chi l’ascolta, non solo non perché l’esistenza è a priori pensata in rapporto a ciò che Dio, se
ha mai visto ma non può nemmeno vedere, giacché tutta la è, non può mai essere e che per definizione sempre deve trascende-
sua volontà è una lotta contro l’illimitata alterità con cui re: quell’assolutamente finito che io sono. Il fatto stesso che si
tali cose pretenderebbero di abbattere le solide mura che tenti una dimostrazione dell’esistenza di Dio non fa che
proteggono il senso del suo esserci. «Quel che è nato dalla confermare nei fatti che tale esistenza è, essenzialmente,
carne è carne»: chi nasce nella Repubblica intende le parole oggetto di fede, ovvero si radica nel dubbio: serve infatti
col senso che qui le parole hanno, le ascolta a partire dai una prova solo per mostrare ciò che non sa o non può
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mostrarsi da sé, ossia ciò che di per sé potrebbe anche Il nichilismo si rivela come quel pensiero che, conqui-
essere altrimenti da come lo si crede. Io voglio che Dio sia, stando assoluto rigore, giunge a pensare ciò che già la
ma, se venisse meno questa volontà che impedisce ogni poesia di Omero in qualche modo presupponeva: l’Essere è
ulteriore discorso, si potrebbe affermare che Dio potrebbe sempre esser-questo e solo questo, ciò che è altro è niente. In tale
non essere. Anzi, più radicalmente ancora, se si lascia formula, il “questo” indica precisamente una certa cosa
libero il logos dalle costrizioni che la volontà gli impone, finita e limitata, chiusa entro confini ben determinati e
si dovrebbe giungere in modo abbastanza semplice al sil- ben fortificati. Sulla base di questa formula è necessario
logismo: se Dio è, la sua esistenza deve avere il senso dedurre che se di cose ne esistono tante e se queste sono
dell’Illimitato, ma per me l’esistenza ha unicamente il soggette a divenire, questo divenire, in quanto le porta ad
senso del limitato, dunque l’esistenza di Dio non può avere essere altro da sé, a diventare diverse, le porta a cadere nel
senso, o, che è lo stesso, io non sono in grado di concepi- nulla: è in base a questa formula che l’Occidente, quando
re come realmente significante l’espressione “Dio è”. pensa il divenire, pensa sempre, necessariamente, il sorge-
Solo la volontà, quella volontà che vuole eternamente se re e l’uscire dal niente. E non a caso Platone, il più occi-
stessa e lo vuole con tanta forza da rifugiarsi nel credo quia dentale degli occidentali, dovette commettere parricidio
absurdum, può dare testimonianza e credere. Volontà che verso quel pensiero, quello di Parmenide, che, nel suo
vuole se stessa per sempre e che in questo sempre legge la ripensare e trasfigurare l’orizzonte di Ilio, sosteneva che
conquista della sua estrema potenza, giacché finale vittoria 36 37 nessuna cosa, in quanto “questo”, propriamente è, e che
sull’altro, sul fuori ostile che così ab aeterno resta chiuso quindi non esiste alcun divenire, se divenire è stare in
fuori, cioè lontano dal mio essere e quindi lontano dalla bilico e oscillare tra l’Essere il non essere.
possibilità di strapparmelo. In fondo, già in Platone il mito E se Dio stesso è, ontologicamente, il totalmente altro da
è qualcosa in cui si vuole credere, o, meglio, in cui si deve me, in quanto l’assolutamente trascendente, non è allora,
credere se si vuole dare all’immortalità il senso autentico forse, esso stesso un’ipostasi del nulla? Se bisogna tener
di un restare sempre me: esso «potrà salvare anche noi se ferma la legge su cui si fonda la città di Ilio, quella città
gli crediamo»30. Ma se ciò è vero, allora l’essenza della che accogliendo nella sua rocca il Verbum si fece Civitas
fede non è altro che una volontà di potenza: Dei, ebbene non bisognerà allora finire col sacrificare Dio
stesso al nulla?
perché ormai è necessario l’avvento del nichilismo? Perché O si tiene ferma la Civiltà a partire dalla quale pensiamo
sono i nostri stessi valori durati finora che traggono in e intendiamo questa Parola che dal fuori nemico ci giun-
esso la loro conclusione ultima; perché il nichilismo è la ge, oppure si accoglie la Parola davvero, e l’assurdità della
logica pensata fino in fondo dei nostri grandi valori e sua richiesta di rinascere: aut aut. Dio è morto perché noi l’ab-
ideali, – perché noi dobbiamo prima vivere il nichilismo, biamo ucciso: poiché la sua Parola chiedeva in definitiva il
per scoprire che cosa sia propriamente il valore di questi
“valori”...31 note
31
F. Nietzsche, La volontà di potenza. Scritti postumi per un proget-
note to [1887-1888], trad. it., in Id., Opere 1882-1895, Newton,
30
Platone, Repubblica, 621c, cit., p. 707. Roma 1993, frammento 411, p. 1039.
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nostro diventar altro, il nostro morire, noi alla fine ce ne tonica del giusto e del Bene, ma, piuttosto, la sua enne-
siamo difesi e abbiamo ucciso chi, volendoci strappare alla sima trasfigurazione, la gigantomachia in cui il paradig-
protezione delle nostre mura, si rivelava, in fine, essere ma dell’esser-solo-questo, dell’Uno limitato ad essere
nient’altro che un nemico dell’Occidente: questa Parola era sempre e soltanto sé, si impone sulla molteplicità delle
un cavallo di Troia da cui però, alla fine, abbiamo saputo cose, riducendo e assoggettandone l’eterogeneità a se
difenderci e vincere. stessa. Ciò che oggi volgarmente passa sotto i nomi di
“globalizzazione”, “massificazione”, “omologazione” non
Non si dovette alla fine sacrificare una buona volta tutto è altro che la manifestazione più esteriore di questo pro-
quanto vi è di consolate, di santo, di risanatore, ogni spe- cesso sotterraneo mediante il quale la Civiltà Occidentale
ranza, ogni fede in una segreta armonia, in future beati- continua a ripensare in modo sempre più coerente il pro-
tudini e giustizie? Non si dovette sacrificare Dio stesso e, prio fondamento.
per crudeltà verso di sé, adorare la pietra, la stupidità, la Il nichilismo non è la fine dell’Occidente ma la sua verità.
pesantezza, il destino, il nulla? Sacrificare Dio per il nulla Proprio in quanto ne pensa radicalmente l’essenza, il
– questo paradossale mistero della estrema crudeltà rima- nichilismo ci porta a scorgere il carattere qualitativo
se riservato alla generazione che appunto ora sta avanzan- peculiare di tale civiltà, ponendocela come civiltà della
do, noi tutti ne sappiamo già qualcosa32. solitudine: io e solo io, tutto è uno in me e fuori di me
38 39 nient’altro, io sono questo e solo questo e quando non
La radicalità a cui ci spinge il nichilismo, ci porta a for- potrò più esser questo sarò niente, o questo o niente. Dal
mulare in modo radicale, cioè in termini ontologici, la Cogito di Cartesio all’Idea assoluta di Hegel, la filosofia
legge che da Omero a Nietzsche ha determinato il senso non ha fatto altro che meditare sul modo migliore e più
dell’esistenza dell’uomo occidentale33. A questo punto è coerente per pensare l’assolutizzazione del finito nel “que-
nostro dovere chiedere: ma tale legge, fino a che punto sto”, anche laddove ha pronunciato esplicitamente la
andrà ancora rispettata? Non è forse proprio questa la parola “infinito”, “illimitato”. La voracità con cui l’Oc-
tavola che va infranta, il valore che va trasvalutato? cidente pare aver divorato le altre forme di civiltà, assog-
La storia degli ultimi due secoli, ci testimonia il compiersi gettandole a sé, riducendole a propria immagine, s’inscri-
della Civiltà Occidentale in Civiltà della Tecnica, ovvero ve nel suo destino, cioè in questa volontà di ridurre l’illi-
Civiltà della volontà di potenza che impone sé a tutte le mitato entro il limite sicuro che conchiude l’Uno in se
cose e di tutte e molteplici le fa diventare una sola: la stesso, lasciando fuori soltanto la morte, il non-essere.
volontà di potenza non è quindi la negazione dell’Idea pla- Ma se oggi è il tempo in cui l’Occidente assume la forma
del suo più alto rigore, se oggi l’Idea in cui nasce, proprio
note perché tradotta in termini ontologici puri, è formulata
32
F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, aforisma 55, trad. it., con una forza che mai prima d’ora ha potuto vantare, se
in Id., Opere 1882-1895, cit., p. 469. oggi la tecnica è in grado di far sperare a Ilio mura non
33
In merito a tale radicalità e ad una sua concettualizzazione solide ma addirittura incrollabili, ritraducendo ancora una
più analitica e rigorosa, vedi anche Un dogma dell’ontologia ana- volta, e ora nei termini delle scienze, il mito dell’immor-
litica. talità, ebbene, allora
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l’autentico inattuale è il superamento dell’essenza Emerge qui il centro concettuale fondamentale, abbiamo
dell’Occidente. Ma in esso vien resa innanzitutto testimo- innanzi il cuore più profondo del problema, il senso stes-
nianza della verità dell’essere. La quale dice che l’essere è so della necessità per cui l’Occidente deve essere nichilista
e non è possibile che non sia (Parmenide, fr. 2). L’”essere” e ha in tale nichilismo il suo più proprio destino. Ma pure,
– ossia tutto ciò che non è un niente. Ma, niente, è soltan- se trasvalutazione deve darsi, non può essere quella detta-
to il niente, e non anche ‘qualcosa’, che si presuma di ta dalla volontà di potenza, come vorrebbe Nietzsche, giac-
mantener significante come un non-niente (e un signifi- ché tale volontà altro non fa se non pensare la medesima
care qualsiasi è un esser significante come un non-niente) Idea con rigore ancora maggiore, esattamente come
e insieme lo si trattenga nel limbo dell’inesistenza, Platone già in origine fece con Omero.
ponendolo appunto come ‘qualcosa’ (cioè un non-niente) La Civiltà Occidentale è la civiltà della solitudine, questa
che, quando non è, è niente34. solitudine ha il senso dell’isolamento, della chiusura nella
rocca sicura del proprio sé identico a sé, entro le mura che
Con queste parole, Emanuele Severino, colpisce al cuore la pongono il limite e separano l’Uno dall’Illimitato, met-
legge che l’Occidente ha sempre pensato e che quindi ha tendolo così in salvo dalla disgregazione, dalla morte: dal
fatto della sua storia la storia stessa del nichilismo. niente.
L’Occidente crede che l’Essere sia qualcosa che possa anda-
re nel nulla: è questa la sua fede fondamentale. Essere signi- 40 41 L’accoglimento della terra si unisce alla convinzione che la
fica stare qui, fermi, esser sempre sé. Il nemico dell’Essere terra sia il tutto con cui noi abbiamo sicuramente a che
è quindi il divenire, che fa diventare altro da sé, altro fare. In tale convinzione, l’essere che accade viene isolato
dall’Essere, trascina fuori dalla città sicura e consegna al dalla verità dell’essere. [...] La non verità è la sollecitudi-
nulla. Il divenire deve intendersi, per l’Occidente, come un ne per la terra, unita alla convinzione che la terra sia la
passaggio dall’Essere al nulla in quanto distrugge quella dimensione con cui abbiamo sicuramente a che fare, e al
monolitica identità con se stesso che si pensa sia l’Essere in di là della quale si stende l’oscurità più profonda35.
quanto conchiuso nella perfezione della sua finitudine. Ma
poiché la distruzione di questa identità, il diventar altro, è Ma a questo punto, proprio perché viene formulata in
“sotto gli occhi di tutti”, allora si deve affermare che tutta la sua radicalità, la legge su cui si fonda e cresce
l’Essere può non essere, ovvero che le cose sono ma solo l’Occidente, si mostra anche come contraddizione, giac-
quando non sono niente, quando non sono strappate alla ché impone agli opposti l’identità e si ritiene in dovere di
pace tranquilla che riposa dietro la solide mura di Ilio. porre che l’Essere sia identico al non essere, che le cose
Riconoscendo il mutamento, ma pensando che l’Essere sia siano un niente a cui talvolta accade di essere, ma il cui
uno stare in se stessi, allora è forza di necessità riconoscere destino sia essenzialmente quello di sorgere e tornare al
che il divenire sia passare dall’Essere al non essere. nulla.

note
34
E. Severino, La terra e l’essenza dell’uomo, in Id. Essenza del note
35
nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 197. Ivi, p. 202.
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La verità vuole la terra; l’errore pensa il voluto come il alla base le fondamenta stesse dell’Occidente: il nichili-
tutto sicuramente esistente. Lo spicco della terra sullo smo, che prendendo a parlare con un rigore assoluto
sfondo diventa così l’isolamento della terra, la sua separa- mostra l’assoluta contraddizione di questa parola, non è
zione dalla verità. L’isolamento non è l’apparire della terra altro che quel decisivo cavallo di Troia per mezzo del quale
senza che la verità della terra appaia, ma è l’apparire del la stessa Ilio cade.
pensiero che pone la terra come il terreno sicuro. La terra Perché Ilio può cadere? Perché il fondamento su cui si
appare sempre legata alla verità, giacché nulla può appa- regge la sua legge è esso stesso una fede ovvero un dubbio
rire se non appare la verità dell’essere; ma nell’apparire che la volontà di potenza ha mutato in apparente certezza.
accade anche l’errore, che pensa l’isolamento della terra, Ciò vuol dire che l’essenza di questa fede non è affatto
cioè riconosce solamente una parte di ciò che appare. Così l’incontrovertibile ma, al contrario, la pura controvertibi-
la verità e l’errore si contendono la terra. Ognuna delle lità, anzi: il contraddittorio. La volontà è il gendarme
cose della terra – gli uomini, le piante, le azioni, i senti- della fede, cioè il gendarme della parola: ha il dovere di
menti, i corpi, i pensieri – appaiono, nella non verità, in impedire alla parola di asserire ciò che è contrario alla
questo loro venir contese. La distrazione dalla verità, in fede. Ma allora la legge del nichilismo è infranta nel
cui consiste la non verità come vita normale dell’uomo, è momento in cui si sottrae la parola stessa alla schiavitù
l’apparire degli enti della terra come contesi alla verità da del senso a cui la sottomette la volontà di potenza.
parte dell’errore. [...] Volendo la terra, la verità la solleva 42 43
dallo sfondo; e l’errore acuisce lo spicco, sradicandola
dallo sfondo e ponendola come il tutto che sicuramente
esiste. Il linguaggio – che appartiene anch’esso all’accadi-
mento della terra – si dispone allora a nominare le cose
della terra, che stanno dinanzi come isolate dalla loro
verità. Ma il linguaggio della non verità porta le tracce
della profondità abissale36.

Se la coerenza del nichilismo ci porta a vedere come la


legge fondamentale dell’Occidente imponga di pensare
che le cose, per essere, devono farsi mortali, ovvero essere
solo quando non sono un niente, allora, rilevare l’impossi-
bilità che ciò effettivamente sia, ovvero mostrare che que-
sta legge comanda qualcosa che, violentando le parole,
grida un ordine che non riesce a significare altro che una
contraddizione37, ebbene allora tutto ciò significa minare
note
note 37
Circa l’impossibilità di affermare che l’Essere non è, cfr.
36
Ivi, pp. 205-6. Il solido cuore della verità, cap. 1.
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4. Il cavallo di Troia E ciò accade proprio perché nessuno potrebbe pensare o


dire con sufficiente chiarezza quale sia questa differenza: la
La storia dell’Occidente è veramente storia di un errore, ma legge dell’Occidente, in Omero, è un silenzio, un tacito
non limitatamente al senso che Nietzsche voleva intende- accordo che nessuno proferisce ma che tutti, necessaria-
re con tale espressione, bensì nell’accezione più ampia che mente, presuppongono. Ecco allora la storia che abbiamo
ne fa la legge che comanda all’uomo di pensare la sua esi- tratteggiato: storia della costituzione di questa legge, del
stenza, ancor prima che viverla, come esistenza che è suo emergere in forza e chiarezza, del suo prender vigore,
sospesa sul niente, esistenza mortale. coraggio, traendosi fuori dall’oblio e dal nascondimento
Ma ora possiamo anche arrivare a vedere che, se è vero che in cui la custodiva il silenzio. La legge prende la parola,
Ilio offre la prima idea paradigmatica di questa legge, è diventa Stato, Epistéme, diventa Religione, Civitas Dei, si
pur vero, anche, che l’Iliade resta il poema della guerra rivela pienamente come volontà di potenza, Téchne.
contro Ilio. Ed è forse giunto ora il momento di recupera- Più la legge di fa chiara, più la sua parola si fa netta e pre-
re questo aspetto che, nel tessere assieme gli elementi fon- cisa, più il suo pensiero si fa radicale, più essa stessa è capa-
damentali della questione, abbiamo dovuto tralasciare: ce di identificare correttamente il suo nemico e dare alle
l’Iliade, ove abita la legge fondamentale dell’Occidente, è fiamme ardenti le sue eresie. Così Platone fa con
il poema della lotta per la distruzione di Ilio, per l’abbat- Parmenide, così il Nichilismo con Platone: ogni volta la
timento delle sue solide mura. Ma, per quanto possa pare- 44 45 legge dell’Occidente mette al bando ciò che della primige-
re paradossale, questa guerra, in Omero, non è affatto nia Ilio resta come debolezza, ciò che nella sua ultima rifon-
combattuta e nessuno dei partecipanti pare realmente dazione era rimasto imperfetto, ciò che ancora le impedisce
avvedersi del suo significato: non c’è differenza tra Achei di emergere come Assoluto. Io sono questo e solo questo,
e Troiani, entrambi, come osservavamo, abitano il mede- oltre questo niente, o questo o niente, con l’altro da me,
simo orizzonte, per ragioni diverse sono entrambi abita- con ciò che sta fuori, non ho nulla con cui spartire: dunque
tori della legge di Ilio, si battono per i medesimi valori e bisogna ammettere, contro Parmenide, che, giacché il fuori
condividendo il medesimo modo di pensare. Ilio risorge, tuttavia incombe, l’Essere è molteplice e che ogni cosa è un
proprio per questo, continua a risorgere, Omero ne canta non essere per l’altra, cioè la molteplicità è una pluralità di
la guerra, la lotta per la sua espugnazione, ma questa cose separate e finite, ciascuna un “questo”, sicché, diventar
guerra non riesce a penetrare nel cuore sicuro, nell’essen- altro è andare nel nulla da ciò che si era. Ma se bisogna
za della città, non scalfisce la sua legge più profonda: la tener fermo che io sono questo e solo questo e che o questo
guerra contro Ilio, in qualche modo, è ancora una speranza o niente, allora se mi si pone innanzi un Ente Sommo che
che ha da venire, un eredità e un compito che da tre mil- pretende di essere il Bene illimitato, l’infinito, l’aliquid quo
lenni attende d’essere assolto. La legge stessa, anzi, pare nihil maius cogitari possit, ebbene, bisognerà rispondere con
del tutto taciuta, nascosta, occultata sotto i fatti e gli tutta coerenza, alla fine, che questo Ipsum Esse non può
accadimenti più esteriori. Si combatte sì sotto le porte affatto esistere, giacché essere è solo esser-limitati e finiti, e
Scee, ma, in definitiva, sfugge il vero perché: in fondo non che, in quanto portatore di una Parola diversa, assedia e
c’è differenza tra assedianti e assediati, o, meglio, nessuno minaccia alle radici la solidità della nostra esistenza, così
riesce a scorgere tale differenza, a dirla. ben protetta dentro Ilio fiorente.
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Anzi, potremmo aggiungere: proprio perché inizialmente niente. Per tal motivo essa è una legge ingiusta, oltre che
si è voluto credere in ciò che questa Parola annunciava, e ontologicamente infondata: ciò che chiede non esiste e non
in cui la nostra legge ci legittimava a sperare, ebbene, la si può esistere, se Essere e niente si tengono come parole
è in un primo tempo lasciata accedere alla rocca, penetra- significanti. In quanto ontologicamente infondata, la
re nel cuore della nostra Civiltà. Però «la parola non ha legge di Ilio impone all’uomo di essere nella dimensione
guarito la malattia dell’ascolto, ma ne è rimasta contagia- della non verità, della menzogna, dell’errore. L’errore è,
ta»38, per questo, ad un certo punto, la scelta s’è fatta esi- per usare le parole di Severino, l’isolamento, il pretendere
ziale e questa parola essenzialmente nemica dell’Occidente, che l’esistenza sia lo star fermi nella rocca del proprio sé, il
la si è dovuta uccidere. tenersi stretto il proprio piccolo se stesso, il proclamare io
Ciò che qui si sta dicendo non vuole essere una banalizza- sono questo e solo questo, o questo o niente.
zione della storia dell’Occidente ma semplicemente L’errore presuppone la verità. Si pone il limite fermo e invio-
intende riconoscere, pur nella complessità dello sviluppo labile delle mura e dentro questo confine si pone la propria
cui è andata incontro tale storia nel suo dispiegarsi, i esistenza, perché solo così è possibile dominare tale esisten-
punti di partenza e arrivo e i loro snodi fondamentali. Il za: la volontà di potenza, per dominare l’Essere, ha la necessi-
processo della costituzione della Civiltà Occidentale è la tà di confinare l’Essere entro solide mura entro cui lo possa
costante rifondazione di Ilio dalle solide mura, ogni passo signoreggiare come suo re. Ma poiché questo dominio è vio-
di questo processo porta tale Civiltà a configurarsi sempre 46 47 lenza e alienazione non potrà mai assurgere a conquistarsi
più chiaramente come una civiltà della solitudine, ovvero quella solidità che tuttavia sempre brama: inventando il
come la conquista stessa dell’Assoluto, inteso alla lettera proprio nemico, un fuori separato ed estraneo a ciò che io
come il totalmente sciolto dall’alterità, come ciò al di sono, la volontà di potenza non potrà mai liberarsi del suo
fuori del quale non resta niente. assedio. L’assedio è imposto dal fuori e da quel diventar altro
Ma proprio oggi che questa legge è proclamata con una che vien detta essere la morte. Ma queste parole, sottratte
solennità fino ad ora inaudita, proprio oggi diventa chiaro alla schiavitù a cui la legge di Ilio le sottopone, parlano,
qual’era il perché della guerra contro Ilio, e perché il nella loro essenza, unicamente dell’impossibilità che l’Essere
poema che cantava di questa città la cantasse in quanto sia davvero ciò che in Ilio si vuole credere e rivendicano a
città assediata e da espugnare, da abbattere. La legge che questa parola ciò che per diritto le spetta come suo senso
da Omero al nostro oggi fonda la Civiltà Occidentale in più autentico e inaudito: l’infinitudine, cioè la libertà da
quanto civiltà della solitudine è una legge che nega nel ogni confine che imponga a chi abita gli spazi dell’esiste-
modo più radicale la verità stessa di ciò che vuole governa- re di essere un “questo e solo questo”39.
re: la legge di Ilio si pone come legge dell’esistenza e, al I Troiani, domatori di cavalli, vengono sconfitti quando
contempo, chiudendola nella schiavitù del “questo e solo fanno entrare nella loro città il simulacro più splendido di
questo”, fa dell’esistenza una divagazione sopra l’abisso del ciò amano, un cavallo. Così, nel momento in cui la legge di

note note
38 39
E. Severino, Alienazione e salvezza della parola, in Id., Essenza Cfr. A. Sangiacomo, La sfida di Parmenide. Verso la Rinascenza,
del nichilismo, cit., p. 274. Il Prato, Padova 2007, pp. 164-187.
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Ilio scopre le carte della propria contraddizione e, con la deve avere un fine, un telos, altrimenti è un errare, un errore:
massima coerenza, afferma la contraddizione della propria Ilio ha domato Odisseo, affidando a lui il compito di porta-
insensatezza, tale legge cade e i suoi ordini, pur continuan- re seco sui mari del tempo le parole della sua legge, o,
do a risuonare e strepitare, diventano ineseguibili, giacché meglio, la legge con cui domare le parole. E se mai Odisseo
comandano ciò che afferma di non poter essere comandato. avesse da desiderare di imbracciare i remi per andare al di
La storia dell’Occidente, dunque, non è soltanto storia di là del limite, mettersi per l’alto mare aperto, di certo non
un errore. La storia della Civiltà Occidentale è il lungo potrebbe che sprofondare nell’errore e meritare quindi una
poema che narra l’assedio e la guerra contro una città che divina condanna, come Dante pure ci testimonia.
comanda all’uomo di esistere pensando quest’esistenza Diverso poema dovrà dunque essere quello con cui aprire
come una nullità, l’assedio e la guerra di una città che una nuova pagina della storia dell’Occidente, e avrà da
tiene segregata e chiusa entro le sue solide mura la vita e la iniziare proprio dando all’errare non più il senso dell’erro-
bellezza dell’esistere, pretendendo che queste siano preci- re, quanto quello dell’andare che liberato da ogni fine resta
samente quello stare lì e solo lì, quell’esser “questo stare infinito nel suo senso. Occorrerà una buona volta prendere
e solo questo, o questo o niente”. La storia dell’Occidente sul serio quella parola che il nichilismo alla fine ha dovu-
è un’Iliade che ancora non si è compiuta. to riconoscere come l’errore più lungo: è giunto forse dav-
Omero narra la caduta della città in un diverso poema per vero il tempo di «rinascere dall’alto», dall’altro che anco-
mano di un diverso eroe. Così, pure, ora che si mostra in 48 49 ra non abbiamo saputo essere, che non abbiamo voluto.
tutta chiarezza come l’essenza dell’Occidente sia l’essenza Occidente: domatore di parole. Così la legge di Ilio risuo-
stessa del nichilismo, e come la sua legge sia la volontà che na costringendo il dire a dire il senso che la sua volontà di
costringe a isolare l’esistenza nel “questo”, facendo un potenza impone alle cose. Ma quale sarà allora il cavallo di
Assoluto di ciò che assoluto non può essere, ovvero desti- Troia per mezzo del quale cadranno finalmente le mura di
nandola unicamente ad assoluta solitudine, ebbene, è davvero questa città, quale se non quello che parla una lingua diver-
giunto il tempo di una svolta epocale che solo a questo sa e che nel cuore più protetto della rocca semina parole lì
punto può esser pensata in tutta la sua portata, svolta inaudite, nemiche della sua legge, giacché sicure prendono
come non ve ne furono altre nel corso della nostra Iliade, ad affermare che il “questo” in quanto tale non è nulla,
dal momento che essa, essenzialmente, appartiene già, mentre l’Essere è sempre e libero nella sua infinitudine?
come in Omero, ad un diverso poema. Proprio perché la legge del nichilismo intende l’Essere
Anzi, di più: appartiene ad un poema che deve ancora esse- come qualcosa che si lascia domare e cavalcare dal niente,
re scritto, le cui parole hanno ancora da essere pensate e il proprio perché intende l’esistenza come l’esser-sempre-
cui senso resta ancora inaudito. L’Odissea, quella sorta di fan- mio, l’esser-sempre-sé, il raccogliere la molteplicità limi-
tastico seguito dell’Illiade, non fugge affatto dalla legge tandola entro i confini perfetti dell’Uno, ebbene, proprio
della città che Odisseo ha fatto cadere: lui, guerriero che per tal motivo, per espugnare la città basterà riportare
non ama la guerra e navigante che non ama navigare, è questa parola al suo senso originario, ovvero a quel senso
costretto a mettersi in cammino, è costretto ad andare errante che rifiuta come impossibile e insensato ciò che la legge
sui mari, laddove invece la sua volontà sarebbe quella di pure vorrebbe imporgli di significare.
tornare a casa, sulla sua isola. Per l’Occidente, ogni viaggio È questa una guerra che si gioca tutta sul piano del dire.
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Ed è questa la guerra più radicale e tremenda che si diventa la lotta che intende riportare ogni parola al suo
potrebbe condurre, giacché è pur sempre questo il piano significare l’“è” che di diritto le appartiene e come tale
del pensare, dunque il luogo nel quale l’uomo pensa se appartiene già da sempre a ogni cosa, per sempre. Far
medesimo e il suo esistere e il senso di tale esistere, e in emergere il senso dell’essere di ciò che si dice, quel senso
base a tale senso medita il modo, la misura e l’eventualità in cui ciò che è detto può essere detto proprio in quanto
di rapportarsi all’essere di tutte le cose, ivi compresi i suoi da sempre è: tale è il compito dell’emendazione, ovvero il
simili. Sottrarre la terra e l’uomo con essa all’isolamento e piano della battaglia che ora s’annuncia.
alla solitudine è possibile solo intraprendendo un’opera Questa battaglia è ancora tutta da combattere. S’è costrui-
radicale di emendazione della parola, riportando al dire la to il cavallo, ma pure con ciò non si è che all’inizio. E tut-
capacità di nominare ogni cosa non in quanto questa cosa tavia possiamo già gettare lo sguardo innanzi e scorgere
unica e finita, sciolta e per sé esistente quando esiste o per quale vittoria e quale trionfo ci prospetta questa lotta a
sé inesistente quando non esiste, ma piuttosto in quanto cui dobbiamo prepararci.
cosa essente a cui compete l’Essere non come un attributo Pensare l’esistenza fuori dalla legge del nichilismo, signi-
che può darsi o meno, ma come qualcosa di già da sempre, fica, forse, provare il più grande spaesamento che l’uomo
per sempre, eternamente dato nella sua illimitatezza. Occidentale possa concepire: trovarsi di colpo in mezzo ad
Si tratta, dunque, di una vera e propria guerra di liberazio- uno spazio sterminato, senza protezione, senza muri die-
ne, essendo il suo perché orientato tutto all’abbattimento 50 51 tro cui rifugiarsi, senza ripari e senza urne dorate entro
delle solide mura con cui la legge dell’Occidente ha prete- cui mettere in salvo almeno le proprie ossa. Come annota
so isolare la propria esistenza, trasformandola e traducen- Nietzsche: «il principio del nichilismo: il distacco, la
dola nella tracotanza della volontà di potenza. Tale guerra separazione dalla terra natia, che comincia con lo spaesa-
non si vincerà con battaglie o scontri campali, se stiamo mento, che finisce con l’inquietudine»40.
alla lettera di Omero sarà l’acuto ingegno a determinare la Eppure, se si avrà il coraggio di tener testa a questo spae-
vittoria. L’Iliade finiva con la morte di Ettore, ovvero con samento, se si riuscirà a tener fermi gli occhi sulla linea
la morte del più valoroso difensore di Ilio, così, restando sconfinata dell’orizzonte, ebbene, allora, forse, sarà dato
nel paragone, l’epoca del nichilismo assolutizzando e radi- di conoscere qualcosa come la libertà, quella parola che
calizzando in massima coerenza la legge fondamentale più di tutte la legge dell’Occidente vieta di pronunciare
dell’Occidente, pure la scopre per ciò che è: follia. La nel suo senso autentico. Caduti i muri, crollate le fortez-
nostra Iliade terminerà con la morte di quel Dio che da ze, cadono pure i confini e con loro ogni separazione tra
sempre ci domina e che ha assoggettato a sé ogni altra dentro e fuori, amico e nemico. Manca il fine: resta il senso,
divinità: in questa morte avranno da crollare le mura del ovvero non già la meta cui il nostro andare deve andare a
tempio in cui è rinchiuso, imponendogli di aprirsi, di finire, ma la direzione che indica al nostro muovere il suo
accogliere il fuori, di risorgere, di rinascere. essere eternamente in cammino.
La follia è quella che dominando e soggiogando la parola
alla propria volontà mira a render mute le parole e ridur- note
re l’uomo che le pensa alla pura idiozia. La guerra contro 40
F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., frammento 335,
questa follia è la guerra contro l’insignificanza del dire, e p. 1012.
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Andrea Sangiacomo Scorci

Libertà, come altrove s’è detto41, non è poter far essere le lando i nuovi doni dell’Essere alla terra non più isolata.
cose che si vogliono far essere o ridurre nel nulla ciò che Un’esistenza, quindi, che non è più un essere-per-la-morte
non si vuole che esista. In questo senso, la possibilità della ma un costante rinascere alla libertà di chi abita nell’infini-
scelta, presupponendo che le alternative che ci si pongo- to e che quindi si ritrova ad essere sempre più di quello che
no innanzi siano qualcosa a cui si ha da attribuire esisten- ad ogni passo pure credeva di essere. Libertà tanto radica-
za, giacché di per sé l’esistenza non compete loro, ebbene, le, diciamo, da saper dare alle parole che già un tempo
tale possibilità non è altro che il modo in cui la legge del abbiamo pensato e pronunciato, un senso che a tutta prima
nichilismo domina e traduce nella sua lingua mendace il suona inaudito, ma che suona tale solo perché da tempo
significato della parola “libertà”. immemore ci eravamo abituati a non voler più ascoltare.
Libero, ontologicamente, è invece precisamente l’illimita-
to, ciò che non è costretto ad essere questo e solo questo, L’invocazione del tramonto della solitudine invoca il tra-
ciò che è sempre anche questo ma mai solamente questo, ciò monto del ‘mondo’, cioè della terra come opera dell’alie-
che sta qui ma mai tutto qui e sempre è infinitamente più nazione. Ma, come invocazione del tramonto, il pensiero
di ciò che sta qui, giacché il suo essere è il cammino stes- che testimonia la verità dell’essere può incominciare a
so che eternamente lo porta avanti a sé, altrove. La libertà tendersi al riascolto della terra e di ogni parola della terra.
non nega la finitezza, intesa come essere un qualcosa di Non si tratta di inventare cose nuove, ma di lasciare che
determinato piuttosto che qualcos’altro, nega però a tale 52 53 le parole della terra dicano ciò che esse dicono da quando
finitezza il rango di assoluto, ovvero la strappa e la salva sono state offerte alla verità dell’essere42.
dalla sua solitudine. La libertà è il contrario esatto del-
l’isolamento in cui ci confina l’essenza del nichilismo. La legge del nichilismo ha strappato al Cristianesimo stes-
È dunque venuto il momento in cui, senza tema di esage- so la sua Parola originaria per seminare nel suo “Dio” una
rare, occorre decidersi ad assumere su di sé la responsabi- forma, né la prima né l’ultima, della propria autoafferma-
lità di abitare l’Occidente non come i sacerdoti della sua zione: il Cristianesimo, nel suo esser altro dall’Occidente e
legge, ma come gli assedianti che mettendo in salvo la portatore d’altra parola, fu vittima di Ilio. Fu prima accolto,
parola dall’insignificanza a cui tale legge vuole ridurla, poi rinchiuso e infine immolato, sino a che il suo dire, spro-
lottando per trovare il compimento di questa civiltà della fondato in questa alienazione, in questo peccato, non finì per
solitudine in una civiltà della Rinascenza, ovvero in quel risultare del tutto assurdo, assolutamente incredibile.
luogo senza confini e senza mura ove l’esistenza, in quan- Se giungiamo a riconoscere come il grande e vero Dio
to priva di fine e radicata unicamente nel suo senso, è chia- nascosto che da sempre ha dominato sull’Occidente e di cui
mata costantemente a procedere innanzi, ad essere il suo solo fu possibile agli abitatori dell’Occidente dare testimo-
stesso procedere, il suo andare, il suo costante aprirsi nianza, fu il Dio della Solitudine, dell’Isolamento e della
all’orizzonte che ad ogni passo arretra mostrando e disve- Morte, ebbene, ecco allora l’autentica trasvalutazione di tutti
i valori, dettata non più dalla volontà di potenza ma precisa-
note
41
A. Sangiacomo, La sfida di Parmenide. Verso la Rinascenza, cit., note
42
pp. 182-187. E. Severino, Alienazione e salvezza della parola, cit., p. 278.
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Andrea Sangiacomo Scorci

mente dal suo contrario, dal Destino della necessità: ritradur- Un dogma dell’ontologia analitica
re e pensare come debbano suonare nella lingua che parla
della verità eterna dell’Essere le parole stesse di Nietzsche, Il valore di quest’opera consiste nel mostrare
profeta del Nichilismo: a quanto poco valga l’aver risolto questi problemi.
(L. Wittgenstein - Tractatus, Prefazione)
il maggiore degli avvenimenti più recenti – che «Dio è
morto», che la fede nel Dio cristiano è divenuta inaccettabi- 1. Prolegomeni
le – comincia già a gettare le sue prime ombre sull’Europa.
Almeno a quei pochi, lo sguardo, la diffidenza di sguardo dei Sembrerebbe appartenere al senso comune la convinzione
quali è abbastanza forte e sottile per questo spettacolo, pare per cui le cose a cui ci volgiamo e che ci circondano siano
appunto che un qualche sole sia tramontato, che una qual- dotate di una loro autosufficienza, in virtù della quale cia-
che antica, profonda fiducia si sia capovolta, in dubbio: a scuna, per essere quella che è, non ha bisogno di altro da
costoro il nostro vecchio mondo dovrà sembrare ogni gior- sé44. Ovvero: perché io pensi qualcosa e lo riconosca per
no più crepuscolare, più sfiduciato, più estraneo, più “anti- quello che è, non ho bisogno di pensare contemporanea-
co”. Ma in sostanza si può dire, che l’avvenimento stesso è mente qualcos’altro di diverso. O, ancora meglio, qualsia-
fin troppo grande, troppo distante, troppo alieno dalla capa- si cosa, per essere ciò che è, non ha bisogno di stare in
cità di comprensione del maggior numero perché possa dirsi 54 55 qualche rapporto con qualcos’altro che non sia sé: ciò che
già arrivata anche soltanto notizia di esso; e tanto meno, poi, è, è tale in virtù di sé e non di altro.
perché molti già si rendano conto di quel che propriamente è Nella tradizione filosofica, Aristotele ha formulato una tesi
accaduto con questo avvenimento – e di tutto quello che analoga parlando di sinolo, ossia di sostanza individuale, e
ormai, essendo sepolta questa fede, deve crollare, perché su allo stesso modo Tommaso parlando di materia signata, o
di essa era stato costruito, e in essa aveva trovato il suo Kant di cose in sé. Pur nelle differenze, anche rilevanti, tra
appoggio, e dentro di esse era cresciuto. [...] In realtà, noi questi autori, il punto che a noi qui interessa è il convinci-
filosofi e “spiriti liberi”, alla notizia che il vecchio Dio è mento che esistano oggetti tra loro reciprocamente indipendenti.
morto, ci sentiamo come illuminati dai raggi di una nuova Ossia: il darsi dell’uno, nella sua specificità, non implica e
aurora; il nostro cuore straripa di riconoscenza, di meravi- anzi prescinde dal darsi dell’altro. La ragionevolezza di
glia, di presentimento, d’attesa, – finalmente l’orizzonte questo assunto sembra poggiare sul principio stesso
torna ad apparirci libero, anche ammettendo che non è sere- d’identità, per cui vale in universale per qualsiasi ente di
no, – finalmente possiamo di nuovo scioglier le vele alle essere di per sé identico a se stesso e non già in virtù d’altro.
nostre navi, muovere incontro a ogni pericolo; ogni rischio Se intendiamo il termine “ontologia” alla lettera, allora
dell’uomo della conoscenza è di nuovo permesso; il mare, il ontologico è ogni logos che si volga al to on, a ciò che esiste. In
nostro mare, ci sta ancora aperto dinanzi, forse non vi è anco- questo senso, tutta la Filosofia è sempre stata ed è essen-
ra mai stato un mare così «aperto»43.
note note
43 44
F. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 343, trad. it., Mon- Le radici di questa convinzione abbiamo cercato di farle
dadori, Milano 1971, pp. 194-5. emergere in La civiltà della solitudine.
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zialmente ontologia. Ma allora, questa concezione così Quello che intenderemo invece sostenere è che l’espressio-
ragionevole del senso comune sembra precisamente essere ne “ontologia analitica” potrebbe denominare qualcosa che
un’assunzione ontologica, giacché intende proprio parlare di non è del tutto identificabile con ciò che, attualmente,
che cosa è ciò che è. passa sotto questo nome, o, meglio, non necessariamente,
È tuttavia piuttosto recente la grande fioritura di studi nella misura in cui sia assunta alla lettera come “discorso
che intendono presentarsi come ontologici. Tale fioritura è che guarda a ogni essente, in quanto essente in sé, e quin-
dovuta, almeno dal punto di vista quantitativo, al contri- di separabile o scomponibile rispetto alla totalità in cui è
buto di quei filosofi che si riconoscono nella cosiddetta inserito”. La nostra tesi è che ontologia analitica non è, tout
corrente “analitica”: court, un qualsiasi discorso su temi ontologici sviluppato
da filosofi appartenenti alla corrente “analitica”, benché
filosofare dal punto di vista analitico significa dunque molte riflessioni dei filosofi appartenenti a questa corren-
affrontare problemi filosofici in un determinato modo. te forniscano oggi ottime trattazioni di “ontologia anali-
Sintetizzando, possiamo affermare che tale modo di discu- tica”. Per usare qualche cautela in più: quest’espressione,
tere i temi filosofici sembra essere caratterizzato da analisi “ontologia analitica” appunto, per come verrà intesa nel
filosofiche di rilevanti (aspetti di) espressioni linguistiche, seguito, non è di per sé vincolata in senso assoluto né a
da una determinata terminologia tecnica e da una manie- contingenze storiche né a questioni di scuole filosofiche o
ra particolare di garantire degli standard argomentativi. 56 57 di stili argomentativi. Essa si basa piuttosto sull’assunzio-
[...] L’ontologia deve perciò avviare alla comprensione dei ne di quella posizione che abbiamo iniziato a presentare
caratteri più universali della realtà. [...] Un’ontologia anali- come ormai radicata nel senso comune e che intenderemo
tica prenderà le mosse da un’analisi filosofica delle struttu- presentare come un vero e proprio dogma, nella misura in
re linguistiche e utilizzerà una terminologia tecnica intro- cui un discorso filosofante volto a ciò che esiste, viene a
dotta nell’ambito della filosofia analitica45. postularlo acriticamente o addirittura inconsapevolmen-
te. Da questo segue che potrebbero configurarsi come
Analitica è ogni riflessione che, già sulla scia degli inse- forme di ontologia analitica anche posizioni ontologiche
gnamenti cartesiani, intende ridurre ai suoi componenti cronologicamente estranee al movimento storico della filo-
semplici ed elementari la sostanza del problema, scompo-
nendolo quindi per analizzarne separatamente i diversi
note
aspetti. Certo, con questo si è ben lungi dall’aver dato 46
un’idea della varietà di voci e posizioni divergenti che Per una panoramica generale cfr. anche G. Fornero e
S. Tassinari, Le filosofie del Novecento, Mondadori, Milano 2002,
animano questo orientamento filosofico46, né, d’altro pp. 847-866. Per una disamina più approfondita si veda Storia
canto, è nostra intenzione di occuparci di un problema della filosofia analitica, a cura di N. Vassallo e F. D’Agostini,
tanto vasto. Einaudi, Torino 2002. Una bibliografia di riferimento circa i
principali contributi dei filosofi analitici in merito a questioni
note ontologiche è riportata da A.C. Varzi, Ontologia, Laterza, Roma-
45
E. Runggaldier e C. Kanzian, Problemi fondamentali dell’onto- Bari 2005; E. Runggaldier e C. Kanzian, Problemi fondamentali
logia analitica, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 2002, pp. 6-7. dell’ontologia analitica, cit.; e da Storia della filosofia analitica, cit.
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Andrea Sangiacomo Scorci

sofia analitica strictu sensu, oppure che aspetti di quest’ul- le sta proprio nell’accettazione o nel rifiuto del dogma a cui
tima e della riflessione ontologica da essa sviluppata non si accennava. E nella misura in cui riusciremo a mostrare le
rientrino propriamente nel nostro dibattito. ragioni che spingono a tale rifiuto, daremo per conquista-
In questa sede ci limitiamo solo a notare che l’ontologia to uno spazio di legittimità per l’ontologia fondamentale.
in quanto tale non è solo ontologia analitica. Come ci Ebbene, per entrare finalmente nel vivo della questione,
ricorda anche Achille Varzi, del resto: se volessimo formulare questo dogma in modo più rigoro-
so, potremmo sintetizzarlo nell’enunciato che per brevità
bisogna riconoscere che quando si parla di ontologia non chiameremo D: «Qualsiasi X in quanto X non dipende da
sono del tutto chiare né le coordinate della disciplina stes- non-X».
sa né le metodologie di cui si può avvalere. [...] È bene Usiamo la variabile X per indicare che qui non ci si riferi-
tenere presente questa indeterminatezza di fondo, che allo sce necessariamente ad una cosa, o a un oggetto, o a un ter-
stato attuale delle cose impedisce di attribuire al termine mine o idea o quant’altro, ma indifferentemente a qualsia-
“ontologia” un significato univoco. Il recente risveglio si elemento si voglia considerare. Inoltre, X può essere
d’interesse nei confronti di questa disciplina impone più rappresentato come l’insieme finito degli elementi x1, x2,
che mai la necessità di fare chiarezza su tali questioni47. ...xn. In tal modo X può essere sia semplice, nel caso con-
tenga un solo elemento, o complesso, nel caso ne conten-
Con ciò non intendiamo riprendere e ribadire la discussa, e 58 59 ga diversi. Non-X identifica invece un qualsiasi altro
forse pure discutitibile, distinzione tra “analitici e conti- insieme Z diverso da X, tale per cui X in quanto X non ha
nentali”48, quanto piuttosto ricordare la presenza di un nulla in comune con Z. Nei termini di rappresentazione
discorso ontologico che potrebbe adeguatamente definirsi insiemistica, quanto stiamo dicendo suona così: X è un
“ontologia fondamentale” e di cui ci limitiamo a citare, insieme di n elementi x1, x2, ...xn, ed è diverso da Z, pen-
come esponenti di rilievo nel panorama novecentesco, sato allo stesso modo, se e solo se l’intersezione tra X e Z
Martin Heidegger ed Emanuele Severino49. Un corollario è vuota. In questo senso, si badi, intendiamo la diversità in
significativo di ciò che andremo ad argomentare è che il modo radicale come reciproca estraneità di X e della sua
discrimine tra ontologia analitica e ontologia fondamenta- negazione e non come semplice discernibilità tra insiemi
eventualmente simili, ossia la cui intersezione non è vuota,
note
47
cioè uguali in tutto fuorché in almeno un elemento. Ciò
A.C. Varzi, Ontologia, cit., p. 51. avviene poiché l’insieme non-X va inteso costituito dagli
48
Cfr. F. D’Agostini, Analitici e Continentali, Raffaello Cortina, elementi non-x1, non-x2, ...non-xn, sicché non può aver
Milano 1997.
49
Cfr. in merito i saggi qui presentati nella Seconda Parte. Vedi
nulla in comune con X stesso. Si noti che non-X, così inte-
anche A. Sangiacomo, La sfida di Parmenide. Verso la Rinascenza, so, comprende dunque qualsiasi altro termine che non sia
cit., pp. 133-164. Si noti che la dicitura “ontologia fondamen- in X stesso e quindi, eventualmente, anche il termine
tale” qui impiegata designa unicamente il contenuto delle filoso- nullo, ossia il niente, benché pure non sia riducibile a que-
fie di Heidegger e Severino, a prescindere dall’uso che questi sto e a patto di fornire una definizione rigorosa e non con-
filosofi fanno dell’espressione, né intende problematizzarne traddittorio di tale nullità, ma non è ora il caso qui di esa-
ulteriormente questo uso. minare qui tale eventualità. Piuttosto, se vogliamo espri-
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Andrea Sangiacomo Scorci

mere questa posizione nella terminologia classica, tenendo be la possibilità di disporre di quella quidditas che identi-
conto che contrario è ciò che ha in comune il genere e con- fica univocamente X in quanto X, ma si avrebbe, semmai, la
traddittorio ciò che non ha in comune nemmeno il gene- quidditas del genere a cui appartengono sia X sia non-X.
re, allora non-X, così come l’abbiamo definito, è il con- Chiarite queste espressioni, ci poniamo il problema di
traddittorio e non il contrario di X. stabilire l’effettiva ammissibilità di D. Tale ammissibili-
L’espressione “in quanto” intende isolare X da ogni suo tà sarà decisa dalla consistenza logica di D stesso: se D
rapporto estrinseco o accidentale. Così, ad esempio, il fosse effettivamente un principio coerente e valido, non vi
cane in quanto cane non è il cane che corre o che scodin- sarebbe motivo per doverlo rifiutare. Per vagliare tale
zola, ma il cane considerato unicamente in ciò che lo validità, ci chiederemo se D sia una proposizione analiti-
rende tale, ad esempio, nell’essere un mammifero quadru- ca o sintetica, ossia tautologica o meno: tale distinzione
pede appartenente ai canidi. “X in quanto X” è dunque restituisce meglio il carattere complesso di D e impone
una locuzione che vuole indicare X non nei suoi aspetti all’indagine un maggior livello di approfondimento di
transitori o possibili, ma solo limitatamente a ciò che quanto non farebbe una semplice verifica formale. La
l’identifica proprio come quel tale X di cui parliamo. distinzione tra proposizioni analitiche e sintetiche si
L’”in quanto” nomina quindi quella che, nella terminolo- fonda infatti esplicitamente sulla natura del legame che
gia scolastica, era definita la quidditas della cosa, ossia l’es- ne connette le parti costituenti, e pone cioè al centro del
senza: ciò posto il quale è posta la cosa e tolto il quale è 60 61 discorso proprio tale relazione, permettendo di assumerla
tolta la cosa, ossia, ancora, gli elementi necessari e suffi- in modo intuitivamente più diretto come la quidditas di
cienti alla definizione della cosa stessa. D stesso: D in quanto D è la relazione che connette i suoi costi-
In ultimo, il termine “dipende” allude invece alla dipen- tuenti, sicché una valutazione della coerenza di D dovrà concen-
denza ontologica di qualcosa da qualcos’altro. Tale dipen- trarsi sulla valutazione di tale relazione.
denza può essere intesa come ciò che X implica per essere Va però precisato che intenderemo per proposizione ana-
proprio X, come ad esempio una figura solida implica che litica una proposizione che può considerarsi un’occorren-
vi sia uno spazio tridimensionale. Ma la dipendenza può za del principio di identità o di non contraddizione, e tale
anche intendersi come ciò in funzione del quale si dà X, quindi che la sua negazione sia necessariamente contrad-
come ad esempio nel caso del giorno che si dà solo in fun- dittoria. Per proposizione sintetica intendiamo invece,
zione di una certa posizione del sole rispetto alla terra. semplicemente, una proposizione non analitica e non con-
“Non dipendere da non-X” significa quindi che la quiddi- traddittoria. Con ciò ci richiamiamo alle riflessioni svi-
tas di X, ossia ciò che rende X proprio X, né presuppone luppate da Severino50, discostandoci dalla posizione, di
né è funzione di ciò che è diverso da X stesso. Così, tor- esplicita ascendenza kantiana, sostenuta da Quine, in
nando ai precedenti esempi, il cane corre in funzione del virtù della quale analitica è una proposizione la cui com-
gatto che insegue, o il suo correre dipende dal gatto, ma il
cane in quanto cane non è cane perché insegue il gatto, ma
in virtù di se stesso. Risulta da ciò la necessità di intende- note
re non-X come il contraddittorio di X: se infatti non-X 50
E. Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981,
fosse simile a X, cioè fosse solo un contrario, allora cadreb- p. 277.
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ponente fattuale è nulla51. Sottolineiamo questo aspetto Ora, se consideriamo D: «Qualsiasi X in quanto X non
perché, come avremo modo di mostrare, solo ammetten- dipende da non-X», tale proposizione può effettivamente
do che si sia già implicitamente accettato il dogma D che essere considerata come una formulazione complessa
intendiamo discutere, allora pure si sarà «tentati di sup- scomponibile in due elementi semplici d1: «Qualsiasi X
porre, in generale, che la verità di un’asserzione sia in in quanto X» e d2: «X non dipende da non-X». Avendo
qualche modo analizzabile in una componente linguistica quindi stabilito che la coerenza e l’ammissibilità di D sta
e in una fattuale»52. Certo, per Quine «un confine tra o cade se la relazione che lega d1 e d2 è realmente ammis-
asserzioni analitiche e sintetiche semplicemente non è sibile, possiamo quindi iniziare a chiederci quale sia la
stato tracciato. Che ci sia una distinzione del genere da natura di questo rapporto.
tracciare è un dogma non empirico degli empiristi»53. Sembra ragionevole ammettere che d1 sia un’esplicitazio-
Tuttavia il presupposto di questa mancata distinzione è ne del principio d’identità per cui X=X. Rispetto a que-
pur sempre la distinzione entro ogni proposizione di una st’ultimo, d1 sottolinea l’esclusività di X nel suo rappor-
componente linguistica e di una fattuale. Ma giacché è to con sé: X è X unicamente in virtù di se stesso, l’iden-
nostro scopo mostrare che questa distinzione, come molte tità di X non dipende da altro da X, sicché l’identità di
altre, presuppone D, per poter valutare l’analiticità o la X l’identifica non in quanto connesso ad altro da X ma
sinteticità di D sarà necessario partire da una concettua- proprio in quanto X. Tra la locuzione “in quanto” e il
lizzazione di questi termini che prescinda da elementi, 62 63 simbolo “=” sembra dunque esserci una differenza nel
come la suddetta distinzione tra linguistico e fattuale, che modo di esprimersi, ma non una differenza logica sostan-
a loro volta presuppongono D stesso54. ziale, ossia, intendendo la logica come la regimentazione
che subisce il linguaggio naturale quando la sua origina-
note ria plurisemia viene ridotta al minimo, possiamo ben dire
51
Cfr. W.V. Quine, Due dogmi dell’Empirismo, in Id., Da un punto di essere innanzi a due modi diversi di leggere e intende-
di vista logico, trad. it., Raffaello Cortina, Milano 2004, p. 54. re la medesima connessione logica. Da questo punto di
52
Ibidem. vista, dunque, sarà ammissibile porre come sinonime le
53
Ibidem. due espressioni, tanto che si potrebbe riformulare d1 in
54
Principio di identità o di non contraddizione, non sono né d1’: «X=X», intendendo quest’espressione non come
posizioni linguistiche né fattuali, ma più originariamente prin- un’equazione ma come un tutt’uno, un simbolo appunto
cipi onto-logici, ossia riguardanti ciò che esiste e quindi anche il per indicare l’in sé di X.
linguaggio. Tuttavia, è possibile argomentare in dettaglio que- Se tentiamo di procedere analogamente anche per d2,
sta tesi solo prescindendo da D, sicché, dato che in questa sede
intendiamo discutere proprio le ragioni che spingono a prescin-
valutando quale sia la struttura logica sottesa alla dipen-
dere da D, non abbiamo ancora qui guadagnato lo spazio e gli denza ontologica da essa espressa, è abbastanza chiaro,
strumenti concettuali sufficienti per argomentare più in detta- però, che non sarebbe coretto tradurre “non dipende” con
glio tale punto, che dobbiamo quindi provvisoriamente limi- “≠”: in tal caso, infatti, dipendenza e identità diverrebbe-
tarci a postulare. Si può comunque rimandare a E. Severino, La ro sinonimi. Certo, qualsiasi X dipende da sé, come è
struttura originaria, cit., cap. III, pp. 173-199. Si veda anche Il implicito in D, ma non per questo qualsiasi dipendenza è
solido cuore della verità, cap. 2. necessariamente una dipendenza di X da sé in quanto
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Andrea Sangiacomo Scorci

tale, come accade ad esempio nel caso degli accidenti, per de dagli elementi x1, x2, ...xn che ne costituiscono l’in-
cui il correre del cane, in un dato momento, dipende ad sieme, e il rapporto tra gli elementi e X è logicamente
esempio dal gatto, e non dall’esser-cane in quanto cane. Se pensabile appunto in termini di appartenenza. Ossia: la
esiste una dipendenza ontologica tra la figura solida e lo quidditas di X è esprimibile come l’insieme delle sue pro-
spazio tridimensionale, come pure tra il giorno e la posi- prietà essenziali e caratterizzanti, un po’ come l’essenza di
zione del sole rispetto alla terra, è tuttavia evidente che una certa torta è esprimibile dalla sua ricetta, che ne
tale dipendenza non consiste nell’identità dei termini determina sia gli ingredienti, sia i metodi di preparazio-
dipendenti, quanto piuttosto in un loro rapporto. La ne, sia quindi l’aspetto finale.
dipendenza non è, cioè, l’identificazione della figura soli- Da ciò segue naturalmente che il darsi di un qualsiasi ele-
da con lo spazio tridimensionale, né del giorno con la mento costitutivo non implica necessariamente il darsi di
posizione del sole rispetto alla terra: nel primo caso, infat- X, ma il darsi di X implica necessariamente il darsi di
ti, la figura è nello spazio, nel secondo, invece, la posizio- almeno tutti i suoi elementi costitutivi. Ossia ogni ele-
ne del sole è ciò che determina il giorno sulla terra e non mento, di per sé, è necessario ma non sufficiente al darsi
in assoluto in tutto l’universo. di X, mentre il darsi di X è necessario e sufficiente al
Ora, quando qualcosa dipende da qualcos’altro, significa darsi di tutti i suoi costitutivi.
che quel qualcosa non può darsi senza quel qualcos’altro, Siamo così in grado di riformulare d2 in d2’: «“non-x Ï
ossia, appunto, lo implica o ne è funzione. Seguendo la 64 65 X»55. Poiché X dipende da X, a X appartengono tutti e
nostra rappresentazione insiemistica, possiamo quindi dire soli gli elementi di X, il che vuol dire che se X non dipen-
che quando qualcosa dipende da qualcos’altro allora il de da non-X, allora a X non appartiene nessun elemento
qualcos’altro è contenuto tra gli elementi che determina- che sia la negazione di uno dei termini di X stesso. Vale
no quel qualcosa in quanto tale, ossia appartiene alla sua a dire: se X è costituito da x1, x2, ...xn, allora che X non
quidditas. Ad esempio apparterrà al solido l’esser situato in dipenda da non-X significa che a X non appartiene nes-
uno spazio tridimensionale, così come apparterrà al giorno suno dei termini non-x1, non-x2, ...non-xn. Si badi che la
l’esser funzione della posizione del sole rispetto alla terra. cosa, per quanto possa sembrare scontata, è significativa e
Si noti, come situazione limite rilevante, che nell’eventua- sufficiente a giustificare perché in D compaia la formula
lità che X sia semplice, ovvero che abbia come unico ele- negativa d2: d2 sottolinea infatti che X in quanto X è una
mento x1, allora, posto x1 è posto X e X stesso dipende in totalità finita e chiusa, ossia che al darsi di X in quanto X
quanto X unicamente da x1. La differenza tra X e x1 è in
questo caso unicamente formale, giacché X indica l’insieme note
che ha come unico elemento x1. E tuttavia tale differenza 55
Queste formalizzazioni sono tali solo sui generis e alla corret-
va mantenuta, giacché diventa sostanziale non appena X tezza formale preferiscono l’immediatezza della trascrizione dal
sia assunto come termine complesso. linguaggio naturale. In questo caso, comunque, si sarebbe
Da tutto ciò, risulta plausibile tradurre la dipendenza potuto scrivere più correttamente d2’: «“x(Zx ®~Xx)», che si
ontologica in un rapporto di appartenenza per cui tutto legge “per qualsiasi x, se x è Z (ossia un elemento non-X), allo-
ciò da cui X dipende è uno degli elementi costitutivi ra quell’x non è X (ossia non appartiene a X in quanto X, inte-
della sua quidditas. X in quanto X è tale in quanto dipen- sa come insieme degli elementi x1, x2, ...xn).
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non è necessario nient’altro che X stesso. Abbiamo appe- semplicemente: X, in virtù di D, è sempre un qualcosa di
na mostrato che il non dipendere di X da non-X signifi- finito e concluso, e quindi, in questo senso, autosufficien-
ca che a X non appartiene nessun termine che sia la nega- te, almeno per quanto riguarda la conoscenza della sua
zione dei termini di X. Ciò vuol dire: a X non appartiene quidditas.
nessun termine che sia altro dai termini di X, ossia, a X Ebbene, facendo violenza al modo usuale di formalizzare
non appartiene nessun’altro termine oltre ai termini di X, gli enunciati, potremmo ora tentare di riscrivere D come
ossia, a X appartengono tutti e soli i termini X. D’: «“(X=X)½“non-x Ï X», che andrà letto: qualsiasi X in
Si ponga attenzione al fatto che gli insiemi cosiddetti quanto X è tale che qualsiasi elemento non-x non appar-
“infiniti”, come ad esempio l’insieme dei numeri natura- tiene a X. Vale a dire che per considerare X in quanto X
li positivi, non sono tali perché noi ne conosciamo di fatto non è necessario conoscere anche gli elementi non-x ma
l’intero contenuto: l’insieme dei numeri naturali positivi basta conoscere tutti e soli gli elementi di X stesso: X in
in quanto tale non dipende dall’elencazione di tutti i quanto X si dà a prescindere da non-X56.
numeri naturali positivi, quanto piuttosto, ad esempio, Resta da stabilire se d1’ e d2’ siano qui legati in forma
dall’algoritmo che consente di identificare sempre un analitica o sintetica. Il legame sarà analitico se è contrad-
numero seguente nella successione sommando un’unità al dittoria la sua negazione. Da quanto detto è pure chiaro
precedente, e che quindi, di per sé, determina una succes- che, prese singolarmente, sia d1’ che d2’ sono proposizio-
sione a priori senza fine. Ma, posto il caso che si pensi 66 67
note
all’algoritmo che genera la successione, questo identifica, 56
Per il linguaggio logico, quella appena enunciata evidente-
tuttavia, uno e un solo elemento che costituisce la quidditas
mente non è una formula ben formata. Se poniamo Z come l’in-
dell’insieme dei naturali positivi considerato in quanto sieme degli elementi non-X, e se chiamiamo x la dicitura
tale, benché poi da questo unico algoritmo dipendano infi- «X=X», allora si potrebbe riscrivere D’’ come: “x(Zx ® ~xx)
niti numeri. Questi infiniti numeri, però, non apparten- che si legge “per qualsiasi x, se x è Z [ossia appartiene all’insie-
gono all’insieme in quanto tale, ma all’elencazione degli me dei non-X], allora x non è x [ossia non appartiene a
elementi che seguono dalla sua quidditas, elencazione che «X=X»]. D’’ sta dunque dicendo: a X in quanto X [a x] appar-
di per sé non implica mai il darsi di tutto l’insieme ben- tengono tutti e soli gli elementi x, e se un qualsiasi x fosse non-
ché, il darsi dell’insieme implichi la possibilità dell’elenca- x [cioè appartenesse a Z], allora non apparterrebbe a X in quan-
zione. Vogliamo dire: per avere una definizione dei natu- to X. D’’ così ottenuta è dunque formalmente equivalente a D’.
rali positivi non serve contare all’infinito tutti i numeri Ciò significa che la logica può formulare correttamente D all’in-
naturali positivi, ma basta elencare le proprietà tipiche terno del suo linguaggio. Tuttavia, più la formulazione si fa
logicamente corretta, più il senso ontologico di D viene taciu-
del loro insieme. E queste proprietà, di per sé, non sono
to e ricade nell’ovvietà, sicché, dal momento che intendiamo
né l’elenco degli infiniti numeri naturali positivi, né esse problematizzare D proprio ponendone in discussione la sua pre-
stesse sono in numero infinito. sunta ovvietà, abbiamo preferito mantenere la sua formulazio-
Da ciò segue che X, in virtù di D sarà sempre un qualco- ne D’, formalmente assai più scorretta, ma espressivamente più
sa dotato di limiti e confini precisi, ossia qualcosa di distin- efficace per mantenere semanticamente esplicito il fondamento
to dal resto e in qualche modo “ritagliabile” dallo sfondo di D stesso, ossia l’assunto per cui ogni cosa in quanto tale esi-
e considerabile in sé, appunto come X in quanto X. Più ste in sé, nella sua essenza, indipendentemente da ogni altra.
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ni analitiche, la prima in quanto formulazione del princi- n’altro animale che un cane, eppure, dicendo “nessun’al-
pio di identità, la seconda in quanto, positivamente, non tro animale”, ammettiamo come riferimento l’insieme Z
afferma nient’altro che l’appartenenza di ogni elemento degli animali che, considerando ad esempio il cane in
dell’insieme X all’insieme X. Ma proprio gli ultimi rilie- quanto insegue il gatto, si mostra contenere anche l’ani-
vi mostrano che il punto saliente cui giunge l’analisi di D’ male gatto.
è il mostrare che D’ stabilisce per X un rapporto di deli- Ebbene, se noi neghiamo che l’identità di X sia tale che
mitazione finita rispetto a non-X tale che, dato X, X è qualsiasi non-x non appartenga a X, stiamo dicendo che
separato da non-X, ossia è finito, limitato, dotato di con- l’identità di X è tale per cui ad essa appartiene qualsiasi x
fini precisi che lo distinguono dall’altro, dal non-X e qualsiasi non-x, ossia qualsiasi elemento senza restrizio-
appunto. D’ giunge ad asserire ciò, unendo la posizione ni. Ma in questo caso, X sarebbe semplicemente assimila-
dell’identità di X, asserita da d1’, con la posizione della bile al Tutto, ossia all’insieme universo di cui tutti gli
non appartenenza ad un insieme X degli elementi diversi insiemi possibili sono sottoinsiemi. Rispetto al Tutto,
da quelli di X stesso, asserita da d2’: in questo modo D’ l’eventuale insieme Z non può porsi che come suo sottoin-
asserisce che X è X in quanto a X non appartengono gli sieme, sicché l’insieme universo non può avere un insie-
elementi che sono negazione dei suoi elementi. Questi me a lui esterno di riferimento rispetto al quale delimi-
elementi negativi non-x, originabili logicamente dalla tarsi. Va sottolineato, inoltre, che il Tutto si dà indeter-
serie degli elementi positivi x, costituiscono l’insieme Z, 68 69 minatamente a partire dall’unione di un insieme determi-
diverso e distinto da X stesso, rispetto a cui D’ asserisce nato X e di uno indeterminato Z, giacché a Z appartiene
appunto la distinzione di X. L’insieme Z, non è già dato, appunto qualsiasi non-x. L’indeterminatezza, si badi, non
in quanto Z, in virtù del darsi di X: X non determina già riguarda però la quidditas del Tutto, che è invece definita
Z ma determina sé ponendo Z come suo altro indetermina- dall’essere unione di X e Z, quanto ai suoi elementi che,
to. Z è posto come termine di riferimento negativo che nella misura in cui comprendono Z indeterminato sono,
istituisce una sorta di “fuori” rispetto a X, ma come tale sotto questo aspetto, essi stessi indeterminati. Ovvero: da
questo “fuori” non è altrimenti identificato, né potrebbe questa prospettiva, anche il Tutto in quanto Tutto non è
esserlo a partire dal solo X. In questo senso possiamo dire qualcosa di indeterminato ma è considerabile in sé o in
che l’insieme Z è il termine di riferimento generico in quanto tale.
virtù del quale è possibile che X si ponga determinata- Dovrebbe del resto risultare chiaro che, ancora una volta,
mente in quanto tale. Si noti che Z è generico indetermi- se qualsiasi x o non-x appartengano all’insieme universo
nato solo a priori a partire da X, esattamente come X è in ciò non significa che questo insieme, in quanto tale, sia con-
sé chiuso solo in quanto X: ciò non toglie che ulteriori temporaneamente x e non-x. In questo caso, infatti, x e non-
considerazioni, così come possono mostrare che a X com- x non sono più elementi propri della quidditas dell’insie-
pete una serie accidentale di relazioni, così pure mostrino me, che è invece definita dal comprendere tutti i termini,
che a Z compete una certa serie di determinazioni. Ma, ma sono sue occorrenze, così come i singoli numeri natu-
appunto, a priori, cioè considerando X in quanto X, Z è rali sono occorrenze dell’insieme dei naturali. L’insieme
necessariamente indeterminato. Per fare un esempio, se universo, in quanto Tutto, comprende certo elementi tra
consideriamo il cane in quanto cane, il cane non è nessu- loro diversi, ma non essendo riducibile a nessuno di que-
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sti, nemmeno si può dire che l’insieme in quanto tale sia per d intendiamo una proposizione che è elemento di D,
contraddittorio, giacché, al pari della sostanza aristoteli- allora non-d2 indica ogni proposizione che non è elemen-
ca, anche il Tutto ammette in sé i contrari senza tuttavia to di D. Ma che D in quanto D non dipenda da nessuna
identificarsi con nessuno di questi. Da ciò segue che la proposizione non-d significa allora che D stesso è un insie-
negazione di D’ consiste nell’identificazione di X con il me finito che, in quanto tale, prescinde dalla totalità non-
Tutto, ossia nell’affermare che qualsiasi elemento implica d, ossia che affermare D in quanto tale non implica nes-
la totalità, e poiché l’insieme universo del Tutto non è di suna affermazione circa non-D, che viene posto invece
per sé contraddittorio, non è nemmeno contraddittorio come insieme di riferimento indeterminato e indipenden-
negare D’: non è infatti contraddittorio affermare che te da D stesso. Ciò vuol dire che D in quanto D è indi-
qualsiasi elemento in quanto tale si pone solo se si pone il pendente dalla Totalità: non nel senso che ne sia ab-solu-
Tutto, benché affermar questo sia precisamente la nega- tus, quanto piuttosto nel senso che non gli è necessaria
zione di D’. Ciò vuol dire che, benché sia sintesi di due alla sua determinazione essenziale. Si intenda: D per esse-
proposizioni analitiche, D’, in quanto tale, non è una pro- re affermato non ha bisogno di nient’altro che di D, in
posizione analitica, ossia tale per cui la sua negazione è questo senso D è un’asserzione indeducibile e indimostrabile,
contraddittoria: tale negazione, infatti, riduce X al caso giacché, per definizione, non segue da altro che da sé.
limite in cui X è l’insieme universo. Resta da chiarire se Quindi D sembra avere tutti i requisiti per essere consi-
sia una proposizione sintetica o se non nasconda piuttosto 70 71 derato un principio, fatto salvo, certo, che non se ne mostri
una posizione essa stessa in sé contraddittoria. Ma per una la contraddittorietà, nel qual caso, andrebbe giudicato
corretta valutazione di ciò sarà necessario sviluppare e più correttamente come un presupposto arbitrario, ossia,
mostrare nella sua concretezza come debba procedere un appunto, come un dogma57.
pensiero rigorosamente fondato su D stesso: se D fosse
contraddittorio, infatti, tale contraddittorietà non
potrebbe risiedere in uno solo dei suoi componenti, che
sono proposizioni di per sé incontraddittorie, ma proprio
nel loro rapporto, sicché sarà necessario analizzar meglio
come questo rapporto venga sviluppato da un pensiero
che si fonda rigorosamente sull’assunzione di D, onde
tentare di enucleare in modo ancora più evidente la sua
natura e il suo senso. note
Prima di procedere oltre, però, si noti ancora che se ponia- 57
Intendiamo qui dogma nel senso kantiano di asserzione la cui
mo X=D e ci chiediamo quale sia la quidditas di D in accettazione non è preceduta da un’analisi volta a vagliare se
quanto D, troviamo qualcosa come «“(D=D) ½“non-d Ï tale accettazione è effettivamente in generale possibile (cfr. I.
D». Ma per ciò che dicevamo prima, non-d identifica Kant, Critica della Ragion Pura, trad. it., Laterza, Roma-Bari
qualsiasi altra posizione che non sia d1 o d2, in particola- 1977, p. 26: «Il dogmatismo è il procedimento dogmatico che
re, mentre non-di1 ha palesemente la forma della contrad- segue la ragion pura, senza una critica preliminare del suo pro-
dizione «D¹D», non-d2 asserisce invece «“non-d Î D» e se prio potere»).
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2. Parlare di ciò che vi è Sembra significativo che la fisica odierna venga impie-
gando le sue forze sia nell’individuazione degli elementi
All’inizio, osservavamo che in queste note l’espressione assolutamente primi e alla catalogazione delle cosiddette
“ontologia analitica” non designa tanto una corrente filo- “particelle elementari”, sia pure nel tentativo di identifi-
sofica storicamente collocabile, quanto piuttosto un orien- care una “teoria del tutto” capace di dare ragione e sintetiz-
tamento di fondo basato sull’accettazione di D, ossia, in zare i due grandi quadri concettuali, per molti versi
sostanza, sulla persuasione che ciò che si va di volta in incompatibili, della relatività einsteniana e della mecca-
volta considerando abbia una natura discreta, trattandosi nica quantistica58. In merito a ciò, prescindiamo pure dal
cioè di elementi per sé separabili e analizzabili in quanto sollevare la naturale obiezione che si potrebbe muovere
tali indipendentemente gli uni dagli altri. Ma se tentassi- all’espressione “teoria del tutto” impiegata per una teoria
mo ora di spingerci ancora oltre, potremmo azzardare fisica, essendo la fisica la matematizzazione della realtà e
l’ipotesi che una simile “ontologia analitica” non sia stata non essendo di per sé evidente, a dispetto di quanto
ancora del tutto formulata, o, meglio, che non sia ancora l’odierno parlare quotidiano vorrebbe far intendere, che la
giunta a trarre le estreme conseguenze dall’assunzione di realtà sia riducibile a quantità numericamente e matema-
D e dalla sua applicazione a ogni elemento considerato. ticamente rappresentabile, sicché il “tutto” qui considera-
D implica che ogni X sia in sé ontologicamente autosufficien- to risulterebbe in definitiva solo una parte, ossia la parte
te. In termini più comuni: implica che la realtà sia discre- 72 73 matematicamente quantificabile del reale. Ciò che preme
ta e formata dall’insieme di componenti atomiche associa- piuttosto di rilevare è che è proprio in quanto la realtà
te tra loro ma in se stesse inscomponibili. La rappresenta- stessa è pensata come l’unione di elementi primi, siano
zione insiemistica che già abbiamo iniziato a introdurre quelli che siano, con le forze che li tengono insieme, siano
non è casuale ma risponde all’intima intenzione di D stes- quelle che siano, che si pone il problema di indagar
so: se guardiamo il mondo attraverso l’assunzione di que- meglio quale sia la natura di questa unità. Il problema,
sto dogma, allora le cose non possono che apparire un’ete- anzi, è forse ancora più radicale: non quale sia l’unità ma,
rogeneità più o meno sterminata di elementi che hanno in più in generale, perché vi sia un’unità: agli occhi del fisico
comune solo l’appartenere al medesimo insieme di realtà, e non solo, infatti, l’universo è un delicato equilibrio di
o, forse meglio, al medesimo orizzonte. Questi elementi casualità e costanza, tanto che è legittimo chiedersi donde
hanno dunque sì qualcosa in comune, ma non in quanto ne venga questo equilibrio, che di per sé non si mostra
tali, ma solo perché compresi nel medesimo insieme: affatto come inscritto e consustanziale alle cose stesse.
l’unità del Tutto è proprietà del Tutto in sé, e non delle Con ciò, non solo si potrebbe dire che la stessa scienza
singole parti, giacché è proprio in virtù di D che ogni fisica, nella misura in cui fonda la sua impostazione di
parte in quanto tale è posta come ontologicamente indi- ricerca su D, presuppone qualcosa come un’ontologia ana-
pendente da tutto il resto. Le stesse relazioni che gli ele- litica, ma si potrebbe anche giungere a rilevare come l’au-
menti intrattengono tra loro, sono passibili di essere con-
siderate, alla luce di D, come quidditates in quanto tali e note
quindi a loro volta isolabili e scindibili in sé dal resto e 58
Per un quadro generale sulla questione rimandiamo a J.D.
dai termini che mettono in relazione. Barrow, Teorie del tutto, trad. it., Adelphi, Milano 1992.
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tentico problema di ogni ontologia analitica sia quello nenza reciproca di tutte le cose, quale sarebbe appunto il
dell’unità. Certo, Kant osserverebbe che l’unità è frutto significato di unità inteso in senso forte: le cose stanno
dell’azione trascendentale dell’Io penso e riguarda la rap- insieme non perché l’esser-insieme appartenga loro come
presentazione fenomenica che noi abbiamo del mondo, proprietà essenziale del loro essere, ma, al contrario, perché
non già le cose in sé. Ma in questo modo Kant stesso non tale legame si aggiunge come proprietà intrinseca dell’in-
sta facendo altro che riconoscere il problema dell’unità sieme in cui sono raccolte e quindi estrinseca alle cose stes-
proprio così come lo pone D e offrirne una soluzione nei se considerate in quanto tali nella loro quidditas. Parimenti,
termini della filosofia trascendentale: se assumiamo che il il tener-insieme, che costituisce la quidditas dell’insieme
dato sensibile con cui abbiamo originariamente a che fare che le raccoglie, non è di per sé connesso con la quidditas
sia assolutamente eterogeneo, ossia composto di una mol- delle cose raccolte, ma si dà, in se stesso, a prescindere da
teplicità di percezioni ciascuna separata dalle altre, allora ogni contenuto, ossia in modo puramente astratto.
l’unità che pure constatiamo dovrà essere originata dalla È degno di nota sottolineare qui che anche la stessa rifles-
spontaneità dell’intelletto, il che vale a dire che si aggiun- sione logico-matematica, nel momento in cui formula e
ge appunto estrinsecamente e come un di più rispetto al concepisce l’idea di un insieme di elementi definiti dal-
dato originariamente afferente ai sensi59. Ma appunto, l’avere una proprietà in comune, sta in realtà presuppo-
questa conclusione si fonda già sull’assunzione e sulla pre- nendo D, nel senso che pensa che questi elementi possano
supposizione di qualcosa come un “dato eterogeneo” 74 75 darsi in sé separatamente e indipendentemente gli uni
identificabile come cosa in sé, la cui essenza è data a pre- dagli altri, cioè pensa che l’unica cosa che abbiano in
scindere da ogni relazione esterna e quindi anche da quel- comune, ossia l’unica unità di cui partecipano, sia quella
la particolare relazione in cui consiste il nostro conoscere: estrinseca dell’appartenenza all’insieme stesso:
e un simile pensiero non sarebbe possibile se non come
interpretazione di un certo essente alla luce di D. una «classe» è un insieme di elementi omogenei: l’insieme
Del resto, se assumiamo D in tutta la sua radicalità, allora degli elementi che godono di una certa unica proprietà.
il problema dell’unità sopra menzionato non è più un pro- Ciò che con tale omogeneità si presuppone è che da un lato,
blema ma è già risolto nella semplice ammissione che è in una proprietà sia condizione necessaria e sufficiente per
generale impossibile che una tale unità si dia: se unità c’è, determinare una classe, e, dall’altro, che in una classe
allora, per D, questa in quanto tale è indipendente al pari l’unico nesso necessario sia quello che intercorre tra gli
di tutti gli altri elementi ed è quindi essa stessa una parte elementi che godono di una certa proprietà e questa pro-
in sé separabile del Tutto. Ciò significa: la connessione che prietà. In tale presupposto, la classe si costituisce quindi
lega insieme ciò che appartiene al Tutto è una connessione come qualcosa di isolato: appunto perché si ritiene che per
estrinseca e, quale ne sia di volta in volta la causa, non il costituirsi della classe non debba intervenire nient’altro
implica affatto il darsi di un’originaria unità e coapparte- che la sua intensione e la sua estensione60.

note note
59 60
Cfr. I. Kant, Critica della Ragion Pura, trad. it., cit., pp. 109- E. Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981,
130. p. 65.
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Quando dunque prima si diceva che per D un certo X è sporre nulla, né è pensabile in essa alcun movimento
se stesso unicamente in virtù di sé e non dipende da nes- interno che sia impresso, diretto, accresciuto o diminuito.
sun non-X, questa osservazione sembrava banale dal [...] Le monadi non hanno finestre, attraverso le quali
punto di vista del pensiero matematico della teoria degli qualcosa possa entrare o uscire. [...] Da quanto abbiamo
insiemi proprio perché tale pensiero presuppone esso stes- detto fin qui risulta che i mutamenti naturali delle mona-
so D e quindi si fonda sull’assunzione a priori di tale bana- di dipendono da un principio interno, dato che nessuna
lità. Ma l’essenza di questa prospettiva sta proprio nel pen- causa esterna potrebbe influire sul loro interno61.
sare a priori la reciproca estraneità delle cose tra loro, per
cui ciascuna in quanto tale non dipende dalle altre, ossia Ora, tornando a quanto stavamo notando, si vede bene che
è isolabile. E il pensiero che ogni essente sia isolabile da uno dei principali problemi che impone l’accettazione di D
ogni altro non è affatto banale: è tanto poco banale che è riguardi proprio lo statuto ontologico del linguaggio e la
lecito chiederne ragione e, come stiamo cercando di fare, possibilità stessa di una qualsiasi onto-logia, investendo la
discuterne la fondatezza. possibilità per il logos di volgersi al to on. È infatti intuitivo
Per fare un esempio piuttosto significativo di questo “pen- che il linguaggio serva in qualche modo a “parlare della
siero isolante”, vale forse la pena di ricordare la teoria realtà” e, in virtù di questo, abbia anche la possibilità di
dell’Armonia prestabilita sviluppata da Leibniz, la quale “inventare” realtà fittizie. Tuttavia questo è a sua volta pos-
presuppone appunto che l’unità, ossia la “coordinazione” 76 77 sibile solo sul fondamento di una connessione essenziale tra
tra le monadi, vale a dire tra gli elementi assolutamente linguaggio e realtà, connessione che, alla luce di D, non è
semplici e inscomponibili di cui è composta la realtà, non concepibile come necessaria o data dalla natura stessa del
sia intrinseca alle monadi stesse, ma abbia la sua ragion dire62. Non a caso, è già di Aristotele la tesi per cui il lin-
sufficiente in Dio. L’affermazione che, almeno prospettica- guaggio, nel suo “parlare della realtà”, poggia essenzial-
mente, “tutto è in tutto”, viene qui sfruttata, infatti, per mente su un accordo convenzionale tra chi parla, in virtù del
inferire l’assoluta autosufficienza della monade stessa, la quale a certi segni e a certi suoni corrispondono certe cose:
quale, proprio in quanto unica e singolare, ha già in sé la
rappresentazione di tutto l’esistente e quindi non ha bisogno i suoni della voce sono simboli delle affezioni che hanno
d’altro. E, visto che solo Dio ha conoscenza adeguata del- luogo nell’anima, e le lettere scritte sono simboli dei
l’universo, da qui segue pure il problema di come, entità suoni della voce. Allo stesso modo poi che le lettere non
chiuse e autosufficienti, possano agire come se fossero in rap- sono le medesime per tutti, così neppure i suoni sono i
porto tra loro. Ma proprio perché l’Armonia prestabilita, medesimi; tuttavia, suoni e lettere risultano segni, anzi-
intende spiegare questo “come se”, presuppone, ontologica-
mente parlando, l’indipendenza e la reciproca estraneità di note
ogni monade ad ogni altra. In definitiva, per Leibniz, 61
G. W. Leibniz, Monadologia¸ trad. it., Bompiani, Milano
2001, pp. 61-63.
non c’è modo di spiegare come una monade possa essere 62
La tesi della naturalità del linguaggio è quella che Platone fa
alterata o mutata nel suo interno per opera di qualche argomentare ad Ermogene nel Cratilo, cfr. Platone, Tutti gli
altra creatura. Nella monade, infatti, non si potrebbe tra- scritti, ed. it., Bompiani, Milano 2000, pp. 131-190.
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tutto, delle affezioni dell’anima, che sono le medesime Una parola è un termine linguistico solo in quanto è un
per tutti e costituiscono le immagini di oggetti, già iden- termine significante: una parola senza significato non è
tiche per tutti. [...] Il nome è così suono della voce, signi- una parola, ma una cosa tra altre. E per contro, qualsiasi
ficativo per convenzione, il quale prescinde dal tempo ed cosa, qualora venga dotata di significato, ossia implicata
in cui nessuna parte è significativa, se considerata separa- in una certa relazione significante, diventa a suo modo la
tamente. [...] Per convenzione, in quanto nessun nome è parola di un linguaggio. Tutto ciò comporta anche che al
tale per natura. Si ha un nome, piuttosto, quanto un variare della tipologia di relazione significante vari anche
suono della voce diventa simbolo63. il linguaggio stesso e le sue potenzialità. Ad esempio, il
linguaggio gestuale è piuttosto efficace a comunicare
Prima di discutere però la natura di tale convenzione, messaggi immediati e diretti, assai meno ad articolare
occorre iniziare a notare che il linguaggio, in quanto tale, discorsi concettualmente complessi. Oppure l’imposta-
proprio in virtù di D, non può essere inteso, come per lo zione di fondo del linguaggio musicale, inteso proprio
più accade, come un insieme di termini e regole sintatti- nella sua struttura semantica e nella sua notazione, fun-
che. Così come l’insieme dei numeri naturali, in quanto ziona in modo egregio per significare in fin dei conti solo
tale, non era l’elenco dei numeri naturali, così pure, il lin- un ristretto numero di suoni fondamentali, che ad esem-
guaggio, in quanto tale, non è l’unione di un dizionario e pio nel sistema temperato occidentale sono ridotti a dodi-
di una grammatica, ma, semmai, è ciò che fonda o per lo 78 79 ci, cioè assai meno di quelli in generale possibili.
meno al quale si riconducono ogni dizionario e ogni Ora, se traiamo le debite conseguenze da tutto ciò, pos-
grammatica. siamo giungere all’affermazione radicale per cui, da un
Ciò che fa di un certo segno tracciato sulla carta o di un punto di vista linguistico, concetti come “esistenza” e
certo suono proferito una parola, ossia ciò che rende paro- “verità”, impalcature portanti della filosofia prima, diven-
la la parola, è il suo significato. Nel caso più semplice, sap- tano secondari se non del tutto superflui.
piamo per abitudine che ad un certo segno o a un certo Già Carnap osservava che «forse, la maggior parte degli
suono dobbiamo associare un certa altra cosa e nel com- errori logici commessi nelle pseudoproposizioni [ossia
piere questa associazione possiamo dire di aver “compre- nelle proposizioni metafisiche] derivano dai difetti logici
so il significato” della parola che abbiamo letta o ascolta- che ineriscono all’uso della parola “essere” nella nostra
ta. Significato, dunque, è una relazione che lega un certo lingua»64. Da qui l’osservazione che la parola “essere”
insieme di elementi, i significanti ovvero le parole, a un usata in senso predicativo e non copulativo è priva di
certo altro insieme, ossia tutto ciò che viene significato. Il senso, quindi non appartiene a nessun discorso, meno che
linguaggio in quanto linguaggio è nient’altro che il mai a quello ontologico. Resta il problema della copula “è”
significato stesso, ossia la relazione che connette questi e dell’espressione “esiste” riferita ad un qualche oggetto.
due insiemi e che permette di passare dall’uno all’altro.
note
note 64
R. Carnap, Il superamento della Metafisica mediante l’analisi
63
Aristotele, De interpretatione, 16a, trad. it., in Id., Organon, logica del linguaggio, trad. it., in Il Neoempirismo, a cura di
Adelphi, Milano 2003, pp. 57-58. A. Pasquinelli, Utet, Torino 1969, p. 522.
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In proposito, Quine, rifacendosi a Russell65, asserisce che appartenenza di un elemento al suo insieme, è l’elemento
«essere assunto come entità equivale, puramente e sem- che bisogna studiare, non il suo esistere, giacché è dall’ele-
plicemente, ad essere incluso tra i valori di una variabile. mento che dipende l’esistere o meno in un certo dominio
Nei termini delle categorie della grammatica tradiziona- e non viceversa: non è dall’Essere che dipende la cosa ma
le, ciò equivale approssimativamente a dire che essere è è l’essere che dipende dalla cosa che è, giacché solo in base
essere nel campo di riferimento di un pronome»66. Se alla sua quidditas questa è come è, ossia appartiene al
facessimo un passo oltre su questa via, potremmo giunge- dominio a cui appartiene. Parlare di ciò che vi è non
re a dire che “è” o “esiste” sono forme più ambigue per richiede quindi di parlare dell’essere di ciò che vi è, ma
“appartiene” cioè “Î”, ossia per indicare l’operatore che in può volgersi direttamente alle cose: i problemi relativi
teoria degli insiemi serve per indicare l’attribuzione di un all’essere in quanto essere sono falsi problemi, giacché, in
certo elemento a un certo insieme. Ciò rende possibile definitiva, l’essere in quanto essere non è affatto un concetto pro-
affermare che una medesima entità può essere e non esse- blematico.
re rispetto a diversi domini di esistenza, come ad esempio Conseguenza notevole di ciò sta nell’eliminazione «del
nel caso dei personaggi letterari o di oggetti simili, i vecchio enigma platonico del non essere. Il non essere
quali esistono nel “loro mondo” ma non “nel nostro”. E si deve, in un certo senso, essere, altrimenti cosa sarebbe ciò
noti che ciò resta inalterato qualsiasi paradigma esplicati- che non c’è?»67. Non solo, qualcosa come un nihil absolu-
vo si assuma per indicare la “realtà”, giacché la riduzione 80 81 tum diventa un concetto inconsistente, giacché l’essere è
dell’esistenza all’appartenenza relativizza l’esistenza stes- assunto come la semplice appartenenza e questa è sempre
sa, tanto che viene meno l’idea di un riferimento assoluto e solo un concetto relativo tra un certo elemento e un
rispetto al quale valutare “la realtà” di ciò che si dice. certo insieme. Quindi diventa inconsistente la stessa idea
Inoltre, un personaggio letterario, ad esempio, è tale solo parmenidea o neoparmenidea di un’opposizione radicale
in quanto esiste unicamente all’interno di una certa fin- tra essere e nulla: tale opposizione non viene negata, ma
zione letteraria: non ha senso chiedere se un personaggio perde proprio di significato in quanto perde la sua assolu-
letterario “esiste nella realtà”, giacché, se così fosse, non tezza, giacché la differenza tra l’appartenenza o la non
sarebbe più un personaggio letterario. In questo caso, la appartenenza ad un insieme è sempre e solo un concetto
letteratura è il dominio di esistenza del personaggio e relativo. All’interno del pensiero che riduce l’essere all’ap-
l’esistenza del personaggio è nient’altro che il suo appar- partenere diventa cioè impensabile l’opposizione tra l’es-
tenere a tale dominio, il suo trovarsi elemento di esso. sere e la sua negazione giacché l’opposizione tra apparte-
Ma questo rende allora del tutto superflua un’analisi del- nenza e non appartenenza ad un certo dominio, cui essa
l’esistenza in quanto tale: essendo ridotta alla semplice viene ridotta, non pensa l’opposizione tra contraddittori
ma tra contrari, ossia pensa un genere comune, l’apparte-
note nere appunto, che soggiace alla contrarietà stessa, sicché
65
Cfr. B. Russell, La filosofia dell’atomismo logico, trad. it., all’interno di detto pensiero è impossibile l’emergere della
Einaudi, Torino 2003.
66
W.V.O. Quine, Che cosa c’è, in Id., Da un punto di vista logico, note
cit., p. 26. 67
W.V.O. Quine, Che cosa c’è, cit., p. 14.
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radicale e assoluta alterità tra i termini che contrappone68. abbastanza chiaramente che la pregnanza del concetto di
Su una simile direttiva, volta a sgombrare il campo dai “vero” e quindi la legittimità del suo uso sta nel fatto che
“falsi problemi”, si è proseguito anche in merito alla que- è possibile che un enunciato non raffiguri la realtà ma addi-
stione della verità, grazie all’apporto dalle cosiddette teo- rittura la inventi. L’analisi della verità servirebbe allora,
rie deflazionistiche69: mediante il confronto con la realtà, ossia la verifica, a sta-
bilire se ciò di cui questo parla è qualcosa di reale o meno.
tutto ciò che può essere detto adoperando la parola «vero» può A prescindere però dai problemi che solleva stabilire quale
essere detto altrettanto bene senza di essa – non, si badi bene, sia effettivamente il criterio di verifica, o in che modo e in
perché sia possibile analizzare la verità nei termini di che senso un enunciato possa essere verificato, va però rile-
qualche altra proprietà e dunque sostituire tutte le occor- vato che il problema si configura essenzialmente come un
renze della parola «vero» con occorrenze appropriate delle problema di ambiguità: occorre verificare un enunciato
parole che compaiono nell’analisi così prodotta, bensì per- perché non è immediatamente evidente non tanto di cosa
ché la parola «vero» è semanticamente superflua, cioè suscet- parla ma dove colloca ciò di cui parla, ossia, non è evidente
tibile di essere eliminata dagli enunciati in cui compare il dominio a cui appartiene ciò di cui l’enunciato asserisce
lasciando invariato il significato degli stessi e, con esso, alcunché. Se il dominio è esplicitato allora è sempre possi-
ciò che è possibile dire utilizzando le loro repliche70. bile stilare un elenco degli elementi che appartengono a
82 83 questo insieme: nel caso in cui ciò di cui l’enunciato parla
Sulla scia dei Aristotele71, il vero è stato inteso infatti come non appartenga a tale dominio allora l’enunciato stesso
la capacità di un enunciato di “dire come stanno le cose” non sarebbe falso ma, rispetto a quel dato dominio, pro-
nella realtà. In questo senso viene ripresa la posizione ari- prio insignificante. Nell’ambito di questo schema, dire che
stotelica da Wittgestein nel suo Tractatus: «nella concor- l’enunciato è vero quando asserisce che, un certo elemento
danza o non-concordanza del senso dell’immagine con la appartenente a un certo domino, appartiene effettivamen-
realtà consiste la verità o falsità dell’immagine»72. Emerge te a quel dominio, è palesemente ridondante: se l’enuncia-
to è significante, ossia relaziona un certo numero di termi-
note ni linguistici con certi elementi di un certo insieme, allo-
68
Alla luce di quanto verrà chiarito in Il solido cuore della verità, ra dire che l’enunciato è vero non aggiunge di fatto nulla di
cap.1, si potrebbe dire che anche questo si configuri quindi in più, esattamente come, una volta posto che “esiste” signi-
ultimo come un modo per negare l’opposizione tra Essere e fica “appartiene”, dire che ciò di cui si asserisce l’apparte-
nulla, non direttamente ma implicitamente, rendendo impossi- nere ad un dato dominio pure “esiste” non modifica il senso
bile l’emergere dell’opposizione stessa e lasciandola quindi
come un inconscio del pensiero.
di ciò che si sta dicendo.
69
Per un quadro generale cfr. in merito G. Volpe, Teorie della Da qui, per altro, l’utilità di poter catalogare i singoli ele-
verità, Guerini, Milano 2005, pp. 255-322. menti dei singoli insiemi, ossia, come si usa dire, fare l’in-
70
Ivi, p. 259.
71
I luoghi classici si trovano in Aristotele, Metafisica, 1027b note
17-1028a; 1051b-1052a, trad. it., Bompiani, Milano 2000, pp. 72
L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, prop. 2.222,
281-283; 427-431. trad. it., Einaudi, Torino 19955, p. 32.
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ventario di ciò che esiste, compito di cui appunto l’ontolo- to “il mio gatto insegue per casa un cavallo alato”, è signi-
gia analitica intende farsi carico73. E si noti: non è neces- ficante se il suo dominio di esistenza è quello dell’imma-
sario che l’insieme catalogato sia finito. Se infatti è infini- ginazione, dominio che prevede non solo tutti i possibili
to, tale infinitudine o è in qualche modo prevedibile, come elementi di quella che chiamiamo “realtà”, ma anche
accade negli insiemi numerici, oppure è quella propria qualsiasi loro possibile associazione e quindi anche qual-
dell’insieme universo, ossia del Tutto, il quale, compren- cosa come un “cavallo alato”. O, meglio, giacché qualco-
dendo appunto ogni elemento possibile, è dominio di esi- sa come “cavallo alato” è possibile solo nel dominio del-
stenza di ogni elemento. Ovvero: rispetto al Tutto, tutto l’immaginazione, l’enunciato è significante nella misura
esiste e ogni enunciato è significante74. Ma giacché il in cui presuppone il riferimento a tale dominio.
Tutto comprende anche i mondi fittizi, le opere letterarie, E nella misura in cui il problema della verità e quello del-
le menzogne deliberate e le contraddizioni, asserire qual- l’esistenza vengono così resi superflui al discorso ontolo-
cosa in relazione al Tutto non ci dice se ciò che stiamo asse- gico, giacché viene attuata una riduzione semantica radicale
rendo sia una finzione, una citazione letteraria, una men- di tali concetti a quelli della significanza e dell’apparte-
zogna deliberata o una contraddizione. Infatti, il fatto che nenza, pure viene ridimensionato il problema dello scet-
un’asserzione sia in generale significante, ossia vera quan- ticismo, che non potrà più prendere di mira il possesso
do asserisce l’appartenenza del suo contenuto al Tutto, non epistemico di una verità relativa a ciò che vi è, ma, a que-
implica di per sé che tale asserzione sia vera anche in un 84 85 sto punto, potrà volgersi unicamente a contestare se, rela-
caso specifico, ossia nel quale il contenuto asserito è riferi- tivamente ad un certo enunciato, disponiamo effettiva-
to appartenere non genericamente all’insieme universo ma mente di informazioni adeguate circa il suo dominio di
ad un certo dominio particolare. esistenza e, in caso negativo, limitarsi a obiettare che allo-
Resta per guadagnato, comunque, che non è necessaria ra non se ne potrà inferire un’esistenza determinata, ossia
un’analisi di verità o qualcosa come una verifica, ma è suf- non si potrà dire a che dominio appartiene, né, quindi,
ficiente un’analisi semantica. Così, ad esempio, l’enuncia- distinguere se ciò di cui si parla appartiene alla finzione,
piuttosto che al sogno, piuttosto che alla menzogna.
note Ora, se in qualche modo una rigorizzazione dell’ontologia
73
Cfr. A. Varzi, Ontologia, cit., p. 7. analitica porta dunque a mettere in secondo piano i pro-
74
Si tenga presente che un enunciato è propriamente linguistico blemi dell’esistenza e della verità, dovrebbe pure risulta-
se e solo se esibisce ed esprime una relazione di significanza: non re sufficientemente chiaro che il problema decisivo si gio-
ci sono parole senza significato, se un ente è una parola allora è chi invece proprio intorno alla relazione di significanza e
tale perché significa qualcosa, e viceversa. Quindi un enunciato
che in una certa lingua apparirebbe insignificante, se è un enun-
a ciò che la determina. Eppure, il punto determinante
ciato, allora è significante rispetto al Tutto, giacché al Tutto deve non è tanto che tale relazione sia una relazione tra singo-
appartenere anche quel contesto linguistico entro il quale quel- la parola e singola cosa, tra proposizione e fatto, tra teoria
l’enunciato è di fatto significante. In una simile situazione, per e realtà, quanto piuttosto l’origine e lo statuto della rela-
altro, si trova chiunque approcci lo studio di una lingua stranie- zione stessa. Si diceva infatti che la relazione in quanto
ra e che inizialmente si trova davanti a enunciati che, rispetto tale, in virtù di D, non può appartenere di per sé ai ter-
alla sua lingua madre sono effettivamente insignificanti. mini che mette in relazione ma si aggiunge ad essi in
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modo estrinseco e non necessario, come già sosteneva insiemi delle cose significate e dei termini significanti,
Gorgia: «il mezzo con cui ci esprimiamo, è la parola; e la sono sì relati tra loro dal linguaggio, ma non hanno in sé
parola non è l’oggetto, ciò che è realmente; non dunque e di per sé questo legame come loro intrinseca necessità.
realtà esistente noi esprimiamo al nostro vicino, ma solo Ma da ciò segue allora che l’unico criterio valido da segui-
parola, che è altro dall’oggetto»75. È quindi per contro re nella scelta di una certa convenzione linguistica dovrà
necessario riconoscerne l’origine convenzionale della signi- essere un criterio d’ordine pragmatico capace di risponde-
ficanza stessa. Il problema autentico è così determinare di re alla domanda: cosa vogliamo dire? È infatti unicamente
che sorta dev’essere questa convenzione. Ma giacché ogni una questione di volontà accettare, se non addirittura
convenzione è frutto di un accordo intersoggettivo, non è inventare, una certa convenzione e con essa un certo siste-
difficile ammettere che siano in ultimo fatti pragmatici e ma linguistico. In tal modo, il discorso ontologico si ridu-
storico-culturali a determinare l’assunzione di un certo ce in ultimo ad una certa decisione determinata in base ai
paradigma convenzionale piuttosto che un altro, e quindi fini, teoretici o pratici, che si vogliono conseguire. Ciò va
con ciò l’istituzione di un certo linguaggio. sottolineato perché qui sta il senso di tutte queste rifles-
Sulla scorta di ciò, come osservava già Quine, sioni: un’ontologia analitica rigorosamente sviluppata si
risolve in un pensiero essenzialmente fondato sul volere.
qualsiasi correlazione interculturale di parole e di espres- Diciamo meglio: questa è la conclusione ultima a cui
sioni, e quindi di teorie, sarà solo una tra le varie correla- 86 87 giunge il discorso che pone a suo fondamento D e ne con-
zioni empiricamente ammissibili, sia che essa sia suggeri- duce alle estreme conseguenze le implicazioni. Prima di
ta dalle gradazioni storiche o dall’analogia non aiutata; esprimere un parere su queste conseguenze, è però forse
non c’è niente di cui una tale correlazione debba essere giunto il momento di terminare l’analisi di D stesso che
univocamente vera o falsa. Dicendo questo io filosofo dal prima avevamo intrapresa. In realtà, il più del lavoro è già
punto di vista del nostro schema concettuale provinciale stato fatto, ci resta solo da fare un ultimo passo. Notiamo
e della nostra epoca scientifica, è vero; ma non ne conosco infatti che, se in virtù di D, X in quanto X non dipende
uno migliore76. da non-X, è pur vero che, come appunto mostrato, non-
X costituisce il termine indeterminato di riferimento
Ora, in virtù dell’accettazione e della rigorosa applicazio- rispetto a cui si pone X in quanto X, dacché X non può
ne di D, dobbiamo asserire che non esiste alcuna necessità essere assunto in quanto tale se non proprio mediante
circa l’assunzione di una certa convenzione, giacché, gli l’esclusione da sé di non-X. Ciò significa che è necessario a
X in quanto X il darsi di questo termine. Ma poiché,
note dunque, X in quanto X si pone solo in relazione a non-X,
75
La citazione è presa dalla testimonianza di Sesto Empirico in allora X in quanto X si dà solo in funzione di non-X. Ma
Adversos mathematicos, VII 84, trad. it., in I Presocratici, a cura di se X in quanto X si dà solo in funzione di non-X, allora
G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 2004, vol. II, p. 917. X in quanto X dipende da non-X e dunque D è contrad-
76
W.V.O. Quine, trad. it, La relatività ontologia e altri saggi, dittorio, giacché di X in quanto X, che come tale dipen-
Armando, Roma 1986, p. 57. In merito vedi anche Id., Parola de da non-X, asserisce contemporaneamente che non
e oggetto, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1996. dipende da non-X. Tradotto in termini più familiari, un
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termine “ritagliato” dal suo sfondo si dà solo “in astratto”, che a un certo insieme generico, che non è più la quiddi-
cioè appunto in quanto viene ab-stractum dal contesto nel tas di X, non appartengono gli elementi che non appar-
quale tuttavia è originariamente: nessun termine isolato tengono a quell’insieme. Ma anche in questo caso, allora,
può darsi se non si dà contemporaneamente tutto l’inte- D è la congiunzione di una proposizione vera e di una
ro, o, meglio, nessun termine può darsi isolatamente dal- falsa, ossia risulta falso. Visto però che D risulta falso in
l’intero a cui appartiene, giacché senza il darsi di quell’in- tutti i casi possibili, si può inferire che D stesso sia logi-
tero nemmeno si può pensare di tagliarne via il termine camente contraddittorio.
considerato in quanto tale, come presunta cosa in sé. Ma se emerge allora la contraddittorietà di D, il quale
Ovvero: X significa qualcosa non perché viene isolato da pretende appunto di isolare la parte dal tutto e porla per
non-X ma, al contrario, proprio perché lo implica come sé, allora infondato sarà anche tutto quanto abbiamo pro-
parte restante della totalità a cui X ne-cessariamente appar- posto cercando di sviluppare un discorso rigorosamente
tiene. determinato dall’assunzione di D come fondamento. Se
però D è contraddittorio, allora non-D sarà non-contrad-
Del significato x non si dice semplicemente che non è dittorio, talché sarà possibile e del tutto legittimo rifon-
questo o quest’altro non-x, ma che non è la totalità del dare un discorso ontologico sull’assunzione di non-D, così
non-x. L’analisi di ogni significato è pertanto manifestazio- formulabile: «Qualsiasi X in quanto X dipende da non-
ne della totalità. Infatti ogni significato e la totalità del suo 88 89 X». Ciò impone di certo una ridefinizione semantica dei
altro si dividono l’intero. D’altra parte, in ogni significa- termini impiegati e soprattutto della relazione di dipen-
to varia l’orizzonte tolto; o se l’analisi di ogni significato denza78, nonostante questo, però, è già qui possibile vede-
ha come esito unico la totalità, in ogni analisi differisce re che, se dall’accettazione di D seguiva un’ontologia ana-
l’orizzonte di ciò che è posto come tolto dal significato litica che si risolveva in un’ontologia ultimamente deter-
considerato. [...] In questo senso va accettato il principio minata dalla volontà, allora dall’accettazione di non-D
di Anassagora «Tutto è in tutto»77. segue quell’”ontologia fondamentale” a cui in apertura si
accennava e che, come è facile vedere, si configura a pieno
Se un termine si dà solo in relazione al Tutto ciò signifi- titolo come ontologia ultimamente determinata dal senso
ca che, posto d1, segue che d2 è falso, cioè posto che si della necessità. Ne-cessario è infatti tutto ciò che non può
voglia considerare un termine, non si può considerare essere sciolto, ab-solutus, e non-D afferma proprio che ogni
questo termine come astratto dalla totalità. Ma giacché D ente considerabile è in quanto tale giacché dipende onto-
è congiunzione di d1 e d2, ne segue che, ogniqualvolta si logicamente dal tutto il resto dell’intero. E poiché non-X
consideri un termine in quanto tale alla luce di D, ossia si è l’intero meno X, allora l’unione di X e non-X è l’intero
accetti d1 come vero, allora D è falso. Se, d’altro canto, si stesso, sicché non-D è precisamente ciò che afferma la
nega la validità di d1, ossia non si considera più X in
quanto X, allora resta vero quanto affermato da d2, ossia note
78
Circa tale ridefinizione della relazione di dipendenza come
note inclusione dell’altro all’interno del legame di identità, si veda
77
E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 408. Il solido cuore della verità, cap. 2.
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necessità per cui si dà qualcosa, qualsiasi X, solo in quan- bili e ricomponibili in modi diversi. E questa sorta di “ato-
to si dà insieme al Tutto, ossia, in quanto si dà il Tutto. mismo ontologico” non sarebbe neppure concepibile senza
Alcuni modelli sviluppati dalla logica contemporanea, un’assunzione esplicita di D. Orbene, vale la pena richia-
riprendendo un’intuizione già leibniziana, si fondano sul mare queste considerazioni perché, una volta che venga
concetto di “mondo possibile”, ossia stati controfattuali meno D, ogni ente del mondo non è più scomponibile in
del mondo, alternativi a quelli attuali79. Ora, è facile vede- una parte “sostanziale” e in una “accidentale”, ossia ogni
re che se e solo se ogni ente del mondo è pensato come un in relazione che intrattiene con ogni altro ente appartiene alla
sé chiuso e indipendente dagli altri, è allora anche possibile sua quidditas, tutto è determinante per identificarne l’iden-
pensare mondi alternativi a questo, dove cioè il variare di tità. Ciò vuol dire che il variare di una qualsiasi di tali
alcuni enti non implichi perciostesso il variare di tutti gli relazioni, implica il variare dell’identità stessa dell’ente in
altri, e sia quindi possibile, al limite, considerare un questione: niente di ciò che appartiene al Tutto è così
mondo controfattuale del tutto uguale al nostro fuorché in distante da non essere rilevante per il costituirsi dell’iden-
almeno un elemento. Tuttavia, questa possibilità presuppo- tità di ogni essente. Ma ciò implica, dunque, che è impos-
ne che le cose che sono, siano appunto quello che sono in sibile identificare i medesimi enti in mondi controfattua-
virtù di se stesse, e non di altro, sicché il variare dell’altro li, giacché, per il fatto stesso di appartenere ad un mondo
non modifica la loro quidditas80, risultando così componi- diverso, mondo cioè dove varia almeno un elemento qual-
90 91 siasi, nessun ente potrà essere ancora lo stesso, ma, al più,
note potrà essere simile, cioè diverso, essendo la similitudine una
79 forma della differenza, posto e ricordato che la valutazione
Per un interessante confronto con quanto qui esposto si tenga
presente S. Kripke, Nome e necessità, trad. it., Boringhieri, Tori- modale di un certo elemento presuppone necessariamente
no 1999. che il soggetto di detta valutazione resti effettivamente lo
80
Che sin qui si sia rappresentata tale quidditas come insieme stesso in tutti i mondi considerati.
di proprietà essenziali necessarie e sufficienti a identificare X in In altri termini, finisce per risultare contraddittorio il con-
quanto X non è del resto un fattore determinante per quanto si cetto stesso di “identità attraverso i mondi possibili”81:
sta ora osservando. Tale quidditas può essere rappresentata come
meglio si crede, a patto che resti una quidditas, ossia ciò che note
(come che sia) identifica univocamente X in quanto X. Resta tas sarà da intendere l’insieme infinito di tutte le relazioni che
infatti fermo il fatto fondamentale emergente dalla confutazio- X intrattiene con tutto ciò che appartiene alla totalità, ivi com-
ne di D: qualcosa può essere identificato in quanto tale (se ne prese, ovviamente, anche tutte le relazioni indirette e negative,
può cioè enunciare una quidditas) se e solo se è posto in relazio- come il differire, il mancare, etc. Come si vedrà subito, X è pro-
ne alla totalità cui appartiene, ossia solo in dipendenza da detta prio X non solo per ciò che è hic et nunc, né per ciò che è in rela-
totalità. Anzi, una volta che venga posta al centro la dipenden- zione a ogni tempo, ma è ciò che è anche in virtù di ciò con cui
za necessaria tra la totalità e l’esser-sé di X, diventa palesemen- sta, di ciò da cui si differenzia in un certo momento, etc.: para-
te inadeguato pensare la quidditas di X come un insieme finito frasando il principio degli indiscernibili si potrebbe cioè dire
di proprietà (cioè di particolari in sé a loro volta indipendenti): che X non è X se anche solo in una remota circostanza differis-
tale impostazione era la più coerente con l’”atomismo ontologi- se anche solo per via indiretta e mediata (ad es. per il differire
co” portato dall’assunzione di D, ma rifiutato questo, la quiddi- di qualcosa che sta intorno a X) da come X di fatto è.
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poiché i mondi possibili presuppongono che gli enti siano tendendo che l’ente considerato risulti effettivamente lo
tra loro ontologicamente indipendenti, ossia essenti in sé, stesso: ogni astrazione identificherà infatti un nuovo ente
e poiché, d’altro canto, l’identità per cui un ente è se stes- per il quale varranno di nuovo le medesime condizioni.
so si fonda sul suo essere invece dipendente dalla totalità a Ad esempio, se può risultare troppo difficile considerare
cui appartiene, ne segue che tale identità non si conserva questo tavolo sul quale ora scrivo, diciamolo T, che è pro-
se viene variata la totalità cui l’ente appartiene. Questo prio questo non solo per le sue proprietà fisiche, ma anche
tavolo che ho qui davanti è proprio questo qui solo in quan- per il suo essere nella mia stanza, per il mio usarlo come
to è qui davanti, il tavolo che potrebbe essere altrove è un scrivania, per il fatto che fuori meriggia e che nell’altra
altro tavolo che, di fatto, è proprio questo altro in quanto stanza il mio gatto dorme sulla poltrona, e via di seguito
potrebbe essere altrove da qui: questo-tavolo-qui e questo-altro- all’infinito, allora si potrebbe proporre: assumiamo di
tavolo che potrebbe essere altrove, sono quindi due enti considerare questo tavolo solo in relazione alle sue proprie-
essenzialmente diversi, o, per dirla altrimenti, in queste tà fisiche, e diciamolo T’. Questa astrazione, però, non solo
considerazioni la parola “tavolo” non può essere intesa non identificherà più lo stesso tavolo, ma identificherà un
come un designatore rigido ossia tale da indicare univoca- ente che sarà questo T’ di cui ora si parla, solo in relazione
mente lo stesso ente attraverso diversi mondi possibili82. all’astrazione stessa che lo pone, cioè tenendo conto di T
Se è vero che «cominciamo con gli oggetti, che abbiamo e dal quale viene astratto, ché altrimenti non avrebbe senso
possiamo identificare nel mondo reale. Possiamo chiederci 92 93 il parlare di T’ invece che di T, essendo e restando l’astra-
poi se certe cose avrebbero potuto essere vere degli ogget- zione stessa una forma di relazione alla totalità. Ma T’,
ti»83, ebbene, allora è facile vedere come tutto si giochi sul rispetto a T ha sì proprietà differenti ma non per questo
modo in cui «identifichiamo gli oggetti», ossia ne pensia- ne ha meno: l’astrazione da cui nasce trasforma infatti le
mo l’identità, il loro esser-sé. D è precisamente un modo proprietà concrete e positive prima elencate in T come
di intendere l’identità, modo che si sta mostrando però proprietà negative, ossia T’ non è T’ in virtù del suo esse-
essere contraddittorio, dunque impraticabile. re il mio tavolo o del meriggio o del gatto che dorme. Ma
Il rifiuto di D, ossia l’assunzione della sua negazione, questo specifico “non-essere” identifica essenzialmente T’
implica cioè che non vi sia più un elemento ultimo che come T’, esattamente come la sua forma concreta positiva
sancisca un numero finito di proprietà necessarie e suffi- identificava T in quanto T. Ontologicamente, quindi, T’
cienti a identificare univocamente un ente: ogni ente è ciò considerato solo ed esclusivamente in virtù di proprietà
che è, ovvero è assumibile in quanto tale, in virtù di tutte fisiche non solo è tutt’altro da T, ma è anche un diverso
le relazioni possibili che esistono nel mondo cui l’ente ente e come tale non implica una minor complessità di T,
stesso appartiene, sicché non solo non è legittimo, ma è giacché tale complessità non è relativa all’esser-questo
proprio impossibile fare astrazione da certe relazioni pre- certo ente, ma all’esser-ente come tale.
La negazione di D impone cioè di considerare l’identità
note come un che di aperto e non di chiuso, un che di infinito
81
Cfr. S. Kripke, Nome e necessità, cit., pp. 49 e seguenti. e non di finito, per cui, anzi, qualcosa è davvero se stesso
82
Cfr. ivi, p. 50. solo quando è posta la Totalità a cui appartiene e non solo
83
Ivi, p. 54. l’insieme finito degli elementi a cui, in un certo contesto,
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quel qualcosa è immediatamente connesso. Identità aper- però, è già sufficiente questo accenno, per arrivare a dire
ta significa: all’esser-sé di un certo ente nulla è estraneo di che ontologia fondamentale non sia il discorso che qualcuno
ciò che appartiene al Tutto, tutto determina l’identità di vuole fare intorno alle cose che sono, quanto piuttosto il
quel certo essente. Ogni ente è dunque ciò che è in quan- logos stesso dell’Essere che prende la parola. La comprensio-
to presuppone la totalità a cui appartiene, e il nesso di tale ne di questo logos è precisamente la sfida che pone una
presupposizione è necessario, vale a dire che non si dà nes- simile prospettiva, sfida non già volta a ciò che si vuole
sun caso in cui il darsi dell’ente in questione non sia già dire, quanto piuttosto a ciò che si riesce o si sa udire.
di per sé il darsi di tale ente in relazione alla sua totalità. Tanto che si potrebbe allora giungere ad affermare del
In tal senso, mentre la necessità pensata nei termini della filosofo ciò che si tramanda dei Pitagorici: «che erano
logica modale fondata sui mondi possibili, è relativa silenziosi e abituati ad ascoltare: e che lode riceveva da
all’estensionalità su tutti i mondi e quindi fondata sulla loro chi sapeva ascoltare»85.
fondamentale negazione di ogni necessità tra l’esser-sé
dell’elemento considerato e il mondo-totalità a cui appar-
tiene, ebbene, agli antipodi di tale posizione si viene ora
affermando qualcosa che ha a che fare con la reciproca
intraducibilità e incommensurabilità di un mondo rispet-
to l’altro, pur ammesso che la nozione di “mondo possibi- 94 95
le” sia ancora sensata: se qualcosa avesse potuto essere
diverso, allora non sarebbe più quel qualcosa che avrebbe
potuto essere diverso, ma sarebbe già qualcos’altro.
Questa è ben più che una posizione “determinista”, giac-
ché non si limita a dire banalmente che “le cose non
potrebbero andare diversamente”, ma riguarda il senso
stesso dell’esser-cosa: le cose non potrebbero essere diverse
da ciò che sono, giacché, ciò che è, è necessariamente il suo
esser ciò che è, ed “esser-ciò-che-è” ha essenzialmente a
che fare con l’identità della cosa in quanto tale, ossia con
il suo essere la totalità infinita delle relazioni che la inscri-
vono in quel Tutto che essa necessariamente presuppone. note
Con ciò si tocca non già un risultato ma il punto di par-
Adelphi, Milano 1995; A. Sangiacomo, La sfida di Parmenide.
tenza di una riflessione il cui adeguato sviluppo eccede Verso la Rinascenza, cit., pp. 42-59 e 164-187. La rilevanza della
senz’altro gli obiettivi delle presenti osservazioni84. Forse questione qui sollevata è tuttavia tale da richiedere ulteriori
riflessioni ancora, di cui si provvederà a dar conto in un lavoro
note a parte.
84 85
Cfr. Il solido cuore della verità, cap. 2. Vedi anche E. Severino, Riportato in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, ed. it. a
La struttura originaria, cit., cap. X, pp. 407-455; Id., Tautotes, cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1981, vol. 1, p. 537.
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Andrea Sangiacomo Scorci

INTERMEZZO

Il silenzio di Orfeo

È la musica che è difficile, questa è la verità, è la musica che è


difficile da trovare, per dirselo, lì così vicini, la musica e i gesti, per
sciogliere la pena, quando proprio non c’è più nulla da fare, la
musica giusta perché sia una danza, in qualche modo, e non uno
strappo quell’andarsene, quello scivolare via, verso la vita e lontano
dalla vita, strano pendolo dell’anima, salvifico e assassino, a saperlo
danzare farebbe meno male, e per questo gli amanti, tutti, cercano
quella musica, in quel momento, dentro le parole, sulla polvere dei
gesti, e sanno che, ad averne il coraggio, solo il silenzio lo sarebbe,
musica, esatta musica, un largo silenzio amoroso, radura del
commiato e stanco lago che infine cola nel palmo di una piccola
melodia, imparata da sempre, da cantare sotto voce.
(Alessandro Baricco - Oceano mare)
96 97
1. Preludio

Conoscono certe notti d’estate il miracolo del silenzio.


Tace il respiro del cielo e la lontananza del mare, e il bosco
e lo sfinirsi delle foglie sul sentiero: tacciono. Si nasconde
la luna nell’eterno, là dove si apre il cerchio di un prato,
e intorno nessuno. Nel petto del buio il tempo dà l’ulti-
mo battito, e poi aspetta, perfetto. Allora, come una stel-
la comparsa non sai quando, in questo silenzio s’udrebbe
forse un canto. Silenzio che risuona ogni vuoto del firma-
mento, ogni addio, ogni grazia dell’orizzonte: musica del
silenzio.
La filosofia ha imparato abbastanza presto a interrogare le
cose circa il senso del loro esserci, cercando la loro essenza,
chiedendo “ti estin? Che cos’è?” Ma sempre la filosofia
altrettanto presto iniziò a pensare l’essenza della musica
come numero, se dobbiamo tener fede a quanto ci narra
Aristotele a proposito dei pitagorici:
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Andrea Sangiacomo Scorci

poiché vedevano che le note e gli accordi musicali consi- tato. Allora ogni nota è individuata da un numero che ne
stevano nei numeri; e, infine, poiché tutte le altre cose, in indica l’altezza, uno che ne indica l’intensità e un altro
tutta la realtà, pareva a loro che fossero fatte a immagine che ne indica la durata. E così la nota successiva, e così
dei numeri e i numeri fossero ciò che è primo in tutta quella ancora dopo e così per tutte: ogni canto nasce dal
quanta la realtà, pensarono che gli elementi dei numeri caleidoscopio di un matematico.
fossero elementi di tutte le cose, e che tutto quanto il Oggi siamo molto pitagorici, anche per noi tutto è nume-
cielo fosse armonia e numero86. ro: se qualcosa non può essere espresso in cifra non esiste
o non è degno d’interesse, non è sapere scientifico, non
Una corda di una certa lunghezza emette un suono di una può essere informazione. Che la musica sia numero le per-
data altezza quando viene fatta vibrare. Pitagora si rese mette di restar viva nel nostro mondo, di non sotterrarsi
conto che il variare della lunghezza influiva sull’altezza nel silenzio. E infatti oggi siamo assediati dalla musica,
del suono secondo un rapporto numerico: a partire da un musica ovunque sempre e comunque d’intorno, e sempre
suono fondamentale è possibile pensare tutti gli altri di più. Sempre più forte: assordata.
come frazioni, ossia rapporti relativi a quello. La scala Quello che proprio all’inizio s’era pur dovuto pensare,
pitagorica è in qualche modo l’ordinamento dei suoni quello che anzi era stato il pensiero originario: la musica
more geometrico87. Il numero è qui una relazione, cioè un rap- è rapporto. Vale a dire: relazione. Non è una parola qualsia-
porto, che, appunto, nella sua forma più primitiva, è nien- 98 99 si, questa. Relazionare ha il senso del legare assieme, e il
t’altro che relazione tra due numeri. legare assieme, il raccogliere in unità, è il significato più
Con ciò l’essenza della musica, il senso del suo essere, antico di un’altra parola, che da sempre parla nel cuore
venne in chiaro e iniziò allo stesso tempo a celarsi: la della filosofia: logos. Logos è tanto la parola, quanto la
musica è rapporto numerico, armonia. Quando si dice che la legge, quanto la ragione di qualcosa: la relazione è il logos
musica è arte dei suoni, si sta pensando: il suono è una certa della musica, la sua essenza. Il numero è il modo in cui i
vibrazione regolare emessa da un corpo elastico, il suono è pitagorici trovarono e conobbero questo logos.
il numero delle vibrazioni, dunque la musica è arte del Che il suono sia pensato come rapporto numerico non
numero, giacché tutto quello che è musica può essere con- significa infatti che tale rapporto sia un modo per pensa-
re la relazione tra suoni diversi, ma, in senso assai più
note
86
radicale, che ogni suono in quanto tale è pensato non
Aristotele, Metafisica, 985b-986a, trad. it., Bompiani, come una realtà assoluta, ma come una relazione, ossia,
Milano 2000, p. 27. appunto, in rapporto ad altro. La quantificazione numerica
87
Se il suono fondamentale fosse ad esempio un “do”, la scala
pitagorica stabilisce che la nota a una quinta giusta di distanza,
di questo rapporto non è quindi un modo per ridurre i
ossia il “sol”, è prodotta facendo risuonare i 2/3 della corda “do”. suoni a certi valori in sé determinati: piuttosto è vero il
Facendo risuonare poi i 2/3 della lunghezza che ha emesso il contrario, cioè che ogni suono è numero nel senso che non
“sol”, si ottiene nuovamente una quinta giusta, ossia un “re” e esiste in sé, ma solo come relazione ad altro.
così via. Sapendo che la distanza d’ottava è espressa dal rappor- Per noi che oggi siamo abituati a pensare tutto numerica-
to 1/2, è possibile riportare tutti i suoni così prodotti entro l’am- mente, giacché è ormai il nostro un pensiero calcolante,
bito di una sola ottava, costituendo appunto una scala. risulta difficile pensare che il numero non sia il mero calcu-
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lus, il sasserello con cui contare le cose, o, meglio, lo sia quantità ristretta, ché altrimenti non si tratterebbe più di
proprio nel senso che anche il calcolare è sempre, essenzial- un rito sacro ma di un’orgia di massa.
mente, un mettere in rapporto, un legare in relazione tra In fondo, cosa può resistere al quanto? Anzi, perché qualco-
loro diversi enti, in modo poi da poterli confrontare, sop- sa dovrebbe resistergli? Nessuno dei modi più diffusi
pesare, valutare. Proprio perché ormai calcoliamo tutto, d’intendere la musica nella sua essenza si pone al di fuori
abbiamo dimenticato questo senso originario di ogni cal- di un pensiero calcolante: nulla impedisce di esprimere que-
colare, ne abbiamo dimenticato il logos, le parole per dirlo. ste medesime concezioni in termini puramente quantita-
Così per la musica: si pensano i valori delle note, quanto di tivi, addirittura del bello si può chiedere e pensare quanto
durata, quanto di altezza, quanto di intensità, e poi quante è bello, anche la bellezza è calcolabile. Semmai si potranno
note in quanto tempo e per quanto tempo88. Magari si pensa distinguere posizioni che sanno sviluppare in modo più o
anche quanto una certa musica possa esprimere. Si arriva a meno rigoroso o sono più o meno coscienti di questa
rappresentare la musica come linguaggio che porta un quantificazione assoluta89.
qualcosa di interno, che per lo più viene nominato “senti- In tutto ciò cosa è accaduto? Suono e numero sono stati
mento”, fuori, appunto lo esprime, lo spinge all’esterno, gli separati, posti astrattamente come termini di per sé dati
dà voce. Quindi si può valutare la musica, ossia calcolarne il e indipendenti, che si è poi proceduto a mettere in relazio-
valore, in base a quanto di tale sentimento effettivamente ne di modo da poter ridurre il suono al numero che lo
viene espresso. In questo caso il “sentimento” espresso è 100 101 quantifica e così la musica stessa alle diverse quantità che
ridotto a qualcosa di sostanzialmente analogo all’informa- si pensa la compongano. Questo processo di astrazione e
zione trasmessa da un notiziario. Ma quand’anche della riduzione è quello che caratterizza essenzialmente ogni
musica si facesse un rito misterioso e sacro, per sua natura pensiero calcolante, all’interno del quale il numero e il
riservato a pochi eletti, non si farebbe altro che calcolare non quanto risultano essi stessi modi per isolare ciò che viene
più in relazione al parametro dell’espressività, ma a quello pensato e astrarlo come qualcosa di dato a prescindere e
della quantità del pubblico, giacché si dovrà pur pensare indipendentemente da ogni altro elemento. Ma proprio
che la qualità elevata sia caratterizzata per lo più da una questo pensiero calcolante, si fonda sulla fondamentale
dimenticanza di quel logos che, in origine, vide nel nume-
note ro un modo per pensare del suono il suo essere di per sé
88
È vero che forse il timbro sembra irriducibile a una rappre- relativo e unicamente determinato dal suo esser-rapporto.
sentazione puramente quantitativa, ma si tenga presente che la A rigore, la musica in quanto tale non è suono, ma relazio-
qualità del timbro di uno strumento può essere pensata in rela- ne di suoni, forma, struttura, e in questo senso, dunque,
zione agli armonici che è capace di produrre, e questi a loro
volta sono perfettamente quantificabili e rappresentabili mate-
maticamente, sicché la qualità è calcolabile e pensabile essa stes- note
89
sa secondo criteri quantitativi. Del resto, i timbri degli stru- L’informatizzazione e la digitalizzazione della musica presup-
menti possono esser presi come elementi primi e impiegati pongono appunto la possibilità di una sua quantificazione asso-
come una tavolozza. Ma anche in questo caso, si può pensare luta. L’odierno successo di queste pratiche è quindi una prova a
che tale impiego sia regolato dal calcolo dell’effetto sonoro che favore del fatto che nulla a priori vieta di pensare la musica in
si vuol ottenere. questi termini e ridurla a pura quantità.
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Andrea Sangiacomo Scorci

numero. Un suono, di per sé non è musica, così come una necessarie e sufficienti per avere un suono in generale, ossia
parola senza significato non è una parola. Quanti suoni ser- in astratto. Ma ciò che non si dà mai è proprio un suono in
vono allora, per avere musica? Come si può ben immagi- generale: appartiene al suono la trasparenza dell’aria che
nare la domanda è insidiosa. Se vogliamo pensare il numero carezza, il punto che il sole in quell’attimo abbandona o
nel suo logos originario, dobbiamo anche iniziare a pensare riscalda, la storia di chi lo produce e quella di chi l’ascol-
che il numerare sia essenzialmente una forma del raccoglie- ta, e pure quella di tutto ciò che non ascolta. Un termine
re in unità, un modo del logos. Quanti suoni servono allora? di riferimento può esser posto in sé solo astrattamente e
Ne serve un certo numero. Numero che qui non sta più per l’idea della sua autosufficienza è appunto un’astrazione:
“due”, “cinque”, “cinquecento”, ma per ciò che il numero è serve infatti che qualcuno ponga quel termine, che lo con-
nella sua essenza: unità, legame. Un certo numero di suoni è sideri un riferimento e che lo ponga in un certo modo a
allora non tanto una certa quantità, ma piuttosto una forma, certe condizioni, e via dicendo. In concreto, in realtà, non
una struttura, appunto: una relazione. Verrebbe da dire: una si dà mai nulla di autosufficiente: il darsi di ogni cosa
figura. E la forma, l’eidos, è infatti l’aspetto visibile di qual- implica il darsi e il presupporsi della totalità a cui quella
cosa, e dunque ciò che rende quel qualcosa intelligibile cosa appartiene. Così vale per il suono.
come tale, ciò che lo fa riconoscere per quello che è, dunque Quando dunque iniziamo a pensare che la musica sia
la sua essenza. Ma anche la struttura di qualcosa non è essen- essenzialmente un certo numero di suoni, nel senso di una
zialmente altro dalla sua forma: è l’insieme dei rapporti e 102 103 forma o struttura sonora, stiamo dicendo: la musica è essen-
delle relazioni che collegando tra loro diversi elementi in zialmente relazione numerica di relazioni numeriche. Non,
un certo modo, danno a quel certo ente l’immagine che ha, quindi, legame tra oggetti di per sé autonomi e autosuffi-
il suo eidos. La struttura di un palazzo non è solo ciò che lo cienti, ma legame di qualcosa che è già esso stesso un lega-
fa stare in piedi, ma è piuttosto la sua architettura: il palaz- me, un termine relativo, posto solo in connessione ad altro.
zo è la sua struttura, tolta quella, è tolto il palazzo, resta Meglio ancora: una relazione dove a emergere in primo
dell’altro, ma quello non c’è più. Così, dire che la musica è piano non sono i termini che lega assieme ma la relazione
forma, struttura, numero di suoni, vuol dire che la musica non stessa in quanto tale. Non accade dunque che prima vi sia
è di per sé suono e basta, non è riducibile al fenomeno sono- una certa quantità di suoni possibili, e poi venga la musica
ro in quanto tale. Si può studiare il suono senza ascoltare a ordinarli in un certo modo, traendovi una certa quantità
niente che abbia a che fare con la musica, e pure si può di possibili melodie per adempiere più o meno bene a certi
ascoltare musica senza conoscer nulla di acustica. fini, ad esempio “espressivi”. Al contrario, non ci sono
Eppure già Pitagora vedeva che il suono è essenzialmente confini né limiti che sanciscano un finis musicae: la musica
relazione, rapporto quantificabile, sì, ma nel senso del non inizia e non finisce da nessuna parte, è.
logos proprio del numero che ci sforziamo adesso di ritorna- Si potrebbe però subito obiettare che ogni brano musica-
re a pensare: non esiste il suono assoluto, un suono per sé le inizia in un certo punto del tempo e finisce in un certo
sciolto e indipendente da ogni altro legame. Ciò non vuol altro punto, ha una sua durata ben determinata, quantifi-
dire soltanto che non esiste suono senza qualcosa che lo cabile, e non c’è dunque niente di indefinito. Indefinito è
produca e senza il mezzo della sua diffusione. Anche in però qualcosa che non viene caratterizzato, non ne vengo-
questo modo, infatti, vengono isolate alcune condizioni no circoscritti i confini, non viene de-finito appunto, non
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è individuato in modo tale che lo si possa indicare univo- cale non si scrive mettendo ad esempio insieme certi
camente come un “questo e solo questo”. Quando si dice accordi di per sé dotati di senso, al contrario è proprio il
per contro che la musica non inizia e non finisce da nes- senso generale del brano che conferisce a ogni accordo un
suna parte, giacché non le appartiene nessun termine che ruolo e una funzione specifica. Questo non vuol dire cioè
possa stare per sé, assoluto e autosufficiente, si sta invece che di fatto non vi siano regolarità nel linguaggio musica-
dando una definizione ben precisa: la musica è infinita, le90, quanto piuttosto che non esistono “unità semanti-
nel senso del non-aver-limiti, non essere racchiudibile e che” assimilabili alle parole: trarre un frammento musica-
circoscrivibile in un “questo e solo questo”. Ma si badi le da un certo contesto e trasporlo in un altro istituisce
che ciò non ha nulla a che fare con qualcosa come certo una relazione tra i due, ma vuol anche dire mutare
un’“ineffabilità”: dire che la musica è infinita non è un nella maniera più totale il significato che questo fram-
modo un po’ ingenuo per lavarsi le mani dal problema mento aveva e fargliene assumere un altro, inatteso e inso-
della sua definizione, al contrario, è il modo più rigoroso spettabile a partire dal contesto di partenza.
in cui la filosofia può giungere a pensarne l’essenza. E tuttavia, nonostante ciò, resta ancora legittimo chiede-
Che la musica sia relazione numerica di relazioni numeri- re come suoni una musica infinita. Noi appunto sentiamo
che, cioè di suoni, significa infatti che ad esser ascoltata, sempre “brani”, ossia “stralci”, “pezzi”, porzioni limitate
di nuovo, è la struttura e la connessione stessa che rende e concluse, con un inizio e una fine. Ascoltare la musica
inscindibile ogni suono da ogni altro, anzi, più che i sin- 104 105 nella sua infinitudine vuol dire non ascoltare nessun ini-
goli suoni, ad esser ascoltata, propriamente, è la loro zio e nessuna fine. Ma vuol anche dire non poter identifi-
unità, il loro senso. Si potrebbe chiamare questo, letteral- care nessun “questo”, non poter individuare univocamen-
mente, un senso necessario, dove la ne-cessità indica appun- te nessun elemento. Chi ascolta la musica nella sua infini-
to questa inviolabilità del legame che tutto raccoglie tudine ascolta dunque il silenzio. E di nuovo dobbiamo
nella sua unità. Il logos del rapporto numerico che identi- subito chiarire il senso di questa parola, che il pensiero cal-
fica ogni suono non è infatti la mera giustapposizione di colante si affretta a intendere come quantità nulla di suono.
cifre, ma l’autoevidenziarsi della relazione in quanto tale, Silenzio è invece proprio l’esatto contrario: non nasce dal-
ossia l’emergere del suono come qualcosa di assolutamen- l’assenza di ogni suono ma dal darsi immediato e contem-
te relativo che ripone il suo essere unicamente nel modo poraneo di tutte le relazioni possibili tutte insieme.
del suo rapportarsi da altro.
Nel linguaggio quotidiano, le singole parole sono dotate note
90
di una loro certa qual autosufficienza semantica, nel senso Il sistema tonale è un esempio di questa regolarità. È comun-
che, trasposte in contesti diversi e composte di proposi- que da tener presente che una codificazione rigorosa delle rego-
le armoniche avvenne solo intorno alla metà del XIX secolo,
zioni differenti mantengono, entro certi limiti, il medesi- cioè poco prima che il sistema tonale stesso fosse radicalmente
mo significato: con le medesime parole possiamo dire cose messo in discussione. Del resto, ogni serio manuale d’armonia
diverse. In musica questo non vale: non vi sono elementi non nasce da un intento meramente prescrittivo e le regole che
di per sé indipendenti, che vengano poi composti per for- espone sono piuttosto le grandi regolarità che si possono riscon-
mare un certo discorso e il cui senso resta pressappoco trare nelle opere dei maestri. In musica, infatti, la regola segue
inalterato a prescindere dal loro impiego, un brano musi- l’opera e non viceversa.
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Il silenzio è la musica del Tutto quando il Tutto si dà il tacere del Tutto come Tutto e il suo mostrarsi come
come tale. Si dà il Tutto, quindi non risuona nessun “que- parte, da una certa prospettiva, si diceva: in scorcio. In
sto”, non si mostra nessun elemento particolare: si questo senso, allora sì, è possibile dire: il silenzio tace, non
mostrano tutti, allo stesso modo in cui la luce bianca che si sente, giacché il mostrarsi di ogni parte è il tacersi del
non è assenza ma compresenza di ogni colore. Tutto, e nella misura in cui siamo immersi nella parziali-
Ogni “brano”, ogni “pezzo” di musica inizia e finisce nel tà, siamo pure avvolti dal tacere del Tutto.
silenzio. Questo prende ora a significare qualcosa di Silenzio, autenticamente inteso, non è assoluta mancanza,
essenziale: ogni “brano”, ogni “pezzo” di musica è tale non è il niente del suono, il suo annichilimento. Al contra-
proprio perché inizia e finisce nel silenzio, il silenzio è rio: è il tacersi di ogni parte in quanto parte e quindi il
l’orizzonte a cui quel “brano” è legato e in cui necessaria- farsi in primo piano di quella totalità sempre presupposta
mente è inscritto come parte. Ogni “pezzo” di musica e per questo da sempre lasciata sullo sfondo. E viceversa il
presuppone la totalità, per questo “inizia e finisce” nel tacersi del silenzio è l’emergere di un volto della totalità
silenzio. Ma questo “inizio” e questa “fine” non li si pos- che si avanza dallo sfondo per raccontarne qualcosa.
sono allora più intendere in senso assoluto, come venir Ascoltare il silenzio è così nient’altro che l’ascoltare ciò che
fuori dal nulla, un prendere ad esserci di ciò che non c’era. resta quando si tace ogni voce singola che rivendica per sé
Dacché il silenzio stesso è già la musica del Tutto, ogni il suo esser-questo.
“brano” che inizia è già inscritto in quel silenzio e il suo 106 107 Pitagora aveva costruito la sua scala pensando ogni suono
finire è il ritornare a risuonare di questo. Iniziare e finire come la vibrazione di una frazione diversa della medesima
sono, per ciò che è musica, l’apparire del Tutto non in corda, e così è per ogni “brano” musicale. Quando non
quanto Tutto ma in quanto parte, il mostrarsi della risuona nessun “brano” particolare, quando ogni parte in
Totalità non nella sua Totalità ma di scorcio, e viceversa. quanto parte tace, allora accade il silenzio, che è il risuo-
Il pensiero calcolante intende certo silenzio e musica nare del Tutto nel suo insieme, come intero: la musica è
come fenomeni fisici, ossia misurabili e quantificabili. Ma sempre e da sempre, musica del silenzio. Per questo, più
che qualcosa come la musica sia anche passibile di even- che di “brani” o “pezzi” bisognerebbe parlare di eventi91
tuali misurazioni, non decide nulla circa il suo statuto musicali: mentre nell’idea del “brano” e del “pezzo” è pre-
ontologico: la musica può certo essere anche misurata, ma sente l’immagine della parte separata, della totalità
non per questo è legittima la sua riduzione a ciò che di essa appunto “fatta a pezzi”, “sbranata”, dunque dell’elemen-
è appunto misurabile e quantificabile. Lo stesso vale per to isolato e astratto dall’orizzonte cui appartiene, è invece
il silenzio: fino a che sarà inteso come l’assenza di suono, proprio dell’e-vento l’idea del venire-da, evento musicale è
come il non-sentir-niente, questa parola resterà sotto il
giogo di un pensiero che in ciò che esiste non sa veder note
altro che il quanto. Ma fuori da questa astrazione il silen- 91
Le ragioni che ci spingono a usare questa parola sono esposte
zio si mostra non come un momento semplicemente pre- di seguito ed è col significato che qui verrà chiarito che viene
cedente all’accadere musicale, quanto piuttosto come il assunta e utilizzata in questo contesto. Non sussiste dunque un
suo presupposto e come tale gli resta intrinseco: non c’è rapporto diretto con l’uso che del corrispettivo termine tedesco,
musica che non sia essa stessa un silenzio, e precisamente Ereignis, fa Martin Heidegger.
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Andrea Sangiacomo Scorci

ciò che, in questo caso, proviene-dal silenzio, dal Tutto. 2. Ricercare


Questo provenire non ha in sé l’idea di un limite ma al con-
trario quella di una continuità essenziale che fa dell’inizio Se dobbiamo star dietro a queste riflessioni, sarà difficile
non un iniziare a esserci dal nulla, ma un sorgere. Le stelle sottrarsi a un’altra obiezione, che si leva da un certo modo
sorgono a questo modo: sempre sono nel cielo, ma di gior- di intendere la figura del musicista, più ancora che dalla
no il cielo dorme e sogna la terra. Solo di notte riscopre la musica stessa. Se infatti ogni evento musicale è già inscrit-
trasparenza della veglia che nel tramonto poco a poco to nel silenzio, allora chi è il musicista? Che ruolo ha?
riaccende gli sguardi del firmamento. Così la musica Oggi non solo siamo molto pitagorici, ma siamo anche
sorge dal silenzio, ne proviene e vi ritorna: si fa evento. incredibilmente romantici. Era infatti radicata nelle pro-
fondità del sentire romantico l’idea del genio, figura ecce-
zionale che crea e si crea, in eterno conflitto con gli altri,
debitore della sua nobiltà unicamente al valore del suo
agire. E anche per la nostra contemporaneità ha qualcosa
di geniale chi sa venir su dal niente, nonostante le avversi-
tà, e imporre il proprio volere, le proprie capacità, nono-
stante tutto e nonostante tutti. La differenza sta piuttosto
108 109 nel fatto che per noi, il valore di quello in cui qualcuno si
impegna è stabilito democraticamente dalla collettività, per
il romanticismo anche quel valore è fondato ad opera del
genio stesso. Ma questa differenza non interessa ora la
presente riflessione, giacché nemmeno oggi il valore della
musica sembra in discussione, e si potrebbe anzi dire che
mai si è stati più consapevoli e capaci di sfruttare il suo
potere retorico, la sua capacità di suggestione emotiva.
Stando a questo paradigma, il musicista è colui che crea
musica a partire da sé e per sé: la musica è opera del suo
genio. La musica è qualcosa che si fa, anzi, che qualcuno pro-
duce, che conduce fuori dal proprio io per portarla nel
mondo. Il musicista è dunque autore in senso assoluto, a
prescindere da lui, non c’è musica: ogni brano è una sua
creatura. E la creatura è tanto più nobile e di valore, quan-
to più nobile e di valore è il sentire del musicista che la
crea: appunto questo “esprime” la musica, il “sentimento”
del suo autore. In tal senso la visione romantica non ha
fatto che estremizzare nel senso dell’individualità un’idea
per nulla nuova e fondata sul significato più greco della
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parola arte, ossia téchne, che in questo contesto potremmo questa possa emergere un suo abitante e solo quello.
tradurre con mestiere, tecnica appunto del saper fare qualco- Il medesimo si pensi ora della musica: comporre non è
sa. Ogniqualvolta si pensa infatti alla musica come qual- essenzialmente altro dal far risuonare del silenzio una
cosa concepita per un fine, sia questo accompagnare i canti certa vibrazione piuttosto che un’altra. Il silenzio è quel
degli aedi, sia far risuonare le volte delle chiese o allieta- canto dove tutto canta allo stesso modo e con la medesi-
re una corte o celebrare un popolo, la musica è pur sem- ma importanza, cioè dove a cantare è appunto il Tutto.
pre intesa in senso tecnico, ossia come produzione finalizza- L’evento musicale si fa innanzi quando di questo Tutto si
ta al raggiungimento di un certo scopo. Il romanticismo non prende a lasciare sullo sfondo una certa parte, facendone
ha allora fatto altro che radicalizzare una simile concezio- avanzare solo una porzione. In qualche modo, ogni evento
ne, facendo coincidere causa efficiente e causa finale. musicale è un a solo sullo sfondo del silenzio.
Ma cosa presuppone un simile discorso? Che ogni brano non S’era iniziato a dire che la musica è essenzialmente relazio-
sia evento, ma appunto sia solo un “brano”, un “pezzo”, che ne di relazioni e che, in quanto tale, non ha confini. Non
inizia e finisce lì dove il suo autore gli prescrive i confini, c’è quindi una separazione tra ciò che è “mondo reale” e ciò
questo e solo questo, oltre questo nient’altro. Abbiamo però che è musica: la musica non è un mondo a parte, non isti-
già iniziato a riflettere sulle motivazioni che inducono a tuisce una realtà parallela o sperata. Piuttosto sarà da affer-
prendere le distanze da simili concezioni: il senso dell’infi- mare che la musica è intrinseca alla realtà stessa: la realtà è
nitudine che abita l’essenza della musica ci conduce altrove. 110 111 anche musicale. Di più, l’avvolgersi delle relazioni tra loro
Resta però inevasa la domanda: in questo altrove, chi è il e quindi l’intrecciarsi e il raccogliersi insieme di ciò che è,
musicista? Non certo e non più colui che inventa dal costituisce quel tessuto musicale che noi chiamiamo “real-
nulla, il genio creatore. Piuttosto, bisognerebbe iniziare a tà”. La musica non racconta dall’esterno un mondo che con-
ripensare le parole di Michelangelo, quando scriveva: templa senza prendervi parte, ma raccoglie piuttosto
«non ha l’ottimo artista alcun concetto/ ch’un marmo solo l’estrema sintesi di ciò che esiste, il suo logos.
in sé non circoscriva/ col suo soverchio, e solo a quello Propriamente, come già iniziava a pensare Kant, il
arriva/ la mano ch’obbedisce all’intelletto». I Prigioni non mondo non è lo spazio dove viviamo, ma l’idea all’inter-
sono una creazione del signor Michelangelo Buonarroti, ma no della quale pensiamo lo spazio in cui ci è dato esistere.
sono forme, che abitano un certo blocco di marmo e che Trovare una nuova parola, scorgere una nuova differenza,
qualcuno, in questo caso Michelangelo, ha reso visibili. incontrare qualcosa che ancora non s’era incontrato, signi-
Come? Facendo in modo che il marmo non apparisse più fica arricchire il mondo di una voce in più: quella voce già
come marmo ma che in esso si mostrasse una parte, una c’era, anche prima di essere nel nostro mondo e di essere
certa struttura, che, in questo caso, è proprio quella di in quanto voce nel nostro mondo, eppure prima taceva nel
qualcuno che lotta per liberarsi dalla pietra. Chi sono i silenzio del Tutto e solo ora ha davvero preso la parola,
Prigioni? Scorci sulle forme che la pietra racchiudeva e che solo ora la pensiamo92. E da quando questo evento è acca-
qualcuno ha reso visibili. Cosa significa scolpire un tal
forma? Far sì che non si mostri più la pietra nella sua tota- note
lità, nella sua interezza, ma che di essa appaia solo un certo 92
Cfr. A. Sangiacomo, La sfida di Parmenide. Verso la Rinascenza,
eidos: scolpire è aprire uno scorcio sulla roccia, tale che da cit., pp. 114-117.
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duto, il mondo non è più lo stesso. In questo senso, il Appunto si diceva che questo evento è l’apparire dell’ente
nostro mondo è diverso dal mondo di un greco antico, ma nella sua realtà: incamminandosi su tale sentiero, infatti,
non perché sia mutata la totalità a cui entrambi apparte- ciò che esiste non emerge nella sua astrazione, come una
niamo, quanto piuttosto perché questa totalità è venuta cosa che rivendica il suo esser questo-e-solo-questo, ma si
mostrandosi secondo diverse prospettive. mostra come paesaggio e sguardo di cielo, come qualcosa
Qualsiasi ente, infatti, già da sempre appartiene al Tutto, insomma, che non è scindibile, non è frazionabile, non si
che è appunto totalità che raccoglie qualsiasi ente, ma può fare a “pezzi”, ma è appunto uno scorcio, un farsi
non necessariamente a noi appare ogni ente: il nostro innanzi del Tutto che prende a mostrare un certo volto,
mondo è sovente assai più povero del Tutto. L’accadere di lasciando nel mistero dello sfondo tutto il resto. La musi-
un evento musicale è un modo originario con cui qualcosa ca, dunque, non si crea, piuttosto si cerca.
entra nel mondo. Diciamo originario perché con quest’even- Ma è allora proprio perché l’evento musicale non è un’ope-
to, l’ente non ci appare nell’astrattezza del suo esser que- ra, un prodotto, ma un sentiero che serba nel cuore la pro-
sto-e-solo-questo, ma immediatamente e concretamente nel messa di un certo paesaggio, di una certa prospettiva sul
suo logos, ossia non nella forma dell’isolamento, ma Tutto, ebbene, è proprio per questo che nessun evento
immediatamente nella sua realtà ontologica, cioè come musicale finisce lì dove il suo “autore” ha segnato “l’ulti-
pura relazionalità. ma nota”, ma anzi vive e continua a vivere nell’ascolto di
Dunque, quello che per lo spirito romantico è il genio crea- 112 113 altri. Evento che è un sentiero scoperto e tracciato sulla
tore, bisognerebbe piuttosto iniziarlo a pensare come un mappa del mondo: indica i passi seguendo i quali la con-
esploratore o un viandante, giacché non andrà più inteso trada si lascerà percorrere e non si chiuderà vorace sul
come qualcuno che inventa da sé evocando dal nulla, quan- viandante, sbarrandogli la via. In quanto tale, l’evento si fa
to piuttosto qualcuno che incontra qualcosa, ne fa esperienza, innanzi come un invito rivolto a tutti coloro che in quel
laddove questa andrà pensata originariamente proprio mondo esistono, invito ad avventurarsi a percorrere quella
come «il cammino lungo un sentiero»93. Alla domanda “chi via, a scorgere cosa si mostra quando se ne segua il senso,
è il musicista?” bisognerebbe allora iniziare a rispondere la direzione. Non si scrive mai musica per se stessi, per sé
alludendo a chi, per ventura o per destino, è capace di indo- al massimo si improvvisa, ci si avventura senza curarsi
vinare nuovi sentieri o percorrere diversamente quelli noti, troppo di come poi poter ripercorrere quella medesima
qualcuno insomma, che non tanto si preoccupa di afferma- via. No, si scrive musica proprio quando si pensa di aver
re se stesso, ma trova questo sé proprio nel suo andare verso trovato qualcosa che valga la pena d’esser conosciuto,
i confini del mondo e oltre. Chi è il musicista? Chi sa sco- qualcosa che il mondo merita di raccogliere e serbare in
prire orizzonti e portare memoria dei loro silenzi. sé: si scrive, dunque, essenzialmente, per gli altri, perché
L’evento musicale è l’avventurarsi su una certa via, l’incam- altri possano scorgere ciò che uno ha trovato, perché que-
minarsi che dispiega prospettive su una certa contrada. sto evento possa accedere anche al loro mondo, di modo che
il mondo non sia più loro o mio, ma segretamente nostro.
note Ciò che resta scritto però, resta anche muto, e non come il
93
M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, trad. it., Mursia, silenzio che canta nel cuore del Tutto, ma come qualcosa
Milano 1973, p. 135. che ha perduto la voce. Da qui il problema, per chi avvici-
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na al testo in cui la musica s’è depositata, di trovare il modo ralismo rigoroso, dove non solo è centrale che vengano ese-
per riscoprire e tornare a percorrere la via che lì è indicata. guite le note “così come sono scritte” ma che vengano ese-
Alessandro Baricco ha avuto modo di notare: guite anche nel modo in cui si eseguivano e con gli stru-
menti usati all’epoca in cui il compositore visse e operò.
il tratto di libertà che da sempre si riconosce alla prassi del- Il presupposto comune a entrambe queste posizioni sta
l’interpretazione non coincide col soggettivo praticare tuttavia nel problema che cercano di risolvere: come tra-
varianti alla lettera del testo. Non è un tratto di aleatorie- durre nel modo migliore un testo musicale in suono. Il
tà affidato al gusto o alla fantasia del singolo. La libertà del- punto di partenza, in entrambi i casi, è l’evento musicale
l’interpretazione sta nel dover inventare qualcosa che non assunto in quanto testo. Si pensa qui che la musica nasca
c’è: quel testo in questo tempo. In definitiva non è l’interpre- come testo e il problema della sua interpretazione sia dun-
te che è libero: è l’opera che, attraverso il gesto dell’inter- que assimilabile a quello di ogni altro testo, ad esempio
pretazione, diventa libera. Libera dall’identità su cui la tra- letterario. Ma cosa resta dell’evento quando lo si pensa in
dizione l’ha inchiodata. Libera di reinventarsi secondo le quanto testo? Una traccia su una mappa, sicché il problema
dinamiche del tempo nuovo che incontra. L’interprete è lo è allora trovare il modo per percorrere di nuovo quella trac-
strumento, non il soggetto, di quella libertà94. cia, a distanza di così tanto tempo che, verosimilmente, del
mondo che essa raffigurava, ben poco è rimasto inalterato.
Gadamerianamente, quello che qui viene messo in luce è 114 115 Ne sapeva qualcosa Ferruccio Busoni, che nel suo Saggio
il rapporto e il ruolo dello scarto temporale, tra il testo di una nuova estetica musicale, già osservava:
musicale e l’atto della sua interpretazione. La proposta non
suona poi lontanissima da quella fusione di orizzonti che la notazione, la scrittura di pezzi musicali è, in primo
proprio Gadamer auspicava95. Questo discorso presuppone luogo, un ingegnoso espediente per fissare un’improvvisa-
che la musica esista in una certa forma data, quella del zione, onde poterla far rivivere in un secondo tempo. Ma
testo, che riceve poi una lettura di volta in volta diversa tra quella e questa intercorre lo stesso rapporto che inter-
nelle varie epoche: il testo dal passato giunge a noi e sta corre tra il ritratto e il modello vivo. L’esecuzione deve scio-
all’interprete reinventarlo con lo spirito del presente in cui gliere la rigidità dei segni e rimetterli in movimento. I
abita, adattandolo quindi, in definitiva, alle “esigenze del legiferatori però pretendono che l’esecuzione riproduca la
tempo”. Agli antipodi di questa concezione starebbe allo- rigidità dei segni e considerano la riproduzione tanto più
ra quella che passa sotto il nome di “ricostruzione filologi- perfetta quanto più attiene ai segni. Quello che il compo-
ca” e che prevede di riportare invece l’ascoltatore al tempo sitore necessariamente perde della sua ispirazione attraver-
in cui la musica fu concepita, secondo i canoni di un lette- so i segni, l’esecutore deve ricreare attraverso la propria
intuizione96.
note
94
A. Baricco, L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin, Garzanti, note
96
Milano 1996, p. 39. F. Busoni, Saggio di una nuova estetica musicale, in Id., Scritti e
95
Vedi H.G. Gadamer, Verità e metodo, trad. it., Bompiani, pensieri sulla musica, a cura di L. Dalla piccola e G. M. Gatti,
Milano 2001. Ricordi, Milano 1954, p. 135.
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L’atto dell’interprete con cui viene restituito voce al testo Ciò che della musica resta scritto è come la notte, che è
consiste nello «sciogliere la rigidità dei segni e rimetterli in tale perché attende il sole e vive nella sua assenza. E la
movimento». Per far ciò, però, non c’è niente da “aggiun- musica torna a vivere dal silenzio della sua assenza scritta
gere”: la musica non manca di qualcosa, non è un alimento quando appunto torna come musica: chi rende il suono ai
liofilizzato che abbisogni di acqua o altri componenti per segni sta rendendo possibile il riaccadere di quell’evento
ridiventare commestibile. Anzi, questo «rimettere in movi- che lì era stato annotato come già una volta successo, ma
mento» consiste proprio nel rendere nuovamente superfluo ciò è possibile solo se è un evento che si fa nuovamente
il testo, che in sé è solo un espediente per ricordare e portare innanzi e non una semplice giustapposizione più o meno
ad altri la traccia di un certo sentiero. Quando si prende a ordinata di suoni. La musica torna a cantare dal suo silen-
seguire un sentiero mai percorso, si segue certo una mappa zio se torna come musica, ossia come relazione numerica di
per avere una guida, ma la mappa è appunto solo una guida, relazioni numeriche, se si mostra ancora in quel suo logos
percorrere il sentiero è qualcosa che succede altrove, non sta essenziale che ne fa appunto qualcosa come un e-vento,
sulla carta, non è scritto, piuttosto accade, si fa evento. A rigor radicato e da sempre custodito nel silenzio del Tutto. Non
di termini, dunque, l’interprete non è chi suona ma è pro- a caso è necessario studiare il modo in cui «sciogliere la
prio il testo: è il testo infatti che fa da medium tra il primo rigidità dei segni», verrebbe da dire: superare la loro
scopritore di una certa via, e coloro che pure in seguito astrattezza, il loro reciproco isolamento, e ritrovare ciò
vogliono incamminarvisi. La musica, dunque, non nasce 116 117 che essi si limitano a indicare da lontano. Se chi cerca di
affatto come testo né la sua interpretazione è qualcosa che ridar voce ai segni non è capace di render riconoscibile la
segua da questo, piuttosto è il testo stesso ad essere una musica in quanto tale, nella sua essenza, allora i segni, per
certa interpretazione data a un certo evento musicale97. quanto rumore si faccia, continuano a tacere, più muti di
una sfinge senza segreti.
note Del resto, si diceva prima, l’evento musicale si radica nel
97
Si deve tener presente che la storia della notazione musicale fu Tutto e non nel mondo. Sicché, certo, nella misura in cui
lunga e assai elaborata. Per la presente trattazione è un esempio noi ci facciamo incontro a tale evento pensandolo e acco-
significativo ricordare che, nella prima forma di scrittura ad aver gliendolo unicamente nei limiti in cui questo rientra e
avuto un cospicuo uso pratico, quella neumatica, ci si limitava a cade entro i confini del nostro mondo, allora esisterà sem-
riportare stenograficamente il gesto del direttore di coro diret- pre uno scarto: l’evento può portare qualcosa che nel mondo
tamente sopra le parole cantate. L’attuale sistema di notazione non c’era o raccontare qualcosa che ormai non c’è più, in
consente certo di trascrivere l’evento musicale con un’accuratezza
ogni caso serve un “adattamento”, un “aggiornamento”,
infinitamente maggiore e quindi, anche, di trascrivere eventi
assai più complessi. Ma anche qui, però, si tenga presente che i un “interprete” che faccia da “intermediario” tra le due
nuovi orientamenti musicali sviluppatisi dal Novecento storico mondi, quello nostro e quello che attribuiamo all’evento
in poi, sovente hanno avuto l’esigenza di introdurre varianti par- stesso. Anzi, più si pensa la musica prioritariamente a par-
ticolari e notazioni speciali per fissare in partitura le soluzioni tire da un certo mondo, meno spazio nel mondo c’è per la
che intendono rendere, a conferma del fatto che la musica esiste musica, giacché questo diventa sempre meno un luogo
essenzialmente altrove rispetto al testo scritto che, in quale d’incontro e d’ascolto e sempre più una prigione, animata
modo, continua a restare pur sempre una traccia stenografica. dalla volontà di imporre le sue leggi e le sue schiavitù,
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riducendo e assoggettando a sè ciò che per natura ha come viva la coscienza che ogni evento è tale proprio in quanto
sola legge il non conoscere schiavitù alcuna. voce del Tutto che di sé viene a mostrare un certo scorcio. E
In tal modo, infatti, non si sta facendo altro che decreta- questo non impone affatto un dovere, anzi, libera ulterior-
re confini, stabilire limiti, circoscrivendo l’infinitudine di mente da ogni dovere, giacché, in quel silenzio del Tutto
ciò che nella sua essenza già conosce e porta voce di ogni da cui l’evento proviene, è inscritto anche l’interprete stes-
mondo possibile. Un’ermeneutica fondata sulla differenza so che in quel momento gli si fa incontro, è inscritta la sua
delle epoche storiche e quindi sulla loro dialettica, deve in storia e il suo sentire: la musica già ci conosce, già ci rac-
realtà presupporre la reciproca indipendenza delle epoche conta e ci racconta sovente qualcosa che nemmeno sapeva-
stesse e delle loro opere, giacché altrimenti perderebbe mo di essere. È, la musica, l’esser-reale della nostra realtà.
senso il problema della “riattualizzazione” o comunque Scriveva Schopenhauer:
della ricezione in tempi diversi di queste opere medesime:
per dirla con Baricco, «inventare qualcosa che non c’è: la musica non è, a differenza della altre arti, una riprodu-
quel testo in questo tempo». zione del fenomeno, dell’adeguata oggettità della volon-
Ma l’evento musicale non va portato dall’interprete da una tà; è immagine diretta della volontà in se stessa, e quindi
stalla all’altra, quasi fosse un cavallo che cambia padrone esprime l’elemento metafisico del mondo fisico, l’in sé di
col tempo e che quindi deve adattarsi ogni volta di nuovo: ogni fenomeno. Il mondo si potrebbe, in conseguenza,
tale evento, infatti, è già da sempre di più e oltre ogni tempo, e 118 119 chiamare un’incarnazione della musica, non meno che
non perché trascenda il tempo o sia tutt’altro, ma, al con- della volontà98.
trario, perché già da sempre, in quanto radicato nel silen-
zio del Tutto, conosce anche ogni tempo. Non bisognereb- Ma il mondo è appunto qui inteso come una rappresentazio-
be mai sottovalutare la musica, al punto da considerarla ne, o, con Kant, come un’ideale della ragione. E la volontà,
qualcosa come un “prodotto socio-culturale” o più in per Schopenhauer, è l’essenza intrascendibile, il fondamen-
generale un’opera del mondo e nel mondo, al contrario, to ultimo della realtà di questo ideale. Sicché, prescinden-
siamo noi che siamo chiamati a saperne stare all’altezza, a do da una valutazione critica del significato di questa fon-
saperla ascoltare nella sua infinitudine. dazione, resta pur confermato che la musica non appartie-
E se l’interpretazione ha a che fare con la libertà, questa ne al mondo come se fosse una cosa tra le altre, non è
dovrà essere la libertà che solleva le barriere e cancella i con- un’abitatrice tra tanti del contenuto del mondo, ma è l’im-
fini, impedendo la prigionia dell’isolamento: la libertà della magine stessa della realtà del mondo in quanto mondo,
musica, come ogni libertà, è il non rinchiuderla in nessun ossia del mondo in quanto fondato sul suo principio ulti-
“questo”, separandola dalla totalità a cui sempre è intrinse- mo, che qui è chiamato “volontà”.
camente legata, al di là di ogni differenza di epoca e tempo, Il fatto è, semmai, che, a dispetto di Schopenhauer, il
al di là di ogni mondo possibile. Libertà della musica è il mondo come incarnazione della musica è una sfida anco-
mantenerla, semmai, immersa nel silenzio del Tutto, ossia
ricca di infinite relazioni, infinito numero del suo logos. note
Ogni evento viene dal quel silenzio che è la musica stessa 98
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, §52,
del Tutto. L’interprete, dunque, ha da custodirlo serbando trad. it., Mursia, Milano 1969, p. 305.
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ra tutta da pensare, a partire dal momento in cui si inizia 3. Adagio


a pensare la musica stessa al di fuori di quel mondo del-
l’isolamento e della solitudine che è necessariamente ogni Conoscono certe notti d’estate il miracolo del silenzio. Ma
mondo fondato sulla volontà. quanto a lungo questo silenzio sembrò una maledizione?
Nonostante ciò, resta pur sempre da meditare: Voce vuota che si spande e porta spazio, separando nella
condanna di lontananze inaudite. È pur sempre nel silen-
se si riuscisse a dare della musica una spiegazione comple- zio che accade la solitudine, profondissima e crudele, divo-
ta, esatta e penetrante nei particolari; se cioè riuscissimo ratrice di parole. Ogni giorno ne ruba una, è questa la sua
a riprodurre per via di concetti quanto la musica esprime; tortura: succede così, d’un tratto, che non solo il mondo s’è
avremmo insieme ottenuto, per via di concetti, anche una trasformato in un’unica immensa assenza, ma nemmeno
soddisfacente riproduzione o spiegazione del mondo, che più resta voce per chiamare qualcuno, solo silenzio.
sarebbe la vera filosofia99. Silenzio cattivo che come ruggine consuma lento il dire e
il pensare: silenzio di chi se n’è andato, di chi non ha
detto addio, di chi lo ha voluto dire. Silenzio di chi non
può o non vuole o non sa accettare, qualcosa o qualcuno,
e non può quindi rispondere alla domanda che ancora
120 121 fiduciosa chiede: mi vuoi? Silenzio. Di chi non sa più dire
e nominare ciò che sente, e vorrebbe invece, ma il gesto
ricade inerte, sconfitto: non c’è niente da dire, niente si
lascia più pronunciare né indicare con una parola di gra-
zia. Le cose hanno perso la loro clemenza, barattandola in
cambio della tranquillità silenziosa dei pavidi: non
vogliono più essere disturbate.
Tace non solo chi ha detto tutto, ma anche chi non ha da
dir niente, o chi non può dire niente, o chi è costretto
dalla silenziosa minaccia di altri. Tacciono i morti in un
silenzio perfetto. E poco a poco si tacciono anche le
memorie più dolci, nel loro inesorabile andare alla deriva
nella distanza che tutto raccoglie, e gentile sotterra.
Tacciono, le stelle ignare di ogni pena e tace l’oscurità del
cielo, grande occhio cieco e stupefatto in cui risuonano i
fantasmi di infinite preghiere.
Anche questi silenzi tacciono nel silenzio del Tutto.
Eppure è proprio dalla crudeltà di questi che sovente si è
note spinti a trovar sollievo e rifugio nella musica, quasi che il
99
Ivi, p. 307. suo canto potesse offrire un rimedio alla violenza della
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solitudine, alla tortura di ciò che si nega alla parola. E non Una considerazione troppo sbrigativa della definizione
si tratta semplicemente di un rimedio qualunque, non è classica del male come privatio boni, finirebbe certo per
una semplice distrazione, la musica. Accade infatti nel- sollevare perplessità circa la sua pregnanza: pensare il
l’evento musicale, come il miracolo di una riconciliazione: male come privatio non sarebbe forse un modo per dimen-
i demoni innominabili che non si lasciavano illuminare ticarne la concretezza o addirittura per non pensarlo pro-
dal dire, come ammansiti prendono ad ascoltare, e lo spa- prio? Ma dire che il male e il dolore trovano la loro essen-
zio esausto del vuoto torna abitato almeno dal risuonare za nella figura della mancanza, dell’assenza, dell’astrazio-
del canto di quel deserto. ne e dell’isolamento, non è affatto un modo per “privare
Però anche la musica infine tace e dietro di sé lascia solo di realtà” il male, né toglie nulla alla sua crudeltà, anzi, è
il pensiero cattivo che fa eco e ripete: anche la musica proprio quando si deve pensare fino in fondo questa cru-
tace, ora tornano i silenzi terribili. E’ questo il limite del deltà, è proprio innanzi al male supremo, che la parola,
rimedio, si pensa: dura finché dura. E poi, di nuovo il per riuscire a dargli voce, non può che prendere a parlare
medesimo dolore: sordo. dell’isolamento, dell’assoluta privazione, cercando di dire
Ma qual è poi l’essenza di questo dolore? Qualcosa si la positività propria del negativo:
nega, qualcosa non c’è. Anche quando c’è qualcosa di
troppo, in realtà il dolore nasce altrove, dal venir meno di considerate se questo è un uomo/ che lavora nel fango/ che
qualcos’altro che consentirebbe a quel “di troppo” di non 122 123 non conosce pace/ che lotta per mezzo pane/ che muore per
esser tale: manca lo spazio giusto, manca il giusto rappor- un sì o per un no./ Considerate se questa è una donna,/ senza
to, per questo qualcosa è “di troppo”, e fa male. E ciò che capelli e senza nome/ senza più forza di ricordare/ vuoti gli
si nega non si limita semplicemente a non esserci, non è occhi e freddo il grembo/ come una rana d’inverno100.
affatto un puro nulla. Il nulla non esiste, e nemmeno può
darci pena. Ciò che invece può dar pena è ciò che esiste Quanto più si fa astratta la considerazione di qualcosa,
nel modo privativo dell’assenza, della mancanza. Diciamo quanto più il pensiero la isola e ne fa un assoluto, tanto
meglio: il dolore nasce quando qualcosa, che intrattiene meno quella cosa si differenzia da un puro nome, tanto
col nostro essere una relazione vitale, si astrae da tale rela- meno si distingue dal niente. E la vita di chi appena si
zione, si tira fuori, lasciando appunto solo il vuoto della distingue da un puro niente, la vita di una nullità, è certo
sua mancanza, o, meglio, la relazione resta sì tra noi e decisa semplicemente «con un sì o con un no», giacché
quel certo termine vitale, ma posto solo in astratto. In tale appunto non conta niente, non importa a nessuno. La cru-
astrazione abita la privazione: il termine è posto ma in deltà suprema, quella banale e indifferente al male che
modo che per noi c’è solo la sua assenza, quel termine, compie, nasce solo dal non vedere il male stesso, giacché
nella sua concretezza, sta invece altrove, lontano, e a noi la vittima di questo male è a tal punto scarnificata dal suo
manca. E la privazione esiste, non è un niente, e sa farsi essere, a tal punto imprigionata nell’assenza, da non
sentire del pari di ogni altro essente, se non di più. Si potersi mostrare nemmeno più come una vittima. In que-
potrebbe giungere a dire: l’essenza del dolore è l’isolamen-
to, che tiene lontano e altrove ciò che invece ci abbisogne- note
100
rebbe per sostenerci nel nostro esistere. P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1958, esergo.
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sta figura suprema del male, in fondo, semplicemente si è riconoscimento e la denuncia, la consapevolezza appunto, di
preso qualcuno e si è iniziato a spogliarlo: degli averi, tale astrattezza. Un conto è porre la parte come astratto tout
degli abiti, della sua storia, della sua voce. E ora «consi- court, altro conto è porre la parte astratta sapendo che è
derate se questo è un uomo». appunto un astratto, ossia resta comunque concretamente
Ma se sempre qui, nell’isolamento e nel pensiero astratto, determinata in connessione al Tutto dal quale è stata trat-
sta la radice di ogni dolore, non è allora un caso che qual- ta via. Nella musica, l’isolamento in cui si radica il dolore
cosa come la musica, e proprio la musica, sembri poter si mostra in questo secondo modo: appaiono sì la solitudi-
offrire un rimedio, o un sollievo almeno. Si tratterà però ne, il silenzio e la sofferenza, ma non come degli assoluti,
di comprendere che la natura di tale sollievo non consiste giacché restano avvolti proprio dalla negazione di ogni
in una sorta di rifugio ove nascondersi dalle brutture del assolutezza e quindi pure restano connessi essenzialmente
mondo, quanto piuttosto nel farsi innanzi di quello spa- a quell’orizzonte in cui la lontananza e la privazione di cui
zio originario in cui il mondo e le sue brutture possono sono portatori si spengono insieme a ogni isolamento,
trovare qualcosa come la loro verità. ritrovando la connessione concreta a ciò che mancava101.
S’è infatti iniziato a vedere che l’essenza della musica ha a Così come il buon medico deve conoscere a fondo ogni
che fare con una relazionalità assoluta, dove non permane malattia ma non per questo deve anche essere malato, allo
nulla di separato: il silenzio stesso non è qui mancanza ma stesso modo la musica può essere pharmakon perché può
la concreta presenza del Tutto come tale. Ciò significa che la 124 125 farsi evento di ogni dolore, ma in questo evento ogni dolore
musica è, essenzialmente, la più radicale e concreta negazione non si fa mai innanzi come un puro astratto, quanto inve-
di ogni isolamento. Sembra una formula sterile e vuota, ma ce come ciò che appunto viene negato in quanto astratto:
non lo è: la musica è la concreta negazione di ogni isolamento. il provenire e il tornare dell’evento nel silenzio del Tutto lo
Si tenga a mente che un conto è l’isolamento come con- circonda di quel senso di libertà che sa sottrarre la soffe-
cetto astratto e un conto è l’isolamento come oggetto di renza, che pure accade, alla condanna dell’assoluto. In
una negazione. Nel primo caso l’isolamento pretende
porsi incondizionatamente, come un assoluto che incom- note
101
be nel suo doloroso silenzio, nel secondo invece, questo Non ci si può esimere per lo meno dal ricordare che già da
stesso doloroso silenzio è posto in relazione a quell’oriz- qualche tempo la filosofia ha iniziato a pensare il dolore come
zonte che avvolgendolo e racchiudendolo in sé lo mostra la contraddizione di ciò che è posto astrattamente e isolatamen-
appunto come un’astrazione, ossia come qualcosa di muti- te dalla totalità cui appartiene, ma pure ha iniziato a pensare la
lo e sofferente delle sue mutilazioni. Si potrebbe dire che necessità di quel luogo dove ogni contraddizione è tolta.
Emanuele Severino chiama questo luogo «la Gioia» (cfr. E.
la prima figura dell’isolamento esiste come considerazio- Severino, Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980, pp. 581-
ne astratta della seconda: l’isolamento assoluto si dà quan- 597; Id., La Gloria, Adelphi, Milano 2001. Per la dialettica tra
do della negazione dell’isolamento assoluto non si vede “astratto” e “concreto”, cfr. anche E. Severino, La struttura ori-
più la negazione, ma solo l’isolamento assoluto stesso. ginaria, Adelphi, Milano, pp. 41-47; vedi anche Il solido cuore
La musica, in quanto negazione concreta di ogni isolamen- della verità, cap. 2). Alla luce di quanto qui argomentato si
to, conosce ogni isolamento e lo ha in sé, ma lo ha in sé non potrebbe forse iniziare a pensare che la musica sia qualcosa
nella sua astrattezza, ma in essenziale connessione con il come l’apparire concreto della Gioia.
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questo senso, la musica è eterna promessa, giacché non eliminare, nella convinzione che così sarà eliminando
solo conosce ogni soffrire ma sa anche mostrare adempiu- anche il dolore stesso. Ma un pensiero che tutto calcola e
ta la speranza che risolve quel soffrire restituendolo a ciò isola non può certo avvedersi che la radice essenziale del
da cui è separato. Eterna promessa non già nel senso di male sta proprio nell’isolamento calcolante. Del resto,
qualcosa che ancora non s’è realizzato, ma, al contrario, in anche quando, con autentico spirito romantico, si giunge a
quanto voce del Tutto, come qualcosa di già da sempre dire che il dolore è pur sempre necessario al conseguimen-
compiuto e di cui, piuttosto, gli abitatori del mondo, to di un fine supremo, che bisogna soffrire per essere dav-
chiusi nel cerchio della loro dolorosa solitudine, assai di vero felici, si pensa il male come uno strumento scomodo
rado sanno o vogliono avvedersi. ma tuttavia indispensabile al conseguimento del bene, cioè
Non si dimentichi infatti che la musica in sé non appar- subordinato a questo. Però nel Tutto, non c’è una gerarchia
tiene a nessun mondo, ma è già da sempre di più di ogni tra bene e male, tra dolore e felicità, l’una non ha più valo-
mondo. Non si tratta di uno strumento di rappresentazio- re dell’altro: il silenzio è sempre il medesimo, anche se tal-
ne, un linguaggio tra gli altri al servizio di qualcuno. La volta è quello di uno sguardo che sussurra d’amore parole
musica non è un mezzo di informazione, ma l’evento grazi al segrete, e tal’altra è uno sguardo gelato nell’indifferenza e
quale si fa avanti qualcosa come la realtà. È questo un nell’estraneità. In questo senso, per contro, ogni evento lieto
modo originario in cui il Tutto parla di sé. E se il mondo giunge circondato da quel medesimo silenzio che l’avvolge
ha l’impressione che quella parola gli parli e lo racconti, al 126 127 con la libertà di ciò che non è condannato alla solitudine
punto da credere di esserne esso stesso l’autore e capace di dell’assolutezza, e gli ricorda invece la sua connessione
disporne a suo piacere, ciò accade perché questa parola non essenziale con ogni pena che pure abita il Tutto.
è al servizio di qualcuno e della sua singolarità, e portan- La musica, quando si fa evento del dolore, lo mostra pro-
do voce della contrada nella sua interezza, dà anche voce a prio in questo modo: non un demone onnipotente, ma un
ogni suo abitante, a ogni scorcio, a ogni sentiero. abitatore del Tutto, che con tutto il resto spartisce lo spa-
Non si tratta affatto di togliere il dolore, di annientarlo. Al zio della medesima contrada. Nel suo accadimento musi-
Tutto appartiene di diritto ogni sofferenza, ogni violenza, cale, il dolore non viene quindi alleviato in quanto tale,
ogni bruttura. La musica stessa può anche essere bruttura e ma viene piuttosto privato della sua assolutezza, gli viene
violenza, volgarità e banalità. Forse non s’è ancora sottoli- sottratta la possibilità di dire a chi soffre “tu sei questo e
neato abbastanza che l’evento musicale non è tale in quanto soltanto questo, oltre questo nient’altro”. Sta qui la cle-
abbia a che fare con qualcosa come il “bello” o menza della musica, conoscere quella parola silenziosa che
l’”armonioso” o il “consolatorio”, questi sono tratti che pos- sempre dice: tu sei anche questo, oltre a tutto il resto. Nel
sono caratterizzare un certo evento, ma non competono neces- dire dell’evento musicale il dolore stesso trova la sua verità
sariamente all’esser-evento in quanto tale. Il dolore, così ossia viene restituito al libero senso dell’infinito che lo
come ha ben poco a che fare con il puro nulla, così pure non pone in quanto parte appartenente ma pure irriducibile
è qualcosa che debba essere annientato. Il pensiero calco- alla Totalità. Se è infatti il silenzio che danna, pure è di
lante tende a concepire ogni sofferenza come uno stato nuovo il silenzio che libera dal soffrire, silenzio musicale
fisiologico, riducendolo a un certo numero di sintomi, che che canta del male per ciò che è: incubo realissimo che
vengono isolati come tali e che singolarmente si cerca di chiude fuori di sé il suo risveglio e la sua salvezza.
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4. Fugato nostra realtà, mostra a noi stessi l’essenza del nostro esser-
liberi, il senso dell’essere, che già di per sé è la libertà del-
Se teniamo fermo che l’accadere dell’evento musicale abbia l’infinito, di ciò che non è rinchiudibile nel questo.
il senso del provenire-dal silenzio del Tutto, allora potrem- La stessa volontà di potenza, quando le accadesse di esser
mo dire che l’accadere dell’evento musicale è un modo in mostrata da un certo evento musicale, apparirebbe come
cui accade la libertà. Libertà che qui non va intesa né ha a irriconoscibile a se stessa: si mostrerebbe come follia che
che vedere con un poter-fare o con una certa potenza di cui pretende di essere ciò che nega il senso dell’essere, impo-
una qualche volontà può disporre a suo piacere. Libero è nendo l’isolamento a ciò che è reale nella misura in cui
piuttosto ciò che non si isola mai in un questo-e-solo-questo resta avvolto nell’abbraccio dell’orizzonte che tutto cir-
ma resta sempre consapevole della connessione essenziale conda. E follia è precisamente l’esser persuasi che la real-
che intrattiene con tutto il resto. tà sia tutt’altro da ciò che è. Follia che non è impossibile
Volontà di potenza è appunto ciò che domina il pensiero cal- come tale, ma è tale proprio perché crede e ha fede nell’im-
colante, intento e dedito a scomporre la realtà in entità possibile e lo pone come reale: impossibile è che le cose
separate, onde poter valutare per ciascuna quante possibili- vengano realmente isolate, ma non è impossibile agire nella
tà offre, ossia in che misura è in grado di accrescere la convinzione che le cose possano esserlo. Così è certo
potenza stessa. Ma l’evento musicale non è creato dal volere impossibile camminare nell’aria, ma non è impossibile
di qualcuno, e il fatto di essere pensato come una potenzia- 128 129 fare un passo oltre il ciglio del dirupo, nella convinzione
lità tra le altre cela il fatto che, propriamente, la musica che l’aria lo sosterrà come fosse terra.
non si fa e che l’ascoltare stesso essenzialmente non è un Mentre però la filosofia si limita ad affermare tutto questo,
operare ma semmai un modo di essere. Con la musica, come ossia ne mostra la verità in generale, l’evento musicale
con la filosofia, come pure con la verità, non si ha nulla da esemplifica nella concretezza di suo ogni singolo accadere
fare, anzi, non si può fare nulla: si è. Questo “è” indica pre- l’impossibilità materiale dell’isolamento e con ciò il senso
cisamente un rapporto, una relazione originaria, che come della libertà. Il pensiero calcolante e la sua volontà di poten-
tale non viene quindi istituita dall’imposizione di un vole- za, sono tuttavia tanto contrari alla filosofia quanto poco
re che crede così di conseguire un ulteriore potenziamen- capaci di ascoltare la musica in quanto evento. Anzi, posti
to e ampliamento delle sue possibilità d’azione. di fronte a questi discorsi, scrollano infastiditi le spalle,
Quando l’evento musicale accade, si fa innanzi il senso stes- dicendo, nel migliore dei casi, che sono soltanto discorsi:
so della libertà, dell’esser già da sempre più e oltre ogni parole, questo e nient’altro. E innanzi alla sordità la musica
singolarità astratta e isolata. L’evento raccoglie e mostra non può più nulla, per quanto continui a risuonare, ogni
uno scorcio sul Tutto e in tale scorcio sovente si mostra suo evento accadrà invano, come testimonia fin troppo
anche qualcosa degli uomini, del loro sentire, del loro bene il grande amore musicale che sempre nutrì la
patire. Speranze e trivialità del mondo ritornano così a chi Germania Nazista. Ed ecco proprio qui il problema: come
ascolta, ma in modo che non sono più considerabili isola- guarire dalla malattia dell’ascolto.
tamente: in quello scorcio che l’evento porta innanzi la La sordità stessa è isolamento e, del pari della follia, è
realtà delle cose, ossia il loro non esser mai cose-in-sé. E qualcosa che, nella sua realtà, è precisamente il contrario
nella misura in cui quell’evento parla e racconta anche la di ciò che crede di essere. Ma la questione sta nel pensare
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come può accadere, per chi vi si trova dentro, immerso in farsi innanzi per ciò che effettivamente è, nella sua essen-
tale isolamento, come può accadere di trovare una via za. Non altrove che nel filosofare, infatti, la parola pren-
d’uscita. Purtroppo, però, la risposta non può essere rassi- de a testimoniare la necessità dell’apertura, dell’ascolto: la
curante: di certo chi giunge all’isolamento estremo finisce necessità della libertà. Proprio in quanto la parola del filo-
inevitabilmente con l’autodistruggersi, non foss’altro per- sofare è parola interiore, che il pensiero ha da serbare e far
ché, oltre un certo limite, la realtà non si adatta a ciò che circolare in sé, può allora anche preparare un’effettiva aper-
la follia vuole, e quando questa pretende l’impossibile, la tura, donando la consapevolezza di cosa sia l’ascolto stes-
lascia cadere nel precipizio che ha evocato. Ma ciò signi- so e di cosa venga ascoltato, cosa accada nell’evento del sen-
fica che esiste pure una fascia intermedia, oseremmo dire tire. In quanto pensiero, la filosofia gioca ad armi pari col
“quotidiana”, dove lo scarto tra follia e realtà non è anco- pensiero calcolante e, là dove riesce a vincerne le resisten-
ra esiziale e quindi dove la follia può sopravvivere nella ze, può anche guadagnare quello spazio libero in cui qual-
sua illusione. Qui l’isolamento non giunge a togliere se cosa come la musica può tornare a farsi sentire.
stesso autodistruggendosi in ciò che è stato isolato, ma Se ciò è valido, allora la filosofia stessa è essenzialmente
riesce a permanere, apparentemente indisturbato. pensabile come qualcosa di analogo a una partitura, cioè
Però, è proprio lì dove isolamento e follia non sono ancora un testo dove è scritto non un certo evento ma il silenzio del
radicali che nemmeno la sordità è già divenuta assoluta e Tutto, il logos che in sé raccoglie ogni essente, nulla
qualcosa ancora si riesce a sentire. Si tratta dunque di con- 130 131 lasciando abbandonato. Ancora una volta, allora, si tratta
durre verso un ascolto sempre migliore, sempre più libero di «sciogliere la rigidità e rimettere in movimento» i
di cogliere il senso dell’infinitudine di cui ogni evento musi- segni di questo testo, vale a dire, in buona sostanza, torna-
cale è latore. Potremmo dire che si tratta in fondo di educa- re a pensare, dove questo pensare non sia più ridotto al
re, cioè condurre fuori e condurre verso altrove rispetto alla mero calcolo né sia fatto succube di una volontà che infi-
prigione della solitudine: educare alla libertà. nitamente vuole se stessa e il proprio potenziamento.
Platone pensava che la musica fosse uno degli strumenti Tornare a pensare, piuttosto, proprio il senso di quel logos
primi ed necessari all’educazione dell’uomo giusto e che di cui la filosofia ai suoi albori si disse in cerca, tanto che
fin da bambini i futuri abitanti della polis dovessero esse- ancora ne serba traccia almeno nel nome. Ma siamo allo-
re cresciuti ascoltando musica consona allo sviluppo di un ra di nuovo al punto di prima: tornare a pensare è torna-
carattere moralmente integerrimo, requisito necessario re ad ascoltare il senso delle parole, senso che si mostra
anche per chi, in seguito, avrebbe dovuto eventualmente nella misura in cui le si tiene raccolte insieme e non le si
essere iniziato alla filosofia102. Si mediti però se non sia da isola entro la rigidità di definizioni pronte per l’uso.
sostenere piuttosto il contrario e cioè che la filosofia, in Ascoltare, che è esso stesso un modo della relazione, in sé
quanto esperienza di un pensiero non calcolante e non iso- estraneo a ogni astratta scissione tra soggetto e oggetto,
lante, non sia proprio ciò che educa all’ascolto, dove ascol- ma legame originario che può tanto far accadere l’evento
tare è appunto aprirsi e quindi consentire a ogni evento di musicale, quando sia ascolto dell’unità di una certa mol-
teplicità, e tanto far pure accadere il silenzio del Tutto,
note quando si faccia ascolto dell’intero ove non risuona più
102
Cfr. Platone, Repubblica, 398c e seguenti. nessun elemento come tale. E quando nella sera dal mare
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si leva il mormorare delle onde e il canto dei gabbiani, e PARTE SECONDA


da riva vengono le voci dei pescatori e batte l’ora una
campana di lontano, mentre altri mille suoni scendono La concezione heideggeriana della verità in
dalle valli come brezze, ebbene, tutto questo, a saperla Essere e tempo
ascoltare, è musica, anche questo è un certo evento. Anzi,
può tanto essere un evento, quanto pure, qualora l’ascolto “Io sono nato per questo, e per questo sono
trascenda ogni voce singola e la dimentichi come tale, venuto al mondo: per testimoniare della verità.
canto del Tutto. Del resto, che la musica accada solo in un Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce”.
dato luogo e in un dato contesto ad opera di date figure Pilato gli disse: “che cos’è la verità?”.
che fanno qualcosa come “il musicista di professione”, (Giovanni, 18, 37-38)
tutto ciò ha senso solo come rappresentazione astratta con
cui il pensiero calcolante si affatica a imprigionare la 1. Il problema della verità
musica in un certo mondo, sottomettendola a certe leggi,
quantificandola secondo certi imperativi, ad esempio Quid est veritas? O, meglio, cosa significa la parola “veri-
quelli del profitto o del piacere o del divertimento, ricon- tà”? E se vi possono essere diversi significati, perché sce-
ducibili, ancora, alla volontà che indefinitamente vuole la gliere l’uno piuttosto che l’altro? Di certo, in sede di defi-
sua potenza, ossia l’ampliamento della quantità delle sue pos- 132 133 nizione, “verità” in qualche modo non è ancora una paro-
sibilità. Ma ciò vuol anche dire che allora la musica è là la compresa nel nostro lessico, sicché non si può dire che
dove qualcuno è capace di ascoltare, e nella misura in cui la definizione adottata sia la “vera” definizione di “verità”.
ne è capace, ossia in grado di pensare questo ascolto entro Dunque ogni significato scelto sarà arbitrario o, per lo
il senso autentico della libertà, al di fuori dei giochi meno, convenzionale? In base a cosa si potrà stabilire il
imposti da ogni follia e da ogni isolamento. senso di questa parola?
Si tratterebbe allora di un educare ad ascoltare che nasce Il problema della verità sembra a tutta prima configurarsi
dall’educare a pensare, e di un educare a pensare che nasce come un problema semantico. Questo problema non è rela-
dal saper ascoltare. Questo circolo non è però tanto poco tivo tanto all’uso di fatto che noi facciamo della parola
vizioso quanto poco l’orizzonte è una prigione. Come “verità” e al significato specifico che le attribuiamo.
l’orizzonte infatti, il suo muoversi è un procedere innan- Piuttosto, la questione verte sulla legittimità dei significa-
zi, su quel sentiero che ad ogni passo fa emergere dalle ti che siamo soliti impiegare. Perché preferirne uno piutto-
distanze del cielo uno scorcio nuovo sulla contrada che sto che un altro? Dobbiamo forse costruire di volta in volta
attraversa, sulle voci dei suoi abitanti, e sul miracoloso una “teoria della verità”, computarne le aporie, onde sce-
silenzio che certe sue notti conoscono. gliere quella migliore? O quella più utile? Senz’altro, dice-
vamo, non si potrà mai scegliere quella più “vera”103.
note
103
Una simile impostazione, in realtà, più che chiarire il pro-
blema della verità conduce alla sua stessa dissoluzione, cfr. in
merito Un dogma dell’ontologia analitica, cap. 2.
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Innanzi a tali interrogativi non è certo possibile eludere o la filosofia ha congiunto verità ed essere»105. Di più, quan-
ignare il contributo offerto dalle riflessioni di Martin do all’alba del filosofare Parmenide scoprì l’Essere, lo riten-
Heidegger, e soprattutto, come apparirà chiaro dal segui- ne in qualche modo tutt’uno con la verità, che era appun-
to, da quelle sviluppate in Essere e tempo. L’interesse del to “verità dell’Essere”. Non ci sorprende allora che
discorso heideggeriano appare già dal modo in cui viene Heidegger, riproponendo dopo venticinque secoli la mede-
riformulata la questione, così che suoni pressappoco: per- sima questione, si esprima in questi termini:
ché, in generale, è possibile che vi sia un certo significato
della parola “verità”? La domanda è così spostata dal se la verità ha a buon diritto una connessione originaria con
significato in sé, alle condizioni trascendentali per cui un l’essere, il problema della verità finisce per cadere nell’am-
significato in quanto tale è possibile. bito della problematica ontologica fondamentale. Ma, in
La trattazione del tema della verità è svolta tematicamen- tal caso, non dovremmo aver già incontrato questo feno-
te nel §44, l’ultimo della prima parte dell’opera, dedica- meno nel corso dell’analisi fondamentale preparatoria, del-
ta all’analitica esistenziale, ovvero allo studio delle strut- l’analitica dell’Esserci? In quale connessione ontico-ontolo-
ture ontologiche in cui si articola l’esistenza dell’Esserci, gica sta la “verità” con l’Esserci e con quella determinazio-
cioè dell’essere umano. Ciò non avviene a caso: infatti, a ne ontica di esso a cui demmo il nome di comprensione
prescindere da come poi si arrivi a intenderla, non è altri dell’essere? Partendo da quest’ultima, sarà forse possibile
che l’uomo stesso a porre la domanda sulla verità e quin- 134 135 chiarire perché l’essere è necessariamente congiunto alla
di egli dovrà essere siffatto da poterla porre. L’Esserci esi- verità e questa a quello? Non è possibile eludere queste
ste in modo per cui gli è possibile chiedere “quid est veri- domande. Se l’essere “è congiunto” alla verità, il fenomeno
tas?” Proprio perché pone la questione, è necessario che la della verità deve essere già stato trattato nelle analisi pre-
possibilità di questa domanda appartenga originariamente cedenti, magari non esplicitamente e sotto altro nome106.
alla sua struttura ontologica.
Il problema si estende se proviamo a pensare che la verità Tuttavia, il fare della verità un problema così articolato e
abbia una qualche relazione con l’Essere, soprattutto con- complesso potrebbe sembrare eccessivo giacché, in fondo,
siderando come non sia affatto chiaro che cosa significhi esiste pure un certo significato con cui tradizionalmente
quest’altra parola, “Essere”, quale ne sia il senso. Tutto Essere la parola “verità” è stata intesa e che non si ha ragione di
e tempo, se pure forse fallisce in questa ricerca, mostra sen- ritenere illegittimo. Eppure che esista una concezione tra-
z’altro l’ineludibilità del problema e la necessità di una sua dizionale della verità, ci dice solo che l’Esserci è siffatto da
riproposizione104. Del resto, giacché, come di fatto usiamo poter comprendere qualcosa del genere. Ma quale sia la
la parola “verità” in un suo preciso significato anche prima struttura ontologica in cui si radica la possibilità per
di porci il problema filosofico della sua semantizzazione, l’Esserci di avere a che fare con la “verità” resta da chiari-
così non possiamo ignorare che «fin dai tempi più lontani re. La storia dell’Esserci e del modo in cui ha considerato

note note
104 105
Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it., Longanesi, Milano M. Heidegger, cit., § 44, p. 263.
106
1971, § 1, pp. 17-19. Ivi, p. 264.
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la “verità” ci offre un dato che porta a chiedere: perché ne mai elaborata. Di fatto è quella che s’è tramandata e
l’Esserci ha attribuito tanta importanza alla parola “veri- che, comunemente, è maggiormente impiegata nella quo-
tà” e perché ha potuto attribuirgliene così tanta? In qual- tidianità media. Il problema sarà, prioritariamente, risali-
che modo, l’essere dell’Esserci pare siffatto da consentir- re all’origine, cioè alla condizione di possibilità che ha
gli di incontrare qualcosa che lo induce a parlare di veri- permesso all’Esserci di veder consolidato il senso della
tà: questo qualcosa può chiamarsi il fenomeno originario “verità” in quanto adaequatio.
della verità, cioè quell’esperienza che ha dato origine al Leggiamo quindi:
suo dire e che resta in principio, cioè a monte di ogni tra-
dizione. Senza un fenomeno originario, non potrebbe esservi tre tesi caratterizzano la concezione tradizionale dell’es-
nessuna concezione tradizionale della verità, né questa senza della verità e l’interpretazione che se ne dà abitual-
parola avrebbe bisogno d’essere impiegata con tanta fre- mente:
quenza e rilevanza come di fatto avviene. 1) il luogo della verità è l’asserzione (il giudizio).
Il piano dell’indagine heideggeriana pare quindi piutto- 2) L’essenza della verità consiste nella “adeguazione” del
sto preciso: giudizio al suo oggetto.
3) Aristotele, il padre della logica, ha considerato il giu-
l’analisi muove dal concetto tradizionale di verità, tentando dizio come il luogo originario della verità e ha introdotto
di chiarirne i fondamenti ontologici (a). Sulla scorta di 136 137 la definizione della verità come “adeguazione”108.
questi fondamenti, sarà posto in luce il fenomeno origina-
rio della verità. In base ad esso si stabilirà la provenienza Proprio perché si ritiene che il luogo della verità sia l’asser-
del concetto tradizionale di verità (b). La ricerca farà vede- zione, si può pensare la verità come un predicato e si può
re che al problema dell’«essenza» della verità è legato cercare un criterio in base al quale regolarne la predicazio-
necessariamente quello del modo di essere della verità. ne. L’adaequatio può essere allora considerata il criterio tra-
Contemporaneamente avrà luogo la chiarificazione onto- dizionalmente adottato. In quest’ottica, ed entro questi
logica del senso dell’affermazione che «la verità c’è», e del limiti, possiamo far rientrare nella concezione esaminata da
carattere della necessità in base alla quale «presupponia- Heidegger anche altre eventuali “teorie della verità”, ovve-
mo necessariamente» che la verità «c’è» (c)107. ro tutte quelle impostazioni che, trattando la verità come

Ora, per Heidegger, tradizionalmente la verità è stata inte-


note
sa come adaequatio intellectus et rei. Questa tradizione risa- 108
Ivi, p. 265. Questa impostazione del problema si avvale
le a Platone e si radica soprattutto in Aristotele, passa per
certo dei risultati di quanto Heidegger aveva già avuto modo di
Tommaso, restando presente in Kant e, nel Novecento, è sviluppare nel suo corso Logik. Die Frage nach der Wahrheit
riproposta, ad esempio, da Wittgenstein. La questione (Logica. Il problema della verità, trad.it., Mursia, Milano 1976),
non riguarda se questa sia stata o meno l’unica concezio- tenuto nel semestre invernale 1925/26 e dove, oltre ad affron-
tare i problemi sollevati dallo psicologismo in merito alla con-
note cezione della verità (§ 6-7), sviluppa approfonditamente anche
107
Ivi, p. 264. la genesi della concezione di adaequatio in Aristotele (§ 12-14).
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un predicato, presuppongono inevitabilmente che la verità possibile solo se l’asserzione pone in luce l’ente di cui
stessa esista unicamente come fenomeno linguistico o, più parla, per come esso è: in tal caso diremo che essa è vera-
generalmente, come fenomeno proprio del logos apofantico. mente adeguata all’ente.
Nell’adaequatio l’asserzione viene considerata in base a ciò L’esser-vera di un’asserzione significa dunque il suo saper-
a cui essa si riferisce e viene considerata vera se afferma essere-scoprente, cioè il suo mostrare l’ente di cui dice nel
proprio l’esistenza di quell’ente che intende asserire e se suo proprio essere, per come esso è e non altrimenti. Da
questo esiste effettivamente proprio nel modo in cui essa ciò segue che l’adaequatio presuppone nel suo significato
lo afferma. L’asserzione è adeguata alla cosa se rappresenta la capacità di essere-scoprente. Ovvero: la verità può
la cosa stessa per come essa è: in questo caso l’asserzione è significare l’adaequatio intellectus et rei solo perché, origina-
vera e questo giudizio è giustificato, dove giustificazione riamente, indica il manifestarsi dell’ente nel suo essere.
è sinonimo di verificazione. Questo significato è quello che era originariamente pro-
prio della parola greca alétheia, tradotta poi col termine
L’asserzione è un essere-per la cosa stessa. E che mai giu- latino veritas:
stifica allora la percezione? Nient’altro che si tratta pro-
prio di quell’ente che si intendeva nell’asserzione. Ciò che la traduzione della parola «verità», e più ancora le defini-
viene verificato è che l’asserente essere-per l’asserito è un zioni concettuali e teoretiche di questa espressione, vela-
far vedere l’ente, che l’asserente essere-per scopre l’ente 138 139 no il senso di ciò che i greci posero «ovviamente» a base
«per» cui esso è. Ciò che viene giustificato è l’essere sco- del significato di alétheia, movendo dalla comprensione
prente dell’asserzione. [...] Verifica significa: manifestarsi preontologica che ne avevano. Il ricorso ad argomenti
dell’ente nella sua identità. La verifica ha luogo sul «fonda- come questi deve guardarsi dalla mistica della parola; tut-
mento» dell’automanifestarsi dell’ente. Il che è possibile tavia il compito della filosofia, in ultima analisi, è quello
solo a patto che il conoscere asserente e verificante sia, in di conservare la forza delle parole più elementari in cui
virtù del suo senso ontologico, uno scoprente essere-per l’en- l’Esserci si esprime, impedendo che siano livellate sul
te reale stesso. Che un’asserzione sia vera significa: essa piano dell’incomprensibilità ad opera dell’intelletto
scopre l’ente in se stesso: enuncia, manifesta, «lascia vede- comune e che diano così luogo a problemi apparenti. [...]
re» l’ente nel suo esser-scoperto. Esser-vero (verità) dell’as- La definizione della verità che andiamo sostenendo non ha
serzione significa esser-scoprente109. per nulla il significato di uno sconvolgimento della tradizio-
ne, ma della sua appropriazione originaria; tanto più se ci
Un’asserzione può essere adeguata all’ente a cui si riferisce riuscirà di far vedere che e come la teoria tradizionale
solo se l’ente si manifesta in quanto tale. Ma possiamo dovette giungere all’idea della adeguazione proprio sul
giudicare che un’asserzione sia effettivamente adeguata, fondamento del fenomeno originario della verità110.
cioè verificarla, solo se questa ha la capacità di mostrarci
l’ente di cui parla e rendercelo manifesto. L’adaequatio è
note note
109 110
Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 269. Ivi, p. 270.
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Verità significa dunque alétheia: dis-velamento, esser-sco- Il fenomeno stesso dell’apertura dell’Esserci è nient’altro
prente. La verità è il disvelarsi dell’ente nel suo essere. In che il fenomeno originario della verità. Ma l’Esserci, essen-
quanto disvelamento, la verità è il luogo dove accade il zialmente, non è altro che la sua stessa apertura, ovvero il
manifestarsi dell’ente che si mostra per ciò che è. Tutto ciò suo -ci. L’analitica esistenziale sviluppata da Heidegger in
che sta in questo luogo è siffatto da poter scoprire l’ente, tutta la precedente parte di Essere e tempo non era altro,
disvelarlo. Il logos appartiene a questo luogo e in virtù di allora, che l’analisi del significato di questa apertura,
ciò può asserire il vero. Proprio perché, anticamente, si ovvero il senso che ha per l’Esserci essere il suo proprio -ci:
ritenne che l’esser-scoprente fosse caratteristica originaria
del logos, si fu parimenti indotti a ritenere che il luogo della l’apertura è il modo fondamentale dell’Esserci in confor-
verità fosse il logos stesso. Ma la condizione di possibilità di mità del quale esso è il suo Ci. L’apertura è costituita dalla
ogni scoprimento, cioè di ogni alétheia in quanto tale, risie- situazione emotiva, dalla comprensione e dal discorso, e
de nell’accesso all’ente: solo perché l’ente ci è accessibile nel riguarda cooriginariamente il mondo, l’in-essere e il se-
suo essere noi possiamo scoprirlo, disvelarlo. Stesso. La struttura della Cura, in quanto avanti-a-sé
Che l’ente ci sia accessibile pare la cosa più ovvia. Tuttavia (esser-già-in-un-mondo) come esser-presso l’ente intra-
in questa ovvietà abita qualcosa di originario e inaudito: mondano, porta in sé l’apertura dell’Esserci. È con questa
ad essere accessibile non è questa o quella cosa considera- e in virtù sua che c’è lo scoprimento; il che significa che
ta in quanto cosa, utilizzabile e semplicemente sottoma- 140 141 con l’apertura dell’Esserci, è raggiunto il fenomeno più
no. Ad essere accessibile è la cosa in quanto essente, è il suo rigorosamente originario della verità. Ciò che fu precedente-
essere che si fa innanzi, disvelandosi e manifestandosi al mente detto riguardo alla costituzione esistenziale del Ci
logos della fenomeno-logia. Il problema del senso dell’Essere e relativamente all’essere quotidiano del Ci, concerneva
è intrecciato al senso che ha il disvelarsi dell’ente in quan- nient’altro che il fenomeno più originario della verità.
to essente: si può comprendere concretamente in cosa Poiché l’Esserci è essenzialmente la sua apertura, in quan-
consista il farsi avanti dell’ente in quanto essente solo to in se stesso aperto apre e scopre; esso è quindi essenzial-
quando sarà chiarito qual è il senso dell’esser essente e mente «vero». L’Esserci è «nella verità». Questa affermazio-
quindi dell’Essere stesso111. ne ha un senso ontologico. Essa non significa che l’Esserci
Che l’ente ci sia accessibile nel suo essere è, d’altro canto, , onticamente, sia sempre o ogni volta insediato «nell’in-
un diverso modo per dire che l’essere umano è siffatto da tera verità», ma che della sua costituzione essenziale fa
essere aperto all’ente in quanto tale: è un Esser-ci. Questa parte l’apertura del suo essere più proprio112.
apertura originaria, rendendo possibile l’accesso all’ente e
quindi il suo disvelamento è la condizione ontologica fon- In quanto originariamente aperto, l’Esserci è già da sempre
damentale che rende possibile la verità come alétheia. in un mondo: l’essere-nel-mondo è costitutivo della sua
apertura. Ma, per l’Esserci, l’essere-nel-mondo significa
note trovare il senso degli altri enti che lo circondano e che ori-
111
I limiti del discorso heideggeriano nel mostrare tale contenu-
to concreto diverranno chiari nel cap. 4, qualcosa invece di tale note
contenuto verrà presentato ne Il solido cuore della verità, cap. 2. 112
Ivi, p. 272.
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ginariamente gli sono accessibili, nella loro utilizzabilità. A questo punto, quindi, Heidegger pare aver chiarito la
L’apertura dell’Esserci gli rende accessibili gli altri enti nel provenienza della concezione tradizionale del vero presa
loro essere. Questi enti, però, innanzitutto e per lo più, in esame, trovando la sua condizione di possibilità nel
sono considerati dall’Esserci appunto come degli utilizza- fenomeno originario dell’apertura dell’Esserci, che porta a
bili, in vista dei progetti che l’Esserci appronta. L’ente con- intendere la verità nel senso originario dell’alétheia. La
siderato come utilizzabile è una semplice-presenza, ovvero verità intesa come alétheia è un esistenziale cioè una strut-
il significato dell’ente utilizzabile è semplicemente quello tura ontologica che caratterizza l’essere dell’Esserci in
di essere un ente presente nel mondo dell’Esserci e quindi quanto tale.
da lui impiegabile in base ai suoi fini e ai suoi criteri di L’Esserci è sempre il suo -ci, la sua apertura. Questa aper-
appagatività. L’essere stesso dell’ente intramondano è inter- tura è qualcosa in cui l’Esserci sta: solo in quanto sta nella
pretato come semplice-presenza, l’esistenza è colta come sua apertura, l’Esserci esiste. Per l’Esserci, dunque, esiste-
esser-presente nel mondo, il senso dell’essere è appiattito re vuol dire essere-nella-verità.
sul senso della progettualità che l’Esserci appronta in vista
delle sue possibilità di operare nel mondo in cui si trova. Possiamo formulare le seguenti tesi in merito al senso esi-
In virtù di questa interpretazione media e quotidiana che stenziale della proposizione: «l’Esserci è nella verità»:
l’Esserci dà del senso degli enti che la sua apertura gli della costituzione d’essere dell’Esserci è parte essenziale
rende accessibili, il discorso e l’asserzione sono considera- 142 143 l’apertura in generale. [...] Della costituzione d’essere
ti come enti utilizzabili semplicemente presenti, così dell’Esserci, e quale costitutivo della sua apertura, fa parte
come il logos. Il fenomeno dell’apertura permette quindi l’esser-gettato. [...] Della costituzione d’essere dell’Esserci
all’Esserci di giungere dal fenomeno originario della veri- fa parte il progetto, cioè l’aprente essere-per il proprio
tà all’idea dell’adaequatio: poter-essere. [...] Della costituzione d’essere dell’Esserci fa
parte la deiezione. Innanzitutto e per lo più, l’Esserci è
l’esser-scoperto dell’ente e l’esser-espressa dell’asserzione perso nel suo «mondo». La comprensione, in quanto pro-
cadono nel modo di essere dell’utlizzabile intramondano. getto delle possibilità di essere, si è smarrita in esso.
Ma poiché nell’esser-scoperto in quanto esser-scoperto-di... L’immedesimazione nel Si fa tutt’uno col predominio
persiste il riferimento alla semplice-presenza, l’esser-sco- dello stato interpretativo pubblico. Attraverso chiacchie-
perto (verità) diviene, da parte sua, una relazione sempli- ra curiosità ed equivoco, lo scoperto e l’aperto cadono nei
cemente-presente fra due semplici-presenze (intellectus e modi della contraffazione e della chiusura. [...] Essendo
res). Il fenomeno esistenziale dell’esser-scoperto, fondato l’Esserci essenzialmente deiettivo, esso, a causa della costituzione
nell’apertura dell’Esserci, diviene una qualità semplice- del suo essere, è nella «non verità»114.
mente-presente, caratterizzata ancora da un riferimento,
risolto però in una relazione semplicemente-presente.
La verità, in quanto apertura e scoprente essere-per l’ente
scoperto, si è mutata in verità come adeguazione fra due note
semplici-presenze intramondane. Ecco così dimostrata 113
Ivi, p. 276.
114
l’origine ontologica del concetto tradizionale di verità113. Ivi, pp. 272-273.
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Andrea Sangiacomo Scorci

In questo modo risulta chiarito in che senso tutta l’anali- quello fenomenologico in generale, non è affatto un discor-
tica esistenziale sviluppata precedentemente ha parlato so eminentemente argomentativo-deduttivo. Nel §7
della verità: da un lato analizzando il senso e il modo del- dell’Introduzione, si era chiarito perché la fenomenologia
l’apertura, dall’altro, nella misura in cui si è costituita dovesse essere assunta come metodo di trattazione della
come analisi della media quotidianità in cui l’Esserci è tematica ontologica fondamentale, cioè della ricerca del
per lo più deietto, trattando del modo in cui l’esser-nella- senso dell’Essere: «il fenomeno, ciò che si manifesta in se stes-
verità si offre come non-verità, cioè coprimento e celatez- so, sta ad indicare un modo particolare di incontrare qualco-
za, la concezione tradizionale stessa è un modo di tale sa»115, laddove, invece, il logos è un «lasciar vedere qualcosa
coprimento. È chiarito inoltre perché trattando del pro- nel suo essere assieme a qualcosa, lasciar vedere qualcosa in
blema dell’adaequatio non ci siamo posti il problema di quanto qualcosa. E di nuovo, poiché il logos è un lasciar vede-
come un asserto possa essere adeguato all’ente e scoprirlo re, per questo esso può essere vero o falso»116. Questo esser-
nel suo essere. Tale problema chiede ragioni, in definiti- vero del logos ha il significato di «trarre fuori l’ente di cui si
va, del fenomeno della significanza in base al quale un discorre dal suo nascondimento e lasciarlo vedere come non
certo segno linguistico può significare ovvero indicare e nascosto, scoprirlo. Corrispondentemente, l’“esser falso”, vuol
rimandare ad un altro ente. Le analisi heideggeriane dire ingannare nel senso di coprire»117. Il termine composto
mostrano ora come questo fenomeno sia radicato in quel- “fenomenologia” ha allora il significato di discorso concer-
lo dell’apertura e quindi come non sia possibile imposta- 144 145 nente il disvelamento di ciò che resta nascosto a partire da
re realmente una risposta circa il come della significanza al ciò che si manifesta come fenomeno. I fenomeni non sono
di fuori di una trattazione ontologica del fenomeno origi- altro che gli enti esistenti, accessibili all’Esserci in virtù della
nario della verità in quanto apertura. Il problema del come sua apertura. Ma ciò che questi enti nascondono, innanzitut-
è un problema d’ordine tecnico, diverso e successivo a quel- to e per lo più, è il loro essere, o, più precisamente, il senso di
lo della verità, problema che ha quindi ragion d’essere questo essere. Ente significa “cosa che è”, la fenomenologia è
solo se, preliminarmente, s’è chiarito quale sia lo spazio in l’incamminarsi del logos sulla via che conduce allo scopri-
cui colloca il suo fondamento, spazio che si sta mostran- mento del senso di questo “è”, non inteso come qualcosa di
do essere appunto il -ci dell’Esserci. altro o separato o unito solo occasionalmente alla “cosa”,
Ma si potrebbe obiettare: chiedere, in generale, perché quanto piuttosto come la sua stessa essenza.
l’Esserci sia siffatto da poter comprendere qualcosa come La fenomenologia si pone quindi come quel particolare
la “verità” pare in fondo una domanda oziosa, giacché pre- modo di incontrare l’ente che non lo considera in quanto
suppone la verità stessa. Il fenomeno originario della veri- questa specifica individualità ma proprio in virtù del suo
tà non è dimostrato o dedotto; esso, piuttosto, è dato per “è”. Fenomenologia, ontologia e ricerca della verità
assodato, considerato presente, sicché l’argomentare hei- dell’Essere sono dunque sinonimi:
deggeriano avrebbe già presupposto il suo risultato e
cadrebbe così in un circolo vizioso. note
E tuttavia il punto su cui occorre riflettere è proprio questo: 115
Ivi, p. 50.
se non si presupponesse la verità, non avrebbe nemmeno 116
Ivi, p. 53.
117
senso porne il problema. Il discorso heideggeriano, come Ibidem.
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l’essere può esser coperto così ampiamente da cadere nel- Ma il senso del discorso heideggeriano sta proprio qui: la
l’oblio e da far dimenticare il problema dell’essere e del presupposizione della verità appartiene al senso originario della
suo senso. La fenomenologia ha “preso” perciò come suo verità. È questo il risultato forse più rilevante cui giunge
oggetto tematico ciò che esige di diventare fenomeno nel la trattazione heideggeriana: la verità, intesa come aléthe-
senso più caratteristico, proprio in base al suo più intrin- ia, è qualcosa che va necessariamente presupposto e che ha
seco contenuto reale. La fenomenologia è il modo di rag- in questa presupposizione necessaria il suo significato,
giungere e di determinare dimostrativamente ciò che Ananke ci impone di assumere a priori l’alétheia. Ma quale
deve costituire il tema dell’ontologia. L’ontologia non è pos- sia il senso di questa Ananke all’interno del pensiero di
sibile che come fenomenologia. [...] Poiché il fenomeno, inte- Heidegger è parimenti il punto più problematico.
so fenomenologicamente, è sempre e soltanto ciò che
esprime l’essere, e l’essere è sempre l’essere dell’ente, il
progetto di ostensione dell’essere richiede in primo luogo
un approccio adeguato all’ente118.

Eppure, anche con queste precisazioni, si è solo chiarito


qualcosa di quale sia in Essere e tempo l’approccio al proble-
ma dell’Essere. Anzi, pare ora di aver semplicemente rinfor- 146 147
zato l’obiezione che prima si muoveva, giacché è lampante
a questo punto che non solo viene presupposta la verità ma
viene presupposto anche l’Essere stesso. Più precisamente si
potrebbe argomentare: qui viene presupposta la verità come
alétheia, questa permette di presupporre qualcosa come
l’Esser-ci e quindi qualcos’altro come la fenomenologia e il
problema dell’Essere. Infatti, se per contro provassimo a
negare che esista qualcosa come l’alétheia, dovremmo nega-
re anche che l’Esserci sia in quanto sta nell’apertura del suo
-ci, non vi sarebbe alcun Esser-ci, ma solo un ente chiama-
to, in modo più semplice, “uomo”, e, venuta meno questa
originaria accessibilità alle cose in quanto enti, non avreb-
be senso porre il problema di cosa significhi l’“è” delle cose,
anzi, non avrebbe nemmeno più senso parlare di enti, quin-
di non avrebbe ragion d’essere nemmeno la fenomenologia,
intesa come metodo di trattazione di tale questione.
note
118
Ivi, pp. 56-57.
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Andrea Sangiacomo Scorci

2. Presupposizione e struttura dell’interpretazione cosa originariamente si sia manifestato. Anzi, il presuppo-


sto del presupporre in quanto tale è la possibilità stessa che
Perché noi dobbiamo presupporre che c’è la verità? Che significa qualcosa originariamente si manifesti, si faccia innanzi al
«presupporre»? Che stanno a significare «dobbiamo» e logos. Il presupposto del presupporre, in quanto rende pos-
«noi»? Che significa «c’è la verità»? «Noi» presupponia- sibile ogni discorso, non è detto e non è riducibile a nes-
mo la verità perché «noi», essendo nel modo di essere sun dire discorsivo: tace. Il logos stesso non possiede il pre-
dell’Esserci, siamo «nella verità». «Noi» presupponiamo la supposto del presupporre come qualcosa che stia “dentro”
verità non come qualcosa che stia «al di fuori» e «al di il suo “contenuto” e che quindi si faccia interamente rac-
sopra» di noi e a cui ci rapporteremmo come ci rapportia- chiudere dal suo dire. Il presupposto del presupporre,
mo ad altri «valori». Non siamo noi a presupporre la «veri- ovvero la condizione di possibilità per cui il dire stesso del
tà», ma essa è ciò che rende ontologicamente possibile che logos possa in generale avere un’origine e quindi dirigersi
noi possiamo esser siffatti da «presupporre» qualcosa. È la verso un qualche dove, non appartiene al logos in quanto
verità che rende possibile qualcosa come il presupporre119. dire di qualcosa. Il logos può presupporre qualcosa perché
testimonia e quindi si fa spettatore e partecipa in silenzio di
La verità è l’alétheia dell’ente nel suo essere un essente. un fenomeno più originario. Questo fenomeno è il disve-
L’alétheia fa venire innanzi disvelando l’esser-ente dell’en- lamento dell’ente in quanto tale. L’accadere di questo
te. Questo venire innanzi è il farsi fenomeno dell’ente. 148 149 disvelamento rende manifesto a Chi vi si pone innanzi, e
Nella misura in cui il fenomeno è raccolto e scoperto da un quindi allo spettatore che ne testimonia, l’ente nel suo
logos, l’alétheia può essere testimoniata dalla fenomenologia. essere un essente e quindi l’ente nel suo offrirsi originario
Ma il presupposto non è qualcosa di cui si discorre. Il pre- alla possibilità del dire. In quanto accade originariamente
supposto è ciò che rende possibile il discorso, il quale a sua il disvelamento dell’ente, il logos può avere qualcosa da pre-
volta presuppone il presupposto non per parlare di questo supporre come il da-cui muovere e a cui dare le spalle nel
ma per parlare d’altro. Il presupposto è il da-cui il discor- suo procedere verso altre mete. Se il disvelamento che
so si origina e proviene. Il presupposto si è dunque fatto rende accessibile l’ente in quanto tale è l’alétheia e se il pre-
originariamente e silenziosamente innanzi prima di ogni supporre in quanto tale presuppone un’originaria accessi-
altro dire. Proprio perché il presupposto si è scoperto per bilità all’ente da-cui possa muovere ogni logos, allora il pre-
primo e per primo si è manifestato al logos, il discorso può supporre qualcosa presuppone l’alétheia, vale a dire: «è la
lasciarselo alle spalle e dirigersi verso altro. Questo lasciar- verità che rende possibile qualcosa come il presupporre».
si alle spalle non è un dimenticare ma un provenire-da e Il discorso che si interroga sul presupporre è un discorso
quindi è un muoversi essendo indirizzati da questa prove- che cammina a ritroso. Il suo dire non muove verso alcun
nienza. Il presupposto del discorso è ciò che determina il luogo ma ha il senso di un ritorno al luogo da cui già da
senso del discorso, ovvero il suo dirigersi in una certa dire- sempre proviene. La verità stessa, in quanto originario
zione. Ma il presupposto di ogni presupporre è che qual- disvelamento dell’ente nel suo esser-essente non è altro
dalla manifestazione stessa di questo esser-essente dell’en-
note te. Nell’alétheia non si dà cioè un qualche contenuto noetico
119
Ivi, p. 279. del pensiero, non si dà un’idea particolare. Che l’Esserci,
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nella sua quotidianità media, possa dire che qualcosa è voco. Ma l’esser gettato e il progettare indicano il moto di
vero, che una certa tesi è una verità, è possibile solo perché ciò che si fa avanti, e ripensano in termini ontologici
nel fenomeno originario della verità non si dà ancora nes- essenzialmente rivisitati, quelli che la tradizione moderna
suna tesi ma l’offrirsi puro dell’ente nel suo esser-essente. aveva inteso porre come sub-jectum e ob-jectum. L’Esserci in
Poiché l’ente ci si è offerto come un essente che ci è innan- quanto esser-gettato progettantesi nel mondo è insieme
zi, noi possiamo poi affermare o dire qualcosa di esso. l’unità di questi due momenti.
Ovvero il nostro dire o affermare qualcosa dell’ente pre- In che modo questo discorso si connette alla problemati-
suppone l’alétheia dell’ente nel suo essere un essente, un ca relativa alla verità?
qualcosa di essenzialmente appartenente all’Essere.
Sviluppando la sua analitica esistenziale, Heidegger aveva Presupporre la «verità» significa allora comprenderla
introdotto il concetto di situazione emotiva come modalità come qualcosa in vista-di-cui l’Esserci è. [...] Noi dobbia-
fondamentale dell’apertura dell’Esserci. Ciò comporta che mo «fare» la presupposizione della verità perché tale pre-
la situazione emotiva sia essa stessa un modo fondamenta- supposizione è già «fatta» con l’essere del «noi». Noi dob-
le della verità. Ma occorre tenere ben presente che, in que- biamo [müssen] presupporre la verità; essa deve essere come
ste analisi, «l’essere in una tonalità emotiva non importa apertura dell’Esserci, così come l’Esserci stesso deve essere
alcun riferimento primario alla psiche; non si tratta di uno sempre mio e sempre questo. Tutto ciò deriva dall’essen-
stato interiore»120. La funzione ontologicamente fonda- 150 151 ziale esser-gettato dell’Esserci nel mondo. L’Esserci, in
mentale che ricopre la situazione emotiva è ben altra: «la quanto se stesso, ha forse deciso liberamente, e potrà mai decide-
situazione emotiva apre l’Esserci nel suo esser-gettato»121. re, se vuol o no entrare nell’«Esserci»? «In sé» non è possibi-
L’esser-gettato nel mondo è la radice di ogni pro-gettare, il le vedere perché l’ente debba essere scoperto, perché la veri-
progettar-si dell’Esserci è possibile in quanto l’Esserci è tà e l’Esserci debbano sussistere123.
gettato nel mondo. Nella misura in cui l’Esserci esiste in
questo suo progettarsi mondano, l’Esserci resta deietto nel La verità è presupposta perché l’Esserci è gettato, ovvero:
mondo, ovvero completamente immedesimato nella pro- poiché l’Esserci si progetta nel mondo essendovisi trovato,
gettualità che si prende cura dell’ente intramondano sem- il mondo e l’ente gli si sono originariamente fatti incontro
plicemente presente e sottomano. La deiezione dell’Esserci nel loro essere degli essenti. Perché l’Esserci possa esser-
come modo eminente del suo esser-gettato «sta a signifi- gettato, come di fatto si ritrova ad essere, è necessario pre-
care che l’Esserci è innanzitutto e per lo più presso il supporre la verità, nel senso che l’alétheia, in quanto aper-
“mondo” di cui si prende cura. Questa immedesimazione tura dell’Esserci, è la condizione trascendentale di possibi-
in... ha per lo più il carattere dello smarrimento nella lità di ogni gettatezza. L’esser-gettato è quella testimo-
pubblicità del Si»122, cioè nell’esistenza inautentica domi- nianza esistenziale che rende necessario all’Esserci il risali-
nata dai modi della chiacchiera della curiosità e dell’equi- re all’origine del suo -ci: poiché l’Esserci è gettato esso

note note
120 122
Ivi, p. 175. Ivi, p. 221.
121 123
Ivi, p. 174. Ivi, p. 280.
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Andrea Sangiacomo Scorci

deve esser siffatto da presupporre il suo -ci. Poiché l’Esserci non può darsi se non relativamente a un qualcuno che la
è nel mondo, l’Esserci deve presupporre di esser-ci nel assuma come propria essenza. Avvolgendosi in circolo,
mondo, cioè di essere originariamente aperto a questo e questi momenti si raccolgono insieme nell’affermazione
quindi nella possibilità di prendersi cura e progettarsi in “l’Esserci è nella verità”.
esso. L’esser gettato è il trovarsi sulla via, il progettarsi Il presupporre per Heidegger significa: «comprendere
l’avanzare su questa. Per lo più tale avanzare si lascia gui- qualcosa come il fondamento dell’essere di un altro
dare dalle chiacchiere della curiosità che spinge ad andare ente»124. Il fondamento dell’essere di un altro ente non è
sempre innanzi e che trascina il logos nell’equivoco. Ma qualcosa che si rapporti occasionalmente a questo ente:
nella misura in cui il logos sa volgersi indietro e tornare al l’ente fondato non è ente senza il suo fondamento. Il rap-
da-cui esso proviene, ovvero alla condizione che rende pos- porto tra l’ente e il suo fondamento è un rapporto ne-ces-
sibile il suo stesso essere sulla via e il suo progettarsi deiet- sario, ovvero non scioglibile. Ma tale inviolabilità impone
tivo nel mondo, allora questo logos prende a testimoniare che la connessione non si aggiunga semplicemente in un
qualcosa che è più originario dello stesso esser-gettato e secondo momento a termini in partenza irrelati: fondato e
che lo rende possibile: la verità. È la verità che, aprendo fondamento si danno insieme come un tutt’uno, ossia in
l’Esserci all’esser essente dell’ente, lo getta nell’ek-sistenza. modo tale che l’apparire di uno dei due in quanto e come
L’esser-gettato non può essere letto come la cifra della tale, presuppone di per sé l’apparire dell’altro, giacché il
contingenza dell’essere dell’Esserci, ovvero come il suo 152 153 fondato non può apparire come e in quanto fondato se non
oscillare sul nihil absolutum. È la verità che rende possibile la appare il suo fondamento, e viceversa. La verità, intesa
gettatezza, gettando l’Esserci nella sua esistenza, dunque come presupposto dell’Esserci, ha dunque il senso dell’in-
l’esser-gettato riceve il suo senso non dalla contingenza di scindibilità necessaria dell’Esserci dal suo -ci, proprio que-
ciò che oscilla sul niente, ma dalla verità che disvela l’es- sto è, nella riflessione heideggeriana, il «carattere della
ser essente dell’ente. La verità è sempre la verità dell’Essere, necessità in base alla quale “presupponiamo necessaria-
dunque la verità getta l’Esserci non nel nihil ma nell’Esse, mente” che la verità “c’è”»125.
e non a partire dal nihil ma a partire, cioè già presuppo-
nendo, l’Esse. Ciò che deve dunque essere chiarito è, anco- Nel suo essere più proprio questo ente ha il carattere della
ra una volta, il senso dell’Essere in cui l’Esserci, esistendo, è get- non-chiusura. L’espressione «Ci» significa appunto questa
tato dalla verità dell’Essere. La verità dell’Essere è l’alétheia apertura essenziale. Attraverso essa, questo ente (l’Esserci)
dell’Essere, il suo disvelarsi e farsi innanzi come qualcosa «Ci» è per se stesso in una con l’esser-ci del mondo. [...]
di manifesto al e per il logos che, volgendosi verso l’origi- L’Esserci comporta il suo Ci in modo originario; senza di
nario, è pronto a darne testimonianza. esso non solo non esisterebbe di fatto, ma non potrebbe esse-
In quanto l’Esserci è essenzialmente il suo -ci, la verità, re l’ente della propria essenza. L’Esserci è la sua apertura126.
come apertura stessa del -ci, è il presupposto di ogni
Esserci. Verità, presupposizione ed Esserci sono tre termi- note
ni tra loro inscindibili, questa inscindibilità ha il caratte- 124
Ivi, p. 279.
re proprio della necessità. Non si dà Esserci senza l’aper- 125
Ivi, p. 264.
126
tura del vero, ma poiché il vero è un aprirsi, l’apertura Ivi, p. 170.
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La peculiarità di Essere e tempo nella trattazione del tema quando l’ente intramondano è scoperto a partire dall’esse-
della verità sta proprio nella centralità che qui assume la re dell’Esserci, quando cioè è portato a comprensione,
presupposizione: se il modo originario del fenomeno del diciamo che ha un senso. A rigor di termini, cioè che è
vero sta nell’a-létheia, l’essenza ontologica di questo feno- compreso non è il senso, ma l’ente o l’essere. Senso è ciò in
meno è nel presupporre. Il presupporre lega la verità stes- cui si mantiene la comprensibilità di qualcosa. [...] Senso è
sa ad una forma di temporalità che ha a che fare con il il «rispetto-a-che» del progetto in base a cui qualcosa diviene
pre. Se è dunque vero che esistentivamente l’Esserci è comprensibile in quanto qualcosa; tale «rispetto-a-che» è struttu-
sempre un esser-avanti-a-sé, una considerazione esisten- rato secondo la pre-disponibilità, la pre-visione e la pre-cognizio-
ziale basata sull’analisi del suo -ci, sembrerebbe parimen- ne. Poiché comprensione e interpretazione rappresentano
ti mostrare che questo avanti-a-sé che progetta l’Esserci la costituzione dell’essere del Ci, il senso deve essere con-
nel mondo è possibile solo sul fondamento del pre- pro- cepito come la struttura formale-esistenziale dell’apertura
prio dell’alétheia che apre l’Esserci stesso all’essere-nel- propria della comprensione. Il senso è un esistenziale
mondo. Se quindi la temporalità orientata al futuro è dell’Esserci e non una proprietà intrinseca dell’ente127.
quella determinante nel progettarsi dell’Esserci che si
prende cura e pianifica le possibilità della sua esistenza, L’ente intramondano si scopre a partire dall’essere
l’essenziale essere-nella-verità pone parimenti l’Esserci in dell’Esserci quando si disvela nell’apertura dell’alétheia,
una temporalità orientata sul senso del pre- e che costi- 154 155 essendo l’essere dell’Esserci il suo stesso essere-nella-verità.
tuisce la condizione di possibilità di ogni avanti-a-sé. Il Ma questo disvelamento è parimenti il fenomeno stesso del
pre- non indica semplicemente una pre-cedenza, né, ancor senso, che non è dunque altro se non l’entrare dell’ente
meno, una semplice pre-senza, o, ancora, un qualcosa che all’interno del circolo dell’interpretare ove si compie la sua
sia semplicemente presente in un momento anteriore: comprensione sul presupposto dell’alétheia dell’ente stesso.
«noi dobbiamo “fare” la presupposizione della verità per- Si era infatti notato che «i due modi cooriginariamente
ché tale presupposizione è già “fatta” con l’essere del costitutivi in cui l’Esserci è il suo Ci sono la situazione emo-
“noi”». tiva e la comprensione. Situazione emotiva e comprensione
Poiché il presupposto si rivela come un già-presupposto a sono cooriginariamente determinate dal discorso»128. La
partire da un momento sempre successivo, la temporalità comprensione è il disvelarsi dell’ente che si fa avanti nello
implicata dalla presupposizione è una temporalità circo- spazio aperto del -ci, il mantenersi dell’ente così disvela-
lare e riflessiva. Tale temporalità non si manifesta allora to in tale spazio di verità è il senso dell’ente stesso.
nel progetto deiettivo nel mondo, quanto piuttosto in L’articolazione, emotivamente situata, della comprensio-
quel particolare progettare in cui consiste l’azione erme- ne dell’ente e del suo senso è il discorso. Nella misura in
neutica, fondata, non a caso, sulla figura del circolo e del cui il discorso si fonda sul comprendere veritativo esso stes-
pre-. L’interpretazione non solo è quindi un modo del- so appartiene al fenomeno della verità, nel quale l’Esserci
l’apertura dell’Esserci, ma si mostra anzi come il modo in
cui originariamente l’Esserci è nella verità, giacché essere note
interpretanti è stare nella presupposizione della verità, 127
Ivi, pp. 192-193.
128
cioè Esser-ci: Ivi, p. 171.
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radica il suo fondamento esistenziale più profondo. che ci-è pre-disponibile. Ciò significa unicamente: la strut-
Ma la struttura stessa del comprendere è una struttura cir- tura anticipativa del pre- che caratterizza il circolo erme-
colare e riflessiva, sicché l’articolarsi della comprensione neutico heideggeriano non è affatto qualcosa di arbitrario o
nel discorso accade nella misura in cui il discorso stesso si fa empiricamente dedotto, ha piuttosto la sua fondamentale
interpretante: interpretare l’ente significa svelarne il senso, ragion d’essere nel senso stesso della presupposizione della
ossia mantenere l’ente nella comprensibilità, cioè nello verità: è nello spazio della verità, infatti, che l’ente si offre
spazio in cui l’ente si disvela nella verità del suo esser- all’Esserci e alla sua comprensione. L’ente deve necessaria-
essente. A venir interpretato è dunque sempre il senso del- mente sempre essere pre-disponibile, e questa predisponibi-
l’esser essente dell’ente, anzi, più precisamente, l’interpreta- lità è anche la pre-cognizione fondamentale di ogni com-
re è l’atto con il quale l’ente è tenuto nello spazio aperto prensione, sicché è possibile pre-vedere che l’interpretazio-
nel quale può manifestarsi al logos nel suo esser-essente: ne dell’essere dell’ente avrà di mira il disvelare questo pre-
nella misura in cui l’interpretare riesce a tenere l’ente in supposto, cioè qualcosa di sempre dato ma non necessaria-
tale spazio veritativo, l’interpretazione giunge a cogliere mente evidente. L’interpretare fondato sulla struttura pre-
il senso dell’ente che interpreta. suppositiva della verità non instaura connessioni tra un
Come si vede non si tratta di momenti o figure per sé interpretato e un’interpretazione, ossia tra termini di per sé
separate, ma di un solo processo dove separati e che si vogliono mettere in rapporto. L’interpretare
156 157 fondato sul senso del pre- proprio dell’alétheia è lo stesso riportare
l’importante non sta nell’uscir fuori del circolo, ma nello in luce e quindi manifestare la connessione originaria e necessaria
starvi dentro nella maniera giusta. Il circolo della com- tra l’ente e il suo esser-essente, ossia il senso di questo essere.
prensione non è un semplice cerchio in cui si muova qual- Del resto, l’esigenza dell’interpretazione ontologica del-
siasi forma di conoscere, ma l’espressione della pre-struttu- l’ente si offre proprio sulla base della non evidenza: noi
ra propria dell’Esserci stesso. Il circolo non deve essere interpretiamo in quanto ne sentiamo il bisogno e ne sen-
degradato a circolo vitiosus. [...] Il «circolo» del conoscere tiamo il bisogno in quanto abbiamo la pre-cognizione che
appartiene alla struttura del senso, che è un fenomeno l’ente, che ci-è qui pre-disponibile, presupponga l’Essere,
radicato nella costituzione esistenziale dell’Esserci, nella ma non comprendiamo in che modo questa presupposizione
comprensione interpretante129. avvenga nel caso specifico, non ci è chiaro quale sia il senso
dell’essere di questo certo ente che pre-vediamo di interpre-
L’interpretazione a cui l’Esserci sottopone l’ente ha la strut- tare ontologicamente, tale senso si nasconde, resta sul fondo
tura del pre- in quanto è volta nient’altro che all’Essere del- dell’oblio. Come recita l’antico adagio, in claris non fit
l’ente, che esiste in quanto pre-supposto in ogni ente. interpretatio, ma ciò che l’interpretatio porta in claris è nien-
L’interpretazione si volge a portare in chiaro l’Essere del- t’altro che il senso dell’essere dell’ente interpretandum.
l’ente, quell’Essere che, in base alla pre-cognizione che ne Scrive Heidegger:
abbiamo, si pre-vede l’ente presupponga, in quanto ente
la comprensione emotivamente situata dell’essere-nel-
note mondo si esprime nel discorso. La totalità di significati della
129
Ivi, pp. 194-195. comprensibilità accede alla parola. I significati sfociano in
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parole. Non accade, dunque, che parole-cosa vengano for- la comprensione. Comprendere qualcosa significa mostrare
nite di significati. [...] Il discorso, rientrando nella costi- in cosa consiste l’essere di ciò che è detto. Questo non pre-
tuzione esistenziale dell’apertura dell’Esserci, è costituti- suppone che esista un essere diverso per ogni ente, ma che
vo dell’esistenza dell’Esserci. Sentire e tacere fanno parte le differenze che distinguono tra loro gli enti siano in ulti-
del linguaggio discorrente come sue possibilità130. mo riconducibili ad un diverso modo di essere, cioè di decli-
nare il senso dell’Essere. Portare in luce il modo in cui un
Il logos, come leggevamo nell’introduzione di Essere e tempo, certo ente declina il senso dell’Essere consente all’Esserci di
non è il luogo della verità, ma, proprio in quanto gli appar- scorgere il senso di quell’ente. Il modo in cui l’Esserci porta
tiene il carattere dell’esser-scoprente, ne può diventare l’or- in luce questo senso è l’interpretazione ontologica che egli
ganon. L’interpretazione non accade altrove che nel linguag- dà dell’ente, fondata sul circolo ermeneutico del pre-.
gio. La parola, originariamente, è l’alétheia di un certo ente Fornire questa interpretazione è affermare la verità, intesa
in quanto questo ente, in tal modo la parola stessa diventa come alétheia. La possibilità, per l’Esserci, di fornire questa
depositaria del senso. L’alétheia si rivela nel fenomeno del interpretazione non è un qualcosa di accidentale, ma è il
nominare: il nome è ciò con cui l’Esserci comprende il senso della sua stessa apertura, del suo -ci: Esser-ci significa
senso dell’essere dell’ente che nomina. Il dare nomi agli interpretare ontologicamente l’ente, ovvero evidenziarne
enti è la prima forma di interpretazione che l’Esserci cono- ed esprimerne l’alétheia. Che il senso dell’Esserci sia inter-
sce. L’Esserci ascolta l’Essere che gli enti presuppongono e a 158 159 pretare vuol dire unicamente: “l’Esserci è nella verità”.
cui la sua apertura costitutiva gli consente originariamente Vale la pena ribadire e sottolineare che proprio qui sta
di accedere: «l’uomo si presenta come l’ente che parla. Ciò l’essenziale rovesciamento operato da Heidegger nei con-
non significa che egli abbia la possibilità della comunica- fronti della fenomenologia husserliana: il logos non ha da
zione orale, ma che questo ente esiste nella maniera dello andare alle cose stesse, mostrandole nella nudità dell’epoché a
scoprimento del mondo e dell’Esserci stesso»131. cui le si sottopone, ma, al contrario, è quell’apertura ori-
Il linguaggio è il modo in cui accade lo svelamento, cioè è il ginaria all’interno della quale le cose stesse si mostrano per
senso dell’espressione “l’Esserci è nella verità”. Il linguaggio quello che sono all’interno del circolo ermeneutico del
ha quindi una connessione essenziale con la verità, seppure presupporre. Ciò importa che non vi sia più un’essenza della
non nei termini che la concezione tradizionale del vero a cosa, un esser-cosa che il logos possa o debba approssimare
tutta prima farebbe supporre: tale connessione non si radi- nella sua purezza, ma, invece, che ogni esser-cosa esiste
ca infatti nella dimensione dell’asserzione apofantica quan- nella misura in cui presuppone non solo il logos che lo rac-
to piuttosto nel fenomeno originario del nominare. Che coglie, ma anche quell’atteggiamento ermeneutico del
l’Esserci sia nella verità significa: questo ente scopre l’esse- logos stesso per cui ogni suo vedere è già sempre un compren-
re di ogni ente mediante la parola che sa portare in luce dere il senso dell’essere di ciò che vede132.
l’essere di ciò di cui parla, cioè il suo senso, permettendone
note
note 132
Non a caso un interprete con F.W. von Herrmann parla di
130
Ivi, p. 204. fenomenologia-ermeneutica per designare l’atteggiamento di fondo
131
Ivi, p. 209. adottato da Heidegger in Esser e tempo, cfr. più oltre cap. 3.
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Del resto, proprio perché l’interpretare non parte da ciò a farsi vero. La latenza del senso, non la sua mancanza, è la
che è chiaramente in luce, quanto piuttosto da ciò che è condizione di possibilità di questo interrogare: esser-laten-
oscuro, proprio perché in claris non fit interpretatio, l’inter- te è la latitanza di ciò che c’è ma non si sa dove sia, non un
pretazione presuppone in partenza una latenza del senso: il non-esserci simpliciter. Ma l’esser-latente non si riduce al non
senso si pre-vede presente in base alla pre-cognizione che si esserci affatto solo in quanto è possibile presupporre l’essere di
ha dell’essere dell’ente pre-disponibile, di fatto, però, que- ciò che si nasconde nell’oblio: ciò che si nasconde non è un
sto senso si nasconde, non si comprende. Il modo di esser puro nulla giacché, per nascondersi, presuppone la propria
presente nel nascondimento accade non altrimenti che esistenza come diversa dall’assolutamente-niente, pur non
nella forma della domanda: ciò che si domanda è ad un mostrando il senso di questa esistenza. La latenza è il feno-
tempo presente nella domanda, ma presente solo in quan- meno in cui tutto ciò che si manifesta è unicamente l’esser-
to non visto, nascosto, latente. ci di qualcosa che nasconde il suo senso. Il senso, in questa
Il senso dell’Essere ci si nasconde poiché, essendo sempre latenza, si manifesta come un interrogativo, cioè come qual-
presupposto, sta già sempre e da sempre indietro, nella cosa che in base alla predisponibiltà, previsione e precogni-
direzione stessa dell’originario: proprio in quanto orizzon- zione in cui si offre originariamente il fenomeno della laten-
te di ogni ente, il senso dell’Essere è ciò in cui si mantie- za, può giungere a disvelamento.
ne il senso di ogni ente, ma è pure quello che resta più La domanda originaria è essenzialmente un domandare
nascosto nella misura in cui, dimenticando questo orizzon- 160 161 filosofico ed è con questo interrogare che l’Esserci pro-
te, ci concentriamo sui singoli enti intramondani, inter- priamente prende ad esser-ci: il filosofare, in tal senso,
pretati per lo più in funzione della loro utilizzabilità. O non è affatto una velleità oziosa e superflua, quanto piut-
anche, nella misura in cui ci progettiamo e ci immedesi- tosto un sinonimo dell’esistere. Nel domandare filosofico,
miamo nel mondo ambiente delle semplici presenze uti- l’Esserci non si progetta gettandosi avanti nel mondo, ma
lizzabili e sottomano, voltiamo le spalle a ciò in cui già da ritorna all’inizio originario, da cui la necessità dell’alétheia
sempre siamo e veniamo, e alla necessità che segretamen- che abita questo inizio mai gli consente di separarsi dav-
te ci tiene sempre e solo in quel luogo: il nostro gettarci vero. L’Esserci è cooriginariamente e allo stesso tempo
nell’avanti del progetto è ciò che ci nasconde il senso pre- nella verità e nella non verità133 precisamente nel modo
supposto dell’Essere, e quindi dell’esser essente del nostro del domandare.
stesso progettare o, ancor prima, del nostro esistere. Che l’Esserci sia nella verità significa quindi che l’Esserci
La latenza del senso si manifesta originariamente nel feno- è interpretante, ma ciò, a sua volta, indica come l’apertu-
meno del domandare. Il domandare, inteso nella sua forma ra che gli rende accessibile l’ente, glielo renda originaria-
più autentica e originaria, non può che avere la struttura mente accessibile nel modo dell’interrogazione: interro-
ermeneutica del pre-, giacché si rapporta all’ente pre-dispo- garsi sul senso dell’essere dell’ente è la modalità origina-
nibile, pre-vedendo di comprenderne il senso in base alla ria in cui ogni uomo in quanto Esserci si rapporta ad ogni
pre-cognizione che ha dell’esser-sempre-presupposto del- ente che incontra nel suo mondo. Che innanzitutto e per
l’Essere. La domanda è l’aprirsi del discorso al disvelamen-
to di ciò che si mantiene nella sua latenza. Il discorso, quan- note
133
do si fa interrogante, si pre-dispone ad essere-scoprente, cioè Cfr. Ivi, p. 273.
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lo più, nella sua media quotidianità, l’Esserci non si utilizzabile semplicemente presente sottomano, dello sfon-
ponga affatto questa domanda mostra solo che egli dà per do, cioè del senso del suo esser un questo, non se ne sa più
scontato che l’ente abbia il senso dell’utilizzabile. nulla: il senso del suo essere è latente, non è lì dove lo si
L’utilizzabilità stessa non è altro che un’interpretazione cerca, il questo si è fatto tanto vicino da dominare la scena
dell’essere dell’ente difforme dall’Esserci, interpretazione e coprire lo sfondo. Tanto che sorge allora la domanda sullo
che non può però dirsi un’interpretazione ontologica sfondo stesso: che ne è del senso dell’essere?
giacché non mostra il senso dell’essere dell’ente in quan- Si noti: ciò che non si mostra, e sta quindi nella latenza, è
to essente, ma solo il senso dell’appagatività dell’ente: che tale perché non riesce a mostrarsi. Ciò accade, ad esempio,
un certo ente sia utilizzabile significa che potrà appagar- quando viene occultato da altro, come nel caso dell’inter-
mi più o meno, o che potrà intrattenere rapporti più o pretazione inautentica che ha appunto funzione occultante
meno appaganti con altri enti. Questa interpretazione e quindi rientra nella non-verità, ossia, essendo l’interpre-
non disvela il senso dell’essere dell’ente che interpreta, ma tare un esistenziale, l’Esserci, essendo interpretante, è coo-
si limita a presupporre questo senso e lasciarlo nella laten- riginariamente posto nella possibilità della verità o della
za. Nell’interpretazione non ontologica, l’Esserci resta non-verità. Stare nella non-verità non significa infatti avere
chiuso al senso della sua apertura e questo senso resta innanzi un puro nulla, ma aver innanzi qualcosa che appar-
obliato. Questo oblio è ciò che presuppone e contempora- tiene alla verità ma che, preso come un assoluto, è scambia-
neamente nasconde il senso dell’essere dell’ente. Che 162 163 to per la verità stesa quando invece ne è soltanto una parte.
l’Esserci, innanzitutto e per lo più, fornisca una interpre- Stando nella metafora: se la verità è radura, guardare un
tazione non ontologica dell’ente, cioè un’interpretazione singolo albero che delimita la radura, non significa guarda-
in cui il senso dell’Essere viene obliato e in cui nessuna re fuori dalla verità, ma guardare qualcosa che, pur appar-
necessità è disvelata, non è qualcosa di accidentale, ma è tenendole, in sé non è la verità in quanto tale. Il senso stes-
l’a priori di ogni interpretazione ontologica: l’interpreta- so dell’Essere appartiene alla latenza nella misura in cui
zione non ontologica presuppone la possibilità di quella viene cercato a partire dall’ente intramondano: se l’orizzon-
ontologica e, contemporaneamente, nascondendo l’essere te racchiude ogni cosa, non si può chiedere a nessuna cosa
dell’ente e ponendone il significato nella latenza, rende di essere l’orizzonte. In questo caso a celare il senso, ossia a
possibile il domandare circa il senso. chiudere lo spazio della sua manifestazione, è un errore di
Del resto, nella misura in cui l’Esserci non ha occhi che per prospettiva o, meglio, un cattivo domandare.
gli enti del mondo, allora è necessario che si trovi nella Ponendo l’Esserci nella non-verità, l’interpretazione non
non-verità, ossia nella latenza del senso dell’essere di questi ontologica consente all’Esserci l’interrogazione circa il senso
enti. Gli enti, infatti, sono la loro stessa determinatezza, dell’Essere, e giacché ogni interpretazione ontologica pre-
sono un questo concreto che emerge nel suo esser-questo. In suppone questo interrogare ciò che viene nascosto, l’essere
tale esser-questo, l’essere è lo sfondo sul quale il questo nella non verità, è cooriginario all’essere nella verità, tanto
prende spicco. Guardare all’ente intramondano vuol dire quanto il nascondimento è cooriginario al disvelamento:
guardare il questo ponendo sullo sfondo lo sfondo, e più si
guarda da vicino il questo meno si vede lo sfondo, sicché della effettività dell’Esserci fanno parte chiusura e copri-
nella vicinanza massima, quando l’ente intramondano è un mento. Il senso ontologico-esistenziale del principio:
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«l’Esserci è nella verità» porta con sé cooriginariamente: è già sempre presupposto e che si chiede di disvelare, ovve-
«l’Esserci è nella non verità». Ma è soltanto in quanto ro di cui si chiede l’alétheia. In altri termini: il modo in cui
aperto che l’Esserci è anche chiuso; ed è soltanto perché l’Esserci interpreta l’ente, ovvero accede al senso del suo
con l’Esserci è già sempre scoperto anche l’ente intramon- essere, è il discorso; ma l’aprirsi originario del discorso
dano che tale ente può essere coperto (nascosto) o contraf- all’ente accade unicamente nel modo del domandare, ed
fatto quando è incontrato nel mondo134. essendo necessaria, per l’interrogare, la latenza di ciò su cui
s’interroga, risulta che ogni interpretazione ontologica pre-
Il nascondimento e l’oblio non sono momenti semplice- veda come sua condizione di possibilità la latenza del senso,
mente precedenti il disvelamento, sono piuttosto ciò che cioè un’interpretazione non ontologica, ossia inautentica.
l’interpretazione ontologica pre-vede come sua situazione Non a caso si diceva: l’esser-gettato nella deiezione è il
originaria. Il nascondimento è la condizione di possibilità fenomeno che rende necessario all’Esserci presupporre la
della verità, non nel senso che sia la negazione della veri- verità, ovvero comprendersi come esser-gettato dalla verità
tà, giacché ciò che è nascosto non è negato, ma anzi è taci- nell’ek-sistenza. La condizione di possibilità di questa strut-
tamente presupposto, il senso stesso del presupporre porta tura ontologica sta, ancora una volta, nel senso temporale
con sé il celarsi del presupposto dietro ciò che da quel pre- del pre-supporre, in virtù del quale l’originario disvelarsi
supposto si origina e procede innanzi. Il nascondimento è dell’Essere è ciò che è già sempre posto dietro come sfondo
dunque condizione di possibilità della verità nel senso che 164 165 alle possibilità esistentive ed effettive dell’Esserci.
rende possibile l’emergere del nascosto e quindi l’esplici- È il suo progettarsi deiettivo nel mondo che, in quanto ha
ta comprensione del suo senso. occhi solo per ciò che gli sta innanzi come ente sottoma-
Questo, di nuovo, non significa che l’interpretazione onto- no e semplicemente presente, porta l’Esserci a dare le
logica sia qualcosa di superfluo, al contrario, è solo perché spalle a ciò che invece, essendo sempre presupposto, rende
l’apertura dell’Esserci si esplica originariamente come possibile il progettarsi stesso e anzi getta l’Esserci nella
interpretazione ontologica dell’ente che essa richiede, necessità della sua esistenza, ma in un senso radicalmente
necessariamente, una sua preliminare copertura. È in virtù diverso da quanto egli, innanzitutto e per lo più, possa
di ciò che, innanzitutto e per lo più, l’Esserci si trova nella intendere. Ma, d’altro canto, se l’Esserci non guardasse
non verità, cioè nell’oblio di ciò che sempre è presupposto innanzi a sé progettandosi nel mondo, non potrebbe nem-
e del suo senso. Ma è solo in quanto originariamente si meno comprendere la sua apertura nel senso del presup-
trova in questa condizione che l’Esserci ha anche la possibi- posto che già da sempre gli sta alle spalle: il presupposto può
lità di interrogarsi sul senso di ciò che gli si nasconde e mostrarsi in quanto e come presupposto solo celandosi a monte di
quindi di avviare un’autentica interpretazione ontologica: tutto ciò che necessariamente lo presuppone.
per essere-nella-verità, l’Esserci deve necessariamente tro- A questo punto, dovrebbe risultare chiaro come il problema
varsi anche nella non-verità, intesa non come momento sem- stesso del senso dell’Essere non sia altro dal problema della
plicemente preliminare, ma come oblio del senso di ciò che verità, ovvero del portare a disvelamento l’Essere in quanto
tale. Per affrontare questo problema è appunto necessaria
note un’indagine preliminare sulla verità stessa in quanto aper-
134
Ivi, p. 273. tura in cui l’ente si manifesta come essente, ovvero è neces-
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sario lo sviluppo dell’analitica esistenziale volta a cogliere il 3. Al di qua del soggetto e dell’oggetto
senso dell’essere di quell’ente peculiare che ha la sua essen-
za nel suo proprio essere-nella-verità. L’impalcatura specula- Tuttavia, prima di procedere nella direzione dell’appro-
tiva di Essere e tempo si mostra così modellata sulla struttura fondimento di questi elementi, se ripercorriamo breve-
ontologica dell’alétheia e si muove fin dall’inizio, seppur mente l’analisi svolta in Essere e tempo, possiamo rinvenire
celatamente, sul senso della sua presupposizione: possiamo un ulteriore aspetto del rapporto tra Esserci e verità. S’è
porre il problema del senso dell’Essere solo perché, presup- detto che l’articolarsi del circolo del pre- all’interno del-
ponendo la verità, siamo gettati nell’ek-sistenza che porta l’interrogare, mira a strappare alla latenza il senso che vi
l’Esserci avanti a sé, lasciando celato alle sue spalle l’Essere si nasconde. La verità è l’esser-scoprente, cioè il portare in
stesso che la verità in quanto manifestazione dell’ente nel chiaro. Ma ciò che ha la facoltà di portare in claris è l’in-
suo esser-essente a sua volta presuppone. terpretazione stessa, sicché, la ricerca di un’interpretazio-
Essere e tempo si limita tuttavia a quest’indagine prelimi- ne ontologica capace di comprendere il senso dell’Essere,
nare. Non è però impossibile arrivare a vedere come il è il significato dell’essere-nella-verità da parte del-
senso stesso dell’Essere non stia altrove che nella sua veri- l’Esserci. Nella sua ricerca l’Esserci si rapporta all’Essere
tà, verità silenziosa che tace e mostra, e che tacendo rende come ad un problema, interrogando l’ente. Il fine di que-
possibile il dipartirsi di ogni dire da questo originario sta ricerca è la comprensione dell’Essere, ovvero la deter-
presupposto. Se dunque l’Essere ha una connessione 166 167 minazione del senso dell’essere, cioè la sua alétheia, o, in
essenziale con la temporalità, questa temporalità sarà altri termini ancora, il giungere a cogliere l’Essere nella
quella propria e determinata dal pre- che abita l’essenza sua verità. L’Esserci si incammina sul sentiero di questa
del vero. In Essere e tempo manca la sezione che avrebbe ricerca in virtù del suo -ci, della sua apertura. Ciò signi-
dovuto sviluppare il rapporto tra «Tempo ed Essere», tut- fica che la “ricerca della verità” è l’intrinseco significato
tavia non sembra azzardato scorgerne il cuore nella con- del suo esistere in quanto tale: il significato dell’esistere
nessione essenziale tra Essere e verità135. dell’Esserci è il ricercare la verità, «presupporre la “veri-
tà” significa allora comprenderla come qualcosa in vista-
di-cui l’Esserci è». Ma la ricerca della verità non porta
note l’Esserci ad incamminarsi per contrade misteriose e sco-
135
Cfr. Ivi, p. 419: «l’analisi della costituzione temporale del nosciute, la verità non sta lontano dall’Esserci, in quanto
discorso e l’esplicazione del carattere temporale dei modelli lin- sempre presupposta, è già nell’Esserci, alle sue spalle: la
guistici possono essere intrapresi solo se è stato risolto il proble-
ricerca non è altro che il farsi interrogante del pensiero nel
ma della connessione fondamentale di essere e verità sulla scorta
della problematica della temporalità» Cfr. anche Protocollo di un suo aprirsi in direzione dell’originario. In tale senso,
seminario sulla conferenza Tempo e essere, in M. Heidegger, Tempo l’idea della presupposizione introduce e dà un senso radi-
e essere, trad. it., Longanesi, Milano 2007, p. 36: «Il tempo - così calmente diverso alla ricerca stessa, portandola nella dire-
in Essere e tempo è chiamato il senso dell’essere - non è in quell’ope- zione del ritornare all’inizio: l’Esserci è nella verità. In
ra né una risposta né ciò su cui deve arrestarsi il domandare, ma quest’espressione la verità è assunta pienamente come una
è a sua volta il nome per una domanda. “Tempo” è il nome dato struttura esistenziale. Ma ciò vuol dire: la verità, in origine,
a ciò che più tardi sarà chiamato “la verità dell’essere”». è qualcosa, anche, come un comportamento, un atteggia-
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mento, un modo di agire e di essere, quindi un abitus, un semplice-presenza, convinzione che continua a operare
ethos. L’essere-nella-verità per l’Esserci significa quindi anche quando ci si astiene dall’interpretazione dell’Esserci
assumere la ricerca della verità come ethos della sua esi- come cosa corporea. La sostanza dell’uomo non è lo spirito
stenza, la verità ha una connotazione etica. come sintesi di anima e corpo, ma l’esistenza136.
Quando, per contro, asseriamo che alétheia non significa
nient’altro che adaequatio, o che comunque non ha nulla a Infatti il soggetto «lo si dica o no, conserva il significato
che fare con parole insignificanti quali “apertura” e “Esser- della semplice-presenza. [...] Ma la semplice presenza è il
ci”, cosa stiamo dicendo in definitiva? Che l’uomo è tale da modo di essere dell’ente non conforme all’Esserci»137.
poter adeguare le sue rappresentazioni alle cose, per come Tanto la res cogitans quanto l’Io penso kantiano, quanto l’io
realmente sono. Ma in questo modo non facciamo altro che trascendentale di Husserl, ricadono in questa concezione
ricadere in quella concezione tradizionale della verità che, inautentica che presupponendo tacitamente l’apertura al
s’è visto, è nient’altro che un’interpretazione del suo feno- mondo e alla sua esperienza, si preoccupa del modo di que-
meno originario, volta a rendere la verità stessa qualcosa di sta, senza tuttavia aver problematizzato che un tale sog-
utilizzabile e spendibile dall’Esserci nel mondo in cui si getto può avere a che fare con il mondo ed esperirne qual-
progetta e di cui si prende cura. Il fatto che il senso cosa solo in quanto l’apertura appartiene alla sua costitu-
dell’Essere non sia immediatamente noto o non sia già zione ontologica: il soggetto è possibile solo se è la sua
compreso, non è motivo valido per rifiutare l’impostazio- 168 169 apertura, cioè solo in quanto è un Esser-ci. È il suo -ci che
ne ontologica della domanda, giacché il senso della rende possibile all’Esserci di porsi come subjectum ovvero
domanda sta in ciò: chiedere qual è il senso dell’essere di di essere qualcuno che conosce. Ma Chi sia questo qualcu-
questo ente che mi trovo davanti, posto che l’interrogare no può essere chiarito solo mediante un’analitica esisten-
nasce perché è proprio questo senso che non comprendo. ziale che porti in luce il senso che per questo Chi ha il suo
E si badi che rifiutare tale esigenza ontologica riducendola Esser-ci. E questo porterebbe certo a dover capovolgere la
ad un problema meramente gnoseologico, determinato formula cartesiana: «Ego sum ergo cogito».
dai modi propri dell’uomo di percepire il “mondo ester- La chiarificazione del senso dell’“Essere” è dunque la con-
no”, è semplicemente un espediente che non riesce ad dizione di possibilità per il costituirsi di qualsiasi ulterio-
aggirare la questione. Come osserva Heidegger: re speculazione gnoseologica. E se è l’Esserci a conoscere
l’ente, ciò gli è possibile solo nella misura in cui l’ente si
se l’«io» è una determinazione essenziale dell’Esserci, deve fa incontro all’Esserci nello spazio aperto del suo -ci.
essere interpretato esistenzialmente. La domanda sul Chi L’Esserci può essere un qualcuno che conosce solo perché
deve trovare risposta nella delucidazione fenomenica di un l’Esserci, essendo il suo -ci, ha originariamente a che fare
determinato modo di essere dell’Esserci. [...] con la verità e la verità è originaria manifestazione del-
L’affermazione che il se stesso è costituito «soltanto» da un l’ente nel suo essere.
modo di essere dell’Esserci, può far credere che si perda
così il «nocciolo» genuino dell’Esserci. Ma questo timore note
nasce dalla convinzione, da cui abbiamo già messo in guar- 136
Ivi, pp. 151-2.
137
dia, che l’ente in questione abbia il modo di essere della Ivi, p. 149.
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Potremmo dire: ogni gnoseologia presuppone l’ontologia Non c’è Esserci fuori dalla relazione veritativa all’ente,
fondamentale dell’Esserci in quanto tale. Ma ogni Esserci così come non c’è verità dell’ente senza un Esserci. La
è tale solo in quanto è il suo -ci, ovvero a sua volta pre- relazione che la verità instaura tra questi due termini non
suppone l’alétheia. La presupposizione della verità si è quindi qualcosa che venga a posteriori della loro esisten-
mostra così la condizione di possibilità dell’intero discor- za, Esserci-scoprente ed ente-scoperto esistono in quanto
so ontologico: la cogenza del problema della verità si radi- stanno nella relazione istituita dal vero, la loro esistenza pre-
ca nella necessità della sua presupposizione. suppone la verità. L’esser-presupposta della verità, in quan-
Possiamo però ancora chiederci se non sia questo un modo to relazione originaria e fondativa dell’esistenza
per abbandonare la verità all’arbitrio dell’Esserci, facen- dell’Esser-ci e dell’ente in quanto scoperto, è precisamen-
done un che di totalmente soggettivo e opinabile. Ma già te ciò che sottrae l’alétheia all’alternativa tra verità sogget-
Heidegger aveva inteso chiarire questo punto: tiva e oggettiva: l’alétheia non è né un qualcosa di ogget-
tivo né di soggettivo, essa è la condizione di possibilità
in virtù del suo essenziale modo di essere conforme all’Esserci, che sempre è necessariamente presupposta e su cui, even-
ogni verità è relativa all’essere dell’Esserci. Si può intendere tualmente, è poi possibile dar consistenza teoretica ad una
questa relatività nel senso dell’affermazione: ogni verità è tale antitesi, che, evidentemente, non potrà mai riguarda-
«soggettiva»? Certamente no, se per «soggettivo» si re, in ogni caso, la verità colta appunto nel suo fenomeno
intende «ciò che è nell’arbitrio del soggetto». Infatti lo 170 171 originario.
scoprire, conformemente al suo senso più proprio, sottrae L’Esserci non dispone della verità proprio perché l’Esserci
l’asserzione all’arbitrio «soggettivo» e porta l’Esserci sco- è nella verità ed esiste nella misura in cui si pone nella
prente in cospetto dell’ente stesso. Solo perché la «verità», necessità inscindibile del suo esser-sé. L’Esserci può forse
in quanto scoprire, è un modo di essere dell’Esserci, essa può disporre dell’ente e farne oggetto della sua volontà pro-
essere sottratta all’arbitrio dell’Esserci138. gettante. Ma la verità non è un semplice oggetto intra-
mondano posto nel mondo in cui l’Esserci è deietto, al
L’Esserci non è nella verità nel senso che ne può disporre a contrario è il presupposto stesso che ha gettato l’Esserci
suo piacere. La verità è la sua apertura all’ente, ovvero l’ori- nell’ek-sistenza del suo essere-nel-mondo. La verità è lo
ginaria accessibilità a questo e alla possibilità della com- spazio e la condizione di possibilità in cui l’Esserci può
prensione del suo senso. Come tale, la verità non sta solo essere-per le sue possibilità. L’alétheia non è quindi un
nell’Esserci, quindi non è schiava del suo arbitrio, così qualche luogo ove l’Esserci scelga di stare, quanto piutto-
come non è prerogativa esclusiva dell’ente innanzi a cui sto ciò che, presupponendosi, pone il -ci dell’Esserci stes-
l’Esserci si prostra passivo. Dire che l’Esserci è nella verità so. Nella verità, dunque, non si ha nulla da fare, sempli-
significa dire che la verità è luogo entro cui qualcosa come cemente si sta. In questo senso l’Esserci non può dispor-
l’Esserci incontra qualcosa come l’ente, ovvero è l’alétheia il re a piacere della verità, ma è nella verità. L’alétheia non
luogo entro il quale l’Esserci accede all’ente, si apre ad esso. si presenta come una massima da mandare a memoria, un
dato semplicemente disponibile, quanto piuttosto come
note qualcosa che si ha costantemente da strappare alla laten-
138
Ivi, p. 279. za, cercando per ogni ente l’interpretazione ontologica
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del senso del suo essere, e dunque prendendosi cura della mento, ovvero volgendosi e convertendosi indietro alla via
parola che questo senso raccoglie e dice. La verità in che già è posta alle sue spalle, che già è pre-supposta a ogni
quanto tale, dunque, non appartiene nemmeno al domi- cercare, inteso come un tornare a quell’originario in cui
nio di ciò che si sa, e quindi di cui si può disporre come sempre siamo ma da cui, innanzitutto e per lo più, ci tenia-
conoscenza utile, quanto al dominio di ciò che essenzial- mo infinitamente lontani. È così che l’alétheia si mostra
mente si è: l’Esserci non ha la verità, ma, in quanto è il suo originariamente come un ethos piuttosto che come l’og-
-ci, è nella verità139. getto di un’epistéme, fondata sul logos apophantikòs.
Della verità, cioè, si è chiamati a dar testimonianza, testi- Di più: giacché l’Esserci è il suo -ci, e giacché l’apertura
monianza che qualcuno in quanto qualcuno porta al vero di tale -ci è l’apertura stessa della verità, è possibile dire
in quanto tale, movendosi nella direzione del suo disvela- che non solo l’Esserci non è padrone della verità ma ne è
lo stesso apparire. Che l’Esserci, esistendo, renda testimo-
note nianza alla verità non significa altro che questo: l’essenza
139
Sembra qui, in qualche modo, di sentir riecheggiare altre e dell’Esserci, in quanto Esser-ci, è l’apparire della verità
diverse parole che, in un contesto non filosofico, pure già si pro- come tale, l’alétheia che si fa fenomeno in se stessa. Non
ponevano come exemplum di una visione della verità assai simi- è l’Esserci a dominare col suo arbitrio il vero, riducendo-
le a quella che stiamo prendendo in considerazione e che lo a doxa, ma è semmai il vero, istituendo quel particola-
Heidegger doveva avere ben presenti: «Io sono la via, la verità e 172 173 re ente che è l’Esserci, a rendere possibile, all’interno
la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se mi della sua apertura, il manifestarsi di qualcosa come una
aveste conosciuto avreste conosciuto anche mio Padre; e fin da
ora lo conoscete e l’avete visto» (Gv, 14, 6-7). La verità è qui la
doxa. Che la verità si radichi nella struttura esistenziale
via che conduce al Padre di chi l’annuncia, cioè alla sua sorgen- dell’Esserci non significa cioè che la verità sia subordina-
te originaria. La verità è testimoniata in quanto via da percorre- ta all’Esserci ma, al contrario, che essa sia l’essenza stessa
re per tornare all’originario. Ma il Padre a cui conduce questa di questo ente e quindi il suo presupposto già sempre
via «nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è presupposto: non c’è Esserci senza verità così come non
nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv, 1, 18). Proprio su c’è verità senza Esserci. Infatti senza verità l’Esserci non
questo punto la posizione heideggeriana diverge radicalmente: avrebbe il suo -ci, e senza l’Esserci la verità non sarebbe
la verità non è ciò che testimonia un Qualcuno privilegiato, l’alétheia di se stessa ma resterebbe celata nell’oblio.
come ad esempio il Figlio dell’Uomo, e a cui gli altri uomini Prima ancora di ogni doxa, ossia di ogni contenuto rite-
devono credere, la verità è piuttosto il luogo in cui ogni uomo, in nuto “vero”, l’Esserci è quindi l’aprirsi e il manifestarsi
quanto Esserci, si trova già. E, per offrire un ulteriore spunto di dell’apertura stessa in quanto tale. Ed in tale senso, ogni
riflessione, sarebbe interessante notare che, se l’Esserci si trova
nell’inautenticità, ossia in un modo della non-verità, ciò che lo
Esserci, a prescindere dal contenuto opinabile che abita
richiama fuori da questa dimensione è la voce della coscienza che l’apertura del suo mondo, è già sempre testimone dell’es-
non indica affatto una trascendenza né alza lo sguardo al cielo, senza della verità, ossia del suo essere disvelamento:
ma ad altro non lo chiama se non al suo più autentico essere per l’Esserci è testimone della verità non perché giunga a dire
la morte ossia alla radicale finitudine dell’Esserci stesso (cfr. M. qualcosa piuttosto che qualcos’altro ma piuttosto perché
Heidegger, Essere e tempo, cit., §§ 53-60. Sulla finitudine l’apparire dell’Esserci è appunto l’apparire dell’apertura
dell’Esserci cfr. anche i rilievi qui esposti più oltre al cap.4). del suo -ci, ossia della verità stessa come apertura
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veritativa140. In tal senso, il rapporto tra Esserci e verità mare la dimensione oggettiva del vero. Se la verità è tra-
deve necessariamente essere frainteso ogniqualvolta lo si scendente l’individuo, cioè trascende non l’Esserci in
intenda come relazione tra termini per sé indipendenti e quanto tale, ma l’Esserci in quanto questo Esserci che ci-è
quindi tali da ammettere, ora la subordinazione dell’uno qui in questo modo particolare, allora la verità, per l’indi-
ora dell’altro dei due. Ma ciò che invece va rilevato viduo, non può essere nemmeno un semplice oggetto,
potrebbe anche dirsi così: l’espressione «l’Esserci è nella giacché è al di là e al di sopra della dimensione ove può
verità» suona come un giudizio analitico, ossia tale dove collocarsi ogni soggettività e quindi oggettività possibili.
i due termini si coappartengono, quindi dove ciascuno è L’Esser-ci trascende l’individualità nel senso che si pone
consustanziale all’altro, la verità in quanto fondamento prima della posizione di ogni individualità: l’Esserci è nella
dell’Esserci e l’Esserci in quanto apparire della verità, ché verità in un modo tale che dell’individuo non se sa né se
senza la verità l’Esserci non avrebbe il suo -ci, e senza ne vede ancora nulla. La verità, quindi, non è né un’opi-
l’Esserci la verità non potrebbe dis-velarsi ma resterebbe nione dell’Esserci, né qualcosa che lo sovrasti restandogli
nell’oblio. essenzialmente estranea: la verità è invece proprio l’essen-
Per altro, che l’Esserci sia nella verità, significa che ogni za dell’Esserci, qualcosa che egli è già da sempre e innan-
Esserci in quanto tale è nella verità. Ciò ribadisce che la zi al quale soltanto trova il senso autentico del suo esiste-
verità non è mai la verità di un certo Esserci, non è mai re, dacché il suo stesso esistere è testimonianza, cioè appa-
qualcosa come la sua opinione o la sua verità. Che ogni 174 175 rire della verità in quanto alétheia. Ogni individuo è chiama-
Esserci in quanto Esserci sia nella verità significa che la to a fare i conti con il suo esserci, con il suo -ci: ciascuno
verità non è a disposizione di nessun Esserci in quanto è chiamato a confrontarsi con la verità che egli stesso già
questo individuo, e non già perché sia qualcosa di universal- da sempre è e porta su di sé. Ma ciò è possibile perché la
mente condiviso da tutti gli individui: l’Esser-ci nella veri- verità è il presupposto che rende in generale possibile
tà mostra piuttosto il trascendere della verità rispetto alla qualcosa come un individuo.
dimensione della pura individualità. Che l’individuo si L’esser-ci nella verità fa dell’Esserci il testimone della
rapporti alla verità non significa affatto che l’individuo in verità. Questa testimonianza a cui l’Esserci è chiamato è
quanto questo individuo sia la sede o la sorgente di essa. la sua stessa esistenza autenticamente compresa, nella
Che l’individuo affermi o faccia esperienza della verità non quale l’Esserci assume coscientemente e autenticamente
significa, tanto meno, che la verità che afferma o esperi- di essere la sua stessa apertura, il suo -ci, interrogando
sce sia in qualche modo proprietà di lui in quanto proprio lui. l’ente che incontra e l’Essere stesso circa il suo senso. Dar
Ma questo non è nemmeno un modo qualsiasi per affer- testimonianza del vero diventa il fondamento del suo ethos
che porta ogni Esserci in quanto tale innanzi all’afferma-
note zione: «io sono nato per questo, e per questo sono venuto
140
Si rimanda il lettore all’interessante confronto che a questo al mondo: per testimoniare della verità. Chiunque è dalla
punto si potrebbe sviluppare tra la posizione heideggeriana verità ascolta la mia voce»141. Il “venire nel mondo” è qui
sopraesposta e la tesi severiniana secondo cui l’autentica essen-
za dell’uomo è l’apparire, cfr. E. Severino, La terra e l’essenza del- note
l’uomo, in Id., Essenza del nichilismo, cit. 141
Gv, 18, 37.
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un modo in cui il linguaggio testimonia l’apparire della conduca davanti a una porta, bussando alla quale le ante
verità, prima che nelle determinazioni specifiche di un si aprano e venga fuori la verità»143. Solo pensando che la
qualche contenuto poetico, nell’apertura di quello spazio verità sia l’oggetto della ricerca di un qualche soggetto inten-
che rende in generale possibile ogni ascolto e in cui con- zionato a conseguirla, si può anche pensare che questa
siste lo stesso fenomeno originario del vero in quanto dis- ricerca sia il metodo volto a indicare i mezzi utili a tale con-
velamento. seguimento. Il presupposto di un simile pensiero è l’idea
Il tema della testimonianza non è qui richiamato a caso. che la verità sia altro da chi la cerca e quindi sia una meta
Non solo, infatti, uno degli aspetti più rilevanti del in sé separata per raggiungere la quale è necessario per-
“secondo” Heidegger, ossia l’articolazione del tema del correre un certo methodos, un certo sentiero. Ma se invece
linguaggio, sarà tutta incentrata sull’idea che l’uomo, chi cerca la verità è già originariamente nella verità, ossia la
l’Esserci, è chi è in quanto risponde a una chiamata silen- pre-suppone, allora ne segue che la ricerca non sarà il metho-
ziosa della quale porta appunto testimonianza nel suo dos che conduce dalla non-verità al conseguimento della
dire, che altro non fa se non co-rrispondere al dire origina- verità, quanto piuttosto quel sentiero che attraversa la con-
rio142. Ma, se teniamo fermo l’intento heideggeriano di trada e attraversandola la mostra: in questo attraversare e
liberare il pensiero dalle maglie concettuali imposte dalla mostrare consiste già la verità e l’autentica non-verità non
filosofia moderna della soggettività, la testimonianza si si pone come ciò che ci separa dalla verità o ne costituisce
configura anche come il modo in cui l’Esserci è nella veri- 176 177 un momento semplicemente preparatorio, ma piuttosto,
tà e che non è essenzialmente estraneo a quello, già illu- autenticamente, come ciò che della verità non s’è ancora
strato nei suoi tratti principali, dell’interpretazione. Il mostrato, oppure, inautenticamente, come ciò che dalla
testimoniare presuppone l’essersi dato di qualcosa, ossia l’es- verità ci tiene lontani. La non-verità non è un qualcosa di
sersi manifestato e svelato un certo ente, il cui essere è com- estraneo che circonda e assedia la verità, ma si pone coo-
preso e il cui senso viene interpretato. Ma giacché l’inter- riginariamente in essa e la presuppone: ogni non-verità è
pretare non porta altrove dal dire, l’interpretare stesso è già inscritta e avvolta dalla verità, trovarsi nella non-veri-
l’atto di una testimonianza mediante la quale l’Esserci tà per l’Esserci non significa trovarsi altrove dal luogo del
racconta il senso dell’ente che ha incontrato nello spazio vero, ma non riuscire a scorgere l’orizzonte che abbraccia
aperto del suo -ci, volgendosi ulteriormente alla possibi- il luogo in cui già l’Esserci si trova.
lità di disvelare il senso originario dell’Essere stesso. Come sottolinea von Herrmann nel suo saggio, significa-
La testimonianza è così un modo per pensare la verità tivamente intitolato Sentiero e metodo:
nella sua presupposizione. In quanto presupposta, infatti,
l’alétheia non è una meta che si raggiunga alla fine di un Non è l’ente stesso che indica anticipatamente al metodo
certo percorso, per dirla con Emanuele Severino: «la veri- la via d’accesso, ma è il metodo che costringe l’ente a
tà non può essere il punto di arrivo di un percorso che ci mostrarsi secondo la sua indicazione preventiva. Questa
essenza dominante propria del metodo dell’età moderna è
note
142
Cfr. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, trad. it., note
143
Mursia, Milano 1973. E. Severino, L’identità della follia, Rizzoli, Milano 2007, p. 50.
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un modo essenziale grazie a cui il soggetto dell’età nient’altro che l’incamminarsi su questo sentiero, il percor-
moderna instaura il suo dominio sull’ente144. [...] Invece rerlo. E tutto ciò, lo ribadiamo, in quanto, pre-supponen-
di metodo e tema, nel pensiero dell’essere c’è «contrada» do la verità come orizzonte di apertura dell’Esserci,
e «sentiero»145. [...] Nel pensiero dell’essere «il sentiero l’Esserci stesso non si pone innanzi a qualcosa di estraneo
appartiene alla contrada». Questa determinazione del e quindi di conquistabile o conseguibile, in quanto si
rapporto fra sentiero e contrada viene in luce nella con- trova già dentro uno spazio aperto, una terra da esplorare e
trapposizione fra questo rapporto e quello fra metodo e che è già tutta la verità e in cui l’Esserci stesso scopre la
tema proprio del pensare e rappresentare dell’età moder- sua più propria essenza. La verità non è così una meta, ma
na. Mentre nel pensiero dell’età moderna il tema ha ori- il luogo stesso in cui siamo. Dovremmo dire: in cui siamo
gine a partire dal metodo, nel pensiero dell’essere il sen- già da sempre. Ma per accedere al senso di questo “sempre”,
tiero scaturisce dalla contrada. Nel rappresentare scienti- occorrerà riprendere e approfondire le analisi del discorso
fico, il tema si sottomette al metodo, ovvero il metodo heideggeriano, onde rilevare i motivi per cui, proprio
dispone del tema. Nel pensiero dell’essere, invece, il sen- questo “sempre” è precisamente il passo che ci porta oltre
tiero si sottomette alla contrada, in quanto è la contrada Heidegger, proseguendo su un sentiero da lui stesso igno-
che, nel suo liberare l’essere che è da pensare, indica pre- rato.
ventivamente il sentiero da percorrere. Nel pensiero del-
l’essere, quindi, il metodo pensato come «sentiero», si 178 179
determina a partire dalla cosa che è da pensare, nella
misura in cui questa cosa prefigura ad esso la via di acces-
so146. [...] Il metodo fenomenologico, in quanto lasciarsi-
mostrare della cosa stessa, si trova così in una posizione
opposta totalmente rispetto alla comprensione del meto-
do propria dell’età moderna147.

La ricerca non è così più da intendere come il faticoso per-


corso che ascende dalla non-verità alla verità: il sentiero
che percorre la contrada disvela la contrada stessa nei suoi
più segreti paesaggi, quindi ogni passo su questo sentiero
è un passo dalla verità verso la verità, e la ricerca stessa è

note
144
F. W. von Herrmann, Sentiero e metodo, trad. it., Melangolo,
Genova 2003, p. 44.
145
Ivi, p. 45.
146
Ivi, p. 47.
147
Ivi, p. 48.
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4. Limiti e prospettive della posizione heideggeriana che «la totalità dell’essente non include, per Heidegger,
l’essere dell’essente: l’essere (l’apparire) non è una cosa tra
Dicevamo che l’Esserci non può disporre a piacere della le cose, e in questo senso non è nulla dell’essente, non è un
verità, proprio in quanto è nella verità. Dobbiamo a que- essente»151. Sicché «nel suo significato essenziale, la “dif-
sto punto ricordare, però, che Heidegger aggiunge anche: ferenza ontologica” è il modo in cui si ripresenta in
«”c’è” verità solo perché e fin che l’Esserci è. L’ente è scoperto Heidegger la tesi di Kant del carattere sintetico dei giudi-
solo quando, ed aperto solo fin che, in generale, l’Esserci zi esistenziali e, in generale il principio fondamentale del
è»148. Le determinazioni del “quando” e del “fin che” allu- pensiero dell’Occidente che l’unità dell’essere e dell’essen-
dono alla temporalità finita propria dell’Esserci, che in te ha un carattere accidentale»152. L’ente è, ma è il suo esser
Essere e tempo è l’autentica temporalità in base alla quale la essente non in virtù di se stesso: l’ente è, ma solo fintanto che
verità dell’esistenza dell’Esserci può rivelarsi come il suo è, anzi, meglio, l’ente è solo quando è. La temporalizzazio-
essere-per-la-morte. Quando l’Esserci si decide per l’antici- ne dell’ente è precisamente il modo, già aristotelico153, per
pazione della sua mortalità non fa altro, del resto, che por- indicare che la connessione tra l’ente e il suo essere non si
tare la mortalità all’interno dello spazio aperto del suo - dà sempre, ossia non è ne-cessaria. E poiché quando l’ente
ci, e porla come pre-cognizione di ogni suo pro-getto. non è connesso al suo essere è niente, nel senso del nihil
Proprio in questo modo il senso della verità, nonché della absolutum, la temporalizzazione dell’ente è un modo per
temporalità circolare del suo pre-, vengono letti e inscrit- 180 181 pensare la nientificazione dell’ente, per porre il niente al
ti nel senso stesso della temporalità finita149. cuore di ciò che esiste. La differenza ontologica che domine-
Certo, si potrebbe obiettare che per Heidegger, almeno rà gli sviluppi successivi del pensiero heideggeriano si
guardando allo sviluppo complessivo del suo pensiero, il rivela allora, a dispetto di quanto potrebbe sembrare, non
niente non è del tutto identificabile con il Nihil absolutum, tanto come un abbandono del tema della temporalità
ma con il non-ente che, in quanto differisce dall’ente è lo spa- quanto come una sua radicalizzazione: l’essere dell’ente
zio stesso dell’Essere pensato appunto nella sua originaria non è subordinato all’accidentalità del quando ma è proprio
ed essenziale differenza ontologica150. Ma ciò vuol poi dire necessariamente e già da sempre un nihil absolutum.
Heidegger si preoccuperà di dare una compiuta articola-
note zione a questa concezione lasciando cadere, almeno espli-
148
M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 278.
149
Che questa temporalità finita ammetta il senso ontologico note
150
radicale del passaggio dall’Esse al nihil absolutum lo si potrebbe Cfr. M. Heidegger, Che cos’è metafisica?, trad. it., Adelphi, Mila-
evincere da passi come il seguente, in Ivi, p. 290: «Nel momen- no 2001; Id., Dell’essenza del fondamento e La questione dell’essere, in
to preciso in cui l’Esserci “esiste” in modo tale che in esso non Segnavia, trad. it., Adelphi, Milano1987, pp. 79-132 e 335-374.
151
manchi più nulla, esso è anche giunto al suo non-Esserci-più. E. Severino, La filosofia futura, Rizzoli, Milano 2006, p. 327.
L’eliminazione della mancanza di essere importa l’annichili- Per una più dettagliata discussione del tema della differenza
mento del suo essere. Fin che l’Esserci è come ente, non ha anco- ontologica vedi Ivi, pp. 313-335.
152
ra raggiunto la propria “totalità”: ma una volta che l’abbia rag- Ivi, p. 318.
153
giunta, tale raggiungimento importa la perdita assoluta dell’es- Cfr. la formulazione “temporalizzata” del principio di non
sere-nel-mondo. Da allora non è più esperibile come ente». contraddizione offerta in Aristotele, Categorie, 19a, 20.
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citamente, il tema della presupposizione e identificando possibilità di questi sviluppi affondi le sue radici proprio
piuttosto la verità con il lasciar-essere l’ente nel suo disve- nella trattazione della verità presente in Essere e tempo. Più
larsi154. L’Essere stesso sarà inteso come il libero offrirsi in particolare, quando Heidegger ha posto in esame la
della sua verità, e per questo sarà pensato come l’Evento del concezione della verità come adaequatio, comprendendo
disvelarsi e quindi come l’accadere dell’alétheia. La differen- implicitamente con ciò tutte quelle definizioni che trat-
za ontologica tra Essere ed essente mira così a porre la cor- tano la verità come un predicato o comunque come una
nice concettuale necessaria a sottolineare la gratuità di tale funzione del linguaggio e del giudizio, pure ha trascura-
Evento: solo se l’Essere è il ni-ente dell’ente, cioè altro dal- to totalmente il fatto che esiste un’altra concezione della
l’essente, l’Essere può accadere come Evento e farsi radura, verità, non meno tradizionale, di cui ora è forse giunto il
ovvero donarsi liberamente e in tale donarsi avere la sua momento di tentare una minima genealogia.
verità. Questo libero donarsi dell’Evento, la cui temporali- Heidegger si confronta certo e assai approfonditamente
tà autentica è quella propria del libero accadere, libera a con Aristotele, ma, nonostante ciò, pare considerare del
pari tempo la verità da ogni ne-cessità e la restituisce alla tutto marginale, tanto da non farne nemmeno cenno, ciò
gratuità del suo del suo occasionale offrirsi all’ente. che proprio Aristotele asserisce nella Metafisica:
L’Evento, infatti, non è un semplice accadimento, non è un
fatto, ma è ciò che dona l’essere all’essente, o, che è lo stes- gli assiomi appartengono a tutte le cose in quanto tutte
so, è il dar-si dell’essere all’ente: è così che emerge compiu- 182 183 sono esseri (l’essere è, infatti, ciò che è comune a tutto),
tamente la differenza ontologica in quanto tale e pure si competerà a colui che studia l’essere in quanto essere anche
compie il tentativo ultimo di risalire a quell’orizzonte lo studio di questi assiomi. [...] E il principio più sicuro di
assolutamente originario e non ulteriormente trascendibi- tutti è quello intorno al quale è impossibile cadere in erro-
le, l’Evento appunto155. Ma cosa presuppone tutto ciò? Che re: questo principio deve essere il principio più noto (infat-
l’ente, affinché gli possa esser donato l’essere, ossia affin- ti, tutti cadono in errore circa le cose che non sono note) e
ché possa accadere l’evento del dono, sia di per sé sprovvisto deve essere un principio non ipotetico. Infatti, quel princi-
dell’essere: perché il dono possa essere tale, l’ente non può in pio che di necessità deve possedere colui che voglia cono-
alcun modo già possedere ciò che gli viene donato. Ma è scere qualsivoglia cosa non può essere una pura ipotesi, e
allora ben difficile non rintracciare in questa posizione ciò che necessariamente deve conoscere chi voglia conosce-
proprio un modo, velato e indiretto, per pensare con estre- re qualsivoglia cosa deve già essere posseduto prima che si
ma radicalità che, in fondo, l’ente, in sé, è un niente, non apprenda qualsiasi cosa. È evidente, dunque, che questo
ha nessun essere, l’ente in quanto tale è il non-essente. principio è il più sicuro di tutti. Dopo quanto si è detto,
Tuttavia, pare legittimo riconoscere che la condizione di dobbiamo precisare quale esso sia. È impossibile che la stes-
sa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga a una
note medesima cosa, secondo lo stesso rispetto156.
154
Cfr. M. Heidegger, Sull’essenza della verità, in Segnavia, cit.,
pp. 133-157. note
155
Cfr. in merito la conferenza Tempo e essere in M. Heidegger, 156
Aristotele, Metafisica, IV, 1005a 25 - 1005b 10-20, Bom-
Tempo e essere, cit., pp. 3-31. piani, Milano 2000, pp. 141-143.
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È qui che lo Stagirita presenta una delle formulazioni più tà dei principi: l’affermazione del principio di non con-
note del principio di non contraddizione. Questo è delinea- traddizione compete al nous. E, sempre qui, alétheia è inte-
to non solo come una proprietà del discorso ma come una sa proprio nel senso greco che Heidegger ci ha ricordato,
proprietà dell’essere in quanto tale e, per tal motivo, riguar- giacché l’intuizione di un principio come vero non può
da ogni ente in virtù del suo esser-qualcosa. Tale principio, esser altro che il suo emergere in luce uscendo dalla laten-
inoltre, è qualcosa che viene sempre presupposto a priori, in za: il principio è sempre latentemente dato, sempre presup-
quanto è assolutamente primo, originario, appunto: sta in posto, è presente ognora sebbene non sia evidente, il prin-
principio. In questo senso lo si può chiamare il fondamen- cipio fondamentale in genere si nasconde allo sguardo.
to, non solo di ogni dire ma anche di ogni essere. È il nous che ce lo mostra, sottraendolo a questo nascondi-
Per quanto si diceva prima si può notare che allora «non mento, e in questo dis-velarsi sta la sua verità.
è un caso che Heidegger non presti alcuna attenzione alla A questo punto, però, non possiamo non ricordarci della
bebaiotáte aché. [...] Il principio di non contraddizione, parola di Parmenide: «lo stesso è l’essere e il noein».
infatti, non è un semplice svelamento, ma è connessione Questo dice il terzo frammento del suo poema. Deli-
necessaria dell’essente con se stesso»157. E questo nono- beratamente non traduciamo noein con “pensiero”, come
stante l’élenchos su cui si regge la bebaiotáte aché, sia proprio usualmente si fa, giacché intendiamo sottolineare il signi-
quella necessità della presupposizione della verità del ficato di questa parola alla luce di quanto menzionavamo
principio che abita necessariamente anche la concezione 184 185 di Aristotele: noein è la facoltà dell’intuire il principio,
heideggeriana della verità. cioè di disvelare il principio, noein indica il suo venire in
Aristotele aveva anche affermato nell’Etica Nicomachea, a luce, cioè è la sua verità, intesa come alétheia159. Quando
proposito del nous come facoltà dell’intuire i principi: Parmenide pensa l’identità tra noein ed einai, sta pensan-
do nient’altro che l’alétheia dell’Essere: che l’Essere e l’in-
se le disposizioni per cui cogliamo la verità e non cadia- tuizione che ne svela il suo esser-sempre-presupposto
mo mai in errore, sia sugli oggetti che non possono sia su siano lo stesso è il significato dell’espressione “verità
quelli che possono essere diversamente, sono scienza (epi- dell’Essere”, e si giunge a tale verità quando il noein coglie
stéme), sapienza (sophia), saggezza (phronesis) e intelletto il carattere di sempre-pre-supposto che caratterizza essen-
(nous), e se i principi non possono essere oggetto di tre di zialmente l’Essere in quanto tale.
queste (con tre intendo saggezza, scienza e sapienza), resta Tale interpretazione può apparire forse filologicamente
che essi siano oggetto dell’intelletto (nous)158. infondata. Ma la ragione per cui essa va assunta come vera
non è affatto di natura filologica, ma di natura filosofica: il
Dunque il principio di non contraddizione è vero ed è
colto dalla facoltà propria della ragione di intuire la veri- note
159
In merito a questo frammento Heidegger nota in Essere e
note tempo, p. 263: «la prima scoperta dell’essere dell’ente, dovuta a
157
E. Severino, La filosofia futura, cit., p. 315. Parmenide, “identifica” l’essere con l’apprensione intuitiva del-
158
Aristotele, Etica Nicomachea, 1141a, trad. it., Bompiani, l’essere». In merito cfr. anche M. Heidegger, Saggi e Discorsi,
Milano 2000, p. 239. trad. it., Mursia, Milano 1976, pp. 158-175.
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pensiero non è l’Essere in quanto tale, pensiero ed Essere Nella concezione parmenidea, la verità dell’Essere è colta
non sono la stessa cosa tout court, Parmenide non era un come Ananke e come Dike, e tale concezione resterà, nono-
idealista né si può pretendere che lo fosse stato. Egli dove- stante il parricidio platonico, come condizione di possibi-
va intendere qualcosa di diverso: lo stesso è l’Essere e l’in- lità della concezione aristotelica. Non a caso, il Libro IV
tuire il principio dell’Essere. È lo stesso in quanto questo da cui prima leggevamo, presenta l’amplissima mostrazio-
principio è il senso medesimo dell’Essere, e la sua intui- ne per via di confutazione della verità del principio. Tale
zione è la verità dell’Essere: ogni essere si dà in virtù di principio non è dimostrato a partire da altro, in quanto,
ciò. Ma qual è questo principio, in Parmenide? In quel essendo appunto principio, non può presupporre niente di
poco che ci è rimasto del suo poema esso risuona con que- più originario dal quale conseguire: in ciò risiede il senso
ste parole: «è necessario il dire [legein] e il pensare [noein] stesso della principialità. Piuttosto, viene mostrato come
che l’essere sia: infatti l’essere è, il nulla non è»160. ogni discorso, anche quello che vorrebbe negarlo, in real-
Come viene quindi pensata, qui, la verità? Alétheia è l’intui- tà debba presupporre il principio stesso: la verità del prin-
re del nous la necessità che l’Essere sia e quindi la necessità, cipio è la necessità della sua presupposizione, questa verità
per ogni discorso, di non allontanarsi da questa via, che «è ha il senso dell’alétheia cioè del far emergere in ogni
il sentiero della persuasione perché tien dietro alla veri- discorso che questo principio vi è ammesso, anche laddo-
tà»161. La necessità che l’Essere sia è la necessità per il ve lo si pare negare, cioè dove questo sembrerebbe non
discorso di non poter affermare altro: non esiste un discor- 186 187 apparire affatto: l’élenchos è ciò che mostra la verità del prin-
so che possa affermare che l’Essere non è, ciò è logicamente cipio in quanto mostra la necessità per cui la verità stessa è il
e ontologicamente impossibile. Questa doppia determinazione sempre presupposta.
non deve far pensare, come di fatto è poi avvenuto e avvie- La verità, all’alba del filosofare, è intesa come il mostrar-
ne, all’arbitrarietà della componente ontologica, giacché, al si della necessità stessa dell’Essere: vero è il non poter non
contrario, in origine l’Essere non è mai pensato come un presupporre che l’Essere sia. Il presupporre pone dietro, a
concetto che poi possiede di fatto una natura ontologica. monte, che l’Essere sia, e in quanto fondamento presup-
“L’Essere è”: il senso di questa affermazione precede e rende posto di ogni dire, viene nascosto, non è subito evidente.
possibile ogni distinzione, ammesso che essa abbia effetti- Intuire mediante il nous che l’Essere effettivamente sem-
vamente senso, tra piano logico e ontologico, in quanto pre è, cioè portare in luce il presupposto, disvelarlo, è
questa dovrebbe postulare che l’offrirsi di qualcosa al logos l’alétheia dell’Essere. Poiché nessun dire, nessun legein,
non sia necessariamente l’offrirsi di qualcosa in quanto essen- può fare a meno di questo presupposto, intuire la necessi-
te, ma da quanto detto fin qui, appare ormai chiaro che ciò tà per cui l’Essere sempre è, come fondamento di ogni
è proprio il contrario di quello che mostra l’esperienza ori- dire, è il costituirsi come vero di ogni discorso: il discor-
ginaria della presupposizione della verità in quanto alétheia. so è vero in quanto presuppone la verità dell’Essere.
L’intuizione di questa verità, non è altro che il manifestar-
note si dell’Essere stesso, il medesimo è l’Essere colto in sé e
160
Parmenide, Sulla natura, trad. it. G. Reale, Bompiani, colto nel suo disvelarsi, nella sua verità, per ciò che rive-
Milano 2001, Frammento 6. la il noein. Che l’Essere non possa non essere significa
161
Parmenide, Sulla natura, cit., Frammento 2. anche, se non soprattutto, che l’Essere stesso, in quanto
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sempre presupposto, non può non essere presupposto: il sario, ovvero che l’Essere oscilli sul nulla e che quindi sia
non essere si costituisce propriamente come l’impossibili- separabile dal suo “è”. La finitezza dell’Essere, quella per
tà di eludere la presupposizione che l’Essere sia. O, anche, cui per gli essenti viene il tempo del loro non esserci più,
il sempre, proprio della presupposizione, inerisce elenctica- non appartiene alla verità dell’Essere ma al suo nascondi-
mente al fatto che anche la negazione di tale presupposi- mento: il pensiero della finitezza ontologica abita la non-
zione, non può tuttavia evitare di presuppone pur sempre, verità, coincide con il suo oblio. Nessun senso dell’Essere
come condizione della sua stessa possibilità, la presuppo- può ricercarsi sul fondamento di tale oblio. E fuori da
sizione che intenderebbe negare. Sicché se negazione si questo emergere il senso della necessità che abita il vero:
può dare, essa può costituirsi solo come contraddizione. Ananke veglia qui sull’alétheia.
L’Essere è di per sé stesso la sua incontraddittorietà e in ciò Nella misura in cui ogni ente è in quanto posto in tale
risiede il senso del suo esser-sé, della sua identità162. necessità, nessun ente può finire: il fine, in quanto tale, non
Su questa base si può allora intendere quale dovrebbe c’è, manca. La necessità dell’Essere è la necessità che ogni
essere il significato autentico di ogni adaequatio. ente sia sempre, in quanto l’Essere che presuppone è neces-
L’intuizione che il nous ha dell’Essere è intuizione origina- sariamente legato al suo “è” e da questo “è” mai si separa.
ria e quindi sui generis163: non è l’afferramento di un certo Ma in Essere e tempo, questo pensiero non compare né può
contenuto noetico determinato, ma la comprensione imme- comparire. Anzi, poiché identificare il senso dell’Essere con
diata della necessità dell’Essere e del suo esser sempre pre- 188 189 la sua temporalità è il modo più rigoroso con cui Heidegger
supposto in ogni essente. Tale necessità dice: nessun pensa l’esser-finito dell’Esserci, cioè il suo essere scindibile
essente si separa dal suo essere, l’Essere stesso non può dal proprio “è” e dal proprio -ci, ovvero il suo esser essente
separarsi da sé, l’autoidentità dell’Essere non si lascia sov- solo quando e per il tempo in cui è essente, non ci sorprende
vertire, poiché, quando il dire pare pronunciare questo allora che l’opera, fallita nel suo progetto originario e resta-
sovvertimento in realtà sta presupponendo l’incontrover- ta incompiuta, si concluda con le domande dell’inizio: «c’è
tibile necessità che l’Essere sia. una via che conduca dal tempo originario al senso dell’essere?
La verità dell’Essere è una verità presupposta. Ma questa Il tempo si rivela forse come l’orizzonte dell’essere?»164.
presupposizione aggiunge ora un senso inaudito rispetto a Indubbiamente, se un ente qualsiasi può finire, cioè farsi
quello che è già presente in Heidegger: la verità è presup- nihil absolutum, ciò sarà possibile solo perché l’Essere che è in
posta perché nessun logos può affermare che l’Essere non quell’ente è siffatto da ammettere la sua conversione in
sia, cioè che l’Essere sia uguale al non-Essere, non ne-ces- niente, dunque, nonostante la differenza ontologica, vale
qui l’affermazione per cui se l’ente va nel niente allora è
note l’Essere stesso ad essere tale da poter ammettere di conver-
162
Cfr. Il solido cuore della verità, cap. 2. tirsi nel suo opposto e quindi se la temporalità dell’ente è
163
Intuizione sui generis, diciamo, per indicare che questo intui- lo spazio del suo annientamento allora la finitudine di que-
re, la cui portata e il cui senso investono un aspetto del discor- sta temporalità è la finitudine dell’Essere stesso.
so sulla verità dell’Essere che Heidegger non considera, sta al di
qua della distinzione tra comprensione e intuizione proposta note
164
nel § 31 di Essere e tempo, cit., p. 187. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 520.
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Ma se la temporalità della verità dell’Essere, così come necessitante della presupposizione della verità fu affermata
emerge dalle nostre ultime considerazioni, ha da esser cer- in tutta chiarezza e per la prima volta, e dove emerse esser
cata all’interno del senso del sempre proprio della presup- proprio la necessità del sempre presupposto a costituirsi
posizione, e non già in quello del fintanto-che proprio della come caratteristica di ciò che non si può fare mai a meno
finitudine, allora, giacché Heidegger pensa il tempo ori- di presupporre anche quando lo si tenta di negare, e che
ginario proprio come il tempo in cui l’Esserci è fintanto quindi si pone inevitabilmente come il fondamento di
che è, e poi è niente, cioè il tempo in cui un essente, ogni dire veritativo e di ogni esser-ci. Sta qui la ragione per
l’Esserci, che in quanto tale presuppone sempre il suo cui si può pensare che lo stesso pensiero heideggeriano che
Essere, può talvolta non presupporlo, ebbene, allora da pure ne ripropone potentemente la questione, permanga
tutto ciò segue che la risposta alle domande sopracitate tuttavia ancora all’interno dell’oblio dell’Essere. Tale oblio
potrà essere solo e unicamente negativa: questa via che risalta nella considerazione dell’esito ultimo della tratta-
Heidegger percorre è un vicolo cieco. Egli stesso, in qual- zione sviluppata in Essere e tempo: c’è verità fintanto che c’è
che modo dovette avvedersene, giacché lasciò incompiuta l’Esserci. In quanto l’Esserci non c’è sempre, ma solo fin
l’opera e, a prescindere dal come la si voglia interpretare, che dura, il suo tempo è finito, il senso della sua gettatez-
sentì l’esigenza di una svolta. Ma ogni strada svolta solo za è l’esser destinato al niente. Ma il senso dell’Essere che
perché non può continuare dritta nella medesima direzio- si mostra nella sua alétheia è proprio che l’Essere è necessa-
ne che aveva intrapreso. La condizione di possibilità di tale 190 191
svolta risiede quindi, in ultima analisi, nel voler presup- note
porre ciò che il legein non può mai affermare, ovvero che
it., Adelphi, Milano 1982), in cui viene sviluppata e approfon-
un qualsiasi essente sia scindibile dal suo essere, cioè dita la visione dell’alétheia in quanto disvelamento, ma in cui
negare la necessità in cui consiste la verità dell’Essere, manca tuttavia una considerazione criticamente forte del prin-
quell’alétheia che dice l’impossibilità stessa che l’Essere cipio parmenideo per cui l’Essere è e non può non essere. Del
non sia. E si badi: non può essere affermato che l’Essere resto, anche negli sviluppi ancora successivi, l’interesse di
non sia, non perché ciò suoni come una bestemmia che va Heidegger per Parmenide sembra concentrarsi e limitarsi
contro il comandamento di un qualche dio, ma perché il soprattutto ai primi frammenti del poema, in riferimento alla
dire stesso che nega l’Essere è unicamente in quanto dire connessione essenziale tra verità, svelatezza e lichtung, si veda in
contraddittorio che presuppone ciò che nega165. merito il testo del 1964 La fine della filosofia e il compito del pen-
Heidegger, proprio in Essere e tempo, non poté approfondire sare in M. Heidegger, Tempo e essere, cit., pp. 87-88: «La radura
la sua indagine in questa direzione, in quanto venne meno che vige nell’essere, nella presenza, resta impensata come tale
dalla filosofia, benché al suo esordio si parli della radura. Dov’è
al confronto con Parmenide166, cioè il filosofo in cui il senso
che se ne parla e con quale nome è chiamata? Risposta: nel
poema filosofico di Parmenide. [...] Cosa vuol dire “cuore non
note tremante della svelatezza”? Tale espressione intende la svelatez-
165
Cfr. in merito Il solido cuore della verità, cap. 1. za stessa nel suo carattere più proprio, ossia il luogo che nella
166
In realtà una testimonianza di tale confronto, la si ebbe sua silenziosa calma raccoglie in sé ciò che la svelatezza per
diversi anni dopo Essere e tempo, nel corso che Heidegger tenne prima concede. Quell’espressione intende allora l’apertura che è
nel semestre invernale 1942/1943 dedicato a Parmenide (trad. propria della radura».
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riamente essente. Tutto questo evoca per la gettatezza necessità che vieta come impossibile di recidere l’Essere
dell’Esserci un senso inaudito allo stesso Heidegger: da ogni essente, il senso di ogni interpretazione ontologi-
l’Esserci è gettato in quanto destinato eternamente al suo ca non sta nel mediare e mettere insieme elementi che per
esser-ci. Ma tale senso inaudito non abita totalmente fuori sé non presentano connessioni evidenti, quanto piuttosto
dalla concezione heideggeriana, costituendone piuttosto nel portare in luce il nesso necessario per cui ogni ente è
un inconscio, un non pensato che si manifesta alla superfi- il suo essere, cioè è solo nella misura in cui presuppone
cie come l’aporia che viene a costituirsi tra il senso del sem- sempre l’Essere. L’interpretazione, così intesa, non è essen-
pre proprio della presupposizione dell’Essere e della sua zialmente altro dall’alétheia stessa, o, meglio, è l’emerge-
verità, e il senso della finitudine e della contingenza che, re dell’alétheia nel dire di quel logos che volge indietro lo
suggellate dall’essere-per-la-morte, si pongono come la meta sguardo alla sorgente originaria da cui proviene, e che
argomentativa ultima. Ciò induce a ritenere che il senso interpretando disvela la necessità dell’essente, riportando-
proprio della necessità e del sempre non possano essere piena- lo a ciò che è già da sempre e comunque.
mente colti all’interno del pensiero di Essere e tempo senza A questo punto, non ha però più nemmeno senso chiede-
giungere per ciò stesso ad una sua radicale emendazione. re perché l’Esserci abbia bisogno di questo rapportarsi al
L’Esserci è nella verità. Tale verità è l’alétheia dell’Essere, nascondimento e di concepire la verità come a-létheia: ciò
essa ha il senso dell’aprirsi dell’Esserci, nell’apertura non è un fatto arbitrariamente occorso, ma è il senso stes-
l’Essere si manifesta come ciò che non si può fare a meno 192 193 so della specificità del suo -ci e del suo essere-nella-veri-
di presupporre, nell’ambito del discorso questo si traduce tà, ovvero del suo esser-questo ente che ci-è. Dunque, che
nell’impossibilità della negazione, così come è attestata per l’Esserci la verità sia sempre e solo a-létheia non è un
dall’élenchos. Il senso dell’Essere si determina a partire da qualcosa che vada ulteriormente giustificato, essendo
questa verità originaria: l’Essere è il sempre-presupposto. piuttosto il venir in luce del significato essenziale
Che questo carattere sia proprio dell’Essere significa, come dell’Esserci in quanto Esser-ci: «il fatto di porre il proble-
diceva già Aristotele, che è proprio di tutte le cose in quan- ma del senso dell’essere non conferisce alla ricerca il carat-
to enti: è il senso dell’essere di ogni ente. Ogni ente è quin- tere recondito e imperscrutabile di un’indagine intorno a
di già essente e già presuppone l’Essere. La verità è il por- ciò che starebbe dietro all’essere, ma non fa che porre in
tare a disvelamento questo presupposto. L’apertura questione l’essere stesso nei limiti della sua comprensibi-
dell’Esserci è la verità, per l’Esserci la verità è il comprendere lità da parte dell’Esserci»167.
come l’Essere sia il presupposto di ogni ente. Essere nella In particolare, proprio perché questo comprendere si situa
verità vuol dire quindi, per l’Esserci, avere la facoltà di interamente entro il circolo ermeneutico determinato
intuire, noein, l’Essere dell’ente nella necessità del suo esser dalla struttura del pre-, rivela l’infondatezza ontologica di
sempre-presupposto. Questo noein tramite cui l’Esserci origi- ogni domandare intorno al per-ché dell’Essere o dell’esi-
nariamente coglie l’Essere come il sempre-presupposto, ov- stenza in quanto tale. Ma l’infondatezza di tale domanda-
vero accede originariamente agli enti, è il senso dell’esser- re si rivela pienamente solo se si tiene presente il senso del
aperto e in questa apertura sta la verità dell’Essere, intesa
come l’alétheia che rivela noein ed einai come autò, lo stesso. note
167
Del resto, poiché il senso della verità dell’Essere è la M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 193.
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sempre che caratterizza l’Essere nella sua propria alétheia: metafisica fondamentalmente come nichilismo169.
l’Essere non ha un per-ché, nel senso tradizionale con cui si Che il senso dell’Essere sia stato storicamente obliato non è
intende il chiedere perché come un chiedere circa la causa dunque estraneo all’averlo cercato a partire da tale
di qualcosa. Il senso del sempre che caratterizza l’Essere è domanda, cioè a partire da quell’interrogare che per defi-
identico all’escludere ogni altra possibilità alternativa nizione non può portare fuori dall’oblio, giacché resta sem-
all’Essere. Chiedere perché l’Essere sia, vuol dire presuppor- pre e comunque chiuso alla sua alétheia. In tal senso, pos-
re invece che l’Essere, a priori, potrebbe non esservi affat- siamo giungere con Heidegger170, a identificare la storia
to, potrebbe piuttosto esserci il niente puro e semplice. del pensiero che di questa domanda “metafisica” ha fatto
Il presupposto di questo perché è dunque nell’oblio del il suo fondamento, come la storia stessa dell’oblio del
sempre che caratterizza la presupposizione dell’Essere e senso dell’Essere:
della verità, ovvero l’oblio del senso della necessità che
lega indissolubilmente ogni essente all’identità del suo se il problema dell’essere stesso deve venire in chiaro
esser-essente. Chiedere il “perché esiste” non è affatto, quanto alla propria storia autentica, è necessario che una
dunque, una domanda che consenta un’effettiva interpre- tradizione consolidata sia resa nuovamente fluida e che i
tazione ontologica dell’Essere e dell’ente, giacché resta veli da essa accumulati siano rimossi. Questo compito è
all’oscuro del senso originario dell’Essere stesso168. da noi inteso come la distruzione del contenuto tradiziona-
Chiedere “perché in generale è l’ente e non piuttosto il 194 195 le dell’ontologia antica, distruzione da compiersi sotto la
nulla?”, con tutte le varianti possibili, è una domanda che guida del problema dell’essere, fino a risalire alle esperienze
ha senso solo presupponendo che l’Essere potrebbe non esser- originarie in cui furono raggiunte quelle prime determi-
ci sempre, cioè ponendosi a priori nella lontananza più nazioni dell’essere che fecero successivamente da guida171.
completa da ciò che si cerca. Questa, dunque, non è affat-
to una domanda fondamentale, se con tale espressione s’in- note
tende una domanda volta a rintracciare il senso dell’Essere. 169
In L’essenza del Nichilismo (in M. Heidegger, Metafisica e nichi-
Anzi, presupponendo che l’Essere possa non essere, cioè lismo, trad. it., Melangolo, Genova 2006, pp. 159-224), Heideg-
che sia niente, questa stessa domanda, nella misura in cui ger sostiene che la metafisica è essenzialmente nichilismo in
è intesa come domanda metafisica fondamentale rivela la quanto dominata dalla dimenticanza della differenza ontologica.
Ma da quanto detto fin qui, appare chiaro che la stessa differen-
note za ontologica può essere fatta rientrare tra le forme del nichilismo
168 qualora questo sia inteso come la persuasione che, in fondo, l’es-
Per quanto di sfuggita, vale la pena richiamare l’attenzione sul
fatto che, nonostante queste considerazioni, si potrebbe forse sente è un niente. In questo senso assumiamo e impieghiamo qui
pensare un nuovo senso per la domanda circa il “perché?” ascol- il termine, cfr anche La civiltà della solitudine, capp. 3-4.
170
tando più attentamente il “per-” che in essa risuona. Questo, La presentazione e l’analisi della domanda “perché vi è in
infatti, indica originariamente qualcosa come una direzione, ossia generale l’essente e non piuttosto il nulla?” è svolta da Heidegger
un senso, sicché la domanda verrebbe ora a chiedere non già la in modo decisivo sia nella sua prolusione Che cos’è metafisica?, trad
ratio per la quale qualcosa è piuttosto che esser un niente, quan- it., Adelphi, Milano 2001, sia nel suo corso Introduzione alla meta-
to piuttosto il senso del suo essere, senso che si manifesta appunto fisica, trad. it., Mursia, Milano 1968, pp. 13-61.
171
all’interno dell’interpretazione ontologica dell’ente stesso. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 41.
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Ciò di cui Heidegger però non si avvede proponendo que- compete all’ente solo per un tempo finito al di fuori del quale
sta programmatica distruzione dell’ontologia e quindi della dell’ente non ne è più nulla173. Gli esiti successivi del pen-
stessa tradizione metafisica è che risalire alle «esperienze siero heideggeriano, con l’emergere delle tematiche proprie
originarie in cui furono raggiunte quelle prime determina- della differenza ontologica e dell’Evento, nonché la conseguen-
zioni dell’essere» significa, in fin dei conti, Ritornare a te interpretazione della verità come libero accadere
Parmenide, cioè intraprendere proprio quel cammino di pen- dell’Evento stesso, proseguiranno questa linea interpretati-
siero che in Essere e tempo si presuppone non esistere affatto e va. Ma questo sentiero, su cui svolta la riflessione heidegge-
che i successivi sviluppi del pensiero heideggeriano, proprio riana, e che, con Parmenide, potremmo dire quello su cui
in quanto manterranno il lavoro svolto in quest’opera come «Essere e non essere sono considerati la medesima cosa e
punto di riferimento critico, dovranno sistematicamente non la medesima»174, è proprio quel sentiero che è posto
sorvolare172. Del resto, partire dal senso del sempre che carat- come impercorribile e impossibile dal pensiero che ricono-
terizza l’Essere significa giungere ad una vera e propria dis- sce come necessaria e consustanziale alla presupposizione
soluzione del progetto di interpretare l’Essere alla luce della della verità dell’Essere la temporalità del sempre per cui ogni
temporalità finita, già programmaticamente annunciato nel ente è già da sempre ed essenzialmente il suo esser-essente.
titolo “Essere e tempo” e tuttavia rimasto incompiuto. Fare i conti con tutto questo non significa travisare o pre-
Anzi, che negli sviluppi del pensiero heideggeriano, scindere dal lavoro di Heidegger, quanto piuttosto riper-
l’Essere finisca per mostrarsi come qualcosa che di per sé 196 197 correre i momenti fondamentali della sua stessa speculazio-
si cela e si ritrae è una conseguenza necessaria del perma- ne e svilupparli in un’altra direzione, in un diverso senso.
nere di tale pensiero entro il nichilismo, ossia entro quel L’Essere è il sempre-presupposto, ovvero ciò che è sempre
modo di pensare che è necessariamente coprente dacché presente come condizione di possibilità dell’esistenza di
pretende negare il presupposto innegabile di ogni pensie- ogni ente e di ogni dire. In questo senso si può affermare
ro. Ed è così che un’eclissi si mostra come lo spegnersi del che l’Essere sia il trascendentale per eccellenza. Ma ciò
sole, quando invece è la luna a celarlo gettando sulla terra significa: l’Essere è sempre presupposto anche in quel dire
le ombre dell’universo. che intende negarlo, o in quel fenomeno che parrebbe
La centralità di Essere e tempo resta tuttavia ribadita da quan- negarlo. La negazione dell’Essere è nient’altro che l’affer-
to prima si veniva dicendo. Va infatti a quest’opera il meri- mazione che l’Essere non è, cioè che è identico al niente.
to di aver indagato con profondità eccezionale il nesso tra Che l’Essere sia necessariamente sempre presupposto lo si
Essere, verità, presupposizione e interpretazione. Questo
nesso, tuttavia, viene sviluppato da Heidegger in relazione note
e in funzione di una prospettiva ontologica in cui l’Essere 173
Cfr. C. Angelino, L’errore filosofico di M. Heidegger, Melangolo,
Genova 2001, p. 29: «Heidegger ribadisce, di contro all’identi-
note tà di Eternità ed Essere, l’identità di Essere e Tempo. Da questo
172
Tra le principali opere heideggeriane successive a Essere e tempo vero e proprio “dogma” della sua filosofia deve quindi prendere
e dedicate al tema qui trattato, si ricordino lo scritto del 1940 La le mosse ogni genuino confronto con il pensiero di Heidegger, e
dottrina di Platone sulla verità, in Segnavia, cit., pp. 159-192; e il quindi anche l’indicazione del suo “errore filosofico”».
già citato testo del 1943 Dell’essenza della verità, ivi, pp. 133-158. 174
Parmenide, Sulla natura, cit., Frammento 6.
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ricava per via di mostrazione elenctica proprio dall’analisi Non vale a questo punto riproporre l’obiezione classica
dei tentativi di identificarlo al niente, siano essi pure secondo cui un simile discorso finirà inevitabilmente col
affermazioni o ricavati dall’interpretazione di certi feno- negare la molteplicità e il divenire che pure riscontriamo
meni. L’Essere non è e non va inteso, hegelianamente, nella realtà. Tale obiezione mostra infatti di non aver inte-
come il concetto più vuoto, il pensiero heideggeriano ci so il cuore del discorso: è solo a partire dalla verità inne-
ammaestra a sufficienza in questo senso. Piuttosto, andrà gabile dell’Essere che può determinarsi ogni vera interpre-
inteso come quella totalità del positivo il cui senso, ben- tazione dell’ente e del suo significato. Il problema, cioè,
ché sempre presupposto, può sprofondare nell’oblio della non è affatto se la verità dell’Essere neghi o meno il dive-
latenza, giacché, essendo presupposto, nel suo esistere nire o la molteplicità, ma, al contrario, se il senso con cui
l’Esserci a questo senso dà sempre le spalle. intendiamo tali parole sia in effetti adeguato a quella veri-
Il contraddirsi è il voler significare quello che non si può tà che esse sempre e comunque presuppongono, o se, piuttosto,
significare, ma la contraddizione, in quanto tale, è in se tale senso non sia in qualche modo corrotto e quindi biso-
stessa il positivo significare dell’impossibilità di afferma- gnoso di un’emendazione175.
re ciò che non può essere affermato, o negare ciò che non Se effettivamente gli enti sono diversi e se ciascuno pre-
può essere negato, ovvero identificare positivo e negativo: suppone l’Essere, allora, il senso dell’essere di ogni ente
se l’essere di un ente è niente, allora l’ente non è affatto, sarà diverso dal senso dell’essere di ogni altro. L’Essere,
quindi non può essere nemmeno un niente, né può diven- 198 199 più che dirsi in molti modi, si declina in molti modi. Il
tarlo. Tradotto nei termini che adottavamo prima: non senso originario dell’Essere, cioè quello da cui dobbiamo
può esistere un ente che non presupponga l’Essere, in partire e che contemporaneamente è già sempre all’origine
quanto ogni presupporre è sempre un presupporre l’Es- di ogni dire, è il senso dell’Essere come già sempre-presup-
sere. L’élenchos è l’accertamento di questa impossibilità di posto, e quindi come non identificabile mai al non-Essere.
prescindere dall’Essere e dal suo esser-sempre presupposto. Il senso stesso dell’Essere in quanto tale avrà quindi a che
L’impossibilità è accertata dall’élenchos nel suo rivelare che fare con l’apertura di senso in cui si dà la possibilità di
la negazione dell’opposizione è negazione di se stessa. queste molteplici declinazioni.
Ma questi rilievi implicano che quel “sempre-presuppsto” che Ma, avevamo visto, la presupposizione dell’Essere è ciò
caratterizza l’Essere, non sia un sempre istantaneo, non signi- che determina il senso del pre- che anima il circolo erme-
fica “in questo caso, in questo istante”, ma, piuttosto “in neutico. È naturale che questo senso originario paia vuoto
tutti i casi e in ogni tempo”: il sempre ha carattere temporale o astratto fintanto che è considerato in assoluto, tanto
dell’eterno e, heideggerianamente, possiamo dire che questo quanto pare astratto parlare di ermeneutica senza nessun
preciso carattere temporale è il senso dell’Essere: il suo essere- genere di riferimento, esplicito o implicito, a qualcosa cui
sempre-presupposto, cioè il suo non essere mai un niente. applicarla, cioè a qualcosa da mettere in circolo. L’in-
L’affermazione dell’opposizione tra Essere e non-Essere non è terpretazione ontologica dell’ente applica all’ente la strut-
qualcosa di cui si possa fare a meno, né sì può giungere al
parricidio verso chi l’afferma, giacché, sempre e comunque, note
questa opposizione resterà sottesa ad ogni dire, parricidio 175
Cfr. in merito A. Sangiacomo, La sfida di Parmenide. Verso la
compreso, e all’essere di ogni ente cui ci rapportiamo. Rinascenza, cit., pp. 7-24.
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Andrea Sangiacomo Scorci

tura del pre- ermeneutico e legge l’ente come declinazio- per l’Esserci, con la sua possibilità di scoprire la ricchezza
ne del senso originario dell’Essere. Ciò significa che ogni effettiva del mondo e della varietà di declinazioni che
interpretazione ontologica, da un lato, mostra l’alétheia conserva l’ente, cioè la ricchezza del senso. Che l’Esserci
dell’ente che interpreta, giacché mira a portare in luce sia nella verità viene così a significare qualcosa che ha
come si applichi, proprio a quell’ente particolare, l’esser- strettamente a che fare con un certo ethos: l’alétheia, inte-
sempre-nell’Essere, ma, d’altro canto, permette di declina- sa come esistenziale, non può che essere un comportamen-
re questo senso originario in base alla specificità dell’ente to, un modo di esistere. Poiché essere-nella-verità è il
interpretato, approfondendo la comprensione del senso modo peculiare d’esistere dell’Esserci, in quanto egli è già
dell’Essere in quanto tale. Heidegger ripete più volte che sempre la sua apertura, il suo -ci, ebbene, allora l’essere-
l’Essere è sempre essere di un ente. Alla luce di quanto nella-verità viene a indicare all’Esserci anche l’origine di
stiamo dicendo, ciò può ora intendersi così: ogni ente ogni etica dell’esistenza autenticamente intesa. Il senso di
parla del senso dell’Essere, dunque la comprensione del questa etica non può essere diverso dal senso della filoso-
senso dell’Essere passa attraverso la comprensione del fia stessa e non può che trovare una sua realizzazione emi-
senso di ogni ente che declina l’Essere in modo diverso. nente nell’aver cura per la significanza della parola, por-
Il risultato dell’interpretazione ontologica dell’ente non è tando con ciò testimonianza della verità.
altro che la determinazione del senso di una parola con cui Essere-nella-verità vuol già sempre dire essere aperti al
chiamare l’ente, parola tramite cui l’Esserci accede all’es- 200 201 filosofare e questo filosofare non è affatto riduttivo inten-
sere di quell’ente nel suo significato, cioè nella compren- derlo come l’interpretazione ontologica dell’ente, che dà
sione del suo essere. L’interpretazione ontologica dell’en- come risultato la costituzione di un lessico tramite cui
te non è quindi una mera applicazione di un principio l’Esserci ha modo di comprendere con sempre maggiore
generale ma è essa stessa lo sviluppo più proprio del ricchezza il senso dell’Essere, quindi anche comprenden-
discorso ontologico. Il risultato di questo sviluppo è, ide- do sempre meglio il senso che per lui ha il suo stesso esi-
almente, la costituzione di un lessico, ovvero di un insieme stere. Non si tratta meramente della produzione di un uti-
di parole che parlano dell’Essere, in quanto conservano in sé lizzabile: la parola, come Heidegger ci insegna, non è una
il senso che per quel certo ente ha l’Essere. L’utilizzo di un semplice-cosa, ma il modo originario in cui l’Esserci è il suo
simile lessico, cioè l’esprimersi dell’Esserci utilizzando -ci, ovvero esiste nell’autenticità del suo più proprio se
queste parole, è il modo in cui l’Esserci è nella verità, cioè stesso. L’Esserci esiste in quanto tale quando comprende
esiste all’interno della sua propria apertura, comprenden- il suo -ci, quando disvela l’originaria accessibilità che gli
do il senso di questo esistere. consente di rapportarsi all’ente e comprenderlo. Ovvero,
La comprensione del senso dell’esistenza in quanto tale di nuovo, l’Esserci esiste veramente in quanto è nell’aléthe-
non è però mai tutta data, così come l’alétheia non è mai ia. Questo essere-nella-verità è tutt’uno con l’essere-nella-
un annullamento del nascondimento da cui si strappa ciò parola, ed è proprio in virtù del fatto che la parola è un
che si porta a disvelamento. Nulla si annulla. Il senso modo dell’essere-nella-verità che si può affermare che la
dell’Essere nella sua totalità resta sempre in parte nasco- parola non è, tout court, il luogo originario della verità.
sto, nella misura della ristrettezza del lessico ontologico di Ma come l’essere-nella-verità implica, cooriginariamente,
cui si dispone: la ricchezza di questo lessico è tutt’uno, anche il non-Essere-nella-verità, non nel senso della nega-
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zione ma del coprimento prodotto da un’interpretazione Il solido cuore della verità


non ontologica dell’ente, così, parimenti, non è detto che
l’Esserci disponga di un linguaggio solo nella misura in Bisogna che tu tutto apprenda:
cui dispone di un lessico filosoficamente fondato. Le parole pos- e il solido cuore della Verità ben rotonda
sono essere mere produzione intese unicamente in virtù e le opinioni dei mortali, nelle quali non v’è una vera certezza.
della loro utilizzabilità e appagatività: per il puro parlare in (Parmenide - Sulla Natura)
quanto flatus vocis, non è necessaria la filosofia. In questo
caso, non si tratta allora di inventare ex-novo dei termini, 1. L’incontrovertibilità del vero
ma, tramite un’interpretazione ontologica del loro signifi-
cato, di ricondurli alla verità originaria dell’Essere. «Il gran segreto sta pur sempre in questa povera afferma-
Esprimersi con parole dimentiche di questa verità è il zione che “L’essere è, mentre il nulla non è”»177: questa
modo in cui, innanzitutto e per lo più, si manifesta il «povera affermazione» è precisamente quella su cui oggi
coprimento e l’oblio del senso dell’Essere, e con ciò l’intor- il filosofare di Emanuele Severino viene a testimoniare il
bidimento del pensiero, fino alle forme della sua estrema fondamento dell’incontrovertibilità del vero, rivendican-
idiozia. Questo coprimento è stato puntualmente esami- do per la verità il carattere dell’innegabilità assoluta. Ma
nato da Heidegger nei fenomeni della chiacchiera, della proprio oggi che la filosofia sembra essersi per lo più con-
curiosità e dell’equivoco176. Ricondurre le parole “corrot- 202 203 vinta, al contrario, dalla relatività assoluta del vero, ossia
te” alla loro origine ha quindi pienamente il senso del- della negazione di questa «povera affermazione», è pure
l’emendazione, giacché, «il compito della filosofia, in ultima prioritario esigere che ci si mostri la necessità per cui inve-
analisi, è quello di conservare la forza delle parole». Le paro- ce la si ritiene indubitabile178.
le che sanno dire l’Essere sono la parole stesse in cui si arti- note
cola la verità dell’Essere: comprendere tale verità è il senso 177
E. Severino, Ritornare a Parmenide, in Id., Essenza del nichili-
stesso dell’esistenza dell’Esserci in quanto tale. smo, Adelphi, Milano 1982, p. 20.
Il significato esistenziale che ha per l’Esserci il suo essere- 178
Con ciò sembrerebbe che la posizione severiniana rientri tra
nella-verità, si realizza e si comprende quindi in quanto quelle che, considerando la verità in senso proposizionale,
cura filosofica del linguaggio, condotta mediante un’inter- Heidegger già riconduceva alla concezione tradizionale di matrice
pretazione ontologica dell’ente volta alla mostrazione della aristotelica (cfr. La concezione heideggeriana della verità in Essere e
sua alétheia. E tuttavia, incamminarci su questa via ci tempo, cap.1). Tuttavia, come emergerà dall’insieme del discor-
porta decisamente lontano dal pensiero dello stesso so, la verità qui non è propriamente intesa come un’affermazio-
ne incontrovertibile, ma come l’incontrovertibilità stessa in
Heidegger. Ma non è forse questa lontananza un sempli- quanto tale, che quindi è incontrovertibile anche quando si dà
ce muoversi altrove, quanto piuttosto l’andare con cui come affermazione, ma non è di per sé la proprietà di un’affer-
ogni sentiero si porta già da sempre oltre se stesso. mazione. Si potrebbe del resto aggiungere che, mentre lo sguar-
do di Heidegger è tutto preso a cogliere la verità come spazio
aperto, come radura, all’interno della testimonianza offerta da
note Severino, si mostra anche cosa abiti questo spazio aperto e cosa in
176
Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., §§ 35-37, pp. 211-220. tale apertura effettivamente si apra: il Destino della necessità.
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Dubitare della verità di una proposizione viene per lo più qualcosa, ebbene, se l’Essere fosse niente, cioè se l’opposi-
inteso come l’esser convinti che non esistano ragioni zione tra Essere e niente fosse negata, allora questa stessa
determinanti e conclusive per inferire che il contrario negazione, ponendosi come un qualcosa di ben determina-
della proposizione sostenuta sia necessariamente falso. Il to, cioè appunto come quel qualcosa che è la negazione del-
dubbio è risolto, allora, nel momento in cui si mostra che l’opposizione, dovrebbe, in virtù di se stessa, riconoscersi
in nessun modo sarebbe possibile affermare il contrario di come negazione di se stessa: dicendo che l’Essere in sé è
quanto si dice, ovvero che il contrario della tesi è necessa- niente, la negazione dice di essere essa stessa un niente.
riamente falso e quindi la tesi è necessariamente vera: non Affermando che l’Essere è niente, la negazione afferma
esistendo alternative a quanto si dice si deve per forza che se stessa, nel medesimo momento in cui pretende
affermarlo in ogni caso, anche quando lo si intenderebbe essere affermazione di qualcosa che è, stando a quel che
negare. Questa argomentazione è quella già nota al pen- dice, pure si pone anche come qualcosa che non è, cioè il
siero greco classico e viene indicata da Aristotele col ter- suo porsi implicherebbe il non porsi affatto, il suo affer-
mine “élenchos”179. marsi è nel medesimo tempo il suo togliersi.
La via elenctica tramite cui viene mostrata la necessità e
l’indubitabilità della verità dell’Essere consiste nel L’opposizione è fondamento, nel senso che è ciò senza di cui
mostrare che la proposizione “l’Essere non è il non- non si costituirebbe, o esisterebbe alcun pensiero, alcun
Essere” non è negabile, ovvero non se ne può affermare il 204 205 discorso. [...] Se la negazione non ponesse alla propria
contrario. La proposizione “l’Essere non è il non-Essere” base l’opposizione [...], non esisterebbe nemmeno. Esiste,
esprime l’opposizione di Essere e niente. La proposizione solo se afferma ciò che nega. Negando, quindi, nega il
che afferma il contrario dell’opposizione stessa è invece la proprio fondamento, nega ciò senza di cui non sarebbe (o,
negazione dell’opposizione. Ne segue che l’élenchos consi- che è il medesimo, non sarebbe significante): nega se
ste nel mostrare che è impossibile affermare la negazione medesima. In effetti, la negazione dell’opposizione inclu-
dell’opposizione. de la dichiarazione della propria inesistenza, è un toglier-
Se l’Essere, che è inteso come ciò per cui qualcosa è un si da sola. [...] L’élenchos è appunto l’accertamento di que-
qualcosa180, ovvero un determinato e positivo significare sto autotoglimento della negazione, ossia è l’accertamen-
to che la negazione non esiste come negazione pura, ossia
note come negazione che non abbia bisogno, per costituirsi, di
179
Per un confronto tra la posizione severiniana e quella classica, affermare ciò che nega181.
soprattutto aristotelica, si veda, tra l’altro, E. Severino, Fon-
damento della contraddizione, Adelphi, Milano 2005, pp. 21-112.
180 L’atto stesso del negare l’opposizione, è, già in se stesso,
Circa la semantizzazione dell’Essere come totalità del positi-
vo, cfr. E. Severino, Ritornare a Parmenide¸ cit., p. 27: «L’essere, l’atto del togliere se stesso come atto del negare: l’impos-
dunque, non è la totalità che è vuota delle determinazioni del sibilità di negare l’opposizione non è inferita come neces-
molteplice (Parmenide), ma è la totalità delle differenze, l’area sità logica astratta ma è ciò che caratterizza intrinsecamen-
al di fuori della quale non resta nulla, ossia non resta alcunché
di cui si possa dire che non è un nulla. L’essere è l’intero del note
181
positivo». E. Severino, Ritornare a Parmenide, cit., p. 43.
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te ed essenzialmente il fenomeno stesso di tale negazione Questo espediente non riesce però a risolvere la situazio-
ed è quindi il fondamento ontologico su cui si pone ogni ne. Limitando la negazione, non si dice più “l’Essere è
logica. L’impossibilità della negazione non è dunque un niente”, ma si viene a dire “tutto ciò che è, tranne questa
teorema ma un fenomeno originario, o, se si vuole, questa proposizione, è niente”. Ora, a prescindere dai dettagli
impossibilità è intrinseca alla semantizzazione stessa della tecnici dell’illustrazione severiniana del risolvimento di
negazione dell’opposizione in quanto tale: l’impossibile è tale obiezione183, possiamo anche limitarci a riconoscere
il tentativo di negare l’opposizione e il termine “impossi- che la radice della sua arbitrarietà sta nel fatto che non
bile” significa qualcosa a partire da questo tentativo, giac- riesce a costituirsi per quel che vorrebbe essere, cioè non
ché qui e non altrove abita il senso fondamentale dell’im- riesce ad essere un modo per negare l’opposizione di
possibilità. Essere e niente.
L’élenchos è quindi un «accertamento», e come tale, non Venire a dire “l’Essere è sempre identico al non essere, tran-
solo accerta qualcosa che è già certo e già esiste di fatto e ne nel caso di questa proposizione” significa: l’essere di que-
che non potrebbe essere altrimenti da come è, ma può sta proposizione non è identico all’essere di tutto il resto.
accertare quello che accerta proprio perché, ciò che è accer- Cioè: in genere l’Essere è non-Essere, ma l’essere di questa
tato, pre-esiste all’accertamento e ne fonda la possibilità: è proposizione non è non-Essere. Ma l’Essere che è identico al
la medesima fenomenologia dell’atto in cui consiste la non-Essere è appunto non-Essere, mentre l’Essere che è
negazione dell’opposizione a prevederne l’autotoglimento. 206 207 diverso dal non-Essere, è appunto Essere. “L’essere di que-
Si potrebbe però obiettare, come rileva anche Severino, sta proposizione è diverso dall’essere di tutto il resto”, vuol
che è possibile sfuggire a questa situazione intendendo la quindi dire: “L’Essere è diverso dal niente”184. Cioè la pro-
negazione in senso non universale: posizione che voleva affermare la negazione dell’opposizio-
ne, non sta invece facendo altro che affermare l’opposizione
Non si riesce a impedire, sembra, che la negazione del- stessa, cioè proprio quello che voleva negare185.
l’opposizione si ripresenti in questo modo: [...] “solo in Si noti che questo argomento esclude a priori ogni obie-
una zona limitata il positivo si oppone al negativo; al di zione di tipo nominalista. Se si affermasse, infatti, che
là di questa zona, invece, non vi si oppone. Tale zona è
costituita appunto da questo discorso che nega l’opposi- note
183
zione del positivo e del negativo nella zona residua”. In Cfr. ivi, pp. 46-47.
184
questo modo, la negazione non si fonderebbe più su ciò Schematizzando potremmo scrivere così: p:«E=notE, a parte
che essa nega, perché ciò su cui la negazione si fonda, ciò p=E», quindi p=E, notp=notE, poiché p presuppone che
p≠notp, allora p:«E≠notE».
senza di cui non si costituirebbe, è l’opposizione indivi- 185
Severino presenta due figure dell’élenchos: nella prima la
duata, che ora non è più negata dalla negazione – la quale negazione dell’opposizione si fonda sull’intero di ciò che essa
si limita a negare l’opposizione relativamente all’area non nega, nella seconda solo su una parte. Il caso ora esaminato è
occupata dal fondamento della negazione182. quindi una formulazione, semplificata, della seconda figura.
Cfr. E Severino, Ritornare a Parmenide, cit., pp. 51-56. Circa le
note due figure dell’élenchos cfr. anche E. Severino, Tautót s,
182
Ivi, p. 44. Adelphi, Milano 1995, pp. 212-251.
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l’Essere è solo un flatus vocis, si starebbe affermando che significare di ciò che essa nega: l’opposizione del positivo
“Essere” non è altro che un nome e quindi non esiste in e del negativo non presuppone che il positivo sia negati-
altro modo che come nome. Ciò vorrebbe dire allora che, vo, ma presuppone quella positività significante (positivi-
come nome, l’Essere è semantizzato come opposto al tà che come tale non è negatività) che forma il contenuto
nulla, ma anche che, fuori da questo esser-nome, l’Essere dell’identificazione del positivo e del negativo187.
non esiste, e quindi non è nemmeno opposto al nulla: ma
questa è appunto di nuovo la situazione appena illustrata. Occorre quindi distinguere tra il puro significare positi-
Ne risulta che una negazione dell’opposizione che non vamente, e il significare quel certo qualcosa che si inten-
implichi una negazione di sé non può nemmeno dirsi de significare. Certamente la contraddizione significa
autenticamente una negazione dell’opposizione: qualcosa, ma non significa quel che vorrebbe significare,
anzi, al contrario significa proprio in quanto è quel qual-
Il significato di “positivo” e di “negativo” è identico? cosa che non può significare ciò che vorrebbe significare:
Bene! Allora si deve certamente dire, in questa forma lin- la contraddizione è proprio il dire qualcosa significando il
guistica, che il positivo è il negativo. Perché si abbia una contrario di quel che si intende invece dire. Riassumendo,
negazione effettiva dell’opposizione (e non una negazione è dunque possibile formulare così l’élenchos: «la negazione
apparente), è necessario che il positivo e il negativo siano del determinato è un determinato e quindi è negazione di
innanzitutto posti come diversi (opposti, dunque) e che 208 209 quel determinato che è la negazione stessa»188.
poi si ponga l’identità dei diversi, cioè si ponga che i La negazione dell’opposizione, in quanto tale, implica in
diversi in quanto diversi sono identici. Si tanto che non se stessa il suo autotoglimento. È questo il senso dell’ac-
son visti come diversi, si deve certamente dire che sono certamento in cui consiste l’élenchos. Ma questo accertamen-
identici; ma se son visti come diversi, e li si deve tener to è anche l’accertamento che l’impossibilità di negare
fermi come diversi, affinché l’affermazione della loro l’opposizione è un’impossibilità originaria e fondamenta-
identità sia negazione dell’opposizione del positivo e del le, implicita nella negazione stessa che, in quanto tale, è
negativo, allora questa negazione si fonda sull’affermazio- come impossibilità di negare ciò che vorrebbe. La negazio-
ne di ciò che essa nega, e, questa volta, non si fonda più ne non è inaccettabile semplicemente perché contraddit-
soltanto sull’affermazione di una parte di ciò che essa toria, al contrario, è contraddittoria proprio perché, volen-
nega, ma sull’intero contenuto negato186. do affermare ciò che non si lascia affermare, dice di dire
quel che non può dire in alcun modo: la radice della sua
E a corollario di questo va osservato: contraddittorietà sta proprio in questa volontà di afferma-
re l’inaffermabile.
La negazione dell’opposizione presuppone simpliciter ciò Il senso dell’accertamento elenctico mira a mostrare
che essa nega, mentre la negazione dell’identità degli come, se una negazione dell’opposizione vuole porsi come
opposti non presuppone ciò che essa nega, ma il positivo
note
note 187
Ivi, p. 50.
186 188
Ivi, p. 49. Ivi, p. 51.
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tale a tutti gli effetti, può farlo solo se presuppone l’op- L’opposizione di Essere e niente non è una qualsiasi oppo-
posizione che vuole negare e quindi se, negandola, nega se sizione ma è L’Opposizione per eccellenza. Se si afferma
stessa come negazione di quest’opposizione: l’accertamen- che A è identico a non-A, ciò che appare immediatamente è
to è accertamento del fatto che la negazione dell’opposi- che si afferma qualcosa di A e si può avere buon gioco a
zione, in quanto tale, è toglimento di se stessa e l’atto in dire che A non può essere non-A solo se si tien fermo un
cui si pone come tale è identico e contestuale all’atto in principio che neghi esplicitamente l’identificazione dei
cui essa stessa si toglie da sé. Non è quindi un portato contrari, principio il quale, di per sé, non pare immedia-
esterno, non dipende dal sistema logico in cui ci si pone, tamente invocato o implicito in A stessa. Così che questo
ma, sempre e in ogni caso, il porre la negazione dell’opposi- genere di contraddizione è tale nella misura in cui si
zione è il porre il suo autotoglimento, ovvero è possibile ammette la validità del principio, ossia la contraddittorie-
porre la negazione dell’opposizione solo in quanto con- tà non è immediatamente intrinseca a ciò di cui si discor-
traddizione, non già verso un principio esterno, ma re, A in questo caso, ma alla sua considerazione all’inter-
intrinsecamente, nel senso di qualcosa che si toglie col no di un sistema logico entro cui valga il principio del-
gesto in cui si afferma. Per questo si può dire che l’oppo- l’incontraddittorietà: per un qualsiasi A, infatti, è con-
sizione di Essere e niente è assolutamente originaria. traddittorio che sia identico a non A, ma questa contrad-
Solo astrattamente è dunque possibile pensare che l’oppo- dittorietà non è contenuta nella semplice affermazione “A
sizione sia innegabile a patto che si resti nell’accettazione 210 211 è non-A”, ma è inferita dal confronto tra questa e il prin-
del principio di non contraddizione, accettazione che, ad cipio di non contraddizione, giacché, senza detto princi-
esempio nelle logiche non classiche, non è affatto sconta- pio, la proposizione “A è non-A” potrebbe tranquillamen-
ta. Ma tale osservazione è appunto astratta perché preten- te essere affermata, come potrebbe appunto avvenire nei
de di separare la contraddittorietà da ciò che la costitui- casi di sistemi logici non classici.
sce come tale: se presupponiamo che da un lato ci sia il Invece, nell’affermazione “l’Essere è niente”, non si sta
principio di non contraddizione e dall’altro l’insieme semplicemente dicendo che “A è non A” ma si sta dicen-
delle affermazioni che, in qualche modo, vanno analizza- do “A dice: A non è”, cioè il contenuto che si pretende
te per stabilire se siano contraddittorie o meno, allora, affermare dice di essere qualcosa che dice che l’esser-qual-
certo, tale contraddittorietà sarà riscontrabile solo in rela- cosa è il non-esser-alcunché. Nell’affermazione dell’oppo-
zione al principio così assunto. Ma un simile discorso pre- sizione emerge così immediatamente che l’affermare stesso
suppone anche che il principio in quanto tale sia un assio- rientra nel contenuto di quanto viene affermato: l’Essere
ma e quindi assunto vero non in virtù di sé ma in virtù non è infatti identico ad un semplice elemento, non è un
d’altro, ad esempio per considerazioni d’ordine pragmati- qualsiasi ente singolo, un questo. Proprio perché ogni ente,
co, ossia presuppone che il principio in quanto tale non tutto ciò che può esser detto un questo, è, la portata del-
abbia nessuna ragione intrinseca per dover essere assunto, l’opposizione dell’Essere al niente è intrascendibile, nel
ossia per dover essere affermato comunque. Tutta que- senso che nulla può porsi fuori dall’Essere, cioè: solo il
st’impostazione di discorso si configura quindi, anch’essa, nulla è non-Essere e tutto ciò che è qualcosa non è un
proprio come un tentativo indiretto di negare il principio nulla. Se si nega questo, affermando che l’esser-qualcosa
stesso. in quanto tale è un niente, allora si sta negando che anche
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questa stessa negazione, che in quanto tale pretende porsi Ciò non significa affatto che la contraddizione sia il mezzo
come un esser-qualcosa, è niente, e quindi è niente nel suo per dire il nulla, ma che la contraddizione è identica al
stesso porsi come tale, cioè, appunto, si toglie con lo stes- pensare il nulla, e ciò vale a dire sia che pensare il nulla è
so gesto con cui si pone. Proprio perché all’Essere appar- contraddittorio, sia che il nulla, in quanto pensiero con-
tiene tutto ciò che si può porre come un positivo signifi- traddittorio, è contraddittorio proprio perché resta un
care, contraddizione compresa, è impossibile che la nega- positivo significare in quanto contraddizione e quindi
zione dell’opposizione di Essere e niente, ovvero che non riesce a porsi come quell’assoluto negativo che inve-
l’identificazione dell’Essere col niente, non sia essa stessa ce vorrebbe essere. Solo astrattamente si possono pensare
un positivo significare unicamente in quanto contraddizione: il contenuto contraddittorio e la sua impossibilità come
la negazione dell’opposizione toglie se stessa come nega- elementi separati: il contraddirsi, infatti, è già di per sé il
zione e lascia se stessa come contraddizione. dire positivo quel qualcosa di ancora positivo che è l’im-
In altri termini, l’affermazione “l’Essere non è” contiene possibilità di dire che il positivo è identico al negativo.
se stessa tra i termini negati, cioè dice qualcosa, ossia di L’impossibilità è accertata dall’élenchos nel suo rivelare che
negare se stessa, proprio nel momento in cui dice di non la negazione dell’opposizione è negazione di se stessa. Il
dire qualcosa. Nell’affermazione dell’opposizione è dun- nulla in quanto tale non riesce ad essere più della contrad-
que immediatamente evidente che il contenuto affermato dizione di qualcosa che si toglie come assoluto negativo
non è separato dall’affermazione ma la contiene, sicché se 212 213 nel momento in cui pretende di significare qualcosa, cioè
negazione ci vuol essere questa non può limitarsi a nega- di significare appunto come assoluto positivo: in tal senso
re il contenuto affermato ma deve anche negare il suo è pensato.
stesso negare che, in quanto essente, appartiene a quel Non è che qualcosa come il “pensiero umano” sia siffatto
contenuto. In questo senso tale l’affermazione della nega- o limitato di modo da non poter accedere a qualcosa come
zione dell’opposizione risulta assolutamente contradditto- “il nulla”, che magari sarebbe accessibile a un diverso tipo
ria, ovvero è contraddittoria in sé e di per sé189. di pensiero: il nulla non è un che di misterioso cui il nostro
Del resto, con Severino, va pur riconosciuto che il pensie- pensiero non possa giungere. Il senso dell’accertamento
ro vive anche quando si contraddice: quando si contraddi- elenctico sta proprio anche nel mostrare, infatti, che il
ce, non si annulla. Ed eccoci al punto: il contraddirsi non è termine “nulla” è significante se e solo se è semantizzato
un non pensar nulla, ma è un pensare il nulla. [...] Il pensie- come contenuto di una contraddizione, ossia non è assunto
ro che si contraddice guarda il nulla. Si intenda: la nega- separatamente e a prescindere dal suo esser contenuto di
zione dell’opposizione nega il proprio fondamento e quin- un dire contraddittorio: il nulla è, nel senso che è sempre
di nega se stessa: ciò che viene effettivamente pensato, in tutt’uno con la sua negazione, la presuppone necessariamente.
questa negazione (che è anche autonegazione), è il nulla. Sotto queste premesse, si può allora anche dire che il pen-
E in quanto il nulla si lascia guardare, indossa la veste del siero non può mai uscire dall’Essere, e il suo pensare il
positivo190. nulla è pensare l’essere positivo della contraddizione in
note
189
Cfr. anche E. Severino, Tautót s, Adelphi, Milano 1995, pp. note
234-239. 190
Ivi, p. 57.
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cui il nulla consiste: il pensiero non può fare a meno di che le nostre credenze sono qualcosa, tanto quanto sono
pensare, anche solo implicitamente, l’esserci di ciò che sta qualcosa i nostri stessi errori. Tuttavia non sappiamo
pensando e di sé medesimo, sicché la dimensione fonda- ancora decidere quali tra le nostre credenze siano vere
mentale del pensiero è la dimensione ontologica. Ovvero: conoscenze e quali siano semplici illusioni.
ogni dire e ogni pensare, per costituirsi come tali, presuppongono Resta cioè da vedere quale modo di essere assuma il non-
come loro condizione necessaria e sufficiente il pensare che l’Essere esser-niente, giacché anche la contraddizione, s’è visto,
non è niente. non è un niente, ma pure non diremmo che una conoscen-
Non si danno quindi mai alternative possibili all’afferma- za contraddittoria sia vera conoscenza. La verità
zione dell’opposizione o, che è lo stesso, è impossibile non dell’Essere ci dice però anche che tutte le conoscenze che
affermare l’opposizione, giacché è impossibile negarla. in qualche modo o in qualche misura intendono identifi-
Questo non è un appello al principio del tertium non datur. care l’Essere e il niente e quindi negare l’opposizione di
Ogni forma di dire, compreso il dire che vuole negare Essere e niente, sono in quanto sono delle contraddizioni, sic-
l’opposizione, è infatti un’affermazione di questa. È quin- ché nessuna conoscenza di questo tipo potrà dirsi autenti-
di possibile solo ignorare l’opposizione stessa e lasciarla ca conoscenza. “So che quando il legno è bruciato il legno
come un implicito, ossia come un presupposto di cui non si è non c’è più”, “so che quello che era ieri ora non è più”,
ha coscienza. Tuttavia, una volta che la si sarà esplicitata, “so che quando sarò morto non sarò più”, “so che la sta-
ogni dire sarà una sua esplicita affermazione, compreso il 214 215 tua non era prima che lo scultore la scolpisse”: tutte que-
dire contraddittorio che in quanto tale vorrebbe negarla. ste sono conoscenze che, nella misura in cui si fondano
Ora, stante che l’impossibilità della negazione impone sulla negazione della verità dell’Essere, sono conoscenze
che questa resti necessariamente affermata sempre e contraddittorie, dunque non sono vere conoscenze, ma
comunque, allora se ciò che deve necessariamente essere semplici opinioni contraddittorie. “So che 2+2=4”, “so che
affermato è esente dal dubbio e dunque va necessariamen- l’albero non è il cane”, “so che il cielo è azzurro”, “so che
te tenuto per vero, ne segue che tale verità necessaria, certa ora sto scrivendo”, in quanto non implicano necessaria-
e incontrovertibile, è quella che dice: è impossibile che mente ed esplicitamente la negazione dell’opposizione di
l’Essere non sia. Essere e niente, potrebbero essere conoscenze vere. Si può
Nonostante tale risultato, resterà però un’ultima obiezio- ancora dubitare che esse implichino una qualche forma di
ne scettica a tutto questo argomentare: quand’anche arri- contraddizione non immediatamente evidente e che quin-
viamo a conoscere come certo e incontrovertibile che di in realtà non siano conoscenze. Ma innanzi a queste
l’Essere non può non essere, ebbene, cosa conosciamo dav- conoscenze possibili la cui verità è dubbia, si può osserva-
vero? È ciò sufficiente a sollevarci dall’ipoteca di uno scet- re: poiché la verità dell’Essere dice che l’Essere non può
ticismo globale? non essere, allora queste conoscenze andranno interpretate
La verità incontrovertibile dice che nessuna cosa che è può necessariamente in funzione di questa verità, giacché neces-
essere identica al niente. Quindi né noi, né le nostre cre- sariamente questa verità non può fare a meno di essere
denze, né le nostre conoscenze, né nient’altro che ritenia- affermata comunque e in tutti i casi. Dunque, fino a
mo esser diverso dal puro nulla, è in realtà uguale al nulla. quando saranno tenute sul fondamento dell’affermazione
Quindi è senz’altro vero e certo che noi siamo qualcosa e dell’opposizione, le suddette saranno conoscenze vere, o,
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che è lo stesso, perché queste conoscenze si costituiscano Il dubbio scettico, declinato ad esempio nell’ipotesi del
come tali a tutti gli effetti andranno interpretate alla luce sogno, si riduce a questo: ciò che è qui innanzi a me e che
della verità dell’Essere191. non è un niente, è in quanto sogno o è in quanto realtà?
Se, quindi, è vero tutto ciò che non nega l’opposizione Esiste solo nel sogno o esiste anche fuori dal sogno?
dell’Essere al nulla, nel senso che riconosce l’impossibili- Ovvero, qual è la modalità ontologica in cui si dà il suo
tà di non affermarla, allora una conoscenza, sotto questo essere?
aspetto, sarà vera tanto in un sogno quanto nella realtà Resta fermo che se noi considerassimo l’ipotesi scettica
della veglia, cioè sarà vera indipendentemente dal modo del sogno e quindi ipotizzassimo ora di star solo sognan-
d’essere, giacché è una conoscenza che non riguarda il do la verità dell’Essere, questa verità non sarebbe meno
modo d’essere in sé, ma l’Essere in quanto tale. vera per il fatto di essere sognata, giacché il sogno per
La verità dell’Essere non elimina del tutto il dubbio scet- essere qualcosa presuppone la verità dell’Essere, cioè: il
tico sulle nostre conoscenze, ma lo circoscrive: determina sogno, per essere sognato, presuppone se stesso in quanto diverso
un criterio a priori per cui un certo tipo di conoscenze è dal niente. Tale verità, essendo originaria per eccellenza,
senz’altro falso, mentre un altro tipo di conoscenze è vero non ammette nulla che possa sussumerla in sé, e quindi
in senso ontologico. Il senso ontologico precede ogni moda- ciò non è consentito nemmeno allo scetticismo, giacché
lità specifica, quindi anche ogni modalità che potrebbe l’ipotesi stessa ricade dentro la verità dell’Essere e, per
avanzare il dubbio scettico, sia quella del sogno sia quel- 216 217 costituirsi come ipotesi, deve fondarsi sull’affermazione
la del perpetuo inganno: che questa realtà che ho qui di dell’opposizione di Essere e niente. Lo scetticismo, per
fronte a me non sia un niente è vero sia che io sia sveglio, essere coerente, non può negare l’opposizione di Essere e
sia che io stia sognando, anche quando il sogno consistes- niente giacché, per proporre la sua ipotesi deve costituir-
se nella sospensione del sistema logico basato sul princi- si come qualcosa di non contraddittorio e quindi possibi-
pio di non contraddizione, giacché, s’è mostrato, la nega- le o, per lo meno, di non immediatamente decidibile.
zione dell’opposizione non consiste nell’assunzione astrat- Ovvero: se lo scetticismo si pone come un tentativo di
ta di un principio di incontraddittorità ma è l’incontrad- negare la verità dell’Essere, direttamente, o semplicemen-
dittorietà stessa nella sua figura originaria192. te nella forma della sospensione ipotetica, esso stesso inevita-
bilmente si pone come negazione di se medesimo e, come
note tale si toglie da sé, giacché questa negazione, in ogni sua
191
Circa il modo di interpretare le forme del divenire in accor- forma, non è mai nulla più che una contraddizione che si
do con la verità dell’Essere, cfr. E. Severino, Poscritto, in Id.,
Essenza del nichilismo, cit., pp. 84-90. Tale modo dell’interpre-
tare rivela del resto la struttura originaria di quell’interpretazio- note
ne ontologica dell’ente di cui si accennava in La concezione hei- ta la questione circa la “regione ontologica” in cui esso è situa-
deggeriana della verità in Essere e tempo. to. [...] Questo non impedisce a certe affermazioni di essere vere
192
Cfr E. Agazzi, Logica, verità e ontologia, in Le parole dell’Essere. (o false) indipendentemente da un qualsiasi referente particola-
Per Emanuele Severino, a cura di A. Petterlini, G. Brianese e G. re. [...] Cioè devono avere un generale riferimento ontologico ed
Goggi, Mondadori, Milano 2005, p. 10: «La verità di un’affer- essere intese ad esprimere aspetti della realtà che valgano per
mazione comporta che il suo referente esista, pur lasciando aper- qualunque regione ontologica».
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semantizza come impossibilità di compiere ciò che pre- discussione lo stesso paradigma epistemico dello scettico e
tenderebbe di compiere: in quanto negazione della verità il suo modo di concepire la realtà di qualcosa193. Se il pro-
innegabile, lo scetticismo non può essere un’ipotesi ma ha blema è infatti stabilire se un certo elemento X esiste ad
da mostrarsi immediatamente come contraddizione. La esempio nel sogno o nella veglia, tale problema si fonda su
stessa sospensione è solo una modalità di questa negazione: una conoscenza inadeguata di X, per cui X stesso è cono-
si sospende qualcosa la cui verità può essere sospesa, cioè sciuto solo astrattamente, ossia come separato dal suo conte-
tale da poter anche essere negata, ma la verità dell’Essere sto. Posto infatti che X potrebbe essere una conoscenza di
non può ammettere sospensione alcuna, giacché non si qualcosa, se allora avessimo una conoscenza concreta di X,
potrebbe sospendere ciò che è necessario per porre la pos- ossia tale per cui X non è posto in sé ma come relazione, non
sibilità stessa di un’effettiva sospensione. si porrebbe più il problema di stabilire se X sia connesso a
Io potrei anche star sognando questo ente che vedo, cioè qualcosa o a qualcos’altro, cioè, da esempio agli stati men-
tale ente potrebbe esistere solo come mia finzione menta- tali del sogno o alle percezioni coscienti della veglia, giac-
le e non esser nulla di reale. Ciò nonostante, il suo esistere ché apparterrebbe già al conoscere X il conoscere l’insieme
come mia finzione mentale è comunque un esistere, quindi, delle sue relazioni e quindi anche ciò che ne determina
in quanto tale, necessariamente non può implicare una nien- quello che prima chiamavamo “modalità ontologica”194. Va
tificazione dell’Essere. Pertanto, posso conoscere ontolo-
218 219
note
gicamente qualcosa solo nel momento in cui ne do un’in- 193
terpretazione coerente con la verità dell’Essere, ma questa Nota: l’argomento dello scetticismo globale si sviluppa in
via ipotetica, giocando sul fatto che esiste almeno un’ipotesi,
conoscenza non richiede necessariamente che io sappia il come ad esempio quella del sogno, data la quale ogni conoscen-
modo d’essere che compete a ciò che conosco, ovvero, in za sarebbe invalidata, ma che, come ipotesi, non è decidibile, ossia
questo caso, che io sappia se questo divenire esista solo in linea di principio non è possibile mostrare se sia vera o falsa.
come mia finzione mentale o se sia qualcosa di reale. In Tuttavia, anche il sapere che, data detta ipotesi, ogni conoscen-
altri termini: la conoscenza che riguarda l’Essere, nella misura za potrebbe essere invalidata, è e deve essere una conoscenza. E di
in cui testimonia la sua verità, è una conoscenza certa e incon- tale conoscenza, affinché lo scetticismo sia coerente, non si può
trovertibile. Limitatamente all’Essere e all’esistenza del- dubitare: se si dubita, infatti, non si può anche dubitare di
l’ente in questione, non c’è quindi margine di dubbio e dubitare, giacché allora non si starebbe dubitando. Ciò impor-
anzi il dubitare stesso si pone come contraddizione. ta che, discutendo dell’ipotesi scettica, non si può dubitare di
Eppure, si potrebbe continuare a ribattere, la conoscenza discuterne, ossia che la discussione dello scetticismo, per essere
ontologica non è una conoscenza totale dell’oggetto ma è sensata, deve porsi ad un livello diverso rispetto a ciò che lo scet-
tico mette in dubbio: in tal modo, la discussione del paradig-
una conoscenza solo essenziale e non riguarda in che modo ma epistemico dello scettico, ponendosi al suo stesso livello,
l’ente che è esiste come tale, e quindi non permette di non rientra nella sfera di ciò che è oggetto di dubbio. In altri
decidere immediatamente se questo modo è quello, ad termini: se le nostre conoscenze costituiscono l’insieme C, l’ipo-
esempio, della veglia o del sogno. In questo senso, il pro- tesi scettica ha per oggetto la validità di C ma non può appar-
blema dello scetticismo pare soltanto spostato e, in parte, tenere a C stesso, e così pure chi discute con lo scettico non può
ristretto, ma non già del tutto superato o risolto. farlo stando all’interno di C ma, per il fatto stesso di discutere
Ma si può allora rispondere mettendo a questo punto in dell’ipotesi scettica si deve porre fuori di C.
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infatti ricordato che l’ipotesi scettica, per esser coerente, che la conoscenza di qualcosa sia essa stessa una forma di
deve necessariamente prospettare una coppia di alternative, relazionalità, sicché la conoscenza di qualcosa decresce al
come ad esempio il sogno e la veglia, di per sé distinte e crescere dell’astrattezza con cui la cosa è conosciuta in
ugualmente probabili, ma tali per cui, data una delle due quanto assoluta da ogni legame. Lo scetticismo stesso
non è possibile riconoscerla di per sé e inferire quindi quale fonda quindi la sua pregnanza sull’assunzione che il cono-
essa sia195. E conoscere X come relazione è proprio conoscer- scere sia un che di essenzialmente relativo, nel quale non
lo non all’interno di un dato contesto isolato, ma in quanto ne va tanto della cosa in sé, ma delle relazioni che istitui-
originariamente connesso e fondato sul suo rapporto com- scono la cosa in quanto tale.
plesso con la totalità dell’insieme universo cui appartiene: In tal modo, allora, uno scetticismo coerente avrà non solo
in tal senso il conoscere X sarebbe già un esser oltre l’isola- da proporsi come critica e coscienza dei limiti epistemici
mento che fonda l’indecidibilità dell’ipotesi scettica. relativi alla contestualizzazione delle nostre conoscenze,
Questa riformulazione del problema consente di iniziare a ma la stessa ipoteca scettica dovrà esser sollevata princi-
vedere come ciò che ultimamente pone in discussione lo palmente in relazione alle conoscenze proprie di quel tipo
scetticismo sia l’effettiva possibilità di determinare il di pensiero che, nella misura in cui isola gli enti, pure li
dominio d’appartenenza delle nostre conoscenze, sia esso astrae dal loro contesto, rendendoli di fatto inconoscibili
qualcosa come “la realtà” oppure “il sogno”. Ma tale pro- per ciò che sono, ossia in relazione alla totalità cui appar-
blematizzazione a sua volta presuppone necessariamente 220 221 tengono e al modo in cui vi appartengono.
note Ed è proprio qui che si tocca infine l’implicazione essen-
194
Su questo tema vedi Un dogma dell’ontologia analitica, cap. 2.
ziale che passa tra il senso dell’Essere, quello della non
195
È certo vero che all’interno di un sogno non è possibile stabi- contraddittorietà e quello della Totalità. L’impossibilità
lire se si stia sognando o meno, ma è anche altrettanto vero che dell’esser-niente non è qualcosa che si aggiunga all’ente
il sogno in quanto tale ha senso ed esiste solo in relazione ad uno dal di fuori, né è un nostro modo di conoscere e pensare l’ente in
stato di veglia. Così andrà certamente asserito che, considerando questione, ma, in quanto fondamento del senso dell’Essere
il sogno in quanto tale, non è possibile riconoscerlo o meno come è anche fondamento dell’esser-sé dell’essente: l’impossibi-
sogno, ma pure che qualcosa come un sogno si dà solo in relazio- lità dell’esser-niente costituisce l’identità stessa dell’esser-
ne ad uno stato distinto e discernibile di veglia. È infatti espe- ente. Sicché la verità che testimonia tale impossibilità non
rienza comune quella del risveglio, che altro non è se non espe- è una semplice affermazione, ma è appunto testimonianza
rienza della relazione e del rapporto di reciproca differenza tra i di quel luogo originario in cui ogni ente, in quanto essen-
due stati: se non si dà uno dei due non se ne dà nessuno, essen- te, già da sempre è. Ma l’impossibilità dell’esser-niente va
do la relazione tra i due che pone l’essere di entrambi. Quindi,
quand’anche si ammettesse che ora si sta sognando, con ciò pure
ora mostrata come identica all’impossibilità dell’esser-
si sta ammettendo che esista uno stato di veglia in cui l’ipotesi sciolto, dell’esser-isolato, dell’esser-assoluto. L’Essere di
del sogno resta invalidata. Appare così che la stessa formulazio- qualcosa resta muto e astratto se non viene ascoltato nel
ne scettica resta fondata sul Dogma dell’ontologia analitica, ossia su senso della relazionalità che gli è propria, tale per cui, ogni
una considerazione astratta in cui uno stato è considerato come essente propriamente è, e quindi pure è conoscibile, solo in
se potesse esistere in quanto tale indipendentemente da ciò a cui quanto è il suo esser-in-relazione al tutto. E proprio su que-
invece è essenzialmente e inevitabilmente connesso. sto aspetto capitale bisognerà concentrare l’attenzione.
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2. Sul senso dell’Essere dere, l’Essere esclude da sé unicamente il contenuto della


contraddizione, ossia lo comprende in sé in quanto con-
Emergeva da quanto si diceva all’inizio che il senso fon- traddizione: il non-Essere, in quanto contraddizione, che
damentale della posizione severiniana sta nell’affermazio- è ed esiste come tale, appartiene all’Essere tanto quanto
ne dell’incontraddittorietà e quindi incontrovertibilità ogni altro ente. Ma questo è anche l’unico modo nel quale
dell’affermazione «l’Essere è». Si può quindi già prende- il non-Essere appartenga all’Essere, giacché ogni altro
re atto che il principio di identità e quello di non contrad- modo è a priori impossibile: il non-Essere non contraddit-
dizione non si pongono in realtà come essenzialmente torio è infatti precisamente l’affermazione della negazio-
diversi, ma sono il medesimo, o, meglio, due lati di una ne dell’opposizione, che, come tale, implica il suo autoto-
medesima realtà originaria: glimento e quindi la sua stessa autonegazione. Poiché il
non-Essere, proprio in quanto vuol porsi come tale, non
in quanto questi due principi sono tenuti distinti l’uno può che porsi come contraddizione, il non-Essere come
dall’altro, essi valgono come momenti astratti della con- tale non è altro che la sua stessa contraddizione e, in
cretezza del principio. Guardando a questa concretezza, è quanto contraddizione, appartiene all’Essere: all’Essere
indifferente che tale principio sia chiamato principio di appartiene l’impossibilità della sua negazione. È anche questa
identità (o di determinazione), o principio di non con- la conquista del pensiero severiniano: mostrare che la
traddizione. Infatti, l’essere non è non essere perché l’es- 222 223 cosiddetta “aporia del nulla” si costituisce nella misura in
sere è essere, e viceversa, l’essere è essere perché l’essere cui si pretende di tener separata l’affermazione del non-
non è non essere. [...] Parimenti, è da escludere una prio- Essere come contenuto noetico determinato da quella
rità logica di uno rispetto all’altro: i due lati del principio della sua contraddittorietà, senza riconoscere che il non-
sono immediatamente connessi, e quindi nessuno dei due Essere come tale è già la sua contraddittorietà e si pone
è un che di mediato dall’altro196. inscindibilmente da questa197.
L’essenziale connessione che tiene uniti insieme il princi-
Ciò implica che l’affermazione «l’Essere è» sia identica pio d’identità e di non contraddizione permette così di
all’affermazione «l’Essere esclude da sé il non-Essere» e mostrare che l’élenchos stesso appartiene al senso dell’in-
non perché una sia la “regione” dell’Essere e altra quella contraddittorietà che caratterizza come dato intrinseco e
del non-Essere, quanto piuttosto perché una regione del necessario il senso dell’esser-sé dell’essente:
non-Essere si dà solo come contraddizione, ossia pretesa
di negare quell’opposizione fondamentale che, in quanto l’élenchos è una individuazione dell’universalità dell’esser sé
innegabile, determina immediatamente l’autotoglimento di dell’essente, ossia questa individuazione è incontroverti-
ciò che pretenderebbe negarla, ossia il permanere di ciò bile perché è incontrovertibile l’universale esser sé dell’es-
unicamente come contraddizione. sente, e pertanto è “fondata” su questa universalità – e
Da questo segue che, come già prima s’iniziava a intrave-
note
note 197
Per una trattazione dettagliata del problema cfr. E. Severino,
196
E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 178. La struttura originaria, cit., cap. IV, pp. 209-235.
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non viceversa. Tuttavia l’universalità dell’esser sé non può ossia quell’unificazione dei tratti dell’originario, per la
essere indipendente e isolata dall’individuazione in cui quale la negazione dell’originario è autonegazione. E
l’élenchos consiste: appunto perché l’élenchos è l’apparire l’“astratto” è il tratto o l’elemento particolare della strut-
dell’incontrovertibilità (innegabilità) dell’esser sé: l’esser tura»199. In questo senso, ad esempio, possiamo dire che il
sé è incontrovertibile, cioè appare come incontrovertibile, non-Essere si costituisce solo in astratto come tale ma, in
solo perché l’élenchos appare. Anche qui, dunque, il fonda- concreto, si pone unicamente come contraddizione: astratto
mento autentico è la sintesi dell’esser sé e dell’élenchos (la è infatti ogni termine considerato in sé200, concreto, consi-
sintesi dell’universalità dell’esser sé e di quella sua indivi- derato nella sua necessità ossia nella sua inscindibilità dal
duazione che è l’élenchos), ed è tale sintesi a fondare i pro- Tutto.
pri elementi198. Questo implica che una considerazione concreta dell’iden-
tità dell’essere con sé, o, che è il medesimo, dell’apparte-
Da tutto questo viene d’altro canto ribadito che il non- nenza di ciò che è all’Essere, non è affatto riducibile a quel
Essere non può costituirsi come dominio di alcunché, sic- concetto di appartenenza formalizzato ad esempio dalla
ché ogni determinazione possibile appartiene necessaria- teoria degli insiemi e dove i termini coinvolti nella rela-
mente all’Essere. E ciò è come dire: l’Essere è necessaria- zione di appartenenza sono per sé stanti e separati201, giac-
mente la Totalità, la posizione dell’Essere è posizione della ché tale separatezza è un modo di negare l’innegabile
totalità stessa. Da qui, però, ne segue anche che niente può 224 225 incontraddittorietà dell’esser-sé dell’essente. Al contrario,
porsi fuori da questa totalità, ossia si dà solo col darsi della una considerazione concreta di questa identità vede e
totalità stessa e sempre e solo nella totalità. Ciò che è, è coglie l’immediatezza per cui ciò di cui si predica l’appar-
proprio ciò che è, unicamente in quanto è nel Tutto, ossia tenenza, è già appartenente a quel Tutto che già lo contie-
è il suo essere: l’Essere, in quanto Totalità, non è una rela- ne in sé. In altri termini: l’identità affermata nella sua
zione estrinseca che si aggiunga alla cosa, ma è ciò che concretezza è sempre e solo l’identità tra ciò che è presup-
istituisce la cosa stessa, o, meglio, è ciò in cui la cosa si posto identico e quindi già di per sé coinvolto in tale lega-
mostra e può mostrarsi nella sua determinazione. A rigor me. L’identità non si aggiunge dall’esterno come un di
di termini si dovrebbe quindi dire che solo l’Essere pro- più accidentale, ma è già implicita nei termini che con-
priamente è, e ogni determinazione altro non è se non nette. Ciò vuol dire: i termini identificati non si danno
l’Essere stesso che si mostra limitatamente: ciò che noi mai per sé separatamente ma sono già da sempre coinvol-
chiamiamo “cosa” e che distinguiamo in una molteplici- ti nella loro relazione. In tal senso si può dire che ogni
tà, non sono altro che onde e riflessi del medesimo tutto giudizio è necessariamente analitico, in quanto è identifi-
e sempre necessariamente nel medesimo.
Ora, riprendendo una terminologia già dell’idealismo, note
potremmo richiamare che «nel suo significato essenziale, 199
Ivi, p. 42.
il “concreto” è la strutturazione stessa dell’originario, 200
In tal senso si può dire che il Dogma presentato in Un dogma
dell’ontologia analitica, rappresenta l’essenza di una considerazio-
note ne unicamente astratta di ciò che esiste e dell’esistenza stessa.
198 201
E. Severino, La Gloria, Adelphi, Milano 2001, p. 434. Cfr. Un dogma dell’ontologia analitica, cap. 2.
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cazione tra termini che già si coappartengono. E questo è tra termini separati, tautót s è follia estrema se viene inte-
tutt’uno col dire che la verità di tali giudizi analitici, in sa come identificazione di questi diversi, ossia se viene
quanto fondata sull’incontraddittorietà dell’identità, si presa come qualcosa che si aggiunga a posteriori a termini
pone come tale proprio in quanto presupposta. Il solido cuore per sé essenti e isolati. E perché tautót s non sia follia,
della verità è l’identità stessa dell’Essere con sé, ma il senso ossia impossibile pretesa di identificare i diversi, è neces-
autentico dell’esser-identico a sé è nella presupposizione in sario sottrarre i termini stessi al loro isolamento sicché
virtù della quale l’identità medesima non è aggiunta dopo l’identità non si ponga tra noemi in sé sciolti e assoluti, ma
la posizione dei termini ma è già da sempre presupposta: ter- tra noemi che già di per sé sono posti come identici l’uno
mini per sé assoluti non esistono se non come astrazioni202. all’altro: A può esser B se e solo se l’esser-A è già un esser-
B e viceversa, sicché l’identità tra A e B risulta, essenzial-
Se il soggetto e il predicato dell’identità valgono sempli- mente, l’identità tra l’esser-già-B di A l’esser-già-A di B.
cemente come momenti noetici [...], il campo semantico Appunto si notava che, se solo questa è la vera struttura
costituito da ognuno di essi non include come posto che dell’identità, la sua struttura originaria appunto, è difficile
esso sia l’altro, poiché la posizione che l’uno sia l’altro è allora non scorgere nella struttura di questa verità il senso
posizione dell’idendità, ossia apofansi. Concepiti a questo della presupposizione: a rigore, l’espressione “A è B” non
modo il soggetto e il predicato, non sussiste nemmeno è propriamente vera perché i noemi A e B sono identici,
l’affermazione: «l’essere è essere». [...] Intesa a quel modo 226 227 quanto piuttosto perché ciascuno dei due è quello che è in
l’identità, la proposizione «l’essere è essere» diventa per- quanto implica già da sempre l’identità all’altro.
tanto, come già si è avvertito, un’affermazione autocon- Per contro, la follia è nient’altro che l’isolamento che vuole
traddittoria, stante che il soggetto e il predicato vengono astrarre i termini dalla loro reciproca relazione e conside-
posti come il medesimo, mentre ognuno dei due, come rarli in sé, pretendendo poi di fondare su tale astrazione
semplice momento noetico, è altro dall’altro; sì che l’alte- una parvenza di coerenza e incontraddittorietà. Ma non è
rità vien posta come medesimezza. Se il soggetto e il pre- difficile nemmeno riconoscere come tale follia possa costi-
dicato sono presupposti alla loro identità, essi valgono tuirsi solo in quanto assolutizza ogni termine annullando
come momenti noetici; e, se sono intesi come momenti le connessioni che lo legano all’altro: follia è appunto rite-
noetici, sono presupposti alla loro identità. L’identità con- nere che qualcosa possa esser sé, che vi sia in generale un
creta è dunque identità dell’identità con sé stessa203. esser-sé che prescinda dalla relazione all’altro. Il nulla viene
in definitiva evocato per questo: avvolgere nelle sue neb-
Sta poi qui il cuore più profondo del discorso severiniano bie aporetiche le relazioni che istituiscono il termine di
e del pensiero dell’Essere: non può darsi autentica identità modo da poterlo considerare in sé, prescindendo da tali
relazioni, ossia astraendolo da esse.
note Non altrove abita la radice stessa del nichilismo che, nella
202
Circa la misura e il limite in cui il tema della presupposizio- sua figura più abissale e originaria, non evoca il nulla per
ne della verità viene sviluppato da Heidegger, cfr. La concezione le cose ma evoca le cose dal nulla, ossia, annullando l’iden-
heideggeriana della verità in Essere e tempo. tità che lega ogni essente a ogni altro, sospende ogni essen-
203
E. Severino, La struttura originaria, cit., pp. 182-183. te nell’astrattezza del vuoto dove ciascuno resta stretto alla
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solitudine del suo sé. Né, però, ci si può limitare a dire che s’altro. L’Essere in quanto sempre presupposta totalità
il nichilismo si configuri così come l’annullamento dell’al- non ha un altro, l’altro si costituisce solo internamente
tro, giacché il problema sta proprio nel modo in cui viene all’Essere come particolare differenza tra alcuni termini:
concepito questo altro: nichilismo, semmai, è pensare che l’Essere in quanto tale non ammette alterità, l’altro
l’altro sia tutto ciò che non appartiene a un certo ente in dall’Essere non è, cioè non si costituisce come tale, o si
quanto tale, ossia il nichilismo non è tanto pensare la dif- costituisce solo come impossibilità di costituirsi come
ferenza tra l’altro e ciò da cui differisce, quanto piuttosto effettiva alterità. L’Essere in quanto tale può mancare solo
pensare questo qualcosa in sé, come un essente che, in del non-Essere, ma il non-Essere si costituisce solo come
quanto tale, non ha bisogno di nient’altro per essere sé. La impossibilità di costituirsi e quindi non può costituire
follia segreta del nichilismo abita il modo stesso in cui una mancanza: l’Essere non manca di nulla, né accetta che
all’interno del nichilismo risuona il senso di tautótēs, del- qualcuno o qualcosa lo guardi come straniero.
l’identità dell’essente. Nichilismo e follia è pensare tautó- Per analoghe ragioni, poiché il finito, il limitato, il chiu-
tēs come quel legame solitario con cui ciascuno abbraccia so, sono essi stessi termini relativi che si costituiscono
se stesso e solo se stesso. sempre rispetto a qualcosa, non potranno predicarsi
Fuori dalla follia e dalla solitudine dell’isolamento, ogni essen- dell’Essere in quanto tale. Ma cosa significa allora che
te ritrova sé nell’altro, scoprendosi accolto nel tutto come una pro- l’Essere è un tutto che non manca di nulla ma che pure è
messa che già da sempre reca inscritta nel suo cuore, e in cui trova 228 229 infinito, illimitato e aperto?
dimora il senso stesso del suo esser-sé, della sua identità. In realtà, quando si dice che l’Essere è infinito, illimitato
Fuori della follia, dunque, possiamo pure iniziare a pen- e aperto non si sta dicendo affatto che all’Essere manchi
sare che ogni termine si ponga nient’altro che come una qualcosa che ancora non ha raggiunto o che si delimiti
declinazione dell’Essere: in ogni termine parla l’Essere, il rispetto ad altro che non gli appartiene. Al contrario, pro-
quale, considerato come radice originaria, copre l’interez- prio in quanto l’Essere è la totalità che non lascia nulla
za del dicibile. L’espressione «l’Essere è» è quindi la posi- fuori di sé, è pure quella totalità che non ammette l’idea
zione dell’Essere come onnicomprensiva totalità delle sue stessa del “fuori” e che dunque non ammette quella discon-
differenti declinazioni, ovvero di tutte le diverse determi- tinuità costituita dal limite, dal confine, dalla linea che
nazioni che l’esistenza può assumere: non la posizione di chiude rispetto all’altro. L’Essere è illimitato, infinito e
una parte dell’intero ma dell’intero in quanto tale. Ciò aperto nel senso che non incontra mai alcun confine, alcun
significa che qualsiasi determinazione cade all’interno di limite, alcuna discontinuità che lo separi da una alterità.
questo intero, l’intero è tale proprio perché onnicompren- L’Essere è continuo, un continuum che non ammette inter-
sivo: «è stabilito che l’essere non sia senza compimento: ruzioni: «è tutto intero continuo: l’essere, infatti, si strin-
infatti non manca di nulla, se, invece, lo fosse, manche- ge con l’essere»205. Questa infinitudine ha quindi il carat-
rebbe di tutto»204. Il mancare stesso è una relazione che si tere dell’indefinito aprirsi, indefinito nel senso cioè del-
rapporta ad altro: qualcosa manca o è privato di qualco- l’aprirsi continuo che non può incontrare sbarramento di
note note
204 205
Parmenide, Fr. 8, vv. 32-33. Ivi, v. 25.
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Andrea Sangiacomo Scorci

sorta giacché nulla di esterno all’Essere può contrapporgli- nega l’appartenenza all’Essere della negazione dei termini
si: l’esterno all’Essere non esiste, non c’è. ammessi, giacché queste negazioni sono, e quindi appar-
L’infinito in sé non si incontra né si può incontrare, l’in- tengono alla totalità dell’Essere. Questa totalità, dunque,
finitudine consiste proprio nel non incontrare mai il limi- si costituisce come totalità infinita proprio perché necessa-
te, nel non esserci il limite: l’infinito non è tale perché manca riamente ammette come termine particolare la negazione
della conclusione ma perché nega che questa conclusione vi sia. La dell’esclusione dalla totalità di un qualsiasi termine che
conclusione dell’Essere può costituirsi solo come non- sia diverso dal puro non-Essere, cioè dal puro niente207.
Essere, cioè come impossibilità del suo costituirsi. Proprio perché la totalità dell’Essere non manca di nulla,
Oppure, esponendo per assurdo il medesimo argomento, essa è infinita e ogni totalità finita si costituisce solo come
possiamo rilevare che una totalità finita può davvero posizione astrattamente isolata di una sua parte.
costituirsi solo se ha tra i suoi termini un termine parti- Del resto, qualora si riportassero queste osservazioni a una
colare che escluda dall’appartenenza a quella totalità la considerazione più profonda e compiuta del discorso
negazione di ogni termine ammesso: se la totalità finita è intorno all’Essere, dall’inammissibilità per l’infinito del
data da A B e C, il termine particolare esclude dalla tota- costituirsi di un termine ultimo, si vedrebbe pure discen-
lità non A, non B e non C, quindi anche ogni ulteriore dere la necessità in base alla quale
termine D diverso da A B o C206. Ma la negazione di un
termine non è di per sé necessariamente un nulla, ma è 230 231 è impossibile che esista un essente, tale che il suo soprag-
ancora un termine: non-A, non-B e non-C possono ad giungere nel cerchio dell’apparire del destino renda
esempio costituirsi come termini D E ed F. Anzi, poiché, impossibile il sopraggiungere di ogni altro essente. [...] È
come s’è visto, non è possibile porre un nulla in quanto necessario [...] che il sentiero che la terra percorre inol-
tale, la negazione di una determinazione è ancora una trandosi nel cerchio dell’apparire non sbocchi in alcuno
determinazione. Così, se ad esempio assumiamo che il spettacolo definitivo, ma prosegua infinitamente, e sia
triangolo equilatero sia la totalità finita dei termini “tre pertanto il sentiero della Gloria208.
lati uguali” e “tre angoli uguali”, l’esclusione di “non tre
lati uguali”, “non tre angoli uguali” non è l’asserzione che L’infinitudine dell’Essere è il suo non esser mai chiuso, il
non esista una figura che ad esempio abbia quattro lati suo non arrestarsi mai innanzi ad «uno spettacolo defini-
uguali e quattro angoli uguali, ma l’esclusione di tale tivo» e, quindi, il mostrarsi dell’Essere non può che rile-
figura dalla totalità finita del triangolo equilatero. Ora, varsi come l’apparire infinito della sua stessa infinitudine.
proprio perché la negazione di un termine non è un nulla, Proprio perché il contenuto dell’Essere nella sua concre-
ma la posizione dell’alterità da quel termine, la totalità tezza è un conitinuum relativo, ogni relazione si costituisce
dell’Essere non può ammettere il termine particolare che in rapporto ad altra, senza che vi sia alcuna relazione ter-

note note
206 207
In questo senso il Dogma presentato in Un dogma dell’ontolo- Ossia necessariamente ammette la negazione del Dogma del-
gia analitica si configura proprio come il mezzo per istituire una l’ontologia analitica.
totalità finita. 208
E. Severino, La Gloria, cit., p. 102.
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Andrea Sangiacomo Scorci

minale e quindi un termine al costituirsi delle relazioni. sa, questa medesima relazione, in quanto essente, esisterà
Considerando che ogni relazione è differente dalle altre ed solo in quanto posta da un’ulteriore relazione ad altro e
esprime una differenza, possiamo dunque dire che le diffe- così via all’infinito. L’infinito appunto non si presenta,
renze si differenziano: ogni termine si dà solo in quanto si nemmeno qui, come un costituirsi graduale ma come
danno le infinite relazioni in cui esso è iscritto e da cui è l’immediatezza di ciò che si pone originariamente come un
posto, ma poiché il termine si dà solo col darsi di tutte le continuum che esclude di per sé ogni confine ultimo.
relazioni, e poiché ogni relazione pone diversamente il L’Essere non è il termine estremo di una processualità, ma
termine, il darsi del termine si manifesta come un muta- l’immediato raccogliersi in unità dell’infinita relazionali-
mento, un divenire. Questo divenire non è un emergere tà che gli compete. In questo senso è logos, ovvero, secon-
dal niente delle determinazioni accidentali di una certa do l’etimo più arcaico del termine, un raccogliere insie-
sostanza, piuttosto lo si ha da intendere come l’irriducibi- me, un legare, e questo raccogliere insieme originario può
lità di ogni ente, in quanto essente, a un qualcosa di iso- essere a ragione chiamato phýsis e il poema che parla
labile, conchiudibile entro un confine ben delimitato209. dell’Essere può intitolarsi Sulla Natura.
L’Essere stesso, infatti, non è totalmente altro dai termini Va dunque asserito che se il “questo” è quella parte che ora
che ne declinano l’infinito: ogni termine parla dell’Essere, isoliamo e consideriamo in quanto questo, allora il questo
in ogni termine è l’Essere stesso che parla di sé in un certo in quanto essente è “anche sempre più di questo”, ovvero
modo finito. Dunque a ogni termine compete questa 232 233 considerare l’essente come un questo è sempre un atto di
intrinseca apertura, questo non esser mai concluso, in sé astrazione: occorre ab-strarre, trarre fuori dall’originaria
dato e isolato, limitato. Ogni termine è costitutivamente interdipendenza relativa della phýsis e isolare un certo
e originariamente aperto, la relazionalità è la sua apertu- aspetto considerato rilevante. Il questo, proprio in quanto
ra e questa apertura significa: il termine in sé, fermo e frutto di isolamento, esiste dunque solo come una conside-
assoluto, non si dà mai. Anzi, più correttamente: ad esi- razione astratta dell’ente e si costituisce autenticamente
stere non sono i termini ma le relazioni, che pongono tali solo nella misura in cui si pone come un anche-questo e
termini nella loro originaria relatività. Sostanzializzare i mai con un solo-questo: questo ente, in quanto essente, è sempre
termini e considerarli in sé, assolutizzarli, significa dun- infinitamente più di ciò che se ne considera in quanto questo.
que scinderli dall’originaria relazionalità dell’Essere e Del resto, non è un caso che nel linguaggio, l’Essere si
quindi annullarli. Per questo si può dire che le cose, inte- presenti in primo luogo come un verbo e che questo verbo
se come entità in sé assolute e indipendenti, non esistono abbia innanzitutto il ruolo della copula. Cos’è infatti la
affatto. copula se non la struttura fondamentale che connette i
Ogni essente, in quanto “è”, gode di questa proprietà, ad termini tra loro? L’“è” copulativo ha precisamente il
ogni livello. Dunque se A e B esistono solo in quanto significato arcaico del logos, il legare insieme: dire che “S
posti in una certa relazione, cioè posti dalla relazione stes- è P” non è porre prima S, poi P e poi la relazione, ma
porre quell’essente che è “S è P”. La necessità dell’Essere
note è dunque pensabile proprio come inscindibilità di questa
209
Cfr. A. Sangiacomo, La sfida di Parmenide. Verso la Rina- connessione veicolata dalla copula “è”, per cui, appunto, S
scenza, cit., pp. 42-59. e P non sono assolutizzabili, ossia non possono essere
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astratti da loro esser legati in “S è P”. Il senso linguistico si mostra riposare sul solido cuore della verità: «al di fuori
del verbo Essere non è quindi casuale ma è la voce e la dell’isolamento della terra, la Necessità è l’apparire del-
testimonianza che il dire porta alla necessità dell’Essere: l’accordo inviolabile tra ogni cosa e il suo essere»211. Ciò
sostenere l’eterna inscindibilità di ogni essente da ciò che che Ananke legge nel cuore di ogni cosa è la sua eterna
esso è, non è altro, infatti, che ribadire l’assoluta relazio- destinazione all’Essere: il Destino, che è sempre Destino
nalità per cui ciò che è, esiste solo in quanto relazione, e della necessità, diventa quindi la parola centrale che viene
quindi pure può esser detto solo in quanto posto entro al dire nel momento in cui questo si incammina al di
l’infinita relazionalità del tutto. fuori del nichilismo, ossia ritorna capace di una conside-
Per contro, se ciò che è vien considerato astratto dal suo razione concreta dell’Essere e della sua verità.
“è”, cioè dalla necessità che lo presuppone come tutt’uno Qual è, dunque, il senso dell’Essere? L’infinito. Che vuol
con la sua relazionalità, allora “ciò” che è, in quanto “que- dire: libertà da ogni contraddizione e da ogni solitudine,
sto” che non è il suo “è” ma solo il suo “questo”, ossia solo inseparabilità necessaria di ogni cosa da ciò che essa è: il
la determinazione positiva di cui lo si imputa portatore suo essere. Infinita contrada che sempre s’avanza, senza
separata da ogni altro termine, ebbene, allora “ciò” che è, tema che l’orizzonte finisca prima che dall’eterno abbia
è, in quanto tale, un niente: il “ciò”, il “questo”, separati risuonato l’ultima voce che del Destino parla in ogni
dall’“è” sono infatti posti come non-Essere, e quindi brezza, in ogni sospiro, in ogni sguardo, in ogni luce.
quando il “ciò” e il “questo” ricevono l’“è” allora vengono 234 235 Infinita libertà di un senso che tutto percorre secondo
all’Essere. Questo divenire è dunque necessario intenderlo verità, senza mai poter leggere sulla polvere di un limite
come un venire dal niente e un tornare nel niente. Ma tutto ultimo le parole della sua fine.
ciò significa: la concezione secondo la quale il divenire è
un passaggio dall’Essere al non-Essere è fondata unica- Genova, Novembre 2007
mente su una considerazione astratta dei termini stessi
che si considerano. E se, con ragione, possiamo definire
nichilistica tale concezione, giacché fondata sull’isolamen-
to più essenziale dell’essente dal suo essere, ebbene, allo-
ra, ciò che si rivela fuori dal nichilismo è necessariamente,
l’eternità del Tutto, ossia la liberazione di ogni essente dal-
l’ipoteca del quando: ciò che è non è quando è, ma è sempre
e da sempre e per sempre. Se il tempo è il modo in cui il nichi-
lismo pensa ciò che è, contemporaneamente come un
essente e come un niente, allora il pensiero, quando si libe-
ra dal giogo del nichilismo è esso stesso «l’apparire del
Tutto»210, cioè la luce di Ananke nella quale ogni essente

note note
210 211
E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 90. Ivi, p. 98.
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Andrea Sangiacomo Scorci

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Per un ulteriore approfondimento si vedano anche:
circa la Prima Parte: circa la Seconda Parte:
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4. Il cavallo di Troia 44
Un dogma dell’ontologia analitica
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2. Parlare di ciò che vi è 72
INTERMEZZO
Il silenzio di Orfeo
240 241 1. Preludio 97
2. Ricercare 109
3. Adagio 121
4. Fugato 128
PARTE SECONDA
La concezione heideggeriana della verità
in Essere e tempo
1. Il problema della verità 133
2. Presupposizione e struttura
dell’interpretazione 148
3. Al di qua del soggetto e dell’oggetto 167
4. Limiti e prospettive della posizione
heideggeriana 180
Il solido cuore della verità
1. L’incontrovertibilità del vero 203
2. Sul senso dell’Essere 222
Bibliografia 236
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Andrea Sangiacomo

Della stessa Collana:


1. Averroè, Il Trattato decisivo, a cura di Jacopo Agnesina,
ISBN 88-89566-19-1, 10,00
2. Diego Fusaro, Filosofia e speranza. Ernst Bloch e Karl Löwith.
Interpreti di Marx, ISBN 88-89566-17-5, 10,00
3. Diego Fusaro, La farmacia di Epicuro. La filosofia come terapia
dell’anima. Presentazione di Giovanni Reale,
ISBN 88-89566-45-0, 10,00
4. Libero Federici, L’egualitarismo di Filippo Buonarroti.
Prefazione di Luciano Canfora, ISBN 88-89566-08-6, 10,00
5. Ralph Waldo Emerson, Realizzare la vita. Saggi da Society and
solitude. Traduzione, note e apparati di Beniamino Soressi,
ISBN 88-89566-56-6, 10,00
6. Sandro Ciurlia, Ermeneutica e politica. L’interpretazione come
modello di razionalità, ISBN 978-88-89566-60-2, 12,00
7. Andrea Sangiacomo, La sfida di Parmenide. Presentazione di
Giuseppe Girgenti, ISBN 978-88-89566-61-9, 10,00
8. Diego Fusaro, Marx e l’atomismo greco. Alle radici del materialismo 242
storico. Prefazione di Gianni Vattimo,
ISBN 978-88-89566-75-6, 10,00
9. Costanzo Preve, Un’approssimazione al pensiero di Marx.
Tra materialismo e idealismo. Presentazione di Diego Fusaro,
ISBN 978-88-89566-76-3, 10,00
10.Diego Fusaro, Karl Marx e la schiavitù salariata. Uno studio sul lato
cattivo della storia. Prefazione di André Tosel,
ISBN 978-88-89566-77-0, 15,00
11.V. Agliotti, T. Scappini, G. Tiengo, D. Tione, Excerpta. Voci e
testimonianze del pensiero contemporaneo. A cura di Pier Davide
Accendere. Prefazione di Ugo Perone.
ISBN 978-88-89566-72-5, 15,00

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Finito di stampare nel mese di febbraio 2008
presso le Arti Grafiche Padovane di Saonara (Pd)

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