la Divina Commedia
Inferno,
canto XXVI
Elementi essenziali
Dove? «l’ottava bolgia» v.32
Cosa? «di tante fiamme tutta risplendea» v.31
«tal si move ciascuna per la gola
Come? del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.» vv. 40-42
Chi? («chi è ’n quel foco che vien sì diviso
"Là dentro si martira
di sopra, che par surger de la pira
Ulisse e Dïomede» vv.55 - 56
dov’Eteòcle col fratel fu miso?» vv. 52-54)
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio che nol potea sì con li occhi seguire,
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi, ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio, sì come nuvoletta, in sù salire:
perché non corra che virtù nol guidi; tal si move ciascuna per la gola
sì che, se stella bona o miglior cosa del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,
m’ ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi. e ogne fiamma un peccatore invola.
Quante ’l villan ch’al poggio si riposa, Io stava sovra ’l ponte a veder surto,
nel tempo che colui che ’l mondo schiara sì che s’io non avessi un ronchion preso,
la faccia sua a noi tien meno ascosa, caduto sarei giù sanz’esser urto.
chi è ’n quel foco che vien sì diviso che non mi facci de l’attender niego
di sopra, che par surger de la pira fin che la fiamma cornuta qua vegna;
dov’Eteòcle col fratel fu miso?". vedi che del disio ver’ lei mi piego!".
Rispuose a me: "Là dentro si martira Ed elli a me: "La tua preghiera è degna
Ulisse e Dïomede, e così insieme di molta loda, e io però l’accetto;
a la vendetta vanno come a l’ira; ma fa che la tua lingua si sostegna.
"O voi che siete due dentro ad un foco, vincer potero dentro a me l’ardore
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi, ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
s’io meritai di voi assai o poco e de li vizi umani e del valore;
quando nel mondo li alti versi scrissi, ma misi me per l’alto mare aperto
non vi movete; ma l’un di voi dica sol con un legno e con quella compagna
dove, per lui, perduto a morir gissi". picciola da la qual non fui diserto.
Lo maggior corno de la fiamma antica L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
cominciò a crollarsi mormorando, fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
pur come quella cui vento affatica; e l’altre che quel mare intorno bagna.
mi diparti’ da Circe, che sottrasse acciò che l’uom più oltre non si metta;
me più d’un anno là presso a Gaeta, da la man destra mi lasciai Sibilia,
prima che sì Enëa la nomasse, da l’altra già m’avea lasciata Setta.
"O frati," dissi, "che per cento milia Cinque volte racceso e tante casso
perigli siete giunti a l’occidente, lo lume era di sotto da la luna,
a questa tanto picciola vigilia poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,
d’i nostri sensi ch’è del rimanente quando n’apparve una montagna, bruna
non vogliate negar l’esperïenza, per la distanza, e parvemi alta tanto
di retro al sol, del mondo sanza gente. quanto veduta non avëa alcuna.
Li miei compagni fec’io sì aguti, Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
con questa orazion picciola, al cammino, a la quarta levar la poppa in suso
che a pena poscia li avrei ritenuti; e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
e volta nostra poppa nel mattino, infin che ’l mar fu sovra noi richiuso".
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.