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LETTERATURA ITALIANA

Lezione 5/10/2021

OBIETTIVO E SIGNIFICATO DEL CORSO: caratterizzare in senso umanistico la comunicazione mediatica.


Approfondimento monografico del secondo semestre sulla poetica degli ultimi decenni, contemporanei al
fronte di una situazione di CRISI. “può sopravvivere la poesia?...”

Analisi della struttura e tecnica del testo letterario. La centralità è su come esso comunica, non sulla storia
della letteratura.

 Teoria del testo (6ore)


 Divina commedia (9 ore)
 L’invenzione della narrativa, il Decameron di Boccaccio (9 ore)
 Petrarca (6 ore)

Lezioni rimangono registrate per due settimane

Bibliografia:
 Che cos’è un testo letterario? Carocci 2001 C.Varotti (per entrambi i semestri)
 Letteratura.it Mondadori 2012
 Inferno: I, V, X, XXVI. Purgatorio: I, III. Paradiso: XVII, XXXIII

ESAME:
a partire dai TESTI. Importante segnare i testi da analizzare (Boccaccio e Petrarca)
VOTO UNICO (MEDIA DEI DUE MODULI)
 PROVA SCRITTA sessione invernale (feb-marzo) in modalità QUIZ a domande chiuse dentro
blackboard e almeno una domanda aperta
 PROVA ORALE se si supera lo scritto nel secondo semestre
Lezione 7/10/2021

Petrarca.
Sonetto n.90 dal Canzoniere; “Erano i capei d’oro a l’aura sparsi”

Erano i capei d’oro a l’aura sparsi


che ’n mille dolci nodi gli avolgea,
e ’l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi;

e ’l viso di pietosi color’ farsi,


non so se vero o falso, mi parea:
i’ che l’esca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di sùbito arsi?

Non era l’andar suo cosa mortale,


ma d’angelica forma; e le parole
sonavan altro, che pur voce humana.

Uno spirto celeste, un vivo sole


fu quel ch’i' vidi: e se non fosse or tale,
piagha per allentar d’arco non sana.

Analisi:
Cosa ci ha comunicato questo testo?
Il canzoniere ha il principale merito di essere il testo che ha inventato L’INTROSPEZIONE LIRICA: l’ha
riproposta nella modernità dalle origini, ed ha fondato l’introspezione come l’intendiamo noi (analisi
interiore e dell’io). È il testo fondatore, composto da 366 poesie concentrate tutte su un unico argomento:
lo studio dell’io. Questa è la sua peculiarità, la sua insistenza quasi ossessiva, arrivando a produrre dei
risultati nello studio dell’introspezione che nessuno aveva raggiunto prima, e lo fa attraverso un testo
letterario.

Parafrasi:
v.1 - I biondi capelli di Laura erano mossi e scompigliati da una leggera brezza
Il nome della donna è nascosto dentro “a l’aura” (matrice del canzoniere)
La fortuna di Petrarca fu di innamorarsi veramente di una donna chiamata Laura, perché questo nome
porta il significato dell’alloro. L’aurea poetica. Laura è la poesia. Il poeta è ossessionato dalla donna, ma
anche dalla poesia, quindi è come se fosse un pretesto per esprimere il suo amore per la poesia. Lei è una
parte di lui.
La brezza rappresentava il ricordo, la nostalgia del paese di origine di lei. I poeti provenzali piangevano la
nostalgia, evocando evocavano la donna a partire da questa brezza che spirava dal luogo in cui questa si
trovava. questa prima parola, subito dopo il verbo, c’è quindi il tema della memoria portato dalla brezza e
già codificato poeticamente.
Aura= femminile di auro, e l’oro contraddistingue la divinità (introduce il grande dissidio petrarchesco,
ovvero che la donna amata non lo porta al paradiso ma all’inferno quindi su di lei si incontrano il sacro e il
profano.

v.2 - Che li avvolgeva in tanti riccioli


v.3 - E la luce amorosa brillava a dismisura
(vago=amoroso, bello ma nella sfera dell’amore, come invaghirsi)
v.4 - la luce di quegli occhi belli che ora invece non brillano più
Ora Laura o è malata (o lui la immagina già morta), “quando il tempo proverà a toglierle la bellezza”
v.5 - In quel momento mi sembrava che avesse il viso pietoso nei miei confronti
Lui prova a ricordare il momento in cui resto fulminato da lei e in quel momento a lui parve che lei gli stesse
corrispondendo.
v.6 - ma non so se è vero falso, so benissimo che sto ingannando me stesso.
vv.7/8 - Ma perché meravigliarsi se immediatamente mi innamorai? Dal momento che avevo l’animo
predisposto all’amore?
Metafora dell’esca. Esca è un termine che ha cambiato significato nel tempo. Oggi è quella dei pescatori,
ma allora poteva anche corrispondere a quel materiale che si usava per accendere il fuoco, come la
diavolina. Gioca lavorando su una sovrapposizione di significato: se due parole hanno almeno una porzione
in comune si può fare una metafora, come in questo caso.
Le due terzine vogliono confermare, aggiungere argomenti alla natura irresistibile dell’amore.
v.9 - il suo modo di camminare non era simile alle altre donne, ma come simile a quello di un angelo.
Queste sono iperboli.
v.10 - Il suo modo di parlare avevano un suono che sembrava molto diverso dalla semplice voce umana.
Nella terzina finale mette l’argomento decisivo:
v.11 - dunque ciò che io vidi fu un angelo, una dea
(ripresa all’oro del primo verso) Si può tacciare una linea che stringe il testo con una coesione. (ripresa sia
della metafora dell’esca e dell’oro)
v.12 - e anche se non fosse più così,
vv.13/14 Cosi come non è per il risanarsi dell’arco che la ferita si risana, il mio amore non si annulla con il
suo cambiamento.

Messaggio ultimo del testo: Laura è bellissima, e anche se un giorno non lo fosse più, io continuerei ad
amarla per l’eternità; è un amore eterno, che sconfigge il tempo.

Cosa fare di fronte a un testo letterario:

i letterati si sono interrogati sulle possibilità e i moti della comprensione che si possono attivare davanti ad
un testo letterario. Se prendiamo le posizioni estreme (identificarsi e capire), ci potremmo identificare con il
poeta.

 Identificarsi: vi è quasi la speranza di poterci mettere al posto dell’autore, ma il che è impossibile,


per una serie di motivi storici, ecc. Alcune correnti si sono tanto aggrappate a questa speranza di
identificarsi nell’autore, per esempio durante il positivismo si pensava di poter adottare le sicurezze
della scienza pura anche nelle scienze umane, come se con un lavoro di recupero ci si potesse
mettere al posto dell’autore. Quando il lettore è convinto di poter combaciare con l’intenzione
dell’autore si parla di scientismo.
 Immaginare: è la posizione di chi di fronte ad un testo enfatizza quell’orgoglio, quel diritto del
lettore tale per cui, dal momento che non si può metter al posto dell’autore, faccio dire al testo ciò
che serve a me, costruendo il messaggio non a partire dall’intenzione dell’autore, ma dalle mie
esigenze emotive. Questo atteggiamento, anche deontologico, però non rispetta strettamente la
critica a livello morale perché si espropria il testo delle sue intenzioni. Esso ha origine in un
atteggiamento scettico e pessimista: siccome non posso capire o studiare, risemantizzo il testo; si
parla infatti di scetticismo.
 Capire: disciplina dell’ermeneutica. È l’interpretazione fatta attraverso un lavoro di indagine e
studio che parte dal presupposto che noi condividiamo il fatto che il testo letterario abbia un
messaggio da comunicare. Si parla infatti di comunicazione.
Possiamo e dobbiamo, dunque, inserire la comunicazione letteraria all’interno delle teorie degli ELEMENTI
DELLA COMUNCAZIONE, formulate da Jakobson negli anni ’50:

 EMITTENTE: colui che concepisce il messaggio


 MESSAGGIO: è il contenuto della comunicazione (es: Si da per scontato che ne esista uno: l’amore
per laura è eterno)
 RICEVENTE: colui che raccoglie il messaggio
 CONTESTO: la situazione in cui avviene la comunicazione
 REFERENTE: affinchè il messaggio possa essere colto, deve essere inserito implicitamente
all’interno di un tema (si da per scontato che affinchè la comunicazione funzioni il tema non sia
un’isola, ma si identifichi in un ambito)
 CANALE: è il mezzo attraverso il quale deve passare questo messaggio
 CODICE: il linguaggio, elemento essenziale al fine dell’effettività della comunicazione. Questo deve
essere condiviso dall’emittente e dal ricevente

Quando caliamo questo schema nella comunicazione letteraria, esso assume delle specificità:
Per esempio, di solito l’emittente e il messaggio (lo scrittore e il suo testo) costituiscono una coppia
staccata dalla coppia del lettore ed il testo. Lo scrittore non è lì con noi, ma è il testo che mette in contatto il
lettore e scrittore: sta in questa condizione astratta che poi viene riattivata dal lettore. un testo senza il
lettore non esiste.
C’è un diaframma profondo, una separazione tra l’autore e il lettore, perché questo è un testo che arriva da
secoli fa e noi facciamo rivivere. Questa sospensione, condizione potenziale di stretto e implicito, porta a
una serie di conseguenze, come:
 Deriva dei significati. Vi è una perdita da parte del poeta, perché la non compresenza con il lettore,
fa sì che l’autore non possa fedelmente spiegarci cosa aveva intenzione di comunicare quando ha
composto l’opera. Il nostro recuperare un testo nel presente implica che sia qualcun altro a
trasmettercelo, dunque non potrà mai essere completamente fedele alle prime intenzioni
dell’autore. Siccome Petrarca per scrivere quel sonetto ha dovuto codificare un suo pensiero in
segni, questi lo hanno tradito già nel momento in cui sono stati scritti. Quindi si deve riformulare
con altre parole, le quali necessariamente di nuovo tradiscono il pensiero, perché nascondono dal
punto di vista teorico, il vero significato.
 Contesto modificato
 Assenza degli elementi paralinguistici: gestualità, intonazione, ecc. che il poeta non può
fisicamente comunicarci, e che è costretta oggi a passare attraverso la voce di chi ce lo comunica.
 Assenza del feedback del lettore: vengono meno i meccanismi di ritorno presenti in altri tipi di
comunicazione, essenziali al successo dell’opera.
 Possibili riletture e studi: noi siamo lontani secoli da Petrarca, per esempio, ma ciò fa anche sì che
non sia solo uno svantaggio: questo testo lo abbiano letto centinaia di persone e generazioni, fa sì
che già qualcuno abbia compiuto un lavoro di studio e analisi. Quindi ci viene in soccorso anche da
un punto di vista di valore di significato del testo: più passa il tempo, più il significato si arricchisce,
perché la natura del testo letterario è aperta, libera.
Abbiamo il vantaggio di poterci prendere tutto il tempo per cogliere il messaggio, leggendolo più
volte, informandoci, ecc.: questa non -immediatezza fa sì che il lettore abbia tempo di studio e
leggibilità. Importanza della tradizione come luogo di creazione di significato

Le funzioni della comunicazione letteraria (a partire dal modello di Jakobson)


Le situazioni letterarie si differenziano perché enfatizzano funzioni differenti, prevalgono alcuni degli
elementi e non tutti, e con loro le rispettive funzioni:

EMITTENTE: funzione EMOTIVA


MESSAGGIO: funzione POETICA
RICEVENTE: funzione CONATIVA
CONTESTO: funzione REFERENZIALE
CANALE: funzione FÀTICA
CODICE: funzione METALINGUISTICA

Il testo letterario comunica quando enfatizza la funzione poetica: questa non si definisce facilmente, ma è
l’orientarsi della lingua verso il messaggio per sè stesso, un messaggio che guarda sè stesso. Le forme d’arte
comunicano in questo modo.

Lezione 12/10/2021

Importanza del CODICE:


La lingua letteraria si specializza più di qualunque altra nel codice. Innanzitutto c’è da considerare la
differenza temporale tra un determinato lettore ed un autore, e per questo è importante che quella lingua
usata dallo scrittore rientri in sintonia con la lingua del lettore, che vista l’evoluzione di una lingua porta a
veri e propri cambi di significato (es: l’esca) e va studiata come fosse una lingua sconosciuta.
Altre complicazioni sono dovute al fatto che nella letteratura siamo di fronte ad un codice iper-
specialistico: la lingua usata da Petrarca non è nemmeno la lingua parlata da
Petrarca, ma è già una lingua letteraria, un codice da apprendere e da condividere con i suoi lettori, una
lingua specialistica al cui interno si trovano tanti sottocodici letterari. La lingua di quel sonetto non solo è
lingua letteraria, ma anche lingua della lirica. E quello della lirica è in alcune parti differente dal codice della
prosa; diverso è ancora quello della poesia narrativa, ecc. Siamo di fronte alla lirica di una certa scuola,
quella dei poeti provenzali, e allora quanti condividevano quel codice sapevano bene che, per esempio, il
termine aurea significava la nostalgia del paese di origine della donna amata.

LO STILE

È ciò che individua in termini espressivi l’artista.


Tanto più un autore è importante, tanto più delineerà un suo personale stile, riconoscibile, raggiunto con
estrema specificità e distinzione.
Già nell’antico uso del termine stile, da “stilus”, bacchetta per tracciare i segni sulle tavolette di argilla; lo
strumento che individuava per primo IL TRATTO segnato (si dice infatti “il tratto di stile”).
Partendo dunque dal presupposto che noi cerchiamo il MESSAGGIO dentro al testo, occorre anche che lo si
condivida lo stile di un autore. Non si riesce a comprendere bene come si faccia a riconoscere un
determinato stile ed attribuirlo ad un autore, l’Estetica se ne occupa, ma una Conditio sin e qua non della
comunicazione letteraria è soprattutto l’evidenza dell’importanza della FUNZIONE POETICA: l’oggetto della
comunicazione, il significato, si deve legare in maniera necessaria e fondamentale, alla forma. In modo tale
che diventi evidente che quel messaggio espresso in altra forma, cambia significato. Infatti una parafrasi è
sempre un tradimento del testo, la traduzione è impossibile in ambito poetico.
Dunque la funzione poetica è la condizione necessaria alla comunicazione letteraria, ma è possibile che sia
presente anche altrove, come nella comunicazione pubblicitaria per esempio non si esclude che i testi
letterari possano portare ad altre funzioni. Es: il testo lirico direzionato per una certa parte verso il mittente
(funzione emotiva), ecc. (modello di Jakobson su descritto). A seconda delle varie tipologie testuali si
possono osservare con attenzione queste distinzioni al fine di cogliere meglio il messaggio.

Una definizione di funzione poetica stretta e precisa non esiste, come anticipato prima, ma si può attingere
astrattamente alla definizione di “l’orientarsi della lingua verso il messaggio per sé stesso”. Notare però
come la comunicazione letteraria sposta l’attenzione prevalente dall’asse della selezione all’ asse della
combinazione: inserire questo discorso all’interno di una visione del testo come un insieme di segni. Un
segno (lo si pensi come ad una parola) è l’insieme di un significato e un significante. Il significato è
l’immagine mentale in un oggetto o segno. Per visualizzarla però si deve associargli un SUONO, un
significante. L’associazione tra l’immagine mentale, significato e significante, NON è NATURALE, ma
arbitraria; dipende dalla condivisione di un codice. Infatti noi non parliamo una “lingua naturale”. Questa
associazione fa sì che chi parla o scrive prelevi da questo codice certi elementi e poi li organizzi, prima con il
momento di selezione e poi di combinazione.

La selezione
è un momento delicato non solo perché è arbitraria, ma perché se già ci caliamo in un contesto poetico,
abbinare ad un’immagine mentale un significante comporta un nucleo forte del significato che invece si
scontra con una periferia d significati sempre più soggettivi. Questo centro si chiama aspetto denotativo
del significato. Più andiamo in periferia, più andiamo verso invece gli aspetti connotativi.
Es: “Oro” non è solo quell’elemento chimico, ma dentro il suo campo semantico c’è anche altro (lucente,
bellissimo, prezioso, ecc.)
Il poeta seleziona le parole soprattutto per il loro valore connotativo; i suoi elementi sono scelti a posta per
andare incontro a chi riceve. Una volta fatta la selezione delle parole da utilizzare, questo segno va
combinato con gli altri segni, dunque bisogna costruire la sintassi. Si deve passare dall’asse paradigmatico
all’asse semantico.

Momento della combinazione


è il principale, nel quale si intendere il testo come una struttura. Il termine arriva dalle riflessioni teoriche
della critica del ‘900 e rinvia ad un lessico architettonico, come un edificio in cui le parti sono in equilibrio
tra loro in maniera statica. In un testo queste relazioni all’interno di un testo sono delle relazioni che
tengono in piedi il testo come un’unità. Queste relazioni sono la fonetica, la morfologia, la sintassi, la
metrica.
Petrarca doveva per esempio tener conto delle parole che aveva usato per trovarne altre giuste, tenendo
conto della fonetica, dei suoni, della morfologia. Sono relazioni che si intersecano tra di loro e riguardano
sia il DISCORSO (piano letterale del testo, testo verbale, ciò che sta fuori), sia le relazioni attinenti la
semantica, cioè i contenuti, ciò che sta dentro. Quei capelli d’oro vengono collegati a quella dell’esca per
esempio, tra di loro sono simboli che si legano.
A determinare lo stile di un testo sta proprio la combinazione di tutte queste relazioni tra di loro e con
l’analisi del testo non si fa altro che portarle alla luce.

Lezione 14/10/2021

LA METRICA

Il livello della metrica è uno di quegli elementi che tengono in piedi la struttura, è la dimensione portante di
un testo poetico e letterario. Essa è ciò che distingue un testo poetico da un testo non poetico (o un testo
letterario da un non letterario, perché si può parlare di metrica anche per i testi in prosa, tenendo conto del
ritmo per esempio). Alle origini della prosa letteraria italiana, ‘200-‘300, quando doveva trattarsi di prosa
d’arte e non di servizio, esistevano elementi della metrica poetica, di quella ancora classica.
La metrica non è una costrizione, ma è la sorgente della poesia. Un pensiero che possa chiamarsi poesia
non può non nascere in metrica; siamo noi a che a posteriori facciamo l’analisi di questa, non è che il poeta
prima fa lo schema e poi scrive, ma la inventa così. l’invenzione (da “inventio”, ritrovamento) riguarda ciò
che si vuol comunicare poeticamente, e nasce già in forma metrica.
La Metrica è ritmo, ed in quanto tale determina quei momenti della selezione e della combinazione su
descritti interessati nella scelta della posizione delle parole. I fenomeni ritmici sono la stessa cosa dei
fenomeni musicali (la poesia alle origini era infatti musicata), e così come la musica, la metrica organizza
determinati fenomeni nel tempo secondo dei rapporti di durata ed intensità; lo stesso succede nella poesia,
tenuta in piedi da queste ultime.
Questa musicalità della poesia è cambiata nel tempo: si guardi al fenomeno della poesia latina, in cui il
ritmo è dato dal disporsi di elementi di quantità differente; ad un certo punto il fattore distintivo passa dalla
quantità alla qualità. La metrica italiana è dunque caratterizzata da un meccanismo di tipo qualitativo,
ovvero sillabico-accentuativo. Il ritmo è dato dalla collocazione di elementi atoni e tonici (sillabe
accentuate o meno): l’unità di attenzione è la sillaba, ma ogni parola italiana sta in piedi perché ha un punto
tonico, presente sulle vocali, non sull’intera sillaba.
La posizione degli accenti delle parole è fondamentale per dare il ritmo ad un verso, tanto che
per comprendere il ritmo di un verso si potrebbe fare anche a meno della divisione delle parole e tenere
semplicemente conto della posizione degli accenti sulle parole; questa è definita “scrittura continua”.
Scrittura continua: è tanto forte l’elemento ritmico che fino al basso ed alto medioevo, i versi si scrivevano
continuamente e senza separazioni (non esisteva la carta, si scriveva sulle pergamene, quindi lo si faceva
per una questione di risparmio di spazio e denaro).

LE SILLABE

Si considerano dunque come fondamentali gli accenti e il numero delle sillabe:


es: l’endecasillabo non si chiama così perché deve essere di 11 sillabe, ma è tale quando l’ultima tonica è
sulla decima. Si chiama endecasillabo perché la stragrande maggioranza delle parole italiane è piana, e
dunque hanno una sillaba dopo quella accentuata. Quindi per un fatto statistico, la grande maggioranza di
quei versi alla fine è di 11 sillabe. In conclusione, “Quante sillabe ha un endecasillabo?” Dipende. Basta che
la penultima sillaba sia accentata.
In ogni verso della poesia italiana, oltre all’accento primario ce ne sono altri che venivano immediatamente
colti dal lettore e immediatamente realizzati dal poeta: es: l’endecasillabo prevede al suo interno almeno
altri due accenti, sulla 4 o 6 solitamente, e a seconda di dove siano gli endecasillabi assumono diversi nomi.

Esempio:
La notte c’io passai con tanta piéta
Lo leggo in questo modo perché il poeta ha deciso di spostare l’accento per una questione di rima. Sono
delle regole però interne al codice, non sono degli obblighi. Questi punti forti vengono gestiti dal poeta in
maniera dialettica e con libertà; si determina così anche lo stile di un poeta. Gli accenti vengono usati per
evidenziare il significato di una determinata parola e per far equilibrare il contenitore con il contenuto. In
questo è attiva la funzione poetica.

IL VERSO

È l’unità minima che da sola può costituire un discorso in versi compiuto.


I versi si organizzano in strutture chiamate “strofe”. Queste sono una costante della poesia fino all’800, poi
cedono il passo a delle strutture poetiche continue dove apparentemente non ci sono le strofe (Il così detto
verso libero).
Cosa determina la strofa? Non il numero di versi, non uno spazio tra questi, ma LA RIMA.

LA RIMA

La rima avviene quando abbiamo identità di suono dalla vocale tonica in poi, non è l’uguaglianza
dell’ultima sillaba. Il fenomeno ritmico è un fenomeno di suono.
Questa natura della rima costituisce le strofe, quindi versi che si assomigliano dalla tonica in poi verranno
indicati, per convenzione, con la lettera A, e quando se ne incontra una nuova con la B, e così via.
Le quartine per esempio possono essere a rima alternata o baciata, le terzine a rima incatenata;
la quartina è tale perché ha rime ABAB. La terzina è tale perché ha le rime ABA, BCB, CDC

LE STROFE

Le strofe costituiscono, a seconda della loro natura, varie tipologie di testo. Per convenzione un sonetto è
tale quando ha due terzine e due quartine, per un totale di 14 versi. Tali quartine hanno lo stesso schema
tra loro due, mentre le terzine sono un pò più libere.
Per esempio le ottave hanno i primi sei versi in alternata e gli ultimi due in baciata, i primi sei sono mossi, gli
ultimi due uguali: è proprio con l’ultimo distico coerente nella rima che si determina il ritmo della
narrazione, infatti l’ottava è quella della poesia narrativa. Il metro della narrazione è l’ottava perché
probabilmente era quella più congeniale al racconto delle storie da condividersi nelle corti, ecc. e questo
forse favoriva la memorizzazione e l’oralità. (Le narrazioni in versi fino al ‘600 erano in poesia)

Metrica e invenzione
Da Cesare Segre
“Viene da chiedersi se le convenzioni metriche siano o meno una costrizione, un vincolo all’invenzione del
poeta. Le convenzioni sono uno schema vuoto in cui gli elementi vengono ordinati, e questo presenta delle
costrizioni e delle alternative.
Tra alternative e costrizioni, il discorso poetico esce enfatizzato e sottolineato con effetti di attesa/
sorpresa, monotonia/rottura della monotonia. Quindi vi è una dialettica tra istituzione e libertà, una sfida
tra i due. Questi sono i meccanismi mentali naturali e antropologici di ogni esperienza estetica; ogni artista
suscita delle attese e programmaticamente le tradisce: è una dinamica non fissa, ma una tensione attiva, ed
è qui che si istituisce il momento estetico, indipendentemente se l’attesa venga appagata o meno. Ogni
grande poeta è colui che rispetta le regole ma contemporaneamente le gestisce liberamente.”

LE FIGURE RETORICHE

Sono anch’esse gli strumenti di lavoro del poeta, della poesia, non sono costrizioni o formalismi che
appesantiscono, ma sono il modo con cui il poeta tratta con grande originalità e libertà il codice. Alcune di
queste sono fondamentali, si dividono in grandi famiglie e rinviano a livelli vari (suono, morfologia, ecc.) al
cui interno devono legarsi le une con le altre.

PRINCIPALI FIGURE RETORICHE

Metaplasmi
Addizione Pròstesi: Strada → Istrada
Epèntesi: Umilmente → Umilemente
Epìtesi: Morrò → Morroe
Dièresi (Metrica): Oriental → Orïental
Dialefe (Metrica): Ché la diritta viaˇera smarrita
Sottrazione Aféresi: Inverno → Verno
Sìncope: Medesimo → Medesmo
Apòcope: Pensiero → Pensier
Sinèresi (Metrica): → «Disse: Beatrice, loda di Dio» [1 sillaba] vera
Sinalefe (Metrica): → «Voi ch’ascoltateˆin rime sparseˆil suono»
Ripetizione Rima (Identità dall’ultima vocale tonica; alterne, baciate, incatenate, irrelate, equivoca, derivativa) : →
Stelle:fiammelle:quelle
Assonanza (Identità vocalica in termini vicini a partire dalla tonica) → salamastre/arse; ombra/remota;
nostri/volti
Consonanza (Identità consonantica in termini vicini a partire dalla tonica) → sedendo/mirando;
travaglio/muraglia/bottiglia
Allitterazione (Identità di fonemi in parole vicine) → di me medesmo meco mi vergogno
Onomatopea Parola che imita o suggerisce il suono dell’oggetto o dell’azione che significa: cuculo, fruscio
Paronomasia Accostamento di due parole dal suono simile: ch’io fui per ritornar più volte volto

Metatassi
Polisindeto Coordinazione di frasi in un periodo, o parole in una frase, con uso marcato delle congiunzioni → e
(Parallelismo) sempre corsi, e mai non giunsi il fine; / e dimani cadrò
Enumerazione- Rassegna marcata di elementi legati per asindeto o polisindeto → Or ride, or piange, or teme, or
Accumulo s’assecura (rif. all’anima)
(Parallelismo)
Pleonasmo Aggiunta di elementi ridondanti
Asindeto Coordinazione di frasi in un periodo, o parole in una frase senza uso di congiunzioni → venni, vidi, vinsi
Zeugma Dipendenza da un unico verbo di elementi che ne richiederebbero diversi → Parlare e lagrimar vedrai
insieme
Ellissi Eliminazione di termini che si possono sottintendere → E alto in cielo, scheletri di faggio [appaiono] /
come sospesi e sogni di rovine; La sventurata rispose (Gertrude nei Promessi Sposi)
Anafora (Parall.) Ripetizione di una o più parole all’inizio di frasi, periodi, versi
Epifora (Parall.) Ripetizione di una o più parole alla fine di frasi, periodi, versi
Anadiplòsi Ripresa ad inizio verso della parola conclusiva del verso precedente → Questa voce sentiva / gemere in
una capra solitaria / In una capra dal viso semita
Anacoluto Scorrettezza di legame sintattico tra frasi → Quelli che muoiono, bisogna pregare per loro
Chiasmo Disposizione incrociata di due elementi → Trema un ricordo nel ricolmo secchio, / nel puro cerchio
un’immagine ride
Anastrofe Inversione dell’ordine di due o più parole → Cammin facendo; Eccezion fatta; Convenevole cosa è,
carissime donne...
Ipèrbato Allontanamento nella frase di parole che grammaticalmente dovrebbero stare vicine → Andavano,
secondo che mi parve, molto pensosi; Mille di fiori al ciel mandano incensi
Climax Enumerazione di termini o concetti che hanno significato gradatamente ascendente o discendente → un
valente uomo di corte e costumato e ben parlante (Boccaccio ponendo al vertice l’eloquenza)

Metasememi
Similitudine Confronto tra immagini attraverso la mediazione di avverbi di paragone o locuzioni avverbiali (come,
simile a, tale, sembra, pare, ecc.) → aveva il volto splendente come il sole
Metafora Sostituzione di un termine con un altro, in base a un rapporto di similarità tra significati (elemento in
comune tra campi semantici diversi) → Ridon or per le piagge erbette e fiori; Capei d’oro
Sineddoche Sostituzione di un termine con un altro, in base a un rapporto di contiguità (maggiore o minore
estensione)
Parte/tutto → vela (per nave)
Tutto/parte → ho dipinto casa (per le pareti)
Singolare/Plurale → l’uomo è egoista
Plurale/Singolare → penso ai figli (a mio figlio)
Specie/Genere → pane (per cibo)
Genere/Specie→ i mortali (per uomini)
Metonimia Sostituzione di un termine con un altro, in base a un rapporto di vicinanza logico-causale e/o materiale-
spaziale (stesso campo semantico)
Causa/Effetto → «Ma negli occhi mi percosse un duolo»
Effetto/Causa → «Talor lasciando le sudate carte»
Materia/Oggetto → un marmo (una statua)
Contenente/Contenuto → bere un bicchiere
Concreto/Astratto; Astratto/Concreto; Autore/Opera; ecc.
Perifrasi Indicazione di persona o concetto non con una parola sola ma mediante un giro di parole
Antonomasia (circonlocuzione) → Il bel paese là ove il sì suona (Italia); Il ‘Flagello di Dio’ (Attila)
Personificazione Consiste nel considerare come persone (rivolgendosi loro o facendole agire o parlare) oggetti o concetti
Prosopopea astratti → una forma smisurata di donna...col busto ritto, di volto mezzo tra bello e terribile (la Natura
Ipostasi nelle Operette Morali di Leopardi)
Adynaton Perifrasi che sostituisce il concetto ‘mai’ mediane la menzione di situazioni impossibili:

Metalogismi
Litote Affermazione fatta mediante la negazione del contrario → Don Abbondio...non era nato con un cuor di
leone
Iperbole Esagerazione di una qualità o di un concetto oltre i limiti del verisimile → Uno spirto celeste, un vivo
sole / fu quel ch’io vidi
Antitesi Accostamento di parole o frasi di senso opposto: Pace non trovo e non ho da far guerra
Ossìmoro Accostamento di parole di significato opposto e contradditorio → questo viver dolce amaro
Antifrasi Affermazione che lascia intendere di voler significare l’opposto → Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde: /
Ironia tu, ricca, tu con pace, tu con senno (Riferita a Firenze lacerata da lotte interne)
Sarcasmo
Eufemismo Attenuazione di una parola o espressione mediante un’altra più neutra: poco perspicace (stupido)
Allegoria Operazione linguistica che agisce nel contenuto logico mediante la soppressione totale del significato di
base (a differenza della metafora), che deve essere riportato a un diverso livello di senso, comprensibile
in riferimento a un codice non immediato. Es: Nell’interpretazione del Veltro dantesco il significato di
base (cane) è soppresso, quello allegorico (riformatore) viene colto solo tramite inferenze esterne (Cane
al posto di riformatore)
Simbolo Solitamente un oggetto che rappresenta un concetto astratto, ha una radice culturale e si riferisce a
costanti antropologiche. Es.: Ape → operosità; piume → vanità
Figura Differisce dall’allegoria in quanto presume la realtà storica di entrambi gli elementi, dei quali il secondo
è perfezionamento del primo. Es: L’Esodo narrato nell’Antico Testamento è fatto storico ma insieme
prefigura il viaggio di liberazione dal peccato compiuto da ogni cristiano (viaggio e liberazione dal
male).

DI FRONTE A UN TESTO LETTERARIO:


1 ordinare le parole secondo l’ordine sintattico canonico (soggetto, verbo, complementi)
2 decodificarele parole e le espressioni desuete (cambiamento del codice linguistico)
3 esplicitare i luoghi impliciti e i traslati
4 mettere in luce i livelli dei significanti e dei significati (metrica, retorica, semantica, ecc.)
5 interpretare il significato del testo
 1+2 parafrasi limitata; 1+2+3 parafrasi ‘ricca’ (sempre auspicabile); 1+2+3+4 analisi del testo;
1+2+3+4+5 interpretazione del testo

SULLA METRICA
Metrica: musicalità della poesia data dal ritmo
Ritmo: alternanza di elementi significativi
La metrica italiana è sillabico-accentuativa: Sillabico: considera il numero di sillabe per verso
Accentuativa: considera gli accenti tonici
Verso: unità minima per costituire un discorso in versi compiuto
Più spesso i versi si organizzano in strofe individuate dallo schema delle rime
Rima: identità di suono dall’ultima vocale tonica
 La metrica è una convenzione da intendersi come uno schema vuoto che presenta costrizioni (ogni
endecasillabo deve avere la decima tonica) e alternative (posso scegliere se accentare la quarta
oppure la sesta oppure entrambe). Tra alternative e costrizioni il discorso poetico viene enfatizzato
e sottolineato, con effetti di attesa/sopresa, monotonia/rottura della monotonia.

Metaplasmi

Rima = lavora sulla ripetizione del suono; è l’identità del suono dall’ultima vocale tonica.
Allegoria
Assonanza e Consonanza = sono delle quasi rime, ripetizioni di suono che riguardano soltanto le vocali per
l’assonanza e solo le consonanti per la consonanza.
Allitterazione = altra ripetizione di suono. Identità di fonemi in parole vicine, come una parola balbettata,
un colpo ripetuto insieme ad un balbettare.
Onomatopea= imita o suggerisce il suono dell’oggetto o dell’azione che significa. Es: fruscio.

Metatassi

Lavorano non sui suoni ma sulla posizione, sull’ordine della figura nella catena. Meccanismi di posizione in
cui si rendono gli accostamenti efficaci.
Polisindeto= parallelismo. Quando all’interno di un periodo vi sono frasi coordinate che abbiano la
congiunzione espressa. Es: ‘e sempre corsi, e mai non giunsi il fine, e dimani cadrò’
Enumerazione-accumulo= parallelismo. Rassegna di elementi legati tra di loro. Es: Or ride, or piange, or
teme or s’assecura.
Anafora = Ripetizione di una o più parole all’inizio di qualcosa; quando ci sono della realtà che iniziano tutte
allo stesso modo.
Epifera = quando ad essere uguale è la parte finale.
Chiasmo = figura incrociata. Sono due elementi che si incrociano in un punto, che fa come da specchio.
Climax = elenco all’interno della quale gli elementi si dispongono in modo graduale secondo
un’enumerazione, o ascendente o discendente, ci deve essere una direzione ben marcata.

Metasememi

Lavorano sui significati, sull’aspetto connotativo, ecc. Queste figure sono il modo di lavorare con i significati.
Similitudine = Confronto tra immagini attraverso la mediazione di avverbi di paragone o locuzioni avverbiali
Metafora = Sostituzione di un termine con un altro, in base a un rapporto di similarità tra significati. Es:
Chiare fresche dolci acque. Dolci capelli. Qui “dolce” è una metafora.
Ciò che distingue le due è l’esplicitazione del paragone nella similitudine, mentre è implicito nella metafora,
ma il meccanismo è lo stesso, perché si lavora sulla semantica dei significati.
Sineddoche = Il piccolo per il grande, la parte per il tutto, il grande per il piccolo. Rapporto di quantità tra le
cose.
Metonimia = difficile da distinguere perché implica un rapporto anche di tipo causale/spaziale. La sua
definizione è difficile, ma in generale riguarda la sostituzione di un termine con un altro, in base a un
rapporto di vicinanza logico-causale o materiale/spaziale.
Es. bere un bicchiere.
Es: “ma negli occhi mi percosse un duolo”. Questo dolore non può percuotere, già è avvenuto il passaggio
causa effetto: gli occhi provano dolore. Ma si riferisce anche al dolore che implica il dolore delle anime.
Perifrasi o antonomasia = giro di parole, circonlocuzione. Si vuole indicare un’unità non con una sola
parola, ma con un insieme di parole.
Personificazione = quando qualcosa di astratto diventa una persona. Deve avere comunque almeno un
attribuito umano e deve agire
Adynaton = perifrasi che sostituisce il concetto ‘mai’ mediane la menzione di situazioni impossibili

Lezione 19/10/2021

DIVINA COMMEDIA

Inferno, I

Polisemia della commedia


Il primo canto funge da introduzione per l’opera intera, (i canti sono cento infatti); ed è esemplare come
riferimento alla polisemia.
Polisemia = tanti significati; la polisemia è uno dei fattori distintivi della comunicazione letteraria. Avere
più significati significa entrare a contatto con più livelli connotativi; questi sono talvolta ambigui, ma
l’ambiguità in questo caso è un valore aggiunto, a meno che non diventi oscurità. C’è differenza tra una
poesia difficile e una poesia oscura. Le poesie antiche fino al romanticismo possono essere difficili, ma la
poesia moderna e contemporanea a volte è oscura. La difficoltà sta nel fatto che l’oscurità è voluta dal
poeta, e può rientrare nelle sue strategie di stile, e la sua è una spiegazione che esula dalle interpretazioni
del lettore. La poesia difficile invece non è intenzione del poeta, ma è causata da quell’allontanamento che
è verificato dalla distanza tra l’autore e il lettore, quindi attraverso un’analisi si può comprendere. La poesia
oscura invece no. Il termine “opacità” invece si usa per caratterizzare il modo di procedere del linguaggio
poetico. Si usa per trasmettere l’idea che il raggiungimento del significato no è immediato, non trasparente,
ma opaco: richiede una serie di filtri che in realtà non fano altro che arricchirlo di significati. Questa opacità
la si comprende opponendola a “trasparente”, il testo opaco stimola continuamente l’indagine del testo.
È uno degli elementi che caratterizzano la funzione poetica (la parola è il segno che costituisce il mattoncino
del testo, e si riempie di un significato molteplice senza confini, interpretazione APERTA)

Canto Parafrasi
Nel mezzo del cammin di nostra vita A metà del percorso della vita umana (all'età di 35 anni), mi
mi ritrovai per una selva oscura, ritrovai per una oscura foresta,
ché la diritta via era smarrita. 3 poiché avevo smarrito la giusta strada. 3

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura Ahimè, è difficile descrivere com'era quella
esta selva selvaggia e aspra e forte foresta, selvaggia, inestricabile e tremenda, tale
che nel pensier rinova la paura! 6 che al solo pensiero fa tornare la paura. 6

Tant’ è amara che poco è più morte; È così spaventosa che la morte lo è poco di più:
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, ma per descrivere il bene che vi trovai dentro,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte. 9 dirò quali altre cose ho visto in essa. 9

Io non so ben ridir com’ i’ v’intrai, Non sono in grado di spiegare come vi sia entrato,
tant’ era pien di sonno a quel punto tanto ero pieno di sonno nel momento in
che la verace via abbandonai. 12 cui lasciai la giusta strada. 12

Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto, Ma dopo che fui arrivato ai piedi di un colle,
là dove terminava quella valle là dove finiva quella valle
che m’avea di paura il cor compunto, 15 che mi aveva rattristato il cuore di paura, 15

guardai in alto e vidi le sue spalle alzai lo sguardo e vidi la sua vetta
vestite già de’ raggi del pianeta già illuminata dai raggi del sole,
che mena dritto altrui per ogne calle.18 che conduce ogni uomo sulla giusta strada. 18

Allor fu la paura un poco queta, Allora si placò un poco la paura che avevo
che nel lago del cor m’era durata avuto nel profondo del cuore, quella notte che
a notte ch’i’ passai con tanta pieta. 21 trascorsi con tanta angoscia 21

E come quei che con lena affannata, E come il naufrago che col respiro affannoso,
uscito fuor del pelago a la riva, gettato dal mare sulla riva, si volta e guarda alle
si volge a l’acqua perigliosa e guata, 24 acque pericolose da cui è scampato, 24

così l’animo mio, ch’ancor fuggiva, così il mio animo, che ancora era in fuga, si
si volse a retro a rimirar lo passo voltò indietro ad osservare il passaggio che non
che non lasciò già mai persona viva. 27 lasciò mai passar vivo nessun uomo. 27

Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso, ripresi via per la Dopo che riposai per un po' il corpo stanco
piaggia diserta, ripresi il cammino lungo il pendio deserto,
sì che ‘l piè fermo sempre era ‘l più basso. 30 scalando la salita. 30
CONTENUTO:

Verso 1: il cammino come la vita (metafora). L’esperienza che qui viene raccontata è sia individuale, ma
immediatamente e programmaticamente viene quasi imposta ai lettori come un’esperienza comune e
condivisibile; Dante era convinto di avere una missione, quella di raccontare l’esperienza vissuta per il bene
di tutti, un’esperienza profetica per tutti, una missione per annunciare il vero. Dunque il cammino è il
cammino della vita di ciascuno di noi, è questo il messaggio che vuole far passare. Dante esordisce parlando
del cammino della nostra vita, e questo apre il testo a tutti i lettori. Normalmente il tempo dura così come
un percorso, la vita si può paragonare ad un cammino. (i due campi semantici si ritrovano)

Il primo canto è caratterizzato dall’indicazione del tempo. ’QUANDO?’ è esplicitato ‘nel mezzo di cammin di
nostra vita’, ci dà una tempistica nella quale collocarci, ovvero nel mezzo della vita di Dante, ed egli
pretende immedesimazione dal lettore. Dante poeta racconta la visione subita la notte del venerdì santo
del 1300: questo momento è per convenzione il momento intermedio della vita. Nostra significa sia che la
metà della vita di tutti più o meno era di 35 anni, ma ancora più importante Dante chiedeva e pretendeva
l’immedesimazione del lettore.

v.2: ‘selva oscura’ vale come ‘la condizione del peccato’, è una condizione di smarrimento che capita ad
ognuno nella propria vita. Questa “selva” contiene in sé un altro significato metaforico: un punto del testo
dove il piano letterale (la selva) vale tanto quanto il piano allegorico, perché quella del personaggio è una
condizione di smarrimento dell’anima che riguarda tutti noi. Naggio che dice io si è trovato davvero in una
selva, quindi il piano letterale tiene. Ma il secondo livello di significato si intuisce dal fatto che questa selva
è la condizione del peccato. Ciò che accade qui al personaggio è una situazione di crisi, esattamente come
capita ad ognuno nella propria vita.

v.3 Si utilizza il verbo participio ‘smarrita’ nel terzo verso, non scrive perduta, perché c’è una grande
differenza: qualcosa di smarrito si può ritrovare, ma non si può ritrovare qualcosa di perduto; è uno dei casi
in cui il livello fonetico, la parte del significante, si trova alla perfezione nel significato, perché c’è differenza
tra smarrita e perduta. Qua si tratta di salvare anime per riportarle a Dio, quindi non può essere una via
perduta. Infatti “perduto” è il termine più pesante che caratterizza le anime dell’inferno.

La seconda terzina introduce un passaggio ulteriore secondo i punti di vista, è come se lo scrittore qui
acquisisse un distanziamento e formulasse un giudizio, e nel “quanto a dir” questo ci fa render conto che
nell’opera ci saranno due figure: Dante scrittore e Dante lettore. Timidamente fa un passo avanti il poeta e
un passo indietro il personaggio. Questo è significativo perché il poeta che scrive ricorda un’esperienza
compiuta da Dante personaggio. Il punto è che questa è un’esperienza che non si può ricordare. (es:
quando vede dio, l’esperienza compiuta è ineffabile) e allora si instaura una tensione molto evidente tra la
materia e il racconto, tra ciò che si vuole provare a raccontare e ciò che si riesce a raccontare. Già qui il
poeta esprime la forza straordinaria dell’esperienza compiuta, vuole renderci partecipi dell’esperienza
compiuta della selva che terrorizza il personaggio, e questa paura soltanto a ricordarla si rinnova.

V.5: ‘Esta selva selvaggia’ è una ripetizione di suoni: allitterazione. Questa ripetizione gioca anche con i
significati delle parole, e possiamo parlare di paronomasia, perché tra selva e selvaggia c’è una parentela
nei significati. È un suono sibilante che riproduce il fastidio, il fatto che sia qualcosa di difficile e
drammatico. Questa selva selvaggia ha terrorizzato il personaggio, e questa paura solo a ricordarla si
rinnova.
Dante aveva bisogno di comunicare questa paura: questa selva viene resa terrificante da un climax
dell’allitterazione (negli aggettivi messi in serie verso il peggiore). Quindi selvaggia partecipa in due “punti”
del verso, con la congiunzione “e” marcata che determina l’immagine poetica (comunica per IMMAGINI,
molto più che per ragionamenti o descrizioni realistiche. L’immagine è un codice di tipo iconico, l’obbiettivo
era questo.

V.7, terza terzina, ‘amara quasi come la morte’ si riferisce alla selva. MA (antitesi, opposizione produttiva)

V.8 Troviamo anche l’antitesi: Il ‘bene che io vi trovai’ si può riferire anche a Virgilio.

V.10-12 va a rinforzare il tipo e la natura dello smarrimento. È un’esperienza che ha a che fare con un
sogno, che adesso è un incubo, e ci sono delle immagini come Virgilio che sbucano dal nulla come se fosse
in un sogno. Il primo livello letterario tiene, perché questa è una visione, un’esperienza che ha a che fare
con un incubo, un viaggio mentale. Alcuni interpreti hanno insistito nel racconto come un sogno, critici che
lavorano con la critica psicanalitica.
A un certo punto appaiono delle figure improvvisamente, come Virgilio. (giunge un’autorizzazione del
poeta)
Poi c’è un altro piano di lettura, forse più opportuno, cioè quello di intendere questo sogno in chiave
allegorica, allora è il sonno dell’anima che non è più vigile, e dunque è preda del peccato. Infatti Dante con
quel “che” spiega la causa di quel sonno.

V.11 Troviamo un altro piano di lettura: si intende il sonno come chiave metaforica. Il sonno non è più
vigile, e quindi è preda del peccato.

V. 13-15 La quinta terzina aperta dal ‘ma’ fa proseguire il poeta. ‘cor compunto’ è il cuore trafitto (animo
pieno di paura), pieno di punte, è una figura di significato (metonimia). Secondo gli antichi il cuore era una
sede delle emozioni, ed è come se ci fosse uno spostamento dalla sede. Terzina iniziata con un’avversativa:
il verso si oppone. Prima sonno e dubbio, ora direzione opposta. Dove termina la valle che aveva riempito il
cuore di paura si vede il sole che illumina il colle. Questo indica la strada della retta via ad ognuno

Corpo oppunto = esempio di metonimia (perché secondo gli antichi il cuore era la sede delle emozioni,
quindi come se ci sia una complicità tra organo, sede, e l’emozione. A soffrire è l’animo, non l’organo fisico

V.16 ‘Spalle’: metafora, perché un colle non ha le spalle, ma immaginandolo in forma umana le ‘pendici’
sono le spalle
V.17 Raggi del pianeta: metafora del sole, che indica la retta via.
Il pianeta che mena è antonomasia. (Giro di parole per dire “sole”). Ci aiuta nella sua intenzione per dire il
pianeta che ci guida, allora siamo già orientati su quello che sta per succedere. Suggerisce una lettura di
tipo onirico che preannuncia qualcosa di straordinario

V.19-22 terzina che contiene una similitudine, i raggi del sole tranquillizzano Dante. ‘Il lago del cor’ è
un’espressione che contiene un termine che ha modificato il significato, ossia LAGO, che indica uno spazio
concavo; in questo caso è il volume del cuore, che è il significato che troviamo nel profondo del cuore. La
figura retorica di metonimia (scambio tra organo ed emozione) non è sul lago, ma semmai è sul cuore.

V.21 pietà, che però viene letta pìeta, perché altrimenti non ci sarebbe alcuna rima; è una forma anomala
fatta dal poeta per poter terminare la rima. Pìeta è la formula più vicina al sostantivo latino ‘pietas’, il poeta
utilizza una forma più rara, una licenza che gli è stata data. Pìeta significa paura, tormento.
V.22-24 Lena: respiro forte che è visibilmente affannato. Pelago: è una parola che venne utilizzata per
indicare il mare, è il classico esempio del cambiamento della lingua dato che questa parola non esiste più.
Similitudine: Dante si paragona ad un naufrago, è scampato alla morte. Quando si gira verso la riva e Guata:
guarda, è l’intensivo della parola guardare senza distrarsi; è di una tipologia che si chiama intensiva.
Guatare è l’intensivo di guardare. Significa guardare attentamente. Si usa di solito nella lirica amorosa
infatti. Dante è come un naufrago e percepisce la salvezza, nonostante non sia ancora uscito dalla selva.

V.25 usa la parola Animo, che è ben diversa da anima. Animo infatti significa intenzione, volontà.
VV 29: “diserta”: aggettivo che va riferito alla condizione di Dante —> vuole sottolineare la solitudine di
quella condizione, il percorso che sta per compiere è un percorso di comprensione puntato principalmente
verso di sé.

VV 30: “Il piè fermo sempre era ‘l più basso”: Dante vuole rendere l’idea della salita —> il piede appesantito
dal peccato è quello che sta in basso, il piede liberato dal peccato è quello che sale. tentano di convincere
Dante a tornare verso la selva. La prima terzina vuole ricordare la serenità e quiete ritrovata. La parola più
curiosa è piaggia, ovvero indica il punto del terreno che i situa tra la pianura e l’inizio della collina, della
salita. È un termine molto usato nella poesia antica. ‘diserta’ è un termine alquanto significativo, e ha più
sfumature. Il luogo dove si trova Dante è un luogo deserto, ma non si tratta di un vero e proprio deserto, si
definisce tale perché privo di ogni presenza (metafora), ma l’apporto maggiore di significato è che il deserto
rappresenta il luogo del peccato, dello smarrimento, della solitudine. ‘si che pie fermo era ‘l più basso,
ovvero si cammina in salita, ma con un rallentamento dell’immagine del suo cammino, perché dal punto di
vista della narrazione vuole far vedere il movimento rallentato perché in modo improvviso deve esserci una
delle tre fiere.

Lezione 26/10/2021 e 28/10/2021

Canto Parafrasi
E d'improvviso, quasi all'inizio del pendio,
Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta, [arrivò] una lonza agile e molto veloce,
una lonza leggiera e presta molto, dal pelo coperto di macchie; 33
che di pel macolato era coverta; 33
che non si scansava da davanti a me,
e non mi si partia dinanzi al volto, e bloccava il mio cammino a tal punto
anzi ‘mpediva tanto il mio cammino, che più volte mi voltai per tornare indietro. 36
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.36
Era il principio del mattino
Temp’ era dal principio del mattino, e il sole saliva in quella [stessa] costellazione
e ‘l sol montava ‘n sù con quelle stelle in cui si trovava, quando Dio 39
ch’eran con lui quando l’amor divino 39
creò inizialmente i corpi celesti,
mosse di prima quelle cose belle; per cui mi dava ragione di non temere
sì ch’a bene sperar m’era cagione quella belva dalla pelle maculata 42
di quella fiera a la gaetta pelle 42
l'ora in cui [essa] comparve e la bella
l’ora del tempo e la dolce stagione; stagione; finché non mi spaventò la
ma non sì che paura non mi desse presenza improvvisa di un leone 45
la vista che m’apparve d’un leone. 45
Questo sembrava procedere contro di me,
Questi parea che contra me venisse superbo e affamato
con la test’ alta e con rabbiosa fame, al punto che sembrava far tremare l'aria.48
sì che parea che l’aere ne tremesse. 48
Ed una lupa, che di tutti i desideri
Ed una lupa, che di tutte brame sembrava piena pur essendo magra,
sembiava carca ne la sua magrezza, e già fece vivere molti popoli in miseria. 51
e molte genti fé già viver grame, 51
questa mi porse tanto di gravezza questa vista mi trasmise tanta angoscia
con la paura ch’uscia di sua vista, per la paura che mi diede la sua comparsa,
ch’io perdei la speranza de l’altezza. 54 che persi la speranza di arrivare in cima.54

E qual è quei che volontieri acquista, E come [avviene a] colui che volentieri accumula denaro,
e giugne ‘l tempo che perder lo face, arriva il momento che lo fa perdere,
che ‘n tutti suoi pensier piange e s’attrista; 57 al punto che nell'animo si rattrista e piange, 57

tal mi fece la bestia sanza pace, così mi ridusse la belva che non ha pace,
che, venendomi ‘ncontro, a poco a poco la quale, venendomi incontro,
mi ripigneva là dove ‘l sol tace. 60 pian piano mi respingeva nell'ombra 60

Mentre ch’i’ rovinava in basso loco, Mentre ero ricacciato a forza in basso,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto mi si offrì alla vista colui che per un lungo silenzio
chi per lungo silenzio parea fioco. 63 era rimasto sfuocato. 63

Quando vidi costui nel gran diserto, Quando lo vidi nella grande spiaggia vuota,
«Misereredi me», gridai a lui, “Pietà di me”, gli gridai,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».66 “chiunque tu sia, fantasma o uomo vero!” 66

Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,


e li parenti miei furon lombardi, Mi rispose: “Non sono un uomo, uomo lo fui già,
mantoani per patrïa ambedui. 69 e i miei genitori furono lombardi,
entrambi di Mantova. 69
Nacquisub Iulio , ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ‘l buono Augusto Nacqui sotto Giulio Cesare, ma troppo tardi,
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi. 72 e vissi a Roma durante il regno del buon
Augusto, all'epoca degli dei finti e impostori.72
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia, poi che ‘l superbo Ilïón fu Fui un poeta, e scrissi di quell'uomo giusto
combusto. 75 figlio di Anchise che arrivò da Troia,
dopo che la superba Ilio venne bruciata. 75
Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte E tu, perché ridiscendi a tanta pena?
ch’è principio e cagion di tutta gioia?». 78 Perché non scali il felice colle che è principio
e causa di tutte le gioie?” 78

V.31-33 ‘ed ecco’ serve per staccare una sequenza dall’altra, e ci comunica uno stacco improvviso, ma
anche il rallentamento dell’immagine, e si arriva alla prima delle tre fiere: la Lonza (lince), allegoria della
lussuria, che era ‘leggera e presta’, presta significa rapida, e c’è un meccanismo allegorico, perché rinforza
l’allegoria: alla lussuria si cede immediatamente, rapidamente, e caratterizzano l’errore umano. Il vizio che
l’animale rappresenta è il cedere alla tentazione della lussuria.

V.34-36 Questa fiera si mette davanti al volto di Dante, e impediva tanto il cammino che più volte egli si
girava per tornare indietro. ‘mi si patria davanti al volto’ VOLTO, oltre ad indicare il corpo, gioca anche con i
suoni, che creano la figura rima del verso 36, che hanno un suono differente, ed è un gioco che si svolge
sfruttando l’origine e la parentela comune delle parole, perché la figura etimologica è sicura tra volte e
vòlto, perché quando dante si gira indica una volta, e vòlto indica le volte che ricomincia il segmento, sono
delle torsioni del tempo. La parentela si trova anche con ‘volto’, che è ciò che si pone davanti. Dante usa
per tre volte una parola quasi uguale per raffigurare tre cose differenti, perché vuole trasmettere i
tentennamenti che aveva avuto anche lui nei confronti della lussuria.

V.37-39 Incontriamo alcuni simboli. In questa sequenza Dante incontra anche le due fiere, ma prima di esso
c’è un intervallo dato dal 36 e il 45 verso, con una specie di ritorno all’indietro, ed il personaggio vuole
riferire il contesto che dava a ben sperare, nonostante la visione della lonza, perché il momento del giorno
era l’alba, che portava speranza, e analogamente il periodo della bella stagione della primavera faceva
sperare.

V.38-40 Nei versi che danno l’indicazione del tempo, Dante ci dice che era il momento del principio del
mattino (alba). Sono versi che hanno lunga perifrasi per dire che era primavera, perché secondo la
concezione antica dio creava le cose belle (stelle) in primavera; quindi, Dante dice che la costellazione
dell’ariete si vedeva all’alba.

V.43 La ‘stagione dolce’ è una metafora.

V.45 si arriva al Leone, seconda fiera che raffigura la superbia. I Superbi spaventano alla sola vista, è
paradigmatico spaventare con l’aspetto, ed è una caratteristica oltre del Leone, della superbia in sé. Dante
come primo connotato alla superbia ci indica la paura alla prima vista, quindi l’aspetto del Leone.

V.46-47 ‘questi parea che contro me venisse’, il superbo si muove contro dante, con la testa alta (simbolo
arroganza dei superbi) e con fame rabbiosa (simbolo di capacità di nuocere gli altri),

V 48 ‘sia che parea che l’aere ne tremesse’, il leone per la paura fa tremare l’aria. Desse, venisse e tremesse,
Dante fa rimare queste tre parole: deroga alla regola che Dante si prende perché ci troviamo davanti alla
rima siciliana (maneggiavano una lingua dialettale che era vicina al latino, questi poeti siciliani scrivono
tutto nella loro lingua illustre, e quando questa poesia entra nei poeti toscani, entra tradotta.)

V.49 Arriva poi la Lupa, che è la terza fiera. La lupa è allegoria dell’avarizia, l’attaccamento alle cose, che è
la più terribile dei peccati.

V.50-51 L’avarizia è una lupa che viene rappresentata magrissima, ma nella sua magrezza sembrava carica
di tutte le brame, che attanagliano gli uomini, li rendono schiavi. L’avarizia toglie all’uomo la libertà perché’
l’uomo diventa schiavo dei beni terreni. Dante caratterizza ‘l’avaro’ con un’ansia mai finita, e l’avarizia
consuma e mangia l’uomo, ecco perché carica di magrezza, che è determinata dalla bramosia. ‘grame’ per
chi vive miseramente. La lupa fece vivere miseramente molte persone, e per colpa degli avari molti popoli
hanno vissuto di stenti, ‘genti’ significa sia persone che molti popoli.

V.52-54 ‘Questa mi porse tanto di gravezza’ c’è un’antitesi perché la lupa qui diventa pesante, quindi Dante
non riesce più a salire sul colle, e questo peso va affrontato allegoricamente come immagine del peccato,
ciò che ci tiene attaccati a terra,’’ con la paura che nasceva dal vedere lei, dal suo aspetto e dal suo sguardo,
tanto che lui perse la speranza di salire.

V.56 ‘E giunge il tempo che perder lo fece...’, ovvero l’avaro che accumula ma improvvisamente perde, e
quindi è disperato.

V.58 Dante è in preda a tante passioni, ovvero la lussuria, superbia e l’avarizia. Insiste sul tormento
continuo che gli dà l’avarizia, ovvero la lupa che vuole riportarlo alla selva, dove non c’era il sole, ma il
silenzio del sole è anche metafora del peccato.

V.61, arriva Virgilio. Virgilio era il massimo che Dante potesse incontrare, provava molta ammirazione, e si
affida a lui per poterlo salvare, ma anche salvare l’umanità intera. E fu una scelta attentissima la scelta su di
lui. Virgilio è allegoria della ragione, l’uomo in preda al peccato se cede vien annebbiato e quindi non può
più distinguere bene dal male.

V.63 La prima immagine è un’immagine particolare, ovvero l’immagine del silenzio che colora il silenzio. Lui
disse che gli venne offerto ‘si fu offerto’ Virgilio in dono, che gli dà gratuitamente la salvezza, che per tanto
tempo sembrava ‘fioco’, termine metaforico della sfera visiva, ovvero debole. Oltre a voler far passare
l’idea di vederlo in modo debole, si ha un gioco delle sfere dei sensi, perché vuole anche dimostrare la
fatica di Virgilio nel parlare dopo molto silenzio.

V.64-66 qui c’è un vero e proprio grido d’aiuto, ‘abbi pietà di me’ disse Dante. Vede l’aiuto davanti a sé.
Questo è il primo dialogo diretto della divina commedia.

V.67-69. Virgilio si presenta come uomini medievali, dicendo patria, provenienza... i suoi genitori furono
Lombardi entrambi Mantovani, e scende più nello specifico dicendo che nasce nel periodo di Giulio Cesare.

V.70-72 Virgilio non ha potuto sperimentare l’epoca di Cesare perché morto quando aveva 26 anni, e quindi
vive sotto Augusto, nel tempo degli dei falsi e bugiardi. Si presenta come appartenente all’epoca degli dèi
falsi e bugiardi. Ed ecco la sofferenza di Dante dove scopre che Virgilio è escluso dal paradiso, perché non
credente in dio, essendo pagano.

V.73 mette in evidenza che fu un poeta a salvare il popolo, e quindi la poesia ha un compito importante.
V.73-74. Virgilio si svela, dove si raccontano vicende raccontate nell’Eneide.

V.76-78, terzine di passaggio. Prima di arrivare li, queste terzine sono di passaggio. Virgilio chiede ‘perché
non torna a tanta noia...tutta gioia’, sono dei versi che spiegano l’interpretazione del monte, ovvero il
monte della felicità, che è principio di gioia.

FIGURE DI PENSIERO:
litote, iperbole, antitesi, ossimoro, antifrasi, ironia, sarcasmo, eufemismo, allegoria, simbolo, figura.

Il passaggio fra due significati non è continuo, ma c’è uno stacco, ovvero un’aggiunta di pensiero da parte di
una persona che ce lo spieghi.

Queste sono le più usate perché colorano d’irrealtà il testo, quelle che ci sorprendono, ed i lettori davanti
ad esse rimangono perplessi, e increduli. Sono figure che creano nuovi significati, a partire da altro.

Iperbole: un impossibile, per aumentare a dismisura un concetto. Un’esagerazione di qualità o di un


concetto oltre ai limiti del verosimile.

Antifrasi, ironia e sarcasmo: figure che affermano una cosa volendo dire il contrario. Il sarcasmo è pungente
e acre.

Allegoria: operazione linguistica che agisce nel contenuto logico mediante la soppressione totale del
significato di base, che deve essere riportato ad un diverso livello di senso, comprensibile in riferimento ad
(manca un pezzo della slide)

Simbolo: solitamente un oggetto che rappresenta un concetto astratto (un vero e proprio oggetto, che non
rappresenta una persona), ha una radice culturale, e si riferisce a costanti antropologiche. Ape->
rappresenta operosità. Piume -> vanità.
Figura: tipo speciale di allegoria, in quanto presume la realtà storica di entrambi gli elementi, dei quali il
secondo è perfezionamento...(manca un pezzo dalla slide)

Lezione 2/11/2021

Dal verso 78 si fa fronte al discorso della lettura allegorica.


Il poeta vuole che ci fermiamo e diamo importanza ai piani di lettura: vuole che si intenda la divina
commedia come testo polisemico. Il primo significato è quello che si ha dalla lettera del testo, l’altro è
quello che si ha da quel che si volle significare con la lettera del testo.

Il primo si dice letterale, il secondo invece significato allegorico o morale o anagogico. Questi tre modi
diversi d’intendere il significato si possono esemplificare con il salmo 114: “allorché dall’Egitto uscì Israele
(si partì) da un popolo barbaro; la nazione giudea venne consacrata a Dio...”

Se guardiamo alla sola lettera del testo il significato è che i figli di Israele uscirono d’Egitto, al tempo di
Mosè. Se guardiamo all’allegoria, il significato è che noi siamo stati redenti da cristo. Se guardiamo il
significato morale, il senso è che l’anima passa dalle tenebre e dalla infelicità del peccato allo stato di
grazia. Se guardiamo il significato anagogico, il senso è che l’anima santificata esce dalla schiavitù della
presente corruzione terrena alla libertà dell’eterna gioia.

Benché questi significati mistici siano definiti con diversi nomi, generalmente possiamo definirli allegorici, in
quanto si differenziano dal significato letterale, ossia storico. Infatti, la parola “allegoria” deriva dal greco
“alleon” che è reso in latino con “alienum” ossia “diverso”.

Ciò premesso è chiaro che il soggetto di un’opera, sottoposto a due diversi significati, sarà duplice. E perciò
si dovrà esaminare il soggetto della presente opera se esso si prende alla lettera e poi s’interpreta
allegoricamente.

È dunque il soggetto di tutta l’opera, se si prende alla lettera, lo stato delle anime dopo la morte inteso in
generale: su questo soggetto e intorno ad esso si svolge tutta l’opera.
M
a se si considera l’opera sul piano allegorico, il soggetto è l’uomo in quanto, per i meriti e demeriti acquisiti
con libero arbitrio, ha conseguito premi e punizioni da parte della giustizia divina.

Polisemia della commedia: quattro sensi della scrittura.

- letterale: non oltrepassa la lettera.


- allegorico: rivela verità nascoste sotto la lettera.
- morale: insegna come comportarsi nella vita.
- anagogico: interpreta i fatti come segni di realtà spirituali.

Nel convivio allegorico, Dante distingue tra allegoria dei poeti e allegoria dei teologi:

1. L’ allegoria dei poeti possiede allegoria sul piano letterale inventato, dove la lettera è fantasia
(come la favola d’Orfeo). Questo piano si può costruire con le favole.
2. L’allegoria dei teologi si distingue perché coincide al vero anche il piano letterale. La lettera non è
menzognera. Questo è quello della commedia, perché i personaggi sono storici, anche se
possiedono insieme a quello storico, un significato allegorico. Dante dice che non possiamo saltare
il piano letterale senza apprezzarlo e capirlo.
Canto Parafrasi
Allora (or) sei tu quel famoso Virgilio e quello scrittore
così ricco nella poesia da produrre una grande quantità di
eloquenza simile a una fonte che versi un gran
Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte che spandi di
quantitativo d'acqua (fiume)? risposi a lui con la fronte
parlar sì largo fiume?", rispuos’io lui con vergognosa bassa di chi prova vergogna. 81
fronte. 81
tu che sei il prestigio e luce (lume) degli altri poeti Valga
"O de li altri poeti onore e lume, presso di te a mio favore la costante attenzione e il grande
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore che m’ ha amore che mi ha spinto ad analizzare con cura (cercar) in
ogni sua parte la tua opera poetica (volume). 84
fatto cercar lo tuo volume. 84
Tu sei il mio maestro e lo scrittore preferito (mio autore),
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore, tu se’ solo tu sei il solo dal quale io ho procurato l'appezzamento
colui da cu’ io tolsi (onore) del pubblico.87
lo bello stilo che m’ ha fatto onore. 87
Vidi la lupa, per colpa della quale (per cu') sono
Vedi la bestia per cu’ io mi volsi; aiutami da lei, indietreggiato verso la serva; aiutami (a liberarmi) da lei,
famoso uomo sapiente, poiché mi fa tremare le vene e le
famoso saggio, arterie (i polsi).90
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi". 90
Ti è necessario seguire una via diversa, rispose dopo che
"A te convien tenere altro vïaggio", rispuose, poi che mi vide in lacrime
lagrimar mi vide, se vuoi scampare (campar) da questo luogo impervio e
"se vuo’ campar d’esto loco selvaggio; 93 deserto (selvaggio). 93

poiché questa bestia, per cui tu invochi aiuto (gride),


ché questa bestia, per la qual tu gride, non lascia non lascia che alcuno (altrui) passi per la sua strada,
altrui passar per la sua via, ma tanto lo ’mpedisce ma a tal punto lo ostacola ('mpedisce) che lo annienta
che l’uccide; 96 (l'uccide);96

e ha natura sì malvagia e ria, ha una natura così malvagia e crudele (ria) che non
appaga (empie) mai il suo insaziabile appetito e dopo il
che mai non empie la bramosa voglia, e dopo ’l
pasto ha più fame di prima.99
pasto ha più fame che pria. 99
Molti sono gli animali ai quali si accoppia, e ce ne
Molti son li animali a cui s’ammoglia, saranno ancora di più in futuro fino a che giungerà il
e più saranno ancora, infin che ’l veltro verrà, che la veltro (= cane da caccia), che la farà morire con un grande
farà morir con doglia. 102 dolore (doglia)102

Questi (il veltro) non avrà bramosia di beni terreni, né di


Questi non ciberà terra né peltro,
vile metallo (peltro) ma della sapienza, dell'amore, della
ma sapïenza, amore e virtute, virtù 105.
e sua nazion sarà tra feltro e feltro. 105
Sarà la salvezza di quella misera Italia per la quale
Di quella umile Italia fia salute morirono di ferite (cioè di morte violenta) la vergine
per cui morì la vergine Cammilla, Eurialo e Turno e Camilla, Eurialo e Turno e Niso 108
Niso di ferute. 108
Questi (il veltro) la caccerà per ogni contrada (villa) fino a
che l'avrà rimandata nell'Inferno, là dove in principio
Questi la caccerà per ogne villa, fin che l’avrà l'invidia la fece uscire (dipartilla).111
rimessa ne lo ’nferno, là onde ’nvidia prima
dipartilla. 111
V. 79-81 Virgilio non era un poeta qualunque. Difronte a lui, la reazione di Dante è una reazione di stupore
e d’incanto. Dante esprime l’amore e l’ammirazione, e da importanza anche al piano storico di Virgilio, che
viene rappresentato dalla forza della parola. Fiume di parole. Rispose con ‘vergognosa fronte’ che significa
volto: sineddoche. Si esprime con vergogna.

v.82-84 dante deve ingraziarsi Virgilio, dicendogli che i suoi libri li hanno fatti leggere con attenzione.

V.88-90 tremar le vene e i polsi: espressione proverbiale, da qui viene il nostro proverbio. Le vene e i polsi
perché viene
individuato il battito degli occhi che si vede a vista, si individua il battito del cuore. Gioca con i significati.
Metonimia.

V. 91-93 Virgilio risponde al grido d’aiuto, e consiglia a dante di cambiare strada. Dante stava piangendo, e
gli dice di cambiar strada se vuole sopravvivere

V.94-96 non lascia passar nessuno da questa via la bestia, ed impedisce il passaggio uccidendo qualcuno.

V.97-99 dante ripete i connotati della lupa: è bramosa, perché lei non si sazia mai della sua bramosia.

V.100-102 da qui inizia la profezia del veltro, con un cambio del tempo verbale ‘verrà’, questi animali a cui
si ammoglia
sono gli esseri umani che cadono nella tentazione della lupa, e ce ne saranno molti finché arriverà il veltro
(cane da
caccia) il piano letterale da questa profezia non tiene più, e si percepisce perché subisce una specie di
cortocircuito,
perché non si riescono a tenere assieme gli elementi della lettera. Il cane da caccia la farà morire.

V.103-105 piano letterale che non tiene, perché il cane da caccia che non si ciba né di terra né di peltro, e
quindi si fa riferimento al piano allegorico. Si ciberà solo di sapienza, amore e virtù. Feltro e feltro.

Lezione 4/11/2021

Inferno XXVI, Ulisse

La commedia è un’opera aperta che chiede da parte del lettore uno sforzo, un’apertura tesa
all’interpretazione del lettore, il quale deve tener ben conto dei vari piani, soprattutto di quello letterario.
Ma al di à della lettera vi è tutto quell’oceano di significato ulteriore nel quale il lettore si deve porre con la
sua intelligenza (dell’uomo e del poeta).

La storia di Ulisse è la storia dell’uomo, che si immette nel mare infinito della conoscenza, ma deve farlo
secondo ciò che il libero arbitrio comanda. È su questo tema che si costruisce la figura di Ulisse.
Il canto non si apre direttamente con l’episodio, ma con una grande apostrofe (che prosegue fino al v.12)
che Dante rivolge a Firenze, la quale viene personificata e diventa bersaglio di una punta di sarcasmo,
perché nel canto precedente si era imbattuto nei ladri: lui vuole rimproverare la sua città di questo peccato.
Canto Parafrasi

Noi ci partimmo, e su per le scalee


Noi ci allontanammo, e su per le scale che ci
che n’avea fatto iborni a scender pria,
avevano fatto impallidire nel discenderle
rimontò ’l duca mio e trasse mee;15 prima, Virgilio risalì e mi trasse con sé;

 e proseguendo il cammino solitario, tra le


e proseguendo la solinga via,
scaglie e le sporgenze della roccia, il piede
tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio non riusciva a salire senza [l'aiuto] della
lo piè sanza la man non si spedia.18 mano. 

Allora mi addolorai e anche ora provo dolore,


Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando ripenso a ciò che vidi, e tengo a freno
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi, il mio ingegno più [di quanto] ero solito fare, 
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,21

affinché non avanzi senza la guida della virtù;


perché non corra che virtù nol guidi; così che, se la buona stella o una forza
sì che, se stella bona o miglior cosa superiore mi hanno concesso la salvezza, non
me ne privi io stesso. 
m’ ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi.24

Quante ’l villan ch’al poggio si riposa, Quante lucciole scorge giù nella valle il
contadino che riposa su un colle nella stagione
nel tempo che colui che ’l mondo schiara in cui il Sole che illumina il mondo tiene a noi
la faccia sua a noi tien meno ascosa,27 meno nascosto il suo volto, 

quando la mosca lascia il posto alla zanzara,


come la mosca cede a la zanzara, laggiù, forse, dove ha la sua vigna e il suo
vede lucciole giù per la vallea, campo: 
forse colà dov’e’ vendemmia e ara:30
di altrettante fiamme risplendeva tutta l'ottava
di tante fiamme tutta risplendea
bolgia, così come io notai appena arrivai là
dove il suo fondo era visibile.
l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi
tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.33
 E come colui che si vendicò per mezzo degli
orsi vide allontanarsi il carro di Elia, quando i
E qual colui che si vengiò con li orsi
cavalli si alzarono dritti in cielo, 
vide ’l carro d’Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,36
in modo che non poteva seguirlo con gli
occhi, poiché non vedeva altro che la fiamma
che nol potea sì con li occhi seguire,
che, come una nuvoletta, saliva in alto: 
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire:39
così ogni [fiamma] si muove nella cavità della
bolgia, perché nessuna mostra [l'anima che]
tal si move ciascuna per la gola nasconde, e ogni fuoco rapisce un peccatore. 
del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.42
Io mi trovavo in piedi sopra il ponte per
vedere, in modo tale che se non avessi
Io stava sovra ’l ponte a veder surto, afferrato una sporgenza [della roccia], sarei
sì che s’io non avessi un ronchion preso, caduto giù senza essere urtato. 
caduto sarei giù sanz’esser urto.45
E la mia guida, che mi vide così intento [a
guardare], disse: «Dentro le fiamme ci sono gli
E ’l duca, che mi vide tanto atteso, spiriti; ciascuno è avvolto del [fuoco] da cui è
disse: "Dentro dai fuochi son li spirti; bruciato». 

catun si fascia di quel ch’elli è inceso".48

«Maestro mio», risposi io, «ascoltandoti ne


"Maestro mio", rispuos’io, "per udirti sono più certo; ma già mi era parso che così
fosse, e già volevo chiederti: 
son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse, e già voleva dirti:51
chi c'è in quella fiamma che viene [verso di
chi è ’n quel foco che vien sì diviso noi] così divisa in cima che sembra emergere
dalla catasta funebre in cui Eteocle fu posto
di sopra, che par surger de la pira
insieme al fratello?». 
dov’Eteòcle col fratel fu miso?".54
Mi rispose: «Lì dentro sono tormentati Ulisse
Rispuose a me: "Là dentro si martira e Diomede, e così vanno insieme al castigo
come [insieme] andarono contro l’ira [di Dio]; 
Ulisse e Dïomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l’ira;57
e nella loro fiamma viene castigato l'inganno
del cavallo che aprì la porta da cui uscì il
e dentro da la lor fiamma si geme
nobile progenitore dei Romani. 
l’agguato del caval che fé la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme.60
Là dentro si sconta piangendo l'inganno per
cui, benché morta, Deidamia soffre per
Piangevisi entro l’arte per che, morta,
[l'abbandono di] Achille, e si patisce per [il
Deïdamìa ancor si duol d’Achille, furto de] la statua del Palladio». 
e del Palladio pena vi si porta".63
«Se essi possono parlare da dentro le
fiamme», dissi io, «Virgilio, ti prego molto e
"S’ei posson dentro da quelle faville
insisto nel pregarti, e la mia preghiera ne
parlar", diss’io, "maestro, assai ten priego valga mille, 
e ripriego, che ’l priego vaglia mille,66
che tu non mi impedisca di poter attendere
che non mi facci de l’attender niego
finché la fiamma dalla doppia punta venga
fin che la fiamma cornuta qua vegna; qui;
vedi che del disio ver’ lei mi piego!".69
 Ed egli a me: «La tua preghiera è degna di
molta lode, e perciò la accolgo; ma fai in
Ed elli a me: "La tua preghiera è degna modo che la tua lingua si trattenga dal
di molta loda, e io però l’accetto; parlare. 
ma fa che la tua lingua si sostegna.72
Lascia parlare me, ché ho compreso ciò che
vuoi [sapere]; perché forse essi sarebbero
Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto restii, dal momento che furono greci, [nel
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi, sentire] la tua parlata». 
perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto".75
Dopo che la fiamma fu giunta là dove alla mia
guida sembrò che fossore il momento e il
Poi che la fiamma fu venuta quivi luogo opportuni, in questo modo lo si sentì
dove parve al mio duca tempo e loco, parlare: 
in questa forma lui parlare audivi:78
«O voi che siete due [anime] arse da un unico
fuoco, se in vita acquistai merito verso di voi
"O voi che siete due dentro ad un foco, voi mentre vissi, se io acquistai merito verso
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi, di voi, tanto o poco, 
s’io meritai di voi assai o poco81
quando nel mondo scrissi i celebri versi, non
muovetevi; ma uno di voi racconti dove egli si
quando nel mondo li alti versi scrissi, perdette e andò a morire».
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi".84
 La punta più grande del fuoco antico
cominciò a scuotersi mormorando, come una
Lo maggior corno de la fiamma antica [fiamma] tormentata dal vento; 
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;87 poi, agitando qua e là la punta, come se fosse
una vera lingua che parla, buttò fuori la voce
indi la cima qua e là menando, e disse: «Quando 
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: "Quando90 mi allontanai da Circe, che mi trattenne per
più di un anno là vicino a Gaeta, prima che
mi diparti’ da Circe, che sottrasse Enea la chiamasse così, 
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,93
né la tenerezza di un figlio, né la pietà per un
vecchio padre, né l'amore legittimo che
doveva allietare Penelope, 
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,96 riuscirono a vincere in me il desiderio che io
avevo di fare esperienza del mondo, dei vizi e
delle virtù umane; 
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto ma mi inoltrai nel profondo mare aperto con
e de li vizi umani e del valore;99 una sola nave e con quella esigua compagnia
dalla quale non fui mai abbandonato. 

ma misi me per l’alto mare aperto


sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.102 Vidi l’una e l’altra costa fino alla Spagna, fino
al Marocco, e [vidi] l'isola dei Sardi, e le altre 

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,


fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
Io e i [miei] compagni eravamo anziani e lenti
e l’altre che quel mare intorno bagna.105
quando giungemmo a quello stretto
passaggio in cui Ercole segnò i suoi confini, 
Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
affinché l'essere umano non proceda oltre; a
dov’Ercule segnò li suoi riguardi108
destra superai Siviglia, dall’altra parte avevo
già sorpassato Céuta. 
acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
“O fratelli”, dissi, “che attraverso
da l’altra già m’avea lasciata Setta.111
innumerevoli pericoli siete giunti a [i confini
dell’] occidente, a questa così breve veglia 
"O frati," dissi, "che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
della nostra vita sensibile che ancora ci
a questa tanto picciola vigilia114 rimane, non vogliate negare la conoscenza,
seguendo il sole, del mondo inesplorato. 
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
Prendete coscienza della vostra origine: non
di retro al sol, del mondo sanza gente.117 foste creati per vivere come animali, ma per
perseguire la virtù e la conoscenza”. 
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".120
Con questo breve discorso resi i miei
compagni così desiderosi di [continuare] il
cammino, che a stento poi li avrei potuti
Li miei compagni fec’io sì aguti,
trattenere; 
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;123 e, volta la nostra poppa a oriente, i remi
trasformammo nelle ali per il folle volo,
avanzando sempre verso sinistra. 
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.126 La notte mostrava già tutte le stelle dell'altro
emisfero, e il nostro era talmente basso
[sull’orizzonte] che non emergeva più dal
Tutte le stelle già de l’altro polo mare. 
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.129 Cinque volte si era accesa e altrettante si era
oscurata la luce dell'emisfero inferiore della
luna, dopo che avevamo intrapreso il
Cinque volte racceso e tante casso pericoloso viaggio, 
lo lume era di sotto da la luna,
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,132
quando apparve una montagna, oscura per la
lontananza, e mi sembrò tanto alta quanto
quando n’apparve una montagna, bruna non ne avevo mai vista alcuna. 
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.135
Noi ci rallegrammo, ma presto [l'allegria] si
convertì in pianto; poiché da quella nuova
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto; terra si alzò un turbine e colpì la parte
anteriore della nave. 
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.138 Tre volte la fece ruotare insieme all’acqua;
alla quarta fece alzare la poppa verso il cielo e
Tre volte il fé girar con tutte l’acque; inabissare la prua, come volle Dio,
a la quarta levar la poppa in suso
 finché il mare si richiuse sopra di noi».
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,141

infin che ’l mar fu sovra noi richiuso".

v. 13-15 Si può già considerare antefatto, perché contiene alcuni riferimenti che anticipano quello che è il
cuore dell’episodio (funzione prolettica, non solo strategica perché incuriosisce il lettore, ma anche di aiuto
verso quest’ultimo nella comprensione). L’inizio è abbastanza brusco, stiamo entrando nell’ottavo cerchio,
dei fraudolenti.
“scalee” perché per passare da un cerchio all’altro vi sono delle specie di ponti, per questo parla di scale,
che prima avevano dovuto scendere e ora devono risalire.
per “iborni” vi sono due interpretazioni: la prima, la più semplice e spontanea, rinvia a “iburnio”, color
d’avorio, quindi pallidi, per la fatica e la sofferenza fisica; la seconda è che sia un rinvio a degli spuntoni
della roccia che servivano come aggancio per salire e scendere.
“mee”: dante allunga questo pronome personale, epitasi, aggiungendo una vocale perché necessario fare la
rima con scalee.
v. 19-21 il poeta qui prende il sopravvento sul personaggio. Il cambio del tempo verbale, dal passato al
presente è fondamentale: ci conferma il fatto che l’esperienza vissuta è ancora viva nella memoria, e non è
superata, risolta. Quindi Dante qui sancisce quella grande importante verità: il personaggio si identifica col
personaggio e ciò che Dante ha vissuto non è un’esperienza da spettatore, ma che lo ha coinvolto
profondamente e che continua a coinvolgerlo. Nemmeno il poeta è riuscito a superarla, quindi ci offre con
tutta la sua generosità questo.
C’è il sottolineare del dolore che ritorna, del cumulo di quest’ultimo. Molto diverso questo chiarimento
rispetto ad altri canti, come quello di Paolo e Francesca; si nota l’innalzamento, il cambio di tono in favore
di un tema che è più importante.
“quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi”: la mente sta per l’intelligenza, il ricordo.
Quindi “faccio ben attenzione a ricordarmi l’importanza del limite della ragione, del freno che occorre
all’intelligenza umana, perché infinita.
“soglio”: in realtà è al tempo passato, perché il verbo solere al tempo aveva valore passato; quindi vuol dire
“ero solito fare”. Noi lo abbiamo letto in chiave presente perché ridoglio è al presente. Quindi Dante sfrutta
quella particolarità grammaticale del verbo per infrangerla acutamente: il punto è sempre voler ricordare al
lettore che quel problema di Ulisse non è ancora risolto.
v. 22-24 “nol guidi”: in modo tale che non sia guidato dalla virtù
“invidi” vuol dire togliere, sottrarre a me stesso. Faccio sì che io non mi privi di quell’intelligenza che una
stella buona (influenza astrale) o una cosa ancora migliore (la grazia di Dio) mi ha donato.
Quindi tengo a freno quell’intelligenza per non perderla, per non rovinare quel bene che dio mi ha dato. (se
la si usa in modo sfrenato la si perde, allontanandosi da Dio)

La scintilla, il seme dell’intelligenza è la traccia della divinità dell’uomo (Convivio III, II 19)

Per preparare a questo innalzamento tragico all’interno dell’Inferno, Dante apre con queste similitudini: il
senso è di dare un allargamento meditativo al contesto.

 La prima: indica la quantità, cioè il gran numero di anime che comincia a vedere. Si presentano
“come delle fiammelle”, come delle lucciole.
 La seconda: indica la qualità, cioè per dire come si presentano queste anime, queste fiamme. E la
pesca dalla Bibbia. Richiama l’indeterminato del tempo, non dello spazio: la dimensione infinta che
qui Dante vuole aprire si ottiene attraverso questo sfondamento del tempo all’indietro, perché
secondo un sistema ad incastro con due perifrasi.

v. 25- 33 Appena mi collocai in una posizione in cui potevo osservare questa valle, la prima impressione fu
quella di essere come un contadino che guarda la valle illuminata dalle lucciole. Per aggiungere i
complementi di tempo sceglie delle perifrasi, perché deve dare appunto il suddetto respiro. Siamo di sera
ed è primavera: “colui che il mondo schiara” è il sole d’estate (perché è quando la faccia del sole si mostra
di più), quindi è una perifrasi dentro la perifrasi.
“come la mosca cede alla zanzara”: secondo elemento che ci indica che è sera.
“forse” produce questo effetto di indeterminatezza, di malinconia, di “infinito”

v.34-36 Queste fiamme puntavano verso l’alto, e per cercare di rappresentare visivamente queste, Dante
decide di fare ricorso alla Bibbia.
Richiama alla dimensione temporale (infinita, sfondamento del tempo all’indietro) 
Descrizione delle fiamme tramite ricordo dell’episodio di Elia (Biblico) rapito in cielo dentro un carro di
fuoco 
     Dante decide di focalizzare l’episodio sul discepolo di Elia, Eliseo, che osserva dal basso il suo maestro
(Eliseo come Dante)
Seconda parte similitudine: fiamma che contiene qualcuno e che si leva verso l’alto come una nuvola
all’interno della fossa senza lasciar intendere chi c’è dentro (furto)

Dante che osserva incuriosito le anime mentre Virgilio lo trattiene dal cadere
Virgilio spiega le anime del cerchio
Sottolineare sintonia tra i due personaggi e curiosità di Dante (identificazione poeti)
Dante risponde facendo una domanda a Virgilio (chi risiede in quella fiamma biforcuta? —> anticipazione
mito greco tramite l’episodio della pira —> Ulisse e Diomede)
La vendetta di Dio (punizione divina, quello dell’antico testamento, severo ma giusto)
Riportati alla luce diversi episodio dove i due sono protagonisti (Cavallo di Troia —> inganno, furbizia)
Legge del contrappasso: fiamma molto viva (fiamma dell’intelligenza) —> corruzione dell’intelligenza
umana)
Perifrasi per richiamare ad Enea (Romani il gentil seme) progenitore dei Romani
Si piange arte e astuzia per colpa della quale è morta (Achille che nella fiamma si pente per aver ingannato
Deidamia e per il furto del Palladio)

Vv. 65-66: allitterazione verbo pregare (Dante non trattiene la curiosità) —> dante desidera comunicare con
le anime (prossemica per parificare Dante alle fiamme, mosso dal desiderio)
Iperbole

Virgilio consente a Dante di fare domande alle due anime 


Virgilio prende la parola (riesce a comunicare meglio con i due greci —> conosce la lingua)
Dialogo 

Vv. 81-82: Anafora


 
Virgilio parla alle anime di essere stato lui a narrare, quando era in vita, le gesta di queste due anime (alti
versi=Eneide)
Perifrasi (contesto alto e tragico) —> spostamento poeta quasi illogico 
Virgilio e Dante si intendono a vicenda (Virgilio deduce la domanda di Dante)—> Virgilio pone la domanda
(Dove siete morti? —> non si avevano notizie scritte su questa fine)
Perduto: smarrimento geografico ma anche perdizione (problema del confine della conoscenza dell’uomo
che oltre il quale non si può andare)
Momento della morte importante (cambio del significato della vita intera e determinazione della vita
futura)

Prende parola Ulisse 


Omaggio di Dante a Ulisse (lo maggior corno de la fiamma antica—> grandezza d’animo)

V.86: verso plastico (consonanti che si ripetono —> ricordo suono della fiamma rimasta in silenzio per
secoli)
Verso che si allarga (allitterazioni “m” consonante nasale a destra, “c” a sinistra)

Vv 88-89: similitudine che giustifica l’interpretazione della fiamma come segno della colpa (lingua,
eloquenza per far danno)

V.90: quando collocato da Dante per costruire serie di elementi molteplici da tenere assieme


           Introdurre dando ampiezza e peso queste quattro indicazioni di tempo
            Nessun momento evocato poteva essere più forte della sua curiosità 

Richiamo ad Enea (Gaeta)


          
V.97: forte il desiderio di curiosità che neanche gli affetti familiari riuscivano a calmarlo 
Dramma simile a quello vissuto da Dante —> dolore del poeta 

Per aver abbandonato la famiglia per seguire la sua dignità di poeta (fede valori politici, intellettuali, civili)

Per aver lasciato la sua famiglia alle prese con le conseguenze del suo esilio (beni requisiti) 

Ardore: Metafora che indica il fuoco che divora (fuoco dei peccatori e di quello di Prometeo, intelligenza
umana —> Convivio)

Esperto: fare esperienza


Sete di conoscenza che muove l’uomo

V. 100: Frase avversativa (carica opposizione drammatica che determina il dramma di Ulisse)
              Allitterazione sfacciata di  “m” e “a” (ma misi me) 
              “A” suono aperto —> rende dimensione aperta senza confini del mare

              Alto=profondo (qualità che fa paura)


              Legno: Metonimia e sineddoche (barca)

Incarna mito dell’uomo in movimento (non smette di cercare)

Descrizione geografia ultimo viaggio (attraverso il mediterraneo verso Gibilterra, colonne d’Ercole —>
confine lecito oltre il quale non si poteva andare)

Ulisse e compagni ormai vecchi 

sottolinea l’insistenza del viaggio —> condotto contro ogni evidenza e ragioni d’età 

Sottolinea la fedeltà dei compagni nei suoi confronti

Non plus ultra: non andare oltre (timore reverenza, metonimia —> oggetto fisico indicato attraverso
l’attitudine che si deve avere con quell’oggetto)
Successivamente: motto per andare oltre il limite

Setta: località costa africana

Orazion picciola: discorso di Ulisse imbastisce per convincere i compagni (orazione: contiene attributi
retorica per creare un discorso convincente) a passare oltre

Captatio benevolentiae: catturare benevolenza dei compagni chiamandoli compagni e il rinvio al coraggio e
alle tante imprese già compiute assieme  

Ulisse fa appello alla curiosità e al poco tempo che resta per vivere per vedere il mondo senza gente
(emisfero meridionale nella concezione dell’epoca veniva visto come senza gente)
                    
Saranno i primi a compiere questo viaggio (avventura, sfida, primato —> tentazione sete di conoscenza)

Ulisse è quindi colpevole o no? No risposta, testo polisemico (diversi significati, interpretazione aperta —>
Dante ce la propone come domanda) 
Crisi di Dante sul tema: 

La grazia deve avere la precedenza ma ciò non significa deprimere/ non esaltare l’intelligenza umana (che è
beltate)

      Dio ci ha donato l’intelligenza come parte divina ma bisogna anche accettare di ricevere come dono la
grazia (l’intelligenza divina è molto più, uomo l’avrà quando si congiungerà con Dio)
Ulisse che dà corpo voce ad una parte di Dante (personaggi commedia come parti  staccate del poeta che
vengono animate come figure poetiche)

Rinvio al mondo senza gente che contiene in se l’ oltraggio della sfida ma anche al richiamo dell’ implacabile
sete di conoscenza che l ‘uomo deve comunque seguire —> anticipazione terzina

Vv. 118-120: messaggio episodio, focalizzazione spostata liberamente tra le figure (Dante, Virgilio, Ulisse)
—> discorso piano che serve a trasmettere un contenuto importante 

Conclusione discorso di Ulisse

Ulisse tramite la sua orazione convince i compagni (curiosità accesa nell’animo dei compagni)

V 125: metafora 

volo=viaggio per mare come un volo (remi=ali)

Vita come una navigazione 

Folle descrive la scelta (indicazione precisa circa il messaggio di Dante —> indica l’errore del gesto di Ulisse,
negazione razionalità)

Ulisse e compagni, dopo 5 mesi di navigazione, vedono in lontananza una montagna, ovvero il monte del
Purgatorio (si erge dal mare)
Alto Passo: luogo pericoloso (es. passi alpini)

Nessun mortale poteva avvicinarsi al Purgatorio 

Ulisse e compagni allegri per aver “quasi” raggiunto la fine del viaggio 
Tornò: trasformarsi della gioia in pianto (qualcosa di repentino, inizio tragedia)

Nova: nuova, mai vista, straordinaria (al di là dell’umano)

Un turbine marino arrivato dal Purgatorio fa capovolgere la nave di Ulisse —>  affonda la nave e Ulisse e i
suoi compagni muoiono (mare come una tomba che si chiude su di loro)

Altrui piacque: Dio che viene nominato per la prima volta da Ulisse (come Dio volle, punizione divina per
essere andato oltre)

Chiusura solenne, nessun commento del poeta (riflessione del lettore intorno all’argomento appena
affrontato, intelligenza umana)
Lezione 9/11/2021

Qual è il messaggio che intende inviarci Dante? Una domanda intorno alla natura, ai limiti e allo spazio
riservato all’ingegno umano, il quale possiede e adopera in quanto conosce. Questa parte dell’uomo è
vitale, è ciò che distingue la natura umana dagli altri esseri e ci rende come Dio. Quel grande enigma che da
sempre contraddistingue la natura umana. Ulisse incarna a livello antropologico il mito del viaggiatore,
dell’uomo che non smette di cercare.
Questa avventura finale che dante voleva conoscere è qui esplicitata.

v.100 racconta di quell’ardore di conoscenza che lo portano ad abbandonare.


Le terzine successive descrivono proprio la geografia di questo ultimo viaggio. Attraversa il mediterraneo
verso Gibilterra, dove stanno le colonne d’Ercole ed oltre la quale era vietato procedere.
L’uno e l’altro lido sono le sponde del mediterraneo. Le altre (probabilmente le Baleari)
Questi compagni vengono definiti vecchi e stanchi. La puntualizzazione dell’età serve a descrivere
l’insistenza, la forzatura di questo viaggio, ma anche per sottolineare l’attaccamento di questi compagni nei
confronti di Ulisse.
Tardi significa lenti; latinismo da tardus.

Foce stretta è lo stretto di Gibilterra. Mito secondo il quale ercole aveva segnato il confine oltre il quale non
era possibile procedere. Avrebbe posto una scritta rimasta come emblema non plus ultra. Questo è un
motto che nei secoli successivi è stato assunto come invito a non desistere nell’ardore della conoscenza,
come a dire noi sfidiamo le colonne d’Ercole.

Riguardo significa timore, reverenza. Una specie di metonimia perché si indica il confine fisico che bisogna
avere nei confronti di quell’oggetto.

v.109 esplicitamente pronuncia il monito, il divieto.


Setta è una località nella costa africana.

v.112. la “piccola orazione” di Ulisse. Quel discorso che imbastisce per convincere i compagni. Per questo
viene chiamata orazione, perché possiede gli attributi che la retorica ha nel costruire discorsi convincenti.
Ulisse deve convincerli a procedere oltre le colonne, e la prima strategia è la captatio benevolentie. Ecco
che non solo vengono chiamati frati, ma l’invio al coraggio e alle imprese già compiute. Avete già superato
centomila pericoli, dunque non vogliate privarvi dell’esperienza negandola; Ulisse fa appello al desiderio
della curiosità, dunque li invita a non privarsi di questa ultima avventura, di questa ultima possibilità di
conoscere proprio ora che manca poco alla fine della loro vita.
Viglia è veglia, il contrario della morte e del sonno. Non vogliate negare al poco che ci resta da vivere
l’ESPERIENZA (il termine della conoscenza, da esperire)
il mondo sanza gente (perifrasi per indicare l’emisfero meridionale: nella concezione antica il mondo era
abitato nella parte settentrionale. E non nella parte meridionale). Il viaggio procede da est verso ovest
puntando verso sud. Questa perifrasi è poeticamente opportuna perché sottolinea retoricamente il fatto
che loro saranno i primi, i pionieri (mito del primato) potranno andare li dove nessuno è mai stato. Dunque
la sfida ardita ma che si presenta come una tentazione.

Ulisse è colpevole o innocente? Pioniere della conoscenza dell’uomo o sfidante di dio e deve essere punito?
La risposta non c’è. L’interpretazione è aperta, polisemica. Quella che ci propone dante è una domanda,
non una risposta. Punto sul quale lui stesso è in crisi. Ha di certo delle sue risposte, ma ciò non significa
negare o non esaltare l’intelligenza dell’uomo che è deliade. Bisogna decidere di ricevere come dono la
grazia, che ci dice che l’intelligenza divina è molto di più. Quella a cui l’uomo arriverà quando si
ricongiungerà con Dio è quella si infinita, non questa.
Ulisse vuole dare corpo e parola ad una parte di Dante. Questo rinvio al mondo senza gente contiene e in sè
l’oltraggio della sfida ma anche il richiamo importantissimo alla sete indistinguibile di conoscenza che
l’uomo deve comunque seguire e percorrere.

Questo mondo cosi evocativa anticipa la terzina centrale (v.118). Questo è davvero il messaggio
dell’episodio, infatti proprio qui ci domandiamo chi sta parlando? La focalizzazione è su Ulissse, Virgilio,
Dante personaggio, Dante poeta? Il lettore intelligente che prova a mettersi in sintonia qui si sposta
attivamente e liberamente tra queste figure.
Considerate la vostra natura, non siete stati creati per vivere come animali, ma per conseguire la virtù della
conoscenza. Il discorso piano serve a trasmettere un contenuto importante. Questo andamento piano e
quasi da frase scolpita sulla pietra, serve a concludere efficacemente l’orazione. È la conclusione che
dunque condensa l’intenzione che muove l’orazione.

v.121. finalmente resi i mei compagni acuti. Questo aggettivo indica bene la condizione della curiosità,
accesa nell’animo dei suoi compagni. Indica quella punta che ora spinge la curiosità dei viaggiatori.
Desiderosi di procedere nel cammino che appena li avrei trattenuti.

Volta la poppa verso il mattino, oriente, prendemmo con un volo la direzione nella direzione opposta, cioè
verso occidente.
immagine del v125 è una delle metafore più usate nella nostra cultura, il viaggio per mare come un volo: i
remi diventano ali (primo livello metaforico).
Poi la vita è come una navigazione, dunque questa comprensione dell’immagine ci spiega perché il volo
venga definito folle. È l’intenzione, la direzione, la responsabilità, la scelta compiuta dai navigatori ad essere
definita folle. Questo folle ci da un’indicazione precisa nel messaggio. Se Dante avesse voluto costruire solo
un personaggio posituvi, non gli avrebbe messo in bocca questa parola. Questo aggettivo è talmente
pregnante di significato che indica in maniera chiara e inequivocabile l’errore compiuto attraverso quel
gesto, e la follia è ciò che si oppone alla ragione quindi è la negazione di quella razionalità che incarna
Ulisse. Che Ulisse dica folle ci squaderna la ricchezza dell’interpretazione del personaggio.

V127/135. Finalmente dopo questa sequenza centrale, la sequenza narrativa si conclude. Il racconto della
tragedia intervenuta in quel viaggio. Per ben 5 mesi navigano nell’oceano. La luce della luna si era accesa ed
era scomparsa alla nostra vista per cinque mesi, dai quali avevamo oltrepassato le colonne d’ercole. Vinee
definito l’lato passo. Passo indica un luogo pericoloso.
Dopo 5 mesi vedono una montagna, e da lontano appariva bruna oscura e parve tanto alta quanto
nessun’altra ne avevo vista. Questa montagna che intravedono è la montagna del purgatorio, che emerge
dalle acque dell’emisfero meridionale. La terra spinta per fare il vuoto dell’inferno fa emergere la montagna
del purgatorio come un’isola nel mediterraneo che pero nessuno può abitare da vivo. Quindi è un divieto
divino.
Loro sono contenti perché pensano di aver raggiunto la meta, ma immediatamente la gioia si trasformo in
pianto. Questo verso nella parafrasi è letteralmente noi ci rallegrammo e subito la gioia si trasformo in
pianto. Tornò manca di soggetto (la gioia). Tornare non è usato con l’attuale accezione, ma significa
diventare, trasformarsi, perché la trasformazione gira come una ruota.
V136 perchè Dante lo stringe cosi tanto? Perché ci vuol comunicare l’immediatezza, la repentinità di questo
atteggiamento, improvvisamente la gioia è disperazione. Questo verso è sintetico, manca di una parte.

Da questa terra mai vista nacque un turbine. Aggettivo nova significa mai vista, nuova. Ma questo aggettivo
tiene anche una parte del suo significato antico, dove nuovo vuol dire straordinario. Le nove infatti sono le
cose sorprendenti. Indica quindi la terra straordinaria, a cui l’uomo non ha accesso. Un turbine che
percosse in legno il primo fianco della nave.
Tre volte questo turno fa girare la nave con tutte le acque intorno, alla quarta volta la poppa si leva in su e
sprofonda, come piacque a Dio, come volle. Finchè alla fine il mare si richiuse sopra di noi. Questa sequenza
finale non solo è una chiusura solenne e tragica. Si chiude il mare come una tomba e si chiude così il canto e
così drammaticamente si chiude la vita di Ulisse. Solesse perchè non ha bisogno di commento.
Questo finale è davvero come una conclusione che indica effettivamente la perplessità del poeta, che
decide di non commentare. Questa conclusione ha qualcosa di assoluto e di distaccato, per suggerirci l
riflessione intorno all’argomento affrontato. In questi versi finali a parte il verso conclusivo, al v 141 c’è
un’importantissima presenza di dio. Dio non era mai stato nominato prima da Ulisse, c’era stato un indizio
in quel folle, ma qui afferma proprio come volle dio. Dio compare non nominato ma attraverso questo
altrui, che pero proprio in quanto tale non può che indicare dio.
Nella tradizione i critici si sono divisi tra innocentisti e colpevolisti. Ulisse presentato come martire
dell’intelligenza umana e la sua è stata una grandezza sfortunata ma non colpevole.
Poi i colpevolisti. Ci ha presentato la figura di un personaggio negativo, che avendo prevaricato nell’eccesso,
è stato punito come se Ulisse appartenesse alla stressa famiglia. Per risolvere questi estremi, conviene
tornare alla visione dell’uomo di dante. Il desiderio di conoscere è carattere primordiale dell’uomo, e
questo è ciò che porta l’uomo ad un grado eroico. Il vero eroe è chi coltiva la conoscenza, di percorre il
cammino verso l’eroismo. Dante porta alla massima tensione possibile il discorso sulla grandezza
dell’uomo. Uomo grandissimo fin dove? perché oltre un certo limite questa magnanamità diventa
presunzione, dunque il grado eroico deve tenere insieme l’umiltà, il vero eroe è umile nella concezione
cristiana, perché deve affermare la necessita della grazia. Tenere insieme i due opposti, la grandezza e
l’umiltà.

Lezione 11/11/2021

Purgatorio, III
Manfredi

Avvegna che la subitana fuga


dispergesse color per la campagna,
rivolti al monte ove ragion ne fruga,3

i’ mi ristrinsi a la fida compagna:


e come sare’ io sanza lui corso?
chi m’avria tratto su per la montagna?6

El mi parea da sé stesso rimorso:


o dignitosa coscïenza e netta,
come t'è picciol fallo amaro morso!9

Quando li piedi suoi lasciar la fretta,


che l’onestade ad ogn’atto dismaga,
la mente mia, che prima era ristretta,12

lo ’ntento rallargò, sì come vaga,


e diedi ’l viso mio incontr’al poggio
che ’nverso ’l ciel più alto si dislaga.15

Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio,


rotto m’era dinanzi a la figura,
ch’avëa in me de’ suoi raggi l’appoggio.18

Io mi volsi dallato con paura


d’essere abbandonato, quand’io vidi
solo dinanzi a me la terra oscura;21

e ’l mio conforto: "Perché pur diffidi?",


a dir mi cominciò tutto rivolto;
"non credi tu me teco e ch’io ti guidi?24

Vespero è già colà dov’è sepolto


lo corpo dentro al quale io facea ombra;
Napoli l’ ha, e da Brandizio è tolto.27

Ora, se innanzi a me nulla s’aombra,


non ti maravigliar più che d’i cieli
che l’uno a l’altro raggio non ingombra.30

A sofferir tormenti, caldi e geli


simili corpi la Virtù dispone
che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli.33

Matto è chi spera che nostra ragione


possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.36

State contenti, umana gente, al quia;


ché, se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria;39

e disïar vedeste sanza frutto


tai che sarebbe lor disio quetato,
ch’etternalmente è dato lor per lutto:42

io dico d’Aristotile e di Plato


e di molt’altri"; e qui chinò la fronte,
e più non disse, e rimase turbato.45

Noi divenimmo intanto a piè del monte;


quivi trovammo la roccia sì erta,
che ’ndarno vi sarien le gambe pronte.48

Tra Lerice e Turbìa la più diserta,


la più rotta ruina è una scala,
verso di quella, agevole e aperta.51

"Or chi sa da qual man la costa cala",


disse ’l maestro mio fermando ’l passo,
"sì che possa salir chi va sanz’ala?".54

E mentre ch’e’ tenendo ’l viso basso


essaminava del cammin la mente,
e io mirava suso intorno al sasso,57

da man sinistra m’apparì una gente


d’anime, che movieno i piè ver’ noi,
e non pareva, sì venïan lente.60

"Leva", diss’io, "maestro, li occhi tuoi:


ecco di qua chi ne darà consiglio,
se tu da te medesmo aver nol puoi".63

Guardò allora, e con libero piglio


rispuose: "Andiamo in là, ch’ei vegnon piano;
e tu ferma la spene, dolce figlio".66

Ancora era quel popol di lontano,


i’ dico dopo i nostri mille passi,
quanto un buon gittator trarria con mano,69

quando si strinser tutti ai duri massi


de l’alta ripa, e stetter fermi e stretti
com’a guardar, chi va dubbiando, stassi.72

"O ben finiti, o già spiriti eletti",


Virgilio incominciò, "per quella pace
ch’i’ credo che per voi tutti s’aspetti,75

ditene dove la montagna giace,


sì che possibil sia l’andare in suso;
ché perder tempo a chi più sa più spiace".78

Come le pecorelle escon del chiuso


a una, a due, a tre, e l'altre stanno
timidette atterrando l'occhio e 'l muso; 81

e ciò che fa la prima, e l’altre fanno,


addossandosi a lei, s’ella s’arresta,
semplici e quete, e lo ’mperché non sanno;84

sì vid’io muovere a venir la testa


di quella mandra fortunata allotta,
pudica in faccia e ne l’andare onesta.87

Come color dinanzi vider rotta


la luce in terra dal mio destro canto,
sì che l’ombra era da me a la grotta,90

restaro, e trasser sé in dietro alquanto,


e tutti li altri che venieno appresso,
non sappiendo ’l perché, fenno altrettanto.93

"Sanza vostra domanda io vi confesso


che questo è corpo uman che voi vedete;
per che ’l lume del sole in terra è fesso.96

Non vi maravigliate, ma credete


che non sanza virtù che da ciel vegna
cerchi di soverchiar questa parete".99

Così ’l maestro; e quella gente degna


"Tornate", disse, "intrate innanzi dunque",
coi dossi de le man faccendo insegna.102

E un di loro incominciò: "Chiunque


tu se’, così andando, volgi ’l viso:
pon mente se di là mi vedesti unque".105
Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l'un de' cigli un colpo avea diviso.108

Quand’io mi fui umilmente disdetto


d’averlo visto mai, el disse: "Or vedi";
e mostrommi una piaga a sommo ’l petto.111

Poi sorridendo disse: "Io son Manfredi,


nepote di Costanza imperadrice;
ond’io ti priego che, quando tu riedi,114

vadi a mia bella figlia, genitrice


de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
e dichi ’l vero a lei, s’altro si dice.117

Poscia ch’io ebbi rotta la persona


di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.120

Orribil furon li peccati miei;


ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.123

Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia


di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,126

l’ossa del corpo mio sarieno ancora


in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.129

Or le bagna la pioggia e move il vento


di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde,
dov’e’ le trasmutò a lume spento.132

Per lor maladizion sì non si perde,


che non possa tornar, l'etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.135

Vero è che quale in contumacia more


di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,
star li convien da questa ripa in fore,138

per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,


in sua presunzïon, se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa.141

Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,


revelando a la mia buona Costanza
come m’ hai visto, e anco esto divieto;144

ché qui per quei di là molto s’avanza".

È il poeta stesso che tiene molto strette e fitte le maglie della sua opera come una tela, dotata di coerenza
testuale (gli echi più sono numerosi, più lavora la funzione poetica)
Qui mistero dell’amore e della bontà. Fin dove è giustificabile l’amore divino? Quello di Ulisse è infinito
della conoscenza divina, qui c’è l’infinito della bontà, dei sentimenti. È uno spazio altrettanto misterioso,
dove ad un certo punto salgono quelle regole che l’uomo crede debbano funzionare. Possono succedere
delle cose sorprendenti, addirittura scandalose quando si tratta di questo infinito. Manfredi è un
grandissimo peccatore, eppure essendosi pentito in punto di morte, sarà tra i salvati, quindi la giustizia
divina quando è amore, che incontra la disposizione dell’uomo e si mette di fronte a Dio, ecco che scardina
le regole che l’uomo ritiene debbano governare la giustizia terrena.
È uno dei misteri che Dante non riusciva ad accettare, essendo razionalista e avendo bisogno di dare
sostanza poetica e letteraria a questo dilemma. A questa tipologia di anime è riservato tanto spazio
(antipurgatorio) che in qualche modo inventa Dante.

Che ci sia un filo che ci lega ad Ulisse viene confermato dalle prime sequenze del canto, prima dell’incontro
con Manfredi, perché Virgilio e Dante hanno appena lasciato Casella (una figura amica di Dante) e Dante si
accorge di una cosa stranissima, ovvero che il suo corpo fa ombra: è una novità perché finalmente nel
purgatorio c’è luce, a differenza delle tenebre dell’inferno, e si recuperano anche le caratteristiche del
mondo terreno

V 31-45 Virgilio spiega che è la virtù divina che dispone che simili corpi soffrano e questo deve rimanere un
mistero. Matto è chi spera che la nostra ragione possa risolversi oltre l’operare divino, quello che ad
esempio persiste nel mistero della trinità. Quindi Virgilio si sposta dal particolare al generale, ampliando
alle possibilità infinite di Dio che non sono percorribili dalla ragione umana.
v.37 Voi uomini dovete accontentarvi, limitarvi alla conoscenza del come non del perché. Quia latinismo
scelto proprio perché è particella che introduce delle proposizioni assertive, non causali. Dei perché si
occupa la fede, del come la ragione umana.

Superato il turbamento di Virgilio, i due incontrano un gruppo di anime appena trasportate dall’angelo
nocchiero. Queste sembrano ai due anime a cui chiedere info, ma queste si spaventano. In questi versi
dante li paragona ad un gruppo di pecore. Questo paragone intende trasmettere la purezza, poiché intente
a purificarsi. E poi la coralità. A differenza dell’inferno, dove spiccano le figure sole, nel purgatorio spuntano
in gruppo, perché l’individualismo non paga, anzi è peccato. Infatti quelli incontrati da soli sono eccezioni.

Dal verso 103, uno di loro si stacca da questo gruppo e inizia a parlare. Chiunque tu sei, mentre
camminiamo volgi il viso e guardami. Fai mente locale, pensa bene se quando tu fosti nel mondo mi
vedesti. Unque è un latinismo e vuol dire mai. Significativa del fatto che queste anime non sono affrettate,
ma sanno di non poter perdere tempo, perché sanno di aver sbagliato avendo ritardato in vita. Degli altri
peccati si sono pentiti, il primo però da pagare è l’aver atteso a pentirsi. È indizio di un’innalzamento dello
stile. Manfredi era un re, quindi dante vuole trasmettere ‘eleganza regale.
lo guardai attentamente (fiso). La gentilezza (la nobiltà) non può che esprimersi anche nei modi e nelle
fattezze. Anastrofe (biondo era). biondo dovrebbe andare insieme a bello e di gentile aspetto (polisinteto,
attributi rimarcati) ma invece va prima del verbo. Questa bellezza fisica e morale rinvia ai sovrani della
bibbia. Questo alone di regalità intorno a Manfredi lo avvicina intorno alla figura di re Davide (gli attributi
per descrivere Davide sono questi) oppure a un cavaliere della letteratura cavalleresca. Ma questa viene o
non viene rovinata da una cicatrice sul sopracciglio. Occupa un verso interno ma non riesce a rovinare la
bellezza.
dante risponde avendo percepito la regalità.
per aiutare Dante, Manfredi per presentarsi in maniera inequivocabile, mostra una ferita sul petto: rinvio a
Gesù che mostra la piaga a San Tommaso. Questa identificazione emblematica con Gesù, è quella che ci
conferma Davide. Sul piano allegorico Davide è prefigurazione di Gesù. Dunque è un gesto che istruisce il
lettore secondo l’intenzione del poeta intorno all’importanza di questo gesto. L’allitterazione delle aiuta a
dare ampiezza al verso.
poi sorride, il sorriso e la letizia di chi sa di aver recuperato l’amicizia con Gesù quindi cominciano a godere,
ma con quella dolce malinconia che caratterizza il purgatorio.
Manfredi si presenta come re, poi dando quasi per scontato questo schema, (nella cultura medievale il
corpo del re ha un potere magico, i re traumaturghi agivano fisicamente per guarire, ecc.). Dopo aver
esposto il corpo, Manfredi si presenta come figlio di Federico II, esponente della fazione ghibellina, infatti il
suo potere imperiale era stato osteggiato dal papa. Aveva subito le persecuzioni politiche da parte della
chiesa. Muore ucciso nella battaglia di Benevento quando i francesi mandati dal papa hanno la meglio.
Dante deve dare figura di personaggio poetico al concetto dell’infinita benevolenza divina, quindi sceglie
una figura celeberrima, di una questione politica ancora accesa, una figura molto discussa. Manfredi viene
perseguitato dalla chiesa per motivi politici, e qui sta lo scandalo, perché anche dante ci si ritrova. Le fonti
storiche confermano che la condotta morale di Manfredi non fu tra le migliori, dunque ha bisogno di
scegliere una figura per dante scomoda, la più difficile. Questo re aveva provocato fiumi di bibliografia, che
tramandavano le voci più disparate. (chi lo condannava e chi lo giustificava). Inventa che la verità è una
verità non detta da nessuno, diversa da quella che riempiva le pagine. Manfredi chiede a dante che quando
tona sulla terra può andare da sua figlia, madre di giacomo e Federico, e dica la verità, dal momento che
ben altro si dice sulla terra.
dante costruisce questo spazio nuovo attribuendo alla figura di Manfredi un destino che forse gli uomini
sulla terra non avrebbero mai immaginato.
Manfredi racconta il momento della morte: non era presente nessuno, solo lui e la sua coscienza e dio.
Dante si infila in un luogo privilegiato. Immagina che il personaggio possa raccontarci cosa è avvenuto
dentro la sua coscienza i n quel momento. Dopo che fui ferito con due colpi mortali, io mi rivolsi piangendo
a dio. Dio è qui indicato con una perifrasi, colui che perdona volentieri. Qui è di o è il dio buono. Quel
volentieri è sempre disposto al perdono. Perdona nel momento in cui uno si rivolge a lui piangendo. Il
pianto è il segno del pentimento.
v 121-123 contiene il messaggio: orribili furono i miei peccati, ma (antitesi, perché si deve opporre alla
bontà divina infinita) la bontà divina è talmente grande che le sue braccia sono quelle di dio che accolgono
chi vi si rivolge. La perplessità sta nel fatto che occorre ammettere che esiste una giustizia divina diversa
dalla giustizia umana. Non significa discolpare, dare la benevolenza ai criminali, ma significa accettare il
mistero. Dante si sforza nell’accettare un di più nella visione dell’uomo, che riceve questo straordinario
messaggio di speranza. Questa non deve mai venire meno, anche di fronte alle peggiori disgrazie.
V 124-126. Se il vescovo di Cosenza, che fu mandato a perseguitarmi da papa clemente, avesse tenuto in
considerazione come avrebbe dovuto fare in quanto vescovo, ricordando la misericordia divina, allora le
ossa del mio corpo sarebbero ancora vicino al ponte di Benevento, custodite dal pesante mucchio di pietre.
Non solo hanno aggredito Manfredi, ma non si sono nemmeno occupati della parte dell’anima, loro
principale dovere. Dante quindi ci trasmette anche le sue verità nel piano civile e politico.
Questa condanna riservata agli scomunicati, un rito funebre a lumi spenti (metonimia e sineddoche per
indicare la mancanza del rito funebre).
V133. Per effetto della scomunica degli uomini della chiesa, non si perde l’eterno amore che non possa
ritornare, finchè c’è speranza. Fior del verde è una metafora che funziona: il verde è il colore del germoglio,
e fiore si parafrasa con “un pò”. Finche c’è un pò di speranza. Oppure per indicare il massimo della vitalità.
La verità è che chi muove in disaccordo con la chiesa, disprezzandola, benchè alla fine si penta, è necessario
che resti nell’antipurgatorio per ciascuna unita di tempo in cui ha vissuto in questa presunzione, deve
rimanerci per trenta volte. A meno che, questo decreto non diventa più corta per le preghiere dei vivi.
(teoria dei suffragi). Quindi emerge l’umanità fortissima di Manfredi che sa bene che il mondo pensi che è
stato un disastro in vita.

Dante redarguisce gli uomini della chieda, ma è altrettanto sicuro che l’uomo debba seguire la chiesa, la
rispetta tantissimo. Ma nel 300 una idea di religione interiorizzata era molto lontana. Dante crede che si
debba vivere per la riforma della chiesa.

Paradiso, XVII. Cacciaguida


Poi giunse: «Figlio, queste son le chiose
di quel che ti fu detto; ecco le ’nsidie
che dietro a pochi giri son nascose.96

Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,


poscia che s’infutura la tua vita
vie più là che ’l punir di lor perfidie».99

Poi che, tacendo, si mostrò spedita


l’anima santa di metter la trama
in quella tela ch’io le porsi ordita,102

io cominciai, come colui che brama,


dubitando, consiglio da persona
che vede e vuol dirittamente e ama:105

«Ben veggio, padre mio, sì come sprona


lo tempo verso me, per colpo darmi
tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona;108

per che di provedenza è buon ch’io m’armi,


sì che, se loco m’è tolto più caro,
io non perdessi li altri per miei carmi.111

Giù per lo mondo sanza fine amaro,


e per lo monte del cui bel cacume
li occhi de la mia donna mi levaro,114

e poscia per lo ciel, di lume in lume,


ho io appreso quel che s’io ridico,
a molti fia sapor di forte agrume;117

e s’io al vero son timido amico,


temo di perder viver tra coloro
che questo tempo chiameranno antico».120
La luce in che rideva il mio tesoro
ch’io trovai lì, si fé prima corusca,
quale a raggio di sole specchio d’oro;123

indi rispuose: «Coscïenza fusca


o de la propria o de l’altrui vergogna
pur sentirà la tua parola brusca.126

Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,


tutta tua visïon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’ è la rogna.129

Ché se la voce tua sarà molesta


nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.132

Questo tuo grido farà come vento,


che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d’onor poco argomento.135

Però ti son mostrate in queste rote,


nel monte e ne la valle dolorosa
pur l’anime che son di fama note,138
che l’animo di quel ch’ode, non posa
né ferma fede per essempro ch’aia
la sua radice incognita e ascosa,141

né per altro argomento che non paia».

Cacciaguida è uno degli avi di Dante e si trova in Paradiso perché aveva combattuto sempre per la fede
(crociate), e da lui riceverà la profezia della sua vita, l’esilio: dovrà lasciare Firenze, dovrà chiedere
l’elemosina in giro per l’Italia. Di fronte a queste notizie Dante si spaventa e ripensa a tutte le verità
ricevute nel suo viaggio; gli domanda quindi se una volta tornato sulla terra sarà costretto a raccontare
tutto. In questo dubbio Dante sta scivolando verso la tentazione.

v.106-111 “ben veggio” significa capisco bene, so bene.


“Sarebbero ancor più gravi queste disgrazie se io non mi preparassi e non mi armassi di prudenza”.
Dante teme di perdere la fama: “altro luogo” è il luogo della fama e della notorietà, teme l’oblio. Una delle
sue debolezze è la gloria poetica; chi non ha fede in una dimensione futura spera nella notorietà della fama.
v.112-120 “temo di perder viver” temo di non essere ricordato dai posteri.
v. 121 “la luce” perifrasi per indicare Cacciaguida che era come una gemma, un gioiello, brillava come un
gioiello colpito da un raggio di sole.
v.124 risposta di Cacciaguida: a chi avrà la coscienza sporca darà fastidio ciò che racconterai
v.127-129 L’obiettivo è sempre quello della verità, quindi tu manifestala tutta e lascia lamentarsi chi deve.
“lascia pur grattar dov’è la rogna” è rimasta un’espressione comica proverbiale bassissima, quasi corporale
dunque stona con il tono del Paradiso (ma lui vuole ottenere questo effetto dissonante)
v133- 135 Cacciaguida vuole rassicurare dante, dicendo che il suo messaggio dovrà raggiungere “le più alte
cime”, ovvero le persone famose, e ti farà anche onore che tu abbia il coraggio di mettere alla berlina
principi e papi.
v. 136-138 per questo ti sono state mostrate nel monte e nella valle dolorosa questi incontri.
v.139- 142 per questo l’animo di chi ascolta non ferma la sua fiducia per effetto di un esempio ignoto, e
nemmeno la fede si ferma su un argomento che non appaia e si manifesti in tutta la sua forza.

Lezione 16/11/2021

Uno dei pilastri della prosa e della letteratura italiana; Petrarca e Boccaccio sono stati coloro grazie ai quali
sono state costituite le regole della grammatica italiana. Pietro Bembo dal 1525 aveva preso il Decameron
come modello della prosa e Petrarca come modello della lirica.
Le storie del Decameron sono state poi raccontate sotto altre forme (cinema, ecc.) La funzione poetica che
qui si analizzerà vedrà protagonisti quei meccanismi che interessano anche la prosa, e in particolare
all’interno di quello che è uno dei grandi archetipi della narrativa mondiale. Quindi parliamo di quella che è
la narrazione, il narrare; la narrativa, la vocazione al narrare è qualcosa di naturale nell’uomo, che distingue
fin da subito una narrativa naturale da una letteraria. Quella naturale è faccenda biologica, per cui il nostro
cervello è stato programmato per conoscere in forma di narrazione, è una funzione psichica elementare,
antropologica (riguarda le dinamiche che regolano le vite degli uomini rispetto agli altri uomini in quanto
tali, fin dall’era primitiva). Ad un certo punto, da quest’ultimo punto di vista, la narrazione in senso
antropologico, diventa elemento culturale, che distingue le varie culture, e questo si ritrova nei miti, che
spiegano gli elementi della natura e che dispongono con il tempo la questione culturale e storica. Fino ad
arrivare al mondo della letteraria, dandoci la possibilità di distinguere la narrativa letteraria e non.

Quando ci troviamo davanti a un racconto dobbiamo porci le domande di come funzionano queste.
Innanzitutto distinguiamo fra Storia e Racconto. Nell’ambito della narratologia (disciplina della teoria
letteraria che si occupa di analizzare gli istituti della narrazione).
 La storia: insieme degli eventi che vengono narrati, che sono preesistenti alla loro messa in forma
narrativa (di racconto), può subire ‘trattamenti’. Una storia fatta di certi eventi può quindi dare vita
a diversi racconti.
 Il racconto: la forma concretamente assunta dall’opera narrativa (un enunciato narrativo, un testo),
è qualcosa di intangibile, cioè non si può modificare (avremmo un diverso racconto della stessa
storia), è un individuo unico. La poesia è sempre una sola, è infatti un’immagine poetica

Decameron, Boccaccio

Siamo fra il 1349 e il 1351, soltanto 50 anni dopo la commedia (associamo però una concezione più
moderna a Boccaccio). È un’opera matura ma una storia di vita: è un manoscritto autografo, di 100 novelle,
dunque le radici di queste novelle sono riassunte nell’esperienza umana e letteraria nell’opera. È stato
definito la ‘commedia umana’: questo parallelismo fra dante e Boccaccio funziona perché in primis
Boccaccio stimava Dante e voleva in qualche modo imitarlo, c’è un rapporto di rispecchiamento fra la
commedia di Dante e la commedia umana del Decameron. ‘commedia umana’ perché il vero protagonista
del Decameron è l’uomo, che viene descritto alle prese con quelle che Boccaccio chiama le ministre del
mondo, delle forze che sono l’amore, l’intelligenza, la fortuna e la natura; sono delle forze tutte laiche con
le quali l’uomo deve interagire, e con il loro agire si determina la vita umana, sollecitandola e
producendone l’incredibile varietà, il mondo. È un affresco a 360 gradi (o forse a 180 perché manca la
dimensione ultraterrena). Boccaccio è considerato uno dei precursori dell’umanesimo, della modernità.
questa viene con grande gratuità presentata in 100 racconti, i quali si ordinano all’interno di una struttura
molto rigida: sono distribuite in 10 giornate, dunque c’è questa dimensione aperta del mondo; questa
spinta centrifuga riceve una controspinta fortissima attraverso la struttura, una tensione che determina una
fortissima coesione interna (fra le spinte interne – che vogliono mettere ordine al caos, che vuole dare una
ragione all’illogicità- ed esterne – forza centrifuga che tende al molteplice-). Questa è una delle acquisizioni
della lirica novecentesca, che ha indagato quelle che sono le dimensioni caratterizzanti di un testo.
Ad ogni giornata è assegnato un tema (tranne la prima che è libero), con 10 diversi narratori, obbedendo a
colui o colei che viene nominato re o regina della giornata (tranne Doneo che è libero); anche in questo si
vede la spinta e la controspinta, è un tentativo di dare un ordine al caos, una logica all’incomprensibile,
infatti in Europa c’era la peste nera del 1348, che aveva portato il male in Terra: questo avvenimento è ciò
che da il via la racconto. Si immagina che questi giovani fiorentini per sfuggire al contagio scappino in
periferia: è il racconto che serve ad esorcizzare la morte. Questa è una delle primarie funzioni
antropologiche della narrazione, che serve a salvare la vita, è profonda ma anche dilettevole. Con il
Decameron la narrativa diventa di evasione, ma non significa che sia superficiale o banale, ma è una delle
grandi scommesse della letteratura di evasione riuscire a trasmettere un insegnamento di carattere morale
(additato come immorale nei secoli). Per questa via si gioca la sfida con Dante, molto più ambigua da noi
lettori: il Decameron richiede un lettore critico, è un’opera problematica, che racchiude diletto e
insegnamento.
Lisabetta da Messina

È una delle novelle più brevi. Questi tre paragrafi sono diversi tra di loro:
 Nel primo, viene raccontata la storia, infatti si chiama rubrica, dove chi scrive anticipa il racconto
che a breve inizierà ad essere raccontato. È un elemento della struttura, della cornice dentro cui si
incastonano le novelle. Il narratore è di primo grado e coincide con l’autore
 Nel secondo, anch’esso è uno degli elementi della struttura, in cui ci viene detto cosa succede a
questi giovani. È un altro elemento della cornice che introduce il racconto, dopo il verbo tecnico
‘incominciò’. La narratrice sta spiegando che pur non essendo nobili i protagonisti del suo racconto,
il racconto sarà pieno di pietà. Tra questi paragrafi avviene un cambio di narratore:
 Nel terzo, inizia a parlare Filomena, al contrario degli altri due paragrafi: un altro elemento della
narrazione è proprio il narratore (che prevede una distinzione con l’autore, persona storica dello
scrittore). Si può anche distinguere fra autore reale e autore implicito (che è l’immagine dell’autore
che il lettore si costruisce a partire dall’opera, e questa diversa identità determina il rapporto che il
lettore costruisce con il testo). Narratore di secondo grado.
Filomena evidenzia come la storia sarà pietosa (nella concezione dantesca), cioè ricca di tragedia,
nonostante i personaggi non siano di alta condizione.  questo ci rimanda al fatto che Boccaccio si
avvii verso la modernità e questa è un’infrazione rispetto ai classicismi (che supponevano che le
cose tragiche dovessero accadere solo ai nobili). Ecco perché il Decameron è davvero il primo
capolavoro di Realismo moderno.

Lezione 18/11/2021

Si può distinguere fra l’intenzione dell’autore e l’intenzione dell’opera: anche l’opera ha una propria
intenzione e non è necessariamente identico a quello dell’autore; Es: il Principe del Machiavelli. Era
necessario convincere un principe a prendere in mano le redini dell’Italia: qui che peso ha l’intenzione
dell’opera e quanto questa, nel suo scopo immediato, si distingue da quella dell’autore?

I vari gradi dei narratori possono ovviamente andare avanti, e osservare come questi gradi si declinano è
utile sia dal punto di vista del contenuto, nell’interpretazione di questo (perché nella maggior parte dei casi
il passaggio di narratore scarica la responsabilità della narrazione sul successivo, e quindi si libera dalla serie
di giudizi e responsabilità narrative (figure chiamate strutture parafulmine), creando una utile e necessaria
distanza tra l’autore e la materia, permettendo così una maggiore armonia tra le parti.
Per quanto riguarda la forma invece, queste deleghe fanno sì che l’autore possa esprimere registri e stili
differenti; dunque i vari registri della lingua e della forma vengono modellati sul narratore.
Ci sono casi in cui questo meccanismo è parecchio evidente, per esempio nei generi della narrazione del
Realismo, Verismo, Naturalismo: qui la voce narrante è ben distinta da quella dell’autore, si fa parlare
infatti la realtà.

Si può poi fare una distinzione fra il narratore esterno e narratore interno:

 L’esterno (o eterodiegetico) racconta di fatti a cui non ha partecipato, nemmeno come testimone (è
il caso di Filomena)
 L’interno (o omodiegetico) racconta di fatti a cui ha assistito in prima persona ed eventualmente
come protagonista; si pensi a generi come il diario o l’autobiografia.

Inizia il racconto…

La prosa di Boccaccio è particolare: è caratterizzata da periodi normalmente lunghi, quindi che preferisce
come schema la subordinazione alla coordinazione. Nella sua architettura guarda quindi agli esempi classici
della prosa latina ciceroniana: questo si vede anche sul fatto che il verbo è sempre alla fine. Tale struttura
comprende anche altre caratteristiche, quali ad esempio l’inversione degli elementi molto frequente, e
anche la prevalenza delle coppie, le dittologie.

Il quarto e il quinto paragrafo ci presentano i personaggi.


Ci sono tre fratelli divenuti molto ricchi dopo la morte del padre, e questi avevano una sorella, Lisabetta. I
tre le facevano da padre e, nonostante lei fosse di buoni costumi, non erano ancora riusciti a farla sposare.
Avevano in un magazzino (fondaco) Lorenzo, e il narratore sottolinea la sua essenzialità negli affari.
guadare è un intensivo di guardare, ed è un francesismo dell’ambito passionale.
“stranamente” ci colpisce; anche se dal punto di vista letterale non dovrebbe colpirci, perché nel lessico
antico vuol dire “molto”.
Lorenzo iniziò a lasciar stare gli altri innamoramenti. E così andò la faccenda, che piacendosi
reciprocamente e sentendosi sicuri, non passò tanto tempo prima di esaudirsi i desideri.
Dentro questi 5 personaggi si possono evidenziare delle differenze, ad esempio:

- I tre fratelli sono sempre in tripletta, non vengono mai distinti, quindi in realtà potrebbero essere
associati ad un solo personaggio
- Fra di loro i personaggi non sono simili, non sono sullo stesso livello: i tre fratelli agiscono in modo
stereotipato, secondo il tipo del fratello geloso e possessivo. Per questo si potrebbe anche dire che
questi non sono veri e propri personaggi, bensì dei tipi o personaggi piatti; Lorenzo e Lisabetta
sono invece personaggi a tutto tondo perché hanno una personalità che viene specificata e
agiscono in modo non convenzionale.
- Lisabetta cattura tutta l’attenzione della narrazione, mentre Lorenzo viene fatto agire per
raccontare i fatti di Lisabetta: si può quindi parlare di un personaggio protagonista e di personaggi
secondari.

La descrizione dei personaggi

Di Lisabetta, per esempio, ci viene detto soltanto che è bella e costumata, non vi è una descrizione fisica,
non viene spiegata la sua psicologia e mancano le analisi interne. Ricaviamo la sua identità per via
indiziaria, dai gesti che compie e dalle spie che ci fanno dedurre dei caratteri.
Le analisi interne sono degli elementi della narrazione che appartengono all’era moderna, e questo è un
motivo storico e culturale: l’uomo medievale è molto restio alla descrizione psicologica e all’introspezione,
c’è una sorta di taboo attorno a questo tema.

Nel sesto paragrafo: inizio con un susseguirsi di schema a coppie.


I due si incontrano ogni notte ma una di queste, mentre Lisabetta si recava nella stanza di Lorenzo, uno dei
fratelli se ne accorse e inizialmente decide di non dire nulla e di tenersi questo segreto fino alla mattina
successiva. Ci sono due elementi da notare:

- C’è un non di troppo (rigo 6). Non è un errore, è pleunastico (ridondante, inutile) dal punto di vista
logico, ma riprende la doppia negazione dello schema latino.
- C’è un che di troppo (rigo 5). È una ripetizione del primo che, ed è molto frequente nella prosa del
Decameron dopo una frase accidentale. Funge da rinforzo per tener in piedi il periodo (così come il
verbo alla fine, che non è solo un latinismo ma quasi una strategia di suspance) e dipende dalla
diffusione orale dell’epoca.

Nel settimo paragrafo vi è un chiaro esempio dei suddetti periodi lunghi.


Il mattino seguente i fratelli decisero di non raccontare nulla per non creare vergogna e decisero di fingere
di non aver visto nulla e di aspettare il momento giusto affinchè la vergogna potesse sparire andando
avanti.
La focalizzazione (il punto di vista) non sempre coincide con il narratore, e quando questo non accade,
significa qualcosa. In questi due ultimi paragrafi si noti come si vuol far apparire il comportamento dei
fratelli come saggio e giusto, e quella di Lisabetta e Lorenzo una vergogna, uno sconcio. Chi scrive
volutamente quindi distanzia i due punti di vista, decidendo di mettere in prima linea quello dei fratelli, è
avvenuta quindi una focalizzazione.
Siccome qui il punto di vista è quello di un solo personaggio (i fratelli), possiamo parlare di focalizzazione
interna. I casi della focalizzazione esterna sono invece quelli che avvengano quando il narratore racconta,
senza però specificare le intenzioni dei personaggi, rappresentando le scene in modo neutrale e asettico.
SI può anche avere un altro tipo di focalizzazione, opposto a quella esterna, che privilegia tutti: la
focalizzazione a grado 0. Chi legge in questo caso ha a che fare con le motivazioni e le intenzioni di tutti i
personaggi, dunque prevede che il narratore sia onnisciente.
In una narrazione le focalizzazioni possono cambiare di continuo, producendo vari effetti: in questo caso
che intenzione ha Boccaccio? Dalla parte di quale personaggio sta?
La sua intenzione è quella di costruire una tragedia, portano allo scontro due logiche inconciliabili, quella
spietata dei fratelli, la logica mercantile, contro la logica dell’amore e dei sentimenti; la tragicità si ottiene
quindi solo costruendo personaggi a tutto tondo, presentando i sentimenti e le passioni al loro stremo, il
narratore li deve infatti presentare come spietati.

Nell’ottavo paragrafo i tre fratelli conducono Lorenzo in un luogo molto lontano, e aspettando il momento
opportuno, quando Lorenzo non era attento, lo uccidono e lo sotterrano. Tornano in città dicendo che lo
avevano allontanato per affari.
Nel decimo paragrafo Lisabetta si vede preoccupata di ricevere notizie su Lorenzo, e i fratelli, a seguito di
queste ripetute domande, le fanno una sorta di minaccia, annunciando che se avesse continuato le
avrebbero dato la risposta che le spettava. Le gesta dei fratelli rispondono a quella fredda lucidità che li
aveva contraddistinti fin dall’inizio della narrazione.
Si introduce in questo paragrafo una novità: fino a questo punto avevamo avuto degli enunciati non-
dialogici (descrittivi, narrativi, argomentativi), mentre questa sequenza ne contiene uno dialogico.
Nel Decameron i personaggi di solito parlano tanto, le novelle sono caratterizzate da una umanità che
interagisce con le ministre spesso utilizzando lo strumento della parola; tipico dell’umanesimo, riscoprendo
l’antico, è rivalutare il potere della parola.
Quando perciò troviamo un personaggio che non parla, questo vuole indicare qualcosa: per esempio
nell’enunciato dialogico del decimo paragrafo, questo si risolve con un non-detto, in una minaccia di morte
che impone il silenzio. È una dinamica che funziona presentando la parola come strumento di soggezione,
di dominio e di possesso.
Non potendo parlare, Lisabetta esprime la sua individualità in altro modo:

Nel paragrafo undicesimo, con l’aggettivo trista non si vuole solo indicare l’accezione antica di triste, ma
disperata. Il che al rigo 2 è il complemento oggetto del non sapere.
In questi quattro paragrafi si noti l’abbondanza degli imperfetti, che sono i tempi che ci comunicano il
tempo lungo dell’attesa; dal punto di vista verbale, l’imperfetto indica la continuità nel passato.
La dimensione di Lisabetta diventa quella del pianto e del dolore dell’attesa, una dimensione in cui inizia a
“vivere” Lisabetta: ad un certo punto il lettore inizia a pensare che Lisabetta impazzisca per il dolore. Sul
piano letterale vien da chiedersi se il fantasma arrivi davvero o arrivi solo nella mente di lei (es. nel
paragrafo 12 “parvele”). Il narratore ci tiene a specificare con l’inciso che Lisabetta si fida della sua visione,
e così facendo il narratore sposta il dubbio che nasce nella mente del lettore, nelle azioni del personaggio.
Nel quindicesimo paragrafo si sottolinea la rapidità del suo unico gesto, evidenziata dai verbi brevi e
accentati, che si contrappone alla precedente lunga attesa.
In queste due sequenze, che sono il punto macabro della novella, e si possono sottolineare alcuni elementi:

- C’è un punto straniante perché nella visione Lorenzo appare pallido e con i panni stracciati, mentre
Lisabetta lo trova intatto. Avviene una sovrapposizione tra la realtà e la finzione; noi riusciamo a
creare questa distinzione perché avviene questo cortocircuito. Questo scambio è funzionale proprio
per identificare la personalità di Lisabetta.
- I gesti che vengono compiuti sono interpretabili in chiave psicanalitica: il tagliare la testa e darla alla
donna per metterla in grembo e il trasferimento che avviene da Lisabetta alla donna. I gesti che
rimandano alla sessualità hanno un’importanza pesantissima.

Dopo la rapidità del gesto precedente, ricomincia la lunga elegia di Lisabetta; si può dire quindi che il tempo
naturale non è uguale al tempo reale. Avviene una distinzione fra tempo e durata: i meccanismi della
narrazione non permettono solo di stringere e allungare, ma anche di togliere (si parla qui di ellissi
narrativa). La favola può non coincidere con l’intreccio; qui è un intreccio naturale.

Lezione 23/11/2021

Anche la dimensione dello spazio ha la sua importanza: lo spazio non è mai uno spazio reso in maniera
oggettiva, nemmeno nelle forme artistiche che apparentemente sono oggettive. In letteratura la
rappresentazione dello spazio può produrre delle rese molto differenti; possiamo avere degli spazi resi in
maniera molto vaga, impersonale o stereotipata (si parla talvolta di sfondo, nemmeno di spazio) o al
contrario possiamo avere da parte del narratore lo sforzo di rendere più oggettiva questa dimensione (i
realismi).
Ci sono anche delle situazioni in cui lo spazio non solo è reso nella maniera più oggettiva possibile, ma tanto
da far diventare lo spazio un personaggio che interagisce in maniera determinante con la narrazione (es. i
racconti ambientati in città, le novelle cittadine, come Dublino per Joyce).
Quindi oltre alla valenza oggettiva, lo spazio assume valenza simbolica; questo simbolismo in questa novella
si attiva in una contrapposizione fra il dentro e il fuori (per agire i personaggi devono andare fuori, sia i
fratelli che portano Lorenzo fuori per ucciderlo, sia Lisabetta), al contrario il dentro è il luogo della passività
e della solitudine.
Nel diciannovesimo paragrafo il narratore ci dice che proseguendo questo suo comportamento strano,
Lisabetta viene notata dai vicini (sono i vicini che notano questo, non i fratelli: si conferma la totale
stranietà nei confronti della sorella).

Nel ventesimo paragrafo si noti come il narratore insiste sull’aspetto fisico di Lisabetta: questo modo di
descriverlo è un po' anomalo e deve suscitare del sospetto, perché pare la descrizione della testa di
Lorenzo; questa è la conferma di quella vicinanza, rispecchiamento continuo fra Lisabetta e Lorenzo.
Cesare Segre sottolinea che il lettore percepisce di nuovo un cambio di punto di vista: ogni qualvolta si parla
di Lorenzo, il lettore lo immagina dal punto di vista di Lisabetta. Questa focalizzazione su di lei fa sistema
con il suo dramma, che viene tormentata da un’ossessione: il suo dramma fin dall’inizio si costruisce come
un’ossessione nei confronti di Lorenzo. Ciò fa pensare che il centro assoluto del racconto, a tutto tondo, sia
davvero Lisabetta; si comprende anche dal predetto finale, la sua morte di crepacuore.

I fratelli tolgono il vaso a Lisabetta, la quale poi si ammala definitivamente; il narratore sottolinea la sua
ossessione. Decidono di fuggire da Messina a Napoli, temendo che la morte si venisse a sapere.

Il finale è già scritto, ma in realtà a ben guardare è sorprendente, non è inutile o trascurabile. Ad un certo
punto questa cosa diventa manifesta a molti, quindi qualcuno compose quella canzone che ancora oggi si
canta; nella canzone la parola è data a lei, c’è una sorta di vendetta, ottiene quella giustizia che i fratelli le
avevano negato. Il narratore e l’autore alla fine vogliono dimostrare che quella forza che aveva provato a
sopraffare l’amore, la mercatura, alla fine ha la peggio.
è significativo che è una canzone pronunciata nel tempo a rendere incoercibile l’amore.

Questa vicenda ha come protagonista una donna: i personaggi femminili nel Decameron sono i destinatari
privilegiati. Lisabetta è una figura che corrisponde esattamente a quel pubblico che l’autore seleziona e ci
descrive nel Proemio.
Qui si comprende come Boccaccio avesse immaginato il suo destinatario specifico. Non è una questione di
genere, ma è il fatto che le donne normalmente sono le persone che soffrendo maggiormente le difficoltà,
più hanno bisogno del conforto della letteratura. Il destinatario è l persona afflitta dagli angusti della vita,
verso cui l’autore prova compassione e a cui decide di rivolgersi.
In questo progetto la Letteratura serve quindi sia a dilettare, sia ad educare.
Rapporto di vicinanza tra l’autore e il suo pubblico (come nella Vita Nova)
Se anche intervenissero queste pene tra gli uomini, questi avrebbero comunque più modi per svagarsi.

La distinzione che fa Boccaccio tra le tipologie di racconti in realtà si potevano specificare nei sottotipi
(favole, novelle, ecc.); con grande consapevolezza egli riduce all’interno dell’opera la molteplice varietà
delle varie tipologie.

Da “nelle novelle” punti meta-letterari, o meta-poetici, dove chi parla insiste sulla natura del mezzo
utilizzato.
Secondo uno schema già incontrato in Dante, la sua esperienza dona all’autore quell’autorevolezza
nell’autenticità di ciò che sta raccontando.

Introduzione alla giornata quarta

Qui il poeta esprime una delle primissime definizioni del Realismo; risponde alle critiche che lo avevano
accusato di indugiare troppo con gli amori, e Boccaccio risponde che le donne, la vera realtà, è la vera
poesia. L’attenzione al genere femminile appartiene ad una forma mentis medievale.
Andreuccio da Perugia

È una novella di avventura, di azione, di movimento. Gli avvenimenti sorprendenti costituiscono davvero
l’ossatura della narrazione, che racconta le avventure tragicomiche di Andreuccio.
Si svolge a Napoli, in un luogo che è molteplice, perché lui si sposta continuamente tra le città, che quindi
offre tutte le caratteristiche alla narrazione in cui lo spazio diventa personaggio.
Napoli cambia il personaggio, che subisce un’evoluzione, una formazione (al contrario della staticità di
Lisabetta).
Avviene in un tempo, in 24 ore (o meglio in una notte). Quindi questa novella obbedisce a quelle regole di
unità fondamentali per gli antichi.

Lezione 25/11/2021

Questa novella tocca le corde più efficaci della narrazione, ad esempio il comico. È dunque un esempio di
dilettevole, di racconto di evasione (una delle istituzioni più centrali della narrazione).
Siamo nella seconda giornata, questa è la quinta novella; come esplicitato nell’intestazione, i racconti di
questa giornata vedono l’uomo alle prese con i colpi avversi della Fortuna, forza centrale e capitale nelle
vite umane.
La specificazione di queste dinamiche fa però sì che raggiungano sempre un lieto fine, contro ogni speranza
o evidenza. Proprio a partire da questi ingredienti, si generano i colpi di scena che determinano anche il
comico.

Questa è definita la novella “più napoletana” del Decameron, la quale fotografa la veridicità del luogo: ha
sicuramente valore simbolico, ma viene anche descritta con grande precisione realistica. Napoli è una città
della biografia di Boccaccio, nel quale matura il suo percorso culturale e professionale, infatti la sua
descrizione riporta comunque ad un’ottica personale; Boccaccio ha fuso la sua esperienza nella città con la
fonte letteraria. Benedetto Croce è andato alla ricerca di documenti che potessero rimandare ai fatti qui
raccontati, ed in effetti è riuscito a ritrovare negli archivi documenti che attestassero il vero (es. i funerali di
un vescovo, o il nome di un criminale citato).

La novella racconta dell’imbroglio subito da Andreuccio, architettato da una prostituta che lo invita a casa.
Circolavano luoghi comuni che recitavano ad esempio “non andare mai a casa di niuna femmina mondana,
né di altra simile di notte, perché ella mandi per te; chè molte beffe se ne son già vedute e spezialmente in
terre marine e forestiere”. Questo detto è contenuto nel libro Dei Buoni Costumi di Paolo Da Certaldo,
contemporaneo di Boccaccio; si presenta come il seme di invenzione dal quale poi scaturisce la novella.
Dunque è s’ una novella di invenzione, ma ha una matrice storica e realistica molto forte, erano cose
comuni a Napoli, talmente da essere già entrate nella letteratura.

La novella può essere suddivisa in sequenze; la sequenza è caratterizzata dalla coerenza di un motivo, è
decisiva per l’interpretazione del testo.
In questa le sequenze sono tre: tre devono essere le cadute di Andreuccio e tre le risalite.

Introduzione

Andreuccio da Perugia, venuto a Napoli a comperar cavalli, in una notte da tre gravi accidenti soprapreso, da
tutti scampato con un rubino si torna a casa sua.

Questa è la rubrica, quell’elemento della cornice che presenta l’argomento, che anticipa i fatti. Vi è
l’evidenza dell’unità di tempo, e la specificazione del suo confronto con il caso avverso, che vince per ben
tre volte. Questa rubrica contiene già tutta la storia di Andreuccio; è fondamentale ricordare che alla fine non
solo il protagonista non muore, ma ne guadagna anche, portandosi a casa il rubino, il quale valore è superiore
a quello dei fiorini che gli vengono rubati subito.
Si rappresenta quindi il valore fondamentale della mercatura, ovvero che alla fine bisogna sempre
guadagnarci per andare avanti; lui guadagnerà sia come esperienza e formazione, ma questa crescita viene
fatta anche riecheggiare nelle dinamiche della mercatura.
Boccaccio qui presenta un caso in cui vuole dimostrare quali sono le qualità fondamentali dell’uomo,
strizzando un po' l’occhio alla filosofia mercantile, quali l’ingegno, la prontezza, la rapidità. L’autore ha
quindi a cuore l’intera rappresentazione della commedia umana, l’uomo in quanto tale in tutti i suoi aspetti;
non c’è mai un giudizio moralista.

Le pietre da Landolfo trovate - cominciò la Fiammetta, alla quale del novellar toccava - m'hanno alla
memoria tornata una novella non guari meno di pericoli in sé contenente che la narrata dalla Lauretta, ma in
tanto differente da essa, in quanto quegli forse in più anni e questi nello spazio d'una sola notte addivennero,
come udirete.

Fiammetta si riallaccia alla novella precedente, il quale argomento, le pietre preziose, le hanno riportato
alla memoria un’altra novella, i cui avvenimenti si svolgono tutti in una notte.
Da notare come Boccaccio decida di affidare a Fiammetta la narrazione della novella più napoletana, poiché
negli anni napoletani era la sua donna amata.

Fu, secondo che io già intesi, in Perugia un giovane il cui nome era Andreuccio di Pietro, cozzone di cavalli;
il quale, avendo inteso che a Napoli era buon mercato di cavalli, messisi in borsa cinquecento fiorin d'oro,
non essendo mai più fuori di casa stato, con altri mercatanti là se n'andò: dove giunto una domenica sera in
sul vespro, dall'oste suo informato la seguente mattina fu in sul Mercato, e molti ne vide e assai ne gli
piacquero e di più e più mercato tenne, né di niuno potendosi accordare, per mostrare che per comperar
fosse, sì come rozzo e poco cauto più volte in presenza di chi andava e di chi veniva trasse fuori questa sua
borsa de' fiorini che aveva.

È la presentazione del personaggio protagonista. Andreuccio è ingenuo e inesperto, è la prima volta che si
immette nel mercato dei cavalli, ed in maniera un po' sprovveduta mostra la sua borsa piena di fiorini in
presenza della gente. Il suo è un ritratto dinamico, cioè che il narratore costruisce raccontandone le gesta, i
movimenti, le azioni del personaggio. I tratti, che sono funzionali alla descrizione del personaggio
corrispondono a dei gesti.

E in questi trattati stando, avendo esso la sua borsa mostrata, avvenne che una giovane ciciliana bellissima,
ma disposta per piccol pregio a compiacere a qualunque uomo, senza vederla egli, passò appresso di lui e la
sua borsa vide e subito seco disse: - Chi starebbe meglio di me se quegli denari fosser miei? - e passò oltre.

Gli si accosta una prostituta di basso rango, che nota subito la borsa di fiorini. Fiordaliso immediatamente
escogita un piano per derubarlo; nota che Andreuccio si è fermato a parlare con una donna più anziana, che
Fiordaliso conosceva, e dunque ne approfitta per andare subito dopo a chiederle informazioni sull’uomo
con cui ha parlato.

A casa di Fiordaliso

Dopo aver ottenuto le informazioni necessarie, manda una ragazzina all’albergo dove Andreuccio dimorava
e lo fa chiamare (si ripensi al proverbio suddetto). Si sta quindi costruendo la beffa, lo scherzo; le novelle di
beffa costituiscono un vero e proprio genere letterario, e vengono canonizzate con il Decameron, dando
inizio ad una tradizione localizzata in particolare a Firenze e in Toscana.
Andreuccio si crede un bel ragazzo, quindi quando la ragazzina lo va a chiamare lui si inorgoglisce. Questa
sequenza si focalizza sul personaggio di Andreuccio, il quale parla con la voce di Fiammetta. Si produce il
comico.

Laonde la fanticella a casa di costei il condusse, la quale dimorava in una contrada chiamata Malpertugio, la
quale quanto sia onesta contrada, il nome medesimo il dimostra. Ma esso, niente di ciò sappiendo né
suspicando, credendosi in uno onestissimo luogo andare e ad una cara donna, liberamente, andata la
fanticella avanti, se n’entrò nella sua casa; e salendo su per le scale, avendo la fanticella giá la sua donna
chiamata e detto: — Ecco Andreuccio! — la vide in capo della scala farsi ad aspettarlo.

Pertugio era un quartiere davvero esistente a Napoli, ed era malfamato; qui abitava Fiordaliso. Si noti
l’ironia che gioca sui contrari (“la quale quanto sia onesta contrada, il nome medesimo il dimostra”). Croce
ritrova effettivamente le prove dell’esistenza di questo quartiere, e scopre che si chiamava così perché,
scavato tra le mura, aveva un passaggio che portava direttamente al porto.
Ma l’ingenuo Andreuccio non si rende nemmeno conto di trovarsi in un luogo malfamato, e prosegue
addentrandosi.

Ella era ancora assai giovane, di persona grande e con bellissimo viso, vestita e ornata assai orrevolemente;
alla quale come Andreuccio fu presso, essa incontrogli da tre gradi discese con le braccia aperte, e
avvinghiatogli il collo alquanto stette senza alcuna cosa dire, quasi da soperchia tenerezza impedita; poi
lagrimando gli basciò la fronte e con voce alquanto rotta disse: - O Andreuccio mio, tu sii il ben venuto! -
Esso, maravigliandosi di così tenere carezze, tutto stupefatto rispose: - Madonna, voi siate la ben trovata!

Il punto di vista è quello di Andreuccio, che dal basso vede Fiordaliso bellissima in cima alle scale che lo
accoglie.
Andreuccio si meraviglia di queste carezze così tenere, ma se pur stupefatto, risponde a tono, dunque non
è ancora del tutto caduto nel tranello.

Ella appresso, per la man presolo, suso nella sua sala il menò e di quella, senza alcuna cosa parlare, con lui
nella sua camera se n'entrò, la quale di rose, di fiori d'aranci e d'altri odori tutta oliva, là dove egli un
bellissimo letto incortinato e molte robe su per le stanghe, secondo il costume di là, e altri assai belli e ricchi
arnesi vide; per le quali cose, sì come nuovo, fermamente credette lei dovesse essere non men che gran
donna. E postisi a sedere insieme sopra una cassa che appiè del suo letto era, così gli cominciò a parlare:

Si sorride qui causa l’effetto della focalizzazione: tutti sappiamo che quella è la camera di una prostituta,
che “profumava”, e poi “secondo il costume di là”, il punto più alto della focalizzazione. Dal punto di vista di
Andreuccio quella era l’usanza delle belle donne napoletane, secondo invece il nostro punto di vista, quello
era il costume delle prostitute.
“gran donna”, l’epiteto che descrive Fiordaliso, contiene in sé i punti di vista sia della descrizione di una
donna nobile sia di una prostituta.
Inizia poi il discorso di Fiordaliso:

Andreuccio, io sono molto certa che tu ti maravigli e delle carezze le quali io ti fo e delle mie lagrime, sì
come colui che non mi conosci e per avventura mai ricordar non m'udisti. Ma tu udirai tosto cosa la quale più
ti farà forse maravigliare, sì come è che io sia tua sorella; e dicoti che, poi che Idio m'ha fatta tanta grazia che
io anzi la mia morte ho veduto alcuno de' miei fratelli, come che io disideri di vedervi tutti, io non morrò a
quella ora che io consolata non muoia.

Emerge subito la grande abilità della donna di gestire le parole, dunque Fiordaliso è una grande attrice, è
una commediante. Il suo è un lungo discorso in cui vuole convincere il giovane che lei sia sua sorella; è un
discorso molto articolato, che a un certo punto si fa anche fatica a seguire, ma è proprio questo l’intento,
quello di confondere. Si conclude con il compiacimento di aver finalmente ritrovato il “fratello”, che lei
sapeva esistere e che avrebbe tanto voluto incontrare prima di morire.
Lì Andreuccio resta un poco deluso, perché si sarebbe aspettato altro dalla serata, quindi non riesce a
sottrarsi a Fiordaliso, la quale lo fa fermare per la sera.

Essendo stati i ragionamenti lunghi e il caldo grande, ella fece venire greco e confetti e fè dar bere a
Andreuccio; il quale dopo questo partir volendosi, per ciò che ora di cena era, in niuna guisa il sostenne, ma
sembiante fatto di forte turbarsi abbracciandol disse:

- Ahi lassa me, ché assai chiaro conosco come io ti sia poco cara! Che è a pensare che tu sii con una tua
sorella mai più da te non veduta, e in casa sua, dove, qui venendo, smontato esser dovresti, e vogli di quella
uscire per andare a cenare all'albergo? Di vero tu cenerai con esso meco: e perché mio marito non ci sia, di
che forte mi grava, io ti saprò bene secondo donna fare un poco d'onore. –

La novella avviene in un momento ben preciso dell’anno, ad Ottobre e per questo fa riferimento al caldo.
Andreuccio vorrebbe andarsene ma lei fa leva sulla compassione trattenendolo. Si sottolinea l’ironia
quando parla del marito.

Alla quale Andreuccio, non sappiendo altro che rispondersi, disse:

- Io v'ho cara quanto sorella si dee avere, ma se io non ne vado, io sarò tutta sera aspettato a cena e farò
villania.

Ed ella allora disse:

- Lodato sia Idio, se io non ho in casa per cui mandare a dire che tu non sii aspettato! benché tu faresti assai
maggior cortesia, e tuo dovere, mandare a dire a' tuoi compagni che qui venissero a cenare, e poi, se pure
andare te ne volessi, ve ne potresti tutti andar di brigata.

Si noti l’astuzia di Fiordaliso, che addirittura lo invita a far venire là i suoi compagni, sapendo benissimo i
desideri nascosti del giovane.
Ci sono continui ammiccamenti: il discorso non è diretto, ma è riportato dalla narratrice, che spinge verso la
direzione della malizia i fatti.

Andreuccio rispose che de' suoi compagni non volea quella sera, ma, poi che pure a grado l'era, di lui facesse
il piacer suo. Ella allora fè vista di mandare a dire all'albergo che egli non fosse atteso a cena; e poi, dopo
molti altri ragionamenti, postisi a cena e splendidamente di più vivande serviti, astutamente quella menò per
lunga infino alla notte obscura; ed essendo da tavola levati e Andreuccio partir volendosi, ella disse che ciò
in niuna guisa sofferrebbe, per ciò che Napoli non era terra da andarvi per entro di notte, e massimamente un
forestiere; e che come che egli a cena non fosse atteso aveva mandato a dire, così aveva dello albergo fatto il
somigliante.

Questa ironia è molto accentuata, e fa chiedere al lettore da chi provenga.

Egli, questo credendo e dilettandogli, da falsa credenza ingannato, d'esser con costei, stette. Furono adunque
dopo cena i ragionamenti molti e lunghi non senza cagione tenuti; e essendo della notte una parte passata,
ella, lasciato Andreuccio a dormire nella sua camera con un piccol fanciullo che gli mostrasse se egli volesse
nulla, con le sue femine in un'altra camera se n'andò.
Prima caduta

Era il caldo grande: per la qual cosa Andreuccio, veggendosi solo rimasto, subitamente si spogliò in farsetto
e trassesi i panni di gamba e al capo del letto gli si pose; e richiedendo il naturale uso di dovere diporre il
superfluo peso del ventre, dove ciò si facesse domandò quel fanciullo, il quale nell'uno de' canti della camera
gli mostrò uno uscio e disse:

I costumi sono necessari a realizzare il comico; abbiamo una chiara immagine dei movimenti di Andreuccio.

- Andate là entro. –

Andreuccio dentro sicuramente passato, gli venne per ventura posto il piè sopra una tavola, la quale dalla
contraposta parte sconfitta dal travicello sopra il quale era ; per la qual cosa capolevando questa tavola con
lui insieme se n'andò quindi giuso: e di tanto l'amò Idio, che niuno male si fece nella caduta, quantunque
alquanto cadesse da alto, ma tutto della bruttura, della quale il luogo era pieno, s'imbrattò. Il quale luogo,
acciò che meglio intendiate e quello che è detto e ciò che segue, come stesse vi mostrerò. Egli era in un
chiassetto stretto, come spesso tra due case veggiamo: sopra due travicelli, tra l'una casa e l'altra posti, alcune
tavole eran confitte e il luogo da seder posto, delle quali tavole quella che con lui cadde era l'una.

Andreuccio chiede di andare in bagno, e il ragazzino ben istruito da Fiordaliso, lo conduce verso un uscio,
sul quale però inciampa a causa di un’asse maldisposta. Per sua fortuna non si fece male (e di tanto l'amò
Idio: queste sono le novelle in cui il personaggio si confronta con il Caso, la Fortuna, la Provvidenza. Quindi
questa frase deve attivare l’interpretazione del lettore, perché è il Caso che ha fatto sì che non si facesse
nulla.)
La narratrice decide di indugiare nel descrivere la bruttura di questa caduta.

Ritrovandosi adunque là giù nel chiassetto Andreuccio, dolente del caso, cominciò a chiamare il fanciullo;
ma il fanciullo, come sentito l'ebbe cadere, così corse a dirlo alla donna. La quale, corsa alla sua camera,
prestamente cercò se i suoi panni v'erano; e trovati i panni e con essi i denari, li quali esso non fidandosi
mattamente sempre portava addosso, avendo quello a che ella di Palermo, sirocchia d'un perugin faccendosi,
aveva teso il lacciuolo, più di lui non curandosi prestamente andò a chiuder l'uscio del quale egli era uscito
quando cadde

La narratrice insiste nella descrizione perché qui si entra nella prima caduta. È stata fatta una lettura
simbolica in progressione delle cadute di Andreuccio: prima cade nello sporco più assoluto, la fogna; la
seconda caduta sarà nl pozzo; l’ultima in una tomba, quindi in una posizione superiore rispetto alle
precedenti. Questa progressione è funzionale alla crescita morale di Andreuccio, che progredisce
dall’ingenuità all’esperienza.
Fiordaliso una volta raggiunto il suo scopo, chiude l’uscio ad Andreuccio.

Andreuccio, non rispondendogli il fanciullo, cominciò più forte a chiamare: ma ciò era niente. Per che egli,
già sospettando e tardi dello inganno cominciandosi a accorgere salito sopra un muretto che quello
chiassolino dalla strada chiudea e nella via disceso, all'uscio della casa, il quale egli molto ben riconobbe, se
n'andò, e quivi invano lungamente chiamò e molto il dimenò e percosse. Di che egli piagnendo, come colui
che chiara vedea la sua disavventura, cominciò a dire:

“già sospettando” indica un primo movimento nella crescita di Andreuccio. La prontezza e l’astuzia li
vediamo tanto enfatizzati nella figura di questo giovane mercante, che attua un percorso di maturità.

- Oimè lasso, in come piccol tempo ho io perduti cinquecento fiorini e una sorella! - […]

Questa è una battuta ambigua perché non comprendiamo se Andreuccio sia ironico o se non abbia ancora
capito la situazione
Andreuccio, a quella voce levata la testa, vide uno il quale, per quel poco che comprender potè, mostrava di
dovere essere un gran bacalare, con una barba nera e folta al volto, e come se del letto o da alto sonno si
levasse sbadigliava e stropicciavasi gli occhi: a cui egli, non senza paura, rispose:

- Io sono un fratello della donna di là entro.


- Ma colui non aspettò che Andreuccio finisse la risposta, anzi più rigido assai che prima disse: - Io non so a
che io mi tegno che io non vegno là giù, e deati tante bastonate quante io ti vegga muovere, asino fastidioso e
ebriaco che tu dei essere, che questa notte non ci lascerai dormire persona; - e tornatosi dentro serrò la
finestra.
Alcuni de' vicini, che meglio conoscieno la condizion di colui, umilmente parlando a Andreuccio dissono: -
Per Dio, buono uomo, vatti con Dio, non volere stanotte essere ucciso costì: vattene per lo tuo migliore.

I vicini sentono il trambusto e, essendo abituati alle situazioni create da Fiordaliso, lo redarguiscono,
mentre lui inizia a lanciare delle pietre, creando una scena molto comica.
Ad un certo punto appare un’altra figura che impreca contro Andreuccio, un uomo che si affaccia dalla casa
di Fiordaliso (era il suo protettore). La prossemica è minuziosamente descritta proprio per creare la scena
comica.
“gran baccalare”: l’etimologia del termine rinvia al Baccelliere, ovvero il laureato. Qui però viene usato in
modo ironico, come ad indicare una persona autorevole ed importante.
Questo lo minaccia di morte ed infatti i vicini, che costituiscono la saggezza, consigliano al giovane di
andarsene; la coralità dei vicini sta ad indicare a verità, la quale viene mantenuta nella novella.

Benedetto Croce indaga nei registri dell’epoca e trova tracce di questo “Scarabone buttafuoco” in un atto
del 1386.

Andreuccio quindi si rassegna e decide di tornare al suo albergo ma si rende conto di essere impresentabile
e puzzolente; decide quindi di indirizzarsi verso il mare, in una via chiamata Strada Catalana. Ci viene qui
presentata una Napoli notturna…

Seconda caduta

E verso l'alto della città andando, per ventura davanti si vide due che verso di lui con una lanterna in mano
venieno li quali temendo non fosser della famiglia della corte o altri uomini a mal far disposti, per fuggirli, in
un casolare, il qual si vide vicino, pianamente ricoverò.

Andreuccio decide di scappare perché teme che queste siano due guardie al servizio della corte, o peggio
ancora degli uomini con mal intenzioni. Quindi si nasconde osservandoli: scopre che sono due ladri che si
stanno accingendo a compiere un furto all’interno della tomba del defunto arcivescovo, scardinando con
degli attrezzi il sepolcro.

Ma costoro, quasi come a quello proprio luogo inviati andassero, in quel medesimo casolare se n'entrarono; e
quivi l'un di loro, scaricati certi ferramenti che in collo avea, con l'altro insieme gl'incominciò a guardare,
varie cose sopra quegli ragionando. E mentre parlavano, disse l'uno:

- Che vuol dir questo? Io sento il maggior puzzo che mai mi paresse sentire; - e questo detto alzata alquanto
la lanterna, ebbe veduto il cattivel d'Andreuccio, e stupefatti domandar: - Chi è là? –

“cattivel”: sfortunato, disgraziato

Andreuccio taceva, ma essi avvicinatiglisi con lume il domandarono che quivi così brutto facesse: alli quali
Andreuccio ciò che avvenuto gli era narrò interamente. Costoro, imaginando dove ciò gli potesse essere
avvenuto, dissero fra sè: - Veramente in casa lo scarabone Buttafuoco fia stato questo. - E a lui rivolti, disse
l'uno:
- Buono uomo, come che tu abbi perduti i tuoi denari, tu molto a lodare Idio che quel caso ti venne che tu
cadesti né potesti poi in casa rientrare: per ciò che, se caduto non fossi, vivi sicuro che, come prima
adormentato ti fossi, saresti stato amazzato e co' denari avresti la persona perduta. Ma che giova oggimai di
piagnere? Tu ne potresti così riavere un denaio come avere delle stelle del cielo: ucciso ne potrai tu bene
essere, se colui sente che tu mai ne facci parola.

Loro capiscono subito la situazione di Andreuccio. Si noti l’astuzia dei ladri che immediatamente decidono
di approfittarsene: infatti l’autore ci fa notare che la considerazione “era capitato in casa dello scarabone
Buttafuoco” era stata prima una considerazione avvenuta nel pensiero. Il narratore specifica che prima
pensano, e poi si rivolgono.
Il discorso diretto serve a distinguere quella che è la facciata che vuole essere presentata ad Andreuccio nel
nuovo inganno, e a farci capire che dietro questa c’è un inganno.
Il lettore viene ripetutamente sollecitato a riflettere sul destino di Andreuccio e sulle interpretazioni che
occorre dare su queste fortune/sfortune. L’autore narratore insiste sul mettere in chiaro questo aspetto,
essendo la chiave di lettura della novella.

Fingendo di simpatizzare per Andreuccio, in realtà il ladro lo minaccia implicitamente di non doverli tradire,
quindi emerge la malizia che c’è dietro. I ladri stanno già ingannandolo, portandolo sì a compiere il furto,
ma con l’intenzione ultima di rinchiudere Andreuccio dentro la tomba.

Andreuccio decide di aiutarli a compiere il furto, sbagliando naturalmente. Prima però è necessario che
Andreuccio si lavi, e si recano quindi ad un pozzo.

Giunti a questo pozzo trovarono che la fune v'era ma il secchione n'era stato levato: per che insieme
diliberarono di legarlo alla fune e di collarlo nel pozzo, e egli là giù si lavasse e, come lavato fosse, crollasse
la fune e essi il tirerebber suso; e così fecero.

Avvenne che, avendol costor nel pozzo collato, alcuni della famiglia della signoria, li quali e per lo caldo e
perché corsi erano dietro a alcuno avendo sete, a quel pozzo venieno a bere: li quali come quegli due videro,
incontanente cominciarono a fuggire, li famigliari che quivi venivano a bere non avendogli veduti.

Essendo già nel fondo del pozzo Andreuccio lavato, dimenò la fune. Costoro assetati, posti giù lor tavolacci
e loro armi e lor gonnelle, cominciarono la fune a tirare credendo a quella il secchion pien d'acqua essere
appicato.

Caduto Andreuccio e avendo i ladri visto delle guardie avvicinarsi, questi iniziarono a fuggire lasciando lì
Andreuccio.

Come Andreuccio si vide alla sponda del pozzo vicino così, lasciata la fune, con le mani si gittò sopra quella.
La qual cosa costoro vedendo, da subita paura presi, senza altro dir lasciaron la fune e cominciarono quanto
più poterono a fuggire: di che Andreuccio si maravigliò forte, e se egli non si fosse bene attenuto, egli
sarebbe infin nel fondo caduto forse non senza suo gran danno o morte; ma pure uscitone e queste arme
trovate, le quali egli sapeva che i suoi compagni non avean portate, ancora più s'incominciò a maravigliare.
Ma dubitando e non sappiendo che, della sua fortuna dolendosi, senza alcuna cosa toccar quindi diliberò di
partirsi: e andava senza saper dove.

Per la seconda volta Andreuccio rischia di morire e viene salvato dal Caso.

Si ricordi l’importanza della matrice simbolica che si cela dietro il numero 3, come le cadute. C’è un
rimando anche ai riti di iniziazione (nella progressione ascendente si pensi al pozzo, fonte battesimale, fino
alla terza caduta, che si svolge in una dimensione soprannaturale, quella dell’anima). Secondo le antiche
culture tali riti devono avvenire in seguito al superamento di una serie di prove anche complicate; vi si cela
quindi un forte valore antropologico.
Lezione 30/11/2021

Uscito dal pozzo, Andreuccio si ritrova da solo, ma nel frattempo con una maturità e crescita compiutesi
progressivamente. Incontra nuovamente i due ladri, che erano sulla strada del ritorno per tirarlo su dal
pozzo, e questi tentano nuovamente di portare a termine il loro piano. Scherzosamente gli rivelano chi
fossero quei due che si erano avvicinati al pozzo (le guardie), proprio come prima gli avevano indicato chi
fosse lo scarabone Buttafuoco.
Si incamminarono tutti e tre verso la cattedrale, raggiungendo l’arca, il sepolcro di marmo; riuscirono a
sollevare il coperchio e poi iniziarono a discutere su chi dovesse entrare per primo…

Terza caduta

- Chi entrerà dentro?


- A cui l'altro rispose:
- Non io. -
- Nè io - disse colui - ma entrivi Andreuccio. -
- Questo non farò io - disse Andreuccio. Verso il quale ammenduni costoro rivolti dissero:
- Come non v'enterrai? In fè di Dio, se tu non v'entri, noi ti darem tante d'uno di questi pali di ferro sopra la
testa, che noi ti farem cader morto.

Lo minacciano di morte, e questa minaccia è significativa perché quasi preannuncia quello che poi sarebbe
davvero successo ad Andreuccio. Quindi qui il narratore strizza l’occhio al lettore, anticipandogli e dandogli
un assaggio degli eventi futuri.

- Andreuccio temendo v'entrò, e entrandovi pensò seco: - Costoro mi ci fanno entrare per ingannarmi, per ciò
che, come io avrò loro ogni cosa dato, mentre che io penerò a uscir dall'arca, essi se ne andranno pe'fatti loro
e io rimarrò senza cosa alcuna.

Andreuccio ha fatto un gran progresso rispetto alla sua ingenuità, infatti si rende subito conto che sta per
essere ingannato.

– E per ciò s'avisò di farsi innanzi tratto la parte sua; e ricordatosi del caro anello che aveva loro udito dire,
come fu giù disceso così di dito il trasse all'arcivescovo e miselo a sè; e poi dato il pasturale e la mitra è
guanti e spogliatolo infino alla camiscia, ogni cosa diè loro dicendo che più niente v'avea.

Decise quindi di tenersi una parte del bottino per sé preventivamente; accortamente si ricorda che i due
avevano fatto riferimento ad un anello prezioso al dito del defunto arcivescovo, quindi se lo mise al dito e
disse ai ladri che non c’era più niente oltre la roba che aveva consegnato loro.

Essendo però anche i ladri dotati di malizia, non si fidarono delle parole di Andreuccio e lo invitarono a
cercare bene nuovamente; prendendo tempo, lo chiusero e intrappolarono dentro la tomba.

Egli tentò più volte e col capo e con le spalle se alzare potesse il coperchio, ma invano si faticava: per che da
grave dolor vinto, venendo meno cadde sopra il morto corpo dell'arcivescovo; e chi allora veduti gli avesse
malagevolmente avrebbe conosciuto chi più si fosse morto, o l'arcivescovo o egli.

Questo rilievo della narrazione serve a far sorridere, perché tanto aveva faticato Andreuccio che a vederli
non si sarebbe distinto il vivo dal morto. È questo il punto predetto: qui Andreuccio si mescola con la morte,
la tocca con mano.
Ma poi che in sé fu ritornato, dirottissimamente cominciò a piagnere, veggendosi quivi senza dubbio all'un
de' due fini dover pervenire: o in quella arca, non venendovi alcuni più a aprirla, di fame e di puzzo
tra'vermini del morto corpo convenirlo morire, o vegnendovi alcuni e trovandovi lui dentro, sì come ladro
dovere essere appiccato.

In entrambi i casi possibili, quindi, l’esito è la morte.

E in così fatti pensieri e doloroso molto stando, sentì per la chiesa andar genti e parlar molte persone, le quali
sì come gli avvisava, quello andavano a fare che esso co' suoi compagni avean già fatto: di che la paura gli
crebbe forte.

Qui sta incominciando la sua risalita: ecco che il Caso, dopo la morte, gli fornisce l’occasione di risollevarsi,
ma Andreuccio da parte sua deve metterci l’ingegno.

Ma poi che costoro ebbero l'arca aperta e puntellata, in quistion caddero chi vi dovesse entrare, e niuno il
voleva fare; pur dopo lunga tencione un prete disse:
- Che paura avete voi? credete voi che egli vi manuchi? Li morti non mangian uomini: io v'entrerò dentro io.

Si capisce la contrarietà verso il Clero e la spavalderia di questo uomo di chiesa che si sente capace di
maneggiare la morte e quindi si fa avanti per primo.

E così detto, posto il petto sopra l'orlo dell'arca, volse il capo in fuori e dentro mandò le gambe per doversi
giuso calare.

In questa resa molto lenta della descrizione dei movimenti emerge il realismo di Boccaccio.

Andreuccio, questo vedendo, in piè levatosi prese il prete per l'una delle gambe e fè sembiante di volerlo giù
tirare. La qual cosa sentendo il prete mise uno strido grandissimo e presto dell'arca si gittò fuori; della qual
cosa tutti gli altri spaventati, lasciata l'arca aperta, non altramente a fuggir cominciarono che se da centomilia
diavoli fosser perseguitati.

Andreuccio pensa con astuzia di spaventare i ladri e di fingersi un fantasma, in modo che potessero così
scappare dalla paura e lasciare la tomba aperta. Lui fa le veci non solo di un fantasma, ma addirittura di un
diavolo.
Questa trasformazione del protagonista si spinge quindi fino al soprannaturale.

Finale

La qual cosa veggendo Andreuccio, lieto oltre a quello che sperava, subito si gittò fuori e per quella via onde
era venuto se ne uscì dalla chiesa; e già avvicinandosi al giorno, con quello anello in dito andando
all'avventura, pervenne alla marina e quindi al suo albergo si abbattè ; dove li suoi compagni e l'albergatore
trovò tutta la notte stati in sollecitudine de' fatti suoi. A' quali ciò che avvenuto gli era raccontato, parve per
lo consiglio dell'oste loro che costui incontanente si dovesse di Napoli partire; la qual cosa egli fece
prestamente e a Perugia tornossi, avendo il suo investito in uno anello, dove per comperare cavalli era
andato.

Siamo quindi ritornati al punto di partenza. L’avventura, iniziata alla sera con l’invito di Fiordaliso, sta
terminando che è quasi l’alba. Torna all’albergo a trovare l’oste e gli albergatori ad aspettarlo, i quali gli
consigliano subito di andarsene da Napoli e tornare a Perugia, e così fece.

Andreuccio torna cresciuto, maturato, e anche i conti ritornano, con un’aggiunta. L’ideologia mercantile
viene quindi qui esplicitata ed inserita nell’esempio di vita di questo personaggio e nella sua maturazione.
Ser Cepparello da Prato

Questa novella, la prima del Decameron, in termini di analisi, la mettiamo in coppia con l’ultima novella,
Griselda. Ha inevitabilmente un valore proverbiale, di manifesto; resta memorabile per la centralità del suo
protagonista, Ser Cepparello, il quale campeggia per tutta la novella, e ce ne viene fornita anche una
descrizione minuziosa.
È una novella di beffa, perché si racconta di uno scherzo terribile. Questo è ai danni del prete che lo
confessa e di tutti i fedeli che ascolteranno le parole del prete, vittima di Cepparello, e che lo porteranno a
definirlo addirittura un santo. Il protagonista è però il peggiore dei peccatori: la novella presenta quindi dal
punto di vista strutturale un rovesciamento talmente radicale da suonar sospetto.
Si mettono qui in atto quelle figure di pensiero, quei meccanismi in sintonia, dal punto di vista logico e
razionale, l’autore e il lettore, e sono necessari per gustare il testo.

Preambolo

La rubrica con estrema semplicità esprime con chiarezza assoluta ed esaudisce quello schema di
rovesciamento che si deve tenere a mente durante tutta la lettura.

“essendo stato” è un gerundio che non ha solo valore temporale o di circostanza, ma tiene con sé
ambiguamente anche una sfumatura quasi causale (siccome è stato un pessimo uomo in vita…)

Il narratore Panfilo inizia con una specie di preghiera, ed invocando Dio. Serve quindi, in chiave antifrastica
e provocatoria, a rimandare sempre le cause degli eventi alla Provvidenza.
Comincia raccontando una delle meravigliose cose fatte da Dio, tra cui questo racconto. Il punto è che
l’autore/narratore vuole volontariamente mantenere sospeso il giudizio dell’uomo, che rimane incerto di
quali siano le verità.
In ogni caso, ciò che riguarda ed è pertinenza di Dio deve rimanere tale; questa novella presenta quindi il
massimo del peccato, come forse potrebbe essere il massimo della santità, della salvezza.
Come anticipato, questa prima novella va messa in relazione con l’ultima perché lì si parlerà della santità
spropositata, tanto da risultare quasi fuori luogo.
Oltre alla presentazione della beffa, di sfondo c’è comunque una funzione etica-morale, proprio indicata nel
preambolo.
Lezione 2/12/2021

Panfilo vuole quindi soffermarsi non sul giudizio divino, che è imperscrutabile, ma su quello dell’uomo; il
narratore vuole però sottolineare che la riflessione attorno a questi avvenimenti e attorno a queste opinioni
si può scorgere che sotto c’è ben altro. È a partire da questo seme che si crea, dal punto di vista narrativo, il
comico; noi lettori intelligenti così ci rendiamo almeno conto che sotto questo primo livello c’è un’altra
dimensione nel quale l’uomo con le sue sole forze non potrà mai andare, ed è quella della grazia.

Siamo in Francia, il tempo è contemporaneo a quello di Boccaccio e siamo ancora in quel mondo di
mercanti e notai di cui si è raccontato nelle altre novelle. In particolare si tratta di Musciatto Franzesi, (un
personaggio storico realmente esistito, mercante e usuraio fiorentino) divenuto talmente potente e ricco
da essere divenuto consigliere del Re di Francia.
Questo doveva recarsi in Italia per accompagnare il fratello del Re di Francia, e dunque decide di sistemare
un po' il suo da farsi, di cui la cosa più ostica era riscuotere i crediti ai Borgognoni, perché questi erano
notoriamente uomini litigiosi e sleali, quindi per compiere questo lavoro serviva una persona adatta.
Musciatto Franzesi deve quindi scegliere degli uomini ancora più malvagi, in modo che potessero avere la
meglio sui Borgognoni, e qui individua a memoria Ser Cepparello da Prato.

Descrizione fisica

Ser Cepparello viene presentato come piccolo e assettatuzzo (un po' tarchiato, ma anche tutto abbellito e
ghirlandato; questo diminutivo era tipico del linguaggio burlesco). Cepparello è probabilmente un
diminutivo di Ciapo, che sarebbe Jacopo; ma i francesi, che non sapevano che cosa volesse dire questa
parola e pensavano significasse cappello, o meglio ghirlanda, decisero di dargli il nomignolo di Ciappelletto.
C’è dunque in questa descrizione un’insistenza sul nome e sulla figura tozza e ghirlandata, ma soprattutto si
vuole attivare quel meccanismo dell’antitesi, perché ad un uomo piccolo e tutto agghindato, corrisponde
per contrasto la grandezza della sua immoralità. Quello di Cepparello è un animo grande, ma grande in
direzione del male.
Ritratto morale

Qui un’accurata descrizione delle caratteristiche interiori del personaggio. La lunghezza di questa sequenza
si contrappone alla brevità dello spazio che è servito per descrivere invece l’aspetto fisico.
Cepparello era un notaio, ma utilizzava il suo mestiere per fare atti falsi e si vergognava quando gliene
capitava uno vero; avrebbe fatto più volentieri e gratuitamente gli atti falsi che quelli veri. Era bugiardo, e
mentiva non solo quando fosse richiesto, ma anche quando non ce ne sarebbe stato bisogno. In Francia al
tempo si dava molta importanza ai giuramenti, ma lui non si preoccupava di giurare il falso.
Si impegnava nel commettere omicidi e scandali tra amici e parenti, ed era anche cinico nel provare piacere
a vederli soffrire.
È violento ed anche un assassino.

Le sottolineature della slide servono a mettere in rilievo quei passaggi che ci stimolano ad elevare in
superficie e a mettere in atto quel meccanismo antifrastico. L’impressione che si ha leggendo questo
ritratto è infatti simile quasi ad un elogio, ma in realtà il lettore comprende immediatamente che si deve
attuare una lettura alla rovescia. È un linguaggio antifrastico e stravolto, che spinge fino in fondo il negativo
colorandolo come positivo.

È bestemmiatore e sacrilego.
Inizia la descrizione della natura viziosa di Cepparello, che è dissoluto al grado peggiore che si possa
immaginare. Era goloso, tanto che spesso questi cibi gli provocavano il vomito.
Giocava barando a dadi.
Era forse il peggior uomo che fosse mai nato: questa conclusione è significativa perché l’intenzione che si
vuole presentare è quella del massimo immaginabile nella direzione del negativo
In questa tecnica del rovesciamento, i suoi peccati vengono descritti come se fossero dei meriti; nelle frasi,
alle premesse corrispondono sempre delle conseguenze sorprendenti (es: Egli, essendo notaio -premessa-
avea grandissima vergogna quando uno dei suoi strumenti fosse altro che falso -contrasto soprendente-)

La confessione

Ser Ciappelletto si reca dunque in Borgogna per riscuotere i crediti e viene ospitato da due fratelli fiorentini,
i quali lo conoscevano benissimo facendo lo stesso mestiere. Capita però che durante la permanenza, Ser
Ciappelletto si ammali gravemente e i due fratelli si trovano in grande difficoltà, perché si rendono conto
che l’ospite è in punto di morte ma la sua presenza provocava imbarazzo dal momento che i due sapevano
benissimo che lui non si sarebbe mai confessato, e dunque sarebbero poi nati dei problemi con la
sepoltura, l’unzione, ecc. Pensano addirittura di gettare il cadavere nei fossi, ma si rendono conto che poi
sarebbe stato ritrovato e sarebbero riemersi gli stessi problemi se non peggiori, perché il popolo si sarebbe
ricondotto ai due, gridando “questi lombardi cani!” (accenno storico al fatto che gli italiani del nord non
godessero di buona fama all’estero perché erano usurai, infatti in Francia e in Inghilterra il termine
lombardo significava usuraio).

Ser Ciappelletto comprende la difficoltà dei due fratelli ed escogita la burla: la sua intenzione è di compiere
l’ultimo, più malvagio atto, senza averne nessun tornaconto se non quello di fare del male; ovviamente la
sua intenzione non era quella di venire incontro alla difficoltà dei due fratelli.

C’è del diabolico in Ser Ciapparello, che non temendo nulla, decide di modificare il corso degli eventi. Lui
intende sfidare Dio, per l’ultima volta. Non è escluso che qui facciano da sfondo le parole di Manfredi
(orribili furono li peccati mei…), che si conviene in punto di morte e viene salvato, esattamente il contrario
di ciò che avviene qui.

Si fece chiamare un frate, possibilmente il più puro. Ed infatti trovarono un frate la cui veneranda età faceva
già santità (è antico). Cepparello cerca l’uomo più autorevole, al quale poi tutti avrebbero creduto.
Il frate gli chiede da quanto tempo non si confessasse: il mai non vuole solo indicare il vero, ma anche il
massimo contrasto con la risposta che darà il moribondo. Il primo peccato di cui sente il peso è di aver fatto
passare più di 8 giorni dall’ultima confessione. Il frate risponde che confessandosi così tanto, sarà cosa
rapida, avranno poco da dirsi. In realtà accade tutto il contrario, perché lui si vuole cogiolare nella
menzogna, e costruisce così un capolavoro di confessione falsa.

L’autoritratto

Prima ritratto, ora autoritratto, in cui c’è il rovesciamento di ciò detto nel ritratto.
“Pareva a lui che dovesse parere”: questa triplice ripetizione evidenzia il senso dell’umiltà, di ciò che lui
confessa come peccato, ma che dovrebbe essere una virtù.
Il meccanismo del comico si mette in atto immediatamente.
“a ogni uomo avviene quantunque santissimo sia” serve per anticipare come tassello questo meccanismo di
rovesciamento, perché in questa confessione la maestria di Ser Ciepparello culminerà nel far confessare al
frate i suoi peccati, e dunque di mandare all’inferno il frate, di indurlo a confessione.

Lezione 9/12/2021
Il doppio piano, la doppia linea di interpretazione attraverso cui Boccaccio vede il mondo, corrisponde, sul
piano letterario, al racconto, a quello schema costantemente antifrastico e antitetico su cui è costruita la
novella. Lo strumento del comico, che si avvale di figure retoriche come antitesi e antifrasi, diventa la via
per comunicare un messaggio molto profondo. Avendo conosciuto il ritratto, fornito dal narratore,
possiamo ora gustare in chiave comica l’autoritratto.

Il narratore sposta sui due fratelli un giudizio oggettivo proprio dei lettori e dell’autore stesso. La
focalizzazione serve per affermare l’inaffermabile, quindi per delegare a questi personaggi una
responsabilità che l’autore e il narratore sentono troppo forte.

Nelle sequenze Ser Ceppelletto muore e il frate che l’aveva confessato si reca da un priore per convincerlo
di aver incontrato un’ammirevole persona che avrebbe meritato un funerale. La sera, tutti i frati insieme
tornano alla dimora dei due fratelli e fanno una grande e solenne veglia (scena molto teatrale che
rappresenta gli onori funebri come per un santo, rivolti verso il peggiore dei peccatori). La nomea della
santità di Ser Ciappelletto cresce tanto che se qualcuno si trovava in difficoltà pregava lui (SAN
Ciappelletto) Dio accoglie le preghiere in virtù della buona fede di chi crede. La conclusione della novella
riprende il preambolo (“come se”)
Griselda
L’ultima novella

La decima novella si colloca nell’ultima giornata, il cui tema riguarda le azioni tanto lodevoli e generose da
procurare una grande fama. Si vogliono presentare casi esemplari (siamo ancora nella categoria valoriale
che riguarda il grande, ci muoviamo all’interno del tema della magnificenza). Nella società antica erano
quelle virtù che un soggetto possedeva interiormente e che risplendevano anche all’esterno.

Nell’ultima giornata vi sono storie esemplari di comportamenti liberali, magnifici, ossia generosi, eleganti e
gratuiti. Tema della magnificenza: la qualità che consente a tutte le altre virtù di manifestarsi
pubblicamente e di risplendere, cioè di essere riconosciute ed apprezzate (Aristotele: magnificenza-
magnanimità-grandezza interiore proiettata verso l’esterno). L’uomo magnifico non esita a spendersi a
beneficio degli altri, per avere in cambio l’onore, autentico riconoscimento del suo merito. L’uomo
magnifico è capace di donare in maniera eccezionale.
• Azioni tanto liberali e generose da procurare ‘laudevole fama’ e dunque perpetua vita. I protagonisti sono
quasi sempre aristocratici, ma anche appartenenti alla borghesia o alla classe contadina, come Griselda.
• La novella: l’umile Griselda, sposa del marchese di Saluzzo Gualtieri, costretto al matrimonio dalle
pressioni dei sudditi, la sottopone a prove durissime per accertarne, al limite di ogni umana resistenza, la
pazienza e la totale sottomissione.

La grandezza d’animo è lodevole nel momento in cui viene proiettata verso l’esterno. L’uomo magnifico non
esita a spendersi per gli altri, e in cambio riceve l’onore.
Griselda è la figlia di un contadino (si nota l’anticonformismo di Boccaccio (spesso la magnificenza era riservata ai
nobili). Griselda è sposa di Gualtieri, che la sottopone a delle prove durissime perché vuole accettarne la
pazienza e la totale sottomissione di lei.
Questo passaggio vuole contemporaneamente presentarci il personaggio di Griselda (raffigurato come
umile e mansueto) sia la promessa, sancita la quale Griselda la manterrà fino alla fine. La promessa
assomiglia all’annunciazione di sé che compie anche Maria.
Categoria del grande (tema della magnificenza e magnanimità)
Virtù e valori che facevano sì che l’uomo potesse presentarsi come tale ed essere riconosciuto da tutti
Nobiltà di sangue o di cuore? (Visione della grandezza d’animo che viene fuori divenendo magnificenza —>
lode come risultato/premio per le sue azioni)
Anticonformismo di Boccaccio nel Decameron —> difficile ricezione nei secoli successivi
Novella forte e poco attraente nel contenuto (novella fortunata —> fatta circolare tra la gente grazie alla
traduzione in latino di Petrarca)
Interventi di Boccaccio per diminuire la crudeltà del marito

Dal matrimonio in poi iniziano le prove a cui Gualtieri la sottopone:

Fa credere alla moglie che abbia ucciso i figli


Rifiuto di Griselda —> prende altra moglie (la figlia che la madre non riconosce)
Griselda non si ribella, sopporta anche se viene cacciata
Riprende Griselda e le rivela la prova che aveva superato
Narratore: Dioneo
Ragionamento sulla fascia aristocratica
Giudizio intorno a Gualtieri (no descrizione magnificenza ma di crudeltà sciocca) —> ammirazione spostata su
qualcun altro (riconoscere il tema all’interno, personificato in Griselda)
Crudeltà di Gualtieri compresa e denunciata solo in tempi moderni (sensibilità e traduzione durante i secoli
precedenti).
Scelta di Griselda (donna migliore per Gualtieri)
Gualtieri che va al villaggio il giorno del matrimonio (Griselda che non sa di essere lei la sposa —> stava con
amiche per cercare di vedere la sposa di Gualtieri)
Gualtieri che rivela a Griselda di essere lei la sposa e cerca il padre per chiedere la mano di lei
Presentazione Griselda (figura evangelica umile e mansueta)

Gualtieri che esplicita la necessità della promessa (parola data mantenuta da Griselda fino alla fine —> promessa
simile a quella di Maria durante l’annunciazione)
Enfasi intorno al matrimonio (arcaico e semplice —> sincerità)
Spogliata da vesti umili —> regina/nobile
Gesti simbolici
Griselda che rimane incinta di una femmina
Prime sofferenze che vengono accettate da Griselda (Gualtieri che vuole testare la sua pazienza insultandola per
la sua bassa condizione e per il sesso del neonato —> No reazione)
La bambina viene sottratta alla madre e mandata a crescere a Bologna (ad insaputa della moglie)

Nascita figlio
Prova simile alla precedente
Gualtieri che manda via il bimbo a Bologna (fa credere alla oblie di averli uccisi)
Pazienza di Griselda insopportabile (madre degenere per non piangere l’allontanamento dei figli)
Sudditi che denunciano la crudeltà di Gualtieri ma lei difende il marito (fedeltà e promessa)

Divorzia da Griselda e prende altra moglie


Griselda restituita al padre
Narratore che qualifica il comportamento di Griselda (come qualcosa di ultraterreno, oltre la femminilità e
L’umana comprensione)
Umiltà e completa fedeltà di Griselda —> grandezza d’animo incrollabile
Simbologia delle vesti
Tragedia antica in cui i due personaggi sono in sintonia
Prende come nuova moglie la figlia (spacciandola per la figlia di un nobile lì vicino)
Fa richiamare Griselda per preparare il matrimonio
Nonostante il dolore accetta (amore per Gualtieri che rimane)
Tutti che assistono all’umiliazione di Griselda (fa gli onori di casa durante il matrimonio)

Griselda che parla con la figlia augurandole il meglio (fa lei i complimenti)
Gualtieri si convince finalmente che il comportamento di Griselda è dovuto alla sua umiltà e fedeltà —> decide di
rivelarle il piano e smettere di farla soffrire
Griselda che chiede a Gualtieri di non far soffrire la nuova moglie come aveva fatto con lei
Frutto: ricompensa
Comportamento di Gualtieri che nella sua durezza si avvicina alla giustizia del Dio del vecchio testamento (prove
e crudeltà nei confronti delle sue creature)
Griselda: ripresa figure evangeliche
Gualtieri che vuole riparare alle sofferenze provocate alla moglie (rivela la non morte dei figli presentandoli a lei)

Tanto affetto dopo quanta sofferenza le era stata inferta prima


Novella che ha portato a rivelare la grandezza d’animo di entrambi i personaggi (più difficile per Gualtieri)
Narratore che spiazza e non impone al lettore intelligente una verità assoluta
Sgannarono: tolsero dall’inganno —> ristabilimento verità dei fatti
Superlativi per esaltare la magnificenza e la grandezza d’animo della donna e del marito

Lezione 13/12/2021

Guido Cavalcanti tra Dante, Boccaccio e Calvino

Guido Cavalcanti è personaggio, benchè assente, fondamentale. È presente nel decimo canto dell’Inferno e
insieme è personaggio protagonista di una novella del Decameron; inoltre viene ricordato in una delle
Lezioni Americane di Italo Calvino.
Questi tre grandi autori dialogano tra di loro, e si rispondono e corrispondono in un’equa reciproca,
nonostante il divario temporale enorme, assumendo come punto comune il personaggio di Guido
Cavalcanti.

Siamo nel sesto cerchio, dove vengono puniti gli eretici, cioè coloro che non hanno creduto nell’immortalità
dell’anima. Tra questi campeggia la figura di Farinata. Il canto X inizia in maniera scenografica: siamo in un
cimitero che costeggia le mura delle Città di Vite; quando Dante vede i sepolcri si chiede circa la natura e le
circostanze che hanno determinato questa tipologia di pena e di peccatori. Virgilio risponde spiegando che
questi sepolcri che ora si vedono scoperchiate, verranno poi rinchiuse quando finalmente le anime si
ricongiungeranno con i corpi durante il Giudizio Universale. Tra queste anime ci sono anche i seguaci di
Epicuro, coloro che ritengono che l’anima finisca con il corpo: questa è un’accezione che in periodo
medievale è intesa in senso lato, poiché il termine “epicurei” andava ad indicare tutti coloro che non
credevano nell’immortalità dell’anima. La laicità era un’inclinazione incredibilmente molto diffusa,
soprattutto negli ambienti intellettuali; all’interno di questa categoria dunque non c’erano soltanto gli
eretici, ma tutti coloro che dubitavano delle verità della fede: è questa una tentazione molto vicina al
pensiero intellettuale e filosofico anche nel circolo a cui Dante apparteneva. Siamo al cospetto di figure,
aspetti e caratteri che dante sentiva come propri, come vicini a sé.
In questo luogo stanno transitando i due pellegrini, quando ad un certo punto si leva una voce da uno dei
sepolcri.

vv.22-27 chi apostrofa (Farinata, uno dei capi più noti del partito ghibellino) ha riconosciuto Dante
dall’accento fiorentino, ecco perché lo interpella in questo modo. Farinata era stato uno dei grandi
protagonisti che avevano caratterizzato la storia della città toscana, in particolare si ricorda la battaglia di
Montaperti del 1260 che aveva dichiarato la vittoria dei ghibellini. Farinata, dopo la vittoria, si era imposto
di non distruggere la città, in quanto cittadino legato alla patria; ma poi rientrato in città si macchia di
terribili delitti, infatti il suo nome è rimasto legato proprio a questi. Muore nel 1264, ma il suo nome resta
leggendario negli anni successivi. Nel 1283 venne celebrato anche un processo contro di lui in cui veniva
accusato di eresia (ecco perché si trova tra gli eretici): è una condanna avvenuta dopo la morte che
coinvolgeva lui e i suoi famigliari, e muoveva anche ad argomenti politici (la vendetta dei guelfi avverrà nel
1266 nella battaglia di Benevento).
La figura di Farinata suscitava grande ammirazione a causa della sua grandezza, nobiltà, dignità e devozione
alla patria, e per questo Dante la vuole analizzare. Questa sua grande fierezza corrisponde anche alla sua
descrizione fisica esteriore.
vv.28-30 Questa voce rimbomba terribile tra i sepolcri, ecco che Dante si accosta impaurito a Virgilio, ma
questo lo rimprovera facendo corrispondere questo monito alla grandezza di Farinata.
vv.34-36 termine “viso” per indicare gli occhi (rappresentato il gioco degli sguardi). I comportamenti di
Farinata corrispondono alle movenze fisiche; la sua grandezza d’animo scivola oltre il lecito e sprofonda
nella superbia. L’errore di Farinata è l’aver ritenuto di non aver bisogno di Dio; per questo si ergeva con il
petto e la fronte con “dispitto” (significa disprezzo, disdegno”. Queste anime sono condannate a patire per
l’eternità la colpa compiuta in vita. Dunque questo disdegno è lo stesso manifestato in vita, ma qui è
manifestato nel dolore dell’anima.
vv.37-39 “animose” significa “che danno animo, che danno coraggio”. Virgilio invita Dante a parlare e
rispondere a Farinata con parole “conte” (ben disposte, riverenti): questo passaggio specifica come anche
Virgilio senta la grandezza di Farinata ed inviti Dante a fare lo stesso.
vv.40-51 inizia un breve dialogo tra Dante e Farinata, che poi verrà interrotto dalla figura di Cavalcante
Cavalcanti; è un dialogo molto risoluto e fatto da battute secche, quasi sprezzanti. I due si scontrano a
parole, duplicando quell’avversità e quel contrasto politico presente anche nella vita. Questa animosità
corrisponde a quella grandezza d’animo che è di Farinata e che Dante corre il rischio di assumere; questo è
infatti uno dei canti politici della Commedia, perché ci viene presentata un’anima fieramente radicata nelle
sue convinzioni politiche, fin troppo. Quell’eresia e attaccamento ai beni terreni, nel caso di Farinata si
esprime nel suo eccesso di attaccamento politico, espresso sia in vita che negli inferi. Nel v.42 si esprime
questo attaccamento politico di Farinata con “chi fuor li maggior tui?”, perché non resiste alla tentazione di
sapere a quale partito appartenesse. Anche la spinta di Dante nel dover rispondere suggerisce quanto
prevalga la grandezza di Farinata sul poeta, però questo reagisce: risponde a tono dicendo che era un
guelfo, facendo levare le ciglia a Farinata. Inizia una sorta di botta-risposta in cui il politico afferma come
fieramente si sia scontrato con i suoi, soprattutto in due volte (una nel 1260 a Montaperti e l’altra nel
1248). Dante risponde rivolgendosi sul suo stesso piano, dicendo che entrambe le volte i guelfi furono
comunque capaci di ritornare in patria, mentre i ghibellini no. Quella di Dante qui è una dura e aspra ironia,
e questo verso 51 è il vero di massima tensione. A questo punto il poeta-narratore interrompe il racconto
aprendo una nuova sequenza del canto, introducendo la seconda delle anime, quella di Cavalcante
cavalcanti, padre di Guido.
Anche la famiglia dei Cavalcanti era eretica e discredente, e questo uomo è qui presentato in quanto padre:
il suo errore principale è stato quello di essersi reso schiavo di un eccessivo affetto paterno, infatti allo
stesso modo sarà qui imprigionato da questo affetto. Il carattere del dolore che qui imprigiona questo
padre è la sofferenza per il figlio.
vv.52-54 si chiude la parentesi di Farinata e si apre il sipario del personaggio.
Questo padre aveva riconosciuto Dante, e quindi immagina di dover veder lì con lui anche il figlio Guido,
dato che erano primi amici.
Guido Cavalcanti è un grandissimo poeta della generazione dantesca, caratterizzato da quella libertà
filosofica che dante decise di riportare dentro la fede. Guido, a differenza di Dante, rimase fedele ai suoi
idali e non abbracciò la fede come invece fece Dante. Essendo Guido ancora vivo quando Dante scrisse la
Commedia, non poteva inserirlo nei canti, ma riuscì comunque ad elogiarlo attraverso la figura del padre.
Questo omaggio è chiarissimo nella sincerità degli intenti, poiché qui si vuole sottolineare la grandezza
d’animo e contemporaneamente mantenere il discrimine tra il comportamento dell’amico e il suo (di
abbracciare la fede).
vv. 58-60 Dante vuole in questo modo elogiare l’amico attraverso le parole del padre.
Questo canto ci riporta alla giovinezza di Dante, che costituiva con questo gruppo di amici, l’avanguardia
del pensiero fiorentino. È questo un manifesto di amicizia intellettuale, di profondità d’ingegno.
Il padre non poteva sapere che il figlio non fosse ancora morto, perché queste anime sono condannate a
non conoscere il presente: questo facilita Dante a rappresentare il dolore di questo padre. La descrizione di
questo personaggio è figlio di una forte onestà intellettuale: lui è preciso, e dice che non è lì in virtù della
sua intelligenza (umiltà intellettuale), ma Virgilio lo accompagna verso ciò che (cui) Guido non apprezzò, la
fede. L’espressione “ebbe a disdegno” fa eco a quel “dispitto” di Farinata, e accomuna nell’errore queste
grandi anime; è resa con il verbo al passato remoto, la scelta sta nel fatto che si vuole rendere un’azione
puntuale, e non durativa. In qualche modo si da un distacco temporale.
vv.64-72 Dante aveva immediatamente riconosciuto il padre dell’amico. Si svolge tra questi versi un
equivoco: il verbo “ebbe” scelto con aspetto puntuale, qui da a credere al padre che il figlio è già morto, ed
ecco che questo padre si dispera. Dato l’indugio perplesso di Dante, conferma a Cavalcante in modo
affermativo la sua domanda.
La figura del padre rappresenta tutto lo strazio terreno, così come è la figura di Farinata.
Si sono dunque visti gli aspetti della fierezza, della magnanimità, del coraggio, l’altezza d’ingegno e
l’indipendenza filosofica ed intellettuale di Guido Cavalcanti. In questo modo Guido compare nella novella
del Decameron.
Bisogna tener a mente la devozione di Boccaccio per Dante, e il canto X servì anche a costruire la fama di
Guido.
Nel Decameron siamo nella nona novella della sesta giornata, dedicata alle facezie, dei motti di spirito alle
battute argute, che dimostrano l’intelligenza dell’uomo, e sono talmente valide che permettono di superare
anche dei momenti difficili. Questa novella è incentrata su una battuta e questa è stata sempre uno dei
pilastri della comunicazione e della vita di relazione: si sono scritti manuali che indicavano come
strutturarle, ecc. tra le regole vi erano quella di dover considerare chi fosse il destinatario, o che dovesse
essere ben calibrato, tanto da non sembrare né troppo volgari, né troppo aulici.
Protagonista di questa novella è Guida; siamo a Firenze, e tra i temi vi è il rimpianto delle buone maniere
della Firenze passata. Il perno della novella è la battuta come fonte di intelligenza.

Analisi testuale

Guido, sorpreso da dei giovani, riesce a salvarsi con una battuta. Inizia a parlare la narratrice Elisa.
Inizia il gran rimpianto dei tempi passati, per colpa dell’avarizia che le ha sottomesse. C’era l’usanza di
radunare gli uomini facoltosi in brigate, e queste onoravano gli uomini forestieri ospitandoli, e si
mascheravano almeno una volta l’anno; usavano fare delle cavalcate per la città e festeggiavano ogni volta
che ce ne fosse occasione.
Tra queste brigate ne era una di Betto Brunelleschi, il capo brigata (personaggio storico). Egli cerca di unire
al loro gruppo Guido poiché aveva tutti i talenti che potessero desiderare, era una grande mente, un gran
pensatore e nonostante non fossero argomenti che a loro interessavano, serviva una figura come Guido tra
questi.
Dislocazione delle parole (leggiadro parlante uomo molto)
Era splendido, e anche ricchissimo; in qualsiasi occasione era capace di comportarsi. Ma Guido non aveva
mai accettato di unirsi a loro, e secondo Betto era dovuto al fatto che portato ad isolarsi nei suoi pensieri,
fuggiva dagli altri.
Boccaccio riprende la traccia dantesca e riprende la filosofia di Guido (epicurei).
L’unico dubbio su Guido era il suo anticonformismo eretico.

Lezione 14/12/2021

In questa sequenza vengono nominati diversi luoghi di Firenze, luoghi precisi e reali che delineano una
mappa realistica.
Trovandosi Guido davanti ai sepolcri del battistero di San Giovanni, viene a scont5rarsi con la brigata di
Messer Betto. L’indicazione delle arche e delle sepolture rende sì la precisione del luogo, ma è anche ciò
che dal punto di vista narrativo costruisce la figura della memoria di questo luogo: questa memoria si rifà a
quella di Inferno X.
La brigata era un po' indispettita verso la reticenza di Guido nel partecipare ai loro festini; lo provocano
chiedendogli cosa concluderà dopo aver coltivato il suo filosofare ed aver dimostrato l’inesistenza di Dio.
Allora Guido vedendosi circondato da questi, raccoglie la provocazione e prestamente (rapidità leggere di
cui farà memoria Calvino nell’indicare Guido come esempio di leggerezza.)
“signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace”: questa è la battuta lanciata da Guido, e alla
rapidità di questa, corrisponde la rapidità del gesto di andarsene.
La battuta e il gesto vanno in coppia, e la leggerezza fisica del salto rapido, corrisponde alla sua leggerezza e
intelligenza mentale.

I fiorentini interpretano questa enigmatica battuta come follia, pazzia, perché la sua risposta non voleva dir
nulla; siccome Guido aveva fatto intendere che solo a casa loro avrebbero potuto dire cosa fare, essendo
anche loro fiorentini, rimangono perplessi.
Ser Betto invece comprende questa battuta, accusando i compagni di essere loro degli smemorati: spiega
che Guido li ha detto onestamente e con eleganza la maggior villania del mondo. Guido gli ha in realtà
insultati, infatti le arche lì presenti sono le case dei morti, a dimostrare che loro come tutti gli illetterati,
siano peggio degli uomini morti.
Così facendo, Guido rivendicava la sua di vita, affermando di essere loro i morti.

Il vero vivo è quindi colui che pensa, e che riflette sull’immortalità o mortalità dell’anima, al contrario della
superficialità che stava facendo morire la brigata.
Con i versi finali si sottolinea come forse solo Betto si sia adeguato all’intelligenza sottile e acuta di Guido,
facendo emergere la sciocchezza dei giovani.
È proprio questa rapidità e leggerezza di Guido Cavalcanti che colpisce Italo Calvino nelle Lezioni
Americane. In queste Calvino ha istituito una sorta di testamento di quelli che sono i suoi valori di letterato,
e tiene a sottolineare in questi 5 punti cosa la Letteratura deve enfatizzare per sopravvivere al nuovo
millennio.
Al primo posto troviamo la Leggerezza, forse il più paradossale dei valori: la leggerezza di Guido non è
superficialità, ma è leggerezza di pensosità.
L’inizio di questa lezione è programmatico, nel senso che inizia in modo autobiografico. Calvino ricorda gli
esordi di sé come scrittore, ed ai suoi tempi c’era un imperativo categorico di dover rappresentare il
realismo del suo tempo storico. Questa memoria evidenzia la fatica degli inizi che sta nel peso di dover
rappresentare il peso grottesco della storia, che contrastava con la sua passione nello scrivere. La
letteratura racconta in modo leggero, attraverso favole, figurazioni, la pesante e dura realtà.
Ricordano queste difficoltà, evoca il mito della medusa, schiacciato dal peso della memoria. Questo mito
viene in soccorso vista la difficoltà nel dover raccontare la sofferenza giovanile.

Perseo è emblema della leggerezza, e sconfigge la medusa guardandola indirettamente attraverso uno
scudo; è simbolo della leggerezza come valore della letteratura, perché solo una visione distaccata dalla
realtà permette una conoscenza più propria ed efficace. Sta infatti qui la differenza dello strumento, del
mezzo della letteratura e della filosofia, la quale si porta il peso del ragionamento diretto. Attraverso questa
visione indiretta, forse si potrà non avere paura della realtà.
Calvino osserva che la cosa che interessa non è tanto la battuta, ma l’immagine visuale che Boccaccio evoca
con il salto di Guido. Interpretando in chiave letteraria e poetica, è importante il gesto, che è significativo
più della battuta.

Lezione 24/02/2022

Francesco Petrarca

Egli è il codice della lirica italiana. Dal punto di vista dei fattori della comunicazione di Jackobson non è
esatto dire che utilizziamo l’italiano come codice, ma il petrarchese. La lirica europea trova la sua completa
realizzazione nel codice petrarchesco. Vive nel 1304-1374, epoca a confine tra Medioevo ed età moderna;
passa solo una generazione da Dante, ma dal punto di vista culturale cambia l’epoca. Dante è un poeta che
non si può chiamare “intellettuale” (indica l’uomo di lettere secondo un’accezione moderna), ma Petrarca
sì. È un intellettuale europeo: è importante ricordare la sua estrema mobilità, è un peregrino costante; la
sua fisionomia geografica lo porta a transitare nelle corti d’Europa, ad Avignone studia, poi torna in Italia ed
ambisce a diventare poeta laureato. La corona d’alloro gli viene conferita insieme al titolo di civis romanus.
Nelle zone dell’impero centroeuropee visita le biblioteche e scopre alcuni scritti latini (le lettere di
Cicerone) dei quali si erano perse le tracce. Incarna quindi anche la responsabilità di rinnovatore della
classicità e latinità. Esprime questo carattere latino classico, e da questo diventerà la lingua d’Europa.
Petrarca non è quindi solo patrimonio italiano, ma anche europeo.

Il Canzoniere

È la raccolta di liriche, l’opera di una vita; gli studiosi che si sono occupati della storia del libro hanno potuto
ricostruire il percorso dettagliato della composizione di questo libro. È un testo che occupa la vita intera di
Petrarca e ha una prima tappa significativa (1342). La raccolta non si è incrementata progressivamente, ma
li riguarda, corregge fino alla fine. 366 è un numero simbolico, indica i giorni dell’anno più uno, come se
fosse un breviario laico; non corrispondono ai frammenti della vita di Petrarca, ma è un racconto che
organizza il tempo in maniera del tutto libera, quindi abbiamo testi scritti per la morte, sulla morte, che
meditano la scomparsa di Lei ancor prima che avvenisse. Poi ci sono testi del dopo la morte di Laura (con la
sua morte avviene una canonica divisione).
Dal punto di vista della sequenza interna quindi si scolla dalla realtà, e questo avviene da tutti i punti di
vista; la portata simbolica astratta dell’opera è enorme.

Questo libro è sì il racconto dell’amore, ma parla soltanto dell’anima e dell’io di Petrarca; l’io è il
protagonista assoluto. Tutto è polarizzato sul soggetto che parla, quindi la funzione emotiva di Jackobson
qui è portata alla massima potenza; a Petrarca non importa nulla del lettore, ma solo investigare il proprio
io e garantirsi un posto per l’eternità.
Questa è una caratteristica generale della lirica, perché è uno strumento attraverso il quale si esprime l’io; la
componente soggettiva è sempre fondamentale. Il testo è epocale perché permette alla cultura europea di
ritrovare la strada dell’introspezione, tanto d’uso nella cultura classica e dimenticato dall’uomo medievale.
È un capolavoro della letteratura italiana perché questa ricerca la fa attraverso la poesia; vuole essere la
dimostrazione che questo percorso di scavo interiore può essere raggiunto solo attraverso la poesia;
significa mettere la poesia al posto di dio, assegnandoli il ruolo più alto nella scala dei valori.
Nell’epoca medievale la poesia era invece ritenuta una distrazione.
È quindi anche definito un “romanzo autobiografico”.

Il sonetto proemiale si “stacca” dagli altri 365; va considerato come a posteriori, è la chiave di lettura del
testo.
Per entrare nel canzoniere può essere fondamentale il numero 3 del Rerum Vulgarium Fragmenta. È
questo un componimento che ricorda l’innamoramento, raccontato qui per la prima volta. Il lettore del
canzoniere troverà altri racconti in versi che riguardano questo momento (come quelli dell’anniversario).
Avviene il 6 aprile 1327, durante la funzione del venerdì santo nella chiesa di Santa Chiara d’Avignone,
quindi sono lì i credenti concentrati solo sulla passione di Cristo, ma in realtà Francesco e Laura si
distrarranno guardandosi. Laura muore nel 48 durante la peste, è esistita storicamente, e questo incontro è
davvero avvenuto, ma non il 6 aprile, bensì il 10. Gioco-forza di Petrarca sta nel collocare il giorno
dell’innamoramento nel giorno della morte di Gesù (realtà trasfigurata dal testo poetico).
-La Parafrasi è sorella della traduzione, tradurre le parole straniere. La parafrasi è un’operazione comunque
soggettiva e non assoluta. Significa poi sciogliere le figure retoriche presenti nel testo: la lingua poetica si
muove tutta nel mondo della connotazione. Visto poi che la poesia lavora combinando e selezionando,
quindi è fondamentale riordinare le parole in una catena sintattica-.

Sonetto di anniversario. È un testo che ricorda il momento dell’innamoramento e lo fa volendo ribadire la


certezza della colpa: Petrarca si sente in colpa per questo amore, perché a differenza di Beatrice, Laura è
tutta terrena. Dunque il rovello, l’inquietudine, il dramma interiore sta nella percezione e nella sofferenza di
questa lacerazione interna. Questo componimento vuole contemporaneamente dichiarare la colpa e
discolparsi: in questa sua irrisolutezza sta il motore dello scavo interiore.

vv.1-4 I primi due versi sono una lunga perifrasi per indicare il venerdì santo. C’è un’allitterazione della s al
primo verso “pietà” indica la morte di Gesù. “factore” è un latinismo che indica il Creatore.
Anche se ci si potrebbe fermare alla prima frase parafrasata per dare un senso, Petrarca vuole in realtà
sottolineare il tema del dolore di Gesù, lo stesso cordoglio che lui avrebbe dovuto patire in quel momento
invece di guardare lei. Ai fini della comunicazione del messaggio, mettere sotto gli occhi la pietà di Gesù
non è inutile.
C’è poi una linea semantica che unisce i “rai” (in quanto luce che viaggia) con gli “occhi” alla fine della
quartina (la luce conduce agli occhi di lei). Ecco qui il dramma della sovrapposizione, la lacerazione: gli occhi
di lei sono confusi con la luce (di Dio).
Il verbo “preso” al v 3 è un verbo metaforico, che indica l’innamoramento. L’innamoramento per cattura
era una situazione topica anche nella tradizione precedente (Jacopo da Lentini, Dante, ecc).
Anche il verbo “guardai” rientra nel campo semantico della vista. Il verbo “legaro” è invece nello stesso
campo semantico del verbo prendere. La prima quartina quindi confessa la colpa.
vv.5-8 La seconda quartina fornisce una piccola progressione di significato, perché dopo aver confessato la
colpa, il poeta comincia a lavorare per discolparsi. Il senso della quartina è che “posso sentirmi giustificato
dal fatto che quella situazione non mi pareva proprio la circostanza, non ero pronto a reagire”.
“riparo” appartiene a quella semantica militare e guerresca. – enjambement - “contra colpi d’amor”
allitterazione della sillaba “co”, che imita i colpi veri e propri.
Dopo l’altro enjambement al verso 7, “secur senza sospetto” è un’altra allitterazione che lo segna ancora di
più; inoltre è qui presente l’eco letteraria (come disse anche Francesca in Inferno V “soli eravamo senza
alcun sospetto”: qui Petrarca vuole ricordare il più grande e importante innamoramento per sorpresa.
Inoltre anche Francesca provava a discolparsi. Questa volontà di espiare la colpa continua anche nella
prima terzina…
vv.9-11 l’immediata allitterazione delle “m” indica una continuità con l’ultimo verso della quartina
(commune è un latinismo).
Riguardo il verso 10, in altri componimenti Petrarca si rammarica di non aver chiuso gli occhi. Nel
Canzoniere funziona un modo estetico particolare che è quello della variazione sul tema.
Nell’ultimo verso della terzina il verbo è al presente, il quale ribalta nella contemporaneità dell’Io quel
momento; è una commemorazione che trasfigura secondo il momento presente, un avvenimento passato.
Questa confessione di colpa così patetica “son fatti uscio et varco” vuole indicare con questa dittologia
sinonemica della stessa immagine metaforica (uscio et varco) l’intensità del pianto.
Siamo giunti ad uno dei culmini del componimento perché da qui in poi cambia tutto: l’ultima terzina è
sorprendente…
vv.12-14 Petrarca ci spiazza, perché mette da parte tutto ciò che era stato detto: lui soffre non per la sua
colpa, ma per non essere stato contraccambiato. Dunque l’origine della poesia di Petrarca è questa
lacerazione interiore, questa consapevolezza della colpa ma al contempo l’incapacità di liberarsene. È
un’incapacità che il poeta dissimula, nasconde. È un testo terapeutico, perché permette di vedere in azione
una delle funzioni della poesia dal valore terapeutico per chi scrive e per chi legge.
“Li” al v.12 è riferito a lei. La difficoltà del passaggio dal testo al lettore è che questa Laura non si riesce
nemmeno a nominare, ma resta personificata nella figura di Amore, per questo la particella pronominale è
al maschile. La difficoltà logico-sintattica di questa terzina è proprio dovuta al fatto che Petrarca sdoppia
continuamente queste due figure. Il testo vuole svelare il lato oscuro e profondo del cuore diviso di
Petrarca.

È il componimento della lode della bellezza di Laura, è un sonetto che la rievoca nella visione di quel
momento; poi subentra il tema del tempo che passa (constatazione che la bellezza può passare, ma
ciononostante l’amore per lei durerà in eterno). Dunque alla lode per la bellezza della donna, Petrarca
aggiunge di suo la suddetta constatazione dell’amore che vince il tempo.
Essendo che il testo deve dichiarare la vittoria dell’amore sul tempo, sono presenti tutti i tempi verbali. La
proiezione del futuro (non presente come verbo) è invece data dalla metafora della figura dell’ultimo
verso.
È infatti nel finale che “lancia la freccia”. La figura dell’arco e l’intensità del gesto sono date proprio dalla
forma di questo, come se fosse una sentenza (frasi che hanno valore universale). Per Petrarca quindi
rappresenta la poesia: è qui il senso di colpa, ovvero di aver scambiato qualcosa di imperituro (salvezza
dell’anima, fede) con l’arte (da considerare legittimo oppure no). Lui desidera la gloria dei posteri

v.1 Petrarca qui gioca con il nome della donna (laura è il femminile di lauro, l’alloro, pianta che incorona i
poeti). Anche in “oro” (segnale della divinità) è presente il suo nome. Anche il vento chiamato laura è il
vento della mancanza, che fa materializzare la donna amata mancata.
Lezione 28/02/2022

In questo sonetto vige il tema della solitudine. Questo viene considerato fra gli archetipi della ricerca della
solitudine come possibile rimedio alle sofferenze amorose. Questo è un tema che arriva dall’antico, ma che
troverà una felice riproposizione in epoca romantica. È un componimento che verrà attualizzato dalla
cultura romantica che si ritroverà nell’immagine dell’uomo che soffre e che cerca cura nella natura.
Dal punto di vista formale e strutturale c’è un grande equilibrio, caratterizzato da una serie di strutture
binarie che determina l’equilibrio quando ragioniamo sui moduli del “2” (struttura binaria, antitesi, ecc.).
Questa armonia viene confermata dalla forma delle strofe, compatta: ogni strofa contiene e racchiude un
concetto (non ci sono punti in comune e di continuazione fra una strofa e l’altra).
Non si nomina mai la donna amata; il paesaggio viene evocato; il poeta non ci dice veramente il motivo di
questa sofferenza, dunque è una passione che non viene ostentata, eppure traspare da tutto il testo.

Il tema della solitudine è un tema controverso; uscendo dalla stagione romantica, essa non è vista come
qualcosa di completamente negativo. Nella cultura classica e medievale invece, Sant’Agostino per esempio
(interlocutore di Petrarca), aveva condannato la solitudine quando generata dal furor amoris (l’anima
dell’uomo che si isola perché è innamorato corre grandi pericoli)

Emerge da subito la sintonia con la natura e anche il tema dell’uomo che si isola perché non viene
rispettato dagli altri (deve scappare dagli sguardi altrui perché gli si legge in faccia la sua passione amorosa).

vv.1-4 La prima quartina contiene esplicitamente il tema della ricerca solituine. Sottolineando “peniseroso”
nella parafrasi possiamo distinguerlo da “pensoso”, che all’epoca di Petrarca conteneva un intensivo (alla
latina le desinenze -osus indicavano un’intensità) di chi rimugina in maniera dominante. Questa prima
coppia viene rafforzata dall’allitterazione della “o”. Tra il verso 2 e 3 c’è un enjambement (giustificato anche
dall’inversione (anastrofe) sintattica tra gli elementi della frase).
“mesurando” è una metafora (il verbo metaforico partecipa al significato del “solo et pensoso” anche per la
sua forma perifrastica il passo lungo e lento).
“tardi e lenti” sono una coppia, ma non del tutto sinonemica: tardo non significa solo “in ritardo” ma
“pesante”.
Nel v.3 è presente una doppia anastrofe, la quale determina un incredibile rallentamento, così come il
passo del poeta.
“vestigio” del v.4 è l’impronta

Lui vorrebbe tener nascosta la sua passione. Al topos della lirica cortese “l’amore deve restar segreto” si
affianca nella sua coscienza una verità portata dalla cultura cristiana: quella che la persona sincera non
nasconde i propri sentimenti (il viso deve essere lo specchio dell’anima).
vv.5-8 “schermo” deriva dal lessico militare, e questo giustifica anche il termine “scampare”.
“accorger delle genti” può essere l’indiscrezione, l’invadenza.
“manifesto” è l’aggettivo che qualifica il comportamento della gente, che non è comune. Vuole usare
questa sfumatura di significato per sottolineare la non sol curiosità della gente, ma anche l’indiscrezione nel
manifestarla. Si riprenda il sonetto proemiale “favola fui gran tempo” (sono stato preso in giro al lungo).
È inevitabile che la gente se ne accorga perché dai gesti privi di allegria (“spenti” è metafora). È anche qui
presente un’alitote: “privi di allegria” e non “disperati”. Lui sceglie la metafora e l’alitote per creare
un’antitesi con “avampi”: essendo tristi questi gesti, denunciano come all’’interno questa malinconia brucia
(antitesi fuori/dentro giocata con il campo semantico della luce).

Il sentimento amoroso è irresistibile, e si esprime anche con malinconia (temuta in epoca medievale e
ripresa nei romantici) e tristezza. Il suo controllo sfugge non solo in relazione agli altri, ma anche nei
confronti della natura.
vv.9-11 Non solo le altre persone sanno di ciò che provo, ma addirittura (iperbole) penso che ormai i monti
e le pianure, e i fiumi e i boschi lo sappiano. Qui serie di quattro elementi, disposti a due a due e legati dalla
congiunzione “e” (polisindeto). “tempra” sta per qualità, e vuol dire purificare e lasciare l’essenza.
Fin qui il componimento aveva seguito una sequenza logica, ma col finale di questa terzina appare una
sorpresa (finora Petrarca aveva detto che tutti sanno che lui è innamorato, e qui dice in tre parole ciò che
non dovrebbe dire, ovvero che l’unica che non sa nulla è proprio Laura). “altrui” rima con “lui” dell’ultimo
verso, quindi questo pensiero ossessivo che lo domina in realtà non lo conosce davvero, è alienato.
Il finale del componimento determina il tormento del poeta, quella che noi moderni chiameremmo
alienazione. Il poeta, l’Io, non è mai solo, ma è sempre nelle mani di qualcun altro (perché Amore lo
perseguita sempre).
vv.12-14 nel verso 12 si riprende la struttura binaria.
Il fatto che sia un’ossessione è sottolineato dall’ultimo verso, in cui si rimarca l’Io

Lezione 3/03/2022

La scalata del mondo ventoso

Si entra in una parte della produzione di Petrarca che riguarda la stesura in latino, ma in realtà il latino era
lingua quasi madre per lui, d’uso molto interno e comune, quasi più del volgare.

Lui la modella sulla cultura classico medievale. La raccolta delle epistole di Petrarca si intitola “Lettere
Familiari”; è lo stesso titolo delle Lettere di Cicerone. A queste aggiungiamo le Lettere Senili, a comporre un
corpus che si modella sul modello di Cicerone.
Questa scelta ha un valore biografico importante: nel 1345 ritrova gli scritti di Cicerone nella biblioteca di
Verona; spesso in questi casi il verbo “ritrovare” significa “riconoscere di nuovo”. Per questa raccolta
epistolare si è soliti ricordare come sia stato Petrarca il primo grande autore dell’Umanesimo.
L’Umanesimo riguarda la centralità dell’uomo, rispetto al precedente periodo medievale. L’uomo diventa
misura di valore del pensiero, dell’arte, della politica. Questa centralità riguarda anche il ritorno agli
antichi: c’è una riscoperta classicista, in termini non di passato come reliquia da venerare passivamente, ma
riprendendo gli antichi considerandoli come contemporanei: lontani nel tempo, ma non diversi, capaci di
dialogale e di servire per il presente (partendo dalla constatazione e consapevolezza della crisi del
presente). Quello con gli antichi è un rapporto di imitazione, ammirazione e dialogo.

Il passaggio epistolare soprariportato è un po' estremo, poiché funge da critica. La ripresa dei classici non
ha uno scopo immediato, ma ha un valore intrinseco. La cultura ha educato l’uomo a guardarsi dentro e a
raffinare il pensiero. È una sapienza che educa i modi del pensiero in quanto tale, nei contenuti e nella
forma.

Le Lettere sono le tessere di questo ragionamento sull’uomo; Petrarca percorre attraverso le epistole le
tante strade della sua umanità, infatti perdono valore contingente e diventano testi letterari sganciati dal
presente che richiamano all’esigenza di creare un autoritratto modellizzante dell’Io, il quale non
contraddice il Canzoniere.

Questo è un testo che assume valore assoluto, che va al di là del mondo concreto, che va al di là di tutte le
dimensioni (luogo, tempo e persone).
Si racconta di un viaggio, di un’escursione che Petrarca fa. Nell’aprile 1336 lui decide di dirigersi verso
questo monte vicino a Valchiusa, in Provenza. Due giorni dopo insieme al fratello compie questa scalata,
che viene raccontata immediatamente per lettera. Nella finzione della lettera l’autore immagina di scrivere
immediatamente: questo testo risale al 1352/1353. Il fatto di ricomporre la lettera significa che non c’è una
coincidenza temporale, e questa distanza va interpretata:

Qui Petrarca inserisce tutte le dimensioni cronologiche, dalle quali evoca questo destino, e confessa che
questa scalata e la trasfigurazione letteraria di quel viaggio riguarda una scala di priorità che prescinde dal
tempo, vale per sempre. Dal passato si sposta verso il presente e poi futuro. Questa dimensione
cronologica aperta si spinge all’indietro non solo nei termini individuali della sua vita, ma scavalca i confini
della geografia del poeta per andare indietro nella storia antica. Sottolinea l’importanza del testo facendo
riferimento ai classici:

Petrarca vuole dire che la vera molla che ha fatto partire l’iniziativa del viaggio è la lettura di un episodio
analogo nelle Storie di Livio (presenti nella quarta decade delle storie di Livio, riscoperta da Petrarca): qui
Livio racconta di Filippo, che aveva compiuto un’escursione sopra il monte Emo, della Tessaglia, e lì egli
assicurò di aver visto due mari, l’Adriatico e il Nero.
Con questo paragrafo si avvicina progressivamente alla fonte del suo viaggio. Al di là del dato erudito, è
importante sottolineare l’immenso valore che aveva attribuito a quell’episodio, tanto da replicarlo.

È una geografia idealizzata, interiore, che assume una dimensione è più alta in riferimento agli antichi. Ciò
che importa è che questa salita vada letta come un viaggio nell’interiorità, significa infatti altro.
La cosa importante è l’immedesimarsi del lettore nell’autore; il destinatario della lettera è (oltre il lettore), è
l’amico Dionigi da Borgo San Sepolcro. Quando Petrarca scrive questa lettera questo amico era già morto
da dieci anni, quindi è una figura la cui storicità vale fino a un certo punto, più che altro come insegnamenti
spirituali ed interiori. Questo interlocutore risponde alla lettera, quindi fa parte di quella categoria di
interlocutori con i quali egli dialoga, (i classici) come Sant’Agostino, Virgilio, Seneca.
Questo “chi” deve anche comprendere il fratello Gherardo, compagno di viaggio.

Nessuno degli amici sarebbe stato adatto a compiere quel viaggio con lui. È una figura centrale nella sua
poetica. Anche lui diventa monaco, e questa scelta del fratello è una di quelle cose che lo mandano in crisi.
Petrarca scarta tutte le altre persone perché vuole andare da solo, per scavare nella sua interiorità. Ad
occupare interamente il testo c’è l’Io. Sia la dimensione del tempo che dello spazio sono plasmate per
creare l’autoritratto.

Si costituiscono fin da subito le spinte dovute a dei vettori che polarizzano la materia raccontata. La più
semplice di queste è quella basso/alto (la scalata), col fine di un traguardo di maturazione interiore. È una
dicotomia accompagnata dall’agilità/fatica: Francesco procede a fatica, il fratello ha in mente l’obiettivo, e
procede con sveltezza. È quella parte dell’Io che salva la coscienza, quella che indica la retta via.
Fin da subito Petrarca ricorda, citando Virgilio, che l’ostinato lavoro tutto vince. Il primo ostacolo è
l’incontro con un pastore che cerca di distoglierli dal salire, avendo lui fatto l’esperienza della scalata ed
essendone rimasto deluso. Nonostante questo tentativo, in loro cresceva il desiderio di salire.
Nella sequenza riportata si presentano le prime coppie, dicotomie, le differenze tra Gherardo, chiaro
d’intenti, e Francesco, vittima di una pigrizia che si connota come quell’accidia che appesantisce l’animo,
quella debolezza che distoglie dall’obiettivo giusto, più difficile delle scorciatoie.
Questo tema della pigrizia e dell’accidia è molto presente nel Canzoniere, una pigrizia morale, incapacità di
resistere alle lusinghe del peccato.

Questo paragrafo sottolinea l’incapacità di imparare dai propri errori; questo deve essere interpretato in
senso allegorico. La Natura è un grande ostacolo per l’umana volontà, occorre essere padroni di sé per
resistervi, e cedendovi non si può pensare di essere nobili.
“tre volte” è un numero simbolico, anche “valle” per antonomasia è la valle delle lacrime, del peccato.
“dalle cose materiali alle incorporee”: autorizza ad interpretare in senso spirituale ciò che sta raccontando.
I terreni più facili sono i più invitanti, più arduo è volgere il pensiero a cose nobili e spirituali, ecco la facilità
dell’errore. Di fronte alla constatazione della debolezza umana, ecco che il pensiero volge a Dio, come
conforto e salvezza nel suo aiuto.
Facendo un bilancio, si trova pronto a procedere.

Questo iniziale passaggio pittoresco (del panorama visto dal monte) rimanda immediatamente alla natura
classica. La visione dell’Italia (non del tutto realista) appariva più all’animo che agli occhi: questo apre ad
una geografia tutta interiore (amico, patria, anni giovanili, ricordi…).
Nei passaggi successivi si espliciterà anche il tormento amoroso, e la considerazione di come quell’amore
abbia lasciato il passo ad un altro desiderio terribile, quello della gloria.
Diventa una confessione interiore del proprio animo. In questo percorso introspettivo raggiungere la vetta
significa una tappa che serve allo scrittore come momento di bilancio. Questo episodio porta alla memoria
il ricordo dell’amore e della sofferenza d’animo, che lo fa passare “dai luoghi ai tempi”

Lezione 7/03/2022

La metafora delle tempeste è un rinvio alla tempesta amorosa, infatti esplicita il suo nemico per
antonomasia…

Questo sdoppiamento è la confessione diretta (alienazione del poeta). La prima passione è l’amore, la
seconda è la fama, ma appartengono alla stessa categoria che offusca la limpidezza d’animo dell’uomo.
L’errore nasce dall’incapacità dell’uomo di riconoscere il bene.
Raggiunta questa confessione, il viaggio prosegue e continua l’alternarsi dei moti dell’animo. Interviene un
nuovo elemento che viene in soccorso dell’io: il dialogo con gli antichi…
Antitesi tra la piccolezza del libro e la ricchezza.
“sortes biblices”: era abitudine degli uomini di fede aprire a caso la bibbia e lasciarsi ispirare dal passo che
capitava in base al momento in cui lo si faceva. Il termine “clericus, chierico” al tempo di Petrarca significava
“dotto, intellettuale”. Così come la bibbia, Petrarca lo fa con le confessioni di Agostino.

È una frase che colpisce Petrarca, perché è un richiamo all’importanza dell’anima e dell’interiorità umana. È
il primato del pensiero sull’azione, dell’animo umano rispetto al mondo esterno.
È un passo principale verso la costruzione del sistema dei valori dell’Umanesimo, quella forma di saggezza
che nasce dalla padronanza di sé.
“anche dai filosofi pagani” rinvia a Seneca e ai moralisti latini.
Quindi non solo richiamo ad Agostino e Seneca come conferma, ma una identificazione con questi antichi.
Non è tanto la richiesta di aiuto che Petrarca fa, ma è proprio il fatto che se ne senta parte la cosa
importante.
La lettera termina con questo risultato e traguardo raggiunto, della necessità di guardarsi dentro e di
mettere da parte i vari spettacoli terreni. La mira non è il raggiungimento dei propri desideri, ma la
padronanza di sé.

Lezione 7/03/2022

Il sonetto 62 si può mettere a fianco della suddetta lettera. Presenta un personaggio dal punto di vista
introspettivo non molto diverso da quello del monte. Questo sonetto risale al 1338, ed è uno dei
componimenti “dell’anniversario dell’innamoramento”; suggerisce una riflessione drammatica e straziante
perché fa fare mente locale sulla vanità della passione terrena e sull’incapacità di superare tale
attaccamento.
Si costruisce come una preghiera al padre nostro.

Già nell’attacco è in forma di preghiera, una grande invocazione che il poeta fa a Dio, invoca il suo aiuto con
un’apostrofe iniziale. Le due quartine sono legate da un unico periodo: la durata della strofa vuole
rappresentare la lunga durata della sofferenza. “perduti” significa giorni sprecati. Il fatto che le notti siano
state spese nel pensiero d’amore (dedotto dal verbo vaneggiare-termine tecnico nel dizionario
petrarchesco per indicare la passione amorosa).
“fero” significa letteralmente feroce, ma è un po' metaforico quindi tradotto come terribile.
allitterazione delle “n” ultimo verso prima quartina. Nell’ultimo verso il poeta individua nell’amore la
sorgente diabolica delle sue disgrazie. “per mio mal” è la mia perdizione (anche qui allitterazione).
La seconda quartina più o meno riprende la prima; “imprese” non è generale, perché in realtà deriva dal
lessico bellico; qui è una metafora che va colta perché dopo si parla di reti” e di un avversario. Sono quindi
le battaglie che costituiscono la nostra vita.
L’avversario per antonomasia è il diavolo; avendo il diavolo le corna Petrarca chiede non solo che sia
sconfitto, ma addirittura umiliato, facendogli perdere le corna.
Lezione 10/03/2022

È una preghiera a Dio affinchè possa non abbandonare il soggetto; questo sonetto presenta la confusione
ambigua fra Amore e Dialogo, poiché entrambi lavorano con gli strumenti dell’inganno.
Nessuna traccia della donna se non “gli atti adorni”, ma c’è un collegamento contiguo con il male (la
perdizione)

La seconda quartina inizia di nuovo con un’apostrofe rivolta a Dio, affinchè possa soccorrere con la grazie e
ricondurre il poeta sulla retta via.
Qui non ci sono piu dubbi che l’avversario sia il siavolo tentatore, perché vengono esplicitate le corna, . al di
la degli affetti, rientra nel codice della poesia questo perché costruisce un tessuto bellicoso giàa vusto nella
parte del dialogo. Come il diavolo tentatore, il poeta agisce per sconfiggere il nemico. Diavolo perifrasi di un
duro avversario o un antonomasia (nemico per antonomasia è il diavolo). Il nemico è ostinato come sono le
tentazioni.

Gli affetti calano e il testo ritorna nella modalità di lamento dell’inizio. Indicazione cronologica attraverso il
verbo metaforico “volgere”, verbo scelto perché ha in mente quella figura acronica del tempo come
qualcosa che gira, che volge e si svolge.
‘dispiegato giogo’ è metafora, perché il giogo è uno strumento chye si mette sui buoi affinchè tirino l’aratro,
è uno strumento di sottomissione, è scelto infatti da petrarca per indicare la passione al quale è
sottomesso.
L’ultimo verso indica che questa passione crudele è piu dannosa nei confronti di chi piu facilmente si
sottomette a lei, verso chi soggiace. Intende indugiare con questo verso nei confronti della sua
colpevolezza. L’essersi sottomesso alla passione è una colpa di debolezza con delle conseguenti
responsabilità. Questa immagine della sottomissione apparteneva all’universo della situazione amorosa
(dante a proposito scriveva che tra le anime con paolo e francesca ci sono le anime che sotto la ragione
sototmettono il diletto).
Petrarca nel primp verso non s frive ‘indegno’, ma non degno: sceglie alitote (negazione del contrario) per
affermare cio che davvero va confessato, ed è frutto dell’errore di chi cede alla tentazione.
Allitterazione delle m e n. rima piena di anno-affanno, che si completa nella parola stessa.
“riduci” nel senso latino di ‘riconduci, riporta, concerti’. ‘vaghi’ molte sfumature: l’innamorato e chi è
insatbile e appartiene alla stessa famiglia di significati della vanitas (possiamo tirare una lnea con quel
vaneggiando dei primi versi)

Lor è definito ai pensieri(declinazione del proprio io in tanti soggetti). L’anniversario deve servire a
riconrfare l’intervento divino della grazia, c he valore ha la memoria della c roce (solccorso della propria
debolezza). È un componimento che grida il bisogno disalvezza e di libertà dal peccato. Insiste nel valore
della libertà. Libertà per gli antichi cultura classica era un concetto piu grande: è l’autonomia dell’uomo in
tutto e per tutto, totale mancanza di condizionamenti esterni, è la possibilità di privarsi di qualsiasi
condizionamento esterno nella propria solitudine,k e in questa dimostra di non aver bisogno di nessuno, è
la libera accettazione del proprio destino. Nella cultura cristiana invece il concetto di libertà si complica,
cambia: è si conoscenza di se e introspezione, ma l’uomo libero e cristiano sa che se la liberta fosse solo
tale, non sarebbe la felicità. La felicità non è nella solitudine, ma nell’incontro con l’altro, nel compromesso
(che è dio): ecco perché l’uomo liberp deve chiedere aiuto a dio.
Questo per comprendere il dramma di petrarac che non riesce a mettere a fuoco l’altro al di fuori di se.

Questo è un componimento esemplare per comprendere la varietà di petrarca, le escursioni che lui compie.
Punta ad elogiare la donna come cio che di piu bello possa esserxci di concepibile per l’uomo. È un testo
che viene ricordaro perche dovumento dell’amiciazia tra petrarca e l’artista simone martini: questo aveva
donato a francesco un ritratto di laura, pertrraclo ringrazia con questo sonetto e con il succesisvo.

Questo componimento ha di originale che non celenbra la bellezza fisica, ma interiore (però partendo da un
ritratto). Quindi si va verso l’iperbole perché immagina che simone martini in quel ritratto abbia saputo
rendert conto dell’immagina di lei vista in paradisio, una volta ridisceso ha potuo riprodurre la bellezza di
lei. Quondi viene celebrata sia la bellezza di lei che la brsvursa di simone martini. È come se l’intenzione
voglia concentrarsi su questo messaggio: laura è sovraumana, perché il sentimento amoroso porta in cielo.
E ci riavvicina allimmagine della donna ancìgelica di dante

Il testo è tutta un’iperbole, quindi si apre i ìn questa esagerazione. È la figura della dunaton (figura che dice
attraverso un concetto messo a parole, l’impossibile. Proprioo l’impossibilità di questo evento serve a dare
forza ad un affermnazione. “per mirar” è per quanto policleto ammirasse. Mille anni è sia riferoto a questo
impossibile di stare mille anni a fissarla, ma è u mofo per render euna diemensione temporale enorme della
dimensio nella dpittura (tuuti qwuelli che negli ultimi mille anni sono stati i piu bravI) : la bellezza di laura è
inattingibile.

La seconda quartina descrive il viaggio di simone in paradiso.


‘parte’ è una rima equivoca con il ‘parte’ del terzo verso della prima quartina. È la stessa parola ma con
significato differente.
Il componimento serve per elogiare policleto? No, elogia simone martini e laura

Petrarca vuole dre che quell immagine, pur rappresentando la bellezza fsica, riesce a esplicitare la bellezza
interiore. “imaginar” si puo tradurre con ideare, ma è piu giusto immaginare, perche rende ò’idea di un
concetto stratto reso in forma di immagine. La bellezza assoluta di laura viene presa in paradiso e fatta
immagine.
La seconda terzina specifica la sostanza astratta della bellezza di lei,e contemporaneamente elogia le
cirxostanze di questo ritratto. Il termine piu misterioso è ‘cortesia’: non è la semplice gentilezza, ma include
una forma di generosità, che deriva da un animo grande. È un atto gratuito quello di simone martini che
appartiene gratuitamente alla bellezza straordinaria di laura, come se c’è una circolazione continua di
grazia, eccellenza, perfezione. ‘caldo e ‘gelo sono espressioni metafroische che indicano il passare delle
stagioni, quindiil passare del tempo a cui non è sottomessa la sua bellezxza.
‘Cominciarono a sentire i vincoli della terra’: simone martini ha potuto fare qualcosa di sovraumano.

È un componimento che lamenta la disperazione: mancanza di speranza. Quando l’uomo non ha piu
spoeranza vorrebbe morire, e infatti questo compoimento continene in forma implicita cio che era
proibilto, ul deisderio del suicidio. La disperazione arriva quando è totale e totalizzanye, e non c’è piu
conforto nel passatoe. Nel futur. Questo ipiano cronologico del presente costruisce il componimento.
‘giornate’ è un termine militare che significa a marce forzate, come une sercito che incombe. Per rendere
questa idea c’è il pòolisinteto e l’anafora.

Prima parte della quartina riprende quanto già detto. Ultimo verso è il riferimento al suicidio, il fatto che i
pensieri sono diventati insopportabili

C’era bisogno di una grande metafora: quella della nave che sta subendo una grande tempesta e che chiede
soccorso… il futuro non prevede nulla di buono. ‘fortuna’ è il fortunale, ovvero la tempesta. Finale
indugiare malinconico sugli occhi di lei. ‘lumi’ nella metafora continuata sono le stelle che guidano la
navigazione e che non si vedono piè perché c’è la tempesta.

Lezione 21/03/2022

Poesia contemporanea

Andrea Afribo, docente di storia linguistica italiana a Padova, fa parte della scuola padovana, la quale
dimostra che la storia della lingua si è fatta sui poeti: di questioni linguistiche si sono occupate i letterati, gli
autori.

Valerio Magrelli

 Nasce a Roma nel 1957


 Laurea in Filosofia alla Sapienza, studi anche alla Sorbonne
 Insegna Letteratura francese a Cassino
 Francesista: traduce Verlaine, Valèry, Debussy, Peguy
 Ha pubblicato nel 1990 un Profilo del Dada
 Importante, per le implicazioni delle tematiche dell’occhio e della vista nella poesia, il volume
Vedersi,vedersi. Modelli e circuiti visive nell’opera di Paul Valèry, 2002
 Ora serrata retinae, Feltrinelli, 1980
 Nature e venature, Mondadori, 1987
 Esercizi di tipologia, Mondadori, 1992

È ritenuto tra i più bravi poeti contemporanei. Nasce a Roma nel 1957, e si laurea in Filosofia, infatti la sua è
una poesia tutta di pensiero, giocata sui rilievi della ragione e della razionalità. È un poeta ‘anti-lirico’,
ovvero non autobiografico o sentimentalista: si muove tutto intorno alla ragione. Anche i suoi studi alla
Sorbona sono importanti, perché si occuperà di insegnare letteratura francese: la sua poesia si nutre di
letteratura francese, la quale ha continuato a prestare in maniera costante alla letteratura italiana (questo
riguarda anche la prosa - si pensi all’esperienza parigina di Calvino, che venne a contatto con coloro che
trattavano la poesia quasi fosse matematica -). Calvino infatti fu uno dei primi apprezzatori di Magrelli,
poiché apprezzava il suo indugio raziocinante molto e il suo spirito geometrico e razionale, che si incontra
con la scienza, forgiando l’ordine a cui appartiene Magrelli.

In quanto francesista, Magrelli traduce i poeti francesi: la traduzione è un’opera fondamentale per un
poeta, perché assorbe e porta con sé ciò che apprende. In quanto filosofo, è stato anche studioso delle
avanguardie, tra cui il Dadaismo, quel movimento che apre alle avanguardie del ‘900 (avanguardia che
vuole distruggere la tradizione). Questo è importante perché lui è cresciuto nel clima delle avanguardie: la
poesia degli anni ’80 è quella della protesta: Magrelli ha deciso di protestare contro la protesta, facendo
una poesia classica, limpida, armonica ed equilibrata.
Per l’importanza della tematica dell’occhio, dello sguardo, si può ricordare l’attenzione teorica negli studi
della percezione (Vedersi vedersi).

Ora serrata retinae

La prima opera, Ora serrata retinae, 1980, appena uscita fece scalpore e si dovette infatti ristampare; i
lettori furono catturati dall’originalità.
Il titolo fornisce già una chiave di lettura: è in latino, quindi è un tecnicismo e viene da un lessico
specialistico, in particolare viene dalla medicina (si segnala l’attenzione di Magrelli per le scienze esatte e i
rispettivi codici linguistici).
-È un significato affidato a un gioco di parole: mi piacevano questi due termini che sembravano formare un verso
latino e insieme invitare alla preghiera. In realtà il loro significato è completamente diverso, ma mi piaceva
alimentare l’equivoco. Ora serrata retinae è un’espressione del latino scientifico. Mi ha sempre affascinato
l’idea di una lingua morta che finisce nei manuali di medicina. Ora serrata retinae nella terminologia oculistica,
indica il margine frastagliato della retina, cioè la linea al di qua della quale l’occhio risulta percettivo. Si potrebbe
tradurre bene come “linea di confine della percettività”. Molte poesie del volume sono dedicata agli occhi,
quindi, con questo falso verso, mi sembrava di dare una spia, una possibile chiave di lettura di tutto il libro.
Inoltre, amavo questa ridondanza di r, questa musicalità così soffusa che invece contrasta radicalmente con la
spiegazione strettamente tecnica (L’enigmista…).-

È un gioco di parole perché la bocca o è aperta o chiusa. Il primo termine è la bocca ma anche il termine
pregare. Introduce subito al carattere del poeta, per il compiacimento testuale. Il fatto che l’espressione
medica che viene dal passato, ma che è ancora attuale, dimostra l’attenzione di Magrelli nei confronti della
tradizione. Di lui si sottolinea a volte l’eccessivo celebralismo, l’insistere nell’aspetto mentale e celebrale.

Così come avviene nella poesia antica, non ci sono veri e propri titoli, ma sono attribuiti dei lettori, di solito
sono i primi versi.

Così si percorre la vita

Si coglie immediatamente l’aurea classica e limpida Questa è una sorta di definizione della vita, del tempo
che passa. I campi metaforici che si attivano sono comuni: la vita come un banchetto, un pasto, e come un
percorso, un viaggio.

Lezione 24/03/2022

Questa poesia si costruisce su una similitudine (vita/pranzo/tempo); questa esperienza viene vissuta dal
commensale con ansia, tra portate che non arrivano: si passa quindi il tempo mangiando molto pane.
Nell’espressione “si beve” notiamo un certo sforzo quasi nel dover bere, per far passare il tempo;
nell’aspettare, si inizia ad immaginare questi cibi favolosi, esotici. Questi ultimi vengono accompagnati da
una geografa che si allarga con loro (foreste di, ecc…): questo passaggio riporta alle dinamiche della poesia
del movimento del surrealismo. Questo movimento punta a liberare il soggetto, l’Io, partendo da
un’ideologia di presupposti politici contrari alla borghesia: per procedere a questa liberazione si autorizzano
tutti quei meccanismi di creazione fantastica e di sovvertimento delle regole che il conformismo aveva
vietato.
Come nelle metafore continuate, la similitudine che apre il testo continua in tutta la sua estensione.
Quando meno ci si aspetta, “è già tardi”: la morte arriva. “in un deserto di molliche” è più che una metafora
e un’allegoria, perché sfugge inconsciamente anche all’autore stesso; il deserto e la segretezza delle
molliche indicano che quel pane non basta più a dare senso. “la nera morte araba” è il caffè, e come
questo, è un rito che può ricordare i paesi mediterranei: attraverso il termine “araba” si da una collocazione
ed una coerenza spaziale che riprende l’origano e i sapori esotici. Questa non è metafora del caffè, ma
indica proprio la morte, la quale viene raffigurata nel caffè. Poi c’è il grande verbo congedare che chiude il
testo.
Il paragone tra la vita e il tempo di un pranzo, vale per sempre, cioè è un’affermazione di una verità
assoluta, non individuale. Infatti si dice che in questa raccolta non ci sia dimensione temporale e storica
come nelle successive. Il tempo presente con cui viene scritto il testo è infatti a-temporale, e dichiara la
condizione dell’uomo.
La semplicità del lessico non denigra il significato importante (es: scelta di termini come conversare invece
di parlare); a fornire eleganza è anche la costante inversione tra sostantivo e aggettivo (es: favolosi cibi o
molto si conversa, ecc.)

Questo studio è in realtà soltanto

Immediatamente si coglie la divisione della poesia in due parti sconnesse tra loro: la prima va dall’inizio fino
a “cranio”, infatti la sequenza finale successiva inizia con un “ma”, il quale va a porre un’antitesi con quanto
detto prima. Per quanto tutto lo studio della poesia sia lo studio di qualcosa (si noti come il poeta analizzi
meticolosamente di che tipo esso sia e su che cosa si applichi), questo rimane insufficiente. La semplicità
radicale dei due elementi (comete e donne) che sfuggono rimane sospetta.
Questo è un esempio della passione del poeta per le varie scienze: “questo studio” indica l’esperienza
quotidiana di pensatore, che coincide con la poesia. Egli ha infatti una concezione altissima della poesia,
come colei che riesce ad arrivare dove tutte le altre nobilissime attività del pensiero (compresa la filosofia)
non riescono.
Per analogia, questo studio viene associato ad una concezione dell’uomo come fatto di elementi
metereologici che si scatenano al suo interno. “le maree” sono i flussi che determinano il pensiero, e questa
metafora porta con sé anche una suggestione ad uno degli immobili della scienza e dell’astronomia (Galileo
arrivò a studiare la teoria copernicana studiando le maree). Per un filosofo, abituato a vivere solo di
pensiero, il corpo è un grande problema.
Le isobare e le effemeridi sono delle linee che hanno funzione di congiunzione: qui Magrelli sta pensando
non solo allo studio della meteorologia, ma anche alla sua raffigurazione cartografica (passione di questi
poeti, che permette di disegnare ciò che si studia). Si vuole far capire che molta parte dello studio del poeta
consiste nel cercare collegamenti e coordinate e nel riuscire a metterle insieme. In poesia le isobare sono le
isotopie (elementi che congiungono foneticamente e sintatticamente vari elementi nel testo).
“osservatorio” è sia un sostantivo che indica l’atto di osservare, ma rimanda anche all’osservatorio
astronomico. Il poeta immagina che il cranio sia una calotta che proietta la dimensione del cielo. – Magrelli
è talvolta definito ‘poeta barocco’ per la costruzione di figure così profonde e pittoresche - .
“il passaggio delle comete” è coerente con ciò che osserva, ma “le donne” è un elemento inaspettato, il
quale fa stare insieme la ragione e il cuore: intende proprio sorprendere e meravigliare secondo la passione
per lo scherzo e la meraviglia tipica di Magrelli e di molti poeti del ‘900.

Vista la scrittura come osservazione, questo testo è adatto proprio a sottolineare come sia centrale nella
poesia di Magrelli la percezione, intesa come studio dei rapporti tra l’Io e il mondo, ma anche interiore
all’uomo stesso. Questo avviene comprendendo che la poesia di Magrelli sia meta-poetica (funzione che
ragiona sul codice, infatti Magrelli scrive poesia che analizza la poesia). L’organo che permette di fare ciò è
l’occhio, organo più ‘mentale’, meno adesivo (organo a cui si dedicano maggiormente gli autori del
Seicento, in quanto più percettivo e critico). Il senso metonimico della vista indica che attraverso l’occhio
l’uomo va al di là dei confini; guardare significa provare ad andare al di là di noi stessi.

 La Fenomenologia in Magrelli diventa una manifestazione del pensiero, infatti è definita una poesia
metafisica: è piena di oggetti, ma questi sono tutti astratti. Soltanto con questo rapporto di simbiosi
duale, la realtà si crea: l’unico modo che ha il soggetto per creare la realtà è di fare poesia.
 Magrelli attraverso la successione delle sue raccolte passa idealmente dal positivo, razionale, al
negativo, misterioso.

Facendo riferimento a Montale e alla sua Ossi di seppia, analizziamo Forse un mattino andando, tratto dagli
Ossi brevi. Siamo nel 1925, ma questo testo fissa in maniera emblematica quanto detto fin’ora, incidendo
queste immagini nei poeti successivi. Calvino, ammiratore di Magrelli, non a caso scriverà un saggio su
questa poesia.
Tratta di una vicenda in prima persona, al quale protagonista accade qualcosa di straordinario, un miracolo:
la visione del meraviglioso, ciò che sta al di là dell’uomo. Questo compimento del miracolo avviene in
un’aria di vetro arida (definita di vetro perché è pura e limpida come l’aria del mattino): il lettore percepisce
subito che l’essere di vetro non ha accezione positiva, ma essendo accompagnata da arida, sporca
l’accezione attribuendo al vetro l’essere tagliente, e riporta a immagini di deserto, morte, vuoto.
Improvvisamente il protagonista si volta e vede il nulla: la percezione del nulla provoca un terrore unico;
“ubriaco” indica il disorientamento vertiginoso.
Nell’ultima quartina si vede la similitudine “come su uno schermo” che indica come la natura corre ai ripari
e mette tutto a posto come su uno schermo. Quando Calvino scrive non ha in mente la nostra concezione di
schermo, ma più come “scudo”, una superfice che divide: viene dal lessico militare come il successivo
“accamparsi” e “di gitto”. Questa natura che rimette tutto a posto è quindi una natura che inganna. Calvino
quando commenterà il testo dirà che a sua memoria è “alberi, strade, colli”, a sottolineare il suo collocare
l’uomo in un contesto urbano e non più pastorale. L’uomo solo degli Ossi di Seppia porta con sé un segreto:
il segreto leopardiano, della natura non solo estranea, ma ostile; con la sua solitudine sta tra gli uomini che
non si voltano a vedere com’è fatta.
Lezione 28/03/2022

Stasera mi sono visto nello specchio

Questo componimento tratta del tema della malattia, tema che tratta in maniera particolare: nella sua
poesia questo non assume sempre un valore negativo, perché ascoltando anche gli altri autori francesi, il
tema dell’immobilità del corpo, l’esperienza del dolore e la malattia, è uno stato del soggetto che può
servire ad affinare il pensiero. C’è tutta una tradizione che interpreta questo stato liminare tra il sonno e la
veglia come il momento creativo più sublime; nel caso di Magrelli assume anche un valore autobiografico,
poiché lui dichiara di dover molto ad un incidente motociclistico avuto da ragazzo, dato che lo associa alla
liberazione del pensiero (a letto non solo trova il tempo da dedicare alle letture e ai pensieri, ma trova il
modo per scardinare quegli automatismi della percezione che normalmente ci bloccano).
Il tema dello specchio è una delle costanti di Magrelli (auto-considerazione, porta della percezione,
introspezione) e da un senso a quel “ma” avversativo del quarto verso: nonostante la sofferenza fisica,
avevo ancora attraversato il dolore. Questo ma muove l’interpretazione della malattia e la arricchisce.
La conclusione del sesto verso mette fine al ragionamento principale (dopo avremmo solo ripetizioni del
concetto).
Si fa poi riferimento ad un verbo dell’arte della navigazione, infatti poi si fa riferimento al promontorio, di
solito ricorrente nelle immagini dei marinai che doppiano i promontori. Qui ad essere doppiato, superato, è
una stagione di sconforti: questo viene esplicitato dal cambiamento del punto di vista che segue (dal
marinaio, al vento che addirittura si stupisce del suo quietarsi così in fretta). Dunque si conferma la
metafora della vita come viaggio (qui intesa come navigazione): è quell’esperienza che avviene quando
finalmente l’Io si scruta e indaga su di sé, per questo il tema della malattia qui si presenta come positivo.
Pensando in generale ai meccanismi della percezione, tra la coscienza e il mondo esterno c’è il corpo, la
materia, di cui non si può fare a meno. Quest’ultimo viene trattato da Magrelli in maniera ambivalente: in
questo caso è ciò che affina la percezione, in altri è materia inerte che da peso all’Io e offusca il pensiero
(come il tema amoroso, da sempre o condannato oppure osannato).
Lezione 31/03/2022

Io abito il mio cervello

Questo componimento conferma la cura e l’attenzione di Magrelli nei confronti della propria capacità
razionale e ragionativa. È un componimento che consacra l’azione poetica in una chiave anche antica: il
rinvio al possedente delle terre che deve far fruttare non denigra l’azione poetica, anzi rinvia a
quell’attenzione antica al mondo rurale. È l’antica immagine pura del custode, del giardiniere, che ricerca e
trova nel lavoro dei campi una dimensione esemplare di vita e di esistenza; a questo si aggiunge l’antica
metafora del portare l’aratro e di tracciare un solco nella terra come l’atto dello scrivere (come
nell’indovinello veronese).
Ci ritroviamo quindi nell’immagine del contadino che prima di addormentarsi guarda pudico le sue terre
(“la sua immagine”: si chiarifica quindi la lettura che si vuole dare, ovvero delle terre come immagine
interiore del sé). Per via di questa espressione che va quindi a sfatare, negare quella tranquillità esteriore
ribaltandola tutta verso l’interno, ecco che trapela l’inquietudine. Il distico finale presenta questo rovescio
sorprendente (il mio cervello abita in me indica una situazione di disordine tale per cui è il cervello ad
essere proprietario del soggetto, quasi un’affermazione di debolezza nei confronti del suo stesso pensiero).
È un componimento che introduce al rapporto difficile con la materia, con il dolore, con ciò che è esterno.

Ecco la lunga palpebra della donna


Questo componimento introduce alla figura della donna e dell’amore, ma è anche espressione dell’amore
per la tradizione di Magrelli. Siamo infatti all’interno del grande topos della descriptio mulieris, cioè del
grande luogo della poesia antica che prende per oggetto la descrizione della donna. Questo
tradizionalmente si lega anche alla funzione della lode (o parodica talvolta): si modula secondo delle regole
fisse riguardo per esempio la descrizione delle parti del corpo. Afribo parla di feticismo, perché pensa ci
debba essere una componente psicologica nell’idealizzazione delle parti del corpo. Qui il poeta sceglie di
analizzare il sopracciglio della donna.
Il componimento si collega al suddetto topos perché paragona l’arco del sopracciglio all’arcobaleno: questa
metafora innesca una serie di immagini e di visioni; l’arcobaleno viene chiamato iride celeste, dunque
attingendo al mito dell’arcobaleno come ponte tra la terra e il cielo.
“vasto che attraversa”: mezzane in quanto al registro, senza escursioni. L’immagine fino al verso 4 viene
suggerita dal gesto di inarcare il sopracciglio quando si pensa: arcobaleno che come il sopracciglio viene a
illuminare il cielo oscurato dalla pioggia, così come il pensiero è oscurato dalle nubi. L’immagine della sera
scelta come momento della giornata rimanda al silenzio del pensiero che deve essere misurato
dall’arcobaleno. È l’immagine di un tramonto; i termini “curva” e “percorrendo” rendono l’idea del
dinamismo e del movimento, realizzato dal pensiero della donna.
La conclusione conferma un modulo frequente nelle poesie di Magrelli: un modulo definitorio di
affermazione che è simile all’attacco iniziale. L’immagine dell’acquedotto viene suggerita a Magrelli dal
fatto che gli antichi acquedotti fossero ad arco; il termine “ultima” è molto evocativo, perché possiamo
collegarla alla sera, emblema della morte, e rinvia anche ad un componimento di GiovanBattista Marino.

G.B. Marino fa innanzitutto parte di quell’epoca apprezzata da Magrelli, cioè l’epoca barocca, e che
valorizza la tradizione del manierismo cinquecentesco; inoltre la sua è una poesia del furto: lui amava
scrivere imitando, è un’epoca che viveva di letteratura. Marino aveva prodotto una serie di componimenti
dedicati ad una donna morta, una suonatrice di liuto, damigella di corte della reggia di Ferrara, di nome
Livia d’Arco. Ella prestava il suo nome al gioco della descriptio mulieris tramite l’arco (oltre al suo nome, lei
suonatrice di uno strumento d’arco). In questo componimento Marino cita l’acquedotto, oltre a molte delle
metafore usate da Magrelli.
Il rapporto di Magrelli con i classici

Le labbra senza desiderio

Questo è un componimento che Afribo inserisce per dare un esempio della figura della donna in Magrelli
intesa non solo come bellezza da rappresentare, ma come oggetto del desiderio. La donna rappresenta un
turbante, cioè l’altro che ci turba e ci sconvolge, qualcosa di straordinariamente positivo o negativo. Non
essendo il tema amoroso molto caro a Magrelli, capita che lo si trovi nei suoi componimenti in varie forme,
e che venga sfruttato per far riflettere su vari aspetti più ampi, come per esempio il senso di morte che
aleggia in questo testo.
Ad essere immediatamente prevalente nel testo è la qualità che ci viene esposta come presenza del
desiderio: nella concezione materialista della realtà il desiderio è ciò che costituisce la vita, ciò che muove.
Queste sono labbra senza desiderio, quindi che si muovono in direzione contraria rispetto al vitalismo,
quindi sono “lenzuola stese ad asciugare”, secche (oltre all’immediata metafora, se ne coglie anche una
negativa legata al lenzuolo funebre). Lo stendardo è ciò che indica e segnala, quindi sono il segno della
malinconia.
I primi cinque versi colmi di “chiarezza” si riequilibrano con gli ultimi cinque: la prima parte del
componimento si apre con una dichiarazione positiva (per quanto contenga una negazione al suo interno),
la seconda parte si apre con un rovescio della prima (affermazione che nega). Questa seconda parte è più
oscura (finale che anch’esso evoca la morte).

Senza accorgermene ho compiuto

Questo è il componimento che chiude la raccolta Ora Serrata Retinae, e rappresenta tutto quel movimento
circolare da subito appreso. È un componimento esemplare del primo Magrelli: ci presenta figure già
incontrate, dal movimento di auto-osservazione (proiezione dell’uomo nella dimensione cosmica, tipico del
‘900, che esce fuori dalla calotta del cranio). Questo movimento di auto-conoscenza diventa anche
immediatamente devianza, l’affermare contemporaneamente senza negazione: quando una cosa viene
nominata, automaticamente viene anche negata, tradita. Questa assurdità è rappresentata dal pensiero
decostruzionista, il quale va al di là della filosofia in senso proprio, ma va a riflettersi nelle arti varie:
decostruire significa prendere atto del fatto che quando noi nominiamo una cosa abbiamo un pensiero
mentale che deve corrispondere alla realtà, ma devo anche associare a quel pensiero un significante.
La figura dell’immagine nascosta nel quadro emerge il suo non aver in realtà capito nulla di sé, quindi si
nasconde dietro a questa immagine che però non maneggia. Dopo questo primo gioco di rovesciamenti,
osservazioni, non fa altro che allontanare il soggetto dall’obbiettivo, per questo si arriva alla seconda parte:
“cabotaggio” è un termine esotico molto evocativo con il quale si intendono quei vascelli che non dovevano
compire grandi viaggi (ancora una volta il tema della metafora del viaggio e del percorso ritorna). Il poeta
così retrocede; la chiusura ripropone quel disorientamento che presenta l’altra faccia della medaglia,
visione relativa destinata a rimanere inconclusa.
L’immagine dell’ultimo verso è associata da Afribo al pathos della distanza: la possibilità di poter meglio
vedere stando da lontano è un meccanismo della scrittura che viene ormai usata come chiave di
interpretazione di Calvino. Soltanto grazie a questa consapevolezza del distacco, l’umanista può raffreddare
la materia e dare giudizi; con il distacco, con l’aiuto della vista si può acquisire una visione più matura ed
esatta della realtà.
Lezione 4/04/2022

Tema rapporto viaggio-scrittura

“Molteplice”: infinita e inafferrabile varietà di ciò che sta fuori dall’Io.

Nature e venature (1987)

Anche questo è un titolo ad effetto, che riprende il gioco di parole già incontrato nel primo Magrelli: questo
gioco di parole informa già di quella che è una caratteristica della seconda raccolta. Rispetto alla prima,
questa raccolta accentua il disordine, l’inquietudine, l’irrazionale;
Ha le braccia di corrente trasparente

È questo un altro esempio della descrpitiones mulieris; probabilmente commenta un corpo femminile. È un
componimento oscuro, surreale e irrazionale: appaiono immagini assurde (come le orecchie paragonate a
dei pesci; l’analogia viene attivata attraverso la preposizione – analogia preposizionale). In “greto delle
gambe” l’analogia preposizionale è posizionata attraverso un enjambement. In “braccia di corrente
trasparente” si vogliono forse intendere le venature delle braccia: dalle braccia si scende verso le gambe.
Tra tutte queste immagini surrealiste, forse solo la prima e l’ultima sono tradizionali (le braccia e lo
sguardo). Così come le braccia sono piene di venature, lo sguardo ha una superficie fibrata (aggettivo in
parallelo con trasparente del primo verso). Con l’ultimo verso va quasi ad inficiare l’immagine di
trasparenza del primo verso (forse indicatore di malattia, magrezza).

Il campo della descrizione della donna anche in questa raccolta si presta ad esercitare quella ossessione per
la rappresentazione grafica, per lo studio della linea e delle successioni ordinate (infatti c’è in questa
raccolta una serie di componimenti tutta intitolata “Fibonacci”).
La poesia soprariportata appartiene a questa raccolta; “il panorama della fronte” forse sta ad indicare le
rughe. “la facciata di una chiesa” perché attraverso la sequenza di Fibonacci si realizzavano
architettonicamente le chiese. È dunque un omaggio alla bellezza della donna, la cui grazia viene
paragonata all’equilibrio della natura.

Cose guaste e corrotte


A questa seconda raccolta appartiene quindi il tema del disordine, l’incontrollabile. Questo componimento
fa riferimento ad una serie di poesie che trattano l’oggetto inutile, il desueto, ciò che fugge ad ogni logica.
Lo fa sia per assecondare il gusto per il bizzarro e l’anomalo che per esprimere amore per il poetico, cioè
per quelle parole che non hanno mai avuto spazio in poesia; è desiderio di esplorazione e sperimentalismo.
In questa poesia individuiamo due unità: dal primo al terzultimo verso e gli ultimi tre versi. Due elementi
del testo sono in analogia, in parallelo tra di loro, nonostante l’apparenza (in teoria sembrerebbe che nel
primo elenco tutto è negativo o inutile): paronomasia di “resta astenuto” e rimesso - che avanza. Questo
segmento viene spiazzato dal calore dell’allitterazione delle “a” in aprile, aria, calda; il secondo elemento
vuole quindi dichiarare amore per il primo elemento: per l’oggetto dislocato secondo una tecnica
surrealista.

Lezione 7/04/2022

Ogni volto fotografato

Continua a trattare il tema della visione (ciò che quando si fissa fa scomparire chi sia guardato, come
succede quando si fa una fotografia). Come molti altri testi di Magrelli, questo ha una struttura circolare; il
soggetto di questa poesia è il colto fotografato, che viene fissato nella fotografia mediante un’esplosione
(effetto prodotto dallo scoppio del flash), la quale diventa simulacro di una catastrofe, di una esplosione
letterale, di un momento che assomiglia alla morte. È come se il momento catturato da questa esplosione
conducesse ad un altro tempo, ad un ricordo: il tema del ricordo è coerente con l’ambito della fotografia,
però in questa poesia assume i connotati della morte, della vanità, come se ci si aggrappasse a questo
ricordo ma pur sapendo che la memoria è labile, fragile.
Questa poesia presenta quindi il tema della morte, dell’uccisione: ecco spiegata l’immagine dell’aereo
nemico e della nave che si scontrano e vengono immortalati poco prima dell’effettiva esplosione.
“flagrante” indica qualcosa che brucia, scoppia e arde; assenza di speranza sui volti separati dall’obbiettivo
(“le fiamme covano già nella fusoliera”).
Il componimento è costruito secondo la consueta contrapposizione ordine/disordine che produce
inquietudine, e che qui viene riferita alla guerra, al dramma della storia: è una transizione prevedibile quella
di passare dal disordine e dal male della natura, ad un male che ha a che fare con la società e la storia. È un
avvicinamento di Magrelli al mondo inteso come società (a differenza della prima raccolta in cui era isolato
nella solitudine).
Se per chiamarti devo fare un numero

Tra le novità della seconda raccolta c’è una dimensione aperta al tema del dialogo, e del riferimento di
quest’ultimo ad un Tu: questa è una modalità che permette al poeta di accedere ad una dimensione un po'
più prosastica (che si avvicina metodicamente all’ultima stagione di Montale). È un componimento che si
colloca nella dimensione della Comunicazione

Nella prima strofa il poeta descrive con un rallentamento volto a sottolineare l’importanza di questi (così
come lentamente si deve comporre una combinazione magica che dischiuda qualcosa di prezioso), i gesti
che servono a comporre il numero – ritorna qui l’enigmista che si diverte con i codici e con il parlare
decifrato –. Il momento della chiamata è sempre esistito nella lirica amorosa, ed è stata sfruttata dai poeti
del ‘900 sfruttando i nuovi mezzi di comunicazione; i lineamenti della donna vengono sovrapposti ai “giri”
necessari a comporre il numero (a cui lei deve rispondere). C’è una specie di trasformazione della donna nel
numero (suggerisce che anche il nome della donna è composto da sette lettere). Il verbo “dischiudere” v.13
è un verbo aulico rispetto al registro quotidiano; la voce di lei viene definita “viva” perché viene attivata
dalla “formula magica” composta.
Alla prima strofa segue però qualcosa di diverso nella seconda: questa mediazione trovata subisce un
attacco inaspettato (l’interferenza). Questa spezza quell’incanto armonioso del dialogo e aggiunge una
dimensione estranea, e qui subentrano delle voci che paiono provenire dall’inferno (qui Magrelli diventa
espressionista). È un brutto male che ha a che fare con il fisico più che con l’astratto (siamo nel basso
comico): in questa oramai tragedia il poeta si sente chiamare da quella che è la voce infernale.
È una poesia che libera a fantasia del poeta. Il fatto che sia proprio lui ad essere chiamato dagli inferi
significa che la tragedia riguarda lui in primis, e che dunque anche quel tu fa parte dell’Io lirico (per questo
Afribo ipotizza che le sette cifre siano quelle del nome Valerio).

Esercizi di tiptologia, 1992

È la terza raccolta, e qui Magrelli perfeziona i progressi già viste in Nature e Venature: qui si introduce e si
da spessore a quella nuova declinazione di lessico e di immagini verso tutte le frange del poetabile che
attingono al reale, quindi è anche Magrelli un poeta che si associa a quella pluralità degli stili caratteristica
degli anni ‘80/’90. Il che significa anche dare accesso al cattivo gusto, cioè provare a rendere con le parole
la voce della realtà in tutte le sue sfumature, anche nella polemica e nella perdizione sociale: è quindi una
lingua che si sposta verso la deformazione delle parole (la violenza del mondo che si vuole rappresentare
trova un corrispettivo nelle parole. Le espressioni sono crude, volgari, talvolta indicibili, e si piega senza
ritegno verso le dimensioni della vita del corpo che non ci aspetteremmo di trovare in poesia (ma tipico
della novecentesca vena comico-realistico-impressionista).
Questa progressione negli scritti di Magrelli è “il segno del tempo che passa” (sia nella biografia del poeta,
che va in crisi e che parte da una forma un po' idealizzata della forma di sé, per poi accedere ad una
prospettiva un po' più amara). Anche Magrelli si adegua a quel senso di protesta e di rifiuto che il mondo
sta vivendo nei confronti della società e della considerazione che la società ha nei confronti
dell’intellettuale.
Riguardo al titolo della raccolta, Magrelli non si smentisce in quanto a originalità; anche solo fonicamente è
un titolo che colpisce subito. La tiptologia è quel modo di comunicare che si verifica nelle sedute spiritiche
(battere colpi, ecc.) o per analogia è anche la forma di comunicazione dei carcerati (che battono sui muri
costruendo un codice) – perciò si attinge sia alla situazione ultraterrena che a quella di una gabbia, un
carcere.

Aperu

Il titolo significa “compendio”, “cenno”, “saggio” e appartiene al lessico della musica (è una forma di
manierismo). È un grido di dolore contro il male, contro ciò che prende in ostaggio la terra: lega ciò che
appartiene all’uomo a qualcosa che arriva per distruggere; presenta grammaticamente intrecciati i due
opposti per antonomasia, la vita e la morte, l’amore e la malattia.
Dal punto di vista tematico non svolge una storia complessa, ma il messaggio viene reso attraverso questo
sistema di parole e di immagini che riguardano il tumore: questo genera delle analogie che determinano
questa lingua così ibrida. L’antagonista ha tutte le caratteristiche presentate nei primi tre versi: il quarto
termine “saprofita” indica quelle forme di vita che si nutrono di materia in decomposizione. Questi sono
tutti epiteti ordinati in un climax che li contiene nel cancro. Si paragona il declino della musica occidentale
come la civiltà.
In “invadono il corpo sonoro” troviamo sovrapposti figurato e figurante (la musica – sonoro – che si unisce
al corpo).
“frutteto di morte” è un’espressione che Afribo rimanda al primo Magrelli: è metafora che indica uno
spazio che viene ancora coltivato ma di morte, è la storia di una catastrofe tonale (qui troviamo uniti i due
termini quali catastrofe che va interpretato letteralmente, e tonale che arricchisce come aggettivo il campo
metaforico della musica). “cellule aritmiche” è ripetizione di catastrofe tonale.
È importante che in “dirottatore” ci sia la lettera maiuscola perché ne indica la natura sovraumana; il
veicolo è il corpo, è la musica dell’Occidente in crisi.
La conclusione è piana, senza più nessuna forza. Questa poesia è la più classica delle contrapposizioni, è il
mettere in verso il dritto e il rovescio che sta in ognuno di noi.

L’abbraccio

Questa poesia declina in una dimensione privata lo stesso schema di inquietudine e di paura della poesia
precedente. Si racconta di un abbraccio di due anime e che nel mentre percepiscono il rumore del mare,
intorno continua a bruciare la storia, fatta di consumazioni. Questo testo ci presenta l’opposizione di due
spazi: le indicazioni di luogo disegnano chiaramente un qui e un là, però questa distanza non garantisce la
sicurezza del qui.
L’immagina della stanza in cui lei riposa e lui è sveglio è anche rinviabile a Montale (nella stagione dei
montetti amava rappresentare lei come angelo che riposa). La stanza costituisce un nido rispetto al quale
c’è un altrove. L’inizio è piano e colloquiale.
Il gesto dell’inchino si deve collegare al finale della poesia, a conferma della forma circolare: le due lingue
che si muovono ricordano le due fiamme a forma di lingue dell’Ulisse di Omero (anche qui Dante aveva
rappresentato le due anime che si piegano insieme al vento). Il sonno riparatore viene trasmessa da lei a
lui: la ripetizione della parola “stoppino” fa sì che si rappresenti icasticamente il passaggio del sonno
dall’uno all’altro.
Questa dimensione domestica e delicata si percepisce dal linguaggio casalingo e aggraziato, e
probabilmente anche dal falso diminutivo di “stoppino”. I versi 5 e 6 provano a comunicare che mentre il
tempo passa, loro intanto dormono, e forse qualcosa resta; “filare” associato al sonno è un po' inusuale ma
indica il tempo che scorre. La dimensione di durata serve ad aprire anche lo spazio: nell’altrove infatti
“vibra la caldaia nelle cantine”. “ardere” è coerente con la dimensione sovrannaturale: è il carbone che
brucia nella caldaia, a dimostrare la perenne consumazione e distruzione.
Anche “cameretta” è diminutivo a indicare il nido.
La conclusione sancisce il terzo tempo: si vanno a concludere i primi due versi come tesi, antitesi e sintesi; il
finale vuole confermare che anche noi nonostante siamo abbracciati, siamo parte di un’unica torcia
paleozoica che continua a bruciare.
Questa poesia riporta alla primordialità di Magrelli.

Patrizia Valduga

 Nasce a Castelfranco Veneto nel 1953


 1982 Medicamenta, presentazione di Giovanni Raboni, Premio Viareggio
 1991 Donna di dolori
 1996 Corsia degli incurabili
 1997-2001 due centurie di Quartine
 1999 Prime antologia Einaudi
 Traduttrice: Donne, Molière, Mallarmè, Valèry

È una poetessa che figura una teatralità della parola che la distingue: è tutta espressione, eros, fino agli
eccessi. Compagna di Giovanni Raboni, poeta della generazione immediatamente precedente.
La sua è una poesia che abbina un pensiero semplice fatto di due poli: da un lato l’osservanza estrema delle
metriche tradizionali (sestine, sonetti, quartine) – non classicista ma barocca – dall’altro gli eccessi dei
contenuti e nell’esposizione dell’io, dell’eros, dei sensi.
Tanto poco romantico Magrelli, che lei in opposizione campeggia da protagonista assoluta dentro la sua
poesia.

Lezione 28/04/2022

La sua è una poesia pienamente occupata dalla sua produzione artistica, letteraria e poetica. Anche lei è
traduttrice, aspetto che ritorna sovente in questi poeti degli ultimi decenni: indica un’apertura nei confronti
del panorama internazionale, ma anche il tormento intorno alla parola e alle sue possibilità (caratteristica
del ‘900). Il traduttore tra tutti è colui che sviluppa questa ipersensibilità nei confronti della parola.
È Raboni a scoprirla e a presentarla al pubblico nel 1982, vince subito il premio Viareggio con la sua prima
distintiva raccolta, Medicamenta.
Valduga scrive generosamente, ed esteticamente preferisce stare al centro del palcoscenico.

La sua poesia è profondamente espressiva, e si nutre di antitesi e contrasti (il macroscopico contrasto è
quello tra eros e morte): questi non riguardano solo i temi, ma anche l’attitudine nei confronti delle forme.
È una poesia che fin dagli esordi accetta delle forme regolari: l’adesione alla regolarità della metrica viene
portata però fino agli estremi; punta ad investire i codici della forma per superarli, senza abbandonarli, e
per arrivare ad un atteggiamento iper-codificato. Questo atteggiamento furioso nei confronti della forma
farà un po' scuola per le generazioni successive.
Il problema della forma, il problema retorico, si collega al problema esistenziale, tanto che è il piano della
forma ad esprimere ancor meglio il contrasto e il disagio dei contenuti (diventa strumento di
comunicazione dell’inquietudine e dell’esistenza).

Questa poesia presenta un’estenuazione radicale del motivo erotico: rappresenta a parole un amplesso.
Questo tema però è presentato in una varietà non gioiosa, ma funebre e violenta, verso la morte e la
violenza. Un altro dei piani su cui agisce questa tendenza estremistica del contrasto amore/morte, in cui
campeggia l’Io, è l’opposizione fra l’aggressione e il vittimismo: c’è un’impostazione lamentosa. Dal punto
di vista formale, il testo presenta la forma di un sonetto, e fa emergere uno dei tratti caratteristici della sua
scrittura: le ripetizioni. È una serie lamentosa di comandamenti erotici, tutti contrassegnati dal primo
pronome personale, che fa debordare la prima persona e il suo narcisismo pieno. È un ritmo meccanico,
quasi ossessivo, dato soprattutto dai suoni, dalle assonanze, paronomasie, figure etimologiche e legami
fonetici tra le parole. Questi automatismi avvengono per affinità semantica (somiglianza dei significati),
oppure strutture ripetitive che funzionano per opposizione (verso 7 c’è un chiasmo – “nuocimi” e “giovami”
si oppongono dal punto di vista semantico, ma appartengono alla stessa famiglia di significato-).
Questo testo è esemplare per introdurre la poesia della Valduga. La tematica del vittimismo, e dell’Io che
deve essere centrale, agisce come forma di lamentela: questo atteggiamento estremo, di violenza nei
confronti dell’uomo o della società, ha una sua controparte antitetica nel vittimismo. Questo modo di
procedere è anch’esso artistico e letterario, con un riferimento tradizionale (es. poesia dei Crepuscolari, che
si ripiegano piangendo la loro piccolezza nelle cose quotidiane).
Questo testo dimostra i registri più realistici e comici della scrittura della Valduga, che possono anche
spingersi fino al turpiloquio: è la lingua della sessualità, con la lingua della morte, della medicina, della
gastronomia, fino a voler esprimere nella forma più completa ed esaustiva la lingua corporale. In questo
ritroviamo l’eco bassocomica dantesca e di tutti i dantismi bassocomici della tradizione (ritrovato per
esempio nella Bufera di Montale). Questa poesia apre a tutti quelli che sono gli elementi corporali, cioè che
vanno verso le estetiche del brutto, dell’abiezione, del repellente (per desiderio di sperimentalismo e per la
volontà di esaurire le possibilità dello strumento espressivo). Mettendo al centro l’Io, questa poesia si
sposta verso le forme della teatralità. Questo è infatti un monologo teatrale, portato anche in scena da lei
stessa; è un testo che si crogiuola nel dolore, nella sua massima espressione (come all’opposto abbiamo la
voluntas del desiderio).
È un testo che racconta di un intervento chirurgico, forse di un aborto; c’è di sicuro un incrocio ripugnante
tra Vita e Morte, tra la morte che c’è già nella vita (che sta sul letto), e della vita che c’è nella morte, preda
del disfacimento corporeo. Racconta di questo martirio, sofferenza e crudeltà insopportabile, cui desidera
gridare contro, andando ad allargare questa protesta verso una dimensione più universale rispetto al
singolo fatto narrato (come una denuncia sociale verso le ingiustizie che toccano i miseri).
Questi carnefici vanno quindi a coincidere con i grandi carnefici che agiscono nella storia; in questo uso del
registro basso corporeo e necrofilo, c’è un rinvio con la poesia di Montale – nella Bufera si rappresenta il
grande delirio assurdo dei Cattivi sotto forma di delirio medico e alimentare; questi sono cannibali, si arriva
all’autodistruzione dell’uomo - . In questa inquietudine terribile la Valduga preferisce assumere le veci della
vittima, in una dimensione di pietà e di commiserazione; la violenza subita di cui lei è portavoce, viene
rapidamente palesata al verso 6: “mi mostrano col dito” – che rimanda a Petrarca, motivo antico della
fabula vulgi, l’essere mostrato a dito (incapacità di sopportare il fatto che gli altri parlino di lui,
atteggiamento di distinzione rispetto agli altri). Valduga conosce a memoria la poesia del ‘300, dunque il
peso letterario consapevole di espressioni come “pietà, perdono”, ecc.
Immagine del terzultimo verso piccola, discreta, che rinvia all’ immagine dei poeti crepuscolari (Corazzini,
“io non sono che un piccolo fanciullo che piange”).
La poesia della Valduga ha tratti immediatamente riconoscibili.

Riguardo ai poeti novecenteschi, la critica osserva un quadro non del tutto negativo: il problema che si
sottolinea è lo scollamento gravissimo tra la poesia e il mondo.

Gabriele Frasca

 1957, Napoli
 Insegna Letterature comparate a Siena
 1984 Rame
 1995 e 2001 Lime e Rive
 Romanziere, traduttore, teatro e radio
 Traduttore di Beckett
 Una poesia tutta volta alla rifunzionalizzazione in chiave sperimentale e neomanieristica delle
forme metriche e tradizionali
 È un lusus tragico: tema del tempo

La napoletanità in Frasca è riconoscibile per il gusto ritmico e giocoso della parola. È una personalità
estroversa, infatti rientra in vari ambiti dell’arte. La sua poesia intende, come Valduga, assumere
dall’interno le forme tradizionali, ma questo canone viene portato alla massima sperimentazione: definita
come una nuova forma di manierismo, neomanierismo. Al contrario della Valduga, però, l’attitudine di
Frasca è più mentale e celebrale che passionale, è più freddo e calcolatore, gioca con le parole.
Anche quella di Frasca è definita “poesia barocca”, cioè una poesia che ha a che fare con il Niente, il Nulla, il
Vuoto: si fissa su un’unica certezza, ovvero l’arte, la parola.
Il suo è quindi un gioco (lusus), ma tragico, unico modo per affrontare il dramma.
Questo testo, tratto dalla sua prima raccolta, è un sonetto che traduce il sonetto di Quevedo, poeta
spagnolo dell’epoca barocca.

È un testo senza punteggiatura (come la maggior parte delle poesie sperimentali di Frasca), e che deve
essere letto a ruota libera. La prima parola “Ehi” non prevede in realtà la maiuscola, infatti è un errore
(proprio perché non ci sono punti, quindi non ci sono pause). Il tempo è irrimediabilmente una linea
continua ed interrotta, che non si può fermare; il sonetto parla proprio del passare del tempo, che corrode
e che dimostra l’inconsistenza della vita.
alla lettura, la poesia vuole ottenere la sensazione di perdita dell’equilibrio. Nella scelta dei verbi che
vogliono rendere il movimento c’è il senso del componimento: es. “il fato dirancò” significa storcere,
arrancare; è indicativo della tendenza al sovraccarico (anche linguistico). Tra le immagini più tradizionali c’è
quella che conclude il sonetto (“giunto il sudario alle fasce”): la morte che giunge quando si nasce;
nascendo si muore.

Tenendo presente la seconda colonna (in cui viene tradotta letteralmente la poesia in spagnolo), quello di
Frasca è proprio un esercizio di dimostrare il suo virtuosismo. La poesia barocca gioca con le parole, trionfo
della retorica che si basa sul concettismo.
Marino, contemporaneo di Quevedo (1604-1615) scrive nella terza colonna che l’uomo appena nasce fa
esperienza del pianto.
Testo un po' diverso, intitolato ad un amico, Mario Spinella, appena scomparso. Mario Spinella era stato
uno studioso e critico di Lettere ed un partigiano militante, dunque vicinissimo a Frasca. Il poeta decide di
omaggiarlo esemplificando la vita come sogno (anche questo è un tema barocco). La vita dell’amico viene
ricordata come un’utopia, una speranza, un progetto anche politico, che viene qui ricordato come segno di
amicizia, che si speri resti per sempre. La condivisione di questo dolore è il segno dell’amicizia che si vuol
far sopravvivere al tempo. L’ultima parola del componimento è infatti “comunismo” nella sua accezione più
originale.
Il virtuosismo, l’amore per le ripetizioni, il lusus, emergono già dall’inizio del componimento. Il “mostro” è il
nemico della storia contro cui questo ideale politico si vuol contrapporre, e che si vuol far sopravvivere.
Collocazioni spaziali ben precise (loro si frequentavano a Milano). Il “si” è riflessivo, e indica che si brucia a
rate, che non mette da parte nulla.

Afribo paragona il componimento al dantesco Guido io vorrei:

Il sonetto di Dante mette a parole l’immagine di un desiderio, una serie di immagini che creano la fantasia
di qualcosa di desiderabile. È un sonetto che vuole suggellare il valore imperituro della loro amicizia
cimentato intorno ad un tema di carattere culturale e politico.
Lezione 5/05/2022

Fabio Pusterla

 Mendrisio, 1957
 Laurea a Pavia con Maria Corti
 Insegna a Lugano, Università Svizzera Italiana
 1985 Concessione all’inverno
 1985 Premi Internazionale Eugenio Montale
 1989 Bocksten
 1994 Le cose senza storia
 1999 Pietra sangue
 2004 Folla sommersa
 Studioso di Vittorio Imbriani

Importanza della satira (nel caso di queste poesie politica) caratteristica di Pusterla, e che lo avvicina a
Montale. Altri suoi due aspetti caratteristici sono quello della dogana, del confine, del limite, (Al doganiere
dichiaro – ricorda certi modi dei Mottetti di Montale che segnalano la lontananza della donna amata) e poi
quello della natura (in Val Trodo siamo in una valle, con la durezza e la sofferenza che è dimostrato dalla
natura, che si conferma nella storia. Il verso finale sancisce in maniera assoluta questa terribile verità, che
viene confermata dal “si” impersonale che allarga universalmente i confini della Val Trodo.
Il rapporto di imitazione/ispirazione con Montale è tipico delle avanguardie, è uno dei meccanismi della
classicità, poiché nascono come anticonformiste.
Questo testo, Come dovevasi dimostrare, ha un titolo che ricalca nella sua forma siglata una abitudine
molto diffusa nella poesia di Montale. Questo testo è perfettamente adattabile e comparabile con la
raccolta montaliana Satura: in comune essi hanno la loro funzione meta-letteraria (poesie che parlano della
poesia), dunque hanno anche valore programmatico e di manifesto, tutto giocato in chiave ironica e
paradossale, che non fa altro che sancire l’inutilità della poesia (ecco la dimostrazione ironica, del
contrario).
È una definizione della poesia, ma ironica, sarcastica e anche un po' snobbistica (come di chi agisce con
grazia ma non vuol far vedere la sua serietà). È anche un necrologio della poesia, perché se ne dichiara la
morte, e la nullità del poeta è eterna, ma che non è drammatica; ecco che il poeta, in maniera un po' snob,
può sopportare le voci di quanti si illudono ancora di star facendo poesia (simile a ciò che Montale
chiamava “il bla bla della società”). Nella tradizione le gazze rappresentano i “poeti che fanno rumore”, i
poetastri, e i piccioni invece sono metafora della poesia amorosa. La distruzione della poesia è un colpo nei
confronti di quelli che sono gli estremi negativi della poesia (nei primi versi troviamo la mescolanza dei
registri, aulico con il basso, che i poeti contemporanei hanno imparato a fare dal Montale della Bufera fino
al più comico di Satura).
“irridescente” e “cangiante” spingono verso l’alto, e fanno riferimento a ciò che si eleva, le ambizioni dei
poeti che quasi vogliono fare filosofia, teologia, sacro o mistico. Pusterla sta così distruggendo gli estremi
negativi della pratica poetica. Insiste sulla famiglia di significati dell’inconsistenza, perché il poeta ha in
mente il grande presupposto dell’ispirazione (che nella sua etimologia ha qualcosa di aereo). “teorizzata” è
un anticipo dell’ultimo verso. “tramonto rossastro” vs “rutto putrescente”.
Dentro la parentesi il poeta va raffigurare e personificare il poeta, che agendo così si dimostra un dilettante,
un escursionista, il quale aspira l’aere, il problema è che lo fa sulla collina rinzeppata di scorie nucleari (non
il monte Parnaso).
L’ultima è un’altra delle immagini comiche, e c’è anche un ultimo accenno ad un dialogo, uno scambio di
battute (“mi dici”): si propone come portatore di un messaggio che non è quello del poeta, ma di questo
interlocutore, che ha detto tutto ciò che è stato scritto. In questo modo il poeta si ritaglia un piccolo spazio
per distinguersi. Questo inciso è ciò che fa riferimento al punto 3 del commento (vedi libro), metodo della
prosa e non della poesia (come lo è quello di Montale dopo la Bufera).

Pusterla ha sicuramente avuto in mente dei testi metaletterari di Montale scrivendo C.D.D. nel momento in
cui va ad interrogarsi sull’origine della poesia:
Satura è una raccolta del “quarto Montale” (Ossi di seppia ’25, Occasioni ’39, Bufera e altro ’56) e
rappresenta un poeta che ha definitivamente deciso di cambiar modi e registri (registro prosastico e
colloquiale che effettivamente stride con lo stile altissimo delle altre raccolte montaliane). Con Satura si
esprime una definizione che è stata definita di “nichilismo”, un po' debole, minimalista, disilluso, ironico,
che vuole esprimere quell’atteggiamento che deriva dalla constatazione di quelli che furono gli anni ’60. Si
rende conto che quell’atteggiamento politico fortuito sia da parte cattolica che da sinistra, può essere
ridicolizzato e guardato con distacco; comprende sempre di più di doversi porre fuori dalla storia, osserva
di non appartenere a quella storia (non significa scappare dalle responsabilità individuali, ma riconoscere
che il mondo dei valori sta altrove, per esempio quelli privati della vita quotidiana). Questo
paradossalmente fa sì che Satura sia il libro più pieno di realtà contemporanea.
Il titolo è ricco di significati: nella sua classicità indica varietà, miscellanea, cosa mista (all’interno di questo
eloquio quotidiano). Vuol dire anche assenza di ordine, disordine, infatti è una raccolta che si compone di
varie sezioni variegate. Il significato prevalente, quello moderno, è quello di critica feroce e aggressiva
contro i costumi (stigmatizzata attraverso le cose piccole e un registro piccolo e dimesso).
Questo registro fa sì che sia presente nella raccolta anche la forma di dialogo e la presenza dell’Io.

Con diretto rinvio al testo di Pusterla è questo nucleo di testi di Satura. Il primo, L’angosciante questione
insieme a Il Con orrore compone un dittico che Montale intitola La poesia.

“sorbetto”, girarrosto, forno, surgelante, coppie che indicano il caldo e il freddo: se l’ispirazione del poeta
debba intendersi espressa a caldo (di getto, spontanea), o a freddo. È un argomento qui presentato in una
dimensione colloquiale e ironica ma che in realtà affronta degli argomenti altissimi (metaletterario). Il poeta
qui persegue un obiettivo metapoetico: l’”occasione” dalla quale esce questo testo viene da una recensione
giornalistica del 1969 – il filosofo Gentile si era domandato se Petrarca possa dirsi vero poeta (e di vera
ispirazione) di tutti i 366 testi del Canzoniere, a questo Montale risponde sorpreso, disquisendo, non
capacitandosi di come Gentile possa pensare ciò (la vignetta a destra è la risposta). Montale cerca di
individuare cosa è la vera poesia: il polo positivo è la vera forma, il polo negativo è del caldo/freddo; il quid
che distingue la poesia dalla non poesia è il modo in cui quel caldo freddo si presenta, cioè la forma.
Di questo argomento teoricamente così pregno e importante (ricordiamo che sono gli anni del
Formalismo), è importante notare come in Satura questo sia presentato in maniera sarcastica, ecco
“l’angosciante questione”. Il “raptus” è il furor poetico. “parole molto importune”: ecco la pars costruens,
qui la forma si crea automaticamente, la cosa importante non è come si creino, ma la funzione, il senso, il
perché, è una questione di valori.
Mettendo in coppia i due testi si nota come il secondo risponde al precedente, continuando
progressivamente il ragionamento. Questa progressione voluta è dimostrata dall’inversione.
Cronologicamente questo testo viene prima, ma dal punto di vista logico è successivo. Nel primo testo era
stato suggerito come non fosse importante l’origine, ma l’esistenza della poesia stessa; questa creazione
però non è per il poeta, ma per il lettore. Lo scopo che da ragione di vita alla poesia è il suo servizio a
qualcuno che legga. Il poeta così vuole dire che la poesia deve essere eteronoma, non autonoma.
Gli “scoliasti” (termine specialistico qui inserito in un contesto dimesso e piano, sono quelli che
anticamente facevano gli scolia delle glosse, ovvero i commentatori e i critici dei manoscritti medievali (le
postille intorno al testo erano le glosse). La poesia spesso rifiuta i commentatori, però ha bisogno di essere
commentata: il fatto che richieda un tale sforzo non significa che basta a sé stessa. “la troppo muta”: poesia
spesso reticente, che ha bisogno di note esplicative. Il “trovarobe” è il poeta: tende a rimpicciolire l’ego del
poeta.

Altro testo metapoetico che in maniera affettuosa mette alla berlina l’istituto principale della lettura
poetica, le rime. Dialogando con i contemporanei infastidito sulle rime: la poesia sua contemporanea farà
sempre più rime, ma farà a meno di quelle istituzionali. Divertito sorriso nei confronti delle rime, di cui non
si può fare a meno. Le “dame di san vincenzo” è una congregazione di carità che vanno di casa in casa –
satira sociale, prende in giro la falsa carità o vuole sottolineare la loro cordialità? –
Con questa immagine Montale sta spiegando come usano le rime i poeti moderni: camuffandole e
dissimulandole. Le “pinzochere” sono le bigotte. Questo testo è costruito attraverso un’attentissima
distribuzione dei suoni e delle parole: i versi sono tutti endecasillabi, e c’è soltanto una vera rima, quella tra
il primo e l’ultimo verso. Oltre a questa unica rima (su parole inutili) c’è una rima ipermetra (sopportano e
porta, che si trova nella prima parola), questa avviene quando una parola piana viene fatta rimare con una
parola sdrucciola, e ciò che avanza di quest’ultima è un di più, che in alcuni casi si conta nelle sillabe del
verso successivo. Poi vi sono delle rime imperfette (ardono con vecchierde) e poi decente e tenta rima
interna. “decente” nella sua etimologia è ciò che si addice ed è conveniente, come a dire che il poeta
decente è il vero poeta.

Lezione 9/05/2022

Qui è spiegata l’attenzione di Pusterla verso il tono dimesso della poesia di Montale. Una delle possibilità
che i poeti contemporanei trovano per combattere le avanguardie è mantenere il filo di Montale. Questa
apertura sia degli Ossi che di Satura appare a Pusterla come foriera di possibilità di lasciare spazi, delle
domande a cui dover rispondere
La poesia di Satura viene percepita da Pusterla ancora attuale, capace di rivelare il presente, mettere a
nudo il processo contemporaneo.
Pur considerando il pessimismo e il disincanto di Pusterla, egli è comunque orientato verso un’esperienza
poetica ancora irrazionale.
Adesione piena alla poetica di Satura. Quello di Pusterla è un montalismo assoluto. La scuola di Montale si
ritrova a vari livelli (distanza ideologica, ecc).

Questa poesia (sorella delle Anguille del Reno) viene dalla prima raccolta di Pusterla (prima del 1985) ed è
un testo che presenta un’altra delle risorse della sua poesia: la sua passione nei confronti degli elementi
della natura e animali (ritratti emblematici che vengono dalla poesia di Montale e del suo rendere
protagonisti gli elementi della natura). Questa poesia in maniera evidente risponde ad un testo di Montale,
“il gallo cedrone”.
Il dronte è un animale estinto, il dodo. Eliminato dalla storia (non dalla natura). Questa poesia racconta il
momento tragico dell’estinzione del dronte per via dell’arrivo dei colonizzatori. Sono figure
cinematografiche. Questa estinzione va al di là del suo senso letterale: intende gettare un’ombra tragica,
allegoria di qualcosa /qualcuno. È una vicenda che racconta di un trionfo iniziale (lui era padrone dell’isola)
“orrore del fondo”: forse non volava ma nemmeno nuotava. Rinviano a tempi primordiali, semplici
elementi geologici che spingono verso un tempo antichissimo (senso di inquietudine che sposta la
dimensione del tempo verso il passato).
Nella seconda parte della poesia si interrompe quel tempo improvvisamente con ma poi. Questa netta
divisione viene accentuata sia dalla torsione della dimensione del tempo, sia dalla forma della seconda
parte della poesia: un elenco che nella prima parte non c’è. Resta memorabile per via di questo “ma poi”; è
un’interruzione che da via ad una serie slegata di elementi paratattici che rinvia a certi moduli dei Mottetti
di Montale (dove li si costituisce su due sequenze e con la seconda sconnessa dalla prima). Prima parte:
tempo imperfetto che apre alla dimensione temporale, ritmo arioso e misurato reso dalle inversioni.
Seconda parte: elementi nominali e tempo perfetto, elenchi di oggetti concreti, aggettivi “comici” che
rinviano alle cose basse, dolorose che esordiscono con ‘inerte zampettante’: questo scolonnamento e
derisione del dronte viene confermato dagli ultimi tre versi, terribile finale. Quelle superfici che prima non
facevano paura (profondo verso l’alto e verso il basso), qui diventano muri ciechi che il dronte non riesce
più a gestire. Sono i suoni che producono l’umiliazione.
(pappafico è sinonimo delle vele). Il camaleonte e il geco sono indirettamente memoria del Ramarro di
Montale.

È una poesia pubblicata inizialmente in una rivista, la ‘fiera letteraria’ del 1949, che racconta la morte
misera del gallo cedrone. È un esempio di quella grande apertura di Montale della Bufera nei confronti del
lessico culinario (una delle leve dell’espressionismo, che ha a che fare con gli orrori della storia,
deportazioni, totalitarismi, le ‘purghe infernali’).
Dedicato all’amico pittore e cuoco Guido Peiron.
Anche il gallo cedrone diventa poi allegoria del poeta (chi teme di essere messo in salmì con la bagnetta
colante diventa il poeta; si crea un cortocircuito tra chi viene cucinato e chi cucina). Il senso di dolore
provocato dalla storia unisce tutti gli esseri viventi, e qui è ben confermato (soprattutto nella seconda parte
della poesia, in cui si immagina chie il gallo chieda aiuto: si instaura un dialogo). Come quella era una gara
vinta dalla ricetta, qui viene replicata in senso antagonistico e riscattato il finale terribile del gallo. (il gallo
viene ucciso dall’uomo ma poi rinascerà). Dinamica gara/vittoria che parte dalla rivista e dalla gara di cucina
e si trasforma in questa poesia.
Quattro strofe di quattro quartine endacasillabe. La conclusione sembra accennare ad un finale positivo
(l’immagine della rinascita dalla morte rinvia al mito della fenice) ma rimane l’amarezza. Questo può
corrispondere per l’arrivo di una nuova donna montaliana, Annalisa Spaziani. Le zuffe di rostri inviano ai
corteggiamenti. Il gallo cedrone è molto pericoloso. Ora questa gemma luccica sotto terra (metafora della
nuova vita pronta a sbocciare). La conclusione sancisce la fine terribile dell’acidità di questo gallo cedrone,
uccello maestoso.

Elementi formali (per mantenere la forma tradizionale): Rime imperfette prima quartina.
Coda del primo verso con l’inizio del quarto (rima al mezzo)
Finale secondo verso, finale quarto verso
Magma – fiamma
Allitterazione petto – sotto
Rima interna volo e solo

Nella prima strofa la voce narrante del poeta viene paragonata all’animale. Corrispondenza animale –
poeta. Elementi di luce e colore (fuoco e sangue). Ribolle nel suo aspetto connotativo allude al tema
culinario, ma letteralmente indica che l’animale emette un singulto.

Caduta dall’alto al basso con la caduta nel fosso. La richiesta di aiuto riporta alla dimensione dell’anima che
si solleva disfandosi nel vento (nella tradizione è abitudine identificare due tipi di morte, una bella e una
brutta (quella dell’anima e quella della materia). Infatti c’è un continuo binomio cielo/terra, vento/limo,
aria/fango.
In una lettera alla Spaziani Montale ripeterà questa immagine dell’essere incrostato sul fuoco (per
biasimare la sua condizione)
La richiesta di aiuto coinvolge già il poeta, infatti prenderà la parola nella terza strofa. La prima frase della
terza ci fa pensare che questa piaga sia anche nel petto di chi parla. La metafora venatoria è antichissima:
nella lettura di Caproni, lui immaginerà sotto forma di caccia il rapporto tra l’uomo e Dio, con uno scambio
continuo dei ruoli. Sfumatura cristologica che attiva tutte le condizioni del pensiero: il gallo è anche vittima,
è colui che si immola per riportare la vita.
Il lessico si innalza; È volando che le creature di Montale provano a resistere e a cercare la libertà (firura
sorella degli angeli che volano). La direzione verso il basso è infatti quella della morte. Sia del poeta che del
gallo poi non resta che una piuma.
Progressione da zuffi di rostri a divine. Doppio tra l’alto e il basso.

Lezione 12/05/2022

Alcune somiglianze e scelte di gusto tra Pusterla e Montale


Il rispetto verso i padri è caratteristico della sua personalità.
Questo montalismo di Pusterla si realizza ripetendo una modalità poetica usata nei Mottetti (ritmo poetico
fatto di accostamenti improvvisi, a rappresentare degli scatti e dei colpi che sono le occasioni, i miracoli).
Avendo Pusterla la sua stessa visione esistenziale, prova a mettere in versi quelle stesse possibilità di fuga.
I due tempi che compongono l’ottetto sono divisi dai puntini di sospensione. Nella prima parte elenca
elementi della natura, scelti andando a pescare attimi fulminei. Il paragone tra i due elementi è giocato
infatti sulla rapidità di un accadimento: il primo è l’emblema che afferisce agli occhi (già Dante aveva
rappresenato l’immagine del ramarro, che appena vede il contadino guizza via veloce). Si sceglie il meriggio,
tempo in cui avvengono i miracoli montaliani. “se scocca” primo elemento attimale che poi verrà
paragonato alla rapidità della donna. Secondo elemento “la vela”: vuole rappresentare la rapidità della vela
che viene calata e sparisce. “Il salto della rocca” è quel punto dove la roccia gira, e a questo la vela si sottrae
all’osservatore. “si inabissa” si riferisce allo sparire della visuale, ma è anche un rinvio al fatto che forse con
il calare del vento essa viene calata.
Terzo elemento “il cannone di mezzodì”: siamo nell’ambito dei suoni. Vuole rappresentare un attimo
fortissimo ma senza rumore. “più fioco” paragone serve a rappresentare il battito del cuore della donna.
I puntini di sospensione valgono come “eccetera eccetera”, contengono quindi l’infinita casistica dei casi
attimali che ci possono essere nel mondo.
La conclusione: la tua impronta ed essenza è ben diversa, non è paragonabile a questi.
“luce di lampo… strano” è una sezione oscura, ma effettivamente la natura fulminea di questi attimi certo
che può essere qualcosa di strano.
Peculiarità del componimento sono gli elementi presentati in ordine elencatorio e la spiegazione di questi
viene detta nel finale, ma tra gli elementi e il finale non c’è collegamento. Questo è tra l’atro il “correlativo
oggettivo”, elemento chiave della poetica montaliana: ci sono degli oggetti correlati tra loro e il cui
correlativo è qualcos’altro. È un esempio di poesia oscura, non difficile.
Quello che interessa a Pusterla è la modalità a due tempi (elenco di cose e una sorta di sintesi finale).
Pusterla, e in questo è un poeta classico, intende dare voce agli ultimi (alle cose senza storia), è ciò che lo
contraddistingue. Nella terribile consapevolezza della storia e della natura, la pars construens è la ricerca di
una possibilità di espressione per le vittime.
Le cose senza storia sono quelle cose che cercano un riscatto. Questo racconta di un sogno notturno della
figlia Nina pieno di mostri. Questi si sovrappongono ad altri mostri e inferni, finchè è Nina a sovrapporsi,
richiamando alla memoria Anna Birchtova, vittima del lager.
Ci sono tanti piani di lettura e tante sequenze che si intersecano: primo piano di Nina che racconta i sogni al
papà.
Bambini come ipotesi di salvezza: mantenere in vita la speranza. Indica la dolcezza e sensibilità di Pusterla
nei confronti dei bambini.
“tetto rosso, prato verde” derivano da un disegno di Anna esposto in un museo presso cimitero ebraico. Il
regalo del papà è proprio il ricordo di Anna. Il terzo piano che si aggiunge a questi due è dal decimo verso in
poi: conferma che questi mostri e questa disumanità ormai è quella che sta intorno a lui. Polemica nei
confronti di tutti noi, che viviamo senza saperlo e immersi nella frenesia dimentichiamo di domandarci circa
noi stessi. “paura odio paria contro paria” i poveri, le difficoltà economiche, i conflitti sociali, tutto ciò
diventa una rissa di anime perse (immagine anime accalcate sulla riva dell’acheronte all’inferno).
Attraverso la progressione dei tre piani, si trasforma in poesia di denuncia sociale contro la degradazione
dell’umanità contemporanea. Rispetto a tutto ciò, il finale apre uno spiraglio positivo di speranza assegnato
ai bambini. Questo dono dal poeta ai bambini è un elemento che trasmette l’umanità del poeta e anche
praticato dai poeti che hanno scritto a partire dalle tragedie che hanno coinvolto i bambini nel 900.

Lezione 13/05/2022

È un titolo che prova evidenziare uno dei messaggi principali che il poeta vuole dare, il dar voce alle cose
senza storia. La storia distrugge non solo l’umanità ma anche la natura, anch’essa vittima di questa
tragicità.
Prima poesia: descrizione della natura nella sua dimensione vegetale.
Seconda poesia: variante umana e marina del contesto

Prima: elenco nominale senza verbi di movimento - il testo è una descrizione di un paesaggio, caratterizzato
da elementi poveri, umili, bassi, desueti ai quali non viene riservato un posto nella storia. È un paesaggio
che tramanda una condizione di dolore. “assediato” indica metaforicamente lo strazio di questa natura
aggredita dal dolore e dalla mancanza di libertà, prigionia. Confermato dall’immagine del pignone (ruota
dentata che non smette di girare, vita come ingranaggio), immagine della vita e del destino come un
ingranaggio che non si puo fermare, meccanismo di causa ed effetto. Questa serie di elementi viene
osservata dall’IO, che a un certo punto chiama in causa un ”tu” al verso 4: coinvolto in un’osservazione
comune, come se si debba immaginare un dialogo fatto di domanda e risposta. (poi diventa un NOI al
quartultimo verso). Cosi si spiega l’avversativa del verso 7: vuole controbattere, come se l’interlocutore non
volesse credere all’elenco fatto prima. Anticipa l’affermazione di vita del verso 7.
La seconda parte del componimento rincara la dose della violenza dell’uomo, aggiungendo l’immagine di
dolore e uccisione (radici sbilenche e incaprettate, che ricorda le esecuzioni mafiose.
È l’atteggiamento di chi non può negare la morte ma che contemporaneamente non può che resistere ed
insistere nella vita quotidiana. Anche Questa vita che tocca con mano la morte, è degna di essere vissuta.
Ecco che la possibilità di sopravvivenza e riscatto è associata allo sguardo di qualcuno, è siccome qualcuno
può guardare queste cose che queste possono esistere pur nella loro dramma: tema simile a quello della
memoria (qui visto in forma visuale). Conclusione: “moltissime ricchezze” elemento molto positivo
conclude in forma di antitesi quella positività intravista a fatica nell’esistenza delle cose senza storia. Sceglie
di esagerare per darci un aiuto nell’interpretazione di quanto detto prima.

Seconda: paesaggio marittimo. Si svolge nel suo ritmo come il primo componimento: è la stessa tragedia
che qui viene dimostrata dalle case. Si confonde col rumore del mare perché appartiene alla stessa visione
ideologica e però rischia di non essere sentito. La conclusione è la ripresa dell’inizio (struttura circolare). La
struttura del testo è analoga al primo, ed è la struttura del PARADOSSO: è una proposizione formulata in
apparente contraddizione con l’esperienza comune. Lo squalo è la Storia, che non prende nemmeno in
considerazione queste piccole case. Stesso meccanismo scandaloso di Manzoni o Verga, degli umili che
esistono accanto alle grandi cose.

Intitolato ad un amico suicida, quindi figura di sconfitto, tra le più basse e misere. In questa figura umana
depressa si costruisce il paradosso: Pusterla lascia intuire che nonostante questa sua sconfitta e debolezza,
anzi PROPRIO grazie a questa, acquisisce un valore, appare come un prodigio. Occorre scendere nel basso
per risalire e vedere il miracolo.
Si deduce che il protagonista si sia trovato nel luogo dove si è tolto la vita. Volutamente Pusterla lascia
ambigua la descrizione: non si sa se sia la descrizione del cadavere o di un suo vecchio modo di essere.
All’amico vengono riconosciute caratteristiche che vengono attribuite ad un viaggio meraviglioso. Il sorriso
somigliava al vento, a un cigno o a qualcosa di sconvolto. Tre attributi molto oscuri. La scritta maiuscola sa
di un’epigrafe tombale ed è molto generalista.
L’ultima immagine dei fiammiferi è enigmatica ma nonostante le aspettative sembra quasi bella, ci attiva
quella del mazzo gentile (mazzo di fiammiferi ricorda un mazzo di fiori) quasi in ricordo di chi verrà. Questo
testo un po' oscuro lo si commenta richiamando uno dei più celebri motetti montaliani “ti libero la fronte
dai ghiaccioli”. Questa è una poesia che immagina che il poeta accolga l’amata da un viaggio nella camera,
dalla quale finestra si coglie il nespolo (passare del tempo). Si comprende che gli altri stanno fuori (le altre
ombre), è quindi un nido, un interno protetto e racchiuso che distacca il poeta e la sua donna da tutti gli
altri. Il Montale delle Occasioni non è più da solo infatti. L’immagine di scantonare nel vicolo ci dice di
uomini che velocemente se ne vanno.
L’immagine è metafisica e salvifica, le nebulose sono nuvole di stelle. I cicloni antagonisti di Clizia (creatura
angelica che porta l’ipotesi di salvezza volando).
La conclusione della prima poesia aggiunge un’espressione esplicita “per dire che” che in Montale non c’è.

La folla sommersa sono gli uomini e le cose sommerse dalla storia e dal tempo che qualcuno deve provare a
trovare in superficie.
Meccanismo dell’intertestualità. Il poeta dialoga con Manzoni. Nella nostra cultura lo scambio dialogico è
fondamentale.
Stesso meccanismo dei testi precedenti.
Forza impunita procede imperterrita e senza ricevere nessuna resistenza è violenta ed ha a che fare con la
guerra e la battaglia questo viene ricordato dai cavalli di frisia. L’afrore è un odore acre, pungente, del
sudore. È quello dei cavalli, mosso da una forza impunita. Descrizione di un dopo-battaglia particolarmente
desolato. andamento della strofa molto elevato, il ritmo sa di epica. Registro si è alzato. Questo viene
realizzato attraverso la citazione iniziale ma che è desueta. Il quadro di devastazione è descritto nel cap 34
dove viene raccontato il ritorno di Renzo alla sua vigna.

‘Il rovo era per tutto’ può essere inteso come ‘il rovo era destinato per tutto’. Quelle pagine del romanzo di
Manzoni sono state considerate fra le più misteriose dei promessi sposi. Manzoni la inserisce nell’edizione
del ’27.
Significato allegorico: Manzoni ha voluto insistere sulla funzione poetica della lingua. Accumula una serie di
fenomeni formali. Funzione poetica intende che in quelle sequenze ha voluto evidenziare la forza e il
carattere artificiale della lingua, non fa nulla per dissimularla. Infatti assomiglia a delle prose barocche che
Manzoni usava per scrivere.
Il significato nascosto è fatto attraverso lo strumento tecnico dell’arte, che coincide con il sapere dell’uomo,
che a sua volta è devastatrice.
Intende rappresentare la furia della vita. La vitalità non è un messaggio positivo, ma c’è del male anche
nella natura. Paradossalmente questa furia sarà una fonte di riscatto per l’altro mondo, ci assicurerà il
paradiso. Ma questo non solleva l’uomo dalle responsabilità di questa vita. Il vero dolore non è quello delle
vittime, non quello dei carnefici. Il rovo quindi era per tutto.

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