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LETTERATURA

ITALIANA
DOCENTE: Roberta Ferro
ANNO SCOLASTICO: 2021-2022
PREMESSA
Sonetto n. 90 dal canzoniere di Petrarca

Testo Parafrasi

Erano i capei d’oro a l’aura sparsi ¹ I capelli biondi erano mossi da una leggera brezza
che ’n mille dolci nodi gli avolgea, che li avvolgeva in tantissimi morbidi riccioli,
e ’l vago ² lume oltra misura ardea e brillava a dismisura l’amorosa luce
di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi; ³ di quegli occhi belli, che ora non brillano più;

e ’l viso di pietosi color’ farsi, (in quel momento che sto ricordando) e mi sembrava che lei
non so se vero o falso, mi parea: ⁴ avesse il viso pietoso nei miei confronti
i’ che l’esca amorosa al petto avea, non so se vero o falso (forse mi sto illudendo):
qual meraviglia se di sùbito arsi? ⁵ perché stupirsi se subito mi innamorai, dal momento che
avevo l’animo predisposto all’amore?

Non era l’andar suo cosa mortale, Il suo procedere non era cosa mortale, non era come di
ma d’angelica forma; e le parole persona umana ma come di un angelo; la sua loquela aveva un
sonavan altro, che pur voce humana. ⁶ suono che sembrava molto diverso dalla semplice voce
umana.

Uno spirto celeste, un vivo sole ⁷ Dunque, colei che io vidi fu uno spirito celeste, una divinità;
fu quel ch’i' vidi: e se non fosse or tale, ma se anche lei non fosse tale, la ferita non risana quando
piagha per allentar d’arco non sana. ⁸ l’arco si allenta.

1. Overview
L’opera: Il canzoniere è uno dei grandi classici della letteratura italiana, il cui principale merito è di aver inventato l’introspezione
lirica: da un lato ha riproposto la lirica, genere classico, rilanciandola in avanti, verso la modernità; dall’altro ha fondato
l’introspezione (lo studio dell’io, dinamiche interiori) come l’intendiamo noi. Tutte le poesie (336) di questa raccolta sono, quindi,
concentrate sullo studio dell’io e la sua peculiarità è proprio questa: attraverso un’insistenza ossessiva sull’io, il soggetto che scrive
produce dei risultati nella sua introspezione che mai nessuno aveva raggiunto; e lo fa attraverso un testo letterario, uno strumento
particolare con le sue regole e i suoi meccanismi.

Messaggio del sonetto: Laura era bellissima quando il poeta la vide per la prima volta, ma anche se lei ora non lo fosse più, lui non
smetterebbe di amarla = l’amore per Laura è eterno e quindi sconfigge il tempo

2. Analisi
¹ Il nome della donna è nascosto dentro a “l’aura”. Ci confrontiamo di già con quella che è la matrice del canzoniere, Laura, la
donna di cui Petrarca si è innamorato. Ma il nome di lei assume più significati. Innanzitutto, porta con sé il significato dell’alloro (la
corona di alloro era usata per incoronare i poeti), cioè l’aurea poetica; quindi, Laura incarna la poesia. Il poeta è ossessionato dalla
donna, ma anche dalla poesia. L’amore per la donna diventa quasi un pretesto per proiettare l’amore per la poesia: lei, poesia, è
parte di lui. Qui, però viene evocata attraverso la brezza: questa dolce brezza rappresentava, nella poesia dell’epoca, la nostalgia e
il ricordo del paese di origine di lei. Era questa una moda, soprattutto dei poeti provenzali. L’incipit del sonetto introduce, dunque,
il tema della memoria e del ricordo, portato dalla brezza e già codificato poeticamente. Poi, il termine aura è il femminile di auro e
l’oro contraddistingue la divinità, il divino, il soprannaturale e questo introduce già il grande dissidio petrarchesco: la donna amata
di Petrarca non lo porta in paradiso ma in inferno. Laura è la tentazione, la passione, è donna terrena (a differenza di Beatrice). In
lei, in modo drammatico, si incontrano il sacro e il profano.

² Vago: amoroso, bello ma riferito alla sfera amorosa.

³ Laura non è più bella, forse perché è malata o forse Petrarca l’immagina già morta, quando il tempo le porterà via questa sua
bellezza presente.

⁴ Petrarca prova a ricordare il momento in cui restò fulminato da lei e, nel quale, a lui parve che lei corrispondesse, fosse
accondiscendente. Tuttavia, egli si presenta ipercritico e moderno nelle sue torture: riconosce il dubbio e ammette l’illusione.

⁵ Classica metafora attorno al termine esca, che all’epoca era il materiale che si usava per accendere il fuoco, in quanto altamente
infiammabile. Tale metafora gioca sulla sovrapposizione di un gioco di significato: se due parole hanno una porzione di campo
semantico in comune, si può costruire il gioco. In questo caso la capacità di innamorarsi condivide con l’immagine dell’esca la
passione, l’immediatezza e l’irruenza.
⁶ Le due terzine vogliono confermare e aggiungere argomenti a questa natura irresistibile dell’amore e lo fanno, innanzitutto,
attraverso l’uso di IPERBOLI.

⁷ Sole, oro, luce, esca, fuoco: qui come in altri componimenti si stabilisce una linea tra questi termini rendendo al testo letterario, in
particolare a quello poetico, una coesione che altri testi linguistici non hanno.

⁸ Metafora: allo stesso modo non è per lo smettere della sua bellezza, che il mio amore cessa.
A differenza della scienza, che prevede il minor tasso possibile di equivocità linguistica, la letteratura lavora enfatizzando al
massimo questa capacità enorme di portare tanto significato da parte delle espressioni e delle parole: invece di lavorare sul
significato denotativo, primario delle parole, i poeti lavorano sui significati periferici, soggettivi, liberi, individuali.

LA COMUNICAZIONE LETTERARIA
In relazione all’ambito di cui ci occupiamo (linguaggi dei media), dobbiamo considerare il testo letterario come una forma di
comunicazione (non univoca e immediata: serve una seconda lettura e del lavoro in più). Quindi, la prima domanda che ci poniamo
davanti ad un testo è: cosa ci ha comunicato?

Noi siamo partiti cercando di arrivare a comprendere il messaggio. Questo obiettivo, apparentemente scontato in quanto condiviso
per istinto e tradizione, non è veramente così scontato perché non è sempre stato considerato tale: la teoria della letteratura, cioè
quanti si sono occupati dell’aspetto più astratto e teorico della disciplina letteraria, si è interrogata, infatti, sulle possibilità e i modi
che si possono attivare davanti ad un testo letterario.
1. Da un lato, c’è la presunzione e la speranza di identificarsi col poeta. Ciò, però, è impossibile; soprattutto per un fatto
legato alla distanza temporale. Tuttavia, ci sono state correnti nella storia della letteratura che hanno enfatizzato questa
possibilità: si tratta di correnti concentrate nei periodi di maggior ottimismo nei confronti della scienza e dell’uomo. Per
esempio, tra 800 e 900, si sviluppò il positivismo, che pensava di poter adottare le sicurezze dell’approccio scientifico
anche nelle scienze umane. La disciplina di riferimento di questa tendenza è lo scientismo: movimento intellettuale sorto
proprio nell’ambito del positivismo francese e che attribuisce alla scienza la capacità di soddisfare tutti i problemi e i
bisogni dell’uomo.
2. Dall’altro lato, c’è la posizione di chi, di fronte ad un testo del genere (estraneo, difficile e lontano), abbia attivato
quell’orgoglio del lettore tale per cui, riconoscendosi incapace di identificarsi, diventa proprietario del testo, costruisco il
messaggio non a partire dall’intenzione del poeta ma a partire dalle mie esigenze emotive. Questa corrente è più
moderna, anche se esistente sin dall’antichità, molto importante nel 900 e ancora oggi. Essa enfatizza i diritti del lettore,
legittimi e previsti dalla natura del testo letterario stesso (l’autore vuole che il lettore proietti il testo sulle sue necessità);
ma in questo contesto estremizzati. Tuttavia, questo atteggiamento un po’ naif, se preso nei suoi principi filosofici, parte
da un atteggiamento di scetticismo, pessimismo: siccome io non posso sapere, rinuncio a capire e risemantizzo in testo.
Siccome Petrarca ha codificato un pensiero in segni, che necessariamente hanno tradito già il suo pensiero, allora noi
ancora di più, quando leggiamo il testo, dobbiamo ricodificare con un codice che però non coincide con quello originario,
nonostante ci illudiamo possa coincidere. Questi meccanismi di fruizione e condivisione del testo vengono paragonati alla
deriva dei significati: il significato trasmesso si allontana sempre di più dall’origine. Questa tendenza, per quanto
apparentemente innocua, nasconde un atteggiamento gravissimo, quello di falsare e rinunciare, per statuto, alla
comunicazione.
3. Infine, c’è un terzo risvolto: il tentativo di comprensione da parte del lettore del testo. Questo atteggiamento prevede di
lavorare senza arrivare a mettersi nella testa dell’autore: si tratta di una tensione. La disciplina è quella dell’ermeneutica
che è la branca dello studio dei testi, molto antica, che semplicemente vuol dire interpretazione fatta attraverso un lavoro
d’indagine che parte dal presupposto che il testo voglia comunicare.

GLI ELEMENTI DELLA COMUNICAZIONE


Allora dobbiamo inserire anche la comunicazione letteraria
all’interno delle teorie della comunicazione. Roman Jakobson
(1896-1982) semiologo e linguista russo ha concettualizzato
uno schema che comprende gli elementi della comunicazione
e le condizioni affinché la comunicazione possa funzionare.

Innanzitutto, si dà per scontato che esista un messaggio che è


il contenuto della comunicazione: l’amore per Laura è eterno.
Tale messaggio viene ideato da un emittente e raccolto da un
ricevente: in questo modo avviene la comunicazione. Poi,
deve esserci un codice, il linguaggio, condiviso tra emittente e
ricevente. Questa comunicazione, inoltre, deve passare
attraverso un mezzo, un canale (es aria. microfono). Questo messaggio, affinché possa venire colto, deve essere inserito all’interno
di un tema: il messaggio non è un’isola ma deve attivare una serie di collegamenti. Infine, questo tema / referente si trova spesso
associato al contesto, la situazione in cui avviene la comunicazione.

Tale schema di base, che si dà per scontato quando comunichiamo in generale, se applicato in contesto letterario, assume delle
specificità che dobbiamo ricordare.
1. Innanzitutto, l’emittente e il messaggio nella maggior parte dei casi costituiscono una coppia, che è staccata dalla coppia
testo- lettore: il testo è un diaframma che collega ma divide il lettore dal poeta. Questo salto esiste perché autore e
lettore non sono compresenti ed è come se il testo galleggiasse in questa sospensione, in questa condizione di
potenzialità, per poi venire riattivato dal lettore (correnti della critica che enfatizzano i diritti del lettore insistono sul fatto
che un testo non esisterebbe senza lettore).
2. Questa sospensione porta una serie di conseguenze. Dalla parte dell’emittente c’è una doppia perdita: l’assenza di tutti
quegli elementi paralinguistici (gestualità intonazione) che aiutano la comunicazione; l’assenza del feedback e di tutti
questi meccanismi di risposta e ritorno.
3. Questa serie di mancanze non è soltanto un elemento di svantaggio ma è anche rovescio della medaglia: noi possiamo
prenderci tutto il tempo che vogliamo per cogliere il messaggio. Questa non immediatezza fa sì che ci sia da parte del
lettore dello spazio di agibilità, di lavoro e di studio. Questo è importante se riflettiamo in particolare su una sfumatura:
noi siamo lontani secoli dall’autore ma già lettori prima di noi hanno letto il testo, elaborato il messaggio e ce lo
propongono. Ecco che allora abbiamo commenti, note e studi. C’è una tradizione di studio che viene in soccorso dal
punto di vista della documentazione e comprensione ma anche come arricchimento del significato del testo, il
messaggio diventa più ricco. Questo sempre perché la natura del testo letterario è aperta.
4. La lingua letteraria si specializza nel codice. Il codice deve essere arbitrario e condiviso. Esso ha origine da un accordo
(come la lingua: non naturale, ma frutto di un patto -> anche se qualche elemento linguistico naturale esiste:
onomatopea, in quanto nella sua forma corrisponde alla natura). Il codice deve essere condiviso, ci deve essere un
accordo affinché sia efficace. E questo non è automatico; l’italiano che usiamo noi per la comunicazione orale non è lo
stesso di Petrarca:
- C’è di mezzo la sequenza temporale che divide quasi sempre il lettore dall’autore (le parole hanno cambiato
significato, bisogna rimettere in sintonia il codice);
- Siamo di fronte ad un codice iper-specialistico (la lingua scritta di Petrarca non è la lingua parlata da lui= vernacolo,
ma si tratta di una lingua letteraria: un codice da apprendere e condividere con i suoi lettori) appartenente alla
letteratura al cui interno ci sono tanti sotto-codici particolari (la lingua di quel sonetto è anche lingua della lirica
non solo letteraria, e il codice della poesia lirica è in parte differente dalla prosa, ma anche dalla poesia
narrativa=poemi);
- Siamo davanti alla lirica di un certo gruppo di poeti, e quanti condividevano quel codice sapevano che un tale
termine aveva un significato specifico;
- Petrarca ha il suo stile, il petrarchese: tanto più un autore è grande e un testo è un capolavoro tanto più raggiunge
un grado di estrema specializzazione e distinzione di stile (ciò che individua in termini espressivi lo scrittore).
[Stilus= rimanda alla bacchetta usata per tracciare i segni sui blocchi di argilla, strumento che individuava quindi il
tratto segnato per primo]. Ogni artista ha il suo tratto riconoscibile.

LE FUNZIONI
L’altro aspetto che ci riporta alla teoria della
comunicazione è che possiamo fare delle
considerazioni a partire dalle funzioni: le situazioni
comunicative sono molto varie e si differenziano tra di
loro perché enfatizzano funzioni differenti. Per
esempio, la poesia lirica lavora molto sulla funzione
emotiva perché parla dell’io. La cosa interessante è
che il testo letterario è tale, cioè comunica come testo
letterario, quando enfatizza la funzione poetica
(condizione necessaria del testo poetico: anche se un
testo letterario può avere oltre a questa anche altre
funzioni): ovvero il contenuto della comunicazione,
l’oggetto della comunicazione (il significato), deve
legarsi indissolubilmente alla forma, in modo tale che diventi a tutti evidente che quel messaggio espresso in altra forma cambia
(es. parafrasi è tradimento del testo). Tale è una funzione difficile da definirsi e in termini più teorici può essere vista come
l’orientarsi della lingua verso il messaggio per sé stesso (Caporale). La poesia è un messaggio che guarda sé stesso (Anche altre
forme d’arte come la pubblicità fanno la stessa cosa: ogni comunicazione che si identifica come tale perché lavora sul messaggio.

Ma per capire veramente cosa sia questa funzione poetica, notiamo che la comunicazione letteraria, dove la funzione poetica
lavora particolarmente, è tale perché sposta l’attenzione dall’asse della selezione (significante/significato) all’asse della
combinazione.
SELEZIONE: Innanzitutto, questo significa vedere il testo come insieme di segni (verso semiotica). Un segno, una parola, è insieme
di un significato (immagine mentale di un oggetto) e di un significante (suono). L’associazione tra il significato e il significante non è
naturale o arbitraria (tranne onomatopee), ma ci va una scelta, la condivisione di un codice (scrivania, cattedra, table). Questa
associazione fa sì che chi parla o scrive, prelevi certi elementi dal codice condiviso e li organizzi (c’è un momento di
organizzazione/selezione e di combinazione). La selezione è un momento delicato perché tutti i significati hanno un nucleo forte e
duro, un centro certo e rigoroso (usato dalla comunicazione scientifica), e tutta una periferia fatta di significati sempre più
soggettivi. Questo centro è chiamato aspetto denotativo, la periferia prevede invece gli aspetti connotativi (legati a riferimenti
culturali, religiosi, individuali o collettivi). Se noi comprendiamo questo modo di selezionare parole, riusciamo a toccare con mano
“la scatola dei colori del poeta”, a capire la sua scelta. La comunicazione letteraria seleziona le sue parole soprattutto per il loro
valore connotativo; questo ci permette di appropriarci del testo: il significato è aperto perché i suoi elementi sono fatti apposta
per andare incontro a chi riceve (ci deve essere almeno una sovrapposizione).

COMBINAZIONE: Una volta fatta la selezione, questo segno va combinato con gli altri segni per costruire la sintassi. Si passa
dall’asse paradigmatico a quello sintagmatico, dalla serie lineare alla concatenazione dei segni tra loro in modo da determinarsi
reciprocamente (letteratura poetica dotata di un certo ritmo). Questo momento della combinazione, apparentemente
secondario, è prevalente perché determina la coesione del testo e rivela la natura originaria della poesia che è la musica.
Questo momento della combinazione è intendere il testo come una struttura; tale termine arriva dalle riflessioni teoriche della
critica del ‘900, lo strutturalismo. Notiamo, quindi, come questa parola rinvii all’ambiente architettonico: il testo è un edificio dove
gli elementi sono in equilibrio dinamico, in relazione tra loro. Queste relazioni latenti, cioè interne/profonde, tengono in piedi il
testo come unità (il testo è insieme di relazioni latenti) e si distinguono in: attinenti il discorso (ovvero piano letterale, testo
verbale, ciò che sta fuori: fonetica, morfologia, sintassi, metrica) o attinenti la semantica (dentro: contenuti, significati, sensi,
simboli, temi). A determinare lo stile di un testo è proprio la combinazione di queste relazioni tra di loro (opera, autore, genere,
tradizione).

L’analisi del testo ha lo scopo di portare in superficie queste relazioni. Anche se non sempre l’analisi di un testo letterario è stata
fatta in questo modo: in passato non ci si interrogava sugli elementi del significato, significante, i legami... È una scelta. Secondo
alcuni movimenti, infatti la poesia non va spiegata, ma è esaustiva così com’è (Benedetto Croce e Francesco De Sanctis), la
comunicazione è immediata; e se si spiega, si tradisce l’opera. Questa modalità di analisi del testo, legata al formalismo e
strutturalismo (1965), è uno strumento e un passaggio che ci aiuta ad avvicinarci al messaggio dell’autore.

LA METRICA
La metrica è uno di quegli elementi/livelli che tengono in piedi la struttura, è forse la dimensione portante di un testo letterario.
La variabile metrica è ciò che distingue un testo poetico da un testo non poetico, e più in generale un testo letterario da uno non
letterario. Questo perché si può parlare di metrica anche per i testi in prosa, dove si possono fare delle osservazioni relative al
ritmo della prosa (anche se oggi ne abbiamo perso la percezione tranne per la prosa d’arte). Infatti, alle origini della prosa letteraria
italiana (nel 1200-1300, in quei componimenti in lingua volgare), quando si parlava di prosa d’arte (e non di prosa di servizio),
esistevano elementi della metrica poetica; che erano ancora quelli della metrica classica (c’erano questioni di quantità anche nella
prosa; si chiamava cursus).
La metrica è quindi ritmo e il fattore ritmico è ciò che determina quei momenti di selezione e combinazione: l’autore seleziona e
combina le parole, ascoltando e seguendo un ritmo. I fenomeni metrici sono la stessa cosa dei fenomeni musicali, perché legati al
ritmo. Alle origini, la poesia era infatti musicata e anche la metrica, come la musica, organizza nel tempo alcuni fenomeni, alcuni
suoni, secondo dei rapporti di durata e intensità.
Questa musicalità della poesia data dal ritmo è cambiata nel tempo. Nella poesia latina/antica, il ritmo era dato dal disporsi di
elementi di quantità differente (lungo-breve). Ad un certo punto, però (non si conosce ancora il motivo o il momento esatto:
alto/basso medioevo), il fattore distintivo passa dalla quantità alla qualità: probabilmente all’orecchio degli uomini diventa più
interessante un fattore di qualità, accentato o non accentato, tonico o atono. In questo senso, la metrica della letteratura italiana è
di tipo QUALITATIVO.
La metrica italiana è qualitativa e quindi ACCENTUATIVA: nel metro/verso, il ritmo è dato dalla disposizione, dall’ordine, di
elementi atoni ed elementi tonici (sillabe accentate e non). Per questo, la metrica italiana è detta anche SILLABICO-
ACCENTUATIVA: l’unità è la sillaba, ed essa si distingue perché può essere atona o tonica; la metrica si interessa dunque al numero
delle sillabe e alla posizione degli accenti tonici. Ogni parola della lingua italiana sta in piedi perché ha un centro, un punto tonico: a
tenere in piedi veramente sono le vocali anche se per convenzione si parla di sillaba tonica [Parola tronca=accento alla fine;
Piana=accentata sulla penultima; Sdrucciola=sulla terzultima; Bisdrucciola].
La posizione degli accenti è fondamentale per dare il ritmo di un verso. Per comprendere il ritmo di un verso, si potrebbe fare a
meno di dividere le parole, ma guardare il verso come una catena continua di sillabe. Questo perché è talmente forte l’elemento
ritmico, che fino ad un punto avanzato della storia della scrittura, fino al basso medioevo/1400, le parole e nemmeno i versi non si
separavano. Tutto ciò legato a motivi pratici ed economici: la carta non esisteva o era materia rarissima; si scriveva sulle pergamene
che però costavano e quindi si tendeva a risparmiare spazio. All’epoca, come ancora oggi, era il ritmo che indicava la poesia.
PRECISAZIONE SUI NOMI DEI VERSI: Endecasillabo= verso in cui l’ultima sillaba accentata, l’ultima tonica, è la decima. Chiamato
così perché la maggior parte delle parole italiane sono piane, hanno cioè una sillaba dopo quella accentata. Il nome deriva, quindi,
da un fatto statistico, numerico.

CONSIDERAZIONI:
- Gli accenti sono importantissimi: vivacizzano la poesia, velocizzano il ritmo. In ogni verso della poesia italiana, oltre
all’accento primario ce ne sono altri che venivano colti dal lettore e realizzati dal poeta: l’endecasillabo, per
esempio, deve prevedere al suo interno almeno altri due accenti (quarta, sesta, o solo una delle due). La posizione di
tali accenti determina dei ritmi differenti.
- Il poeta può decidere di spostare l’accento per una questione di rima: piéta o pietà. Esistono regole interne al
codice, che però non sono imposizioni, ma vengono gestite in maniera dialettica con le libertà. Ci sono spazi piccoli o
grandi di libertà che il poeta può prendere: questo determina in parte il suo stile. Si mettono in atto quei meccanismi
di libertà e costrizione da lui usati per marcare il significato, per far incontrale livello formale con il contenuto. In
queste situazioni, si vede attiva la funzione poetica: legame tra ciò che si dice e il come.

Il VERSO può essere definito come l’unità minima che da sola può costituire un discorso in versi compiuto: perché ci sia poesia
deve esserci almeno un verso. Questa, però, è l’eccezione: nella maggior parte dei casi i versi si riuniscono in strutture dette strofe.
Esse sono una costante della poesia antica e moderna fino all’Ottocento, poi cedono il passo a delle strutture poetiche moderne
continue, dove apparentemente non ci sono le strofe. Tali strutture sono tipiche della modernità (a partire dal Romanticismo) ma
già prima le vediamo. Ma che cosa determina la strofa? Che cosa rende una strofa tale? Non lo spazio bianco, ma la rima, la forma
e la struttura della rima.
La quartina è tale perché ha rime ABAB: è la ricorrenza della rima secondo certe forme che determina la strofa. A prova di ciò
ricordiamo che, una volta, si scriveva in strofe ma esse graficamente non comparivano: era la rima che determinava il tutto.
La rima è un altro fenomeno ritmico, un fenomeno cioè legato al suono. La RIMA c’è quando abbiamo identità di suono dalla
vocale tonica in poi: non è l’uguaglianza ultima sillaba. Questa natura della rima costruisce le strofe: versi che si assomigliano, che
sono uguali dalla tonica in poi, verranno indicati con le lettere dell’alfabeto. A seconda di come si formano queste ricorrenze di
lettere, abbiamo le strofe.
→ Diversi tipi di strofe in base alla disposizione delle rime: rime alternate ABAB, rima baciata AA, incrociata ABBA, terzine a rima
incatenata ABA BCB CDC.

Le strofe a loro volta costituiscono, a seconda della loro natura e della quantità, varie tipologie di testo.
ESEMPI: Sonetto: componimento fatto da due quartine (stesso schema) e due terzine (più libere), 14 versi
Ottave: primi sei versi rima alternata e altri due rima baciata. Tipica della poesia narrativa nella letteratura italiana. (prima anche il
racconto era in versi, forma più idonea per la funzione dell’epoca e l’oralità della narrazione)

CONCLUSIONE: La metrica non è qualcosa di aggiunto, una costrizione; ma la fonte primaria, l’origine stessa della poesia. Un
pensiero che possa chiamarsi poesia non può non nascere in metrica e siamo noi che a posteriori, non poeti, facciamo l’analisi. Il
poeta non fa prima lo schema e poi la poesia; ma la inventa e la pensa direttamente così. L’invenzione in ambito letterario
(etimologia → inventio: ritrovamento, trovare): ciò che si vuol comunicare poeticamente parte già in forma metrica.

METRICA E INVENZIONE: passaggio di Cesare Segre, uno dei più grandi maestri
della critica del 900

Tra alternative: libertà; e costrizione: regola

Questi effetti di attesa/sorpresa… sono i meccanismi mentali naturali di ogni


esperienza estetica. Ogni grande artista sa che ha delle attese e
programmaticamente le tradisce. In questa dinamica, in questa tensione attiva
tra attesa/sorpresa (soddisfatta e non), si istituisce il momento estetico.

Ogni grande poeta è colui che prende la tradizione, le regole, rispettandole; ma


la gestisce liberamente.
Figure retoriche
Le figure retoriche (all’interno delle quali rientra la metrica stessa) sono strumenti di lavoro del poeta, non sono costrizioni o
formalismi che appesantiscono; ma sono il modo in cui il poeta tratta, con molta più libertà rispetto ad altri contesti linguistici, il
codice. Esse si dividono in grandi famiglie che rinviano ai diversi livelli (morfologia, suono), alle diverse linee strutturali che nel
testo poetico devono legarsi le une alle altre affinché ci sia la funzione poetica.

METAPLISMI: la famiglia che lavora sulla forma delle parole, sul suono

- Quasi-rime/
rime imperfette
- Rima: figura
retorica che lavora
sul suono
- Allitterazione:
Petrarca → frase
balbettata/
rimprovero

METATASSI: figure retoriche che lavorano sull’ordine, sulla posizione della parola nella catena (combinazione)

→ Famiglia
parallelismo: fenomeno
ampio

- ABC-CBA chiasmo
- Climax: elenco di
elementi disposti in
modo graduale
METASEMEMI: lavorano sul significato (aspetto connotativo-denotativo)

Similitudine: paragone
esplicitato; metafora
più breve, implicito,
coinciso (ma entrambe
lavorano sulla
somiglianza di
significato, porzioni
semantiche in
condivisione)

Sineddoche: grande
per piccolo e vice

[dolce è gusto umano preferito, per questo usato come metafora: poesia è il luogo dove esistono le cose impossibili]

- Perifrasi se
inequivocabile è
antonomasia

- Personificazione: gli
oggetti scelti devono
avere elementi umani
e devono agire/parlare

- Adynaton: perifrasi
per mai

METALOGISMI- FIGURE DI PENSIERO (sforzo logico)

Richiedono più sforzo delle figure di significato; perché il valore logico della frase viene completamente modificato e il piano
letterale non aiuta la comprensione (serve un supporto esterno per far fronte allo stacco). Se non avessimo qualcuno che ci spiega,
non potremmo da soli fare il passaggio, per esempio, da Virgilio a ragione. Serve un lavoro di tipo logico e razionale ulteriore. Sono
le più usate perché colorano di irrealtà ed irrazionalità il testo, sorprendono e perplimono. Sono figure che creano dei nuovi
significati a partire da altro.

- Ironia può essere anche bonaria, sarcasmo pungente (Antifrasi, ironia, sarcasmo: dire il contrario)
- Allegoria del Veltro: un po’ tirata, molto criticata
- Simbolo: è spesso un OGGETTO che rappresenta un concetto astratto <> Allegoria (Virgilio: persona)
- Figura è un tipo speciale di allegoria
Dante, Inferno I
Inferno, I è il primo canto dell’inferno, ma è meglio considerarlo come il primo della Divina commedia, in quanto funge da
INTRODUZIONE all’intera opera (100 canti, di cui il primo in più; il vero primo canto dell’inferno è il secondo).

POLISEMIA DELLA COMMEDIA = tanti significati. La polisemia è uno dei valori distintivi della comunicazione letteraria, uno degli
elementi che caratterizzano il testo poetico e la funzione poetica. La parola letteraria è infatti il segno che costituisce il mattoncino
attraverso il quale si costruisce il testo letterario, ed essa si riempie di un significato molteplice, che non ha confini o delimitazioni
(connotativo- denotativo); ci sono tante possibilità di interpretazione, un’interpretazione che è quindi aperta. È il caso del primo
canto e della commedia intera: Dante esordisce sin dal primo verso parlando di cammin di nostra vita.

- ANALISI -

Nel mezzo del* di nostra vita*


mi ritrovai per una selva oscura*,
ché la diritta via era smarrita*.

Il primo canto in generale ma soprattutto il suo inizio è caratterizzato da un andamento piano, lineare, semplice.

* Il poeta scrive il cammin della nostra vita, non della sua. Questo “nostra vita” apre e riflette l’interpretazione del testo a tutti i
lettori (non solo a Dante personaggio e autore). Dante ci mette di fronte subito ad una verità per lui importantissima, il motivo che
ha determinato la scrittura della commedia: l’esperienza che racconta è individuale, compiuta da lui il Venerdì Santo del 1300, ma
programmaticamente viene quasi imposta ai lettori come esperienza comune, condivisa, da condividersi. Dante, come poeta, era
convinto di avere una missione profetica, quella di raccontare l’esperienza vissuta da lui stesso per il bene di tutti. Il cammino che il
personaggio Dante inizia e compie nei tre regni è il cammino della vita di ciascuno di noi.

* Come prima cosa Dante dà un’indicazione sul tempo (come in un qualsiasi tetso narrativo): Dante racconta la visione avvenuta,
subita, la notte del Venerdì Santo del 1300, a cui noi lettori dobbiamo credere. Questo momento di cui lui parla (nel MEZZO del
cammin) è per convenzione il momento della vita di un trentacinquenne. E questo “nostra” significa sia che la metà della vita di
tutti è più o meno questa, ma va anche a sottolineare il coinvolgimento del lettore, pretendendone l’immedesimazione.

→ Metafora al primo verso: la vita come un cammino. Nel mezzo del cammin= nel mezzo del tempo della nostra vita. Il tempo è
solitamente qualcosa che dura nella pratica come un percorso, ecco che la vita può paragonarsi ad un cammino: tratti di campo
semantico in comune.

* Selva oscura: contiene metaforicamente un altro significato, questo è il caso di un punto del testo dove il piano letterale vale
tanto quanto il piano di seconda lettura, allegorico. Questo perché il personaggio che dice io si è trovato davvero in una selva, ma
contemporaneamente dobbiamo accedere al secondo livello di significato che ci istruisce sul fatto che questa selva è la condizione
del peccato. Ciò che accade qui al personaggio è una situazione di smarrimento, crisi, perdizione, disorientamento; esattamente
quale capita ad ognuno nella propria vita. Il fatto di aver perso il punto di direzione, ce lo dice il terzo verso.

* Di questo verso terzo guardiamo il verbo smarrita. Dante non scrive perduta, sia per la rima sia. È uno dei casi in cui il livello
fonetico, il suono, la parte del significante si ritrova con il significato. Differenza tra smarrita e perduta: si può ritrovare qualcosa di
smarrito ma non qualcosa di perduto. Alla base del messaggio: salvare anime e riportarle a Dio. Il termine perduto e perduti è il
termine più pesante che caratterizza i dannati dell’inferno.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura


esta selva selvaggia* e aspra e forte*
che nel pensier rinova la paura!

La seconda terzina introduce un passaggio ulteriore. È come se si introducesse uno spazio in più. Nella prima terzina abbiamo un
primo momento della narrazione, un primo spazio, qui è come se l’emittente facesse un passo indietro e formulasse un giudizio:
timidamente, fa un passo avanti il poeta e un passo indietro il personaggio. Prendiamo coscienza della presenza di una duplice
voce nel testo: Dante personaggio e Dante poeta-autore; si tratta infatti di un’opera autobiografica. Questo è molto interessante:
chi scrive ricorda una cosa passata, ma questa esperienza è un’esperienza che non si può ricordare (la visione di Dio, che Dante ha
alla fine, è talmente straordinaria che va oltre le facoltà umane), per la quale la memoria cede, ma cede anche la parola: si tratta di
un’esperienza ineffabile perché non si può dire. Si instaura una tensione molto evidente tra la materia e il racconto, tra ciò che si
vuole e si riesce a raccontare. Già qui vediamo l’espressione da parte del poeta della forza straordinaria dell’esperienza compiuta
(più visibile poi nelle altre cantiche): questa selva ha terrorizzato il personaggio e la paura, da essa provocata, al solo ricordo si
rinnova.

* Selva selvaggia = figura di ripetizione di suoni, allitterazione -s (suono sibilante che riproduce il fastidio). In più questa ripetizione
gioca anche con i significati: tra selva e selvaggia c’è una parentela di significati. Si parla quindi anche di una figura che possiamo
chiamare paronomasia o annominatio alla latina. Ancora una volta, partecipano in maniera dissolubile suoni e significati.
* Dante doveva comunicare con forza questa paura terribile che è la paura del peccato, che terrorizza l’uomo. Questa selva, quindi,
viene resa terrificante da un climax (selvaggia, aspra e forte che sono messi in serie verso il peggiore). Una climax data attraverso
un polisindeto, che determina, tra l’altro, un’immagine poetica.

La scrittura poetica comunica per immagini, più che ragionamenti o che per descrizioni realistiche. L’immagine è un codice di tipo
iconico. Questo era l’obiettivo del poeta: procedere per immagini.

Tant’è amara* che poco è più morte;


ma* per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ ho scorte.

* Metafora: amara, nessuno assaggia la selva, ma siccome l’amaro è quel gusto che provoca fastidio e dolore viene utilizzata in
riferimento a questa selva; paura e selva sono amare quasi come la morte

* Ma= antitesi, opposizione produttiva. Nonostante il dolore, il peccato, la quasi morte, la missione del poeta è trattar del bene,
dire, raccontare, trasmettere il bene che io vi trovai. Il bene viene lasciato volutamente ampio ed equivoco: significa sì tutti gli
insegnamenti che Dante ha potuto ricavare dallo smarrimento nella selva, quei semi della rinascita dallo scopo didattico; ma il bene
può anche essere riferito al più vicino Virgilio. Nel primo canto, c’è infatti l’incontro tra Dante e la sua guida.

Notiamo altre caratteristiche del primo canto, che ci vengono suggerite da queste prime terzine:
- Ambiguità: nel senso positivo del termine, ciò che è un disastro nel linguaggio scientifico, nel caso della letteratura è
un valore aggiunto a meno che questa ambiguità non diventi oscurità. C’è differenza tra poesia difficile e oscura.
Le poesie antiche (fino al romanticismo) possono essere difficili, la poesia moderna e contemporanea, invece, a
volte, è oscura. L’oscurità è voluta dal poeta, può far parte delle sue strategie (es Montale); legata ad una
spiegazione che si esula del tutto dagli strumenti per l’interpretazione che il lettore ha a disposizione. La poesia
antica, invece, è difficile per quella lontananza che si è verificata tra lettore e autore: con il lavoro, lo studio, la
contestualizzazione, il commento, il dizionario, la poesia difficile si può comprendere. Ma la poesia oscura no.
- Opacità: caratterizza il modo di procedere del linguaggio poetico. È un valore positivo, aggiunto, proprio per
trasmettere l’idea che il raggiungimento del significato non è immediato ma è opaco: il testo richiede e prevede una
serie di filtri, di elementi di disturbo che non fanno altro che arricchirlo di significati. Opaco si oppone a trasparente,
parola che ha invece un’accezione negativa: il testo trasparente è il testo che subito espresso arriva e poi finisce lì. Il
testo opaco è un testo che costantemente stimola la riflessione, la lettura, la ricerca di altri significati.

Io non so ben ridir com’i’ v’intrai*,


tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai. *

* Inizia il racconto di questo smarrimento e i versi 10-12 vanno a rinforzare, precisare, la natura dello smarrimento. Notiamo ancora
l’uso di uno stile piano: io non so bene come entrai lì→ osservazione semplice, lineare.

* Tanto ero pieno di sonno quando abbandonai la via della verità, quella dritta. Anche qui c’è un primo livello testuale che tiene:
Dante personaggio ci racconta una visione, un’esperienza che ha a che fare con un incubo, con un viaggio mentale.

Ci sono stati interpreti che hanno insistito su questa chiave di lettura: il racconto di questo viaggio come di un sogno. Si ritrovano
nel testo, quindi, elementi caratteristici di racconti onirici. Parliamo di quei critici che lavorano secondo la critica psicanalitica. Lo
psicanalista/psicologo non lavora coi sogni, ma ha bisogno del racconto di un sogno: tale testo funziona secondo dei meccanismi
formali che ritroviamo spesso in letteratura. La dimensione onirica è fortissima in letteratura, come anche in tutta la sfera
artistica. Freud stesso ha nominato le sindromi e i problemi psicoanalitici secondo i titoli dei miti antichi: sono le antiche tragedie
che sono il racconto di strutture della psiche. (lo rivedremo in Petrarca, Dante è più quadrato)
È Dante stesso che autorizza e suggerisce questa interpretazione psicanalitica della commedia, descrivendo Dante-personaggio
come pieno di sonno. L’atmosfera che aleggia nella selva è dunque onirica, ambigua. Inoltre, proprio come nei sogni, si accampano
senza preamboli delle figure che ritroviamo improvvisamente.

C’è, però, un secondo piano di lettura, forse più opportuno: quello di intendere questo sonno in chiave metaforica, allegorica. Il
sonno non è quello del dormiente ma quello dell’anima che non è più vigile e quindi è preda del peccato. Infatti, Dante con quel
“che” spiega la causa di quel sonno: avevo perso la retta via, il sonno è il sonno dell’anima. [Su quel “che” si dice, poi, che possa
avere anche valore modale, non solo causale, ma sono tutte supposizioni]
Ma* poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto*,

guardai in alto e vidi le sue spalle*


vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle. *

* Ma → il verso si oppone: prima la paura, il sonno, il dubbio; ora invece un moto opposto. Il poeta prosegue: quando io giunsi ai
piedi di un colle, proprio là dove terminava la valle, la selva, che mi aveva riempito il cuore di paura. E vidi le spalle, cioè le pendici
del colle, illuminate dai raggi del sole, che è quel pianeta che conduce ciascuno per la retta via, la strada giusta.

* Cor compunto= metonimia, cuore riempito di punture, trafitto. È figura di significato: quando si ha paura non è vero che si viene
feriti al cuore. Ma è anche una metonimia perché secondo gli antichi il cuore era la sede delle emozioni e quindi è come se ci fosse
uno spostamento tra la sede, l’organo, e la sua funzione, emozione, emotività. Ma a soffrire è l’animo, non l’organo fisico.
Importante è capire che è l’animo pieno di paura non il cuore.

* Spalle= metafora, che un colle abbia le spalle nessuno può crederlo. Ma immaginando il colle in forma umana, le pendici sono le
spalle. Ma nella parafrasi non lasciamo spalle, ma scriviamo pendici.

* Antonomasia per sole: per aumentare l’importanza di questo punto, ci indica il Sole attraverso un giro di parole. In questo modo,
rinforza anche la lettura in chiave positiva di ciò che sta per succedere. Sicuramente è perifrasi, forse anche antonomasia: è un
detto comune che sia il sole ad indicare la retta via.

Allor fu la paura un poco queta*,


che nel lago del cor* m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta*.

*La vista dei raggi del sole acquieta un poco in Dante quella paura che gli era durata per tutta la notte (pieta= paura, tormento).

*Espressione che contiene un termine che ha modificato il suo significato nel corso dei secoli. Al tempo di D, indicava non solo lo
specchio lacustre ma anche un volume concavo = quindi la cavità, lo spazio del cuore (lago è, in effetti, uno spazio concavo
riempito di acqua). Non è proprio una metafora ma si tratta di un termine che era usato all’epoca in un’accezione più ampia
rispetto a quella moderna. Il significato è quindi nel profondo del cuore. La figura di significato non è sul lago, ma è sul cuore:
metonimia, per la tradizione medica i sentimenti si situano nel cuore, che è sede delle emozioni (perché batte fuori, rallenta a
seconda dell’emozione), c’è quindi uno scambio tra organo ed emozione.

*Pieta: è una specie di licenza poetica, che D si prende. È una forma un po’ anomala che il poeta va a recuperare per poter ottenere
la rima. Quasi licenza perché in realtà la forma pieta non è inesistente, ma è la forma più vicina etimologicamente al termine pietas,
pietatis sostantivo latino da cui arriva pietà (le parole italiane arrivano dall’accusativo latino es: pietatem), usa forma più rara ma
vicina al nominativo in latino, alla natura del latino. Dunque, è una licenza ma che ha ragioni nella storia delle parole. Sul termine
pietà, D appunta delle attenzioni notevolissime. Qui significa tormento, paura, sofferenza: un po’ più lontano rispetto alla nostra
accezione (compassione). (in Inferno V, ricordato come il canto della pieta, con Paolo e Francesca invece significherà paura ma
anche compassione). Parola, quindi, ricchissima anche perché individua una delle caratteristiche della cultura cristiana.

E come quei* che con lena affannata*,


uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata*,

*Similitudine con un naufrago: come chi con respiro affannato (ansimando), uscito fuori dal mare sulla riva, si gira verso l’acqua
pericolosa e guata…

*La parola lena significa già respiro affannato (di buona lena, allenato), respiro visibile materialmente, ma D aggiunge ancora una
volta affannato: D come il naufrago ha fatto una gran fatica ed è spaventato (scampato dalla morte).

*Pelago: è sparita dal nostro dizionario ma all’epoca indicava il mare. (impelagato: tra le onde). Esempio di lingua che è cambiata.
No figura retorica.

*Il verbo guatare vuol dire guardare, ma è di una tipologia detta intensiva: il verbo guatare è intensivo di guardare e significa
guardare intensamente, senza distogliere lo sguardo; ed è verbo tecnico nella poesia delle origini perché si usa di solito nella
poetica amorosa per dire l’innamorato che guarda l’innamorata.
così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo*
che non lasciò già mai persona viva*.

*D è come il naufrago e percepisce la salvezza, speranza. Ma ha ancora paura. Allora si gira a guardare il pericolo scampato con lo
stato d’animo un po’ diviso: sa di essersi salvato ma ha ancora paura, sta ancora scappando dalla selva.

*Usa animo non anima: non sono sinonimi né oggi né anticamente, animo è più vicino alla forma latina e significa
intenzione/volontà non rimanda alla parte sovrannaturale, allo spirito. Sottolinea la sua volontà di scappare ancora per la paura.

*Lo passo: già contiene l’idea di pericolo, non è un semplice passaggio ma rimanda ad un passo alpino, un valico, per pericolosità.

*Che non ha fatto sopravvivere nessuno, che non lasciò mai alcuno sopravvivere
Varie letture: si può intendere anche che nessuna persona viva ha mai lasciato, che nessuna persona viva è mai riuscita a fuggire
dall’Inferno, dalla selva. Anche se è più corretta l’idea della selva che uccide tutti; perché vicina al significato allegorico della
commedia. Dante parla di morire: non solo morte del corpo, ma anche morte dello spirito → perdizione appena sfiorata avrebbe
significato morte assoluta.

Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,


ripresi via per la piaggia* diserta*,
sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso*. (30)

Premessa: Siamo di fronte alla prima delle tre fiere/mostri che provano ad impedire la salvezza del personaggio, e a costringerlo a
tornare verso la selva e non verso il colle, che illuminato dal sole, è simbolo di speranza.
Questa prima terzina è semplice, lo stile piano che rinforza l’idea di salvezza e quiete ritrovata.

*Piaggia: termine uscito dal nostro dizionario, non più in uso. Esso indica, con la precisione lessicale degli antichi nella descrizione
del paesaggio, quel particolare punto del terreno che c’è tra la pianura e l’inizio di un monte.

*Diserta: richiede attenzione sul significato. Il luogo dove si trova D è deserto, perché non è presente nessun altro, c’è solo lui. Ma
non è un luogo desertico: è deserto perché come i deserti non ha presenza umana, privo della presenza di altri. Può essere
considerata come una specie di metafora. Questo deserto segnala il peccato perché culturalmente, se pensiamo alla cultura biblica
in particolare, il deserto è il luogo del peccato, smarrimento, solitudine; dove gli eremiti vanno a sconfiggere la tentazione. Il
deserto è quindi indizio della presenza del peccato.

* (cercare significato metaforico) Perifrasi per dire in salita: il piede fermo è più in basso di quello che si muove, che va in su.
Questo rallentamento dello spostamento ferma l’attenzione sui piedi del personaggio perché all’improvviso deve arrivare la lonza,
la prima fiera. Questo stacco è prodotto da “Ed ecco” che serve per introdurre un avvenimento improvviso e per staccare una
sequenza dall’altra (calco dal lessico biblico: usato per segnalare l’avvento di un miracolo), ma è prodotto anche da questo
rallentamento.

Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,


una lonza leggera e presta molto*,
che di pel macolato era coverta;

*La lonza è allegoria della lussuria, o forse anche dell’invidia. Essa è una sorte di lince: nei secoli passati si trovavano nei boschi
dell’Italia centrale, anche se, oggi come all’epoca, sono rare (nel 1285 una era tenuta in gabbia a Firenze, per questo D la vede).
Leggera e veloce, rapida: serve per rinforzare l’allegoria→ alla lussuria si cede velocemente, è una tentazione immediata che
caratterizza l’errore umano. Il vizio che questo animale rappresenta è segno della volubilità dell’uomo che cede facilmente alla
tentazione.

e non mi si partia dinanzi al volto*,


anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.

Questa fiera si mette davanti al volto di D, davanti alla sua fronte; e impediva tanto il cammino che per più volte lui si gira per
tornare indietro.

*sineddoche: volto per corpo. Il termine serve anche a Dante per giocare con i suoni e creare una figura di suono con il verso 36.
Abbiamo due parole che si scrivono alla stessa maniera ma che hanno un suono diverso, come anche il significato. A lui piaceva
questa scrittura uguale. Siamo davanti ad una rima equivoca.

*Questo gioco tra le due parole sfrutta anche l’origine, la parentela delle parole. Figura etimologica: tra volte e volto → sfrutta
parentela: i fatti ripetuti indicano il momento in cui il tempo si volge e ricomincia (sono torsioni del tempo = significato di girare) +
come lui si volta, si gira indietro. La parentela si estende anche a volto, perché è ciò che si pone davanti quando guardiamo una
persona.

D usa una parola quasi uguale per dire tre cose diverse. L’obiettivo è quello di trasmettere il messaggio della pericolosità, dei
tentennamenti che lui stesso ha sperimentato nei confronti del vizio della lussuria.
Queste fiere sono. Infatti, peccati dell’umanità intera ma anche tre rischi corsi dal nostro personaggio, e lui ci tiene a caratterizzarli
in funzione della sua identità di personaggio.

Temp’era dal principio del mattino*,


e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino*

mosse di prima quelle cose belle;*


sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle* 42

l’ora del tempo e la dolce stagione;


ma non sì che paura non mi desse
la vista che m'apparve d'un leone*. 45

Dante incontra le altre due fiere, ma prima dell’incontro c’è un intervallo positivo dato dai versi 36-45, con un ritorno all’indietro.
Egli riferisce qualcosa del contesto: dava a ben sperare nonostante la visione della prima fiera. Perché il momento del giorno era
l’alba: porta speranza e cose buone. E anche il momento della stagione faceva ben sperare: la primavera.

* Indicazione del tempo, cronologica riferita al giorno (uno dei fattori della narrazione insieme al luogo): era il momento del
principio del mattino, era l’alba.

*Questi versi 38-40: perifrasi per dire che era primavera, perché secondo la concezione antica Dio creò le cose belle, per
antonomasia sono le stelle /astri, in primavera. La costellazione dell’ariete era visibile all’alba = è primavera. La costellazione
dell’ariete può anche essere vista come simbolo della primavera (figure di pensiero).

*Dio creatore è amore. Perifrasi per Dio: amor divino → amorevole, buono, in quanti creatore
L’amor divino mise in movimento per la prima volta i corpi celesti, tanto che tutto ciò mi faceva sperare bene..

*La fiera è la lince ed il termine straniero “gaetta” significava all’epoca maculata, è un francesismo.

*Dolce stagione metafora per primavera: in quanto stagione dell’amore viene indicata come dolce.

*Ma non così tanto che non mi suscitasse paura la vista di un leone che mi apparve
Leone è allegoria della superbia. Infatti, i superbi spaventano alla sola vista: terrorizzano con l’aspetto. D come primo connotato
della superbia ci sottolinea la paura suscitata dalla vista. Questo termine di vista non intende solo l’atto di D che vede il leone, ma
anche letteralmente l’aspetto del leone.

Questi parea che contra me venisse


con la test’alta* e con rabbiosa fame*,
sì che parea che l’aere ne tremesse*. 48

*Il leone, a differenza della lonza, si muove contro D con la testa alta= simbolo dell’arroganza dei superbi (atteggiamento sfrontato)

*Fame rabbiosa: arroganza, ad indicare la capacità di nuocere agli altri. D deve sostenere l’allegoria: significato letterale, i leoni che
sbranano→ fame. Deve fare attenzione al primo e al secondo significato: primo, affinché il testo tenga. Entrambi sono importanti.

La paura suscitata dal leone addirittura fa tremare l’aria.

*Dal pdv dei suoni notiamo una rima particolare: desse, venisse, tremesse= deroga e licenza che il poeta si prende. Siamo davanti
ad un fenomeno detto rima siciliana. Rima siciliana perché usata per la prima volta dai poeti siciliani, quelli dell’origine, che
maneggiavano una lingua dialettale, il siciliano illustre, che era vicino al latino ma ne aveva preso anche le distanze alla sua
maniera. Loro scrivono in siciliano illustre le poesie. E quando questa poesia entra nelle letture dei poeti toscani, che si
appassionano, entra tradotta in toscano. (non sappiamo come erano scritte in origine questa poesia). Durante questa traduzione, i
toscani dovevano trattare queste rime (tradurle ma senza modificare le parole), e hanno conservato una serie di anomalie
fonetiche: i siciliani hanno trasformato le vocali, dal latino in dialetto, in modo diverso dai toscani. Questa rima segnala l’origine dei
poeti siciliani, quindi, i toscani la adottano come segno di stile: inizia ad essere chiamata rima colta, segno di cultura ed élite, usata
ancora da Manzoni. Non è un errore.
Ed una lupa*, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza*,
e molte genti* fé già viver grame*, 51

*La terza bestia è la lupa, allegoria dell’avarizia, dell’attaccamento alle cose terrene, denaro ecc. La più terribile dei peccati.
L’avarizia è una lupa magrissima, e che nella sua magrezza sembrava carica di tutte le brame, bramosie e i desideri che rendono
schiavi gli uomini. Essa toglie più degli altri peccati la libertà perché l’uomo diventa schiavo dei beni terreni. D decide di
caratterizzare l’avaro con questa ansia mai finita; lei stessa è bramosa, attraverso una sorta di antitesi: è carica di magrezza, carico
di bramosia che la rende magra → l’avarizia consuma, mangia l’uomo come un tarlo.

*Grame: termine raro, per dire chi vive di stenti, misero, colpevolmente/ tristemente misero → L’avarizia fece vivere di miseria
molte genti.

*Molte genti significa tante persone, gli avari (tormentati, resi magri dalla loro stessa avarizia); ma intende dire anche che per colpa
degli avari molti popoli sono vissuti di stenti. Questo verso contiene sia la causa che l’effetto dell’avarizia. Il termine genti in italiano
antico significa gruppo di persone ma tiene anche il significato di popoli.
→ Quindi lui ha già in mente quello che scriverà nei prossimi canti, il Dante politico: la radice di tutti i mali, il vero dramma politico
e civile è l’avarizia.

questa mi porse tanto di gravezza*


con la paura ch’uscia di sua vista*,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.54

*Dante rinforza immagine antitetica: la lupa magra pone tanto peso, gravezza. Letteralmente D non riesce più a salire, ma anche
questo peso va letto allegoricamente come immagine del peccato, che è ciò che ci tiene attaccati a terra. (simbologia ancestrale:
basso luogo del negativo e del peccato, lui voleva salire)

*Con la paura che usciva, nasceva dalla vista di lei, dal veder lei. E anche il suo aspetto. Ancora duplice significato per vista.

*Tanto che io persi la speranza dell’altezza


Altezza: è fatta rimare con gravezza. Gravezza è peccato, altezza è speranza.(legame tra significante e significato)

Per ben rappresentare questa dinamica che sta succedendo, cioè l’improvvisa perdita della speranza e quegli umori veloci, D rinforza il passaggio con
una similitudine, un paragone.

*E qual è quei che volontieri* acquista,


e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;57

*Similitudine: sta succedendo a me così come a chi…55-60


Così come succede a chi accumula volentieri. La similitudine è scelta apposta all’interno del campo semantico dell’avaro: acquista,
accumula è un verbo che riguarda i beni terreni.

*Volentieri: avverbio che ha cambiato un po’ accezione; per noi significa di buona volontà, nell’antichità accezione più ampia=
facilmente, al di là della volontà o meno

Facilmente accumula e poi giunge il tempo in cui perde tutto e in tutti i suoi pensieri, completamente, piange e si rattrista.
Questo è anche l’avaro: accumula e perde tutto → è disperato
Dante allo stesso modo aveva sperato ed ora è disperato

Qui il paragone è scelto precisamente; Dante paragona se stesso all’avaro: non serve per spiegare che la lupa rappresenta
l’avarizia, ma serve per colorare di avarizia il personaggio di Dante → l’avarizia gli appartiene, coinvolge se stesso e non si tira fuori
dalla tentazione dell’avarizia. Lui, come l’umanità, è preda di queste passioni (lussuria, superbia, avarizia) in questo momento
particolare.
(lussuria: ritroviamo in Inferno V, è il peccato di coloro che hanno sottomesso la ragione al talento, desiderio)

tal mi fece la bestia sanza pace*,


che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace. (60)

*Insiste ancora sul tormento continuo che produce l’avarizia: l’avaro non ha quiete… senza pace

*Sol tace: è una figura di significato per indicare la selva (metonimia), che è buia ed è in basso rispetto al colle. Ma il silenzio del
sole è anche una metafora del peccato. Sempre due livelli di significato.
Incontro con Virgilio, che è allegoria della ragione. I peccati, nella concezione dantesca, cristiana e medievale, sono gravissimi
perché tolgono all’uomo la sua umanità propria che è la sua ragione. Il peccato annebbia l’uomo tanto che non può più capire
razionalmente la distinzione tra bene e male. Chi salva deve essere allegoria della ragione. Da qui troveremo anche le figura di
pensiero (come già l’allegoria).

Virgilio era il massimo che D potesse sperare di incontrare, per il quale provava grande ammirazione. A lui decide di affidare il
compito di salvarlo, e per estensione tutti, l’umanità intera. La scelta di V non è scontata: lui è pagano, latino. D avrebbe potuto
scegliere un santo o il suo maestro Brunetto Latini. Ma la scelta ricade su di lui, poeta della natività.
Sappiamo che il medioevo dantesco aveva ripreso poeti dell’antichità e ne aveva attenuato la colpa: gli uomini del Medioevo
avevano forzato l’interpretazione di queste figure dell’antichità avvicinandole alla cultura cristiana. Alcuni scritti di Virgilio,
quindi, vengono interpretati come se lui stesse parlando inconsciamente di Cristo: in questo modo gli uomini del medioevo si erano
appropriati della cultura antica. Dante ha scelto con difficoltà: riflessione critica ed attenta.

Nel corso della commedia rifletterà sul dramma della condanna di questi uomini all’inferno (nel limbo). Non sono tra i salvati, ma
perché se non hanno nessuna colpa?
Noi non possiamo fare altro che osservare con grande curiosità le parole che usa per presentarci un personaggio a lui caro. La prima
immagine la troviamo al verso 63

Mentre ch’i’ rovinava* in basso loco,


dinanzi a li occhi mi si fu offerto*
chi per lungo silenzio parea fioco*.63

*Rovina: non solo andare verso il basso (voragine), ma anche rovina dell’anima.

*Offrire: verbo scelto, inequivocabile. Quello di V è un dono gratuito, è la grazia che arriva e dà gratuitamente la salvezza.
L’azione verbale viene sciolta: fu offerto a me. Nel secondo canto poi lui racconterà che tutto parte dall’amore della Madonna che
si commuove nel vedere la sofferenza del suo prediletto e scomoderà Santa Lucia, che andrà da Beatrice che andrà da Virgilio per
chiedergli di salvare dante. Tutto parte da un gesto gratuito di amore.

*Chi sembrava fioco: termine metaforico che associamo alla sfera visiva, che si vede poco ovvero debole, ma D gioca con le sfere
dei sensi: aggiunge anche il silenzio → Due sensi a confronto, vista e udito, che vengono annullati entrambi: inerte, inattivo. =Costui
era rimasto inattivo a lungo.
Il silenzio citato si riferisce al fatto che la ragione non parlasse più a Dante ma anche, sul piano letterale, al proteso silenzio di
Virgilio, che da secoli taceva nel limbo. Quindi D esprime la fatica e l’espressione del viso di un personaggio che, dopo molto tempo,
deve parlare. (Infatti, lui non parla per primo)

Quando vidi costui nel gran diserto*,


"Miserere di me" *, gridai a lui,
"qual che tu sii, od ombra od omo certo*!".66

*Ripetizione del deserto per rafforzare.

*Abbi pietà di me: grido di aiuto dell’uomo che riceve l’aiuto; immagine forte. Talmente è importante questo punto che abbiamo il
latinismo che è calco dal salmo.
Il primo dialogo, il primo discorso diretto è un grido di aiuto. La commedia stessa nasce come una richiesta di aiuto rivolta a Dio
che vuol coinvolgere l’umanità intera.

*Chiunque tu sia un’ombra un fantasma o un uomo davvero. Dopo tre mostri, un’ombra dagli inferi → piano onirico.

Rispuosemi:* "Non omo, omo già fui,


e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui*.69

*Rispuosemi: verbo contiene particella pronominale, diffuso nell’italiano antico.

*D non sa ancora che è lui, quindi, Virgilio si presenta alla moda degli uomini medievali che indicavano patria, città d’origine e
famiglia. Questo era tipico della cultura cittadina legata ai comuni dell’epoca dantesca, municipalismo fortissimo. La prima cosa per
provenienza.
Nacqui sub Iulio*, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi*.72

*Indica anche il momento storico: al tempo di Giulio Cesare. Ma non ha potuto davvero sperimentare l’epoca di Cesare, perché
quando fu assassinato (44 a.C.), Virgilio era ancora un giovinetto. Visse a Roma, nel periodo successivo, sotto Augusto (Virgilio
muore nel 19 a.C.).

*Il personaggio si presenta come appartenente all’epoca degli dei falsi e bugiardi, per la sua fede non cristiana. In realtà, non si
dichiara pagano: Dante si lascia spazio alla possibilità che Virgilio, pur essendo vissuto prima di Cristo, si sarebbe comunque
avvicinato alla cultura cristiana.
Dante scrittore cerca di annullare la sua sofferenza nel saper V escluso dal paradiso.

Poeta fui*, e cantai di* quel giusto


figliuol d’Anchise che venne di Troia,
poi che ’l superbo Ilïón fu combusto.75

*Subito dopo, dice di esser stato poeta. Alla poesia viene affidata una missione di redenzione → In quanto poeta, per la divina
commedia, Dante stesso riteneva di avere questo compito.
Si tratta di una nozione antica di poeta, come autore di un testo sacro (Dio come poeta crea il mondo); ma è anche segno e segnale
dell’altissima considerazione di sé e del ruolo della poesia che Dante esprime. (Ritornerà con il canto di Caccia guida).

*Qui Virgilio si svela perché indica l’opera, l’Eneide. Cantò di Enea che venne da Troia, dopo che la città fu incendiata.

Ma tu perché ritorni a tanta noia*?


perché non sali il dilettoso monte*
ch’è principio e cagion di tutta gioia?".78

Terzina di passaggio: Dante personaggio esprime sorpresa e commozione davanti a Virgilio. Ma prima di arrivare là, Dante poeta
inserisce terzina di passaggio con questa domanda.

*Noia: non significa malinconia ma dolore, accezione più forte.

*Versi, apparentemente pleonastici, quasi un di più, ma in realtà ci spiegano l’interpretazione del monte: viene detto
esplicitamente che il monte è quello della felicità, il purgatorio. Principio e ragione di ogni gioia

→ Questa domanda giustifica e dimostra la natura di Virgilio come personaggio. Qui, in particolare, Virgilio viene difeso da Dante
per la sua natura storica: egli è presentato attraverso il discorso diretto come vissuto in un tempo e luogo preciso, è un
personaggio dotato di un’attendibilità storica. Attraverso questa domanda, però, questa figura storica diventa personaggio
dell’opera, figura d’invenzione, incarnando il ruolo che gli viene attribuito dal poeta e apre quel capitolo del discorso che pertiene
la lettura allegorica del personaggio (ragione, valore libero della letteratura, della poesia che salva).

È il poeta stesso a domandarci di fermarci e di considerare i vari piani di lettura (bisogna, poi, mantenere l’equilibrio tra quello
letterale e quello allegorico): Dante, in due suoi scritti, lascia testimonianza della necessità di intendere la divina commedia come
un testo polisemico: termine classico, calco di lingue antiche.

1) Epistola a Cangrande Della Scala (presente nell’antologia): testo importante perché contiene delle informazioni
importanti sulla storia dell’opera e quindi ha valore di documento (si può datare fra il 1313 e il 1315); ma, siccome esso
parla della commedia ed è la lettera che accompagna il dono di alcuni canti del paradiso a Cangrande della Scala (suo
mecenate), il testo indica anche il termine cronologico per la stesura di almeno i primi canti del Paradiso. Oltre a questo
valore documentario (a lungo dibattuto sulla autenticità della lettera, ora confermata), la lettera è fondamentale perché
è una chiave di lettura d’autore riservata al poema. In questo testo, Dante spiega il titolo dell’opera e istruisce il suo
destinatario, Cangrande e con lui i lettori, di tenere sempre in considerazione due o più piani di lettura. La lettera
originaria è in latino, noi leggiamo la traduzione.

Abbiamo una divisione chiarissima in due: il piano letterale che va da sé e il piano che sta sotto e per il quale la lettera è
uno strumento di accesso. Questo secondo piano viene a sua volta distinto in tre livelli (modi diversi di intendere il
significato che chiamiamo genericamente allegorico, c’è ovviamente gerarchia): → ci fa l’esempio di alcuni versetti del
salmo 114, perché questo modo per interpretare testi non è inventato da Dante ma è il modo tradizionale di
interpretazione del testo sacro. Tra l’altro, la cultura medievale è una cultura abituata a passare da un piano letterale ad
un altro: per gli uomini medievali la realtà non esaurisce il tutto, ma è inferiore rispetto a quello che ci sta in cielo;
dunque, ogni cosa veniva interpretato come simbolo o allegoria di qualcos’altro.
“Allorché dall’Egitto uscì Israele, e la casa di Giacobbe (si partì) da un popolo barbaro; la nazione giudea venne consacrata
a Dio; e dominio di Lui venne ad essere Israele” (salmo 114)

- Letterale: il testo sacro mi sta raccontando dell’uscita dall’Egitto del ritorno in Israele del popolo ebraico (fatto
storico). Non oltrepassa la lettura.
- Secondo:
o Allegorico: la liberazione dall’Egitto è allegoria della liberazione che Cristo ci ha donato, la redenzione per
opera di cristo → semplicemente altro piano di lettura, rivela verità nascoste sotto la lettera
o Morale: l’anima esce dallo stato di peccato e passa a quello di grazia → deve avere pertinenza nell’ambito
di ciò che è giusto e ciò che non lo è; insegna come comportarsi nella vita
o Anagogico: l’anima esce dalla schiavitù della corruzione terrena alla libertà dell’eterna gloria → riguarda le
cose ultime, gravissime, i misteri della religione (solo sapere che esiste); interpreta fatti come segni di
realtà spirituali

Dante, poi, ci dice che, nonostante la distinzione, possiamo chiamare questi tre piani con il termine generico di allegorici,
perché in comune hanno il fatto di differenziarsi da quello letterale e storico. La parola allegoria viene, infatti, dal greco
“alleon” che è reso in latino con “alienum” ossia “diverso”: si distingue dal piano letterale.
Quindi, sono quasi sempre due i momenti di lettura: questo vale anche per la Commedia. Il soggetto di quest’ultima,
interpretato secondo il piano letterale, è lo stato delle anime (la loro condizione, la struttura dell’Oltretomba) dopo la
morte inteso in generale. Ma se si considera l'opera sul piano allegorico, il soggetto è l'uomo in quanto, per i meriti e
demeriti acquisiti con libero arbitrio (liberamente, è una scelta propria), ha conseguito premi e punizioni da parte della
giustizia divina. [c’è una distinzione tra il piano della finzione e quello della realtà: non ci sono realmente i diavoli con il
forcone, il piano allegorico è quello più importante].

2. Ciò che Dante scrive nella lettera a Cangrande, viene anticipato circa 10 anni prima nel convivio (composto tra 1303 e
1305), che Dante interrompe proprio per proseguire la scrittura della Divina Commedia (iniziata dopo l’esilio). Il convivio
era un progetto ambizioso che prevedeva la realizzazione di un trattato filosofico in 15 volumi; ma l’esilio e la scrittura
della commedia interrompono il progetto e Dante scrive solo 4 volumi su 15 programmati. Tale opera è scritta in volgare
e il suo contenuto resta di natura filosofica e teorica.
Dal pdv del genere e della struttura, lo avviciniamo alla Vita Nova perché alterna versi e prosa: così come la Vita Nova è
composta come un prosimetro (contiene testi poetici poi commentati da delle prose), lo stesso è nel convivio (grandi
canzoni commentate dalla prosa). Dentro questi libri, sono contenuti i nuclei di pensiero dantesco più importanti: nel
secondo volume, per esempio, spiega dei due piani di lettura. Il libro più famoso ed importante è il quarto dove Dante
espone la sua teoria della nobiltà: per Dante, non dev’essere solo di sangue ma anche per virtù.
Per quanto riguarda il nostro discorso, nel convivio Dante aggiunge un elemento: c’è una distinzione per noi utile tra
allegoria dei poeti e quella dei teologi:
- L’allegoria dei poeti è quella che possiede un piano letterale inventato. Siamo davanti a questo tipo di allegoria
quando la lettera è fantasia, è inventata dai poeti. Es: la favola di Orfeo (o esempio della favola), fatto a livello
letterale su qualcosa di falso e finto, ma che mantiene vero il suo significato allegorico.
- L’allegoria dei teologi (chiamata così perché è il metodo di interpretazione del testo biblico e in particolare del
Nuovo Testamento), invece, si distingue perché coincide a verità storica anche il piano letterale. Es: biblico del salmo
→il piano letterale ha tenuta storica, sebbene persista anche il piano allegorico. Un altro esempio è la commedia
stessa: il racconto non è una menzogna ma realtà, i personaggi sono storici pur possedendo un significato anche
allegorico. E Dante si impegna a ribadire la storicità di tutti i personaggi della commedia. La natura del testo è
storica, ma oltre quello storico essi possiedono anche significato allegorico.

Nonostante la centralità del piano allegorico, Dante ci dice che non possiamo saltare il piano letterale: le altre letture, in
particolare quelle allegoriche, non sono possibili senza apprezzare il piano letterale. Lo sottolineiamo perché nei testi
densi di significati allegorici la tentazione è quella di trascurare la lettera, di non darle importanza. Dante ribadisce,
dunque, l’importanza del piano letterale, nonostante la sua complessità. La lettera va insieme al contenuto.

Virgilio non era un poeta qualunque, e quando Dante gli assegna questo ruolo allegorico fondamentale, egli ha inizialmente
considerato il piano storico di Virgilio.
Di fronte a Virgilio, la reazione di Dante è comprensibile: si tratta di una reazione di stupore, meraviglia, incanto:

"Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte*


che spandi di parlar sì largo fiume*?",
rispuos’io lui con vergognosa fronte*. 81

"O de li altri poeti onore e lume*,


vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore*
che m’ ha fatto cercar lo tuo volume.84
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore*,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo* che m’ ha fatto onore.87

Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;


aiutami da lei, famoso saggio,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi*".90

*Prima di rispondere alla domanda, Dante esprime meraviglia e ammirazione nei confronti di Virgilio, insistendo anche sul piano
storico; sei tu quella fonte.

Virgilio viene individuato come rappresentazione della forza della parola.


*Sei tu che parli con tanta eloquenza: perifrasi per indicare questa eloquenza e metafora. Il fiume non c’entra sul piano denotativo
del testo. Si usa la metafora del fiume tradizionalmente per indicare la ricchezza di parole.

*Vergognosa fronte: con stupore, reverenza, pudore, vergogna. Notiamo che fronte vuol dire volto, espressione: sineddoche, in
quanto la fronte individua dal pdv della gestualità abbassare gli occhi ed esprimere deferenza.

*Sei onore e lume: guida di tutti i poeti.

*Captatio benevolentiae: si deve ingraziare costui, e quindi dice: mi valga presso te il grande studio/ desiderio che mi hanno fatto
legger con attenzione i tuoi libri, le tue opere.

*Qui, Dante dichiara la sua ammirazione nei confronti di Virgilio che è maestro, autore (auctor: modello, autorità, guida).

*Tu sei colui solo da cui io presi, imitando, quello stile che mi ha reso famoso sin qui: era già famoso quando scrive la commedia,
era già figura di prestigio nel mondo intellettuale fiorentino.

*Tremar le vene e i polsi: espressione rimasta proverbiale da Dante. Perché vene e polsi? È il punto dove battito del cuore si vede
con gli occhi. Le vene che battono nei polsi, le vene e i polsi: gioca con i significati che non sono identici. È una forma di coppia non
sinonimica (vene sono dentro i polsi), di endiadi; per dire che prova un’emozione fortissima. È anche metonimia: si scambia
l’organo fisico per l’emozione.

"A te convien tenere altro vïaggio",


rispuose, poi che lagrimar mi vide,
"se vuo’ campar d’esto loco selvaggio*; 93

Virgilio risponde al grido di aiuto di Dante e gli consiglia di cambiare strada: D non è pronto a salire direttamente sul monte del
purgatorio, deve prima conoscere il peccato. Virgilio consiglia un altro viaggio, un’altra via, dopo aver visto piangere Dante
personaggio.

*Se vuoi scampare da questo luogo selvaggio: la selva.

ché questa bestia, per la qual tu gride*,


non lascia altrui passar per la sua via*,
ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide*; 96

*Perché questa bestia, questa terza fiera, per via della quale stai gridando di paura

*Non lascia passare gli altri, nessuno per questa via (“lo” riferito ad altrui)

*Impedisce tanto il passaggio finché lo uccide: i peccati rappresentati dalle fiere sono una minaccia per la vita dell’anima,
determinano la morte spirituale.

e ha natura sì malvagia e ria,


che mai non empie la bramosa voglia*,
e dopo ’l pasto ha più fame che pria.99

*Qui Dante ripete connotati della lupa che è bramosa, magra e carica delle sue bramosie

Molti son li animali a cui s’ammoglia*,


e più saranno ancora, infin che ’l veltro*
verrà, che la farà morir con doglia.102
*Dal verso 100 in poi, inizia la profezia del Veltro: tale tema è segnato da un cambio a livello di tempo verbale (Verrà: verbo
tecnico del linguaggio profetico).

*Questi animali a cui si ammoglia sono gli esseri umani che cadono nella tentazione di questo peccato e cedono vittima della lupa.
Ce ne saranno molti, ancora di più negli anni a venire. Finché non arriverà il Veltro: sul piano letterale è un cane da caccia, che
arriverà e metterà a morte, caccerà, la lupa. Ma ad un certo punto, in questo passo della Commedia, il piano letterale non tiene
più. Tale profezia è un punto poco brillante della commedia e lo si percepisce per questo cortocircuito. Noi stessi non riusciamo a
far stare insieme gli elementi della lettera.

[Fino a qui tiene il testo: sia lettera che allegoria]

Questi non ciberà terra né peltro*,


ma sapïenza, amore e virtute*,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro*.105

*Piano letterale inizia a non tenere. Dobbiamo far, per forza, appello al senso allegorico per capire il senso letterale: lui è un
salvatore, che porterà la redenzione, e lui non sarà avido di terra, territori, e nemmeno di denaro, di peltro (metallo nobile
all’epoca che qui sta per denaro).

*Ma questi si ciberà solo di sapienza, virtù, amore.

*La sua nazione sarà tra feltro e feltro. Enigma sul significato: forse indicazione geografica della zona di monte Feltro, o vicino a
Feltre; può esser indicazione del feltro, tessuto con cui erano fatti i panni con cui si vestivano i frati, i religiosi→ indizio sull’identità,
esponente congregazione religiosa che porta salvezza. E così via.

Dante prosegue su istruirci sull’identità politica del salvatore. Lui ha a cuore tale dimensione politica e quindi il suo salvatore non
può che essere un salvatore politico. Ci dice che costui sarà la salvezza dell’Italia, redimerà l’Italia.

Di quella umile Italia fia salute


per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute*.108

*Rievoca figure dell’Eneide, poema che segna la tradizione di fondazione politica italiana: l’antica Roma. Ma è anche un omaggio a
Virgilio

Questi la caccerà* per ogne villa,


fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,
là onde ’nvidia prima* dipartilla.111

*La ricaccerà all’inferno.

*Invidia prima: quella di Satana, demonio da cui è nata questa terza fiera.
Canto XXVI, Ulisse
Il primo canto ha proposto una chiave di lettura in una dimensione polisemica: molti significati e grandi possibilità di
interpretazione. La commedia è, infatti, un’opera aperta che chiede un impegno al lettore dal pdv interpretativo, pena la perdita di
apprezzamento nei confronti della grandezza dell’opera. Il testo scritto è qualcosa di pratico perché è composto da parole che hanno
una superficie, un suono, un colore. Ma al di là della lettera vi è anche il grande universo di un significato ulteriore e questo spazio
corrisponde all’intelligenza dell’uomo (sia dell’autore che del lettore).

Il protagonista del canto è Ulisse: un uomo che si mette nel mare della conoscenza e decide di affrontare questo infinito (lui non
sapeva dove sarebbe arrivato) che è a livello del piano letterale l’infinito della conoscenza. Questa sete di conoscenza è lecita,
secondo Dante, perché distingue l’uomo dagli animali; tuttavia, l’uomo dovrebbe mettersi in questa dimensione di infinito secondo
una certa responsabilità, secondo quanto il libero arbitrio, la sua libertà, gli comanda. È su questo tema che si costruisce tale canto
e il personaggio di Ulisse.

Il canto si apre non sull’episodio di Ulisse, ma ha il suo inizio in una grande apostrofe che Dante rivolge a Firenze, che è
personificata e bersaglio di una puntura ironica, sarcastica. Questo perché nel canto precedente (lui ha già incontrato la maggior
parte delle pene e della condizione dei dannati, scene tragiche e comiche), Dante si era imbattuto nelle figure dei ladri: vuole
rimproverare la sua città colpevole anch’essa di questo peccato. Il vero episodio di Ulisse inizia al tredicesimo verso. E queste
prime quattro terzine costituiscono l’antefatto dell’episodio di Ulisse:

Noi ci partimmo*, e su per le scalee*


che n’avea fatto iborni* a scender pria,
rimontò ’l duca mio e trasse mee*;

Questo si può considerare l’antefatto perché contiene alcuni riferimenti che anticipano il cuore dell’episodio: i narratori molto
spesso usano questa tecnica di anticipare in funzione prolettica (prolessi) già qualche indizio. È una strategia di narrazione per
incuriosire il lettore; ma anche per aiutare il lettore già nell’interpretazione, per suggerirgli sin da subito, quelli che possono essere i
pdv, le prospettive utili a capire l’episodio.

*L’inizio è brusco rispetto alle terzine precedenti accese dalla polemica di Firenze. C’è distacco risoluto e Dante riprende
narrazione.

*La situazione: siamo all’interno dell’ottavo cerchio dove vengono puniti i fraudolenti; e questi cerchi sono delle strutture
concentriche che sono delimitate le une dalle altre da delle specie di argini. Tra un argine e l’altro, c’è un fosso dove stanno
peccatori e si passa da uno all’altro attraverso ponti. Parla di scale per questo: prima hanno dovuto scendere per avvicinarsi al
vallone precedente ora devono risalire. Queste scale indicano semplicemente il moto fisico che i personaggi devono fare per
passare da un vallone all’altro.

*Iborni: due interpretazioni:


1. Rinvia ad eburneo, color d’avorio → indica che le scale li hanno resi pallidi per la fatica;
2. l’altra interpretazione è che sia un rinvio a delle sorte di spuntoni di roccia che servono come appigli ai nostri pellegrini per salire
e scendere meglio

*Mee: Dante deve allungare con questa vocale in più. Si chiama tecnicamente epitesi; e lo fa perché è necessario fissare la rima
con scalee e il verbo dee. (Fenomeno riguardante i suoni, una figura retorica: allungamento di una parola)

e proseguendo* la solinga via,


tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio
lo piè sanza la man non si spedia.

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio*


quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi*,
e più lo ’ngegno affreno* ch’i’ non soglio*,

*Proseguendo la solitaria via tra questi spuntoni dei sassi e dello scoglio, la roccia. Il piede senza l’aiuto della mano non si
procedeva veloce

*La parte profetica, prolettica viene ora: il poeta prende sopravvento sul personaggio, dal pdv della focalizzazione. Abbiamo
volutamente una dichiarazione del poeta: allora, all’epoca, mi addolorai tanto, ma adesso ancora di più mi addoloro. Il cambio del
tempo verbale dal passato al presente è decisivo e ci conferma che l’esperienza vissuta è ancora viva nell’animo, non è superata o
risolta. Quindi, Dante sancisce e dichiara che il personaggio si identifica con il poeta e viceversa. Ciò che ha vissuto non è esperienza
da spettatore, ma qualcosa che l’ha coinvolto e che continua a coinvolgerlo. Lui non vuole fare una predica, ma è qualcosa che
nemmeno il poeta è riuscito a superare, ma è una confessione di qualcosa di ancora vivo.
*Dice due volte che è addolorato: accumulo, ripetizione, parallelismo su questo tema del dolore. Qui, emerge la grande
partecipazione di Dante e la vicinanza agli altri grandi episodi (episodio di Paolo e Francesca). Altre volte, dimostrerà, invece, un
atteggiamento sprezzante e di superiorità, ma qui no: ci sono anche elementi che ci suggeriscono l’innalzamento del tono.

*Rivolgo la mente, il ricordo, l’intelligenza a ciò che io vidi

*E, ripensando addolorato a ciò che vidi, controllo, modero, l’ingegno, la mia intelligenza; più di quanto ero solito fare: mentre
ripenso a quell’episodio, faccio attenzione a ricordarmi l’importanza del limite della ragione, del freno che occorre porre
all’intelligenza umana che per natura è infinita.

*Soglio è verbo al tempo passato, un’eccezione nella lingua antica. Qui, vuol dire “ero solito fare”: ma esso viene attualizzato nelle
parafrasi (tra l’altro rima con un altro verbo al presente). Dante sfrutta la particolarità grammaticale del verbo per infrangerla
argutamente (si considera al presente) e la conseguenza è l’accompagnare e chiedere al lettore di riflettere che questo problema
/nodo di Ulisse non è ancora sciolto.

perché non corra che virtù nol guidi*;


sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi*.

*Affinché non preceda in modo tale che non sia guidato dalla virtù, senza che la virtù lo guidi

*Tanto che io stesso non mi tolga, privi (invidi: sottrarre a me stesso), facendomi del male, di quel bene che una stella buona,
(influenza astrale) o miglior cosa (grazia di Dio) mi ha donato
Con queste parole anticipa il senso episodio: tengo a freno l’intelligenza per non rovinare il bene che Dio mi ha dato, per non
perderla.

L’intelligenza
“Quella fine e preziosissima parte dell’anima che è deitade” (Conv. III, II 19)
Definizione che Dante stesso dà nel Convivio: egli definisce l’intelligenza dell’uomo come quella parte preziosa dell’anima che è
divina, la scintilla del pensiero è traccia della divinità nell’uomo, è la prova che siamo figli di Dio, non come gli altri animali.
L’intelligenza è ciò che l’uomo possiede di più prezioso perché coincide per natura con l’infinito. Dio ha dato l’intelligenza all’uomo
e quello è segno della figliolanza, ma questa intelligenza non può che riconoscere, provenendo dalla grazia, i propri limiti. Non si
può usare incondizionatamente, in modo sfrenato: altrimenti la si perde, perché questo uso ci rende alieni, diversi da Dio.
È un concetto filosofico difficilissimo da capire, è un mistero. Dante ci soffre, lui che per vocazione è filosofo. Nel convivio ci viene
tra l’altro suggerito che quella selva oscura corrisponde allo sprofondamento nell’abisso della filosofia: il pensiero libero è il
grande problema dei filosofi che devono decidere se affidarsi solo alla ragione, poi decidere cosa fare dei cuoi limiti (affidarsi alla
fede o no, e se questo significa rinunciare alla ragione o no).
La figura di Ulisse è costruita per rappresentare questo grande tema universale.

Ora, episodio dal pdv narrativo deve prendere vita: Dante decide di scrivere episodio all’insegna della nobiltà, elevatezza. Infatti,
Ulisse non è un personaggio spregevole ma raccoglie ammirazione di Dante e del lettore. Per introdurre questo innalzamento
tragico all’interno dell’Inferno, che è la sequenza più comica, D fa un bel respiro e apre con queste similitudini lunghe: il senso è
proprio dare un allargamento meditativo al contesto. La prima similitudine serve a Dante per indicare la quantità di anime che
comincia a vedere che si presentano come tante fiammelle: per dire che sono tante la prima similitudine è quella delle lucciole. La
seconda indica la qualità delle anime: come, in quale condizione si presentano queste fiamme ed è quella che Dante pesca dal mito
e dalla Bibbia.

Quante* ’l villan ch’al poggio si riposa,


nel tempo che colui che ’l mondo schiara*
la faccia sua a noi tien meno ascosa,

come la mosca cede alla zanzara,


vede lucciole giù per la vallea*,
forse* colà dov’e’ vendemmia e ara:

di tante fiamme tutta risplendea


l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi
tosto che fui là ’ve ’l fondo parea*.

*Appena Dante si colloca in una posizione dalla quale poteva osservare tutto questo vallone, il primo ricordo è quello della vista di
un contadino che dall’alto vede di sera la valle luccicare per le lucciole. La prima parola è quante per rimarcare la quantità di
lucciole presenti; il sostantivo è sottointeso. (vede verbo principale)

*Per dare respiro, perifrasi per aggiungere complemento di tempo= sera, estate:
- Al poggio si riposa: sul poggio quando si riposa;
- Colui che il mondo schiara è il Sole d’estate, il momento in cui la sua faccia si scorge di più, si mostra di più a noi
(perifrasi per questa stagione)
- Quando la mosca cede il posto alla zanzara: indica la sera

*Vede lucciole giù nella valle dove normalmente si reca a lavorare, vendemmia e ara.

*Forse produce effetto di indeterminatezza, non è necessario ma aggiunge una punta di malinconia, di infinito alla sequenza e dà
suggestione.

*Di altrettante fiamme, tutta l’ottava bolgia risplendeva. Così come mi accorsi non appena fui in cima a quel ponte da dove si
vedeva bene il fondo.

E qual colui che si vengiò con li orsi*


vide ’l carro d’Elia al dipartire*,
quando i cavalli al cielo erti levorsi*,

Seconda similitudine che, a differenza della prima, non richiama l’orizzonte del paesaggio, ma ricerca la dimensione dell’infinito,
sfondando il tempo all’indietro.

*Le fiamme avevano una forma tipica, puntavano verso l’alto e per rappresentare figuratamente queste fiamme lui ricorda un
episodio della Bibbia, cioè quando Elia, il profeta fu rapito in cielo dentro un carro di fuoco e la fiamma che Dante ricorda è quella
che circonda il carro di Elia.

*I cavalli si levarono irti, che puntano verso l’alto, impennandosi al cielo.

Il soggetto non è Elia ma Eliseo, suo discepolo. Focalizzazione scelta da Dante è su Eliseo, che vede dal basso il suo maestro salire
verso il cielo:
*E qual colui… perifrasi per Eliseo: in un altro episodio della Bibbia, viene schernito, scherzato da alcuni fanciulli, egli invoca aiuto
divino che fa arrivare degli orsi che sbranarono questi ragazzi.

che nol potea sì con li occhi seguire,


ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire:

*E come Eliseo vide questo carro infuocato salire verso l’alto; che non può seguire con gli occhi e del quale vede solo la fiamma,
non il carro…

tal si move* ciascuna per la gola


del fosso, ché nessuna mostra ’l furto*,
e ogne fiamma un peccatore invola.

Attraverso questa seconda parte della similitudine, Dante insiste nel riprodurre l’immagine di una fiamma ampia che contiene
qualcuno e che si leva verso l’alto.

*Così si muove ciascuna fiamma per la gola del fosso (metafora), il fondo del fosso

*In modo tale che nessuna di queste fiamme dimostri il furto, ciò che sta dentro, l’anima del peccatore
Furto: anima sottratta alla vista dalla fiamma (immagine metaforica)

E ogni fiamma nasconde (invola) un peccatore

Apertura solenne, onerosa del poeta che deve confermarci l’importanza dell’episodio

→Terzine tagliate: Dante personaggio è ritto in piedi, curioso, attento per vedere; e tanto si stava sporgendo da queste rocce che se
Virgilio non lo avesse trattenuto, egli sarebbe caduto giù. Questa comica immagine ribadisce la curiosità di Dante: allora Virgilio
spiega a Dante che dentro le fiamme ci sono gli spiriti. Dante ribatte a questa precisazione di V.

«Maestro mio», rispuos’io, «per udirti


son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse*, e già voleva dirti:

chi è ’n quel foco che vien sì diviso


di sopra, che par surger de la pira
dov’Eteòcle col fratel fu miso*?».
*Virgilio spiega a Dante rispondendo ad una domanda particolare che D con la solita schiettezza pone: O mio maestro (O Virgilio),
per il fatto di aver sentito questa tua spiegazione, ora sono più certo; (mi hai dato la conferma) già mi era sembrato che così fosse e
già volevo dirti (ancora prima che mi spiegassi io avevo già pronta la domanda).
Questa schermaglia, usuale nei dialoghi, è usata frequentemente nella commedia: serve sia a ricordare la curiosità di Dante, la
sua prontezza, sia per sottolineare la grande sintonia tra i due, che potrebbero fare a meno delle parole per intendersi.
Si conferma, quindi, sul piano allegorico quell’identificazione fortissima tra i poeti.

*La domanda che Dante voleva fare: Chi c’è che dentro quella fiamma (una in particolare) che nella sua punta è divisa [fiamma
biforcuta, con due lingue (fare coppia è un’eccezione: la pena a cui sono sottoposte per l’eternità comprende la solitudine o il
conflitto perenne con le altre anime)] e che assomiglia, sembra levarsi dal rogo/pira dove furono messi insieme Eteocle e Polinice:
fratelli tebani, figli di Edipo che si uccisero e i cui corpi furono messi sulla stessa pira a bruciare. Dante rievoca un episodio
mitologico per ribadire l’importanza dell’episodio e per preannunciare, anticipare l’arrivo dei due personaggi che appartengono
alla cultura classica, mito.

Rispuose a me: «Là dentro si martira*


Ulisse e Diomede, e così insieme
a la vendetta* vanno come a l’ira*;

*Si martira: sono tormentati, si martirano, si tormentano, puniscono. Si usa singolare per plurale: era lecito nella lingua antica.

*La vendetta è quella di Dio; il Dio giusto e severo che si vendica dell’affronto compiuto dai due peccatori. Qui, vendetta è
sinonimo di punizione divina (il dio dell’inferno è quello giusto dell’Antico Testamento, il dio del purgatorio è il dio buono, del
Nuovo Testamento).

*Così come insieme hanno peccato, così insieme vengono puniti

e dentro da la lor fiamma si geme


l’agguato del caval che fé la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme*.

Si ricordano alcuni degli inganni, delle frodi compiute insieme dai due uomini (raccontate dai testi omerici e dalla tradizione
classica, Virgilio):
1. L’agguato del Cavallo di Troia

Qui, vengono infatti puniti i fraudolenti ovvero coloro che hanno usato la loro astuzia a danno degli altri, in modo illecito. La
fiamma segue la regola del contrappasso: la punizione corrisponde alla colpa, in direzione omologa o contraria.
- Qui la fiamma corrisponde alla colpa: è la fiamma dell’intelligenza, è il lume che accende la mente dell’uomo (le
tenebre sono barbaria).
- Ma la fiamma è anche ciò che brucia, corrompe, corrode la mente dell’uomo; quando questa intelligenza è portata
all’eccesso.
- Inoltre, poiché si parla di frodi commesse con la parola, che è ciò che sigilla l’intelligenza umana (l’uomo è
intelligente perché parla, traduce il suo pensiero in parole), allora la fiamma rappresenta:
o la lingua per la sua forma o il fuoco dell’eloquenza.

*Perifrasi per indicare Enea: gentil seme, nobile progenitore dei Romani. Qui parla Virgilio: si tratta di un’immagine verosimile
rispetto a chi sta parlando

Piangevisi entro l’arte per che, morta,


Deidamìa ancor si duol d’Achille*,
e del Palladio pena vi si porta»*.

2. Poi dentro qui si piange anche l’arte, l’astuzia, per la quale, anche da morta, Deidamìa soffre ancora.
Si ricorda la colpa di Achille, riecheggiando il dolore di Deidamia che viene sedotta e abbandonata da Achille.
3. Poi il furto del Palladio, statuetta rubata dalla città di Troia per sconfiggerla definitivamente.

Questa è, quindi, l’indicazione che Virgilio dà, ma appena Dante individua il contenuto della fiamma non riesce a trattenere la
curiosità, la quale viene resa ai versi 66 e 65 dalla ripetizione del verbo pregare:

«S’ei posson dentro da quelle faville


parlar»*, diss’io, «maestro, assai ten priego
e ripriego, che ’l priego vaglia mille,

*Se essi, dentro quelle fiamme, possono parlare; non negarmi la possibilità di aspettare, di fermarsi un attimo per parlare con
queste anime.
*Lo prega e lo riprega e addirittura gli chiede che quella preghiera possa essere ripetuta per mille: è un’iperbole, esagerazione
potenziata da questa ripetizione, l’iterazione del verbo pregare.

D vuole fermarsi finché questa fiammella cornuta non venga qui

che non mi facci de l’attender niego


fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver’ lei mi piego!».

Vedi…: Questo verso di passaggio contiene due elementi preziosi:


- Il desiderio: Dante personaggio è mosso da un desiderio. Già dagli antichi quello di conoscere è un desiderio, l’uomo
è contraddistinto dal desiderio di sapere.
- In più Dante si piega per lei: questo gesto, questa prossemica, gestualità, questo movimento del corpo serve qui a
parificare Dante con le fiamme, con chi è dentro le fiamme: così come la fiamma si piega al vento, allo stesso modo
Dante si piega mosso dal desiderio di conoscere a queste fiamme. C’è, dunque, un avvicinamento sul piano
allegorico tra i personaggi e il poeta.

Terzine tagliate: Virgilio acconsente e addirittura loda la domanda di Dante (in altri episodi invece lo rimprovera, lo spinge a non
indugiare nella curiosità). È Virgilio a parlare rivolgendosi a queste due anime: perché sono greci e V conosce la lingua →
Schermaglia della narrazione.

«O voi che siete due dentro ad un foco,


s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco

quando nel mondo li alti versi scrissi,


non vi movete; ma l’un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi».

Prima terzina contiene una captatio benevolentiae: chi parla deve convincere gli ascoltatori per guadagnarsi la benevolenza e lo fa
ricordando ad Ulisse e Diomede di essere stato lui narratore delle loro gesta.

Se io avessi dei meriti verso di voi quando vissi: Virgilio è ricordato sempre come persona storica, non solo come allegoria della
ragione.

Ripetizione s’io meritai che è anafora perché collocata all’inizio verso

Quando nel mondo: ero in vita

Perifrasi per indicare l’Eneide: alti versi. Essa serve a sottolineare che siamo in un contesto alto, tragico. C’è uno spostamento
illogico: il poeta sottolinea che lui si sta dedicando alla scrittura di un episodio tragico, lui sta scrivendo alti versi.

Virgilio fa una domanda precisa non espressa da D: si sono capiti col pensiero, V ha già capito il punto della curiosità di Dante. Non
chiede la narrazione delle loro vicende, ma chiede una cosa specifica.

L’un di voi: Passaggio al singolare, Diomede scompare e Ulisse diventa protagonista

Per lui: 2 significati → riguardo lui (parla tu per gli altri), ma anche per colpa tua (è Ulisse colpevole di aver spinto i compagni ad
oltrepassare le Colonne d’Ercole)

Perduto: parola tecnica del senso della divina commedia. Perdere = Perdizione eterna non smarrimento nell’oceano, fisico
geografico. Virgilio ci spiega che qui si chiama in causa il grande problema del confine, del limite della conoscenza dell’uomo che è
peccato, oltre al quale non si può andare. Questo sul piano allegorico.

Piano letterale (la narrazione deve tenere): domanda legittima perché le scritture che D ha a disposizione nel 1300 non raccontano
la fine di Ulisse, la morte. C’erano varie leggende che vagheggiavano il viaggio oceanico ma erano percepite come leggende
ipotetiche. Dante si impunta su questa curiosità: crea la fine di Ulisse perché non si conosce.

Questo è un episodio tragico perché si racconta la morte, la fine tragica del personaggio e Dante è attento, curioso, vicino a queste
vicende che raccontano le morti (Paolo e Francesca, Manfredi) perché il come si muore, secondo gli antichi, è decisivo,
determinante. Non è passaggio banale, il momento della morte può cambiare il senso della vita. Lo stato di consapevolezza del
punto di morte può modificare il senso della vita intera e determinare la vita futura: ci si può pentire in punto di morte e salvarsi
(Nel ‘600, gli uomini del Barocco scrivono molti trattati su questo argomento).
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando 86
pur come quella cui vento affatica;

Prende parola Ulisse: inizia il racconto e U accetta di raccontare la sua fine

Lo maggior corno… omaggio al personaggio. Questa presentazione è elegante e dice nelle parole la magnanimità di U, la grandezza
d’animo. Antico è termine che non è sinonimo di vecchio, ma designa qualcosa di indietro nel tempo e di qualità positiva.

Verso 86 è plastico perché onomatopeico. Consonanti si ripetono: allitterazione c e m →Consonanti che ricordano il suono della
fiamma, che era rimasta in silenzio per molti secoli. Mormorando inizia a scrollarsi, dondolare come fa la fiamma agitata dal vento
(modalità giù usata, legame con Dante che si piega).

Suoni a sinistra c e a destra m: per effetto dei suoni, il verso si allarga, non si stringe nel mezzo. Le consonanti nasali, in particolare,
allungano.

indi la cima qua e là menando,


come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: «Quando

Come se la cima fosse lei a parlare: la voce sembra uscire dalla punta della fiamma come fosse la lingua. Similitudine che giustifica
interpretazione fiamma come segno della colpa, immagine dell’eloquenza della parola usata dalle anime per far danno.

Ad un certo punto, gittò fuori…

mi diparti’ da Circe, che sottrasse


me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enea la nomasse,

Questo quando che troviamo alla fine del verso 90 è un avverbio, elemento della frase collocato lì come penzolante; perché serve a
Dante per costruire quella serie di elementi molteplici che devono essere tenuti insieme. Le successive 4 terzine sono infatti rette
da quel quando, che quindi è lì graficamente per introdurre, dando ampiezza e peso, queste 4 indicazioni di tempo. Ulisse sta
dicendo che in quei momenti lì nulla poté vincere la forza di quella curiosità. Nessuno di quei momenti può superare il desiderio di
diventare esperto del mondo:

1. Amore di Circe: quando mi dipartì da Circe che con le sue lusinghe mi sottrasse più di un anno là, presso Gaeta; prima che
Enea la nominasse così. (rete attorno Virgilio ed Eneide: è Virgilio che dice che quel luogo è chiamato Gaeta in onore di
Circe)

né dolcezza di figlio, né la pieta


del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopé far lieta,

2. Questi tre elementi non poterono vincere la curiosità: gli affetti familiari → la dolcezza del figlio, la pietà, la reverenza e il
rispetto nei confronti del padre e nemmeno l’amore nei confronti di Penelope, la moglie.

Questi elementi aumentano il dramma: come in una tragedia antica, vengono violate le regole della famiglia. Ma ciò che ancor più
riempie di significato questo passaggio è che essi sono gli stessi problemi vissuti da Dante. Quando egli dovette lasciare Firenze, per
andare in esilio, lo fece per non pagare sulla propria pelle le conseguenze, la condanna; e ciò determinò (qui lo confessa
spostandolo su Ulisse, è una RIMOZIONE) l’abbandono della famiglia, per seguire il grande imperativo della sua dignità di poeta e
cittadino, per la fede nei suoi valori. Ma, cosa ben peggiore, il dramma è legato al fatto che la famiglia pagò le conseguenze di
questa condanna: vennero sottratti tutti i beni → Sofferenza e dolore provocato per colpa di Dante sulla famiglia.

vincer potero dentro a me l’ardore


ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore;

Il desiderio incontenibile di conoscere è chiamato ardore. Con questo sostantivo che è metaforico (dal pdv connotativo, l’ardore è
quello del fuoco, che brucia e produce tanto calore) indica il fuoco che divora: la fiamma dei peccatori ma anche il fuoco
dell’intelligenza dell’uomo, di Prometeo.

Di divenire esperto: sostantivo che viene dal verbo sperimentare, fare esperienza del mondo e dei vizi umani e dei valor umani.
Quindi, conoscere il mondo e le persone, con vizi e virtù.
Questa è la naturale sete di conoscenza che muove l’uomo
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.

Ma: avversativa drammatica. Particella che costruisce frase avversativa, che avremmo anche potuto intendere come congiunzione
e sostituire con “e” dal pdv sintattico. Dante, però, decide di intervenire in modo più energico inserendo “ma”, che dà più forza,
carica, l’opposizione drammatica e funziona anche dal pdv dei suoni con parole a fianco: misi me → allitterazione forte della m,
tanto sfacciata da essere importante.

Insieme alla m, c’è l’allitterazione della a nella seconda metà del verso: le “a” come le m sono vocali aperte, suoni aperti che
rendono dimensione aperta, senza confini del mare.

Alto= viene dall’antico perché a far paura del mare aperto è profondità degli abissi. Alto è profondo.

Compagnia di pochi, dai quali non fui abbandonato. Diserto è parola che torna: insieme andarono e insieme si persero

Mi avviai volutamente: con prima persona marcata, responsabile e consapevole.

Legno: metonimia/ sineddoche, una materia per tutte e materia per mezzo di trasporto.

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,


fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.

Descrizione della geografia di quest’ultimo viaggio.

Il viaggio di Ulisse: prevede di attraversare il Mediterraneo e proseguire verso Gibilterra, dove c’erano le colonne d’Ercole, che,
secondo il mito classico, segnavano linea oltre la quale agli uomini non era lecito procedere.

L’uno e l’altro: le due sponde del Mediterraneo.

Le altre: le isole Baleari circondate dal mar Mediterraneo

Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi


quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi,

Io e i miei compagni eravamo vecchi e tardi: in questo caso, la puntualizzazione dell’età serve ad Ulisse e al poeta per sottolineare
l’insistenza del viaggio: si parla di un viaggio che era condotto contro le ragioni dell’età. Espressione usata, quindi, per evidenziare
la forzatura del viaggio, ma anche la fiducia e l’attaccamento dei compagni verso Ulisse, che lo seguono nonostante l’età.

Tardo: lento, rinvia all’etimologia latina “tardus”; appesantito

Foce stretta: stretto di Gibilterra.

Mito secondo il quale Ercole aveva segnato il confine oltre il quale non era possibile procedere. Avrebbe posto addirittura una
scritta che è rimasta come un emblema: non plus ultra = non andare oltre. Motto che poi nei secoli successivi è stato
paradossalmente assunto come invito a non desistere all’ardore della conoscenza; come a dire noi sfidiamo le colonne dell’Ercole:
assunto, per esempio, dai soldati spagnoli alla conquista del mondo.

Riguardo: timore, reverenza → metonimia, indica il confine, l’oggetto fisico, attraverso l’attitudine da avere nei confronti di tale
oggetto

acciò che l’uom più oltre non si metta:


da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.

Affinché l’uomo non si metta più oltre: esplicita il monito, divieto, pronunciato dalla bocca di Ulisse

Sibilla: Siviglia, lido spagnolo, che procedendo da oriente ad occidente si trova a destra

Setta (Ceuta) è una località della costa africana

"O frati", dissi "che per cento milia


perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
Queste terzine costituiscono la piccola orazione di Ulisse: si tratta di un discorso che il nostro personaggio imbastisce per
convincere i compagni. È chiamata orazione, perché possiede tutte le caratteristiche e gli attributi che la retorica normalmente
seleziona per costruire orazioni convincenti.

Ulisse deve convincere i suoi compagni a spingersi oltre le colonne: per farlo utilizza come prima strategia una captatio
benevolentiae, per renderli accondiscendenti→ ci riferiamo non tanto al fatto che vengano chiamati frati (fratelli, compagni);
quanto al rinvio al coraggio e alle imprese già compiute.

d’i nostri sensi ch’è del rimanente,


non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Non vogliate privarvi del poter vedere il mondo senza gente

Negarla a: Ulisse fa appello al desiderio di conoscere condiviso con i suoi compagni e li invita a non privarsi di questa ultima
avventura straordinaria proprio ora che manca poco giungere alla fine della loro vita

Piccola veglia (contrario morte sonno) del rimanente dei nostri sensi: questo poco che ci resta da vivere

Esperienza: termine della conoscenza, di chi desidera esperire

Mondo sanza gente: perifrasi, formula per indicare l’emisfero meridionale → nella concezione dantesca il globo era abitato nella
parte settentrionale e disabitato nella parte meridionale. Il loro viaggio prosegue seguendo il corso del sole (di retro al sol) da est
verso ovest puntando verso sud. Questa perifrasi indica, quindi, l’emisfero meridionale, ma è poeticamente opportuna perché
sottolinea anche retoricamente il fatto che loro saranno i primi, i pionieri (mito del primato) che arriveranno lì dove nessuno è mai
stato.

Quindi l’avventura è pericolosa, ardita ma si presenta come una tentazione: Dante vuole arrivare a dire se Ulisse è colpevole o
innocente? Va punito? È un monito contro la libertà dell’intelligenza? La risposta non c’è → l’opera è polisemica, interpretazione
aperta. Dante ci propone una domanda, non una risposta: lui stesso va in crisi davanti a questo dilemma, ha delle sue risposte = la
Grazia deve avere la precedenza ma ciò non significa non esaltare l’intelligenza dell’uomo che è un mistero, che è la sua parte
divina.

Mistero: Dio ci ha dato l’intelligenza, che è parte divina, ma bisogna accettare di ricevere la grazia, che ci dice che l’intelligenza
divina è molto di più, che quella a cui l’uomo avrà accesso quando si ricongiungerà con Dio è infinita.

La figura di Ulisse vuole dare parola ad una parte di Dante: i grandi personaggi della commedia sono parti di sé che Dante stacca e
anima come figure poetiche.

Questo “mondo sanza gente” contiene la sfida, l’oltraggio della sfida ma anche il richiamo alla sete inestinguibile della conoscenza
che l’uomo deve comunque percorrere.

Considerate la vostra semenza:


fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".

Terzina più famosa e bella: Ulisse si rivolge ai suoi compagni

Questa terzina contiene un messaggio importante, tanto che qui ci domandiamo chi sta parlando: Ulisse, Dante personaggio, Dante
poeta, Virgilio allegoria della ragione. Il lettore si sposta attivamente e liberamente tra queste figure.

Considerate la vostra origine/natura, non siete stati creati per vivere come belve ma per conseguire la virtù e la conoscenza.

Il discorso piano della terzina serve a trasmetter un contenuto importante. Dante scioglie la tensione della sintassi: tutto fila liscio
ed è esplicito. Questo stratagemma serve a concludere efficacemente l’orazione di Ulisse, il quale condensa in questa battuta finale
l’intenzione che muove l’intero discorso.

Li miei compagni fec’io sì aguti,


con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti; 123

Attraverso l’orazione, io finalmente resi i miei compagni aguti: participio con valore di aggettivo, indica bene la condizione della
curiosità accesa nell’animo dei compagni.

A malapena li avrei trattenuti talmente curiosi e desiderosi di proseguire il cammino


e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino. 126

Dunque, volta la parte posteriore della nave verso il mattino, cioè l’oriente

Prendemmo come un volo la navigazione nella direzione opposta, cioè verso occidente

Questa metafora del verso 125 è celebre e molto usata nella nostra cultura: il viaggio per mare come un volo, i remi diventano ali.
Ma questo è solo il primo livello metaforico; poi l’altro più importante considera la vita come una navigazione, un viaggio.

Questa lettura e interpretazione dell’immagine ci spiega perché il volo è definito folle. Si tratta di una forzatura un po’ illogica: è la
responsabilità, l’intenzione di guida e la direzione ad essere folle, non il viaggio in sé; è la scelta compiuta da chi guida, dai
navigatori che è folle.

L’aggettivo “folle” ci dà, anche, un’interpretazione precisa del messaggio di D: se egli avesse voluto costruire solo un personaggio
positivo, non gli avrebbe messo in bocca questa parola. Ma questo aggettivo è talmente pieno di significato che indica in maniera
chiara ed inequivocabile l’errore compiuto attraverso quel gesto: quel gesto è folle.

Follia si oppone alla ragione: è la negazione di quella razionalità che contemporaneamente è incarnata da Ulisse. Sottolineiamo,
dunque, l’ambivalenza e la ricchezza dell’interpretazione del personaggio.

Tutte le stelle già de l’altro polo


vedea la notte e ’l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.

Finalmente, dopo la sequenza centrale che contiene il messaggio per eccellenza, la sequenza narrativa deve concludersi con
l’evento della tragedia incontro cui va Ulisse; la sua sorte deve essere svelata.

Cinque volte racceso e tante casso


lo lume era di sotto da la luna,
poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo, 132

Per cinque mesi navigano nell’oceano: la luce della luna si era accesa ed era scomparsa alla loro vista cinque volte, da quando
avevamo sorpassato le colonne d’Ercole.

L’alto passo: termine usato per definire questo confine, foce. Si tratta di un logo pericoloso come i passi alpini (importanti ma
pericolosi). Alto per sottolinearne questo aspetto.

quando n’apparve una montagna, bruna


per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.

Appare in lontananza una montagna che da lontano non si distingueva bene; era bruna, oscura.

E mi parve tanto alta quanto non avessi mai visto

Tale montagna è il Purgatorio: montagna che emerge dalle acque nell’emisfero meridionale

Sotto Gerusalemme c’è la voragine dell’Inferno: la terra spinta da tale voragine, emerge nell’emisfero meridionale sotto forma di
montagna; è come un’isola in questo altro emisfero. Tale montagna, nessuno può toccarla da vivo: luogo disabitato dagli uomini,
regno dell’aldilà. C’è il divieto divino di non poter acceder al di là di ciò che pertiene la vita terrestre

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto, 136


ché de la nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto.

Si rallegrano perché pensano di aver terminato il loro viaggio, loro per primi di aver toccato questo luogo inesplorato

Ma immediatamente l’allegria si trasforma in pianto. Noi ci rallegrammo e subito la gioia si trasformò in pianto: parafrasi da
esplicitare.

Tornare: utilizzato nell’altra accezione di diventare (non è usato come tornare, andare all’origine). Diventare si lega a tornare
perché la trasformazione gira come una ruota.
136 Verso sintetico: Dante vuole comunicare immediatezza e repentinità di questo movimento, di questa trasformazione. Per
ottenere questa velocità, questo effetto di immediatezza, non c’è tempo per ragionare, non c’è passaggio → si tratta di un verso
ellittico, manca di una parte.

Da questa terra mai vista, nacque un turbine

Nova: aggettivo che significa mai vista, ma esso tiene in questo uso anche di una parte del suo significato antico; dove novo è
straordinario. Le nove sono le cose straordinarie, sorprendenti.

Una terra straordinaria che va al di là dei confini umani, pertiene qualcosa a cui la dimensione umana non ha accesso

Il primo fianco della nave viene colpito da questo turbine, tempesta marina

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;


a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque, 141

infin che ’l mar fu sovra noi richiuso».

Tre volte questo turbine fa girare la nave con le acque intorno: la nave si capovolge per tre volte. Alla quarta volta la poppa si leva
in su e la prora in giù: la nave si mette a testa in giù, sprofonda come Dio volle.

Finché, alla fine, il mare si richiuse sopra di noi.

Questa sequenza finale è una chiusura solenne e tragica: il mare si chiude come una tomba, così anche il canto; e altrettanto
drammatica e traumatica è la fine della vita di Ulisse. Tale chiusura è definita anche solenne perché non c’è commento, Dante non
parla, non serve parlare. Questo finale è come una conclusione che indica effettivamente la perplessità del poeta, che decide di non
commentare.

È una conclusione che ha qualcosa di assoluto, distaccato, come per portarci a riflettere, come per suggerirci la riflessione intorno
all’argomento affrontato: il tema della dimensione e dello spazio dell’intelligenza umana.

Il verso finale inizia e termina con una stessa immagine: infin e richiuso.

Verso 141: c’è un’importante e timida presenza di Dio. Dio mai nominato prima da Ulisse: c’era stato un indizio in quell’aggettivo
folle che aveva dato un colore al discorso. Ma, qui U afferma come volle Dio, secondo la volontà divina: la nave viene travolta e si
conclude tragicamente la vita. Dio compare qui, anche se sempre non nominato, attraverso questo altrui indefinito che in quanto
tale non può che indicare Dio.

Interpretazione del canto


Nelle letture, i critici si sono divisi tra innocentisti e colpevolisti:
1. Innocentismo sostenuto dalla tradizione laica, romantica: Ulisse come un eroe-martire dell’intelligenza umana e la sua è
stata una grandezza, una magnanimità sfortunata ma non colpevole (non accedeva alla Grazia);
2. Colpevolismo: chi intende il personaggio come colpevole. Dante ci presenta la figura di un personaggio che deve essere
visto necessariamente come esempio negativo: colui che ha peccato di eccesso, di prevaricazione, di superbia ed è stato
punito. Ulisse, in questo contesto, appartiene alla stessa famiglia di Prometeo, Adamo.

Per risolvere questa empasse tra due estremi a cui D non voleva arrivare, torniamo alla visione dell’uomo di D: il vero eroe è chi
coltiva la conoscenza e persegue questo desiderio.

Il desiderio di conoscere è carattere primordiale dell'uomo, lo distingue dagli animali, carattere che nei migliori raggiunge un grado
eroico. Dante con Ulisse porta a massima tensione figurativa il discorso sulla magnanimità che, per non diventare presunzione,
deve essere umile, cioè deve affermare la necessità della grazia.
Come tenere insieme il dovere di conoscenza e il dovere di avere un limite? Come tenere insieme questi due opposti, magnanimità
e umiltà? Questione non di ragione, ma di fede. Due 'infinità' che il personaggio, il poeta, l'uomo affronta:
- della ragione (Ulisse)
- del cuore (Manfredi).
La sete di infinito (il mare) è posta da Dio stesso nell'animo umano, ma Dio ha riservato a sé di saziarla, per chi umilmente lo
chiede: La sete natural che mai non sazia / se non con l'acqua onde la femminetta / samaritana domandò la grazia.
Purgatorio III
Questo canto è dedicato al personaggio di Manfredi di Svevia, che si ricollega alla figura di Ulisse. Se, infatti, il caso di Ulisse è il
caso studio che Dante si riserva per indagare il tema dell’infinito della conoscenza, dei limiti della ragione; qui, invece, l’infinito del
sapere viene declinato da un altro pdv ed è indagato come mistero dell’amore: fino a dove è giustificabile, razionale l’amore divino,
la bontà divina?
Dante ci aveva illustrato come l’infinito della conoscenza fosse pertinenza divina e soprannaturale. Qui, invece, parla dell’infinto
della bontà, dei sentimenti. Si tratta di uno spazio altrettanto misterioso perché è uno spazio dove saltano quelle logiche e regole
che l’uomo altrimenti crederebbe dovrebbero funzionare. Quando si ha a che fare con la bontà di Dio, possono succedere, cioè,
delle cose, avvenimenti sorprendenti e scandalosi rispetto ai parametri consueti e logici che regolano la giustizia umana.
Questo discorso si lega al nostro personaggio principale: Manfredi è stato un grandissimo peccatore, i cui peccati furono terribili,
eppure, essendosi pentito in punto di morte, egli sarà destinato al Paradiso, tra i salvati. La giustizia divina, quindi, quando è
amore, è grazia divina, che incontra la disposizione dell’uomo che si dispone verso Dio; ecco che scardina quelle regole che secondo
l’uomo dovrebbero regolare il mondo. È un controsenso, è strano secondo la giustizia umana.
Dante, razionalista, ha bisogno di indagare e dare sostanza poetica a questa croce, dilemma che lo interrogava. A questa tipologia
di anime è dedicato tanto spazio: tutta la zona dell’Antipurgatorio è dedicata ad anime che si sono pentite tardi. Prima di
percorrere la salita del Purgatorio, devono scontare qui, nell’Antipurgatorio, un’attesa tanto lunga quanto il tempo che hanno
tardato in vita a pentirsi; poi potranno percorrere le cornici del Purgatorio per purificarsi e arrivare al Paradiso. L’Antipurgatorio è
un luogo inventato da D, a cui egli dedica diversi canti.

Il filo che lega Manfredi a Ulisse viene confermato dalle prime sequenze del canto, prima dell’incontro con Manfredi: Virgilio e
Dante hanno appena lasciato Catone e Casella, amico di Dante, di cui si sono fermati ad ascoltare il canto. Dante si accorge di una
cosa nuova: il suo copro fa ombra, solo il suo, e si spaventa pensa di essere rimasto da solo. V gli spiega che è così perché gli altri
non sono lì con il corpo. È una novità perché nel purgatorio si recupera la luce dopo le tenebre assolute dell’Inferno e le altre
caratteristiche del mondo terreno, a cui il Purgatorio assomiglia. Questi sono i versi attraverso i quali V risponde al dubbio di D.

A sofferir tormenti, caldi e geli


simili corpi la Virtù dispone
che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli. 33

Virgilio spiega che è la virtù divina, Dio, che dispone che simili corpi soffrano il tormento, il caldo e il gelo in modo tale che il motivo
non si sveli a noi: è un mistero quello per cui, seppur senza corpo le anime soffrano il caldo, il freddo, il dolore e abbiano dei
sentimenti. La virtù lo dispone ma non ci svela il mistero.

Matto è chi spera che nostra ragione


possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone. 36

È matto, stolto chi spera che la nostra ragione possa trascorrere la via infinita dell’operare divino, che per esempio si realizza nel
mistero della Trinità.

Virgilio fa, quindi, una considerazione generale, passa dal particolare al generale: riferisce questo caso particolare per, poi,
accedere più ampiamente al discorso sulle possibilità infinite di Dio che non sono percorribili dalla ragione umana. Ulisse viene
definito matto, stolto.

State contenti, umana gente, al quia;


ché, se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria; 39

Dunque, voi, uomini dovete accontentarvi, limitarvi alla conoscenza del come non del perché. Questo quia è un latinismo,
pronome latino scelto perché è particella che nella lingua latina introduce delle proposizioni assertive, non causali (io dico che, io
affermo che). La ragione umana può conoscere come e non perché. Ripreso, poi, da Galileo quando, in pieno accordo con la fede
cristiana, la scienza deve occuparsi di come funziona il mondo non il perché. Del perché se ne occupa la religione, la fede; del come
se ne occupa la ragione, la scienza.

Uso del verbo vedere nel senso di capire. Metonimia: trasferimento dalla vista al pensiero.

Se aveste potuto capire bene tutto, non sarebbe stata necessaria la nascita di Cristo, la rivelazione.
Cristo nasce per rivelare la verità, quella che l’uomo non è capace di raggiungere da solo (ne è consapevole, secondo la
concezione cristiana). Secondo un altro pdv, egli è venuto per riparare lo strappo tra uomo e Dio avvenuto per colpa di Adamo, che
aveva voluto eccedere nella strada della conoscenza. È Gesù in quanto amore, e quindi Maria, che dà quiete all’insaziabile sete di
conoscenza dell’uomo.
[V passa da una minuzia, l’ombra, ad un discorso generale, concetto che vale per tutti e per sempre.]
e disïar vedeste sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch’etternalmente è dato lor per lutto: 42

Ritorna al personaggio e alla sua umanità con questi versi.

Se fosse stato così facile, ci sarebbero arrivati prima Aristotele e Platone; voi avreste assistito per nulla al tormento della ragione di
questi filosofi, che invece hanno indagato con fatica il perché ma senza conclusione →Il desio sarebbe stato altrimenti da loro già
quietato.

Ma questo desiderio non soddisfatto ecco che eternamente “è dato lor per lutto” = questa è la loro condanna: si trovano
nell’inferno, anche se nella regione privilegiata del limbo.

io dico d’Aristotile e di Plato


e di molt’altri"; e qui chinò la fronte,
e più non disse, e rimase turbato. 45

Il turbamento di V che, implicitamente, attraverso un’ellisse, ci comunica che egli si mette insieme a loro: non solo perché è nel
limbo con loro, ma anche perché si rende conto che, come loro, ha cercato per tutta la vita una verità che non era possibile da
raggiungere. Qui parla Virgilio, ma rappresentato da Dante poeta: Dante sente tanta vicinanza con Virgilio; ad essere turbato è
Dante poeta.

Nelle sequenze successive, la narrazione procede e i due pellegrini non sanno dove proseguire. Vedono un gruppo di anime
procedere verso di loro, esse sono timide e sospettose. Si spaventano alla vista di V e D perché si accorgono che Dante è lì con il
corpo. Queste anime sono appena state trasportate dall’angelo nocchiero, con la sua nave veloce e leggera, per iniziare il viaggio
lungo la salita del purgatorio; e vengono individuate da D e V come coloro a cui chiedere le indicazioni stradali.

Versi 79 e successivi: D le paragona, con una similitudine celebre, ad un gruppo di pecore→ Come le pecore escono dal recinto in
fila, e ciò che fa la prima fanno anche le altre; tale fecero queste anime quando la prima si ferma e le altre si addossano a lei. Si
tratta di un paragone aggraziato, dolce che intende trasmettere l’idea della mitezza e della pudicizia di queste anime che giungono
in purgatorio placide e ben disposte a percorrere questo cammino per recuperare l’amore con Dio; quindi, ci indica la disposizione
amorosa delle anime del purgatorio. Ed è una similitudine che viene commentata ricordando la coralità che caratterizza le anime
del purgatorio; differente dall’inferno dove le anime sono sole. Nel purgatorio le anime procedono in gruppo perché sul piano
allegorico hanno capito che l’individualismo non paga anzi è peccato. Sono quindi disposte all’amore verso il prossimo: ci sono,
tuttavia, delle eccezioni.

D e V chiedono indicazioni, e rassicurano le anime sull’aspetto di Dante (la sua presenza corrisponde alla volontà divina). Ecco,
quindi, che da questa mandria si stacca un individuo, si distingue uno.

E un di loro incominciò: «Chiunque


tu se’, così andando, volgi ‘l viso:
pon mente se di là mi vedesti unque». 105

Uno di loro, uno del gruppo = è specificato. Questa figura prende la parola e dice a D: chiunque tu sei, mentre camminiamo, volgi il
viso e pensa bene, fai mente locale, se di là, quando fosti nel mondo come me, mai mi hai visto? → Mi riconosci?

Unque è un latinismo con il significato di mai: è un indizio di innalzamento dello stile. Manfredi era un re: regalità, eleganza regale
del personaggio.

Mentre camminiamo: è sì una stringa narrativa, di passaggio, riguardante la sequenza; ma anche significativa del fatto che queste
anime non possono perdere tempo. Esse sanno di aver sbagliato in vita, avendo tardato così tanto a pentirsi (è il loro peccato più
grande che scontano per primo, poi verranno tutti gli altri); ed ecco che, quindi, hanno questa solerzia gentile che li caratterizza in
Purgatorio.

Io mi volsi ver lui e guardail fiso:


biondo era e bello e di gentile aspetto*,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso. 108

Lo guardai attentamente: fiso

*La regalità, la bellezza, la gentilezza di M è tratto della sua nobiltà che si vede anche di fuori. La gentilezza, cioè la stirpe regale,
non può che esprimersi anche nei modi e nelle fattezze (i re erano tutti detti belli). Questo verso, che sottolinea la bellezza fisica e
morale del personaggio, rinvia ai modelli dei sovrani, dei re della Bibbia. Questo alone di regalità avvicina Manfredi alla figura di re
Davide della bibbia, perché nella Bibbia gli attributi per descriverlo sono gli stessi; o anche ai re della letteratura cavalleresca.
Anastrofe: inversione “biondo era” tra verbo e parte nominale.
Questo biondo dovrebbe andare vicino a bello e di gentile aspetto: polisindeto, serie di attributi rimarcati e decorati attraverso
l’anastrofe che non fa che sottolinearci ancora di più la cura di D nel descrivere l’aspetto fisico di Manfredi

Ma questa bellezza di M viene o, meglio, non viene rovinata da una cicatrice che aveva diviso, divideva uno dei sopraccigli. Questa
ferita occupa un verso intero, ma non riesce a rovinarne la bellezza.

Quand’io mi fui umilmente disdetto


d’averlo visto mai, el disse: «Or vedi»;
e mostrommi una piaga a sommo ‘l petto. 111

D risponde implicitamente, risposta non dichiarata. Ci viene presentato anche come umile, per due motivi: percepisce regalità
figura e imita atteggiamento delle anime del purgatorio.

D non lo riconosce → Secondo gesto di M per presentarsi, ben più forte del primo: per aiutare la sua identificazione, M mostra una
piaga, ferita, in cima al petto. Il gesto rinvia a quello di Gesù che mostra la piaga sul petto a San Tommaso. Questa identificazione
emblematica è quella che ci conferma anche il legame con Davide: sul piano allegorico, Davide nell’Antico Testamento è
prefigurazione di Gesù. È un gesto questo che istruisce il lettore, secondo l’intenzione del poeta, intorno all’importanza della figura:
rasenta l’ortodossia.

Mostrommi: allitterazione m

Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi,


nepote di Costanza imperadrice;
ond’io ti priego che, quando tu riedi, 114

Il sorriso di chi ha superato il dramma delle passioni terrene; la letizia delle anime del purgatorio che sanno di aver recuperato
l’amicizia con Dio e godono, pur nella loro tristezza di aver peccato.
→ Dolce malinconia è la tonalità che contraddistingue le anime del Purgatorio.

M si presenta come re, dopo aver dato quasi per scontato la sua riconoscibilità (da vivo lui era facilmente riconosciuto da tutti).

Prima presenta il suo corpo: secondo la credenza, cultura, medievale, il corpo del re aveva dei poteri magici: si parlava di re
taumaturgo, che con il suo corpo guariva, donava salute ed era circondato da un’aura sovrannaturale. I re erano, infatti, detti unto
di dio, sacri.
Poi, parla della sua genealogia, dichiara il suo nome:
Lui era Manfredi d’Altavilla, figlio di Federico II, nipote di Costanza. Era un esponente della fazione ghibellina (era imperatore)
politicamente opposto ai guelfi. Il suo potere imperiale era stato osteggiato dal papa ed egli aveva subito le persecuzioni politiche
del regno della chiesa (più volte i papi chiesero aiuto ai francesi per scacciare gli Svevi e Manfredi viene ucciso durante una
battaglia, la battaglia di Benevento del 1266).

D deve dare figura di personaggio poetico ad un concetto che gli sta a cuore, la infinita benevolenza divina, e sceglie una figura
celeberrima, esponente della politica ancora accesa. È una figura anche discussa perché perseguitato dalla chiesa per motivi
politici (Dante si immedesima in M, anche lui sarà punito). Lo scandalo, poi, aumenta se pensiamo che le cronache, fonti storiche,
confermano che la condotta morale di Manfredi non fu limpida. Dante non sceglie, dunque, una via semplice e questo sovrano
aveva provocato fiumi di bibliografia che tramandavano le voci più disparate; oltre che una separazione tra colpevolisti (M
giustamente punito e scomunicato), e chi lo difendeva (la letteratura, l’opinione pubblica di parte ghibellina).
D va quindi alla ricerca di un personaggio che può scuotere le coscienze, la sua compresa. Inventando, per dimostrare che la verità,
quella vera, è un’altra, diversa da quella che riempiva le cronache. Come avverrà, poi, per Dante stesso.

vadi a mia bella figlia, genitrice


de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
e dichi ‘l vero a lei, s’altro si dice. 117

Manfredi rivolge una richiesta a Dante: ti prego che quando ritorni sulla terra, tu possa andare dalla mia bella figlia Costanza,
madre di Giacomo e Federico sovrani di Sicilia ed Aragona.

Regalità: chiama figlia secondo la stirpe e la ricorda come madre di chi ha portato avanti la sua corona.

Voglio che tu vada da mia figlia e le dica la verità, dal momento che ben altro si dice sulla Terra. Dunque, D ritaglia questo spazio
nuovo, questa porzione, attribuendo alla figura di M un destino che forse gli uomini sulla Terra non avrebbero mai immaginato.
Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona. 120

Manfredi racconta il momento della morte. In punto di morte era presente solo lui, la sua coscienza con Dio. Dante immagina che
il personaggio possa raccontarci cosa è avvenuto nella sua coscienza in quel momento.

Dopo che io fui ferito con due colpi mortali, io mi rivolsi, piangendo, a Dio. Perifrasi: mai nominato direttamente → colui che
perdona volentieri, non a caso, qui in Purgatorio, dio è il dio buono.

Volentieri è più del nostro volentieri: ben disposto al perdono, dio perdona sempre, non succede mai il contrario. Perdona se uno
gli si rivolge piangendo: segno del pentimento, lacrime del dolore sincero di M

Orribil furon li peccati miei;


ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei. 123

Questa terzina contiene il messaggio ultimo del canto. Questo è il seme da cui scaturisce l’episodio.

I peccati possono essere anche terribili: presunti o veri (non gli interessa). Ma: antitesi tra peccati orribili e la bontà infinita. La
bontà divina, infinita, è tanto grande, ha sì gran braccia (sono metafora: padre che accoglie il figlio prodigo, immagine del vangelo)
che riceve ciò che si rivolge a lei. Bisogna rivolgersi, ci deve essere un incontro.

Questo significa che occorre ammettere che esiste una giustizia divina diversa da quella umana. Ciò non significa discolpare o dare
innocenza umana, terrena ai peccatori e ai criminali, ma significa accettare un mistero, qualcosa che dà anche fastidio. Dante si
sforza lui per primo nell’accettare questo straordinario messaggio di speranza. La fede è anche questo. Ecco che la fede e la
speranza non può e non deve mai venir meno anche di fronte alle peggior disgrazie e ingiustizie.

Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia


di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia, 126

Punto forte del canto: se il vescovo di Cosenza che era stato mandato da papa Clemente a darmi la caccia, avesse tenuto in
considerazione, come avrebbe dovuto fare in quanto vescovo e pastore di anime (predica e polemica di Dante), questo aspetto
(faccia) della misericordia di Dio, del potere divino che è più forte degli uomini…

l’ossa del corpo mio sarieno ancora


in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora. 129

…allora le ossa del mio corpo sarebbero ancora presso quel ponte vicino a Benevento. Sotto la guardia, custodite da un pesante
mucchio di pietre =mora.
Infatti, non ci si era accontentati di sconfiggere Manfredi, ma il suo corpo era stato disseppellito e i resti dispersi. Già scomunicato,
in più si decide di infierire, negandogli una sepoltura religiosa, la benedizione finale e il funerale.

Lo scandalo di D, per bocca di M, è che il potere ecclesiastico non deve usurpare lo spazio del potere politico (distinzione già
presentata nel De monarchia: a ciascun potere il suo ambito, pur sottolineando la maggior importanza del papa perché l’anima è
più importante del corpo). Non solo il papa e il vescovo hanno sbagliato usando argomenti religiosi per infierire politicamente, ma
non hanno fatto nemmeno il loro lavoro, curando l’anima, loro principale dovere. Tale episodio è uno dei tanti che D adopera per
trasmetterci le sue grandi verità sul piano, etico, civile e politico.

Or le bagna la pioggia e move il vento


di fuor dal regno, quasi lungo ‘l Verde,
dov’e’ le trasmutò a lume spento. 132

Ora, invece, [i miei resti] li bagna la pioggia, li muove il vento, sono sottoposti alle intemperie.

Fuori dal regno, dai confini, quasi lungo il Verde= nome proprio per indicare il fiume Liri.

Dove il vescovo...: descrizione della condanna riservata agli scomunicati, un rito funebre con candele spente. Metonimia e
sineddoche per dire senza rito funebre, che invece non si dovrebbe negare a nessuno secondo D.

Per lor maladizion sì non si perde,


che non possa tornar, l’etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde. 135
Per la maledizione del vescovo e del papa = per effetto della scomunica data dagli uomini della chiesa.

Badate bene: messaggio che affida a D da distribuire → Per la scomunica non si perde l’eterno amore (soggetto), tanto che non
possa tornare finché c’è speranza.
Per rappresentare importante concetto della speranza, una delle virtù teologali (insieme a fede e carità), Dante inventa una
metafora “il fior del verde”, che funziona perché D scomoda il verde che è il colore del germoglio (la speranza è ancora viva), e la
parola fiore, che costituisce una metafora ad incastro: è un termine che lo parafrasiamo con “un po’ di speranza”. Questo perché
nell’italiano antico, nel fiorentino, si usava questa immagine per dire una piccola quantità oppure per indicare qualcosa di ancora
più vitale del virgulto, per indicare il massimo della vitalità.

Vero è che quale in contumacia more


di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,
star li convien da questa ripa in fore, 138

La seconda parte della verità che M affida a Dante (la prima parte riguardava la speranza che non muore mai, non dobbiamo avere
la presunzione di conoscere il destino): la verità è che chi muore in disaccordo, in contumacia, con la Chiesa, disprezzandola,
benché alla fine si penta, è necessario che resti qui fuori dal purgatorio, da questa ripa.

Ripa = confine, riva che è quella del purgatorio

per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,


in sua presunzion, se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa. 141

Per ciascuna unità di tempo in cui lui è vissuto in disaccordo con la Chiesa, è necessario che resti in attesa per trenta volte tanto.
Pena: moltiplicare per 30 il tempo che hanno vissuto in disaccordo con la chiesa.

[Dante non ha dubbi sul valore dell’istituzione della chiesa che è santa, creatura di dio e l’uomo deve seguire le sue indicazioni.
Dante critica le personalità al potere della chiesa, ma non le istituzioni: l’uomo deve vivere e operare per la riforma della chiesa.]

A meno che questo decreto, questa regola non diventi più corta, non venga accorciata attraverso le preghiere (teoria dei suffragi).
Qualora i vivi avessero pregato per i loro morti, il loro tempo da passare in purgatorio andava ad accorciarsi.
Le preghiere devono essere buone: fatte in buona coscienza e non strumentali. Capiamo l’umanità di M che sa che tutti nel mondo
lo ritengono nell’inferno: vuole che la figlia lo sappia affinché possa pregare per lui.

Questo riferimento alla preghiera è un elemento di struttura dell’opera. La commedia è, infatti, una struttura con le sue regole e i
suoi meccanismi che la tengono in piedi: D riesce a riempire di poesia tutti gli elementi della struttura teologica. Qui, per esempio,
quello che è un espediente teologico relativo al funzionamento dell’ideologia che tiene in piedi la commedia, è usato per
riportare il personaggio alla sua umanità, alla sua poesia: Manfredi è uomo tormentato dalla sua fama e dal ricordo/affetto della
figlia.

Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,


revelando a la mia buona Costanza
come m’hai visto, e anco esto divieto;

ché qui per quei di là molto s’avanza». 145

Manfredi conclude affidando a Dante il compito di rivelare alla figlia come lo ha visto e di questa regola che vige. Perché per quelli
di qui grazie a quelli che stanno di là si può procedere molto.

Per: valore causale


Pd 17: terzine su Cacciaguida
Cacciaguida: avo di Dante, suo progenitore. Si trova in paradiso festeggiato tra i Santi, perché ha operato militarmente per la fede,
aveva combattuto nelle crociate. Dante lo incontra e saprà da lui delle cose dolorose: tra cui la profezia dell’esilio → D dovrà
lasciare affetti, mendicare, avrà qualche conforto (esempio Cangrande della Scala), ma dovrà anche patire i grandi dolori dell’esilio
(Litigio con compagni di partito). D si spaventa davanti a queste notizie e pensa a tutte le verità che aveva scoperto durante il
viaggio nei tre regni e chiede a Cacciaguida se deve raccontare tutto quello che ha visto, una volta tornato sulla terra.

«Ben veggio, padre mio, sì come sprona


lo tempo verso me, per colpo darmi
tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona;108

O padre mio (Cacciaguida: progenitore), so bene (vedere nel senso di capire) che il tempo sprona verso di me = mi viene incontro
per darmi un colpo, preparando disgrazie tali (metafora) che sono talmente gravi, che sarebbe ancora più grave se non mi
preparassi =Il colpo è più forte per chi gli si lascia andare.

per che di provedenza è buon ch’io m’armi,


sì che, se loco m’è tolto più caro,
io non perdessi li altri per miei carmi.111

Dante chiede, quindi, un incoraggiamento affinché possa armarsi di provvidenza. È bene che io mi armi, mi provveda, mi rinforzi di
prudenza.

Sicché, cosicché, anche se mi sarà tolto il mio luogo più caro (Firenze e la famiglia), … → Dante teme cioè di perdere la fama, teme
l’impopolarità. Non vuole perdere il luogo della notorietà, quel tempo futuro dopo la morte che si sarebbe guadagnato facilmente
parlando bene di tutti. Teme l’oblio: Dante è poeta e uno delle sue debolezze è l’orgoglio, la gloria poetica/terrena. La fama è il
tempo infinito destinato agli uomini di questa terra: dimensione laica. Chi non ha fede in una dimensione futura, spera nell’eternità
della fama, tutta mondana. Il rischio per Dante è di cadere in tentazione.

Giù per lo mondo sanza fine amaro,


e per lo monte del cui bel cacume
li occhi de la mia donna mi levaro,114

Giù all’inferno e poi su al purgatorio, dove mi hanno accompagnato gli occhi di Beatrice, sua guida.

e poscia per lo ciel, di lume in lume,


ho io appreso quel che s’io ridico,
a molti fia sapor di forte agrume;117

e s’io al vero son timido amico,


temo di perder viver tra coloro
che questo tempo chiameranno antico».120

E dopo i vari cieli del terzo regno, ho appreso quello che se io lo ridico, darà fastidio a molti; la mia verità sarà molesta. Ma se io
sarò timido amico della verità, temo di perdere la vita tra coloro che questo tempo chiameranno antico, cioè i posteri. Ancora la
paura di perdere la fama.

La luce in che rideva il mio tesoro


ch’io trovai lì, si fé prima corusca,
quale a raggio di sole specchio d’oro;123

La luce: Perifrasi per Cacciaguida che è come una gemma, un gioiello (tesoro=Cacciaguida).

Si fé corusca: brilla tutta di luce rossa, come uno specchio d’oro colpito da un raggio di sole.

indi rispuose: «Coscïenza fusca


o de la propria o de l’altrui vergogna
pur sentirà la tua parola brusca.126

Risposta di Cacciaguida: Chi ha la coscienza sporca sentirà la tua parola brusca, proverà fastidio.

De la propria o de l’altrui: D ha in mente anche lo scandalo dei parenti dei morti.


Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’ è la rogna.129

Ciononostante, rimossa ogni menzogna; manifesta tutta la tua visione (non avere paura), raccontalo e lascia che si lamenti chi ne ha
motivo.

Rogna: immagine proverbiale che sottolineiamo perché espressione comica, bassa, materiale, corporale. Essa stona con il registro
dell’episodio che è alto. Dante la usa, quindi, per ottenere un effetto dissonante.

Ché se la voce tua sarà molesta


nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.132

Che se la tua voce sarà molesta in un primo momento: ecco la verità, la missione di Dante non è la fama ma il bene, è una missione
morale.

Se la tua voce darà fastidio all’inizio; quando sarà digerita, quando avrà prodotto l’effetto benefico che è chiamata a produrre, darà
nutrimento vitale (porterà alla salvezza delle anime).

Questo tuo grido farà come vento,


che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d’onor poco argomento.135

Cacciaguida consola Dante: Questo tuo grido sarà come quel vento che percuote le persone famose (le cime più alte). Teoria
dell’esemplarità: affinché il messaggio arrivi, è necessario guardare alle persone famose, gli anonimi non fanno notizia. Questo ti
farà onore.

Però ti son mostrate in queste rote,


nel monte e ne la valle dolorosa
pur l’anime che son di fama note,138

che l’animo di quel ch’ode, non posa


né ferma fede per essempro ch’aia
la sua radice incognita e ascosa,141

né per altro argomento che non paia».

Per questo ti sono state mostrate nei tuoi incontri attraverso i tre regni soprattutto le anime famose.

Perché l’animo di chi ti legge non posa né conferma la sua fiducia/credenza su un esempio minore, non noto, che non appaia e si
manifesti con tutta la sua forza: se fai esempio con persone meno note, il tuo messaggio non sarà accolto con la stessa efficacia.
La narrativa
Narrare (oggi va molto di moda: si narra anche in tribunale o per una cura medica → libricino “Che cos’è un testo letterario?”).
Distinguiamo due tipi di narrativa:
- Narrativa naturale: la vocazione al narrare è qualcosa di naturale per l’uomo, c’è una propensione.
o È faccenda biologica, iscritta nel nostro patrimonio genetico. Il nostro cervello è programmato per
conoscere in forma di narrazione: noi disponiamo gli eventi secondo una sequenza. È una funzione psichica
elementare, di cui molti studiosi (branca psicologica, psicofisica) si sono occupati.
o Ma anche antropologica: riguarda le strutture dell’antropologia, dinamiche che regolano il vivere di uomini
rispetto ad altri uomini (dalle tribù fino ad ora, anche in popolazioni meno civilizzati), regola rapporti
interpersonali.
o Da elemento del vivere antropologico diventa fattore culturale: elemento che appartiene ad una cultura e
distingue una cultura dall’altra → ciò lo vediamo nel mito: narrazioni che tengono insieme elementi
antropologici forti e dispongono una questione di tipo culturale-storico specifica di una popolazione. Man
mano che questo mito si specializza verso forme di raffinatezza e di conoscenza, allora riusciamo a
distinguere una narrativa letteraria da quella non letteraria (ci sono anche vie intermedie).
- Narrativa letteraria: noi ci occupiamo di questo tipo.
o Distinguiamo tra storia e racconto nell’ambito della narratologia, disciplina/settore teoria letteraria che
analizza gli istituti della narrazione.
▪ Storia: insieme degli eventi che vengono narrati, che sono preesistenti alla loro messa in forma
narrativa (di racconto), può subire ‘trattamenti’. Una stessa storia fatta di diversi eventi può dare
vita a tanti e diversi racconti in base al trattamento che riceve.
▪ Racconto: la forma concretamente assunta dall’opera narrativa (un enunciato narrativo, un
testo), è qualcosa di intangibile, unico. Non lo posso modificare, altrimenti ne abbiamo un altro.
È come un individuo. [Allo stesso modo la poesia: si tratta di un’immagine poetica. E ogni opera
d’arte.]

Boccaccio e il Decameron
Siamo in un ambito di prosa e all’interno di uno degli archetipi della narrativa mondiale.

IL DECAMERON Siamo fra il 1349-1351. Siamo solo 50 anni dopo la Commedia (ma in questi 50 anni è cambiato molto: fine
medioevo e inizio età moderna con Umanesimo; di cui B insieme a P viene considerato precursore); e anche se in apparenza può
sembrare, il Decameron non è un’opera moderna (mentre Dante sembra più medievale). È opera della maturità di Boccaccio ma è
anche opera di una vita: abbiamo date precise perché ci sono elementi che ci aiutano a datare, abbiamo il manoscritto autografo
(Dante non abbiamo una riga) che è datato; ma sono cento novelle e le radici di ciascuna si allungano negli anni nella biografia e il
Decameron riassume l’esperienza culturale della vita intera di Boccaccio. Definito la Commedia umana da Francesco De Sanctis:
parallelismo tra D e B funziona:
- B stima D e voleva imitarlo con una dinamica di emulazione e superamento: rapporto di rispecchiamento;
- Il vero protagonista del Decameron è l’uomo che viene descritto alle prese con quelle che B chiama Le ministre del
mondo, cioè delle forze (amore, fortuna, intelligenza, natura) laiche, mondane, terrene con le quali l’uomo deve
interagire; ed è grazie a questa interazione che si determina la vita umana. Tali forze possono agire in combinazione
e sollecitano la natura umana producendone l’incredibile varietà. È un ritratto, un affresco, nel quale manca però la
dimensione ultraterrena.

La struttura Questa commedia viene con grande generosità, gratuità, presentata in cento racconti dall’autore. Essi si ordinano
all’interno di una struttura molto rigida: 100 novelle distribuite in 10 giornate. Parliamo di due spinte:
- C’è una dimensione aperta del molteplice umano (analisi dei casi umani= infiniti), una spinta centrifuga che spinge
l’uomo verso l’esterno e verso l’apertura, tende oltre i confini e verso il molteplice;
- Dall’altra parte, l’autore ingabbia le novelle in dieci testi, in una struttura rigida: spinta verso l’interno per mettere
ordine al caos, dare una ragione, un logos a ciò che pare illogico e bizzarro.
È una struttura rigida/tensione che determina una fortissima coesione interna. [Insistiamo su questo aspetto in riferimento al
movimento di critica novecentesca che indaga le strutture portanti di un testo: strutturalismo]
A ciascuna di queste giornate è assegnato un tema tranne la prima che è di tema libero; ci sono dieci narratori che a turno
raccontano una novella; obbedendo a colui che viene confermato come re o regina della giornata. C’è soltanto un personaggio,
Dioneo, che è libero, può non seguire il tema (vediamo in azione la spinta e la controspinta: la struttura rigida e la spinta verso il
molteplice).

Contesto storico In quegli anni, in Europa, c’era la peste nera del 1348: epidemia colossale che aveva portato il male in terra, la
morte. Questo avvenimento è ciò che dà il via al racconto perché la narrazione si immagina che questi dieci giovani fiorentini, per
sfuggire al contagio, vadano a fare la quarantena in una villa del contado in periferia e per passare il tempo si raccontino delle
storie. Vediamo quindi il racconto che serve per esorcizzare la morte, che ha la funzione di tenere a bada il male che non è
comprensibile. Raccontare per salvare la vita, in cospetto alla morte.

La funzione del racconto È una funzione profonda (esorcizzare la morte) ma anche di diletto (utile e dilettevole: da Orazio continua
fino ad oggi); insegna ma è anche piacevole. Con il Decameron la narrativa diventa di evasione, assume cioè una delle funzioni
primarie della narrazione e della letteratura. Ciò non significa che non sia seria, anzi l’opera dilettevole cerca anche di trasmettere
un messaggio di carattere etico e morale. Boccaccio ha dovuto lottare per questa etichetta, superando i pregiudizi secolari: le sue
novelle spesso licenziose, hanno portato il Decameron ad essere considerato opera immorale (D sperimentava di più il lato morale,
insegnamento; meno il dilettevole). Ma la morale c’è; tuttavia non è imposta (diverso da Dante, la richiesta dell’opera è più
moderna): serve un lettore critico che la colga e ci faccia attenzione.

LISABETTA DA MESSINA (B246)


Quarta giornata quinta novella
1. I fratelli d’Ellisabetta uccidon l’amante di lei; egli l’apparisce in sogno e mostrale dove sia sotterrato. Ella occultamente disotterra
la testa e mettela in un testo di bassilico; e quivi su piagnendo ogni dì per unagrande ora, i fratelli gliele tolgono, ed ella se ne muore
di dolore poco appresso

2. Finita la novella d’Elissa e alquanto dal re commendata, a Filomena fu imposto che ragionasse: la quale, tutta piena di
compassione del misero Gerbino e della sua donna, dopo un pietoso sospiro incominciò:

3. – La mia novella, graziose donne, non sarà di genti di sì alta condizione come costor furono de’ quali Elissa ha raccontato, ma ella
per avventura non sarà men pietosa: e a ricordarmi di quella mi tira Messina poco innanzi ricordata, dove l’accidente avvenne.

Tre paragrafi diversi:


1. Abbiamo la storia che ci viene raccontata per la prima volta per intero. Ci viene detto tutto: è una parte del testo che è
detta rubrica, dove chi scrive anticipa il racconto che farà. Questo primo paragrafo è un elemento della struttura
dell’opera: c’è una cornice, impalcatura all’interno della quale si incastonano i racconti. La rubrica è parte della cornice, in
particolare quella parte dove la protasi viene raccontata.
2. Secondo paragrafo: elemento della struttura. Ciò che succede ai giovani nella turnazione: dopo Elisa, tocca a Filomena (re
Filostrato). Questo paragrafo è un elemento della cornice che introduce il racconto.
3. Spiegazione della novella: inizia la novella dopo il verbo incominciò. Nonostante la bassa condizione dei personaggi, la sua
novella non sarà meno degna di pietà, pietosa, tragica. → Boccaccio che si avvia verso la modernità infrange una regola
del classicismo: le cose tragiche possono succedere solo alla gente nobile (prime inclinazioni), qui un fatto tragico avviene
a gente mezzane/borghese. Il Decameron può essere considerato come uno dei primi capolavori del realismo moderno,
una narrazione realistica.

Tra questi paragrafi avviene un cambio di narratore: nel terzo paragrafo troviamo Filomena (narratore di secondo grado) che
racconta, ma nei primi due paragrafi il narratore non è lei (narratore di primo grado che, in questo caso, coincide con l’autore del
testo). Questo è un altro elemento della narrazione: ci deve essere un narratore distinto dall’autore. L’autore è la persona storica
dello scrittore; il narratore è chi prende la parola, chi dice io.
La teoria della letteratura ha approfondito questi concetti semplici: si può distinguere tra autore reale e autore implicito: autore
reale è lo scrittore reale; mentre l’autore implicito è l’immagine dell’autore che il lettore si costruisce a partire dall’opera. Capita
spesso che gli autori, ambendo alla fama eterna, costruiscano di sé un’immagine attraverso il testo che non coincide con la loro
persona storica. Questa distinzione, diversa identità dell’autore, entra in gioco nell’interpretazione del testo perché determina il
tipo di rapporto che il lettore instaura con il testo: c’è una responsabilità autoriale che incide sull’interpretazione del testo e che è
camuffata e costruita dall’autore stesso.

Altre considerazioni sul narratore…


Intenzione dell’autore: si può distinguere tra intenzione dell’autore e intenzione dell’opera → anche l’opera ha una propria
intenzione, obiettivo, bersaglio non necessariamente identico a quello dell’autore.
Es: Il Principe di Machiavelli, testo rivoluzionario e scandalosa che M scrive nei primi del Cinquecento per convincere un principe
straordinario a prendere le redini dell’Italia distrutta dagli stranieri. Egli, nell’opera, raffigura un principe fuori dalle regole: quanto
pesa l’intenzione dell’opera e quanto si distingue da quella dell’autore?

I gradi del narratore: B cede la parola a Filomena. Questa serie di gradi può anche andare avanti: il narratore a sua volta fa parlare
un personaggio che racconta ina storia all’interno della novella = narratore di terzo grado. Osservare come questi gradi si declinano
all’interno di un testo è molto utile dal pdv dell’analisi del testo:
1. Per il contenuto e la sua interpretazione: è chiaro che nella maggioranza dei casi l’autore, cedendo il microfono, scarica
la responsabilità della narrazione ad un’altra figura, si libera dai giudizi morali, di credibilità, di responsabilità; è come se
fosse una delega (es. Manzoni: fa ricadere la responsabilità sul manoscritto; Galileo che scrive un dialogo: delega la
responsabilità), creando una distanza utile tra l’autore e la materia, la quale si raffredda e viene gestita con più ironia.
2. La delega influisce sulla forma: l’autore può esprimere dentro il testo registri e stili diversi, in base ai personaggi
considerati. La forma, i registri dello stile vengono modellati sul narratore. Ci sono casi in cui questo meccanismo è molto
evidente: i generi della narrazione che mettiamo dentro la categoria del realismo, verismo, naturalismo: la voce narrante
è ben distinta dall’autore. Es. Verga → in quel caso il nostro autore persegue il suo obiettivo di far parlare la realtà.

Narratore esterno o interno? Tra l’altro, si può distinguere tra un narratore esterno o eterodiegetico, un narratore che racconta
fatti ai quali non ha partecipato, nemmeno come testimoni (È il caso di Filomena). Oppure abbiamo narratore interno o
omodiegetico; narratore che riporta fatti e avvenimenti ai quali ha assistito o partecipato anche come protagonista.

Quarto e Quinto paragrafo:


Nel quarto e quinto paragrafo, c’è la presentazione dei personaggi. Ci sono tre fratelli (parla F ma il pdv è il suo o no?) mercanti,
molto ricchi, soprattutto dopo la morte del padre. Messinesi ma di origine toscana. Filomena precisa subito che c’è una sorella bella
e costumata ma che non era ancora stata maritata, e che Lorenzo è una figura essenziale negli affari.

Forma di questa prosa: si capisce, è però una prosa particolare. Caratteristiche (da sottolineare poiché esse saranno poi quelle della
prosa italiana anche nei secoli successivi; che solo con Manzoni si va a semplificare):
- È una prosa caratterizzata da periodi naturalmente lunghi. Boccaccio preferisce la subordinazione alla coordinazione,
frasi costruite e non semplici. Prosa che nella sua architettura guarda agli esempi più classici della prosa latina, alla
prosa ciceroniana. Questa memoria del latino la vediamo anche dal fatto che il verbo è sempre alla fine: prima di
arrivare al verbo che si trova in fondo alla lettura dobbiamo trattenere il significato fino alla fine→ richiede impegno.
- Ancora maritata non avevano: inversione degli elementi frequente nel testo.
- Le coppie: una scrittura in prosa che procede privilegiando le dittologie, le coppie.

I personaggi: elemento della narrazione. Quando si fa un’analisi narratologica, si devono osservare i personaggi. Abbiamo tre
fratelli, Lorenzo e Lisabetta, ma in realtà dentro questi cinque personaggi si possono stabilire delle differenze:
- I tre fratelli sempre in tripletta, non si distinguono quasi mai dal narratore: costituiscono un solo personaggio, la
funzione personaggio è unitaria.
- Lisabetta e Lorenzo, invece, sono ciascuno un personaggio.

Tipi o a tutto tondo: Inoltre, fra di loro questi personaggi non sono simili tra loro: non appartengono allo stesso piano perché i
fratelli agiscono in modo stereotipato, secondo il tipo del fratello geloso, possessivo, invidioso. Quindi si potrebbe dire che questi
non sono veri personaggi ma dei tipi, o anche personaggi piatti. Diversamente Lisabetta e Lorenzo sono personaggi a tutto tondo
perché hanno una personalità specificata e agiscono in maniera non convenzionale (motore dell’azione).

Protagonista e personaggi secondari: Andando avanti nella lettura, ci accorgiamo che Lisabetta cattura tutta l’attenzione nostra e
della narrazione, mentre Lorenzo viene chiamato in causa e fatto agire solo per parlarci della storia di Lisabetta: si potrebbe dire
che abbiamo un personaggio primario, protagonista, ovvero Lisabetta, e Lorenzo che è personaggio secondario.

Lisabetta è davvero il centro della narrazione perché è rappresentata in maniera interessante. Però questo interesse, la sua natura
interessante la ricaviamo da degli indizi e non da una descrizione precisa e dettagliata. Di lei ci viene detto che è bella e costumata;
inoltre, andando avanti, scopriremo che di lei non ci viene detto nulla di più, non ci viene spiegata la sua psicologia, le sue emozioni,
cause e motivi. Cioè non abbiamo quelle che in ambito narrativo è chiamata l’analisi interna del personaggio. Questa identità del
nostro personaggio protagonista la ricaviamo, quindi, per via indiziaria, la deduciamo dai pochi indizi che il narratore ci fornisce
(stranamente, …) e dai gesti che ella compie (azioni, movimenti). Ci sono cioè delle spie che per via indiziaria ci permettono di avere
una descrizione particolare del personaggio.
Questo fatto di mancanza delle analisi interne non è sorprendente: esse subentrano solo con la narrativa moderna. Questo è un
motivo storico e culturale: l’uomo medievale è molto restio all’analisi interiore e alla descrizione della psicologia interna, c’è una
sorta di tabù intorno alla psicologia dell’individuo (Con P arriviamo al primo io). Nella cultura medievale, la possibilità che ci
possano essere introspezioni è qualcosa di alieno e inusuale.

Paragrafo sei e sette:


Paragrafo 6: I due amanti si incontrano di notte, ma una notte il maggiore dei fratelli se ne accorge e decide prudentemente di non
far nulla nell’immediato, ma di tenersi questo segreto fino alla mattina successiva.

Paragrafo 7: Esempio di periodo lungo, da tenere in sospeso fino alla fine. Venuto il giorno, il fratello racconta ciò che ha visto e
delibera insieme agli altri fratelli in modo che non ci fosse motivo di vergogna né per loro né per la sorella: fare silenzio e far finta di
non aver visto nulla, finché non fosse arrivato il momento giusto nel quale intervenire ed impedire il proseguire di questa vergogna.

Nel paragrafo 6, ci sono due cose da notare:


- C’è un Non che è di più: riga 14. Si tratta di un non pleonastico, ridondante e inutile dal pdv di logico ma è qui
perché si porta memoria di come potesse essere in latino la negazione. Doppia negazione autorizzata in latino e che
la lingua antica porta avanti.
- Secondo che da togliere: riga 13. Il secondo “Che” è ripetizione del primo → Nella prosa del Decameron, è molto
frequente la ripetizione del “che” dopo una frase incidentale (funzione della parentesi). Questo “che” non è retaggio
del latino, ma dipende dalla diffusione, all’epoca e per molto, della narrazione orale, dell’oralità. Gli oratori
aggiungevano aiuti per tenere desta l’attenzione del pubblico e per tenere in piedi il periodo. La stessa cosa per il
verbo alla fine: deriva dal latino ma tiene anche sospesa l’attenzione degli ascoltatori.

Altro elemento decisivo della narrazione: focalizzazione


La focalizzazione è il punto di vista, il fuoco. L’elemento primario da notare è che il narratore e la focalizzazione non sempre
coincidono: il nostro autore non decide sempre di attribuire il pdv a chi parla, al narratore e quando non lo fa significa qualcosa.
In questi due paragrafi, per esempio, c’è insistenza del narratore sul fatto che il comportamento dei fratelli è onesto, saggio,
giusto e quello di Lisabetta e Lorenzo è un’infamia, uno sconcio. È molto sottolineata questa differenza, distanza; chi scrive
volutamente divarica e distanzia i pdv: quello dei fratelli, che viene messo qui in prima linea, rispetto alle ragioni di Lorenzo e
Lisabetta. Possiamo dire che nel testo narrativo è avvenuta una focalizzazione: c’è stata un chiarimento del pdv.

Siccome il pdv e la focalizzazione è quello di uno dei personaggi parliamo di focalizzazione interna, che si differenzia dalla
focalizzazione esterna (avviene quando il narratore racconta; riferisce gesti, azioni, senza però specificare le intenzioni, i pdv). La
focalizzazione esterna si ha cioè quando le scene del film vengono riprese in modo distante, asettico, neutrale. In ambito
cinematografico, infatti, la focalizzazione esterna è tipica dei generi legati al giallo, poliziesco: quando non dobbiamo sapere
esattamente le intenzioni ma solo osservare dall’esterno ciò che succede. Non conosciamo i pensieri, le intenzioni.
Può succedere anche di avere l’estremo opposto della f esterna, una focalizzazione che privilegia tutti, a grado zero: lo zero è il
grado che l’autore adopera quando il lettore è dentro alla testa di tutti i personaggi: chi legge conosce e osserva, ha a che fare con
le emozioni e le esperienze di tutti i personaggi (la focalizzazione si può spostare). Si chiama focalizzazione zero e prevede un
narratore che sappia tutto, ci racconti tutto, ci dica tutto di tutti. È il famoso narratore onnisciente.

La focalizzazione può spostarsi. I cambi di f sono interessanti da osservare: più il narratore è abile, più egli lavora su questi elementi.
In una narrazione, le focalizzazioni possono cambiare di continuo, producendo degli effetti (comici → quando noi assistiamo ad
un comportamento che fa ridere di un personaggio che però ci viene presentato come un personaggio che secondo la sua
prospettiva agisce in maniera seria e composta: ecco che questi spostamenti, questa molteplicità di focalizzazione produce effetto
comico, straniante, di sorriso; la comicità secondo Pirandello).

Nel caso della novella, il narratore, forse l’autore, di chi è il pdv? → Di una persona omologata al contesto sociale dell’epoca che
vuole suscitare lo scandalo verso Lisabetta, o è il pdv di Filomena? L’intenzione di B è quella di costruire una tragedia, facendo
scontrare due logiche inconciliabile, la logica crudele e spietata dei fratelli che è la logica mercantile, di quel ceto che non ha più
costumi, morale di una volta, ma che pensa solo al denaro (situazione di crisi dell’epoca); contro la logica dei sentimenti e
dell’amore.
La tragicità/tragedia si ottiene soltanto costruendo personaggi a tutto tondo, non sfumati o indecisi, presentando sentimenti e
passioni nella loro punta estrema. Il narratore presenta personaggi come spietati per costruire la tragedia. Lo sconcio, la vergogna,
… sono enfatizzati volutamente.

Paragrafo otto, nove e dieci:


In questi paragrafi, i gesti e le azioni dei fratelli corrispondo alla lucidità fredda che Boccaccio vuole marcare.

La sequenza n 10 introduce una novità per noi: fino a questo punto abbiamo visto enunciati non dialogici (descrittivi, narrativi,
argomentativi), mentre qui abbiamo un dialogo, il primo della novella. In un testo, pur chiamandosi narrativo, si possono
distinguere, infatti, tipologie di enunciati diversi: queste categorie di enunciati vengono applicate anche ai testi. Capiamo il perché
e la funzione che all’interno del nostro testo questa specificità svolge.
Innanzitutto, dobbiamo fare una premessa necessaria: nel Decameron i personaggi, di solito, parlano tanto, le novelle sono
caratterizzate dalla presenza di una umanità che interagisce con le famose ministre, spesso usando lo strumento della parola.
Questa caratteristica è propria di Boccaccio perché lui è scrittore che sta riscoprendo i valori antichi, dei classici, della retorica
(tipico dell’umanesimo rivalutare il potere della parola: la razionalità dell’uomo si esplicita in forma retorica, e così si distingue).
Attraverso le parole, i personaggi si distinguono gli uni dagli altri, addirittura si salvano la vita (Chichibio e la gru).
Quanto troviamo, quindi, un personaggio che non parla, ciò vuol dire qualcosa: questo enunciato dialogico al paragrafo dieci è un
enunciato dialogico che si risolve in un non detto, in una minaccia verbale che impone il silenzio. Lisabetta, appena parla, viene
messa a tacere e la minaccia di morte arriva attraverso la parola che taglia di netto ed impedisce la legittima parola di Lisabetta. È
una dinamica, quella che si costruisce volutamente dentro la novella, che funziona presentando la parola come strumento di
soggezione, di possesso, di dominanza. Lisabetta non parla e non potendo parlare esprime la sua identità e individualità in altro
modo (parola di solito principio di individuazione del personaggio).

Paragrafi undici, dodici, tredici e quattordici:


In questi paragrafi, abbiamo un’abbondanza di imperfetti. Boccaccio insiste: questi tempi imperfetti sono i tempi che ci
comunicano del tempo lungo, dell’attesa, dell’elegia di Lisabetta, il suo dolore, pianto. L’imperfetto, dal pdv verbale, è un tempo
che indica la continuità nel passato (pass remoto azione puntuale nel passato): è funzionale alla narrazione abbondare con
imperfetti per sottolineare il tempo lungo dell’attesa. La dimensione di Lisabetta diventa la dimensione di pianto, delle lacrime,
dell’attesa.

È la dimensione in cui a questo punto inizia a vivere Lisabetta. Ad un certo punto succederà qualcosa nella narrazione: il lettore
comincia a sospettare che Lisabetta impazzisca, perda il senno e diventi folle per il dolore insopportabile della perdita di Lorenzo.
Già qualcosa abbiamo percepito: non arriva Lorenzo ma il suo fantasma che parla con lei (ci domandiamo sul piano letterale:
questo fantasma è reale o è nella mente di lei?). Ad esempio, notiamo al paragrafo 12: e parve a lei, le sembrò → c’è questo indizio.
In ogni caso, quando lei si sveglia dando fede alla visione (altro indizio incisivo → lei crede al delirio, incubo). Ad un livello ancora
ulteriore, l’autore sposta il dubbio sul personaggio: il dubbio del lettore viene riflesso su lei, è come una piccola focalizzazione → di
chi è il dubbio nostro o suo?

Verbi brevi e accentati: rapidità. Gli unici gesti di Lisabetta sono rapidi.

Paragrafi quindici e sedici:


15-16 sequenze macabre e nere della novella. Sottolineiamo un punto straniante, che produce effetto strano. Quando Lorenzo
appare in sogno è pallido e tutto rabbuffato: il fantasma compare con le sembianze di un cadavere, con i panni strappati. E, invece,
qui quando Lisabetta trova il corpo, non lo trova guasto o corrotto = c’è una (non) sovrapposizione tra realtà e finzione: Lorenzo è
morto, lei trova il cadavere ma ciò che succede nella sua mente ormai in delirio non corrisponde alla realtà. Noi creiamo questo
distacco e distinzione perché Boccaccio ci scompiglia le carte: c’è uno scambio tra cadavere e fantasma che è funzionale alla
costruzione della psicologia di L che è disturbata, fragile e infatti morirà di crepacuore.

Altro elemento curioso su cui la critica si sbizzarrisce: presa la testa, la mette in un imbuto e poi in grembo alla giovane donna,
fante, che l’accompagnava e che mette la testa in grembo. → I gesti compiuti
Dire mettere in grembo significa:
- Portare, mettere in braccio
- Ma, qui, l’uso di questo termine fa pensare che questo trasferimento da Lisabetta all’altra donna, vada interpretato
in chiave psicanalitica: si dà importanza ai gesti che afferiscono al mondo della sessualità → Lorenzo non è più suo e
la testa è in grembo alla fante. È talmente marcata la fisionomia tragica della novella, che si sono messi all’opera gli
strumenti della psicologia.

Paragrafo diciassette:
Lisabetta torna a casa. Ricominciano i tempi lunghi di Lisabetta, la sua elegia. Tanto rapido il suo gesto di prima, tanto lunghi i
tempi del prima e del dopo.

Si può dire che in narrativa il tempo non è uguale a quello reale o naturale. La letteratura gestisce liberamente il tempo perché fatti
brevissimi rapidi si possono raccontare in una sequenza lunga e fatti lunghissimi si possono raccontare con una parola. Si distingue
cioè tra tempo e durata; e i meccanismi della narrazione permettono di stringere allargare e non solo:
- Si può togliere: ellissi, la narrazione salta un pezzo → ciò determina un’efficacia della narrazione.
- Possiamo avere spostamenti in avanti e dietro: prolessi, flashback, analessi. Essi fanno sì che la fabula (favola?) non
debba coincidere con l’intreccio. La fabula è la storia secondo una disposizione naturale degli avvenimenti; questa
fabula può essere disordinata con vari intrecci. Nel nostro caso, non abbiamo un intreccio innaturale ma
allargamenti e condensazioni: no intreccio innaturale perché è qualcosa di tipico della narrativa moderna e
contemporanea. L’uomo antico non disordinava il tempo naturale, non si prendeva questa libertà.

Paragrafo diciotto:
Lo spazio: in questi paragrafi possiamo fare delle riflessioni sulla dimensione dello spazio e la sua significanza in ambito narrativo.
Lo spazio non è mai reso in maniera oggettiva o scientifica, nemmeno nelle forme artistiche che sembra lo facciano (fotografia), qui
la rappresentazione dello spazio dipende da fattori molti diversi tra loro e porta a delle rese del testo molto diverse.
- In narrativa abbiamo spazi resi in maniera molto vaga, impersonale o stereotipata: nemmeno chiamati spazi ma si
parla di sfondo (boschi della letteratura cavalleresca), senza carattere, uno vale l’altro.
- D’altra parte, abbiamo il tentativo di resa oggettiva dello spazio da parte del narratore: arriviamo al realismo e alle
sue descrizioni.
- Ci sono situazioni, addirittura, in cui lo spazio è talmente importante, non solo da renderlo in modo soggettivo e
ricco di dettagli preziosi, ma tanto da farlo diventare un personaggio. Esso interagisce in maniera determinante con
la narrazione. Es: letteratura ambientata in città → Dublino di Joyce; Napoli e Andreuccio da Perugia. È il caso delle
novelle cittadine del Decameron.
- Lo spazio oltre alla valenza realistico-oggettiva può presentare una valenza simbolica, metaforica. Questo
simbolismo è presente nella nostra novella, dove, per esempio, abbiamo una contrapposizione tra il dentro e il fuori:
per compiere le azioni, agire, i personaggi devono andare fuori (es: fratelli e l’uccisione di Lorenzo, Lisabetta e il
ritrovamento del cadavere); il dentro, invece, è il luogo della passività e della solitudine.
Paragrafo diciannove:
Lisabetta ha piantato il basilico nel vaso contenente la testa di Lorenzo (ricominciano i tempi lunghi del pianto): esso cresce
rigoglioso e odorifero sia per le lacrime che per la grassezza della terra. Lei viene vista più volte dai vicini: essi notano la stranezza di
Lisabetta, che non è, invece, colta dai fratelli. Si conferma la totale estraneità e indifferenza dei fratelli nei confronti della giovane.

Paragrafo venti:
I vicini e i fratelli parlano tra di loro e si meravigliano dell’aspetto guastato di Lisabetta.
Di queste righe notiamo l’insistenza sull’aspetto fisico di Lisabetta: questo modo di descrivere Lisabetta è un po’ anomalo perché
pare la descrizione della testa di Lorenzo più che la sua. Cioè, questo passaggio è una conferma di ciò che il lettore si era accorto:
vicinanza, continuità e rispecchiamento continuo tra i due amanti. Anche prima, se vediamo come i giovani erano stati presentati,
le descrizioni sono vicine e questi termini di reciprocità vengono ribaditi quando si raccontano gli amori (si piacevano egualmente,
desideravano ciascuno: termini di reciprocità). E persino dopo la morte, c’era l’apparizione del fantasma di Lorenzo che si
scambiava con il cadavere → Lisabetta assomiglia nell’aspetto al fantasma/cadavere di Lorenzo.
Cesare Segre ha insistito nell’estrarre questi elementi: il lettore percepisce un cambio del pdv → Il narratore, dove parla di Lorenzo,
assume sempre il pdv di Lisabetta. La focalizzazione su di lei è scelta per descrivere lui: per questo c’è un rispecchiamento, con lei
come centro e perno. Questa focalizzazione e centralità su di lei fa sistema con il dramma di Lisabetta, che viene
colpita/tormentata da un’ossessione: il delirio, la malattia, forse sin dall’inizio, si costruisce e racconta come un’ossessione di lei
verso Lorenzo. Il narratore sembra raccontare avendo già in mente il finale della storia: la vera protagonista è lei, personaggio a
tutto tondo, sola nella tragedia che la porta alla morte.

I fratelli, quindi, fanno portar via il vaso a Lisabetta: lei si ammala. Narratore insiste sull’infermità ossessiva di Lisabetta che
impazzisce e si ammala definitivamente.

Paragrafo ventuno, ventidue e ventitré:


Il finale è come se fosse stato già scritto: Lisabetta muore di disperazione e i fratelli decidono di fuggire temendo che questa cosa
si risapesse (cattiva fama, danno economico alle attività) → sotterrano la testa e scappano a Napoli, dopo aver aggiustato le loro
faccende. Lei non smette mai di piangere.
In realtà, il finale è in qualche modo sorprendente, non inutile o trascurabile. Ad un certo punto, la vicenda di Lisabetta viene
conosciuta e qualcuno compone una canzone che l’ha come oggetto: la parola viene data a Lisabetta nella canzone. Quindi,
attraverso la voce della canzone, lei si vendica: ottiene quella giustizia che i fratelli avevano cercato in tutti i modi di evitare.
La tragedia termina certo con il dramma e la morte, ma il narratore/autore alla fine vuol dimostrare che quella forza che aveva
provato a soffocare l’amore, la ragione di mercatura, alla fine ha la peggio e a vincere è la ragione dell’amore: la fama di Lisabetta
prosegue nei secoli.
L’origine della novella è, dunque, proprio questa canzone, che esisteva davvero e si cui l’autore ha fatto pretesto e occasione per il
racconto di Fiammetta. È significativo che è una canzone, una parola pronunciata nel tempo (che supera tempo e spazio) a rendere
giustizia alla forza incoercibile che è l’amore.

Le donne e il destinatario
Questa vicenda ha per protagonista una donna: i personaggi femminili sono centrali nel Decameron, non perché più numerosi, ma
dal pdv letterario sono destinatari privilegiati delle novelle. Lisabetta è una figura che corrisponde esattamente a quel pubblico che
il nostro autore seleziona e ci descrive nel proemio.

➔ Il proemio (pagina B197)


Esso è sede principale per cogliere le chiavi di lettura. Qui, si apprende come Boccaccio avesse immaginato letterariamente un
destinatario ideale per la sua comunicazione. E, in particolare, lui parla e si rivolge a delle “donne vaghe”. Ciò non significa che gli
uomini siano esclusi: non è questione di genere, ma è il fatto che le donne normalmente sono le persone che, soffrendo
maggiormente le difficoltà della vita, più hanno bisogno del conforto della letteratura. Il vero destinatario del Decameron è, quindi,
la persona afflitta dalle angustie della vita, nei confronti della quale l’autore prova compassione, partecipazione e alla quale
umanamente decide di rivolgersi.
In apertura del proemio, Boccaccio scrive infatti “Umana cosa è l’aver compassione agli afflitti”, risultando quasi evangelico. Cioè,
la letteratura nel progetto di Boccaccio serve a dilettare e a educare.
Nel proemio questa tipologia umana degli afflitti viene figurata letterariamente nel tipo della donna che soffre.

Righe 32 e 33: E chi mai potrà obbiettare che questo libro debba essere donato/rivolto più alle donne che agli uomini?
Le donne vaghe sono le donne innamorate.

Righe 34-35 (quanto sono forti queste fiamme, lo sa bene chi le ha provate): Con queste righe, Boccaccio stabilisce sintonia tra lui e
il pubblico: è la riproposizione del grande principio che solo chi prova può capire; rapporto vicinanza tra autore e pubblico.

Righe 35-39: Qui Boccaccio descrive le abitudini delle donne del tempo costrette dai mariti, fratelli a star rinchiuse nelle loro
camere e che quindi hanno più tempo per leggere.
Righe 39: Boccaccio sottolinea come se anche intervenissero angustie/pene negli uomini, essi hanno più modi per svagarsi:
possono cacciare, cavalcare, giocare, … Le donne no. → ma evitiamo contrapposizione di genere che non è il punto a cui vuole
arrivare l’autore.

Righe 49-55: La Fortuna agisce ed interviene contro le donne e gli uomini


Qui troviamo il vero e proprio proemio: il punto dove l’autore presenta il testo; annuncia ciò di cui parlerà. Notiamo la distinzione
della tipologia di racconti: noi le chiamiamo tutte novelle (anche lui lo dice di far così), ma le forme della narrativa breve medievale
si potevano specificar in sottotipi.
- Favole: genere racconto di tradizione francese;
- Parabola: specificazione di tipo allegorico-didascalico;
- Storie: racconti che avevano sfondo storico marcato.
- (Canzonette: ci sono delle canzoni distribuite all’interno del Decameron)
Notiamo la grande competenza di Boccaccio che riduce la molteplice varietà della forma della narrazione antica, tutte forme
esemplificate nel Decameron.

Righe 56-63: Uno dei punti che possiamo definire metaletterario o metapoetico→ chi comunica insiste sulla natura del mezzo,
dello strumento adoperato.
Secondo uno schema già incontrato in Dante, nella letteratura amorosa e cortese precedente, l’aver fatto esperienza di queste
vicende garantisce al poeta quella autorevolezza tale da potersi rendere narratore di questi casi sia per il diletto che per
l’insegnamento del suo pubblico.

Introduzione alla giornata quarta


C’è un altro passaggio molto importante del Decameron: l’introduzione alla giornata quarta.
Qui, il poeta esprime una prima definizione e dichiarazione di poetica del realismo.

La letteratura realista si dice nasca con la modernità: prima, infatti, l’uomo medievale attribuiva sempre simboli alla realtà, di cui
non si accontenta. Il Decameron, però, si situa agli albori della storia della letteratura del realismo e Boccaccio lo dichiara a chiare
lettere in questa introduzione, rispondendo alle critiche di qualche censore. Boccaccio era, infatti, stato accusato di indugiare
troppo con le donne, con gli amori e l’autore risponde ricordando che in realtà le donne, la vita vera, la realtà è la vera poesia. I
censori gli avevano consigliato, per l’appunto, di lasciar da parte le donne e dedicarsi alle muse. Ma Boccaccio risponde a tono,
dicendo che le vere muse sono le donne. Non per fare una dichiarazione di femminismo, ma le donne valgono come la vita vera,
l’attenzione dell’autore sulla donna è equivalente di una forma mentale.
ANDREUCCIO DA PERUGIA (B225)
Genere tragicomico: Si tratta di una novella differente perché è una novella che possiamo considerare di avventura, azione, tutto
movimento, dove gli avvenimenti sorprendenti costituiscono davvero l’ossatura della narrazione. È un testo che racconta le
avventure tragicomiche di Andreuccio: sono comiche perché fanno ridere (esempio comicità: corde più riuscite della narrazione di
B), ma è un comico che poggia sulla tragedia (prima che l’avventura possa concludersi per il meglio, Andreuccio ne passa di tutti i
colori). Queste caratteristiche della novella rimandano a quell’intento di diletto e evasione, che deve accompagnare l’insegnamento

L’argomento: Si tratta della quinta novella della seconda giornata, il cui argomento è:
“Chi da diverse cose infestato, sia, oltre alla sua speranza, riuscito a lieto fine”
Si tratta, quindi, di racconti che vedono i personaggi protagonisti alle prese con i colpi avversi della Fortuna/del Caso, l’uomo che si
confronta con questa forza centrale della vita umana, da cui dipende tutto il resto. Tutte queste storie, però, hanno una lieta
conclusione: i personaggi sono sottoposti alla fortuna avversa ma alla fine riescono vittoriosi contro ogni speranza ed aspettativa.
Grazie a questa contrapposizione, si costruisce l’elemento sorpresa e i colpi di scena, che determinano il comico.

Ambientazione (simbolica, biografica, reale, letteraria): La novella è ambientata a Napoli: si tratta di un luogo molteplice, perché
ci sono continui spostamenti e, quindi, tale luogo offre tutte le sue caratteristiche alla narrazione. Lo spazio è, dunque, protagonista
perché Andreuccio cambia grazie a Napoli: il personaggio all’inizio è diverso da quello alla fine (mentre Lisabetta trovava il suo bello
nella fissità ossessiva). La sua è una storia di formazione che avviene in un luogo e in un tempo (24 ore o meglio in una notte).
Questa novella obbedisce alle regole di unità che gli antichi consideravano fondamentali per la resa artistica.

Sebbene la novella, abbiamo detto, sia ambientata a Napoli, il protagonista viene da Perugia. Questa novella è definita come la più
napoletana del Decameron: a Napoli, luogo della biografia dell’autore, Boccaccio trascorre molto anni determinanti della sua vita in
quanto è qui che porta a maturazione sia il suo percorso professionale (apparteneva ad una famiglia di mercanti) che quello
culturale.

Attraverso la novella, Boccaccio ci dà una fotografia veritiera di questo luogo: esso ha un valore simbolico, ma è anche descritto con
grande precisione realistica. Tanto che c’è stato chi, come Benedetto Croce, è andato alla ricerca di documenti che avvalorassero la
storicità di questa città e che, negli archivi della città, ha trovato degli scritti che confermassero che alcuni dei fatti raccontati sono
realmente accaduti (topografia, funerali vescovo, nome del criminale).

Si tratta, dunque, di una precisione realistica che rinvia ad un’esperienza personale, che l’autore ha vissuto a Napoli e che egli ha
mescolato con la fonte letteraria: la novella racconta dell’imbroglio subito da Andreuccio e architettato da una prostituta che invita
a casa sua Andreuccio. Allora, circolavano come luoghi comuni, consigli di comportamento, detti che recitavano ad esempio: “Non
andare mai a casa di niuna femmina mondana, né d’altra simile di notte, perch’ella mandi per te; che molte beffe se ne sono già
vedute e specialmente in terre marine e forestiere”. Questi erano contenuti, per esempio, nel “Libro dei Buoni Costumi” di Paolo da
Certaldo, contemporaneo conoscente di Boccaccio (compra un terreno da lui), al quale l’autore probabilmente attinge: il libro
contiene moniti comportamentali e tra i vari consigli vi è questo che indica di non andare mai a casa di una prostituta di notte se lei
ti viene a chiamare perché già molte beffe sono avvenute. Questo monito si presenta e appare come il seme di invenzione da cui
forse scaturisce questa novella.

→ È una novella d’invenzione ma contiene una materia di carattere storico e di realismo molto forte (i fatti raccontati erano cose
che capitavano a Napoli, e di cui Boccaccio aveva fatto forse esperienza diretta), che trattano di eventi talmente comuni da essere
passati anche nella letteratura.

NB: Che cos’è una sequenza narrativa?


Sequenza: unità di suddivisione della novella, caratterizzata dalla coerenza di un motivo narrativo. In alcuni casi, questa divisione in
sequenze è chiara (come nel caso di Andreuccio dove essa è addirittura decisiva per l’interpretazione del testo: 3 sequenze in
corrispondenza di tre cadute e tre risalite → numero simbolico) e altri casi in cui la sequenza è unica (es: Lisabetta).

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Introduzione: Andreuccio da Perugia, venuto a Napoli a comperar cavalli, in una notte da tre gravi accidenti soprappreso, da tutti
scampato, con un rubino si torna a casa sua.

Si tratta, più correttamente, della rubrica, quell’elemento della cornice che ci presenta l’argomento. Essa è molto sintetica ma
contiene già la storia di Andreuccio.
È fondamentale ricordare, come fa qui il narratore/autore, che alla fine Andreuccio non muore, scampa dalla morte sicura per tre
volte, e addirittura alla fine ci guadagna: il valore del rubino che si porta a casa è superiore al valore dei fiorini che gli vengono
rubati durante il primo incidente. Il nostro autore è come se rappresentasse sotto forma di avventura quella che è la legge
fondamentale della mercatura: alla fine, c’è sempre un tornaconto, ci deve essere un guadagno, non si può finire in pari altrimenti
non si va avanti. In questo caso, Andreuccio guadagna, alla fine, in esperienza, da ingenuo si ritrova più scaltro e smaliziato,
crescita in termini umani ed esperienziali, e questa crescita interiore viene realizzata e rappresentata nelle dinamiche della
mercatura. È come se Boccaccio strizzasse un po’ l’occhiolino alla ragione che muove il ceto mercantile, la quale filosofia non è
totalmente negativa (al contrario, nella novella di Lisabetta, Boccaccio aveva presentato una forte polemica contro la ragione di
mercatura). Qui, Boccaccio ci vuole presentare come alcune di quelle che lui considera le qualità fondamentali dell’uomo (ingegno,
intelligenza, rapidità, prontezza), doti naturali indispensabili per l’uomo, sono caratterizzanti del mondo mercantile, che infatti le
promuove.
Al di là del taglio sociologico, quello che ci importa è vedere come il nostro autore abbia a cuore la rappresentazione dell’intera
commedia umana, l’uomo in tutte le sue sfaccettature; non c’è mai un giudizio morale forte ed autoritario da parte dell’autore, che
lascia ai lettori l’arbitrio e la possibilità di giudicare, e lo fa spesso spiazzandoci, presentandoci prima tutto bianco e poi tutto nero
(es: ideologia borghese e mercantile, prima fortemente criticata e poi elogiata).

Incipit:
“Le pietre da Landolfo trovate — cominciò la Fiammetta, alla quale del novellare la volta toccava — m’hanno alla
memoria tornata una novella non guari meno di pericoli in sé contenente che la narrata dalla Lauretta, ma in tanto
differente da essa, in quanto quegli forse in piú anni e questi nello spazio d’una sola notte addivennero, come udirete.”

- Stesso schema della novella di Lisabetta: La narratrice di turno si aggancia ad un elemento della novella precedente.
Le due novelle, entrambi narranti di pericoli, si differenziano per il tempo. Notiamo come Boccaccio affidi a
Fiammetta la narrazione della novella più napoletana: Fiammetta è, infatti, il nome della donna amata da Boccaccio
negli anni napoletani.

Paragrafo A:
Andreuccio, ingenuo e inesperto (vergine: è la sia prima volta che fa esperienza di uscire di casa da solo per far mercato di cavalli) si
mette a fare mercato di cavali, senza decidersi di comprare nulla, e lo fa in maniera sprovveduta e incauta: mostra la sua borsa
piena di fiorini →Era rozzo e poco cauto e più volte in mezzo alla gente trae fuori questa borsa.
Presentazione personaggio-protagonista: no ritratto fisico/fattezze fisiche di Andreuccio, ma ritratto dinamico cioè il narratore
costruisce tale ritratto raccontando i gesti, i movimenti, le azioni e i comportamenti del personaggio. C’è, inoltre, qualche
espressione di giudizio (rozzo e poco cauto); ma i lettori hanno chiara idea del personaggio soprattutto a partire dai gesti.

Paragrafo B:
Andreuccio viene accostato da questa bellissima donna siciliana di nome Fiordaliso che di mestiere fa la prostituta (anche di basso
rango→ piccol prezzo). Lei nota subito la borsa di fiorini del ragazzo (è scaltra e furba: mette gli occhi sul denaro), mentre
Andreuccio, inizialmente, non si accorge di lei, che rimane nascosta. Quindi, Fiordaliso escogita uno stratagemma/piano per
ingannare e derubare Andreuccio e nota che, subito dopo aver visto il ragazzo, egli si ferma a parlare con un’altra donna più
anziana, da Fiordaliso conosciuta. Perciò, Fiordaliso si fa dare informazioni su Andreuccio da questa donna, per preparare l’inganno.
Poi, ognuno torna per la sua strada. Fiordaliso, dopo essersi informata su A e sulla sua famiglia, decide di mettere in azione il suo
piano e manda una sua fanticella, ragazzina presso di sé, all’albergo dove A dimorava per farlo chiamare (Andreuccio sta
infrangendo il monito di Paolo da Certaldo).

In questo momento, si sta costruendo la beffa: essa è un argomento/modo usato frequentemente nelle novelle decameroniane. Si
tratta dello scherzo che nutre addirittura un genere letterario: le novelle di beffa, già esistenti, canonizzate dal Decameron per poi
continuare nella tradizione, localizzata geograficamente a Firenze in Toscana.

Paragrafo C:
Andreuccio nel momento in cui la fanticella lo invita, dicendo che c’è una gentil donna di questa terra che gli parlerebbe volentieri,
lui si inorgoglisce dell’invito imprevisto: si crede un bellissimo ragazzo e pensa che questa donna si sia innamorato di lui.

Focalizzazione su Andreuccio, che parla attraverso le parole di Fiammetta e attraverso questo pdv stretto si produce un effetto di
comicità: vengono espresse delle battute ingenue del giovane.

Paragrafo D:
Malpertugio: quartiere malfamato di Napoli, realmente esistente→ ironia autore (nota su Benedetto Croce)
Andreuccio non si accorge di essere in un luogo malfamato, in quanto è inesperto del luogo.

Qui, il pdv è di Andreuccio che vede dal basso Fiordaliso, tutta bella e addobbata, che in cima alle scale lo accoglie.

Di Fiordaliso ci viene data una descrizione fisica, specifica e funzionale alla costruzione del personaggio: ancora giovane
(nonostante la professione), di forme procaci e viso bellissimo, ornata dignitosamente. Specifichiamo che il pdv è sempre quello di
A, dal basso verso l’alto, che la vede bellissima perché in mente si è figurato una gentildonna innamorata di lui.

Quando Andreuccio le è vicino, lei si butta tra le sue braccia, finge di essere commossa e, piangendo, gli bacia la fronte. La reazione
di Andreuccio è sorprendente, ma anche prevedibile rispetto alla sua presentazione: lui si meraviglia e risponde a tono, come già
caduto nel tranello.
Paragrafo E:
Ancora sorridiamo per effetto della focalizzazione di A: la camera (profumo) della prostituta è resa più bella da questo pdv.
Secondo il costume di là (punto più forte dell’effetto comico): dal pdv di Andreuccio il costume di là è l’usanza delle belle e nobili
donne napoletane; ma il pdv del lettore, colui che sa, contrasta e intuisce che il passaggio si riferisce al costume delle prostitute →
l’autore ci mette in rilievo che questa non è la realtà.

Grand donna: significa donna nobile; espressione che potrebbe però anche alludere alla professione → l’epiteto usato dal
narratore per descrivere F tiene dentro di sé entrambi i pdv

Paragrafo F:
Inizia il discorso di Fiordaliso: già solo le prime righe rendono l’idea della grande abilità della donna nel gestire le parole. Ella è una
grande attrice e commediante, che corrisponde al tipo dell’attrice. Sapientemente, riesce ad abbindolare Andreuccio con le parole:
inizia un lungo discorso attraverso il quale vuole convincerlo di essere sua sorella. Fiordaliso sostiene che colui che
presumibilmente era il padre di entrambi, prima di aver generato Andreuccio, aveva avuto una storia con la madre di Fiordaliso; e
che lei era stata cresciuta solo con la madre perché il padre era dovuto andare via per gli affari (poi aggiunge notizie sul suo falso
matrimonio con un nobiluomo). Questo discorso è talmente prolisso e complesso che fa confondere Andreuccio: è quello
l’obiettivo finale di Fiordaliso. L’orazione si moltiplica nei suoi elementi accessori e si conclude con la gioia e il compiacimento di
aver ritrovato un fratello che lei sapeva esistere e che avrebbe desiderato conoscere prima di morire.
Fiordaliso cerca, così, di smuovere i sentimenti ingenui di A (sebbene lui sia deluso perché si aspettava altro dalla serata).

Paragrafo G:
La novella avviene in un momento preciso dell’anno, ad ottobre: lo si viene a sapere perché poi vengono nominati i funerali
dell’arcivescovo, figura realmente esistita. Boccaccio rispetta, quindi, il realismo/veridicità facendo riferimento a questo caldo.

Lei fa bere Andreuccio, che vorrebbe andarsene via per cena. Ma lei fa leva sulla sua compassione e alla fine lo convincerà anche a
rimanere per la notte (astuzia: puoi far venire anche i tuoi compagni, ma F sa che Andreuccio non lo farà perché spera ancora in
qualcos’altro).
Ammiccamenti di Fiammetta (piacer suo: facesse di lui quello che a lei piaceva) che spinge la narrazione verso un’interpretazione
maliziosa: Andreuccio spera ancora di ricavare qualcosa da lei nonostante sia sua sorella e Fiordaliso se ne approfitta con astuzia.

Ironia marcata 133: Fiordaliso, per trattenerlo con lei, lo ammonisce dicendogli che Napoli non è una città in cui andare in giro di
notte e soprattutto se si è un forestiero (Andreuccio già lo sta facendo). Il lettore, davanti a questo passaggio, non può che
sorridere e domandarsi da chi proviene l’ironia, chi è il regista di questa battuta.

Paragrafo H:
Riga 140: punto + alto della beffa e passo culminante della prima caduta

C’è la descrizione dettagliata dei gesti di Andreuccio, tanto che il lettore arriva a figurarselo. Sembra una commedia quella a cui
assistiamo: la scenografia, i costumi fanno parte della rappresentazione e servono a realizzare il comico.

Andreuccio deve andare in bagno: entra nell’uscio che gli viene mostrato e mette il piede su un’asse staccata da una parte, essa,
quindi, si capovolge e Andreuccio cade giù. Per FORTUNA (riga 148: riferimento alla benevolenza divina), egli non si fece male nella
caduta ma si imbratta tutto: cade nella fogna.
Di tanto l’amò Iddio: da tener conto, autore sottolinea come il personaggio si scontri con il caso, con la fortuna, con dio (non
importante da specificare) e alla fine ne esca vincitore. Dunque, questa incidentale/ passaggio deve attivare l’interpretazione → è il
caso che ha voluto che Andreuccio non si facesse nulla oppure no? Questa casualità è tale o funzionale all’esito finale?

La narratrice indugia raccontando questa caduta nello sporco.

Insiste sulla caduta e sulla sua descrizione perché entriamo nell’interpretazione della prima caduta. È stata fatta una lettura
simbolica in progressione dei tre luoghi in cui Andreuccio cade: ora nella materia più bassa, lo sporco più sporco, siamo nel basso
materiale. La seconda caduta avverrà nell’acqua di un pozzo, un luogo poco più alto; mentre l’ultima caduta sarà in un sarcofago,
nel luogo delle anime, dell’immaterialità, che occupa una posizione superiore alle due precedenti. Questa gradazione/scala è
funzionale/corrispondente alla crescita di A, che progredisce dall’ingenuità all’esperienza.

Prontezza di ingegno, qualità positiva, enfatizzata in A che, grazie ai colpi della fortuna, passa dall’essere ingenuo a scaltro → da
questo punto vediamo elementi e indizi della sua crescita di consapevolezza

Riga 164: Abbiamo già un’inversione del modo di descrivere Andreuccio: solo poco prima il narratore lo aveva caratterizzato
negativamente con l’avverbio mattamente (stoltamente), ora già si riconosce un ingegno superiore

Righe 166-167 = Battuta ambigua: non comprendiamo se sia una battuta ironica, e quindi lui ha capito l’inganno di Fiordaliso che
non è realmente sua sorella, o se, invece, Andreuccio l’ha compreso solo a metà e crede ancora che Fiordaliso sia sua sorella.
Questa è tenuta volutamente ambigua per indicare questo cammino di Andreuccio.
Paragrafo I:
A fa molto rumore e sveglia i vicini→ possiamo capire il tipo di gente che viveva in quel luogo. Questi, mossi da pietà e spazientiti,
ammoniscono Andreuccio (abituati a queste scene), invitandolo ad allontanarsi.
Egli, però, converte la sua rabbia in ira (passaggio comico: si gonfia d’ira in modo esagerato). Ad un certo punto, tuttavia, i vicini
scompaiono perché arriva un’altra figura che impreca contro Andreuccio. Questi era uno dentro la casa e che si affaccia dalla
dimora di Fiordaliso: il protettore di Fiordaliso.
[Notiamo la prossemica, gestualità minuziosamente descritta: siamo di fronte ad una rappresentazione scenica, comica della scena]

Gran Bacalare: parola curiosa la cui etimologia rinvia al baccelliere, cioè il laureato, persona molto dotta. Qui, usato in maniera
ironica con il significato di sapientone, pezzo grosso, chi comandava, una persona autorevole e importante. Quest’uomo fa paura e
inizia a minacciare Andreuccio di ucciderlo.
In contrapposizione con le minacce di quest’uomo c’è la voce del vicinato. I vicini costituiscono, dunque, la voce della saggezza e
verità: gli consigliano di andarsene se non vuole essere ucciso. Come se ci fosse un coro che commenta e dice la verità: lui ha perso
i denari ma sta rischiando anche di perdere la vita (casi estremi di personaggi sfortunati ripresi da questa novella).
Sul personaggio… Benedetto Croce trova nei documenti e negli archivi dei tribunali della Napoli dell’epoca indicazioni su questa
figura losca: lo Scarabone Buttafuoco era un criminale segnalato negli atti giuridici (un atto del 1336) della Napoli dell’epoca; un
ladro, scroccone (figura storica). Boccaccio ne aveva probabilmente sentito parlare o nominare (forse anche conosciuto), tanto da
farlo diventare personaggio della novella.

Paragrafo J:
Andreuccio, ormai si rassegna, e decide di dover tornare al suo albergo. Si incammina ma si rende conto di essere impresentabile e
si indirizza verso il mare per andare a lavarsi. Si incammina per la via chiamata Ruga Catalana, ancora esistente.

Per ventura: l’autore sottolinea sempre gli elementi del caso


Ci sono due che camminano verso la sua direzione con una lanterna in mano
Su questo dettaglio, è stato detto che si possono notare i connotati di una narrazione urbana: le luci della città (che si vedono prima
delle persone, illuminandole in maniera sinistra) partecipano in contrapposizione con la notte buia.

Andreuccio decide di scappare perché teme che questi siano due guardie al servizio della corte (è convinto di aver fatto qualcosa di
sbagliato), che hanno la fama di mala gente e che è meglio non incontrarli di notte; oppure altri uomini poco onesti → meno
ingenuo di poche ore prima. Ma costoro entrano nello stesso casolare dove Andreuccio si rifugia.

Andreuccio si nasconde e osserva i movimenti (la focalizzazione adottata è la sua), sente i rumori di questi altri due che
raggiungono questo luogo senza sapere che lui è nascosto là.
Questi sono due ladri che si accingono a compiere un furto nella tomba dell’arcivescovo, che era stato sepolto in giornata, per
prendere quegli oggetti preziosi che il morto aveva addosso (gli strumenti che hanno servono per scardinare il sepolcro e compiere
il misfatto).

Andreuccio è definito Cattivel: disgraziato, sfortunato → concessione simpatica nei confronti del personaggio. Andreuccio tace ma i
due gli chiedono cosa facesse là sudicio.
Notiamo l’astuzia dei ladri che vogliono approfittarsi di Andreuccio, comprendendone l’ingenuità a seguito del racconto della sua
disgrazia.
Dissero fra di sé: prima confabulano → il narratore specifica che prima pensano tra loro e poi si rivolgono a lui. Il discorso diretto
serve a distinguere quella che è la facciata che vuole essere presentata da Andreuccio, sotto la quale c’è una cattiva intenzione.

Buon uomo: captatio benevolentiae.


Gli dicono che gli è andata bene: se fosse rimasto in casa, avrebbe perso la vita: questa è un’esagerazione da parte del narratore
che insiste sul destino di Andreuccio; che va bene o male? Il lettore è cioè sollecitato a riflettere sulla reale interpretazione che
occorre dare di queste fortune e sfortune (sembrava una disgrazia essere caduto ed invece non lo è stata; anche il semplice fatto di
aver incontrato Fiordaliso gli frutterà un bel guadagno). [ancora dubbio su chi sia veramente il narratore: Fiammetta, Boccaccio, …]

Malignità del ladro che finge di compatirlo, ma implicitamente lo minaccia: se dici questo in giro, verrai ucciso. I ladri cercano, cioè.
un sistema per legare Andreuccio minacciandolo, costringendolo ad accompagnarli per commettere il furto (promettendogli
falsamente una ricompensa) e poi abbandonarlo. Lo minacciano di non dire nulla perché se no Buttafuoco si sarebbe arrabbiato ma
già implicitamente sottolineano che anche loro lo faranno fuori se dirà qualcosa. È un misto tra amicizia falsa e di convenienza, e
minaccia.

Andreuccio accetta di accompagnarli a compiere un furto: errore/ scelta sbagliata, colpevole di aver sbagliato consapevolmente.
Prima, però, si deve lavare: si recano vicino ad un pozzo dove Andreuccio viene calato per lavarsi. Ma alcune guardie di corte si
avvicinano al pozzo in cerca di acqua, forse per la sete o forse per il caldo: i due ladri fuggono senza farsi vedere, mentre le guardie
tirano su Andreuccio pensando fosse un secchio di acqua. Le due guardie (A non le vede), dunque, si spaventano e lasciano la fune,
dalla quale A, per fortuna, si era staccato: si salva un’altra volta grazie ad una maggior scaltrezza (si tiene ai bordi del pozzo) e
prosegue il suo cammino senza meta.
Per la seconda volta, Andreuccio scampa la morte: un po’ per la sua scaltrezza (si aggrappa), un po’ per un colpo di fortuna
(intervento guardie che evitano lo sfruttamento di Andreuccio da parte dei ladri).

Paragrafo K → LA TERZA CADUTA:


Abbiamo già detto che la novella si basa su una simbologia che verte intorno al numero tre, ma l’autore ci invita ad una lettura più
ampia dell’interpretazione simbolica, collegandosi, su un piano antropologico, ai riti di iniziazione: il pozzo, per esempio, rinvia al
valore sacrale dell’acqua e al rito battesimale. Ed è in questa chiave che deve esser letta anche la terza caduta: essa si svolge in una
dimensione soprannaturale, nel luogo dell’anima, a contatto con la morte e gli spiriti, richiamando il valore antico e antropologico
della narrazione ripercorrendo le tappe di un rito di iniziazione che devono avvenire attraverso il superamento di una serie di prove
pericolose e dolorose, che mettono a rischio anche la vita.

Dopo l’abbandono dei ladri e la fuga delle guardie, il nostro personaggio sembra essere tornato indietro, si ritrova al punto di
partenza: è solo nel buio della notte a Napoli. Ma, in realtà, egli ha compiuto una crescita/maturazione. Si tratta, quindi di un
apparente passo indietro che contempla anche una crescita.
A questo punto, A incontra di nuovo quei suoi due compagni del pozzo: la sorte lo conduce da loro, che stavano tornando indietro
per liberarlo dal pozzo. Una volta ritrovato, riprendono il loro piano e spiegano quello che era successo loro. Questi ladri rivelano,
per una seconda volta, ad Andreuccio, la verità secondo lo schema già seguito per la presentazione di Buttafuoco.
Vanno verso la chiesa maggiore e raggiungono l’arca: con un ferro sollevano il coperchio, facendo leva. Poi, discutono su chi
dovesse entrare per primo: non c’è più bisogno di mentire e minacciano Andreuccio di ucciderlo se lui non entra dentro. Tale
minaccia (noi ti farem cadere morto) corrisponde a quello che poi quasi capita ad Andreuccio: il narratore/autore strizza
l’occhiolino al lettore e anticipa ciò che succederà nel racconto.
Andreuccio, quasi immediatamente, intuisce e prevede, sulla base del ragionamento, quello che i ladri faranno: lo abbandoneranno
nell’arca. Notiamo la sua crescita e la sua rinnovata capacità di riflettere. In seguito a questo pensiero, perciò, Andreuccio decide di
trattenere preventivamente la sua parte del bottino. Egli si ricorda che i ladri avevano fatto riferimento ad un anello prezioso e,
dunque, non appena scende giù nella tomba, lo prende dal dito dell’arcivescovo e se lo infila. Poi, consegna tutto il resto ai ladri e
dice che non c’è più niente. I ladri, che agiscono maliziosamente (= non in buona fede), abbandonano Andreuccio dentro la tomba
mentre “cerca” questo anello. Lo stato d’animo di Andreuccio è, di nuovo, pieno di paura; egli prova a liberarsi ma non riesce a farci
nulla.
Notiamo il rilievo della narrazione nella rappresentazione della disperazione di Andreuccio: prima A cerca più volte di alzare il
coperchio e poi si lascia stremato, sviene sul corpo dell’arcivescovo: tanto che chi li avesse visti, non sarebbe riuscito a distinguere il
vivo dal morto. Tale battuta, apparentemente comica, serve per far leva sulla terza caduta di Andreuccio: egli si mescola e tocca la
morte con mano, è come morto; dal pdv fisico abbiamo, quindi, una congiunzione con il corpo dell’arcivescovo. Con ironia e
divertimento, il narratore gioca con il lettore.
Andreuccio torna in sé dopo esser entrato in contatto con la morte e inizia a piangere perché si rende conto di avere solo due
possibilità:
- Morire lì insieme a quel corpo già morto;
- Venir impiccato come ladro, essendo sorpreso a rubare dentro il sarcofago.
L’esito in entrambi i casi è la morte.

Tuttavia, arrivano delle persone: sono un’altra compagnia di ladri che era venuta a fare la stessa cosa di Andreuccio e i suoi
compagni. La paura ricomincia.
Qui, già parliamo della risalita di Andreuccio: il caso fornisce l’occasione ad Andreuccio di salvarsi e lui, da parte sua, deve solo
saper usare l’astuzia, ora maturata.
La compagnia di ladri apre il sarcofago e deve decidere chi entrerà per derubare il cadavere. Insieme a questa seconda banda di
ladri c’è pure un prete: Boccaccio si pronuncia contro il clero e la spavalderia di quest’uomo di chiesa davanti alla morte.
Il prete si cala nel sarcofago: nella resa lenta dei movimenti, emerge il realismo di Boccaccio. Minutamente e lentamente, come in
una commedia, c’è una descrizione dei gesti, fatta così per apprezzare il comico.
Andreuccio prontamente coglie al volo l’occasione e sfrutta il momento per spaventare il prete, facendo scappare tutti gli altri. E,
infatti, l’intera compagnia di ladri, terrorizzati dal presunto fantasma dell’arcivescovo, scappano e lasciano il sepolcro aperto.
Andreuccio, qui, fa le veci sì di un fantasma ma anche di mille diavoli. Questo percorso di evoluzione del personaggio si spinge fino
al meraviglioso, al soprannaturale: il caso gli presta le occasioni che lui deve saper sfruttare con astuzia ed intelligenza.
Finalmente, Andreuccio esce dalla chiesa il più veloce possibile, mentre il sole sta per sorgere: l’avventura straordinaria di
Andreuccio era cominciata all’inizio della sera e termina sul far dell’alba.
Ventura: significa andando a caso, prontamente impiegato da Boccaccio per indicare anche la forza con cui A si era dovuto
confrontare durante il corso di tutta la novella: il fato, il destino.
L’albergatore e i suoi compagni erano rimasti preoccupati tutta la notte per i suoi fatti. Andreuccio gli racconta quello che era
avvenuto e allora essi gli consigliano di lasciare Napoli. Egli, quindi, ritorna a Perugia con un anello, invece dei cavalli o i soldi.

In questa novella c’è il ritorno fisico al punto di partenza, ma il personaggio ritorna maturato e con un’aggiunta ai suoi conti, un
interesse maturato. L’ideologia mercantile viene trasferita nella novella: Andreuccio ha compiuto la sua metamorfosi e si è
trasformato in un uomo adulto e in un buon mercante.
SER CIAPPELLETTO o SER CEPPARELLO DE PRATO (B 214)
Questa novella va in coppia con l’ultima del Decameron dal pdv della struttura (Griselda → personaggio che rappresenta una
santità talmente esagerata da sembrare fuori luogo = ci spostiamo da un vertice all’altro). Si tratta della prima novella dell’opera,
fondamentale in quanto ha un valore proemiale, di programma e manifesto. Essa resta memorabile per la centralità del suo
protagonista: Cepparello che cappeggia e occupa interamente il testo; di lui, ci viene fornito anche un ritratto minuzioso = fatto
insolito nel Decameron. È un esempio della tipologia della novella di beffa: si racconta, infatti, di uno scherzo terribile organizzato
da Ser Ciappelletto ai danni di un prete che lo confessa e di tutti coloro che crederanno senza alcun dubbio alle parole riportate dal
prete. Queste persone gli crederanno tanto da far diventare il protagonista un santo, quando lui è, in realtà, il peggior dei peccatori.
È una novella che dal pdv strutturale ci presenta, quindi, un rovesciamento (meccanismo antifrastico e antitetico), talmente
radicale da suonar sospetto: il peggior dei peccatori diventerà il miglior dei santi. Tale narrazione mette quindi in atto le figure di
pensiero, quei meccanismi di messa in sintonia, dal pdv logico e razionale, tra lettore e autore, necessari per gustare il testo e per
incuriosire/sorprendere il destinatario. Non è, dunque, una novella semplice nella decifrazione (per i vari livelli di lettura che ci
sono: l’effetto comico si metto in atto spontaneamente, ma siccome noi dobbiamo spiegare e sciogliere i meccanismi che lo
presiedono, facciamo più fatica).

Preambolo:
Ser Cepparello con una falsa confessione inganna un santo frate, e muorsi; ed essendo stato un pessimo uomo in vita, è,
morto, reputato per santo e chiamato san Ciappelletto.

Nella sua semplicità/sinteticità, la rubrica esaurisce quel rovesciamento che è al centro della novella.
Essendo stato: gerundio ambiguo nel suo valore grammaticale perché tiene con sé, ironicamente, una sfumatura causale, oltre a
quella temporale/circostanziale propria del tempo verbale. La forma della frase, tipica di Boccaccio che privilegia queste forme
implicite, partecipa a mantenere quell’ambiguità e incertezza di significato che perderemmo con una forma esplicita.

Convenevole cosa è, carissime donne, che ciascuna cosa la quale l’uomo fa, dall’ammirabile e santo nome di Colui il quale
di tutte fu facitore le déa principio; per che, dovendo io al nostro novellare, sí come primo, dare cominciamento, intendo
da una delle sue maravigliose cose incominciare, acciò che, quella udita, la nostra speranza in lui si come in cosa
impermutabile si fermi, e sempre sia da noi il suo nome lodato.

Panfilo, narratore di turno, invoca Dio, lo omaggia con una preghiera devota (siamo all’inizio del Decameron e l’inizio non può che
esser in questa direzione “religiosa”): l’incipit dell’opera è riportato a Dio. Ogni cosa che l’uomo fa deve esser riportata a Dio, in
quanto creatore di tutto: frase antifrastica e provocatoria. La responsabilità di tutto è da riportare a Dio: tutto è spiegato alla luce
della provvidenza.
Quindi, Panfilo inizia la narrazione delle giornate raccontando una delle cose meravigliose fatte da Dio. Questo è il sugo del
racconto che ci viene narrato: una cosa meravigliosa fatta da Dio. Prima ci viene detto di un grande inganno, ora di una cosa
meravigliosa fatta da Dio: ci accorgiamo che l’orientamento è già difficile.
Il narratore vuole mantenere in sospeso il giudizio dell’uomo: come possiamo sapere se in punto di morte Ser Ciappelletto non si
sia pentito, che le sue dichiarazioni fossero vere. L’uomo non può entrare nella coscienza dell’uomo, luogo che è di pertinenza di
Dio, dove egli compie cose meravigliose (Manfredi); e non può, quindi, conoscere il destino delle anime di altri uomini. Ciò che
succede nel mondo si può e si deve sottoporre al giudizio umano (a un primo livello di lettura sorridiamo davanti a questo inganno),
ma ciò che è di pertinenza di Dio deve restare tale. Questa novella ci presenta, cioè, il massimo del peccato come, forse, il massimo
della santità.

Il preambolo occupa diverse righe. Questo è il riassunto di quello che dice Panfilo, assumendosi la responsabilità di carattere
meditativo, filosofico e di pensiero, abbastanza sorprendente: egli dimostra di sapere cose e verità che non ci aspetteremmo da
questi giovani. Ciò ci dà indizio del fatto che il narratore sia Panfilo, ma che dietro di lui ci sia una figura, più matura, che
corrisponde all’autore o ad altri.

[La vita nel mondo procura noia, angoscia e fatica (il Decameron non tratta di vite felici e non realistiche: Boccaccio si
rende conto che la vita è difficile, dolorosa), tanto che se non avessimo l’aiuto della grazia di Dio non potremmo resistere.
Questa grazia non ci viene concessa tanto per i meriti nostri quanto dalla generosa bontà divina (non da misurare solo in
funzione dei meriti dell’uomo), mossa dall’intercessione dei santi (che pregano per noi vivi e ci aiutano a ricevere questa
grazia), cioè di quegli uomini che ora siedono in Paradiso. Ancora maggiore è la sua bontà (non solo è gratuita e viene
accesa dalla preghiera dei santi) se consideriamo ciò che talvolta capita, ossia che essa ci ascolta anche se noi (che non
possiamo conoscere la mente divina che è imperscrutabile) preghiamo coloro che immaginiamo in Paradiso (secondo la
nostra percezione, per come li abbiamo visti vivere), e invece si trovano all’inferno].

[Direttamente dal preambolo] Dio infatti ‘al quale niuna (nessuna) cosa è occulta (a differenza dell’uomo che può
largamente sbagliare) più alla purità del pregatore riguardando (considerando) che alla sua ignoranza (sappia o non
sappia la verità: non importa se la conosciamo, è importante la nostra purezza) o allo essilio del pregato, così come se
quegli fosse nel suo cospetto beato, essa udisce coloro ch’l pregano.
La bontà divina è tale che esaudisce colui che lo prega: essa si relaziona all’intenzione pura, buona e sincera di chi prega e non tanto
in funzione di chi viene pregato, santo o peccatore.

Il che (quanto detto finora) manifestamente potrà apparire nella novella la quale di raccontare intendo: manifestamente,
dico, non il giudicio di Dio ma quel degli uomini seguitando (andando a raccontarvelo).

Ci viene indicato lo scopo della novella, la sua intenzione, la chiave di lettura. L’oggetto/tema della novella non sarà se Ser
Cepparello è all’inferno o al Paradiso, e, quindi, il giudizio di Dio che è imperscrutabile, ma il giudizio degli uomini.
Boccaccio ci racconterà, cioè, la superficie delle cose e il giudizio che gli uomini hanno dato circa le cose accadute e le opinioni
suscitate dal fatto (parliamo di un livello superficiale, esteriore: quello all’interno del quale gli uomini si possono muovere).
Panfilo ci sta dicendo, però, che la riflessione intorno a questi avvenimenti/opinioni ci indica che sotto c’è ben altro, il vero giudizio
divino all’interno del quale noi non possiamo entrare. Questo seme mette in luce il processo antifrastico che si svolge all’interno del
racconto: attraverso le tecniche narrative, il lettore intuisce che, al di sotto del primo livello dei fatti e delle opinioni degli uomini,
c’è un’altra dimensione, quella della grazia, nel quale l’uomo con le sue forze non potrà mai andare (tutto da considerare alla luce
dei meccanismi, delle tecniche della scrittura letteraria, delle figure retoriche usate nel testo). Il racconto ci permette di acquisire
un tassello conoscitivo che altrimenti non avremmo.

L’antefatto:
La novella, all’inizio, ci racconta l’antefatto: siamo in Francia, nell’epoca contemporanea a Boccaccio, e siamo ancora in quel mondo
dei mercanti e dei notai. Si racconta di questo Musciatto Francesi, personaggio storico veramente esistito, mercante ed usuraio
originario di Firenze, talmente ricco e potente da esser diventato consigliere del re di Francia. Egli deve rientrare in Toscana per
alcuni affari (accompagnare il fratello del re di Francia) e decide di organizzare i suoi mestieri/ faccende, distribuendo i suoi
incarichi. Il problema maggiore, il lavoro più ostico, era la riscossione dei crediti ai borgognoni, gli abitanti della Borgogna,
notoriamente uomini malvagi e sleali. Ecco che egli deve scegliere il suo collaboratore migliore: un uomo tanto malvagio da poter
riscuotere e riuscire ad avere la meglio su questi uomini, i più malvagi di Francia. Gli viene alla memoria Ser Cepperello da Prato,
suo aiutante, che risiedeva nella sua casa a Parigi.

La descrizione fisica:
Di Ser Cepparello, abbiamo una descrizione fisica, a differenza dagli altri personaggi che abbiamo incontrato finora. Sottolineiamo
la brevità della sua descrizione fisica, che corrisponde per vicinanza al suo essere basso e piccolo.

Il narratore ci dice che Ciappelletto era piccolo e assettatuzzo: vuol dire sia un po’ tarchiato; sia tutto ben inghirlandato,
agghindato, abbellito (assetto conserva questo significato). Questo aggettivo, con questo diminutivo, era tipico del linguaggio
burlesco: è un’uscita comica. Più avanti avremo altri termini declinati in questo modo (-etto e varianti).

C’è una certa insistenza sulla dinamica del piccolo e ghirlandato, come anche sul nome: il personaggio si chiama Cepparello, che era
un nome esistente e diffuso all’epoca, diminutivo di Ciappo (= Jacopo in dialetto toscano). I francesi, che non sapevano cosa volesse
dire, pensavano volesse dire cappello o ghirlanda (come quel copricapo agghindato che il ser metteva in testa), gli danno un
nomignolo e lo chiamano Ciappelletto.

Tale descrizione ci rende l’immagine plastica del personaggio e attiva quel meccanismo dell’antitesi: la bassezza e la piccolezza
della sua statura corrisponde per contrasto alla grandezza della sua immoralità; egli è grande nel male.

Ritratto morale:
Dopo la descrizione fisica, segue il ritratto morale e psicologico (anomalo e moderno). Si tratta di un passaggio lungo: la lunghezza
di questa sequenza corrisponde alla grandezza dell’immoralità.

1. Egli di mestiere fa il notaio:


a. Ma essendo notaio (gerundio ambiguo), provava vergogna quando uno dei suoi atti notarili/strumenti fosse
riconosciuto vero: Ser Ciappelletto prestava il suo lavoro per fare atti falsi e, addirittura, si vergognava quando
doveva farne di veri. Ci viene detto immediatamente che lui è un falsario, che è falso, e che, di questi, ne
avrebbe fatti tantissimi e anche gratuiti.
b. Era anche bugiardo: diceva bugie sia quando gliene facevano domanda, a richiesta, sia quando non glielo
richiedevano, quando non era necessario. In Francia, a quei tempi, si dava grande importanza ai giuramenti: lui,
tuttavia, non si curava di giurare il falso e, facendo questo, vinceva, da notaio, tutte le questioni. Indugiava e si
crogiolava ben volentieri nella falsità.

2. Dopo il mestiere, si racconta la vita privata:


a. Desiderava e di impegnava a fondo per commettere mali, inimicizie e scandali tra amici e parenti.
b. Non solo era maligno ma anche cinico: provava allegrezza nel veder soffrire amici e parenti.
c. Accettava tutti gli inviti a partecipare a qualsiasi malefatta che richiedesse violenza: è violento e assassino.
[Queste sottolineature (sul testo/slide) servono a mettere in rilievo quei passaggi della descrizione che ci portano a
mettere in atto l’interpretazione antifrastica: il ritratto sembra positivo e appare costruito per encomiare il personaggio,
ma i lettori sorridono perché intuiscono che la faccia del testo corrisponde al contrario di ciò che è giusto e lodevole. Serve
una lettura alla rovescia; è un linguaggio stravolto che spinge fino in fondo, colorando il negativo come fosse positivo.]

d. Bestemmiatore, iracondo: vengono elencati tutti i vizi capitali.


Descrizione della
e. Sacrilego, vizioso e dissoluto.
natura viziosa di
f. Frequenta non le chiede ma le taverne e i luoghi disonesti.
Ser Ciappelletto
g. Il narratore fa riferimento anche ai costumi licenziosi del personaggio, in ogni direzione: andava con tutti, con
donne/uomini.
h. Era goloso e gran bevitore, fino a vomitare (scendiamo sempre di più verso il basso).
i. Era un baro.

Era l’uomo peggiore che mai fosse nato e che si possa immaginare: è significativa questa conclusione perché ci fa registrare che
l’intenzione qui è aver ritratto il massimo immaginabile in senso negativo. Per fortuna godeva della protezione di Franzese,
altrimenti se la sarebbe vista brutta con tutti i nemici che si era fatto.

➔ C’è l’uso di tecniche del rovesciamento, sul piano narrativo e, qui, sul piano formale: attraverso il linguaggio stravolto e
antifrastico i suoi peccati appaiono come dei meriti. Nelle frasi, alle premesse seguono conseguenze sorprendenti (che non
corrispondono a quello che ci si aspetterebbe).

La confessione
Ser C si reca, mandato dal suo signore, in Borgogna per riscattare quei famosi debiti e viene ospitato da due fratelli fiorentini che lo
conoscevano per bene, in quanto anche loro nella sua clientela. Tuttavia, mentre è loro ospite, egli si ammala gravemente e i due
fratelli si ritrovano in difficoltà.
Egli è in punto di morte ma la presenza di quest’uomo nella loro dimora procurava imbarazzo, era ingombrante: non avrebbero
potuto farlo confessare perché lui non si sarebbe confessato, ma senza confessione ci sarebbero stati problemi con la sepoltura e
con i riti funebri. Perciò, progettano addirittura di gettarlo nei fossi, ma ragionano che se, poi, si fosse trovato il suo cadavere, loro
ne avrebbero pagato la conseguenza, suscitando la rivolta e la protesta dei cittadini del popolo francese che avrebbero gridato
“Questi lombardi cani”. Qui, il narratore ci trasmette la notizia storica e accertata del fatto che, nella Francia dell’epoca, gli italiani
non godevano di buona fama. Quindi, con il termine lombardi s’intende per estensione gli italiani del nord, perché di professione
facevano tutti gli usurai (in Francia e in Inghilterra, il termine lombardi era sinonimo di usurai). L’appellativo cani ci indica il
disprezzo: questa nota rimarca il realismo del contesto sociale di ambientazione delle novelle, le quali ci forniscono un ritratto
della società borghese dell’epoca.

Ser Ciappelletto intuisce la difficoltà dei due fratelli ed escogita la burla.


A lui, non gli importa di togliere veramente dall’impaccio i due fratelli ma coglie l’occasione, l’ultima, per compiere l’estremo atto,
quello più terribile. Il suo obiettivo è confessare ma dei peccati così piccoli da ingannare gli uomini più beati e da divenire egli stessi
Santo: la sua confessione sarà un capolavoro di ipocrisia. Ciò denota tutta la sua malvagità: vuole fare del male ma senza
tornaconto, senza trarne alcun beneficio o ricompensa; in lui riecheggia la gratuità pura del male.
C’è del diabolico in lui: egli, qui, decide di modificare il corso degli eventi, fino all’ultimo non teme nulla, né la sua morte né il suo
destino dopo di questa.
Lui vuole sfidare Dio per l’ultima volta (nonostante nel racconto lui sostenga di star semplicemente aiutando i due fratelli= vari
livelli di lettura): c’è del maligno agli estremi. Egli ha commesso talmente tante ingiurie a Dio che farne un’altra, ora, in punto di
morte, nulla farà. Tuttavia, secondo la logica divina, una in più o in meno cambia tutto: determina la salvezza o la dannazione (es.
Manfredi).
Non è escluso che qui si riecheggiano le parole di Manfredi nella Commedia; ma a differenza del personaggio dantesco, il Ser non si
pente in punto di morte.

Egli fa cercare il frate più santo di tutti, il più angelico tra tutti gli uomini di fede. I due fratelli ci provano ma non hanno molta
speranza nel piano di Ciappelletto, che sembra loro impossibile, eccessivo.
Vanno in un convento e fanno quanto Ciappelletto ha richiesto: chiedono un frate santo per confessare un usuraio italiano. Vuole
l’uomo più autorevole e santo, al quale tutti avrebbero creduto.
Antico: vecchio e di età veneranda → la quale già indica la santità.

Si svolge la confessione secondo gli usi.


1. La prima domanda è qual è stata l’ultima volta che si è confessato: ser Ciappelletto non si è mai confessato. Questo MAI
risponde al vero e, al tempo stesso, è in contrasto con quello che egli dirà dopo, introducendo ancora una volta il
meccanismo di antitesi → nemmeno ora si confessa veramente; questo mai mantiene la veridicità anche dopo questo
colloquio.
Dunque, il primo peccato che egli confessa è quello di aver lasciato passare più di 8 giorni prima di confessarsi,
differentemente dal suo (falso) uso.
Il frate allora capisce che sarà cosa rapida. In realtà, accade tutto il contrario perché il Ser inizia, come aveva fatto per tutta la sua
vita, a prendere divertimento in questa bugia e quindi allunga il tutto. Come un artista della parola, costruisce questo capolavoro di
confessione falsa, modello di ipocrisia.

L’autoritratto [Nell’autoritratto assistiamo al rovesciamento del ritratto iniziale]


2. Prima bugia: io sono vergine, non ho peccato/ commesso atti impuri con femmine o uomini.
3. Seconda bugia: ammette di aver commesso peccato di gola, ma non lo confessa come noi ci aspetteremmo (ad una
premessa → conseguenza sorprendente).
a. Egli dice che la sua colpa è quella di aver gustato l’acqua durante il digiuno, che veniva da lui fatto 3/4 gg alla
settimana, oltre ai tempi stabiliti dalla chiesa durante la quarantena. E aveva preso gusto a bere acqua,
specialmente dopo aver faticato, cioè dopo aver pregato o esser andato in pellegrinaggio.
È esattamente il contrario di ciò che noi sappiamo essere vero. Inoltre, egli dice di aver gustato l’acqua come
fanno i gran bevitori col vino: nella similitudine c’è la verità.
b. Altro peccato: l’aver desiderato le insalatuzze. Il verbo parere è ripetuto tre volte: ciò dà il senso dell’umiltà
“finta” di ser Ciappelletto. Il suo discorso appare umile ma è in realtà ipocrita. Ciò che lui confessa come peccato
è prova di virtù.

Il frate dice che questi peccati sono naturali e leggeri, e lui non deve preoccuparsene. La frase “Ad ogni uomo avviene, quantunque
santissimo sia…” anticipa il tassello del meccanismo di rovesciamento. In questa spassosa confessione, infatti, il capolavoro di ser C
sarà quello di spingere/indurre il frate stesso a confessargli i suoi peccati, mandandolo formalmente all’inferno, nonostante egli
fosse il più santo di tutti.

4. [Hai altro da confessare? Di solito si tengono le cose peggiori per ultime…] Ser Ciappelletto confessa di aver
inavvertitamente sputato una volta in chiesa. Ma il frate dice di non preoccuparsi e addirittura arriva a confessare il
peccato da parte dei frati di sputare loro stessi nella casa di Dio. Il capolavoro del Ser si è compiuto e addirittura ci viene
mostrata la distanza tra i due peccati: i frati sputano sempre, Ser C una volta in tutta la vita. L’inganno è tratto.

Si completa, qui, il rovesciamento dei ruoli: è il Ser che fa la predica e rimprovera il frate delle sue azioni. La Chiesa è, infatti, il
luogo da tener più pulito, in quanto casa di Dio, dove si celebra la messa.

Poi, il Ser va avanti a recitare: egli ha vissuto una vita nella finzione, per questo, è un gran attore. L’inganno non si limita alle
parole, ma comprende anche i gesti, le espressioni del viso: è tutto falso.
Quindi, Ser Ciappelletto confessa di aver un ultimo peccato rimastogli, il più grave di tutti, che lo fa tanto soffrire e disperare. Il
frate, allora, gli assicura di pregare per lui se glielo confesserà. Notiamo come il narratore / autore insiste nel ricordarci l’inizio della
novella: la misericordia/grazia di Dio guarda esclusivamente alla bontà di chi prega (rapporto stretto tra l’anima/cuore e Dio).
Ser Ciappelletto dubita che Dio avrà misericordia di lui per questo peccato, ma il frate lo esorta.

In questo passaggio (righe 207-211), che è un passaggio comico, assistiamo sorridendo alla presa in giro nei confronti del frate, che
diventa preda facile del diavolo in persona. Ma nella parola di questo frate è detta la verità che ci era stata annunciata nel
preambolo: la misura della misericordia di Dio è incommensurabile rispetto alla misura del peccato dell’uomo.
Se anche in un solo uomo ci fossero tutti i peccati del mondo (avvenuti o che avverranno), se lui li confessasse sinceramente, Dio lo
perdonerebbe liberamente = gratuitamente.

Ser Ciappelletto rimarca ancora una volta la paura di non essere perdonato. Il frate insiste e ancora una volta promette di pregare
Dio per il Ser: ancora una volta siamo al punto di partenza, le preghiere sincere di chi si rivolge a dio. Non importa se il contenuto
corrisponde a falsità, ma ciò che importa a Dio è la bontà dell’intenzione del frate. Il nostro autore ci sta raccontando, insomma, in
tutte le pieghe i fatti come accadono e le opinioni delle persone; ciò che sta sotto, continuamente, ci viene suggerito essere nelle
mani di Dio. Questa ricchezza di significato deriva dal testo narrativo, dal racconto, non dalla storia.

Ser Ciappelletto lo tiene sulle spine: è crudele. Ma arriva la confessione:


5. Il peggiore dei peccati immaginabili commesso dal Ser: quando ero piccolino io ingiuria, maledissi, una volta la mia
mamma.
Il frate lo invita a non preoccuparsi, che è cosa piccola rispetto alle bestemmie che tutti i giorni gli uomini rivolgono a Dio e che,
ciononostante, il Signore perdona.

C’è poi un passaggio ambiguo (riga 223): Dio perdonerà QUESTO = non si capisce a cosa faccia riferimento (al peccato? Alla
confessione?).

Ser Ciappelletto diventa il buon ladrone della storia biblica: diventa uno degli uccisori di Cristo, uno tra i peggior peccatore; che, pur
essendo figura del genere, viene salvato (D mette questi peccatori in bocca a satana). Egli merita il perdono di Dio, tanto quanto lo
meritano coloro che hanno messo in croce Cristo.
Riflessione: Nei fatti e nella superficialità delle cose, agli occhi della gente e dell’opinione pubblica, abbiamo una graduale
trasformazione del protagonista da semplice notaio, e quindi per antonomasia grande farabutto, a santo. Come però ci invitava
l’autore ad inizio novella, dobbiamo essere consapevoli e criticamente attenti a considerare e distinguere i diversi livelli di lettura
della novella: l’uomo non può sottrarsi da giudicare gli altri secondo la giustizia terrena, egli si limita, quindi, al giudizio umano e
terreno, basato sui fatti e le opinioni, che cerca di essere il più oggettivo possibile ma che non corrisponde sempre alla verità.
Tuttavia, esiste un altro piano dal pdv filosofico e ideologico e questo è pertinenza del divino e del sacro. Questa doppia linea di
interpretazione è importante perché rappresenta una visione del mondo ed inscrive gli ordini valoriali dell’autore; inoltre, questa
visione si rivela centrale poiché corrisponde sul piano letterario al racconto, a quello schema costantemente antifrastico e
antitetico su cui è costruita la novella. Lo strumento del comico, che si avvale di queste figure retoriche, diventa la via per
comunicare un messaggio profondissimo; soprattutto considerando la posizione proemiale della novella.

La beffa
I due fratelli (personaggi minori: sono dei “tipi”) dubitavano del piano esagerato di Ser Ciappelletto, del quale non si fidavano
completamente conoscendone la natura, e del fatto che egli potesse arrivare a convincere il frate. Quindi, si mettono ad origliare e,
ascoltando la confessione falsa, provano una gran voglia di ridere a crepapelle.

Il narratore sposta sui due fratelli una considerazione (dalla riga 250) che è propria del narratore ma anche dei lettori: è un giudizio
oggettivo, un’opinione che noi pronunciamo sul Ser, ma che viene introdotta all’interno del meccanismo del comico, dal pdv dei
due fratelli. Ridendo a crepapelle, essi non possono che formulare un grande complimento nei confronti dell’astuto Ciappelletto ed
esprimono la loro ammirazione (che è propria, in qualche modo, anche del lettore) verso questa figura così scaltra. Tuttavia, un
elogio di questo personaggio malvagio sarebbe eccessivo; eppure, la sua grandezza d’animo, che spazia nella direzione del maligno,
è sorprendente, non può che stupire i lettori: la magnanimità può appartenere anche ai grandi personaggi/eroi del male. È una
punta di ammirazione che Boccaccio vuole introdurre attorno a questa figura, necessaria ai fini della comprensione dei messaggi
del testo, ma che disloca nella bocca dei fratelli in quanto esagerata. Pur davanti alla morte e al giudizio divino, il personaggio non
teme nulla e muore nel modo in cui ha vissuto per tutta la vita: c’è una certa coerenza del personaggio. La focalizzazione sui fratelli
e il discorso diretto servono, dunque, al narratore, per affermare l’inaffermabile e delegare a questi personaggi una responsabilità
che egli sente troppo forte/ eccessiva.

I due fratelli accettano la beffa perché toglie loro dall’impiccio del cadavere e dei riti funebri.

La conclusione: san Ciappelletto


Sir Ciappelletto muore. Il frate torna al convento, dal priore, e racconta del personaggio straordinario che aveva incontrato: tutti
acconsentono a svolgere i riti funebri. La sera, la totalità dei frati torna alla dimora dei due fiorentini e fanno sopra il cadavere del
Ser una grande e solenne veglia (teatralità della scena: onori funebri di un peccatore svolti come se fosse santo). La mattina, c’è il
corteo funebre e i frati portano il corpo in Chiesa, dove colui che aveva confessato il Ser fa un grande discorso in cui tesse le lodi di
quell’uomo, raccontandone la semplicità, l’innocenza e le cose meravigliose da lui fatte. E davanti all’esemplarità di Ser
Ciappelletto, ne approfitta per rimproverare i presenti. Davanti alla comicità della scena, c’è una punta di critica da parte di
Boccaccio che condanna la credulità del mondo della Chiesa e rimprovera la facilità con cui si facevano i santi all’epoca. Siamo
infatti in un momento di crisi della chiesa (superstizione, culto delle reliquie) e questa è una polemica politico-sociale che a quei
tempi era molto diffusa.

Alla fine, tutti vanno presso il cadavere, lo baciano e lo venerano. La notte seguente viene seppellito in una grande arca di marmo,
con grandi onori, e le genti, il giorno dopo, addirittura, iniziano a adunarsi e a recarsi lui in pellegrinaggio: la fama della sua santità
si diffonde facilmente e cresce la sua devozione. Ser Ciappelletto. Che diventa san Ciappelletto, addirittura, sbaraglia gli altri santi,
diventandone il primo, quello che tutti pregavano →ricordandoci che Dio accetta, accoglie ed esaudisce le preghiere in virtù delle
buone preghiere di chi le rivolge.

La conclusione della novella riprende il preambolo: il narratore non nega che possa essere possibile che il Ser sia veramente beato
al fianco di Dio; ma poiché la verità ci è occulta, egli formula il suo giudizio sui fatti a cui ha assistito, sull’apparenza.
Boccaccio è attentissimo a calibrare, dosare: non possiamo sapere se il Ser sia in Paradiso o all’Inferno; ma secondo quello che può
apparire, secondo il piano di lettura che a me, lettore/uomo compete, cioè quello della vita e dei comportamenti del Ser (non le sue
reali intenzioni), dico che egli meriterebbe il Diavolo (secondo la giustizia terrena).

L’errore di Cepparello diventa il “nostro” errore: quella che è la storia di Ciappelletto è la storia di ognuno di noi, in quanto
peccatore e scellerato. Tuttavia, nonostante il nostro errore di giudizio (rendere il peggior dei peccatori, nemico del divino, nostro
interlocutore con Dio), il Dio buono guarda alla purità di fede che caratterizza le preghiere e le esaudisce, come se l’interlocutore
da noi scelto fosse veramente santo/ amico di Dio. In questa parte, il “come se” equipara il peggiore dei peccatori al migliore dei
santi, di fronte al cospetto della purità di cuore di chi prega. Quella dinamica di rovesciamento, di oscillare tra un polo e l’altro, qui,
cioè, si appiana, si equilibra.
“E per ciò, acciò che noi per la sua grazia nelle presenti avversitá ed in questa compagnia cosí lieta siamo sani e salvi
servati, lodando il suo nome nel quale cominciata l’abbiamo, lui in reverenza avendo, ne’ nostri bisogni gli ci
raccomanderemo, sicurissimi d’essere uditi. — E qui si tacque.”

E, dunque, possiamo tranquillamente raccomandarci dei nostri bisogni anche a Ser Cepparello, avendo reverenza in lui.
Parafrasi: Ed è per questo che noi, nel pieno della pestilenza, ci ritroviamo in questa lieta e allegra compagnia, sani e salvi, lodando
il suo nome e rivolgendoci a lui per ogni nostro bisogno, sicurissimi che ci ascolterà. A questo punto panfilo terminò la sua
narrazione.

Questa conclusione non esita di dare un giudizio morale sul comportamento di Ser Ciappelletto, ma ribadisce ancora una volta
l’imperscrutabilità della mente divina. Questo nostro limite ci porta a non esaurire mai la speranza.
GRISELDA (B 280)
Tematiche
Griselda è l’ultima novella del Decameron (Giornata X, Novella Dieci): siamo alla conclusione. Il tema dell’ultima giornata riguarda le
azioni tanto liberali, lodevoli, magnifiche ed encomiabili, da procurare grande ‘laudevole’ fama (tema della MAGNIFICENZA) e
dunque vita perpetua. Il nostro autore vuole, quindi, presentarci casi esemplari di azioni generose, eleganti e gratuite, che
provengono da un animo grande, tanto da meritare fama ed imperitura. Siamo, cioè, ancora all’interno di quella categoria
valoriale che riguarda il grande: così come con Ser Ciappelletto, nella prima novella, parlavamo del grande/magnanimo, anche qui
il tema della magnificenza è analogo ma in positivo.
Queste virtù, magnanimità/magnificenze, forse, nella storia successiva, un po’ passate di moda, nella società antica e medievale
erano virtù importantissime: un uomo o una donna possedeva tali virtù interiormente (grandezza d’animo), ma esse risplendevano
anche all’esterno; cioè questi valori facevano sì che l’uomo potesse presentarsi come tale anche esteriormente ed essere
riconosciuto da tutti. La magnificenza, ovvero, era considerata come la qualità che consente a tutte le altre virtù di manifestarsi
pubblicamente e di risplendere, cioè di essere riconosciute ed apprezzate (Aristotele: magnificenza-magnanimità-grandezza
interiore proiettata verso l’esterno). L’uomo magnifico non esita a spendersi a beneficio degli altri, per avere in cambio l’onore,
autentico riconoscimento del suo merito. L’uomo magnifico è capace di donare in maniera eccezionale.

Sono virtù queste che derivano dall’antico (Aristotele) e che vengono riscoperte in questa società, nella quale vanno a legarsi con il
tema della nobiltà. Intorno a tale tema menzionato, si costruisce una polemica che viene da lontano e che scoppia ancora in epoca
medievale: cos’è la vera nobiltà? È quella di sangue o deriva dalla grandezza dell’animo? Questa è una questione etica e civile che si
presenta come dialettica e piena di corollari, e dove l’idea di nobiltà esteriore si scontra con l’umiltà, valore proprio della religione
cristiana. Tuttavia, all’epoca, anche da un pdv religioso, la nobiltà e la virtù d’animo doveva essere una qualità esprimibile ed
espressa anche esteriormente.
Per questo, i protagonisti sono quasi sempre aristocratici (grandi gesta = grandi persone), ma anche appartenenti alla borghesia o
alla classe contadina, come Griselda (eccezione insieme a Lisabetta → anticonformismo di Boccaccio).

La novella
L’umile Griselda è sposa del marchese di Saluzzo, Gualtieri, che, costretto al matrimonio dalle pressioni dei sudditi, la sottopone a
prove durissime per accertarne, al limite di ogni umana resistenza, la pazienza e la totale sottomissione.
È una novella forte e, per contenuto, non così attraente, ma che diventa celebre perché viene diffusa spesso autonomamente/
separatamente dalle altre della raccolta, ed è stata tradotta in latino da Petrarca, amico di Boccaccio. La sua traduzione latina
permise una circolazione europea del testo, sebbene ritoccato in certi tratti da Petrarca. Questo intervento ci fa capire la modalità
di interpretazione e il modo della lettura di Petrarca: egli interviene cecando di ridimensionare la crudeltà del marito.

Rubrica:
“Il marchese di Saluzzo, da’ prieghi de’ suoi uomini costretto di pigliar moglie, per prenderla a suo modo, piglia una
figliuola d’un villano, della quale ha due figliuoli, li quali le fa veduto (credere) d’uccidergli; poi, mostrando lei essergli
rincresciuta (non gli piace più) ed avere altra moglie presa, a casa faccendosi ritornare la propria figliuola come se sua
moglie fosse, lei avendo in camiscia cacciata e ad ogni cosa trovandola paziente, piú cara che mai in casa tornatalasi, i
suoi figliuoli grandi le mostra e come marchesana l’onora e fa onorare (LIETO FINE).”

Gualtieri o Griselda? La novella è nota come la novella di Griselda, eppure il protagonista, come ci viene presentato dalla rubrica, è
Gualtieri. Il punto interrogativo iniziale che si sviluppa è, quindi, intorno al protagonista della novella.

Introduzione
“Finita la lunga novella del re, molto a tutti nel sembiante piaciuta, Dioneo ridendo disse: — Il buono uomo, che aspettava
la seguente notte di fare abbassare la coda ritta della fantasima, avrebbe dati men di due denari di tutte le lode che voi
date a messer Torello. — Ed appresso, sappiendo che a lui solo restava il dire, incominciò: […]”

Il narratore è Dioneo, che fa un commento alla novella precedente (di Panfilo) senza un aggancio diretto a questa.

Inizio
Il narratore, Dioneo, esprime già un giudizio su Gualtieri: di questo marchese, non racconterà di qualche suo valore o virtù, ma di
una villania, di azioni crudeli da lui commesse (nonostante il lieto fine). Questo suo “commento” è un ulteriore indizio che ci porta a
dubitare del protagonista della novella: il narratore sposta l’ammirazione dal marchese alla sua consorte, in grado di sopportare le
villanie da lui commesse (il tema della giornata è pur sempre “azioni lodevoli”). Dopo aver introdotto questo grande in negativo, il
narratore contrappone a questa matta bestialità un qualcosa di magnifico. Sebbene oggi la questione intorno al protagonista si
possa attenuare (tutti sono ormai certi che sia lei), nei secoli, le letture hanno avuto delle interpretazioni diverse che non hanno
necessariamente condannato il marchese (lo stesso Petrarca, nel camuffare i comportamenti del marchese è come se, in qualche
modo, percepisse la sua eccessiva crudeltà come stonata).
La promessa
Il marchese deve prendere moglie: i sudditi ritenevano che fosse necessario procurare una discendenza alla casata e al regno e,
quindi, lo convincono. Gualtieri individua la persona giusta nella figlia di un villano, di un pastore.
Arriva il giorno del matrimonio. Giungono al villaggio dove abitava il pastore, padre della fanciulla che il marchese voleva sposare.
Griselda, quando vede Gualtieri, è sorpresa e non sa ancora di essere la prescelta: il marchese, però, le chiede dove si trovasse suo
padre. C’è un dialogo tra il marchese e padre.

Questo passaggio ci vuole presentare il personaggio di Griselda, che ci viene figurata, attraverso delle connotazioni/ attributi,
come umile, mansueta, di una docilità evangelica. Ma esso, contemporaneamente, è cruciale perché contiene la promessa: l’uomo,
Gualtieri, esplicita in maniera chiara e forte la necessità della promessa, di un voto. Una volta data la sua parola e sancita questa
promessa, Griselda la manterrà fino alla fine. La sua rettitudine e onestà si radicherà su questa promessa e resterà tale, forte, fino
alla fine: è una promessa che assomiglia alla promessa e alla donazione di sé che la vergine compie all’annunciazione. Come la
Vergine sapeva che avrebbe dovuto subire i dolori più grandi, quasi inaccettabili, così Griselda: c’è questa possibilità di lettura se
consideriamo la grandezza estrema, quasi inaccettabile dell’animo di Griselda, che va oltre le possibilità umana.

Gualtieri le richiede di esser pronta a compiacergli, qualunque cosa egli facesse; di essere ubbidiente; … Lei risponde sempre di sì. Il
marchese, allora, la porta fuori, la fa spogliare davanti a tutti delle sue vesti umili per farle dono di nuovi abiti regali e di una
corona. I due, quindi, si sposano. Notiamo una certa enfasi intorno al momento delle nozze, semplici e arcaiche, compiute
attraverso dei gesti elementari e sinceri. I patti sono chiari sin da subito e lei acconsente: diventa regina. Il narratore è chiaro e il
lettore coglie l’impatto di questi passaggi rituali e simbolici. Non è un bacchetto come tanti.

Prima prova
Arrivano le prime sofferenze che però lei accetta con una letizia insopportabile. Griselda rimane incinta e partorisce una bambina;
inizialmente, Gualtieri fa grande festa ma poi decide di metterla alla prova.
Gualtieri la punge con parole e vuole provare, con cose intollerabili, la pazienza di lei. Egli si lamenta, quindi, che i suoi
uomini/sudditi non erano contenti di lei sia per la sua bassa condizione, sia perché era nata una bimba femmina. Griselda risponde
alla provocazione con parole di mansuetudine che ricordano la virtù e la pazienza evangelica. Gualtieri, quindi, le sottrae la
bambina che viene mandata a Bologna da una parente per crescere là. Ma di questo Griselda non sa nulla.

Seconda prova
La seconda prova è simile alla prima. Griselda partorisce un figlio maschio: Gualtieri ne è molto felice, ma poi rincomincia a
lamentarsi. Egli, come i suoi sudditi, non accetta, infatti, di dividere il suo potere e patrimonio con un bambino (questione
ECONOMICA). [La volontà sua e di tutti gli altri, che ne seguirà, sarà quella di prendere un’altra moglie: Griselda accetterà di buon
grado.] Egli fa sparire anche quest’altro bimbo: lo manda sempre a Bologna, ma Griselda è sempre ignara di dove finiscano i suoi
bimbi (li pensa morti).
Il narratore insiste su questa vicinanza incredibile tra i due coniugi: se Gualtieri non l’avesse conosciuta bene e non avesse saputo
che lei era molto saggia, l’avrebbe pensata come una madre incurante/degenere, che non provava emozione per i figli, tanta è la
sua pazienza. Davanti a quei fatti, i sudditi reputano Gualtieri come crudele uomo e provano compassione per Griselda. Griselda, da
canto suo, proteggeva il marito dicendo che lei voleva solo quello che anche lui voleva. La sua volontà era quella di lui.

Terza prova
Gualtieri vuole cambiare moglie e allontanare Griselda: ottiene l’annullamento del matrimonio e fa sì che Griselda venga restituita
al padre. Ella deve subire, quindi, queste offese da parte del marito, che le ribadisce che non la vuole più e che la lascerà con quel
poco nulla con cui era arrivata. La donna, però, ritiene le lacrime e accetta tutte queste decisioni: l’umiltà di Griselda va sotto il
tollerabile → “oltre alla natura delle femmine”: il narratore, apertamente, qualifica il comportamento di Griselda straordinario,
oltre i limiti, contro la natura delle donne.
Lei riconosce che tutto ciò che ha ricevuto, tutte le ricchezze, non fossero dovute al suo merito o alla sua condizione, ma dono
divino (dato in prestito). Quindi, riconsegna tutto molto volentieri.
In questo passaggio, sottolineiamo la simbologia delle vesti: lei nuda, vestita da regina, ritorna nuda ma rivestita con una camicia
che corrisponde alla sua verginità, unica cosa che ha perduto/donato. Lei è integerrima, intoccata in tutto o quasi: ciò che succede
non scalfisce la sua grandezza d’animo.
Questo dialogo è come se mostrasse una sorta di patto tra Griselda e Gualtieri, che si ritrovano, nonostante tutto, in sintonia, e noi
lettori assistiamo alla grande tragedia.

Quarta prova
Gualtieri fa credere a tutti di voler sposare la figlia di uno dei conti lì vicino, da Panago, ma in realtà fa richiamare sua figlia al
palazzo. Iniziano i preparativi per questo nuovo matrimonio: fa richiamare Griselda perché solo lei sa organizzare un evento
secondo il dovuto.
Ella non aveva mai posto giù l’amore, dismesso l’amore, nei confronti di Gualtieri, come invece era stata dismessa la fortuna, la
buona sorte per lei. Lei accetta, quindi, di aiutarlo. Ritorna in quella casa con vesti umili e rozzi, panni grossolani di lana grezza, e
spazza le camere, fa pulizie come fanticella di casa, come serva. Tutti assistono all’umiliazione di Griselda.
Si attende la festa: arriva il giorno delle nozze. Lei fa gli onori di casa e riceve con animo donnesco, da signora, gli ospiti.
Scioglimento
Griselda accoglie la nuova sposa con animo contento, facendole benignamente molti complimenti. Davanti a questa scena,
Gualtieri, finalmente, si scioglie e pian piano scioglie anche la vicenda.
Il marchese ha visto pienamente tutto ciò che desiderava della pazienza di lei: nota come la novità delle cose non cambia mai
Griselda, che rimane intoccabile, e sa che lei non si comporta così perché stupida, ma tutto il contrario. Gualtieri, quindi, che la
ritiene saggia, capisce che è giunto il momento di toglierle il dolore, che lei tratteneva sotto il viso (Gualtieri, conoscendola bene,
sospetta ciò).
Addirittura, Griselda (il suo quasi “parossismo”), consultata a dare giudizio sulla nuova ragazza e parlando di sé in terza persona,
chiede a Gualtieri di non mettere alla prova la nuova sposa come ha fatto con lei: ella è più giovane e delicata, non è abbastanza
forte da sopportarle.

Il comportamento di Gualtieri è un comportamento che, nella sua estrema durezza, si avvicina alla giustizia terribile del Dio
dell’Antico Testamento, che mette alla prova, continuamente e notevoli crudeltà, le sue creature. E dall’altro lato, la
corrispondenza di Griselda recupera immagini della mansuetudine e della carità, che non teme nulla, di figure evangeliche.
In questo discorso rivelatorio, emerge la buona fede di Gualtieri che crede di star ricompensando con una gioia incredibile, il dolore
incredibile di Griselda. Tuttavia, il ritratto non è quello di un ricongiungimento romantico.
Boccaccio sta sottolineando l’eccesso del sentimento di Gualtieri che corrisponde al tantissimo del dolore a lei procurato. È grazie a
questa somiglianza che è stato possibile interpretare in chiave positiva Gualtieri che, secondo un’interpretazione, che non si ferma
al momentaneo/particolare, ma guarda le cose da lontano, ha potuto portare a completamento, far fruttificare, il matrimonio e la
promessa con Griselda. Questa esperienza ha messo alla prova ma ha fatto coronare la grandezza d’animo di lei e la grandezza
d’animo di lui. È più difficile parteggiare per lui, ma dobbiamo chiederci: il vero coraggio è quello di lei o di lui?

Verso il finale
Nel finale, l’autore ci spiazza e non impone, nonostante le apparenze, ad un lettore intelligente, una verità in modo autoritario.
Entrambi i protagonisti sono felici. La verità dei fatti si mostra nella sua interezza, diversa da quella che era la credenza popolare.
Una serie di superlativi: indicano il troppo, l’eccesso. Nonostante le persone reputassero troppo amari e intollerabili i dolori che la
donna aveva dovuto sopportare, arrivano a giudicare Gualtieri molto saggio e saggissima Griselda.
CAVALCANTI, TRA DANTE, BOCCACCIO E CALVINO
La figura di Guido Cavalcanti, per la sua rilevanza, è stata ripresa e rimaneggiata più volte nel corso della storia della letteratura
italiana, da diversi autori, contemporanei e successivi al poeta. Egli è, infatti, personaggio, benché assente fisicamente (non era
ancora morto) ma comunque centrale, nel canto X dell’Inferno; è protagonista, insieme ad un altro personaggio, di una novella del
Decameron; e viene, poi, anche ricordato in una delle Lezioni Americane di Italo Calvino.
L’approfondimento della sua figura ci consentirà di vedere come questi tre autori dialogano tra di loro e corrispondono in un’eco
reciproca, assumendo come punto in comune proprio l’immagine di Guido Cavalcanti.

DANTE: CANTO X, INFERNO


In questo canto, i nostri due pellegrini, Dante e Virgilio, si trovano nel sesto cerchio, dove vengono puniti i peccatori colpevoli di
eresia. Gli eretici sono coloro che, fondamentalmente, non hanno creduto nell’immortalità dell’anima. Tra questi personaggi,
campeggia, letteralmente, la figura di Farinata.
Il canto X inizia, dunque, in maniera scenografica: l’ambientazione colpisce per suggestione e forza evocativa. Siamo in un
cimitero e i nostri due personaggi procedono in un punto che costeggia le mura della città di Dite, all’interno delle quali Dante
intravede, in questa piana, delle arche/ sepolcri/ tombe. Allora, domanda, mosso dalla curiosità, circa la natura e le circostanze che
hanno determinato questa tipologia di pena. Virgilio risponde spiegando che questi sepolcri, che ora si vedono scoperchiate
/aperte, verranno richiuse quando le anime si ricongiungeranno con i corpi, ovvero quando ci sarà il giudizio universale. Spiega, poi,
che in quel luogo vengono puniti i seguaci di Epicuro (verso 13-14), coloro cioè che l’anima, col corpo, morta fanno: coloro che
ritengono che l’anima finisca con il corpo. È dunque questa un’accezione, quella degli epicurei, intesa in senso largo: il termine si
era staccato dall’accezione specifica del filosofo Epicuro e, in epoca medievale, comprendeva più ampiamente coloro che negavano
l’immortalità dell’anima, ritenendo che la vita dell’uomo terminasse in questo mondo (spiriti laici, increduli e libertini). Si parla di
un’inclinazione, all’epoca, molto diffusa, più di quanto si possa credere; e che spopolava soprattutto negli ambienti intellettuali.
Questo ci serve per ricordare che, all’interno di questa categoria, non c’erano solo quelli che credevano in altre eresie, ma quanti
dubitavano, più semplicemente, di una vita ultraterrena e di tutte le altre verità della fede. È questa una tentazione molto vicina al
pensiero intellettuale-filosofico che fu anche di Dante e del suo circolo intellettuale: le avanguardie del pensiero fiorentino degli
anni danteschi → siamo al cospetto di figure, aspetti e caratteri che Dante sentiva come propri e vicini a sé.

In questo luogo, i due stanno transitando e, ad un certo punto, si leva una voce da uno dei sepolcri (effetto teatrale: verso 22).

O Tosco che per la città del foco


vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.24

La tua loquela ti fa manifesto


di quella nobil patrïa natio,
a la qual forse fui troppo molesto".27

Chi parla ha riconosciuto Dante, in quanto fiorentino: ne ha individuato la patria solo al sentirlo parlare con accento fiorentino.

Città del fuoco: città infernale di Dite. Ci troviamo, infatti all’interno delle sue mura.
Te ne vai vivo, esprimendoti in questo modo così gentile, dignitoso, fermati in questo luogo.
Nobil Patria: Firenze. Alla quale patria, io fui un tempo gravemente nocivo/molesto.

A parlare e apostrofare Dante, è questo grande personaggio della politica fiorentina della generazione precedente a quella del
poeta. Farina degli Uberti era uno dei capi più noti del partito ghibellino, ostile alla fazione sostenuta da Dante. Egli era stato
grande protagonista delle vicende che avevano caratterizzato la storia della città ed era, infatti, rimasto tra le prime pagine della
cronaca per la battaglia del Montaperti (1260), che aveva decretato la vittoria storica dei ghibellini. Farinata aveva, poi, deciso di
proteggere la città di Firenze e si era opposto alla distruzione della città: al consiglio di Empoli, il partito dei ghibellini, in seguito alla
vittoria, aveva deciso di radere al suolo Firenze. Ma egli, in quanto cittadino legato alla patria, si oppone. Tuttavia, rientrato in città
insieme ai suoi compagni si macchia di terribili delitti (crimini tipici delle guerre civili). Infatti, il nome di Farinata è rimasto proprio
legato alle stragi che macchiarono Firenze dopo il rientro della fazione. Egli muore nel 1264, ma il suo nome resta leggendario negli
anni successivi. Le cronache ci ricordano, poi, che nel 1283, quando Dante era un giovane uomo, venne celebrato anche un
processo contro Farinata, che lo accusava di eresia: ecco la spiegazione della sua collocazione. Questa condanna è avvenuta, quindi,
dopo la morte del politico e coinvolgeva Farinata e i suoi famigliari; essa era legata, chiaramente, anche ad argomenti politici (la
vendetta dei guelfi sarà nel 1266 con la battaglia di Benevento). Dopo la battaglia di Benevento, la famiglia degli Uberti viene,
infatti, bandita per sempre. Si tratta, quindi, di una grande figura della storia politica fiorentina, controversa e che suscitava
ammirazione in virtù della sua grandezza: legato alla politica e devoto fino alla morte alla sua città. Analoga ad altre che abbiamo
scomodato, Dante cerca di studiarla in modo programmatico.

Questa grandezza di Farinata, che è quella del suo spirito, corrisponde anche alla sua descrizione fisica/ esteriore.
Subitamente questo suono uscìo
d’una de l’arche; però m’accostai,
temendo, un poco più al duca mio.30

La voce di Farinata rimbomba terribilmente tra i sepolcri: Dante è impaurito e si accosta a Virgilio.

Ed el mi disse: "Volgiti! Che fai?


Vedi là Farinata che s’è dritto:
da la cintola in sù tutto ’l vedrai".33

Virgilio sprona e rimprovera Dante di voltarsi verso l’interlocutore. È un monito, pronunciato da V, che corrisponde
all’autorevolezza e alla reverenza che suscita la figura di Farinata: egli è ritto e sporge dalla cintura in su.

Io avea già il mio viso nel suo fitto;


ed el s’ergea col petto e con la fronte
com’avesse l’inferno a gran dispitto.36

Viso: usato per indicare la vista, gli occhi → avevo già i miei occhi infissi nel suo viso = viene rappresentato il gioco di sguardi.

Il comportamento, la gestualità di Farinata: la sua grandezza e coraggio morale corrispondono alle movenze fisiche = il modo di
tenere la fronte contraddistingue il superbo (come avevamo già visto nelle fiere). La sua grandezza d’anima sconfina con il lecito e
diventa superbia, il vizio di chi pensa di poter fare da sé senza bisogno di altri. Il suo errore, in particolare, è stato quello di aver
ritenuto di non aver bisogno di Dio, di poter far parte a sé in questo mondo.

Dispitto: che corrisponde al nostro dispetto, qui significa disprezzo, disdegno. La superbia intellettuale (eresia) di Farinata che
disdegna l’Inferno.

Queste anime, secondo il principio figurale che regge la commedia, sono condannate a patire per l’eternità la colpa e l’errore
compiuto in vita. Questo dispetto, dunque, espresso da Farinata, è lo stesso dimostrato in vita; sebbene qui sia all’insegna del
dolore, che ora caratterizza il suo animo di peccatore condannato. Questo sarà lo stesso dolore provato dall’altra anima che Dante
incontra qui, Cavalcante Cavalcanti, ovvero il padre di Guido.

E l’animose man del duca e pronte


mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: "Le parole tue sien conte".39

Animose: che danno animo, danno coraggio. Pronte: ben disposte, immediatamente, ad incoraggiare Dante.
Mi spinsero verso lui.

Virgilio invita Dante a rispondere a Farinata e a rivolgersi a lui con parole conte, cioè ben disposte, con reverenza. Tale aggettivo
deriva da cognite, cognitus = ben preparate, consapevoli. Anche questo modo di incoraggiare, questo passaggio apparentemente
ininfluente, in realtà ci dice come anche Virgilio senta l’autorevolezza di Farinata e voglia spingere Dante ad agire di conseguenza.
Farinata, cioè, non è figura spregevole, che suscita disprezzo nel lettore, ma trasmette questa ammirazione critica, la stessa che
muove il poeta.

Com’io al piè de la sua tomba fui,


guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: "Chi fuor li maggior tui?".42

Inizia un breve dialogo tra D e Farinata, che poi verrà interrotto dalla comparsa della figura di Cavalcanti e che riprenderà nella
seconda parte del canto. Si tratta di un dialogo molto risoluto e fatto di battute secche, quasi sprezzanti: Farinata e Dante si
scontrano a parole e reduplicano nel loro dialogo quell’avversità e contrasto politico che era proprio della loro fazione politica.
L’animosità di queste parole che rasenta quasi l’offesa, cioè, corrisponde all’animosità, grandezza d’animo, che è di Farinata e che
Dante rischia quasi di assumere. Questo canto, non a caso, è stato definito come un altro dei canti politici della commedia: ci viene
presentato il caso di un animo fieramente radicato nelle sue convinzioni politiche, anche fin troppo. Quell’eresia e attaccamento ai
beni terreni, quell’incredulità nel mondo terreno, cioè, si esprime in Farinata in questo suo eccesso di attaccamento politico. Così
come questo è stato il suo errore in vita, così è il suo modo negli inferi: c’è una continuità tra la vita sulla terra e la condizione delle
anime dopo la morte (argomento della commedia).

Come io fui ai piedi della sua tomba, egli mi guardò un poco: teatralità di Farinata, in un canto che è stato messo in scena più volte
(è uscito recentemente uno studio riguardante la lettura teatrale di questo canto).

E poi, quasi sdegnoso, sprezzante (atteggiamento di superiorità), mi domandò: di che partito sei? → chi furono i tuoi avi?
Questa domanda sottolinea l’attaccamento alla politica che imprigiona Farinata. Appena sente l’accento toscano, cede alla
tentazione di sapere lo schieramento politico dell’interlocutore.
Io ch’era d’ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel’apersi;
ond’ei levò le ciglia un poco in suso;45

Io che ero desideroso di obbedire, non glielo nascosi ma gli dissi tutto: questa volontà di Dante sottolinea il ruolo di inferiorità che
egli sente di dover ricoprire davanti a Farinata.
Dante non vedeva l’ora di dire apertamente di essere guelfo.
Per il quale, egli levò le ciglia un po’ in su: espressività del viso di Farinata.

poi disse: "Fieramente furo avversi


a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fïate li dispersi".48

Dalla risposta di Farinata intuiamo la dichiarazione di Dante: egli dice che fieramente furono avversi a me, alla mia famiglia
(primi=genitori) e alla mia fazione. Tanto che, però, per due volte sono riuscito a cacciare i tuoi: nel 1260 a Montaperti e ancora nel
1248.

"S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte",


rispuos’io lui, "l’una e l’altra fïata;
ma i vostri non appreser ben quell’arte".51

La risposta di Dante è ancora a tono: il dialogo si svolge sullo stesso piano.


Se essi furono cacciati, seppero anche tornare entrambe le volte. Il riferimento è il primo ritorno del 1251 dopo la prima cacciata e il
secondo dopo la battaglia di Benevento (anche se di questo altro ritorno, Farinata non aveva saputo in vita).

Dante si compiace nel concludere con un colpo finale: i miei seppero tornare, ma i vostri non appresero altrettanto bene
quest’arte. La città di Firenze, infatti, dopo la battaglia di Benevento, resta guelfa.
Quella usata qui da Dante, è una dura ironia, aspra, utilizzata contro Farinata. Il verso 51 è di massima tensione, quasi un’offesa.
Proprio per questo motivo, il narratore interrompe il dialogo e termina qui la prima sequenza del canto.

Inizia la sequenza, dove interviene la seconda anima da incontrare: Cavalcante Cavalcanti, padre di Guido. Anche la famiglia dei
Cavalcanti si diceva essere un po’ eretica, miscredente. Questo uomo è qui rappresentato in quanto padre: il suo errore principale,
che conosceremo in seguito, è l’essersi reso schiavo e prigioniero di questo eccessivo affetto paterno, non sublimato in qualcosa di
superiore. L’attaccamento di Cavalcante nei confronti di Guido è stato oltre il giusto e, anche qui, lo ritroviamo imprigionato in
questo affetto terreno. Il carattere del dolore che qui imprigiona per l’eternità questo uomo è la sofferenza per il figlio.

Allor surse a la vista scoperchiata


un’ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s’era in ginocchie levata.54

Si chiude la parentesi di Farinata: si alza un’altra figura.


Sorge alla vista scoperchiata del sepolcro, un’ombra, lungo quella di Farinata, fino al mento: credo che si fosse levata in ginocchio
(non in piedi come Farinata).

Dintorno mi guardò, come talento


avesse di veder s’altri era meco;
e poi che ’l sospecciar fu tutto spento,57

Sono pochi i gesti compiuti in questo silenzio.


Cavalcante Cavalcanti, aveva riconosciuto Dante, che si era anche presentato, e dunque immagina di dover veder lì, insieme a
Dante, anche il figlio, dal momento che erano grandi amici.
Come se avesse il desiderio di vedere se c’era qualcun altro con me: cerca il figlio.

Guido Cavalcanti è uno dei compagni di Dante, primo amico, grandissimo poeta della generazione dantesca, subito dopo
Guinizzelli. Il suo pensiero è caratterizzato da quella libertà filosofica, che, ad un certo punto, Dante decise di riportare dentro la
fede. Mentre Guido resta, quindi, fedele all’impostazione filosofica della visione del mondo, Dante si avvicina, invece, alla fede. I
due restano, comunque, grandi amici e all’epoca dell’ambientazione del viaggio (primavera 1300), Guido era ancora in vita: Dante
non poteva inserirlo e renderlo immortale in questo viaggio, tuttavia, lo immortala comunque attraverso la figura del padre
(escamotage narrativo). Questo è un grandissimo omaggio che Dante fa all’amico e che poggia su una sincerità di intenti: Dante
immortala la grandezza d’animo di Guido, ma segna il discrimine tra sé e la sua scelta di fede, e il comportamento diverso
dell’amico.

Quando la speranza di vedere suo figlio si spegne, scoppia in lacrime.


piangendo disse: "Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? e perché non è teco?".60

Notiamo il pathos di questo padre che continua a soffrire per il figlio.


Inferno reso attraverso metafora: è un carcere cieco (perché buio: manca la luce della fede), prigione eterna

Notiamo la strategia del poeta: il padre ammette e afferma che Dante può essere nel regno ultraterreno solo per altezza di
ingegno, non per demeriti; e se Dante si trova lì, dovrebbe esserci anche il figlio. Sono le parole del padre che, dunque, dicono della
stima che egli ha verso il figlio, ma che riflettono anche l’omaggio di fama eterna che Dante vuole fare all’amico. Dante si
equipara/ si immortala insieme a Guido per altezza/profondità di ingegno, intelligenza: sono compagni (ovviamente Dante loda
anche sé). I commentatori ci suggeriscono che questo canto ci riporta alla Firenze della giovinezza, di questo giovane Dante che
costituiva con il suo gruppo di amici l’avanguardia del pensiero fiorentino (orgogliosi di esserlo). Questo canto è come un
manifesto di un’amicizia intellettuale.

Guido non è ancora morto, ma il padre non lo può sapere: ci verrà spiegato nella seconda parte del canto che queste anime sono
condannate, fa parte della loro pena, a non conoscere il presente, il tempo immediato → questo è anche uno stratagemma
narrativo che consente a Dante di rappresentare con verosimiglianza e realismo il dolore del padre.

E io a lui: "Da me stesso non vegno:


colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno".63

Dante mette il dito nella piaga: io non sono qui da me stesso, in virtù della mia intelligenza. Questa è una grande dichiarazione di
umiltà intellettuale: prima l’altezza di ingegno dei due viene celebrata, ora precisa subito la differenza tra lui e l’amico.

Virgilio = colui che attende là; mi accompagna in questo viaggio.

Cui: complemento di moto a luogo. Verso chi (riferimento forse a Beatrice che rappresenta la teologia)/ ciò che Guido vostro ebbe a
disdegno. Questa particella ambigua e ostica a livello sintattico è l’indicazione della fede: Virgilio mi sta conducendo verso Dio e il
Paradiso, ovvero verso tutto quello che invece Guido ha disdegnato. Questa espressione “ebbe a disdegno” fa eco al gran “dispitto”
di Farinata e accomuna nell’errore queste anime grandi che ritroviamo nel canto. È curioso come questa locuzione venga resa con il
verbo al passato remoto: Dante non dice “ha”, ma “ebbe” → la scelta è verso un verbo che rende un’azione puntuale e non
durativa. Si aprono quindi delle considerazioni intorno al fatto che Dante dà un distacco temporale tra il presente e il tempo in cui
Guido disdegnò la fede (forse ora crede??).

Le sue parole e ’l modo de la pena


m’avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena.66

Mi avevano già dichiarato il nome: Dante aveva immediatamente riconosciuto il padre dell’amico, perciò la risposta fu così chiara,
piena, densa.

Di sùbito drizzato gridò: "Come?


dicesti "elli ebbe"? non viv’elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?".69

Si verifica un equivoco: la scelta del verbo al passato remoto, sottolineata dinanzi, fa pensare al padre che il figlio sia già morto.

Il padre, prigioniero dell’amore per il figlio, si dispera: “Come mai hai detto “egli ebbe”? Non è ancora vivo? Non ferisce gli occhi
suoi il sole → non vede più la luce del sole?”

Quando s’accorse d’alcuna dimora


ch’io facëa dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora.72

Dante non comprende le domande/ i dubbi del padre perché non conosce ancora quel meccanismo per il quale i dannati non
conoscono il presente. Questo indugio di Dante non fa altro che confermare a Cavalcante, in modo affermativo, la sua domanda: il
padre interpreta il silenzio di D come una risposta affermativa.

Cavalcante ricade giù supino e scompare.


Questa del padre è una figura straziata, addolorata per il figlio in un modo tutto terreno; così come è caratterizzata dal dolore la
figura di Farinata.
BOCCACCIO, DECAMERON: VI GIORNATA, NOVELLA NOVE (B272)
Attraverso la commedia, abbiamo conosciuto alcuni aspetti di Guido Cavalcanti: quello della magnanimità, della fierezza, del
coraggio, dell’altezza di ingegno, della libertà intellettuale, della statura di filosofo indipendente e libero, capace di non
assecondare le mode, le usanze e le abitudini. È esattamente in questo modo che lo rincontriamo anche nel Decameron.

Dobbiamo ricordare la grande devozione di Boccaccio per Dante: egli fu il primo commentatore della Commedia. Inferno X
rappresenta, quindi, sicuramente, l’archetipo su cui si fonda la figura di Cavalcante nel Decameron. Tuttavia, al di là di questo
rapporto diretto tra gli autori, è anche vero che il canto di Dante costruì proprio nell’immaginario collettivo, la figura del poeta,
diventata quasi leggenda per le sue qualità.

Siamo nella sesta giornata e la novella riferita a questo grande personaggio è la nona. Questa giornata è dedicata ai motti di spirito,
alle “facezie”, alle battute argute: si tratta di battute brevi e affilate che dimostrano l’intelligenza dell’uomo e che sono talmente
efficaci/ valide da permettere a chi le pronuncia e le sa ideare di superare circostanze difficili.
La novella di Guido è centrata su una battuta: egli risponde ad una banda di ragazzi, ad una comitiva di giovani, a tono. Quello dei
motti di spirito è uno degli aspetti più rilevanti di Boccaccio: più forse di quanto accada nella cultura odierna, questa tematica è
sempre stata uno dei pilastri della vita di relazione. Nei secoli, attorno alle facezie, si è costruita tutta una riflessione antropologica
e letteraria: si scrivevano manuali per saper ideare tali battute, con delle regole e un prontuario da seguire. Tra le indicazione che
l’uomo loquace doveva seguire, vi era per esempio il dover considerare il destinatario; oppure ancora il fatto di non umiliare, il
motto perfetto doveva essere calibrato ed equilibrato in base all’uditorio: non bisognava apparire villani o troppo volgari. Insomma,
serviva mostrare una certa eleganza per poter essere efficaci: vi era tutto un corollario di argomentazioni e consigli che la società
di antico regime avrebbe portato avanti e fatto confluire nel galateo (le regole delle buone maniere). Siamo all’interno di questo
aspetto importante della vita relazionale che riguarda lo statuto della comunicazione scritta e orale.

In questa novella, il protagonista è Guido Cavalcanti e l’ambientazione è fiorentina. Tra i temi che vengono scomodati vi è il
rimpianto delle buone maniere della città di una volta, della rettitudine della Firenze passata. Il perno della novella, tuttavia, è la
battuta come frutto dell’intelligenza (le battute sono punte della retorica/loquela umana che dicono dell’intelligenza di chi le
pronuncia, sono prova di acume).

Rubrica:
Guido Cavalcanti dice con un motto onestamente villania a certi cavalier fiorentini li quali soprappreso l’aveano.

Con una battuta/villania, Guido riesce ad offendere onestamente, con eleganza = ossimoro.
Risponde a questa brigata di giovani che lo avevano sorpreso e speravano di coglierlo in fallo; eppure, lui se la cava con una battuta.

Inizio:
Sentendo la reina che Emilia della sua novella s’era diliberata e che ad altro non restava a dir che a lei, se non a colui che
per privilegio aveva il dir da sezzo, cosí a dir cominciò:

Inizia dunque a parlare Elissa, la regina della giornata, e dice che le sue compagne hanno già esaurito due novelle che lei stessa
avrebbe voluto raccontare. Ella, quindi, racconterà una novella diversa, in conclusione della quale vi è un motto di spirito che forse
supera tutti gli altri in quanto intelligenza.

Critica (presente-passato)
Inizia il rimpianto delle abitudini delle tradizioni antiche (sempre più morigerate del presente): si tratta di uno stereotipo, che
riprende anche quello che era un tema dantesco (Dante non si risparmia nel criticare la corruzione della Firenze odierna in
contrasto con il passato → Boccaccio fa similmente). Tutte le belle usanze passate sono state superate, ci dice il narratore, a causa
dell’avarizia. Tra queste, vi era quella di radunare insieme gli uomini nobili, compagnie di giovani facoltosi e benestanti, che
passavano il tempo in sollazzi, cene e pranzi (per questo servivano persone che offrivano, che potevano spendere): ciascuno, a
turno, offriva il pasto a tutta la brigata. Queste brigate avevano, poi, l’abitudine di ospitare gentili uomini forestieri o loro
concittadini esterni al nucleo e di vestirsi nello stesso modo almeno una volta all’anno: si mascheravano. E nelle ricorrenze più
importanti usavano fare delle cavalcate per la città, facevano duelli/ tornei e parate: si tratta di abitudini che compivano per
festeggiare le occasioni più rilevanti e le belle notizie. Queste brigate rappresentano la PREISTORIA delle accademie moderne.

La brigata
Betto Brunelleschi, capo della brigata citata nella novella, è personaggio storico (come anche Guido), figura realmente esistita. Egli
aveva cercato in tutti i modi di unire al gruppo Guido Cavalcanti e ne avevano ben motivo. [anche la città è ritratta con realismo e
fedeltà storica]

Righe 18-22: lungo omaggio/encomio/elogio nei confronti della straordinaria figura di Guido Cavalcanti → egli aveva tutti i talenti
che questa brigata potesse desiderare: era uno dei migliori “loici” = filosofo, pensatore che il mondo avesse; ottimo filosofia
naturale (branca della filosofia che si prestava/scivolava facilmente nell’ortodossia/eresia → anticonformismo pericoloso che era
proprio anche della gioventù di Dante); anche se la brigata di queste cose non si curava molto = non erano filosofi, ma sarebbe
piaciuto loro almeno una volta di avere un gran filosofo nella loro brigata (importante queste sottolineatura del narratore:
scopriremo dopo che Guido risponderà a tono a questi ragazzi sottolineando con grande orgoglio la sua libertà intellettuale e la sua
intelligenza, rispetto a costoro che volevano solo divertirsi: ANTICIPAZIONE velata della conclusione, funzione prolettica del motto
di spirito). Egli era anche bravo a parlare, intratteneva facilmente ed era costumato. Era bravo a far tutto: ogni cosa pertenente
all’uomo gentile che voleva fare, la faceva meglio di chiunque altro; era splendido. E poi era ricchissimo: poteva pagare ed offrire il
pranzo alla brigata. Infine, sapeva onorare chiunque e qualunque cosa, se lo meritavano nell’animo.

Ma Guido non aveva mai accettato di unirsi a loro e Betto riteneva che questo suo comportamento derivasse dal fatto che,
abituato a dilungarsi nei suoi pensieri, fuggiva le altre persone, si isolava dagli altri (tipico del filosofo solitario).
Boccaccio riprende, poi, la traccia dantesca e contrassegna alla maniera epicurea della miscredenza la filosofia di Guido: egli
abbracciava il pensiero epicureo e si diceva, tra la gente volgare, che tutte le sue speculazioni erano intorno alla dimostrabilità della
non-esistenza di Dio.

L’incontro
In questa sequenza, vengono nominati tanti luoghi di Firenze. Boccaccio, tramite la narratrice, nomina orto San Michele =nota
come Orsanmichele, corrisponde alla chiesa di San Michele in Orto; Corso degli Adimari; ... Si tratta di indicazioni precise e reali che
figurano la mappa della città.

Un giorno, Guido arriva fino alla piazza del battistero, seguendo un percorso che era solito fare, e si trova dove all’epoca c’erano
ancora quelle arche (tombe) di marmo, che poi sono state spostate in Santa Reparata. Quindi, egli era tra le colonne del Porfido, le
arche e il battistero di San Giovanni: quasi estrema ed eccessiva la precisione della descrizione. È in questo punto preciso che
Guido si scontra con la brigata di Betto, che veniva a cavallo.
L’indicazione precisa delle arche serve per aggiungere realismo alla narrazione ma non solo: è ciò che, dal pdv narrativo, costruisce
in termini di immagine figurata, la memoria di questo luogo, a cui si legherà la battuta (si riallaccia, anche, alla memoria del padre
di Guido, nella commedia, tra le arche).

La brigata, indispettita della reticenza di Guido che non vuole stare con loro, si ferma per dargli noia; addirittura sprona quasi i
cavalli a dar contro al poeta. Essi rivolgono a Guido una domanda provocatoria: “Tu ti rifiuti di essere parte di questa brigata, ma
anche quando avrai portato a termine il tuo filosofeggiare, cosa avrai concluso/ottenuto?” → perché insisti a continuare questa tua
filosofia e non vieni a divertirti con noi?
Guido, vedendosi circondato da loro, raccoglie la sfida e risponde prestamente, subito/immediatamente (questo avverbio già
sottolinea come la sua risposta sarà appuntita e scaltra, e, inoltre, richiama quella velocità leggera di cui farà memoria Calvino:
indicherà Guido come esempio di leggerezza arguta).

Alla rapidità della battuta “Signori voi mi potete dire a casa vostra quello che vi piace”, corrisponde la rapidità del gesto immediato.
Egli spicca un salto dall’altra parte dell’arca a cui si era appoggiata e se ne va, liberatosi da loro. Questa battuta, dunque, si mette in
coppia con il gesto e questa leggerezza fisica di Guido corrisponde alla sua leggerezza/ rapidità/ intelligenza mentale (è filosofo
acuto, acuminato).

La rivelazione
Betto e i suoi compagni restano a bocca aperta perché non hanno capito il significato di questa battuta/ gesto. I giovani fiorentini
interpretano questo motto criptico di Guido come follia, lo indicano come smemorato= pazzo, perché la sua risposta non voleva
dire nulla. Loro avevano inteso che Guido avesse detto loro di stare zitti perché quella non era casa loro: eppure, loro non hanno
meno diritti degli altri fiorentini. Messer Betto, a differenza dei suoi compagni, intuisce il significato della battuta e rimprovera la
brigata: se voi non avete capito il senso della battuta, siete voi i pazzi, gli insulsi, i malsani.

Betto si accorge che Guido ha risposto a tono, offendendo i giovani: il suo era un insulto (la maggior villania) detto, però,
onestamente, con eleganza. Nel rispondere, Guido ha, infatti, definito velatamente i membri della brigata come “morti”: il luogo in
cui si trovavano, pieno di arche, è individuato da Guido come la casa degli idioti, peggio che morti per lui.
Il suo salto, poi, era stato un gesto per distinguersi da quella brigata e per rivendicare la sua “superiorità vitale”: tra di loro, era lui il
vero vivo, mentre loro, oscurati dall’ignoranza, continuavano ad essere morti, propri di quel luogo. Egli, quindi, si allontana e spicca
il salto, non volendo far parte dei morti.

Attraverso le parole di Betto, il lettore comprende il significato metaforico di vivo e morto: il vero vivo è colui che pensa, riflette
attentamente sul significato della vita e della morte. Guido trascorreva le sue giornate ragionando sull’immortalità dell’anima, sulla
morte: ma così era il più vivo di tutti. Questi giovani, invece, passando il loro tempo a festeggiare con passatempi superficiali, in
realtà stavano morendo, erano “vivi morti”. L’antitesi diventa chiarissima: Guido non vuole far parte di loro perché non vuole
sprecare il suo tempo e questo loro vitalismo è, in realtà, peggio che la morte.
La brigata intende ora il vero significato delle parole di Guido e si vergogna. Da quel momento in poi, non interpelleranno più Guido
e stimeranno Betto come uomo saggio: ha guadagnato il titolo di persona sottile ed intendente; si è avvicinato per acutezza a
Guido. Il finale strappa un sorriso: contrasto tra la grossolanità di questi fiorentini e l’acutezza altrui.

Con questa novella, viene smontato lo stereotipo di filosofo immobile e passivo, incarnato da Guido, che emerge, ora, come agile
e vivissimo pensatore.
CAVALCANTI DI GUIDO: LA LEGGEREZZA
Questa leggerezza/rapidità di Guido colpisce la fantasia di Italo Calvino, che ne parla in un saggio della sua raccolta intitolata
“Lezioni Americane” (1988). Esse vengono considerate come il testamento poetico di Calvino, in quanto egli vi ha lavorato
nell’ultimissimo tratto della sua vita: lo scrittore era stato invitato ad Harvard a tenere queste Norton Poetry Lectures, che però
riesce a scrivere solo in parte, poiché morirà nel 1985. Alcune di queste restarono, quindi, in uno stato provvisorio dal pdv testuale
e vennero sistemate solo post mortem dalla moglie, Ester Calvino, e dall’amico fidato, Pietro Citati. Il testo delle lezioni americane,
fino a 15 anni fa, era rimasto pressoché estraneo al mondo letterario poiché recepito tardi dalla critica; ma negli ultimi anni, esse
sono state riscoperte e hanno ottenuto un grande successo, in quanto è proprio in questa raccolta che Calvino condensa i suoi
principi e valori fondamentali.

Egli scrive le lezioni intorno a cinque punti/valori che, a suo giudizio, la letteratura deve enfatizzare se vuole sopravvivere nel nuovo
millennio. Tra queste punti, al primo posto, troviamo la leggerezza. Questo valore è il più paradossale (altri titoli: rapidità,
esattezza, molteplicità, …): il titolo “Leggerezza” può risultare equivoco. Se consideriamo, per esempio, la novella di Boccaccio,
distinguiamo la leggerezza superficiale e spensierata dei giovani della brigata dalla leggerezza acuta, della pensosità, di Guido-
filosofo.

L’inizio
L’inizio di questa lezione è programmatico: Calvino inizia ricordando momenti della sua biografia, in particolare gli esordi di sé
scrittore

Comincerò dall’ultimo punto. Quando ho iniziato la mia attività, il dovere di rappresentare il nostro tempo era l’imperativo
categorico d’ogni giovane scrittore. Pieno di buona volontà, cercavo d’immedesimarmi nell’energia spietata che muove la
storia del nostro secolo, nelle sue vicende collettive e individuali. Cercavo di cogliere una sintonia tra il movimentato
spettacolo del mondo (la storia), ora drammatico ora grottesco, e il ritmo interiore picaresco e avventuroso che mi
spingeva a scrivere.

I primi testi da lui scritti (Il sentiero dei Nidi di Ragno, I racconti partigiani), rispondevano al dovere di rappresentare/ testimoniare
il tempo della guerra: si parla di una letteratura resistenziale/partigiana legata al realismo ed ispirata al particolare momento
storico. E per lui, questo tipo di rappresentazione era un imperativo categorico diffuso tra i giovani scrittori.
Quella che raffigura è la memoria della fatica degli inizi: Calvino anziano ricorda la sua difficoltà giovanile nel dover far combaciare
l’imperativo di rappresentare il peso della storia drammatica e grottesca con il ritmo picaresco, leggero e avventuroso, che lo
spingeva a scrivere.

Presto mi sono accorto che tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima e l’agilità scattante e
tagliente che volevo animasse la mia scrittura c’era un divario che mi costava sempre più sforzo superare. Forse stavo
scoprendo solo allora la mia pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo: qualità che s’attaccano subito alla scrittura, se non
si trova il modo di sfuggirle. In certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta
pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della
vita. Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa.

Queste righe iniziali della lezione, che sembrerebbero un puro ricordo autobiografico, in realtà costituiscono una vera e propria
introduzione a rallentatore verso il tema della leggerezza. La letteratura sa, infatti, raccontare in modo leggero, cose pesantissime.
Attraverso favole, immagini metaforiche, scrittura figurata, la letteratura può in un modo speciale descrivere con esattezza la
realtà, soprattutto se essa è drammatica e difficile. Inseriamo qui l’eco della novella di Boccaccio: Guido filosofo effettua un salto
leggerissimo e rivela così, attraverso la gestualità e, in precedenza, anche attraverso l’uso di parole argute, la sua altezza di ingegno,
che gli consente di trasmettere messaggi profondi in maniera leggera.

Ricordando le sue difficoltà, Calvino si libera da questa empasse, da questa sensazione di essere schiacciato dal peso della
memoria, rievocando il mito di Perseo e della Medusa. Esso soccorre la durezza, il dolore di dover raccontare la sofferenza
giovanile (anche qui notiamo combinazione leggerezza-profondità). Perseo è figura bellissima di eroe che vola con i sandali alati e
riesce, per primo, ad uccidere la Medusa: la sua vittoria è determinata non solo dal fatto di poter volare grazie allo strumento
divino/magico di cui è in possesso, ma anche perché non la guarda mai direttamente ma attraverso uno scudo. Egli è, quindi,
emblema e simbolo della parola letteraria e della leggerezza, come valore della letteratura, perché solo una visione indiretta (non
equivalente a visione di fuga, visione comoda) e, quindi, distaccata dalla realtà, permette un confronto, una conoscenza più esatta
ed efficace. La letteratura racconta favole, distaccandosi dalla realtà, per trasmettere verità, che raccontate direttamente non
sarebbero così apprezzate dai lettori (l’impegno è diverso: come quello che distingue la teologia/filosofia, che trattano del vero
diretto, dalla letteratura → tuttavia quella che raccontano queste discipline è sempre verità: ciò che varia non è la correttezza della
narrazione ma lo strumento usato per trasmetterla). In questo modo, attraverso un parlare indiretto, la letteratura ci permette di
non spaventarci e di non aver paura del vero: è una possibilità di salvezza.
Tenendo presente ciò, Calvino, quindi, non può che apprezzare la novella di Cavalcante.
Non potrei illustrare meglio questa idea (della leggerezza pensosa) che con una novella del Decameron dove appare il
poeta fiorentino Guido Cavalcanti. Boccaccio ci presenta Cavalcanti come un austero filosofo che passeggia meditando tra
i sepolcri di marmo davanti a una chiesa. La jeunesse dorée fiorentina (brigata) cavalcava per la città in brigate che
passavano da una festa all'altra, sempre cercando occasioni d’ampliare il loro giro di scambievoli inviti. Cavalcanti non era
popolare tra loro, perché, benché fosse ricco ed elegante, non accettava mai di far baldoria con loro e perché la sua
misteriosa filosofia era sospettata di empietà …

Ciò che qui ci interessa non è tanto la battuta attribuita a Cavalcanti (che si può interpretare considerando che il preteso
epicureismo del poeta era in realtà averroismo, per cui l'anima individuale fa parte dell’intelletto universale: le tombe sono
casa vostra e non mia in quanto la morte corporea è vinta da chi s’innalza alla contemplazione universale attraverso la
speculazione dell'intelletto). Ciò che ci colpisce è l'immagine visuale che Boccaccio evoca: Cavalcanti che si libera d’un
salto ‘sì come colui che leggerissimo era’. Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio,
sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la
sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa,
aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero di automobili arrugginite.

Calvino ci dice che il momento più bello della novella non è la battuta di Guido, ma l’immagine visuale rievocata. Interpretando,
esattamente, in chiave letteraria, la novella del Decameron, egli si concentra sul gesto come simbolo/metafora che meglio della
battuta comunica il messaggio.
Francesco Petrarca (Vita e opere del primo intellettuale europeo)
Francesco Petrarca può essere visto come il “codice” della lirica italiana: quando analizziamo/riflettiamo su testi lirici, parliamo
petrarchese. È un paradosso, che però serve per sottolineare come il DNA della lirica europea è un codice che trova nell’esperienza
di Petrarca la sua più compiuta realizzazione.

Vita
Petrarca (1304-1374) vive in un’epoca di tardo-medioevo, a ridosso dell’età moderna; cronologicamente, siamo ancora nell’età dei
comuni. Egli è contemporaneo a Boccaccio, di cui è grande amico, ed è vicino anche a Dante, ma tra i due, dal pdv culturale, cambia
la mentalità e il mondo: Dante è uomo, poeta e filosofo medievale, Petrarca è un intellettuale (termine che indica l’uomo di lettere
secondo un’accezione moderna e contemporanea: è forse già eccessivo utilizzarlo per Petrarca, più comune in riferimento agli
intellettuali del 800-900) europeo. Quest’ultimo aggettivo è fondamentale: la vita di Petrarca è molto movimentata; egli è
estremamente mobile, peregrino ovunque, senza patria. L’unica città a cui rimarrà sempre legato culturalmente sarà Firenze,
nonostante egli nasca ad Arezzo.
Quindi, la sua fisionomia geografica lo porta a transitare nelle corti d’Europa (inizialmente segue il padre notaio) e a diventare,
soprattutto ad Avignone in Provenza, dove cresce (nel 1312, quando è solo ragazzino, va in Francia a studiare in scuole di lingua
italiana), un uomo del “mondo”. È, infatti, in Francia che avviene la sua maturazione, a contatto con la corte pontificia.
In un primo momento, studia presso l’università di Montpelier, per poi proseguire i suoi studi di diritto presso l’ateneo bolognese.
In seguito, torna in Francia, dove ci sono i suoi amici e dove, anche, conosce Laura. Ritorna ancora in Italia, dove gira per le varie
corti, e ambisce a diventare poeta laureato: il massimo grado di riconoscimento per un uomo di cultura dell’epoca è la corona
d’alloro, che gli viene conferita insieme al titolo di “civis romano” (cittadino di Roma). Viaggia molto anche in Europa, dove nelle
regioni centrali, nelle vecchie zone dell’Impero (Germania, Svizzera, Belgio), visita le biblioteche dove trova, scova per primo, dopo
molti secoli, alcuni scritti in latino di cui si erano perse le tracce (Le lettere di Cicerone). Questo ritrovamento è salutato con
entusiasmo in Europa: lui incarna, anche, la figura del rinnovatore della classicità/latinità ed esprimerà questo suo carattere
“latino” in molti dei suoi scritti (es. l’Epistolario è una delle sue opere più rinomate, interamente scritta in latino). Il latino di
Petrarca e della generazione che da lui prenderà piede diventa la lingua d’Europa e lo sarà per molti secoli (lingua internazionale
prima dell’inglese). Petrarca, quindi, non è solo patrimonio italiano ma anche dell’intera cultura occidentale.

Il Canzoniere
Il Canzoniere è la principale raccolta di liriche di Petrarca ed è l’opera di una vita. Gli studiosi hanno approfondito in dettaglio la
storia di questo libro e ne hanno ricostruito il percorso di composizione (in maniera più o meno fedele). Tale itinerario ha una prima
tappa significativa nel 1342, quando Petrarca dà forma alla prima redazione del Canzoniere, realizzandone la prima raccolta
organica durante il soggiorno a Valchiusa. Essa sarà seguita da numerose altre edizioni fino alla morte dell’autore. Petrarca, infatti,
ritornerà più volte sulla raccolta e compirà un “labor limae”, un lavoro continuo di correzione, per raggiungere la perfezione
formale.

Le poesie non sono riordinate necessariamente in maniera cronologica: Petrarca le organizza secondo un ordine del tempo libero,
dettato dal suo io interiore. Esse sono ripartite canonicamente in due sezioni e l’anno spartiacque è quello della morte di Laura:
abbiamo delle poesie sulla/ per la morte di Laura e testi riguardanti l’innamoramento, ma che, per l’importanza della
rielaborazione, sono collocati dopo la morte della donna. Dal pdv della sequenza interna, il testo si stacca, quindi, dalla realtà e
tale distacco si ripresenterà anche in altri campi dell’opera: la portata simbolica, astratta, del Canzoniere è enorme.
I componimenti, sin dalla prima stesura, sono 366: numero simbolico che richiama i giorni di un anno bisestile. Questo ha portato
numerosi commentatori a considerare un Canzoniere come un “breviario laico”: il breviario è l’insieme delle letture, solitamente
religiose, che occorre fare quotidianamente. Petrarca, ad un certo punto nella sua vita, infatti, prende gli ordini minori per
convenienza, come si era soliti fare all’epoca, e ciò, probabilmente, ha influenzato la struttura della sua opera.

Questo libro è solo in apparenza il racconto dell’amore tra il poeta e la donna amata, ma in realtà parla soltanto dell’io di Petrarca:
il protagonista assoluto, totale, è l’io che scrive e le poesie sono come frammenti dell’anima del poeta (MODERNITA’). Tutto è
incredibilmente polarizzato sul soggetto che parla: la funzione emotiva è portata all’ennesima potenza; Petrarca non importa dei
lettori, ma sfogare il proprio io e garantirsi un posto per l’eternità (gloria poetica). Questa caratteristica è tipica del genere della
lirica, in quanto strumento attraverso il quale la scrittura letteraria esprime l’io: dovremo cercare questa funzione emotiva nei testi
lirici anche quando sembrano parlare di altro (politica, storia, …).
Il Canzoniere, quindi, è un testo epocale perché permette alla cultura europea di ritrovare la strada per l’introspezione, per scavare
dentro l’io, tema così centrale nella cultura classica (sebbene in forme diverse), e che era stato un po’ dimenticato nell’epoca
medievale. L’uomo medievale, per tutta una serie di motivi ideologici e culturali, fatica nel parlare di sé e la sua dimensione vera è
quella proiettata fuori di sé, verso Dio e il Paradiso. Tra l’altro, in epoca medievale, la poesia era stata lasciata da parte, quasi
demonizzata, perché considerata come una distrazione e i poeti erano stati condannati.
Il Canzoniere è considerato un capolavoro della letteratura italiana proprio perché esso si propone come la dimostrazione che
questo scavo interiore può essere raggiunto solo attraverso la poesia; a tal punto che l’arte, quasi, diventa un’ossessione per
Petrarca ed egli le affiderà un compito nobilissimo e il ruolo più alto: Petrarca sostituisce a Dio la poesia (genere già in parte
nobilitato da Dante). Nei secoli successivi, questa confusione tra arte e vita sarà, poi, molto indagata.
Per la sua impronta autobiografica, il Canzoniere è anche detto romanzo autobiografico (non per cronologia o per forma).
RVF (Rerum vulgarium fragmenta) 3 [B 91]
Rerum vulgarium fragmenta: titolo latino che originariamente Petrarca usava per la sua opera e che poi è stato soppiantato da l
termine “Canzoniere”.

Introduzione
Il testo n 3 è un componimento che ricorda l’innamoramento, il momento d’inizio della storia d’amore, raccontato per la prima
volta dall’autore: Petrarca, poi, lo riprenderà in altre sue poesie; in particolare, egli aveva l’abitudine di celebrare l’anniversario
dell’innamoramento, dedicando testi su testi a quel momento così importante. L’innamoramento avviene, nel racconto, il 6 aprile
1327. Siamo nella chiesa di Santa Chiara d’Avignone durante la funzione per il Venerdì Santo: i personaggi dovrebbero, quindi,
essere lì concentrati esclusivamente sulla passione di Cristo, sul dolore della morte di Gesù; eppure, Petrarca verrà distratto…
Altro riferimento cronologico importante riguardante la vita di Laura è il 1348, data che corrisponde alla morte della donna come
anche allo scoppio dell’epidemia pestilenziale.
Laura è esistita storicamente, non è figura d’invenzione: questo innamoramento, raccontato nella poesia, è avvenuto veramente,
ma non il 6 di aprile, bensì il 10 aprile → c’è una differenza cronologica tra il momento reale e il momento assunto come simbolico,
dentro il racconto. Petrarca vuole, quindi, collocare quel fulmineo innamoramento il giorno della morte di Gesù: questo è un primo
esempio di come la realtà venga continuamente trasfigurata dentro l’invenzione poetica.

Il testo

Riflessione sulla parafrasi: quella a destra è solo una delle possibili proposte di parafrasi, che cerca di avvicinarsi il più possibile (c’è
sempre una perdita) al significato esatto trasmesso dal testo poetico. Di parafrasi, quindi, ce ne possono essere diverse: non solo
perché unico e inafferrabile è il messaggio trasmesso dalla poesia (Croce diceva che le poesie sono tutte individui: l’incontro, la
sovrapposizione, avviene raramente), ma anche perché canonicamente, attraverso l’educazione scolastica, si impartisce il concetto
di “parafrasi” con sfumature differenti. La nostra definizione di parafrasi si costruisce sui seguenti punti:
1. Tradurre le parole straniere: i testi sono scritti in petrarchesco e noi dobbiamo tradurli nel nostro italiano moderno. Ci
sono, infatti, parole che hanno mantenuto significato e altre che lo hanno cambiato.
2. Sciogliere le metafore e figure retoriche simili (metonimie, sineddoche, perifrasi): individuare e sciogliere il linguaggio
metaforico (distinguere l’aspetto connotativo e denotativo della parola)
3. Riordinare le parole: la poesia lavora combinando e selezionando e la catena sintattica dei poeti è diversa dall’ordine
consueto del parlato.

Questo testo ricorda, dunque, il momento dell’innamoramento e lo fa, ribadendo la certezza della colpa: Petrarca si sente in colpa
per questo amore nei confronti di Laura, in quanto lei, a differenza di Beatrice, non è scala a Dio, ma tentazione, distrazione, colei
che distoglie. L’inquietudine dell’io è, quindi, la sofferenza per questa lacerazione interna che rimane irrisoluta. Inoltre, questo
componimento vuole contemporaneamente dichiarare la colpa e anche discolparsi: sebbene si senta in colpa per l’amore che prova,
non vorrebbe mai abbandonare il pensiero di Laura.

Era Venerdì Santo, il giorno in cui


Era il giorno ch’al sol si scoloraro Al sole si spensero i raggi a causa del dolore per la morte di
per la pietà del suo factore i rai, Gesù, figlio del creatore
quando i’ fui preso, et non me ne guardai, Quando io mi innamorai, e non badai ad impedirlo
ché i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro. Perché (tanto) o tuoi occhi (sguardo) belli, Laura, mi
affascinarono

La prima quartina confessa la colpa.

I primi due versi sono una lunga perifrasi per dire che era il Venerdì Santo: Petrarca si sofferma, attraverso dei giri di parole, su due
tratti distintivi del giorno della morte di Cristo, che possano indicare tale evento in maniera univoca. Tuttavia, non è proprio
formalmente corretto parafrasare semplicemente con “Era Venerdì Santo”, perché Petrarca vuole mettere sotto gli occhi il tema
del dolore di Gesù, che lui avrebbe dovuto patire in quel momento invece che perdersi nella donna amata. Ai fini della trasmissione
dei messaggi, quindi, ricordare la pietà di Gesù non è indifferente ed inutile. Poi, c’è un altro motivo, più sottile e profondo, per cui
è importante parafrasare in maniera ampia: i raggi del sole. Questo elemento, infatti, si lega, dal pdv semantico e simbolico, agli
occhi della donna nel quarto verso: i raggi come vettore di luce, luce che si sposta, sono collegati con una linea immaginaria agli
occhi di lei, la parte del corpo che, secondo la tradizione, dà inizio all’innamoramento, dai quali escono gli spiritelli che entrano nel
cuore. Notiamo, dunque, come già all’inizio del componimento ci viene presentata, indirettamente, la lacerazione di Petrarca: gli
occhi di lei che vengono confusi ambiguamente e gravemente con i raggi del Sole, della Divinità. Subito, Petrarca indica a lui e a noi
questa sovrapposizione, questo contrasto

Pietà: termine attenuante che indica la morte di Gesù (eufemismo)


Factore: latinismo, indica il creatore
Che si scolorarono: con al sol, forma un’allitterazione di -s che muovono il ritmo.
Il verbo prendere: è metaforico, usato già dalla tradizione lirica precedente. L’innamoramento per cattura, di sorpresa, era una
situazione topica nella lirica classica, con tutte le relative figure (lacci, catene) connesse all’immagine. Sia l’immagine sia il lessico
funzionano (Iacopo da Lentini, inventore del sonetto e uno dei primi poeti italiani, aveva già utilizzato il verbo prendere in questo
senso; anche Dante nella Vita Nova “amor prende all’improvviso”) → va modificato nella parafrasi: quando io mi innamorai.
E non me ne guardai: non badai ad impedirlo, non resistetti → per esprimere questo concetto, il poeta utilizza pur sempre un
verbo relativo alla vista, al campo semantico del raggio, della luce
Occhi: sguardo
Donna: Laura, mia innamorata (non lasciare donna)
Mi legaro: nello stesso campo semantico di prendere (apocope/ caduta della sillaba finale -no: obiettivo di fare la rima)

Tempo non mi parea da far riparo (enjambement) Non mi sembrava il momento di dover resistere
contra colpi d'Amor; però n'andai (enjambement + forte) contro l’intensità della passione: pertanto stavo
secur, senza sospetto: onde i mei guai sicuro, senza sospetto; perciò i miei lamenti
nel comune dolor s'incominciaro. iniziarono nel dolore (lutto) comune (della
commemorazione).

La seconda quartina fornisce una piccola progressione di significato: dopo aver confessato la colpa, il poeta inizia a lavorare per
discolparsi. Il senso della quartina è: posso essere giustificato, ricordando che, in quella circostanza, il contesto non mi portava ad
essere pronto a reagire.

Riparo: appartiene al lessico militare, guerresco come prendere, legare → è una metafora
Contra colpi d’Amor: contro la forza dell’amore. Risolvere la personificazione (affinché avvenga compiutamente, il concetto
astratto dovrebbe anche agire come una persona) del concetto astratto: posso lasciare amore, ma senza maiuscola.
- Allitterazione della sillaba -co che duplica i colpi
Enjambement: si ha quando la sequenza sintattica continua da verso a verso, prescinde dalla sequenza grafica, dagli a capo.
Però n’andai secur… senza sospetto: questa sequenza ha un’allitterazione delle -s che la isola e la sottolinea, similmente a “contra
colpa”. L’enjambement che separa i versi, quindi, rafforza l’impatto delle due allitterazioni. Ma, oltre all’aspetto sonoro,
quest’espressione “secur senza sospetto” si lega ad un’eco letteraria (Dante, Inferno V: Francesca: “senza alcun sospetto”):
Petrarca, attraverso questa citazione, vuole richiamare il più grande innamoramento per sorpresa mai raccontato e ricordare che
anche Francesca provava a discolparsi del suo amore colpevole, ma umano, senza premeditazione. Quello che Petrarca confessa
appare, dunque, peccato, come quello di Francesca prima di lui, ma pur sempre degno di pietà.
[Rapporto tra Dante e Petrarca: entrambi avevano un io notevole e si specchiano/ soffrono nel loro rapporto; P considerava D
come una figura paterna, ma anche modello da superare; il richiamo, quindi, è continuo e non va visto come un limite, ma come un
valore aggiunto che lo porta a trovare dei percorsi alternativi raffinati tipici dell’arte di Petrarca]
Onde… s’incominciaro: conclusione piana, constatazione.
Onde può essere una semplice indicazione di tempo, ma ha anche valore finale/causale
Guai va tradotto: all’epoca di Petrarca indicava i guaiti, le voci di lamento, che per metonimia parafrasiamo con dolori. È
un’espressione figurata.

Trovommi Amor del tutto disarmato, Ero del tutto impreparato alla passione
et aperta la via per gli occhi al core, E facilmente furono gli occhi (la vista) a provocare il
che di lagrime son fatti uscio et varco. sentimento
Quegli occhi che ora piangono tanto

Il tentativo di discolparsi prosegue nella prima terzina.

Amor: personificato
Disarmato: ancora metafora delle armi
Primo verso: allitterazioni -m che legano la terzina alla quartina precedente dove avevamo, sulla fine dell’ultimo verso (comune
dolore incominciaro), un’ugual allitterazione.
Immagine finale della terzina: ribadisce la colpa e il pentimento → gli occhi che prima erano strumento di innamoramento, ora
piangono. Con lo stesso organo, Petrarca parla della facilità dell’innamoramento e il pentimento successivo.
Aperta la via per gli occhi al core: non c’era nessun ostacolo che impediva la strada dagli occhi al cuore. In altri componimenti,
Petrarca vagheggia e si rammarica di non aver chiuso gli occhi: il tema degli occhi aperti o chiusi torna con insistenza.
In particolare, nel Canzoniere, funziona un modulo estetico specifico che è quello della variazione sul tema, che oggi noi moderni
fatichiamo a percepire (perché noi ci compiacciamo più del nuovo): sempre la stessa cosa ma con variazioni minime che, però,
producono l’apprezzamento.
Son fatti: verbo al presente, mentre gli altri sono al passato. Il tempo presente ribalta, nella contemporaneità dell’io, quel
momento: è una rievocazione, commemorazione, che trasfigura, secondo il presente, l’avvenimento passato. Petrarca rievocherà
più volte questo avvenimento variando il tema, perché la prospettiva commemorativa corrisponde a quella presente, non passata.
Ultimo verso: questa confessione di colpa, che si presenta patetica perché Petrarca piange tantissimo, è rievocata con una
dittologia (uscio e varco) sinonimica della stessa immagine metaforica (porta).
Qui, siamo giunti ad uno dei culmini del componimento: da qui in poi, Petrarca cambia tutto e tale cambiamento è inaugurato dalla
sua confessione patetica ed eccessiva, che ci insospettisce; l’ultima terzina sarà ancora più sorprendente.

Però, al mio parer, non li fu honore Però (ma), al mio parere, non fu un fatto onorevole, Laura,
ferir me de saetta in quello stato, avermi ammaliato mentre ero impreparato,
a voi armata non mostrar pur l'arco. e tu, invece, causa di ciò, restare del tutto indifferente.

Petrarca, nell’ultima terzina, mette da parte tutto ciò che ha detto finora e confessa l’inconfessabile: non sta soffrendo perché si era
innamorato, ma perché lei non ha ricambiato il sentimento. Dunque, il vero seme della poesia di Petrarca sta qui: nella
consapevolezza della colpa ma nell’incapacità di liberarsi da ciò che la provoca; e questa incapacità è un’incapacità che il poeta
dissimula, nasconde. [Il Canzoniere è oggetto di studio anche nel campo della psicanalisi e mette in luce la funzione terapeutica della
poesia, sia per chi scrive che per chi legge: cantando il duol si disacerba]

Li: particella pronominale riferita a lei. Laura non è nominata ma resta personifica nella figura d’amore. Per questo la particella
pronominale è al maschile: si riferisce ad Amore. [Il soggetto può essere anche Amore]

La difficoltà sintattica-logica della terzina sta nel fatto che Petrarca sdoppia e ricompone continuamente Laura e Amore. Amore
scocca le frecce e lei è a sua volta armata: l’arco sta in mano sia alla donna che ad amore, che quindi è come se si fondessero.
Questo provoca sorpresa e uno strano effetto che ritroviamo nella parte finale del componimento. Anche attraverso questo
sdoppiamento, il testo vuole svelare, mantenendolo, però, anche un po’ avviluppato, il lato oscuro e profondo del cuore diviso di
Petrarca; quella profondità che non si può dire e che si fatica a dire attraverso le figure. Tuttavia, sul finale, il senso dell’amore
irresistibile scappa fuori incontrollato.

RVF 90 [B 103]
È un sonetto più semplice, piano e convenzionale dal punto di vista logico e concettuale. È la lode della bellezza di Laura: è un
componimento che rievoca lei bellissima, vista per la prima volta, e, nel quale, al ricordo di lei subentra la costatazione del tempo
che passa e i danni che questo, insieme alla malattia, provoca sulla bellezza di lei. Uno dei temi rievocati è quindi quello della
bellezza che passa, che si contrappone all’amore del poeta per lei che, invece, sarà eterno: alla lode per la bellezza della donna,
parte canonica e tradizionale, Petrarca aggiunge di suo, come novità, l’affermazione della perennità dell’amore → l’amore vince il
tempo.

Erano i capei d’oro a l’aura sparsi I bei capelli biondi di Laura erano mossi dalla mite brezza
che ‘n mille dolci nodi gli avolgea, Che li avvolgeva in tantissimi morbidi riccioli
a ‘l vago lume oltra misura ardea E brillava a dismisura il seducente folgore
di quei begli occhi ch’or ne son sì scarsi; Dei suoi occhi belli, occhi che invece ora non brillano più;

Poiché il testo dichiara la vittoria dell’amore sul tempo, abbiamo tutti i tempi verbali: passato, presente, futuro (proiezione non
presente fisicamente nel testo ma dettata dalla metafora nell’ultimo verso).

All’interno del componimento e soprattutto all’inizio, Petrarca gioca con il nome della donna. Laura è il nome della donna
realmente esistita ed amata da Petrarca: si tratta di un nome ricco di riferimenti e possibilità.
1. Laura è il femminile di lauro, che rimanda all’alloro, la pianta della corona dei poeti (ciò che incorona a memoria i poeti: i
poeti laureati sono coloro che risiedono nell’Olimpo, coloro destinati a durare per sempre). Questa pianta era usata
rievocando ciò che raccontavo Ovidio nelle Metamorfosi: Apollo, dio della poesia, si innamora di Dafne, ninfa, che però
non vuole cedere alle sue lusinghe; quest’ultima si rivolge alla divinità che la salva trasformandola in una pianta d’alloro.
Come Apollo desidera e si porta con sé la pianta d’alloro, allo stesso modo il poeta ambisce alla corona che lo renderà
laureato. Quindi, Laura incarna, per Petrarca, la poesia: il senso di colpa di Petrarca riecheggia nell’aver scambiato
qualcosa di imperituro, la salvezza dell’anima e la fede, con qualcosa di ambiguamente legittimo, l’arte. La gloria che
Petrarca desidera è quella dei posteri e il suo tempo infinito è mondano; ma egli è anche uomo di fede sincera e per
questo soffre. Quando Petrarca ricorda l’innamoramento, in realtà, riflette sul tema dell’arte (Il Canzoniere parla di
amore solo in apparenza e per questo è moderno, supera la classicità).
2. C’è anche l’oro nel termine Laura: mentre lo pronunciamo richiama aura, femminile dell’aggettivo auro, simbolo di
divinità.
3. L’aura, nella tradizione dei poeti a cui Petrarca appartiene, è anche la brezza che spira dal paese dove sta lei. Ci sono
molti componimenti, infatti, “i testi di lontananza”, dove il poeta piange la lontananza della donna amata, vagheggia il
ricongiungimento e sente il profumo di lei portato dall’aura, non altro vento.

e ‘l viso di pietosi color farsi, Allora mi sembrava che il suo viso esprimesse affetto per me
non so se vero o falso, mi parea: Non so se in realtà o per mia illusione
i’ che l’esca amorosa al petto avea, Io, che avevo l’animo pronto ad innamorarsi
qual meraviglia se di subito arsi? C’è da meravigliarsi de subito mi appassionai?
Non era l’andar suo cosa mortale, Il suo portamento era talmente sublime sa sembrare non
ma d’angelica forma, e le parole umano,
sonavan altro che pur voce umana; ma di un angelo; e le sue parole
avevano un suono diverso da quello della semplice voce
umana

uno spirito celeste, un vivo sole Era tanto bella che addirittura mi sembrò di vedere un
fu quel ch’i’ vidi, e se non fosse or tale, angelo, una divinità
piaga per allentar d’arco non sana. E se anche ora non fosse più bella come la vidi
Io non smetterei di amarla, come una ferita non si rimargina
quando l’arco si allenta.

Piaga per…: quando l’amore colpisce, la ferita che provoca continua a far male, anche quando l’arco si allenta. Questa immagine
figurata contiene il tempo del futuro (Contini). L’energia del gesto dell’arco che scocca la freccia è data dalla sentenza (frase che ha
valore universale, che perdono riferimenti contingenti di chi le pronuncia e ascolta): è la forza della sentenza che spinge la freccia.

RVF 35 [B 95]
La solitudine
Questo sonetto tratta (oltre che della “materia amorosa”) del tema della solitudine. Esso è famoso perché considerato come uno
tra gli archetipi più celebri della poesia occidentale/ europea sulla ricerca della solitudine come soluzione e rimedio alle sofferenze
amorose. È un tema antico che troverà una riproposizione e un’attualizzazione anche in epoca romantica: gli esponenti di tale
periodo culturale si ritroveranno spesso nell’immagine dell’uomo che soffre e che cerca conforto nella solitudine della natura.

Il tema della solitudine è antichissimo e controverso: noi che usciamo dalla stagione romantica, abbiamo un giudizio non negativo
di tale figura del solingo (Foscolo, Leopardi), che ritrova in questa sua condizione le corde della comunicazione e dell’espressione
più profonda. Ma la cultura classica e quella medievale avevano dato dei giudizi un po’ diversi. Sant’Agostino, “padre spirituale” di
Petrarca, per esempio, aveva condannato la solitudine quando originata dal “furor amoris”: l’anima dell’uomo che si isola perché
innamorato corre rischi terribili. Poi, la cultura successiva avrebbe cambiato e rinnovato questa idea di solitudine.

Già nel componimento di Petrarca vediamo l’idea di sintonia con la natura, che sarà ripresa dai romantici. Il componimento
anticipa anche il tema dell’uomo che si isola perché non viene rispettato dagli altri: Petrarca si lamenta che deve fuggire nei luoghi
solitari perché tutti leggono la sua passione in faccia, una passione di cui deve vergognarsi. È, quindi, il tema del misantropo che si
isola per evitare le molestie degli altri.

Forma e struttura: la ricerca dell’equilibrio


Il sonetto, dal pdv formale e della struttura, è caratterizzato da un grande equilibrio: esso è costruito su una serie di strutture
binarie, di coppie, che lavorano sul modulo del DUE, responsabili, per l’appunto, dell’equilibrio strutturale. La struttura binaria
(basata sul parallelismo o sull’antitesi) è, infatti, più monotona ed equilibrata rispetto ad altre strutture, quale quella terziaria, che
si presentano maggiormente movimentate. Questa armonia è confermata dalla forma delle strofe che, sempre canoniche e
inscritte nella tradizione del sonetto (due quartine e due terzine), risultano compatte: ogni strofa, cioè, contiene e racchiude un
concetto; non ci sono legami o legamenti (pochi enjambement) tra una strofa e l’altra dal pdv sintattico, ma pause forti.

Non ostenta la passione, ma è appassionato


Gianfranco Contini, uno dei più raffiniti lettori della poesia del Novecento, diceva che questo sonetto è uno di quei testi che non
ostenta la passione, non brucia, non dà incandescenze, si presenta molto equilibrato e vago nelle indicazioni (non si nomina mai
Laura; il paesaggio è solo evocato; il poeta non dice motivo della sofferenza). La passione descritta è, quindi, una passione che non
viene ostentata o esplicitata, eppure il lettore non può mancare di ricevere come messaggio della comunicazione una passione
irresistibile, che porta a qualcosa disumano. È un equilibrio un po’ particolare quello del componimento, che si destreggia tra
strutture molto armoniche e posate e un contenuto davvero terribile.

Analisi
Solo et pensoso i più deserti campi Solo e pensieroso percorro in lungo e in largo,
vo mesurando a passi tardi et lenti, con passi pesanti e lenti, i campi più disabitati
et gli occhi porto per fuggire intenti e tengo gli occhi ben attenti ad evitare
ove vestigio human l’arena stampi. 4 i luoghi segnati dalle impronte umane.

La quartina contiene l’indicazione della ricerca della solitudine: cerco rifugio nei luoghi solitari, dove non ci siano tracce umane.

Solo e pensoso: va bene parafrasare con pensoso; ma pensieroso sottolinea il fatto che pensoso è un aggettivo che, all’epoca di
Petrarca, contiene un intensivo: ereditando un po’ alla latina, le desinenze osus (e simili) indicavano un’intensità. Pensoso anticipa,
quindi, la solitudine pensierosa di chi rimugina in maniera ossessiva un pensiero dominante (in questo caso quello dell’amore).
Inoltre, la coppia solo-pensoso è enfatizzata dalla ripetizione dei suoni, della vocale “o”.

Campi- vo mesurando: qui c’è enjambement. Questa inarcatura/arco tra i due versi è giustificato e costruito anche dall’inversione:
abbiamo il complemento oggetto che anticipa il predicato (anastrofe: i più deserti campi vo mesurando). Questa inversione,
insieme all’enjambement, crea l’effetto di legare i due versi tra loro.

Vo mesurando è una metafora e una perifrasi (non dice misuro): misurare non è soltanto prendere la misura materialmente, ma c’è
l’idea di indicare a rallentatore questo passo lungo, tardo, lento, pesante, pensieroso del poeta innamorato.

Passi tardi e lenti: pesante e lento. Questi aggettivi, che qualificano il modo di camminare, indicano la lentezza, la pensierosità.
Sono una coppia, non esattamente di sinonimi: tardo, in latino, significa anche pesante non solo in ritardo, ha con sé il significato
del peso, di avere una certa gravità ambito (fisico).

Terzo verso: doppia anastrofe. E porto gli occhi intenti per fuggire = giusto ordine. Petrarca crea due coppie dividendo a metà gli
elementi e li inverte con questa doppia anastrofe (struttura coppia rimane nella struttura) che, secondo i commentatori, determina
un incredibile rallentamento, tanto lento quanto il passo di P. Vediamo, quindi, come l’immagine poetica si realizza tra suoni e
contenuti.

Verso quarto: il poeta vuole isolarsi, quindi, vuole evitare e fuggire i luoghi segnati dalle impronte umane. Vestigio = è l’impronta,
termine latino.

Stampino l’arena: si imprimano sulla sabbia, sulla terra. Questa parafrasi è troppo letterale: bisogna indicare che P voleva evitare la
gente, non le impronte o i luoghi (c’è, quindi, una figura retorica da sciogliere: impronte per persone = sineddoche; o luoghi segnati
per gente che vi abita = metonimia)

Altro schermo non trovo che mi scampi Non trovo altra difesa che mi sottragga
dal manifesto accorger de le genti, dal fatto che la gente comprenda chiaramente
perché negli atti d’alegrezza spenti perché dai miei gesti privi di allegria
di fuor si legge com’io dentro avampi: 8 si capisce esteriormente come nell’intimo soffra per amore

Petrarca si vergogna dell’amore e vuole tener nascosta la passione. Secondo un antico topos l’amore deve, infatti, restare segreto.
A questo topos antico e letterario (della lirica stilnovista: es. le donne dello schermo) si affianca qui, nella coscienza di P, un’altra
verità che è portata dalla cultura cristiana: la persona sincera non nasconde i propri sentimenti e, infatti, secondo tale morale
religiosa, il viso deve essere specchio dell’anima. Abbiamo due elementi culturali che si scontrano: il viso deve essere mostrato ma
l’amore nascosto. Petrarca, quindi, vuole tenere segreto l’amore ma se ne sente in colpa.

La solitudine viene cercata per evitare la gente: il poeta, in questa quartina, specifica com’è questa gente.

Schermo: difesa, rimedio. Viene dal lessico militare nel senso di riparo durante una battaglia. Questo giustifica anche il verbo
scampare, aver salva la vita da qualcosa che uccide, che rimanda anch’esso al lessico militare (tipico delle schermaglie d’amore)
Che mi scampi: che mi sottragga

Secondo verso: accorger genti = significa che la gente si accorge del sentimento di lui (accorgere= curiosità, indiscrezione,
invadenza). Manifesto = aggettivo che qualifica il comportamento della gente e che P usa per sottolinearne la curiosità, l’invadenza,
il fatto di esser pettegola: la gente, infatti, non solo si accorge del sentimento di P ma lo manifesta, lo condivide, chiacchiera;
Petrarca viene preso in giro. (anche nel sonetto proemiale diceva di esser stato favola, oggetto di scherno da parte degli altri → per
questo cerca solitudine)

Terzo verso: (perché la gente si accorge del suo amore?) dai miei gesti privi di allegria. Spenti: metafora.
Litote: privi di allegria → poiché comunica in modo referenziale, possiamo non scioglierla (oppure sì: gesti disperati // gesti privi di
allegria). Petrarca sceglie di usare la litote e il verbo metaforico “spenti” per creare un’opposizione con “avampi” → campo
semantico dell’accensione amoroso, fuoco d’amore

Quarto verso: antitesi giocata su campo semantico della luce (spenti-ardenti); ma antitesi costruita anche tra fuori e dentro (fuori si
legge che dentro…)

sì ch’io mi credo omai che monti et piagge Tanto che io credo ormai che addirittura i monti, le pianure,
et fiumi et selve sappian di che tempre i fiumi e i boschi conoscano la qualità
sia la mia vita, ch’è celata altrui. 11 della mia vita, che invece è nascosta agli altri (a Laura)

Il sentimento amoroso è irresistibile, non si riesce a tenere a bada e si esprime manifestatamente, anche attraverso la disperazione
e la tristezza. È qui che i romantici intravedevano la tanto cara figura della malinconia: essa fu un carattere dell’animo che
attraversò i secoli. Quel temperamento saturnino, che già gli antichi avevano individuato come amico dell’ispirazione poetica, poi,
diventa malattia che provoca squilibrio degli umori interni: gli uomini medievali temevano la malinconia come fosse una malattia,
una pazzia, una follia (eccessi da controllare). Infine, in epoca romantica, l’umore malinconico diventa nuovamente segno
dell’ispirazione poetica. Queste riprese dei secoli successivi hanno in componimenti come quelli di Petrarca un momento
fondamentale.

Il poeta non riesce ad esercitare l’autocontrollo: non solo sfugge davanti alle altre persone ma, tanto è forte all’amore, anche di
fronte alla natura. Nemmeno davanti a questa risulta padrone di sé.

Tanto che (non solo le altre persone mi prendono in giro) ma addirittura io credo ormai che… : IPERBOLE
Gli elementi si impadroniscono e conoscono l’io.

Monti et… selve: quattro elementi disposti a due a due (ritornano i numeri pari). Tali sostantivi sono legati tra loro da congiunzioni
(et… et): si tratta di polisindeto = serie/accumulo con elementi di congiunzione espressi (questo aumenta l’accumulo: attraverso
questi quattro elementi, Petrarca indica tutta la natura)

Tempre: è la tempra, usato anche oggi nell’accezione petrarchesca, significa qualità. Si avvicina al verbo temperare: quando un
metallo si distillava per bene e se ne raggiungevano le sostanze primarie, si otteneva la tempra; tale verbo significa, cioè, raffinare
in riferimento ad un metallo, purificare e lasciare l’essenza.

Fin qui (secondo verso della prima terzina) il componimento aveva seguito un percorso consecutivo, logico. Il finale di questa
terzina, tuttavia, è sorprendente, dà una progressione notevolissima non proporzionata alla misura dal pdv del concetto: nei versi
precedenti si era dilungato su come il suo sentimento fosse a tutti manifesto, ma ora rivela che c’è una persona che non lo conosce,
la donna stessa.

Altrui: il poeta fa rimare altrui con lui, ultima parola della terzina seguente. Questo pensiero ossessivo che è sempre con lui, in
realtà, non lo conosce davvero: è davvero l’alienazione perché il pensiero lo domina senza conoscerlo. Qui è ancora un po’
ambiguo, si scioglie dopo (quindi nella parafrasi si può mantenere altrui, ma anche dire Laura è giusto → questa seconda opzione di
parafrasi è la soluzione relativa alla psiche più profonda; mentre la prima è un po’ più superficiale)

Ma pur sì aspre vie né sì selvagge Eppure, non so trovare luoghi così impervi e selvaggi
cercar non so ch’Amor non venga sempre dove (che) il pensiero di Laura non mi sovvenga
ragionando con meco, et io co·llui. 14 in continuazione, insistente.

Finale: il messaggio è che io, per quanto vada per luoghi isolati e lontani, non riesco a trovare un posto dove star da solo perché
l’amore mi trova sempre. Questi versi contengono la dichiarazione del tormento del poeta, dell’origine del suo dolore; quella che,
esagerando, noi moderni chiameremmo alienazione: il poeta, l’io non è mai solo o libero, ma è sempre occupato nelle mani di
qualcun altro; e, quindi, il soggetto non è padrone di sé.

Coppie ancora presenti: aspre e selvagge

Aspra: metafora

Ultima terzina: il fatto che sia un’ossessione psicologica ed interna è spiegato dall’ultimo verso, che dice due volte la stessa cosa →
Ragionando io con me e io con lui: serve per aggiungere la sfumatura di significato del pensiero ossessivo

LE RACCOLTE EPISTOLARI DI PETRARCA


Riflessione sulla lingua
La lettera relativa alla scalata al monte Ventoso è, insieme a quella per la
OVERVIEW…
posterità, uno degli scritti di prosa più famosi di Petrarca. Essa fa parte della Lettere Familiari (350 epistole latine):
produzione latina dell’autore; una lingua che per Petrarca costituiva quasi
- Umanesimo (scoperta 1345 Cicerone)
una lingua madre: era talmente familiare e naturale, affine alle corde dello
- Redatte tra il 1350-1366
scrittore, che egli la considerava più vicina rispetto, addirittura, al comune
- Un autoritratto modellizzante (nella
volgare. Quando Petrarca dialogava quotidianamente, infatti, non adoperava forma e nel contenuto)
la lingua volgare letteraria italiana, quella che usò per scrivere il Canzoniere e - La grandezza degli antichi
i Trionfi (e che aveva adoperato Boccaccio per scrivere il Decameron): essa
era solo una lingua di cultura, lontana dalla lingua naturale e parlata, che
corrispondeva, invece, all’italiano contaminato dalle parlate regionali, quelle che noi oggi definiamo come dialetti. La situazione
linguistica dell’epoca non prevedeva, dunque, l’apprendimento del latino dai libri e la parlata naturale dell’italiano; era quasi il
contrario: il latino era la lingua della religione, della chiesa, delle preghiere, che anche a livello mnemonico entrava nel ritmo e nelle
attitudine linguistiche degli uomini del tempo; mentre l’italiano, quella lingua “nazionale” diffusa, era artificiosa e usata solo a
scopo letterari.

Il latino impiegato da Petrarca è il latino classico (ci sono stati tanti latini quante sono state le epoche della nostra storia:
bisognerebbe fare una riflessione sulla storia del latino; ancora oggi è la lingua ufficiale del vaticano e viene usata in poesia, come
anche da alcuni cultori che scrivono in neolatino): si tratta di un latino che l’autore modella volutamente sulla letteratura latina
classica, arricchendolo, però, con qualche varietà/ peculiarità tipica della sua forma corrente e della lingua medievale.

Le raccolte epistolari
La lettera del Ventoso è tratta da una raccolta epistolare che Petrarca intitola “Familiari”. Non possiamo non notare che il titolo
della raccolta è lo stesso che Cicerone aveva usato per le sue lettere, considerate come il grande modello epistolare della latinità:
questo riflette la grande attenzione che Petrarca riservava ai classici latini. La raccolta comprende un numero corposo di lettere
(350), a cui l’autore dedica lo stesso labor limae e cura che aveva riservato alle sue poesie. Insieme a questa raccolta, citiamo l’altra
celebre opera epistolare di Petrarca: le Senili (130 epistole).
Le due raccolte, insieme, vanno a modellare/ costruire un corpus che rispecchia, appunto, il modello ciceroniano. Petrarca assume
tale modello adeguandosi, da una parte, alla grande importanza di questo autore latino; ma, dall’altra, nel suo caso, questa scelta
assume un valore biografico importante: lui nel 1345 scopre/riscopre le lettere di Cicerone dentro i manoscritti della biblioteca
Capitolare di Verona; manoscritto che era rimasto nascosto per molto tempo. Con il verbo ritrovare intendiamo riconoscere di
nuovo: accadeva spesso, infatti, in passato, che importanti testi letterari, scientifici e di altro genere venissero trascritti senza titolo
o indicazione d’autore e che, quindi, andassero perduti o venissero riconosciuti solo dopo lunghi periodi di tempo.

L’umanesimo
Questa scoperta fornisce l’entusiasmo a Petrarca per la composizione delle Familiari; ed è soprattutto per questa raccolta che si
soliti ricordare Petrarca come il primo autore dell’umanesimo italiano ed europeo.
“Umanesimo” (corrente di pensiero centrale nella produzione di P) è un termine che afferisce alla centralità dell’uomo: l’obiettivo
di questo movimento fu, infatti, quello di riportare l’uomo al centro, rispetto all’epoca medievale che aveva considerato l’uomo
come importante solo in rapporto a Dio, in funzione al divino (anzi, la fase umana era vista come un momento da superare per
accedere finalmente al divino). Gli umanisti, invece, con la scorta degli antichi, rimettono al centro l’uomo, che diventa misura del
pensiero, dell’arte, della politica, di tutto. Ma, accanto alla centralità dell’uomo, umanesimo significa anche ritornare agli antichi: il
movimento umanistico e tutti gli umanesimi che si sono succeduti nei secoli successivi sono delle correnti di tipo classicista, che
riscoprono e sottolineano l’importanza dei classici e degli antichi.
Ma in che modo riprendono gli antichi? Gli umanisti non si rivolgono al passato come se fosse una reliquia, come un oggetto da
venerare, in senso erudito e passivo; essi riprendono gli antichi considerandoli come contemporanei: li vedono come lontani nel
tempo, ma non completamente diversi; o meglio diversi ma capaci di dialogare proprio perché diversi; capaci, nella loro diversità,
di servire per il presente. Il rapporto che gli umanisti stabiliscono con gli antichi è, insomma, un rapporto di ammirazione,
imitazione e dialogo: il tema del dialogo umanistico è, infatti, un topos della cultura di tale periodo; Petrarca parlava con Cicerone,
questi gli rispondeva e nelle sue lettere Petrarca racconta tale dialogo. La storia antica era, dunque, sentita anche come
contemporanea, partendo dalla consapevolezza della crisi del presente che porta a guardare con ammirazione e rimpianto il
passato.
A prova di questa grande ammirazione che gli umanisti riservano nei confronti dell’antichità, riportiamo una parte della lettera ai
Posteri (“Posteritati”), scritta da Petrarca:

Tra le tante attività, mi dedicai singolarmente a conoscere il mondo antico, giacché questa età presente a me è sempre
dispiaciuta, tanto che se l’affetto per i miei cari non mi indirizzasse diversamente, sempre avrei preferito d’esser nato in
qualunque altra età; e questa mi sono sforzato di dimenticarla, sempre INSERENDOMI SPIRITUALMENTE in altre
(Posteritati)

Questo passaggio epistolare è estremo e l’autore si presenta come eccessivamente pessimista: egli indirizza un’enfasi positiva verso
il passato e una critica negativa al presente. In altre testimonianze biografiche, tuttavia, c’è la prova che, in realtà, Petrarca abbia
voluto agire nel presente (la critica che viene spesso fatta a questi movimenti umanistici è quella che gli intellettuali sono troppo
passivi, si trattengono nel passato e non vivono il presente): egli fu anche rivoluzionario in una piccola parentesi della sua vita; non
era in fuga dal tempo attuale però era consapevole della decadenza attuale rispetto al passato (che, secondo Petrarca, non va
dimenticato; come invece alcune correnti medievali oscurantiste desideravano).

Lo scavo interiore
L’idea dell’umanesimo si concentra, inoltre, sull’interiorità dell’uomo: gli antichi e i classici (prevalentemente latini) erano, infatti,
considerati dagli umanisti come coloro che meglio avessero indagato l’uomo in quanto tale, l’uomo e la sua interiorità, l’animo
umano. Nell’introspezione, gli antichi erano visti come maestri insuperati. È quello che anche noi diciamo ancora oggi: la cultura
classica non è asservita a nulla, non ha uno scopo immediato o pratico, ma la sua importanza risiede in un valore intrinseco (la
classicità vale in quanto tale). Essa ha abituato per secoli l’uomo a guardarsi dentro, lo ha educato a raffinare il pensiero: la cultura
classica è una sapienza che educa i modi del pensiero, nei contenuti e nella forma (attraverso la filosofia e la logica), in modo tale
che questo strumento, il pensiero, possa essere utile alle altre discipline. È una forma mentis che educa il pensiero attratto e che,
proprio perché rinforza tale pensiero astratto, dona la libertà: rende l’uomo capace di sviluppare un senso critico, scevro da
pregiudizi e impedimenti, distaccato dalle cose e, quindi, libero. Tutte queste idee arrivano a noi occidentali dall’umanesimo, che
ha in Petrarca uno dei suoi capisaldi.

L’io nelle lettere di Petrarca


Le lettere di Petrarca sono le tessere di questo scavo interiore, di questo ragionamento sull’uomo e, attraverso di esse, Petrarca
percorre le tante strade della sua interiorità. Infatti, i testi perdono il loro valore contingente: pur essendo spesso lettere vere e
proprie (hanno destinatario, datazione e luogo) e presentandosi come documenti pratici, nella penna di Petrarca diventano testi
letterari, sganciati dal presente. Le epistole richiamano, infatti, oltre al loro impegno come documenti, questa esigenza di tracciare
un autoritratto modellizzante dell’io: coerentemente con gli scritti del Canzoniere, Petrarca scrive delle raccolte che hanno sempre
in mente il sé.

FAMILIARI IV 1, LA SCALATA AL MONTE VENTOSO [B 134]


Introduzione
Siamo nel quarto libro delle Familiari e la lettera presa in analisi, come la tipologia testuale alla quale si riferisce, ha un’indicazione
cronologica, un’indicazione di luogo e dei destinatari, degli emittenti esplicitati a cui è rivolta. La lettera è, infatti, un genere
testuale particolare: nasce come un testo di servizio che prevede normalmente queste indicazioni di concretezza. Ma, in realtà, la
Familiare in questione è un testo che assume un valore assoluto di testo letterario, che serve a tutti e che va al di là del punto
concreto del qui, in tutte le dimensioni (tempo, luogo e persone): l’autore lavora da poeta/ letterato e non da semplice segretario
in tutte e tre le dimensioni. Questa trasposizione della lettera da testo di servizio ad opera con valore assoluto vale per tutte quelle
epistole con valore letterario, non solo per questa: si tratta di una verità generale.

Si tratta di un testo che racconta di un viaggio: la scalata al monte ventoso, un’escursione che Petrarca fa per raggiungere la vetta di
questo monte. Siamo nell’aprile del 1336 (24-26 aprile), quando P decide di dirigersi verso le pendici di questo monte, che si trova
vicino a Valchiusa, in Provenza, dove P ha vissuto nei suoi anni giovanili.

Quando: Una scrittura immediata o meditata?


Questa scalata, stando al resoconto che ne fa Petrarca, viene raccontata immediatamente per lettera, la sera stessa della gita.
“E io, mentre i servi si affaccendavano a preparare la cena, solo mi ritrassi in un angolo della casa, per scriverti, in fretta e
improvvisandola, questa lettera; perché differendo la non volevo che, mutandosi con i luoghi anche i pensieri, mi cessasse
il desiderio di scriverti.”

Tale passaggio, tratto dalla fine della lettera, dimostra come la scrittura dell’esperienza sia, apparentemente, immediata. Nella
finzione della lettera, infatti, l’autore immagina di scrivere immediatamente; ma l’epistola, in realtà, risale al 1352-1353. Solo a
distanza di parecchi anni, dunque, l’autore racconta questo avvenimento, immaginando di scrivere immediatamente: c’è una
rielaborazione sul fattore temporale significativa. Probabilmente, dicono i commentatori, P avrà scritto all’epoca una bozza, un
piccolo resoconto dell’evento nel suo diario; ma solo anni dopo, deciderà di riprendere quella scrittura privata e ricomporla sotto
forma letteraria, sottoforma di epistola. Questo fatto è significativo: il presente della lettera non coincide con il presente di ciò che
viene raccontato; il racconto è distante dalla storia. Questa distanza temporale assume un significato e va interpretata.

Ancora sul tempo: lettura 1-5 righe


Oggi, soltanto per il desiderio di visitare un luogo famoso per la sua altezza, son salito sul più alto monte di questa
regione, che non a torto chiamano Ventoso. Da molti anni avevo in animo questa gita, poiché, come tu sai, fin dall'infanzia
io ho abitato in questi luoghi per volere di quel destino che regola i fatti degli uomini, e questo monte, che è visibile da
ogni parte, mi stava quasi sempre davanti agli occhi.

In queste prime righe, Petrarca inserisce tutte le dimensione cronologiche: il passato, il presente e, addirittura, anche il futuro,
quando evoca il destino che ordina e decide della sua vita. Così, egli ci confessa implicitamente che questa scalata, e soprattutto la
trasfigurazione letteraria di quel viaggio, ha un valore che prescinde dal tempo, vale per sempre: è qualcosa che ha in mente da
sempre, alla quale continua a pensare e a cui non smetterà mai di pensare.
Anche terminata la gita, quel monte, che è simbolo di qualcosa, è sempre davanti agli occhi: assume un valore individuale notevole.
La dimensione del tempo dal passato si sposta verso il presente, e, poi, anche verso il futuro. La dimensione cronologica aperta
spinge all’indietro, non solo nei termini individuali della vita di P (era da tanti anni che voleva scrivere su questa gita), ma
addirittura scavalca i confini biografici per andare indietro nella storia antica. Petrarca, cioè, autorizza l’importanza di questo
viaggio facendo appello ai classici, agli autori latini.

Gli antichi. Righe 5-13:


Provai l'impulso di mettere finalmente ad effetto quel che ogni giorno avevo in mente, soprattutto ieri quando, rileggendo
le storie di Livio, mi capitò a caso quel passo nel quale Filippo re dei Macedoni - quello che fece guerra coi Romani - ascese
l'Emo, monte della Tessaglia, dalla vetta del quale credeva egli con altri che si vedessero due mari, l'Adriatico e l'Eussino;
ciò che io non so se sia vero, perché quel monte è molto lontano da noi e la discordia degli scrittori rende dubbio il fatto.
Per citarne soltanto alcuni, il geografo Pomponio Mela non esita ad affermarlo; Tito Livio crede falsa la notizia; io, se la
salita dell'Emo fosse facile come lo è stata del Ventoso, non riterrei più dubbia la cosa.

Siamo ancora all’inizio del testo: è una sorta di proemio e introduzione al testo. Petrarca dice che la molla, la vera molla che ha
fatto partire l’iniziativa del viaggio e del racconto, è la lettura di un episodio analogo nelle storie di Livio. L’episodio a cui Petrarca fa
riferimento appartiene, in particolare, alla quarta decade delle storie di Livio, che è quella che lui stesso ha riscoperto: le storie di
Livio sono state recuperate solo in parte, non completamente, e alcune sono state rintracciate da Petrarca. Nell’opera, Livio aveva
raccontato di Filippo V, re dei macedoni, che aveva compiuto un’escursione sul monte Emo, che si trova in Tessaglia (Bulgaria), dal
quale Filippo assicurò di esser riuscito a vedere due mari: sia l’Adriatico, sia l’Eussino (il mar Nero). Petrarca, però, avanza il dubbio
sull’effettivo svolgimento dell’impresa: non si sa se sia vero o meno, perché il monte è molto lontano e non possiamo provarlo
replicando l’impresa; inoltre, già molti autori si sono dimostrati discordi su questo evento. Dopo aver riportato i pareri di alcuni
grandi storici, Petrarca conclude con una frase che lo porta ad avvicinarsi alla fonte che ha letto e che lo spinge a desiderare di
scalare l’Emo, come ha fatto col Ventoso.
Poco dopo nella lettera, Petrarca confessa di aver osservato, anche lui come Filippo, il panorama dalla cima del monte Ventoso,
vedendo da una parte l’Italia (si immagina Bologna e i luoghi della sua giovinezza) e dall’altra i Pirenei. Al di là del dato erudito, è
importante sottolineare il grande valore che P aveva assegnato a tale episodio classico, capace di stimolare la voglia di compiere
qualcosa di analogo.

Dove?
Per quanto riguarda i luoghi, il luogo dell’escursione è, per l’appunto, il Monte Ventoso in Provenza, vicino a Carpentras. Ma la
geografia che Petrarca riporta è in realtà allegorizzata, idealizzata, tutta interiore: essa assume questa dimensione più alta, ampia, e
universale, grazie al riferimento agli antichi. Questi luoghi, cioè, esistono davvero e sono lo sfondo di un evento che avviene nella
realtà (anche se su tale fatto si potrebbe anche dubitare: non c’è l’assoluta certezza e nemmeno importa); tuttavia, questa salita
vale come un viaggio dentro l’interiorità, è simbolica, va al di là della lettera, significa altro. Qui, entriamo nel genere di tutte le
scritture che raccontano di salite (Dante stesso, per esempio, deve salire la montagna del purgatorio): esiste una dimensione
allegorica che vede nella salita il superamento di una certa serie di ostacoli e di difficoltà per raggiungere la vetta (è uno dei vettori
simbolici più semplici).

Chi?
Petrarca si presenta nel testo come autore-personaggio con cui il lettore si può facilmente identificare: il lettore si mette al posto
dell’autore come in tutti i testi classici letterari (se un testo funziona, ci deve essere possibilità di immedesimazione).

Apriamo un discorso sul destinatario della lettera. Da un lato, dal pdv della teoria letteraria, il destinatario siamo noi, i posteri:
Petrarca ambisce alla fama imperitura e quando scrive ha in mente noi, futuri lettori; la lettera appartiene, infatti, alla raccolta delle
“Posteritati”. Ma, nell’immediato, il destinatario è l’amico Dionigi da Borgo San Sepolcro, monaco agostiniano che ha avvicinato
Petrarca alla lettura di Sant’Agostino e quindi considerato come una sorta di guida spirituale. Tuttavia, quando Petrarca scrive la
lettera (dà al racconto la forma di epistola letteraria), Dionigi è morto da 10 anni: è una figura la cui storicità vale fino a un certo
punto; egli mantiene valore per ciò che ha importato in termini spirituali e di meditazione interiore nella biografia di Petrarca.
Dionigi è una persona a cui Petrarca pone domande e che a sua volta (almeno in teoria) risponde: egli fa parte, quindi, di quella
categoria di interlocutori con cui il poeta dialoga, così come alcuni antichi (Petrarca, nelle Familiari, dedica delle lettere a Cicerone,
Seneca e Virgilio); rientra nella famiglia di quei compagni, amici simili a sé e confidenti che Petrarca individua. All’interno di questa
categoria, costruita sulla presenza di uomini dotti e saggi, nominiamo anche Sant’Agostino, Sant’Antonio Abate (entrambi nominati
nella lettera) e Seneca (idealmente nominato) [Virgilio].
Questa indicazione di persona deve essere completata nominando il fratello Gherardo. Poiché la lettera costituisce un racconto, ci
sono, infatti, dei personaggi (per esempio, Petrarca nominerà anche un vecchio incontrato sul cammino) e il coprotagonista è il
fratello, scelto perché amico ideale per compiere questo viaggio.

Il fratello Gherardo: righe 13-29


Ma per lasciare quel monte e venire a questo, mi parve scusabile in un giovane di condizione privata ciò che non fu
biasimato in un vecchio re. E pensando io alla scelta d'un compagno, nessuno dei miei amici - strano a dirsi - mi parve in
tutto adatto; tanto anche tra persone care è rara una perfetta identità di volontà e di sentimenti. L'uno era troppo pigro,
l'altro troppo sollecito; questi troppo lento, quello troppo veloce; uno troppo triste, un altro troppo allegro; altri troppo
sventato, altri troppo prudente; di uno mi faceva paura la taciturnità, di un altro la vivacità; di questo la pesantezza e la
pinguedine, di quello la magrezza e la debolezza; di uno mi spiaceva la fredda indifferenza, di un altro l'esagerata attività;
tutti difetti che, anche se gravi, si tollerano in casa - poiché l'affetto tutto sopporta e l'amicizia non ricusa alcun peso -, ma
che in un viaggio diventano più gravi. Perciò l'animo mio incontentabile, desideroso d'onesto diletto, guardandosi attorno
faceva i suoi apprezzamenti senza recare offesa all'amicizia, e tacitamente rifiutava tutto ciò che gli pareva dovesse
intralciare il disegnato viaggio. Che cosa pensi? Alla fine mi volsi agli aiuti di casa mia, e mi confidai con l'unico mio
fratello, di me minore, che tu ben conosci: egli non poteva ricevere più lieta proposta, ben contento di esser da me
considerato e amico e fratello.
Il fratello Gherardo, più giovane di 3 anni, è figura centrale nella biografia di P. Ad un certo della sua vita, Gherardo diventa, infatti,
monaco (nel 1343), come Dionigi e la sua scelta mette in crisi P, tanto erano uniti e vicini. Ma Petrarca entra in crisi non tanto per
timore di perderlo, quanto per il fatto che la spiritualità/religiosità di Petrarca era dubbiosa e alla costante ricerca e, paragonata
alla scelta sicura del fratello, appariva incerta.

Una perfetta identità di volontà e sentimenti: spia che ci segnala che Petrarca, in realtà, vuole andare da solo a fare questa gita. Il
fratello Gherardo funziona perché è una parte di sé e rientra, quindi, nella dimensione solitaria e introspettiva che domina questo
viaggio, che è una gita dentro l’io del personaggio. Insomma, questa scelta delle persone che fa Petrarca, Dionigi già morto come
destinatario e Gherardo alter-ego del sé, confermano il fatto che ad occupare interamente il testo sta l’io.
Quindi, sia la dimensione del tempo che la dimensione dello spazio (è una geografia allargata che perde il suo valore concreto:
richiamo a luoghi antichi e familiari) che i riferimenti alle persone attestano la centralità assoluta dell’io: la lettera, di fatto, è un
autoritratto e vale in quanto tale.

La salita al monte Ventoso


Dopo la premessa e l’introduzione, abbiamo il racconto della gita vera e propria. All’interno della storia, si costituiscono sin da
subito spinte dovute a dei vettori, a delle forze, che polarizzano la materia raccontata. La più semplice di queste coppie che si
costituisce è quella basso-alto. C’è questo desiderio ad andare verso l’alto, che, ad un certo punto, perde il valore della vetta e
diventa desiderio di raggiungimento di un traguardo interiore; il basso invece è segno e luogo dell’errore, dell’incertezza, del
dubbio, del peccato. Si tratta, dunque, di una dicotomia, di una coppia, la cui lettura simbolica è immediata. A questa coppia, ne
associamo un’altra importante: agilità-fatica. Petrarca, infatti, nel racconto, procede a fatica, sbaglia più volte strada, è ansimante,
cerca scorciatoie; il fratello, invece, che ha ben in mente l’obbiettivo, che non è confuso, procede con agilità e sveltezza. Il fratello
incarna, dunque, la parte dell’io che salva la coscienza, la parte buona che indica la retta via. Francesco, invece, è attanagliato da
quei dubbi continui, già presentati nel Canzoniere.

Riassunto righe 30-46: Il racconto inizia con la narrazione dell’avvio del viaggio: dopo aver transitato in un paese alle falde del
monte, i due fratelli aspettano l’alba del giorno nuovo e, con due servi, iniziano la salita, che da subito si presenta con qualche
difficoltà. Ma Petrarca non si abbatte e, ricordando il proverbio delle Georgiche di Virgilio “L’ostinato lavoro tutto vince”, con
grande impegno si avvia a salire la montagna.
Incontrano il primo ostacolo: Petrarca racconta l’incontro con questo vecchio pastore che, con molte parole, cerca di distogliere lui
e il fratello dal salire. Costui narra loro che, anni fa, lui stesso aveva deciso di partire, con lo stesso ardore giovanile, ed era riuscito a
raggiungere la cima, ma non ne aveva riportato che delusione e fatica. Tuttavia, nonostante questo tentativo dell’anziano signore,
in Petrarca e Gherardo la voglia di salire non diminuisce, anzi “aumenta per il divieto il desiderio”. Questo ostacolo può
rappresentare, in chiave simbolica, una prima occasione di pigrizia, volta a confondere il viaggiatore, ma che viene subito messa da
parte dalla baldanza giovanile.

Righe 45-56 : le coppie basso-alto, agilità-fatica


Ma, come spesso accade, a quel primo grande sforzo segui presto la stanchezza; sicché ci fermammo su una rupe non
molto lontana. Ripartiti di li, avanzammo, ma più lentamente; io soprattutto m'arrampicavo per il montano sentiero con
passi più moderati, mentre mio fratello per una scorciatoia attraverso il crinale del monte saliva sempre più in alto; io, più
fiacco, ridiscendevo verso il basso, e a lui che mi chiamava mostrandomi la via giusta rispondevo che speravo di trovare un
più facile accesso dall'altro fianco del monte, e che non mi rincresceva di fare una via più lunga ma più agevole. Era questo
un pretesto per scusare la mia pigrizia, e mentre i miei compagni erano ormai in cima, io erravo ancora nelle valli senza
che mi apparisse da alcuna parte una via migliore; il cammino diveniva più lungo e l'inutile fatica mi stancava.

Questo paragrafo ci presenta in maniera esplicita la differenza tra Gherardo, che ha una facilità e rapidità nel procedere che deriva
dalla chiarezza di intenti; e Petrarca che, invece, è attardato dalla pigrizia. Ma questa pigrizia va al di là del difetto del corpo e si
connota come quella accidia che appesantisce l’animo e allontana dall’obiettivo giusto, ma anche più faticoso rispetto alle facili
scorciatoie. Questo tema della pigrizia e dell’accidia, trattato qui in maniera semplice, è presente anche nel Canzoniere: una delle
colpe più gravi che Petrarca si auto-attribuisce è la sua pigrizia morale, la sua debolezza d’animo, la sua incapacità di resistere alle
lusinghe del peccato; vedere il giusto ma non raggiungerlo per debolezza è, secondo l’autore, colpa gravissima.

Righe 59-74/ 81-83: ancora coppie


Avevamo appena lasciato quel colle, ed ecco che, dimentico del primo errore, io comincio a rivolgermi in basso, e di
nuovo, attraversate le valli alla ricerca di una via più facile, mi trovo in mezzo a gravi difficoltà. lo cercavo di differire la
noia del salire, ma la natura non cede all'umana volontà, né può essere che un corpo discendendo, salga in alto. Che
più? Tra le risate di mio fratello, in poche ore ciò mi successe tre volte e anche più. Così, pieno di delusione, mi sedei in
una valle; e li, passando con l'agile pensiero dalle cose materiali alle incorporee, mi rivolgevo a me stesso con queste o
simili parole: - Quello che tante volte oggi hai provato nel salire questo monte, sappi che accade a te e a molti quando si
accostano alla vita beata; e se di ciò gli uomini non così facilmente si accorgono, gli è che i moti del corpo sono a tutti
visibili, quelli invece dell'animo invisibili e occulti. La vita che noi chiamiamo beata è posta in alto; e stretto, come dicono, è
il sentiero che vi conduce. In mezzo sorgono molti colli, e noi dobbiamo procedere con nobile incesso di virtù in virtù; sulla
cima è il fine estremo e il termine della via, meta del nostro viaggio. Lassù tutti vogliono arrivare, ma, come dice Ovidio:
«volere è poco; bisogna desiderare ardentemente per raggiungere lo scopo ».
[…] Questo pensiero non è a dire quanto mi rinfrancava il corpo e l'animo a compiere il resto del cammino.

Questo secondo paragrafo denuncia l’incapacità da parte dell’autore di imparare dagli errori. Petrarca, infatti, cercava di rinviare
la fatica, ma la natura non cede all’umana volontà: il peso del corpo si sente e grava sulle gambe, producendo quella fatica
impossibile da trascurare. Anche queste semplici righe, apparentemente descrittive di un moto fisico, vanno interpretate in senso
allegorico: la natura è un grande ostacolo per la volontà umana, che deve essere forte per resisterle; occorre essere padroni di sé,
pienamente, per resistere ai colpi della natura e non si può credere che, cedendo ai colpi della natura, si possa essere nobili
d’animo. E il fratello, in quanto monaco, aveva una forza di spirito maggiore rispetto a quella di Petrarca.

Numero simbolico tre: tutto è in chiave allegorico in questo testo. Tale lettura interpretativa non è forzata, ma era proprio quella
che Petrarca voleva costruire, in quanto all’epoca questo tipo di scrittura e di successiva interpretazione era molto diffuso.

La valle (attenzione al lessico), per antonomasia, è quella dei peccati e delle lacrime da cui l’uomo va salvato (es: valle infernale di
Dante).

Petrarca ci dà delle indicazione chiare: passando dalle cose materiali alle incorporee. Egli ci autorizza, cioè, ad andare al di là del
piano materiale e interpretare allegoricamente, in senso morale e di pensiero, il racconto.

Petrarca, successivamente, riflette sul fatto che i piaceri bassi e terreni sono i più facili e appetibili, allettanti, a cui naturalmente/
istintivamente saremmo più portati; ben più arduo e faticoso, è volgere, invece, il pensiero alle cose nobili, spirituali, alte, che, al
tempo stesso, sono quelle che valgono di più. Noi uomini dobbiamo patire questa facilità nell’errore.

Di fronte alla constatazione della debolezza umana, il pensiero volge a Dio. Il conforto è trovato nel pensiero della salvezza,
dell’aiuto, del soccorso fornito da Dio. L’animo è, quindi, rinfrancato a procedere.

Sulla vetta
Righe 90-101
Sulla cima c'è un piccolo ripiano, dove finalmente stanchi ci riposammo […]. Dapprima io rimasi come istupidito da
quell'aria insolitamente leggera e da quel vasto spettacolo. Guardo dietro di me: avevo sotto i piedi le nubi; e subito meno
incredibile mi parve ciò che avevo letto e udito del monte Athos e dell'Olimpo, vedendo il medesimo fenomeno in un monte
di fama tanto minore. Volgo poi gli occhi verso l'Italia, dove più tende l'animo mio; e vedo come vicine, sebbene siano
tanto lontane, quelle Alpi gelate e nevose, attraverso le quali passò una volta quel feroce nemico del nome romano,
rompendo con aceto le rocce, come narrano (Annibale). Mandai, lo confesso, un sospiro verso quel cielo d'Italia che
appariva al mio animo più che allo sguardo, e mi prese un immenso ardore di rivedere l'amico e la patria […]

[…] Entrò poi in me un nuovo pensiero, che mi fece passare dai luoghi ai tempi. - Oggi - dicevo a me stesso - compiono
dieci anni da quando, lasciati gli studi giovanili, abbandonasti Bologna; e (oh, immutabile sapienza dell'eterno Iddio!)
quanti e gravi cambiamenti sono in te avvenuti nel frattempo! Tanti che neppure li enumero; poiché non ancora son
giunto in porto, così da poter sicuramente parlare delle passate tempeste.

Anche questo semplice passaggio descrittivo e pittoresco viene elevato: il fatto di essere in cima alla vetta e vedere il mare delle
nuvole è riportato alla cultura classica.

Notiamo che l’Italia è ricordata come patria: è forte l’aspetto civile in Petrarca.

La visione dell’Italia non è una vera visione: Petrarca volge gli occhi verso la nazione e immagina, gli pare d’intravedere i luoghi
lontani: dove non arrivano gli occhi, arriva l’animo sicuramente. Manda un sospiro a quel panorama: la visione del luogo e l’aria
rarefatta (che già purifica l’anima e il corpo: annuncia quello che avverrà in seguito) apre ad una geografia interiore; quei luoghi
evocati significano l’amico, la patria, gli anni giovanili, Bologna, tutti cambiamenti intervenuti dentro di sé.

Questo momento di esame di coscienza, inoltre, porta subito, all’improvviso e in maniera dura, la memoria dell’amore, della
debolezza dell’animo e della colpa del peccato; che trasferisce l’attenzione dai luoghi al tempo.

La consapevolezza e la confessione di una fortezza non raggiunta: non ha superato ancora le passate tempeste. Questa metafora è
un rinvio alla tempesta amorosa: nelle righe successive il poeta evoca ed esplicita il suo nemico per antonomasia, la passione
amorosa.

Righe 119-122: amore e gloria, terribili desideri


Nei passaggi successivi della lettera, questo ricordo dei luoghi porterà anche al pensiero del tormento amoroso e alla chiara
considerazione di come “quell’amore malvagio e perverso” (così Petrarca lo chiama in questi paragrafi) abbia lasciato il passo ad un
altro desiderio terribile, quello della gloria poetica. Il viaggio diventa, così, una confessione, una lettura interiore e
un’esplicitazione del proprio animo.
Molto ancora rimane in me di molesto e d'incerto. Non amo più ciò che solevo amare; dirò meglio: l'amo, ma meno; e
anche così mentisco: l'amo, ma con più vergogna e tristezza; ecco che finalmente ho detto la verità. [Poiché è proprio così:
amo ciò che vorrei non amare, anzi, che vorrei odiare; amo, ma di mal animo, costretto, addolorato, triste e piangente. E
in me faccio miseramente esperienza di quel verso d'un grande poeta: «Voglio odiarti, se posso; altrimenti t'amerò contro
voglia.»] Non sono ancora scorsi tre anni da quando quella volontà malvagia e perversa, che tutto mi possedeva e nelle
camere del mio cuore regnava senza rivali, cominciò a sentirne un'altra, ribelle e riluttante; e tra l'una e l'altra da un
pezzo, e anche oggi, dura faticosa e incerta nel campo dei miei pensieri la lotta per il dominio di quel doppio uomo che è
in me.

Inizialmente, si dimostra soddisfatto di essersi staccato dall’oggetto del desiderio ma, poi, ritratta quello che dice e i suoi sussulti
riprendono come “in diretta”: l’autore usa le forme e i modi della scrittura autobiografica; dice una cosa e poi la ritratta. Questo
tipo di scrittura cerca di ricalcare le riflessioni non lineari che avvengono nella nostra mente.

Questo sdoppiamento è la confessione incredibilmente diretta dell’alienazione del poeta (molto attuale come riflessione).

Petrarca parla della successione di una passione all’altra: dall’amore alla gloria, che appartengono alla stessa categoria valoriale, di
ciò che tiene l’uomo per terra = i beni terreni. Entrambe, infatti, annebbiano la libertà dell’uomo, quella padronanza di sé che, se
fosse sgombra da quelle incertezze, volontariamente/naturalmente/liberamente punterebbe al bene. Nella forma di pensiero di P,
che è sua ma è anche tipica della cultura occidentale e cristiana, la colpa nasce dall’incapacità umana (per debolezza, errore, …)
nell’individuare il bene: se l’uomo vedesse il bene, non potrebbe che farlo, che renderlo il suo obiettivo.

Agostino
Nelle righe successive, il poeta riflette e continua a descrivere quei moti alterni dell’animo: alla consapevolezza subentrano le
lacrime per l’instabilità comune a tutti gli affetti umani. Questi pensieri si abbinano sempre allo sguardo e al movimento: guarda
l’Italia e passeggia mentre pensa. Il tutto si svolge in un momento particolare della giornata: al tramonto, tra buio e luce.

In questo passaggio, interviene un elemento nuovo che viene in soccorso dell’io: il dialogo con gli antichi, elemento protagonista
dell’Umanesimo di Petrarca.

Righe 139-146
E mentre tutte queste cose a una a una ammiravo, e ora m'intrattenevo in pensieri terreni, ora sollevavo l'anima,
sull'esempio del corpo, a meditazioni più alte, mi venne in mente di consultare le Confessioni di Agostino, dono della tua
amicizia; libro che, in memoria dell'autore e del donatore, porto sempre con me e sempre ho tra mano; libretto di piccola
mole, ma pieno di dolcezza. L'apro per leggere quel che mi capitava; e cosa mi poteva capitare, che non fosse pieno di
pietà e di devozione? Mi venne sott'occhio il decimo libro. Mio fratello, aspettando per la mia bocca una parola di
Agostino, era tutto orecchi.

Ad esempio del corpo: come cercavo di far salire il corpo, cerco di elevare l’animo.

Antitesi tra la piccolezza del libro e la sua ricchezza, diventata ormai uno stereotipo nella letteratura, utilizzata da molti autori.

Qui si svolge il gesto delle cosiddette “sortes biblicae”, cioè, delle consultazioni casuali: era abitudine degli uomini di fede aprire la
bibbia a caso e lasciarsi guidare, ispirare dalla lettura che capitava; tutto nella convinzione che essa fosse la più giusta ed opportuna
per quel momento, in quanto mandata da Dio. Questo era un gesto anche pittoresco, tra la superstizione e la devozione, tipico
degli uomini di fede e abitudine degli uomini di lettere, dei clerici (uomini dotti e colti = solitamente erano uomini di chiesa, che
avevano avuto la possibilità di studiare; per questo è impiegato questo termine). In questo caso, Petrarca non ha la bibbia ma ha
con sé le confessioni di Agostino. L’autore, inoltre, presenta ancora l’identificazione e la contrapposizione tra il fratello e Petrarca:
Petrarca apre il libro per sé ma anche il fratello è pronto ad ascoltare.

La frase: righe 146-153


Chiamo a testimone Dio e lui ch'era presente, le prime parole che vidi furono: «E gli uomini se ne vanno ad ammirare gli
alti monti e i grandi Butti del mare e i larghi letti dei fiumi e l'immensità dell'oceano e il corso delle stelle; e trascurano se
stessi.» Stupii, lo confesso; e detto a mio fratello, il quale desiderava ascoltare ancora, che non mi disturbasse, chiusi il
libro, adirato contro me stesso per quella mia ammirazione delle cose terrene, quando da un pezzo avrei dovuto imparare
anche dai filosofi pagani che niente è degno d’ammirazione fuorché l’anima, per la quale nulla è troppo grande.

Ciò che trova scritto in quel libro è, dunque, un richiamo all’importanza dell’interiorità umana che è grandissima: niente è più
degno di attenzione che l’animo umano. Tutto il resto passa in secondo piano: i beni terreni sono inferiori a quello che è spirituale.
È una forma di biasimo quella presentata da Agostino.
È una dichiarazione del primato del pensiero, dell’animo (legato alle virtù antiche del controllo, della padronanza di sé, quella
saggezza nata dal controllo e professata delle filosofie passate) sull’azione, su ciò che sta fuori, sul mondo esterno. Questo è uno
dei passaggi principali per la costruzione di quel sistema di valori dell’umanesimo che sarà seguito dai posteri.
Filosofi pagani: non solo da Agostino, ma Petrarca sottolinea come lo stesso messaggio fosse stato professato anche da Seneca e
dagli altri scrittori moralisti antichi latini

Riassunto righe 154-166: Ma questo non è solo un richiamo ad Agostino e a Seneca, è anche una dichiarazione della vicinanza e
identificazione con gli antichi. Questa vicinanza prosegue anche nelle righe successive, dove P racconta di come lo stesso gesto,
aprire il libro e scorgere una verità consegnata al lettore al momento giusto, era successo già ad Agostino stesso e a Sant’Antonio
Abbate che aveva letto in un vangelo, di Matteo: «Se vuoi esser perfetto, va' e vendi tutto il tuo e dallo ai poveri, e vieni e seguimi e
avrai un tesoro nei cieli»; frase che mostrava la necessità del disprezzo dei beni terreni per seguire la verità.
Petrarca si colloca nella scia di costoro: non solo chiede aiuto ai grandi personaggi che prima di lui avevano vissuto questa
esperienza e scorto la verità, ma s’inserisce lui stesso nella tradizione. Questo mostra quella grande considerazione e quella mira
alta che Petrarca aveva di sé.
Poi, nelle righe ancora dopo, Petrarca continua a riflettere su quanto letto. Il passaggio sulla lettura che abbiamo visto è il cuore
nevralgico del testo: Petrarca aveva organizzato la scalata per trovare se stesso e trova risposta nel libro.
[Domanda lettera al ventoso: righe su Agostino, richiesta spiegazione]

Righe 167- 189


[…] cosi tutta la mia lettura si contenne nelle poche parole che ho riferito, mentre pensavo in silenzio quanta fosse la
miseria degli uomini i quali, trascurando la più nobile parte di sé, si volgono or qua or là e si perdono in vani spettacoli,
cercando fuori di sé ciò che si può trovare nell'animo loro; […]
Quante volte in quel giorno - credi a me - tornando e volgendomi indietro riguardai la cima del monte! che mi parve alta
appena un cubito a paragone dell'altezza dell'umano pensiero se non viene immerso nel fango della turpitudine terrena.
Un altro pensiero mi occupava a ogni passo: […]
Oh, quanta fatica dovremo durare, per vincere, non un monte più alto, ma i nostri desideri nati da affetti terreni! Tra
questi affetti dell'animo ondeggiante, senza accorgermi del sentiero pieno di sassi, a notte fonda tornai alla capanna
donde all'alba ero partito, e la luna piena era gradita compagna ai viaggiatori.

Petrarca esalta l’animo pensiero descrivendolo come altissimo, addirittura, più alto della vetta.

Così termina la lettera: Petrarca arriva a capire l’importanza del guardarsi dentro e di mettere da parte i vani spettacoli terreni.
L’obiettivo che l’uomo deve porsi, cioè, non è il raggiungimento dei propri obiettivi e la realizzazione dei beni terreni, ma il controllo
di sé e la ricerca della verità.

RVF 62 [B 95]
Presentazione
La lettera che abbiamo appena letto può essere vista come la versione in prosa di uno dei componimenti del Canzoniere, il numero
62. Quest’ultimo è stato scritto qualche anno prima rispetto alla lettera, ma presenta un personaggio dal pdv psicologico simile a
quello del componimento in prosa.
Si tratta di un sonetto che risale al 1338. È composto per l’anniversario dell’innamoramento e suggerisce nel poeta una riflessione
drammatica, straziante; in quanto fa far mente locale sulla vanità della passione terrena e sull’incapacità di superarla. Si costruisce
come una preghiera e tra le sue matrici c’è proprio la preghiera del padre nostro.

Analisi
1. Padre del ciel, dopo i perduti giorni, Padre del Paradiso, dopo i giorni sprecati
2. dopo le notti vaneggiando spese, e dopo le notti sprecate nei vani pensieri d’amore
3. con quel fero desio ch’al cor s’accese, con quel desiderio/passione terribile che iniziai a provare
4. mirando gli atti sì adorni, contemplando gli atti per mia disgrazia così leggiadri,

5. piacciati omai col tuo lume ch’io torni acconsenti dunque che io, per effetto della tua grazia, mi converta
6. ad altra vita et a più belle imprese, ad un’altra vita (nuova, migliore) e ad opere più degne
7. sì ch’avendo le reti indarno tese, così che, dopo avermi tentato invano,
8. il mio duro adversario se ne scorni. il mio ostinato avversario, il diavolo, fallisca, disonorato

9. Or volge, Signor mio, l’undecimo anno Sono passati oggi, oh mio Signore, undici anni
10. ch’i’ fui sommesso al dispietato giogo da che io fui sottomesso a quella passione implacabile
11. che sopra i più soggetti è più feroce. che, di solito, è più dannosa verso chi è più sottoposto alla passione

12. Miserere del mio non degno affanno; Abbi pietà del mio vergognoso tormento;
13. reduci i pensier’ vaghi a miglior luogo; converti i miei instabili pensieri a cose migliori;
14. ramenta lor come oggi fusti in croce ricordami che oggi tu fosti crocifisso per noi.
Il componimento si presenta in forma di preghiera già nell’incipit: inizia con un’apostrofe. Si tratta di un’invocazione a Dio, in cui il
poeta si affida all’aiuto di dio e gli chiede di non abbandonarlo alla tentazione (come nel Padre Nostro). Questo sonetto, infatti, ci
presenta quell’ambigua sovrapposizione/ confusione tra amore e il diavolo (che si inquadra gradualmente nel sonetto), che
avviene in virtù del fatto che entrambi lavorano attraverso la tentazione (oltre ad esserci, nel sonetto, una coincidenza di immagini
poetiche e oggetti simbolici usati in riferimento sia dell’amore che del diavolo: il lessico militare è impiegato per descrivere
entrambi).

Le due quartine sono legate tra loro: il periodo è uno solo ma dura due quartine. Il lettore tiene sospeso la lettura e il senso, prima
di arrivare all’asse portante della frase che si trova nella seconda quartina. La prima quartina, infatti, indugia sul dolore provato: la
durata della strofa riproduce, nella sua lunghezza, la durata della sofferenza vana = inutile.

Prima quartina
Perduti giorni: sprecati, scialacquati
Spese fa coppia con perduti: entrambi con il significato di sprecati perché dediti al pensiero d’amore

Non c’è mai riferimento diretto all’amore, ma ne deduciamo “la presenza” dal verbo vaneggiare al gerundio = termine tecnico nel
dizionario petrarchesco, usato spesso dall’autore per indicare la vanità dell’amore. Siamo, quindi, portati e legittimati ad
aggiungere il significato di amore anche se non viene menzionato direttamente.

Fero: feroce ma metaforico. Poiché la belva feroce fa paura, possiamo tradurlo con terribile

Ch’al cor s’accese: metafora che indica l’inizio della passione

Mirando…: allitterazioni m

Atti: accettabile ma forse troppo generico, da parafrasare con comportamenti, atteggiamenti

richiama l’idea di perdizione, che si lega alla morte dell’anima in quanto il male per antonomasia; è quella perdizione
che porta all’inferno. La bellezza della donna, solo suggerita in questa quartina attraverso il termine “adorni”, è subito associata al
male (ma che in realtà si connette già all’idea di diavolo e di quella parte diabolica presente in ognuno di noi, che abbiamo
ereditato dal peccato originale)

Adorni: leggiadri, belli, aggraziati

Il poeta, in questo punto, individua nell’amore provato per la donna la sorgente diabolica delle sue disgrazie. Sottolineiamo, infatti,
come, né qui né nel seguito del componimento, Laura viene nominata. E, pian piano, la figura della donna è messa da parte nella
sua bellezza e nella sua grazia, per prendere la forma del diavolo, del demonio. Questa trasformazione è preannunciata già da
questo verso, nel quale attribuiamo la donna all’idea di tentazione (sfera demoniaca).

Seconda quartina
Piacciati omai: altra invocazione, altra apostrofe rivolta a Dio

Lume: con l’aiuto della tua luce, della tua grazia: l’uomo è di fatto libero, ma a causa della sua origine peccaminosa, di quel peccato
originale che porta con sé, l’uomo ha bisogno dell’intercessione della grazia che lo riconduca sulla retta via

Altra vita: vita nuova, cioè, è la vita altra rispetto a quella sbagliata. Petrarca chiede, quindi, il rinnovamento e il ritrovamento della
via giusta.

Imprese: apparentemente termine generico e referenziale, ma che in realtà richiama il lessico della guerra; anche se oggi abbiamo
perso questa sfumatura bellica. Questo senso metaforico è da cogliere: è necessario parafrasare con opere perché,
successivamente, si parla di reti, strumenti da cattura, e di un avversario. Le imprese sono qui, dunque, le battaglie che
costituiscono la nostra vita. Il discorso fatto da Petrarca è lasciato, infatti, volontariamente evocativo e può essere, quindi, allargato
ad un piano universale, in riferimento alle schermaglie della nostra vita.

Avversario → [Perifrasi] Laura non è più nel pensiero di P: da tentazione è passata ad essere il diavolo. Perché l’avversario per
antonomasia è il diavolo, se considerato in chiave evangelica. Duro= ostinato e insistente come sono le tentazioni

Scorni: richiamo alle corna e quindi al diavolo. Petrarca non solo vuole sconfiggerlo (evitare la tentazione), ma addirittura umiliarlo
(disonorare il tentatore), facendogli perdere le corna. → non ci sono più dubbi che l’avversario sia il diavolo perché ne vengono
evocati gli attributi fisici.
Questo verso può essere visto come una nota umorale da parte del poeta. Essa è necessaria per realizzare anche da parte del poeta
(con l’atto di togliere le corna) quel motivo bellico che abbiamo già trovato attribuito al diavolo. In altre parole, il poeta si mette in
gioco ed entra in scena, entra nello scontro (quello tradizionalmente tra angelo e diavolo)
Prima terzina
Dopo la spinta di questa quartina, l’affetto del testo scende, l’emozione degli effetti cala e il componimento ritorna in quella
modalità di pianto, invocazione e lamento che avevamo avuto all’inizio. Si tratta di un procedere a calare dopo il punto più alto che
è rappresentato dalla seconda quartina.

Primo verso: Questa indicazione del tempo/ cronologica è indicata attraverso il verbo volgere. Petrarca sceglie questo verbo
metaforico perché ha in mente quella figura/ immagine iconica di qualcosa che gira, ruota, che si avvolge e si svolge; legata al
tempo.

Sommesso: è un termine che possiamo mantenere nella parafrasi oppure sostituirlo con sottomesso

Giogo: metafora → indica una passione implacabile. Il giogo, nel suo significato letterale, è uno strumento/oggetto che si mette
sopra i buoi affinché tirino l’aratro. Essendo uno strumento di sottomissione, Petrarca lo sceglie per indicare la passione alla quale
si sente succube.

Dispietato: senza pietà, spietato, impietoso, irriducibile, implacabile

Questa passione è più feroce sopra i soggetti: in questo verso, Petrarca dice letteralmente che questa passione crudele è ancora
più dannosa nei confronti di chi più facilmente si sottomette ad essa, nei confronti di chi non reagisce. Petrarca intende, con questo
verso, indugiare in maniera ancora più chiara nei confronti della sua colpevolezza: l’essersi sottomesso alla passione e alla
tentazione è davvero una colpa di debolezza, di cui il poeta è chiaramente responsabile.
Questa immagine della sottomissione apparteneva al lessico e all’universo della situazione amorosa. Pensiamo a ciò che scrive
anche Dante a proposito: insieme alle anime punite con Paolo e Francesca ci sono quelle anime che sottomettono la ragione al
talento. Il significato è lo stesso presentato qui da Petrarca.

Soggetti: quanti si sottomettono, verso chi soggiace (radice soggetti)

Seconda terzina
Miserere: latinismo famigliare all’epoca che deriva dal salmo, dalla scrittura biblica
Non degno: litote per affermare un qualcosa che è ciò che va confessato: la natura peccaminosa e la tentazione. Il tormento è
indegno, vergognoso, biasimevole ed è causato non solo dall’avversario ma anche dai limiti e dalla debolezza di chi scrive (che
sono i veri nemici del soggetto). Con Petrarca, in questo verso, sfioriamo la psicologia moderna del soggetto: è l’uomo da solo, con
il suo io, che cade in tentazione; avviene tutto dentro di lui; il soggetto è nemico di se stesso.

Allitterazioni nasali primo verso: m e n


Affanno è in rima con anno della terzina precedente: una parola contiene l’altra, rima molto forte
Riduci: nel senso latino del verbo, significa riporta, riconduci, converti. Verbo di luogo e movimento che quindi richiama il termine
“luogo” nello stesso verso
Vaghi: instabili. Termine che oggi usiamo in un’accezione diversa rispetto all’intenzione del poeta. Possiamo tracciare una linea, una
isotopia, con il vaneggiar che avevamo trovato nella prima quartina (sebbene con una sfumatura diversa).
Lor: sono i pensieri, che vengono resi attori e indicano sempre l’ “io”. Petrarca declina il soggetto io in tutte le forme.

Conclusione
L’anniversario della morte di Cristo deve servire a ricordare l’importanza del soccorso/ intervento divino; Petrarca invoca la stessa
memoria della croce come soccorso contro la propria debolezza: Gesù muore proprio per ricucire quello strappo provocato dalla
tentazione del diavolo; nessun pensiero è più degno e utile per riconvertire l’anima.
Il componimento, inoltre, grida il bisogno di salvezza e la libertà dal peccato. È un testo che insiste sul tema della libertà: un
termine elevato e da trattare con delicatezza. È un concetto cambiato nei secoli e attraverso le culture, che ha conosciuto due
momenti capitali:
- Per gli antichi, per la cultura classica, la libertà era un concetto “grande”: era l’autonomia dell’uomo in tutto e per tutto. Gli
antichi indicavano, infatti, con il termine libertà, la libertà totale, la mancanza di condizionamenti esterni. Pensiamo a Socrate
e alla filosofia antica: per costoro, essa era la possibilità di privarsi di qualsiasi costrizione nella propria solitudine.
L’uomo libero per l’antichità è solo, come il saggio stoico, e in questa solitudine dimostra di non aver bisogna di nulla e
nessuno. È la libera accettazione del proprio destino, quello determinato dal fato.
- Nella cultura cristiana, tale concetto si complica (si impoverisce per certi aspetti e arricchisce per altri). Essa è sì conoscenza
di sé, introspezione, guardarsi dentro (quello che P ci ha raccontato attraverso Sant’Agostino), ma l’uomo libero cristiano sa
perfettamente che se la libertà fosse solo tale, piena autonomia dell’individuo, non sarebbe la felicità, non darebbe la felicità.
Il cristianesimo ha dimostrato con il suo pensiero che questa libertà come solitudine non dà la gioia, la felicità non è nella
solitudine ma nell’incontro con l’altro, in una specie di compromesso che bisogna accettare. Questo altro è, da una parte,
Dio, Gesù, che è ciò che manca all’uomo: l’uomo libero, in quanto pienamente padrone di sé deve chiedere aiuto a Dio. Ma,
dall’altra parte, l’altro è da intendere come il prossimo: ancora legato alla religione e al messaggio cristiano.
Questo serve per comprendere il dramma di Petrarca che non riesce a mettere a fuoco questo “atro” al di fuori di sé ed è, quindi,
tormentato.
RVF 77 [B 98]
Presentazione
Il sonetto 77 è un componimento esemplare che ci fa assaggiare la varietà del poeta, le sue incredibili escursioni. È una poesia, non
molto famosa, ma efficace, che punta ad elogiare la donna ed il sentimento amoroso come ciò che di più bello, di massimo e di
vero possa esserci di concepibile per l’uomo. È un testo che viene normalmente ricordato perché documento dell’amicizia tra
Simone Martini, artista, pittore e miniatore contemporaneo, e il poeta. Egli, infatti, aveva donato a Petrarca un ritratto di Laura (è
successo davvero, non invenzione poetica); Petrarca, allora, celebra e ringrazia Simone con questo sonetto e con il successivo (78).
È un ritratto che noi, oggi, non abbiamo più: faceva parte delle effigi portatili, quelle figurine da portare sempre appresso per avere
con sé l’immagine dell’amata. Tuttavia, abbiamo numerose immagini di Laura presenti in un manoscritto che Simone Martini
aveva miniato, il Virgilio della Biblioteca Ambrosiana, dove c’è il codice delle opere di Virgilio che porta, oltre alla dedica e al saluto,
l’immagine di laura. Esso venne così decorato da Martini (cioè con le immagini di Laura) perché era il Virgilio appartenuto a
Petrarca. Il sonetto, dunque, celebra la bellezza di Laura in occasione del dono del ritratto.

Analisi
Per mirar Policleto a prova fiso Se Policleto e tutti gli altri che furono famosi nell'arte del ritratto,
con gli altri ch’ebber fama di quell’arte gareggiando tra loro, guardassero attentamente anche per mille
mill’anni, non vedrian la minor parte anni, non vedrebbero nemmeno una minima parte
de la beltà che m’ave il cor conquiso. della bellezza che mi ha fatto tanto innamorare

Ma certo il mio Simon fu in paradiso Ma di sicuro il mio amico Simone (Martini) poté salire in Paradiso
(onde questa gentil donna si parte), da dove Laura, la mia innamorata, proviene
ivi la vide, et la ritrasse in carte lì la contemplò, e poi la ritrasse su pergamena
per far fede qua giú del suo bel viso. per testimoniare in terra la bellezza del suo viso.

L’opra fu ben di quelle che nel cielo Il ritratto fu proprio di quelli che solo in Paradiso
si ponno imaginar, non qui tra noi, si possono ideare, non sulla terra
ove le membra fanno a l’alma velo. dove le membra nascondono l’anima.

Cortesia fe’; né la potea far poi Simone le fece un atto d generosità e, del resto, non avrebbe potuto
che fu disceso a provar caldo et gielo, ritrarre Laura quando (S) discese sulla terra, nella dimensione del
et del mortal sentiron gli occhi suoi. tempo mondano, e quando la sua potenza visiva fu limitata dagli
elementi corruttibili.

Il sonetto è originale poiché celebra non tanto la bellezza fisica, quanto quella spirituale e interiore della donna; a partire, però, da
un ritratto che ne riproduce le fattezze fisiche. Per compiere questa impresa, la poesia va, quindi, verso l’esagerazione e l’iperbole:
Petrarca fa finta/immagina che Simone sia stato tanto straordinario da aver saputo render conto, in quel ritratto, dell’anima di lei
vista in Paradiso; di averla ritratta nella maniera perfetta. È un sonetto che strategicamente elogia la bellezza di lei e la bravura di
Simone Martini, addirittura salito in cielo per riprodurre la bellezza di lei, riuscendone a cogliere la parte migliore nella sua
interiorità.
Ecco perché ci fa tirare un sospiro di sollievo rispetto al sonetto precedente: il messaggio è opposto; qui, si intende dire che Laura è
sovraumana, che il sentimento amoroso porta in cielo, che è delle cose spirituale e non terrene. Esso ci riavvicina all’immagine
della donna angelica, della donna che è manifestazione in terra della grazia e della virtù, tipica dello stilnovo. Il tutto viene qui
sviluppato, poi, nella forma particolare della celebrazione dell’arte. Infatti, Petrarca ha raggiunto anche il primato, attraverso
questo testo e altri, di aver fatto rientrare le arti figurative in quelle nobili, liberali (così chiamate perché rendono il cuore libero).
Nell’antichità, infatti, c’era la tipica distinzione tra le arti liberali, quelle del trivio e del quadrivio (retorica, dialettica, matematica,
geometria: intellettuali e teoriche), e quelle meccaniche, che non erano tipiche dell’intellettuale, ma erano pratiche e considerate,
dunque, minori, di secondo livello. Quest’ultime erano considerate “non nobili” perché l’artista era visto come un mero esecutore e
non come l’ideatore dell’opera. Questa distinzione andrà, col tempo, molto piano, a sfumarsi, e l’Umanesimo rappresenterà un
cruciale snodo in questo senso. Uno degli interventi principali fu, tra l’altro, quello di Petrarca, per la nobilitazione della miniatura
tra le arti nobili.

Prima quartina (parafrasi compatta → per la complessità = domanda nel test sul componimento: si elogia Policleto? No, il suo
elogio è in funzione di un altro, non il principale)
Il testo, quindi, si apre fin da subito all’insegna delle esagerazioni. È tutto un’iperbole, legata all’impossibile. C’è l’uso frequente di
quelle figure retoriche legate all’uso del pensiero, i “metalogismi”.

Nella prima quartina troviamo la figura dell’adynaton, che dice attraverso un concetto messo a parole l’impossibile; indica un
evento che non potrebbe mai verificarsi e proprio l’impossibilità di questo evento serve per dare forza ad un’affermazione.
Petrarca, infatti, sostiene che Laura è bellissima e lo certifica attraverso questa figura dell’impossibile (che non può essere
verificata).
Questo per mirar è sintetico e significa, in estensione: per quanto Policleto ammirasse. Si tratta di un uso concessivo del per

Mille anni: oltre al significato principale, quello di osservare per mille anni, la locuzione, indirettamente, è un modo per rendere
una dimensione temporale enorme, che è quella della tradizione della pittura: indica coloro che, in questo campo, sono stati i più
bravi nei trascorsi mille anni. L’espressione, cioè, conferma quel “tutti gli altri che ebbero fama nell’arte”.

Conquiso: metafora che indica la conquista del cuore (lessico militare)


La bellezza di Laura è inattingibile. Questa bellezza, dunque, non può essere raggiunta qui, in questo tempo: non è quella
esteriore.

Seconda quartina
Descrive il viaggio di Simone Martini in paradiso. Questo è sicuramento un encomio per l’artista, che viene rappresentato in
Paradiso. Siamo nell’ambito della pittura tardo-gotica (donne ritratte con uso oro, insistenza sulla linea) che ritraeva donne
angelicate, con l’aureola, e stilizzate: anche Laura viene vista in questo modo.

L’espressione tra parentesi contiene parole che, per Petrarca, sono da dare per scontato
Parte è rima equivoca con “parte” del terzo verso della prima quartina: sostantivo e verbo. Sono la stessa parola, ma con significato
differente (equivoca).
Carta: pergamena → queste immagini portatili venivano eseguite su foglio di pergamena

Prima terzina
Le membra nascondono l’anima: non permettono la visione dell’anima. Metafora comune.

Questo componimento è un gioco scherzoso, galante, in cui Petrarca ci dice che Simone ha sì rappresentato la donna; ma la sua
opera, pur rappresentando la bellezza fisica, trasmette quella interiore. Petrarca spiega, più e più volte, questa contraddizione;
vuole sottolineare come ciò che viene rappresentato non appartiene alle membra.

Immaginar: Petrarca sceglie il verbo perfetto per rendere l’idea di un concetto astratto che viene reso in forma di immagini. Dal pdv
filosofico, infatti, immaginare è l’idea di rendere in forma concreta le idee astratte. Si tratta di un tema antico quello qui evocato,
su cui i pensatori si sono arrovellati per molto tempo: gli umani sono condannati a procedere concretamente anche nel pensiero;
così Laura, immagine astratta e paradisiaca, viene resa concreta in forma di ritratto.

Seconda terzina
In questa terzina, Petrarca specifica e precisa la sostanza astratta della bellezza di lei ed elogia e racconta le circostanze di questo
ritratto.

Cortesia: lasciare cortesia non è sbagliato. Il significato di cortesia, tuttavia, evoca una serie di virtù appartenenti al mondo feudale
e delle corti. È qualcosa, dunque, che richiama una forma di generosità che deriva da un’anima grande, da uno spirito magnanimo:
Simone è identificato con questo tipo di anima poiché ha compiuto un gesto cortese. Il significato è anche quello di atto gratuito,
che appartiene e rimanda alla bellezza straordinaria di Laura, altrettanto gratuita. C’è una circolazione continua di grazia,
eccellenza, perfezione all’interno di tutti i soggetti appartenenti al componimento (Simone, Laura, il gesto).

A provar caldo e gelo: espressioni metaforiche che indicano il passare delle stagioni e quindi la dimensione del tempo
mondano/terreno, in contrapposizione con la condizione atemporale del regno dei cieli.

Mortal: ricominciare a risentire i vincoli e i limiti della terra. Righe di elogio per Simone: ha potuto fare qualcosa di sovraumano,
egli stesso è pittore sovraumano.

Conclusione: il sonetto è davvero l’apoteosi della bellezza di Laura, che vale in quanto interiore, assoluta e ideale, e della bravura di
Simone.

RVF 272 [B 121]


Presentazione
È un componimento che denuncia e traduce in immagini poetiche la disperazione, la mancanza di speranza; un sentimento che
porta l’uomo a non voler più vivere. Si tratta, dunque, di un testo che contiene in forma implicita ciò che non si poteva dire, il
desiderio del suicidio. Esso era qualcosa di innominabile soprattutto per la religione cristiana: la speranza, infatti, insieme alla fede
e alla carità, sono virtù teologali.
Petrarca è disperato e, qui, la disperazione arriva a 360 gradi: è la disperazione del passato, quando il passato non porta conforto,
del presente e del futuro. Questo tutto cronologico del per sempre costruisce il sonetto.
Analisi
La vita fugge, et non s’arresta una hora, La nostra vita trascorre veloce, e non si ferma mai
et la morte vien dietro a gran giornate, il momento della morte incombe rapidamente
et le cose presenti et le passate il pensiero del presente e del passato,
mi dànno guerra, et le future anchora; mi provoca affanno, e anche quello del futuro

e ’l rimembrare et l’aspettar m’accora, da un lato mi angoscia ricordare il passato


or quinci or quindi, sí che ’n veritate, dall’altra anche l’attesa del futuro, tanto che, in verità,
se non ch’i’ ò di me stesso pietate, se non fosse che ho pietà di me stesso,
i’ sarei già di questi penser’ fòra. avrei già eliminato questi pensieri.

Tornami avanti, s’alcun dolce mai Ricordo quei rari, troppo rari, momenti di felicità amorosa
ebbe ’l cor tristo; et poi da l’altra parte vissuta; e poi, pensando al domani,
veggio al mio navigar turbati i vènti; capisco bene che il futuro non sarà positivo,

veggio fortuna in porto, et stanco omai capisco che fino all’ultimo sarò tormentato dalla passione, e
il mio nocchier, et rotte arbore et sarte, la mia ragione è impotente, la forza di volontà incapace,
e i lumi bei che mirar soglio, spenti. e chiusi dalla morte i bellissimi occhi di Laura, che sono solito
ammirare.

Prima quartina
Giornate: termine militare che significa “a marce forzate”, come un esercito che incombe. Nel lessico militare, è l’unità di misura
dello spostamento dell’esercito; qui, può essere parafrasata come “a ritmo forzato”.

Per rendere efficacemente l’idea delle marze forzate, del ritmo incessante, Petrarca utilizza nella prima quartina il polisindeto,
questa struttura fatta di una coordinazione con la congiunzione ben espressa. Essa, insieme all’anafora, intende riprodurre il ritmo
forzato delle gran giornate, della “guerra”.

Seconda quartina (Primi due versi seconda quartina ripete concetti prima quartina)
Mi accora: mi angoscia, mi appesantisce/ colpisce il cuore

Or quinci or quindi: di qua e di là, insiste sul sentirsi circondato

Questo è il riferimento al suicidio: la disperazione si verifica quando i pensieri diventano insopportabili a tal punto da portarmi a
tirarmene fuori, a sottrarmene. Si tratta, pur sempre, di un eufemismo, di un’espressione attenuante, di una litote.

Terzine (mai chiesta parafrasi di questo sonetto ma il senso, magari domanda su fortuna)
Il punto così drammatico ed indicibile della seconda quartina (quello sul suicidio) viene ripreso nelle due terzine e si arricchisce di
una famiglia metaforica continuata (occupa tutte le terzine): per suggerire nuovamente il concetto di suicidio, Petrarca usa la
metafora della nave che viaggia per mare, che deve affrontare una grande tempesta e che dispera del porto.

Domanda retorica e implicita, che rimane senza risposta: ricordo, penso e mi chiedo se ho vissuto momenti di felicità (passato)

Nel mio futuro, la tempesta: non promette nulla di buono → viene introdotta la metafora della nave

Fortuna in porta: fortuna è il fortunale, la tempesta, il temporale, non la sorte

La nave “della vita” viene rappresentata con tutti i suoi attributi


Sarte: funi

Presente atemporale: ero solito ammirare e sono sempre stato ammirare

Nel finale indugia malinconico sugli occhi di Laura che sono spenti, poiché la donna è morta: il sonetto appartiene alle rime in
morte di laura. Questi lumi sono, nella metafora, le stelle che guidano la navigazione e che non si vedono più per la tempesta.

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