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PierVittorio Formichetti, Ulisse di Joyce: il naufragio dell’eroe

Ulisse di James Joyce: il naufragio dell’eroe nel mare della mediocrità1

«Ulisse è un punto fermo della cultura occidentale»: inizia così l’introduzione


all’«unica traduzione integrale autorizzata» in italiano dell’Ulisse di James Joyce.
Punto fermo, ma insieme mobilissimo.
I viaggi di Ulisse, «l’uomo polytropos che a lungo andò viaggiando», sono illimitati:
egli, dall’epoca di Omero a quella di Dante Alighieri, peregrinò in navi di stili,
pennini e penne d’oca su oceani di pergamena e, infine, di carta. Naufragato, per
l’ultima volta, alle soglie del Purgatorio, finisce nell’Inferno metafisico della Divina
Commedia e riemerge nell’inferno terrestre di Auschwitz-Birkenau, sorprendendo il
suo stesso compagno di naufragio morale Primo Levi, che si chiede: «Il canto di
Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente» (Se questo è un uomo).
Anche Leopold Bloom, l’ultima reincarnazione letteraria – quanto ridimensionata! –
dell’eroe di Itaca, nella sua Odissea di un giorno viaggia all’interno della sua città,
Dublino, ma anche e soprattutto all’interno della propria mente. Mr. Bloom è curioso
di tutto, come Ulisse, ma anziché concentrare la propria curiosità su qualcosa di
mirabile (la caverna di Polifemo, l’isola di Eolo, il canto delle Sirene), la disperde
continuamente nelle meschinità che lo circondano (dove si sarà cacciato – si chiede –
il topo che si è nascosto sotto una tomba durante il funerale di Paddy Dignam?) e che
pensa lui stesso (da quale parte è la testa di Dignam nella bara?). Ulisse racconta ad
altri – il re dei Feaci Alcinoo e la sua corte – le proprie avventure, mr. Bloom dialoga
soprattutto con se stesso, e i dialoghi con i concittadini sono brevi e banali: il tempo,
la salute, se il defunto Dignam era assicurato. Ulisse è il leader della propria compagna
anche quando essa diviene picciola (come scriverebbe Dante), Bloom è seguito
soltanto dai ragazzini che lavorano come strilloni del giornale “Freeman” che
imitano la sua camminata dovuta alle scarpe strette. Quando Ulisse naufraga presso
l’isola dei Feaci, provoca scompiglio tra le ancelle di Nausicaa che lo trovano sporco
e nudo. La figlia del re è l’unica a non esserne scioccata, lo soccorre e gli indica il
fiume dove potrà lavarsi proprio perché in lui vede un uomo che ha perso tutto;
Bloom, viceversa, non provoca nessuno shock tra le ragazzine nella casa di fronte alla
quale si è fermato per osservare anche lui i fuochi d’artificio della serata, perché,
come quasi sempre, nessuno lo nota. La Nausicaa del romanzo di Joyce, l’adolescente
zoppa Gerty, va incontro a Ulisse/Bloom soltanto virtualmente, perché vede in lui
l’uomo dei suoi sogni, e anziché far sì che sia lavato e vestito (cose di cui, del resto,
non ha bisogno), lo induce a sporcarsi perché entrambi, osservandosi a distanza, si
masturbano.
Penelope, regina di Itaca, resta fedele al marito per vent’anni; Marion “Molly”,
moglie di Bloom, lo tradisce abitualmente, tanto che lo stesso Leopold conosce anche

1 “Archetypi”, 14 marzo 2015 (http://archetypi.altervista.org/?p=223).

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PierVittorio Formichetti, Ulisse di Joyce: il naufragio dell’eroe

l’ora dei suoi incontri con l’amante (per i pignoli: tra le 4 e le 4 e mezza del
pomeriggio). Quando Ulisse torna a Itaca, l’ultima prova a cui Penelope lo sottopone
per sincerarsi che sia veramente lui è ordinare alle serve di spostare il letto
matrimoniale dalla loro stanza, ma Ulisse – unico a poter saperlo - risponde che è
impossibile perché lo costruì lui stesso ancorato al tronco di ulivo intorno al quale
sorge il palazzo; Bloom, a tarda notte, torna a casa e inciampa in un mobile che
proprio Molly ha spostato in sua assenza.
Anche mr. Bloom però vive il suo momento epico, quando, pur rischiando una rissa,
tiene testa al Cittadino (anonimo perché lui sì, al contrario di Ulisse, è un perfetto
Nessuno!) che è un piccolo Ciclope perché non fa che guardare (ma con un occhio
solo, dunque non vedendo bene come crede) e sbranare, verbalmente, gli stranieri
immigrati in Irlanda, come il padre di Bloom, l’ebreo ungherese Rudolf Virag. Le
lontane origini orientali di mr. Bloom tornano spesso nei suoi pensieri ondivaghi,
sovente rievocate da ritagli di paesaggio marino che sono quasi il correlativo
oggettivo degli orizzonti, più vasti della “grigia” Dublino, che Leopold sogna ma mai
raggiunge.
La piccola Odissea – mentale e urbana - di mr. Bloom è infatti anche il tentativo, solo
in parte consapevole ma abituale, di trovare qualcosa, forse «il punto morto del
mondo» come direbbe Eugenio Montale (Ossi di seppia – I limoni), che gli permetta di
uscire dal labirinto della quotidianità e del conformismo. Conformismo da lui subìto
e allo stesso tempo espresso, e labirinto che è forse soprattutto quello della sua stessa
vita, il cui «egresso» Bloom immagina di trovare nell’affetto paterno per il giovane
Stephen Dedalus, il cui cognome, non per caso, è il nome del mitologico inventore
del Labirinto di Creta. Sia Bloom, conformista e sognatore, sia Dedalus, idealista e
contestatore, aspirano a raggiungere una “patria umana” più viva di quella in cui
vivono; in entrambi (e talvolta anche in noi) si ripete l’inquieta domanda del giovane
Encolpio, uno dei protagonisti del Satyricon di Petronio: «Quid faciamus, homines
miserrimi, et novi generis labyrintho inclusi?» (Satyricon, 73, 1), durante la permanenza
nella labirintica domus del liberto Trimalcione e durante la sua cena ancor più
labirintica – in quanto costellata di sorprese e d’inganni – preparata non a caso da un
cuoco, indubbiamente omerico, di nome Dedalus.

PierVittorio Formichetti

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