PARTE QUARTA: UN’ESTETICA DELLA REALTÁ: IL NEOREALISMO.
Breve storia del neorealismo cinematografico (extra).
Il Neorealismo fu un movimento culturale che si sviluppò in Italia tra il 1945 e il 1951 ed ebbe nel cinema la sua maggiore espressione. Il neorealismo cinematografico italiano esercitò un vasto e duraturo impatto sull'intero cinema mondiale. L'Italia era riuscita a liberarsi dal fascismo e dall'occupazione tedesca anche grazie a un enorme movimento di resistenza che contribuì a creare un clima di speranza e di rinnovamento che si diffuse nell'ambiente cinematografico. Purtroppo, la guerra aveva danneggiato gli studi cinematografici di Cinecittà, sede della gran parte delle produzioni e le truppe statunitensi occupanti ne avevano approfittato per assicurarsi il dominio del mercato. L'entusiasmo e le idee erano molti, dunque, ma le risorse economiche poche. Nonostante ciò, videro la luce tutta una serie di film, anche a budget ridotto, che ebbero un forte successo internazionale. I film neorealisti si distinsero seccamente dalla produzione precedente italiana e mondiale. Erano girati non nei teatri di posa, ma anche nelle strade e nelle campagne. Proponevano storie che raccontavano le vicende attraversate dall'Italia, la resistenza partigiana, le condizioni sociali delle classi più povere. Per la prima volta i protagonisti erano degli operai, dei contadini, degli adolescenti, dei pensionati. Vennero impiegati in alcune pellicole anche attori non professionisti. Dunque, i film descrivevano criticamente la situazione difficile attraversata dall'Italia, tuttavia l'immagine dell'Italia, un paese povero e desolato, che traspariva da questi film infastidiva una certa classe politica. Nel 1949 venne emanata la “Legge Andreotti” che doveva sostenere e promuovere la crescita del cinema italiano e al contempo frenare l'avanzata dei film americani ma anche gli imbarazzanti eccessi del neorealismo. Con questa legge, al film poteva essere negata la licenza di esportazione se "diffamavano l'Italia", e diverse pellicole, tra cui “Ladri di biciclette”, furono censurate. La drammaturgia non seguiva i canoni hollywoodiani: le trame erano costruite per somma di episodi, molti dei quali apparentemente non significativi, spesso i momenti più drammatici erano raccontati in maniera sommaria o addirittura sostituiti da ellissi, a volte i finali erano aperti. I criteri del cinema classico, invece, erano: ordine, equilibrio, linearità e armonia, nonché il montaggio invisibile. Il neorealismo cominciò a guadagnarsi fama internazionale con “Roma città aperta” (1945) di Rossellini. Tra i film più importanti di questo movimento vi furono poi: “Paisà” (1946) e “Germania anno zero” (1947) di Rossellini, “Sciuscià” (1946), “Ladri di biciclette” (1948) e “Miracolo a Milano” (1950) di Vittorio De Sica, “La terra trema” (1948) di Visconti e “Riso amaro” (1948) di De Santis che fu un tentativo di unire tematiche neorealiste a forme tipiche del melodramma popolare. Il realismo cinematografico e la scuola italiana della liberazione. Bazin ci dice che molto spesso si è opposto il realismo dei film neorealisti italiani all'estetismo della produzione americana e parzialmente di quella francese. Ma Bazin ci fa notare che anche i film russi, ad esempio, di Ejzenstejn o Pudovkin furono rivoluzionari opponendosi all'estetismo tedesco e hollywoodiano. Dunque, così come i film di questi registi sovietici, anche i film italiani come Paisà, Sciuscià e Roma città aperta realizzano una fase nuova dell'opposizione già tradizionale del realismo e dell'estetismo sullo schermo. - I precursori. Bazin sostiene innanzitutto che davanti all’originalità della produzione italiana bisogna osservare le cause di questa rinascita. Sicuramente la Liberazione e le forme sociali, morali ed economiche che essa ha acquisito in Italia hanno avuto un ruolo determinante nella produzione cinematografica. Ma a parte questo, Bazin ci fa ricordare altre cose avvenute prima per lo sviluppo cinematografico italiano. Il fascismo, ad esempio, si è interessato in modo particolare del cinema. Il Festival di Venezia è dovuto al fascismo: Bazin sostiene che si potrà pensare ciò che si vuole sui rapporti tra il Festival e gli interessi politici del Duce, ma è incontestabile che questa idea del Festival ha fatto molta strada a livello internazionale. Il capitalismo e il dirigismo fascisti hanno inoltre fornito all'Italia dei teatri di posa moderni. Non mancava certo la censura che bloccava al massimo la distribuzione americana, ma questo non ha certo impedito a molti uomini intelligenti di girare film sull’attualità evitando di sfidare il regime. Secondo Bazin, la storia del cinema italiano ai suoi tempi era mal conosciuta. Registi come Vittorio De Sica o anche i più giovani come Rossellini giravano già all'inizio della guerra, ma è con la Liberazione che il cinema italiano imparerà ad esprimere le sue volontà estetiche, volte a rappresentare la realtà. - La liberazione, rottura e rinascita. Bazin sottolinea la differenza tra la Liberazione italiana (tema affrontato anche nella produzione cinematografica, molti infatti vengono definiti come “film di resistenza”) e quella francese. Al contrario della liberazione francese, quella italiana ha influenzato l’aspetto economico, sociale e soprattutto morale del Paese, proprio perché svoltasi lentamente, in un travaglio durato mesi. Rossellini, infatti, girò Paisà in un periodo in cui il suo racconto era ancora attuale. Ed è su questo che il neorealismo si basa: sull’attualità. I film della scuola italiana possono essere considerati dei reportage ricostruiti. Essi presentano un valore documentario dal quale è impossibile escluderne la storia o i fatti, rappresentano un vero e proprio umanesimo rivoluzionario. - Amore e rifiuto del reale. Questi film non trattano mai la realtà come un mezzo, e non la condannano mai. I protagonisti delle storie non hanno lo scopo di rappresentare un simbolo, esistono semplicemente, con una verità sconvolgente. - L’amalgama degli interpreti. Bazin ci dice che quel che stupì ancora di più, oltre alla presenza di attori memorabili come la Magnani o Fabrizi, fu l’autenticità dei personaggi, interpretati da attori non professionisti. Bazin ci ricorda che questo reclutamento di attori non professionisti ha radici fin dal cinema realista dei Lumière, o se vogliamo andare più avanti nel tempo, ai tempi del cinema russo. Tuttavia, secondo Bazin, non è l'assenza di attori professionisti che caratterizza il Neorealismo, bensì l'amalgama degli attori (professionisti e non) e solo quando tale amalgama riesce si ottiene quella straordinaria impressione di verità. Tuttavia, nonostante sia un metodo proficuo per il cinema, è stato impiegato raramente poiché contiene in se stesso il proprio principio di distruzione. I non professionisti perderanno la loro ingenuità e inesperienza, che sono fattori indispensabili. I professionisti, invece, rischiano di restare intrappolati in un ruolo. Anche se l’attore riesce a liberarsi da questo ruolo, resta il fatto che il suo volto, diventando familiare, impedirà di creare l’amalgama con attori non professionisti. - Estetismo, realismo e realtà. Secondo Bazin, non bisogna credere che rappresentare film “realisti” significhi non giungere ad una raffinatezza estetica. Infatti, se La corazzata Potemkin di Ejzenstejn ha sconvolto il cinema, non è solo a causa del suo messaggio politico o perché sostituiva lo staff dei teatri di posa con gli ambienti reali, ma perché il regista era il più grande teorico del montaggio dei suoi tempi e dietro il film c'era un'estetica ancora più profonda dell'espressionismo tedesco. Lo stesso, dice Bazin, vale per il cinema neorealista italiano. Il suo realismo, infatti, non comporta affatto una regressione estetica, ma al contrario un progresso dell'espressione. Quindi anche se il Neorealismo ha un aspetto documentaristico volto a rappresentare la realtà, ciò non significa che non abbia un proprio aspetto estetico. - Da “Citizen Kane” a “Farrebique”. Quanto all'evoluzione estetica del cinema in direzione al realismo, Bazin ci dice che i due avvenimenti che segnano incontestabilmente la storia del cinema dopo il 1940 sono: Quarto Potere di Orson Welles e Paisà di Rossellini, anche se per strade molto diverse. Tutta la rivoluzione di Orson Welles parte dall'utilizzo della profondità di campo. Mentre l'obiettivo della macchina da presa classica mette a fuoco successivamente diversi luoghi della scena, quella di Orson Welles abbraccia con uguale nettezza tutto il campo visivo. Non è il découpage a scegliere per noi la cosa da vedere (conferendole una significazione a priori), ma è lo spirito dello spettatore a trovarsi costretto a scegliere. Quarto Potere deve il suo realismo proprio grazie all'utilizzazione di un progresso preciso messo in atto dal regista. Dunque, grazie alla profondità di campo dell'obiettivo, Orson Welles ha restituito alla realtà la sua continuità sensibile. Tuttavia, impedendosi, per la complessità della sua tecnica, di ricorrere alla realtà bruta come ambienti naturali, illuminazione solare o interpreti non professionisti, Orson Welles rinuncia allo stesso tempo alle qualità inimitabili del documento autentico che, facendo parte della realtà, possono anche fondare un “realismo”. Bazin a questo punto oppone, sotto questo punto di vista, “Citizen Kane” a “Farrebique” di Rouquier. La volontà del regista era quella di utilizzare solo una materia prima naturale, ma questo l'ha condotto a perdere terreno nel campo della perfezione tecnica. Dunque, ciò che sostiene Bazin è che anche la più realistica di tutte le arti non può cogliere la realtà in tutta la sua interezza, in quanto essa gli sfugge necessariamente da qualche parte. Nel caso del cinema neorealista italiano, i registi sono stati costretti a registrare in un secondo tempo il suono e il dialogo, e ciò implica una perdita di realismo. Ma, liberi di servirsi della cinepresa, ne hanno approfittato per estendere il suo campo d'azione e la sua mobilità, che implica, invece, un accrescimento di realismo. - “Paisà” e la tecnica del racconto. Bazin a questo punto si concentra sulla geologia estetica dei film neorealisti italiani, prendendo come esempio in modo particolare il film Paisà, dato che, secondo Bazin, è il film che nasconde più degli altri i segreti estetici. Innanzitutto, Bazin fa delle riflessioni sulle tecniche del racconto. Come nel romanzo, è soprattutto partendo dalla tecnica del racconto che si può rivelare l’estetica implicita dell’opera cinematografica. Lo stile si identifica con la tecnica del racconto e diventa la dinamica interna del racconto stesso. Sarà dunque utile, secondo Bazin, inquadrare e definire lo stile italiano sulla base del racconto, sulla nascita e le forme di esposizione che lo determinano. La visione di qualche film italiano basterebbe a convincerci della parte importante che assume l’improvvisazione, che dà al racconto un andamento e un tono diverso da quelli che conosciamo. Soprattutto dopo il parlato, un film esige un lavoro troppo complesso, tanto che al primo giorno di riprese il film è già virtualmente realizzato sul decoupage, che prevede tutto. Bazin fa riferimento a Rossellini che è partito con la sua macchina da presa, con le pellicole e con dei canovacci di storie che ha poi modificato a seconda dell’ispirazione, dei mezzi materiali e umani, della natura e dei paesaggi e così via. Quello che alla fine ha importanza è il momento creativo: la nascita delle situazioni. Il racconto viene modificato sul momento, è l’istinto a guidare il regista. Bazin ci dice che non bisogna però pensare che un metodo del genere sia meno estetico della lenta e meticolosa programmazione. È grazie a questa tecnica che il cinema italiano possiede quelle caratteristiche del reportage e quella naturalezza più simile al racconto orale che alla scrittura. Come Van Gogh, terminava diverse tele al giorno, il suo amico e rivale in arte Cézanne, invece, ci ritornava su più e più volte anche per diversi anni. Un’arte è non può certo essere considerata meno arte dell’altra. E, secondo Bazin, se il cinema italiano dovesse essere rappresentato attraverso le arti figurative sarebbe uno schizzo a matita più che una tela ben rifinita. La macchina da presa si muove in modo dinamico come se stesse abbozzando uno schizzo, delineando un po' una linea e lasciando dei bianchi. La macchina da presa dei registi italiani possiede un tatto cinematografico molto delicato che permette loro di cogliere quel che è importante e soprattutto nel modo più adatto possibile. Ad esempio, nel “Bandito” (1946) di Lattuada, la macchina da presa ci mostra la faccia dell’uomo, poi, seguendo il movimento dei suoi occhi, fa una panoramica a 360 gradi che ci rivela tutto. All’inizio siamo noi che guardiamo l’attore ma durante la panoramica ci identifichiamo in lui perché è come se guardassimo attraverso i suoi occhi. Un’inquadratura del genere si avvicina, per via del suo dinamismo, al movimento della mano che disegna uno schizzo. In un decoupage del genere il movimento della macchina da presa è molto importante: essa dev’essere pronta a muoversi e a fermarsi, e quasi tutto viene fatto ad altezza d’occhio o a partire da punti di vista concreti come potrebbero essere un tetto o una finestra. Per quanto riguarda l’illuminazione, essa non ha un particolare ruolo espressivo. Come abbiamo detto in precedenza la maggior parte delle scene vengono girate in esterno; quindi, non avrebbe senso aggiungere questo fattore puramente plastico, anche perché lo stile reportage si identifica con il grigiore dei cinegiornali. Lo stile dei film italiani si avvicina, dunque, ad un giornalismo semi-letterario, ma ciò non significa che tali film non abbiano una raffinata estetica del racconto, anzi, la tecnica dei cineasti italiani perviene nei migliori film (in particolare Paisà) ad un estetica del racconto ugualmente complessa e originale. Dopo aver fatto delle riflessioni sulle tecniche di racconto italiano, Bazin si concentra su Paisà. Il film si presenta come una raccolta di novelle: Rossellini ci racconta una dopo l’altra sei storie, in ordine cronologico, della Liberazione italiana, che hanno in comune solo questo elemento storico. Ciò che le rende un susseguirsi di novelle, facendone un’opera omogenea è lo sfondo sociale, storico e umano. Ma quest’impressione ci è data soprattutto dalla lunghezza, dalla struttura e dalla materia di ogni storia. Nel decoupage cinematografico abituale i fatti vengono spezzati, analizzati e ricostruiti. Mentre i fatti, in Rossellini, si susseguono e finiscono per significare qualcosa ovvero la morale della storia derivante dalla realtà stessa. L’unità del racconto cinematografico in Paisà non è data dall’inquadratura (punto di vista astratto sulla realtà che si analizza) ma dal “fatto”, frammento di realtà bruta, il cui senso viene fuori solo a posteriori grazie ad altri fatti, tra i quali si stabiliscono dei rapporti. In Paisà (e in generale nella maggior parte dei film italiani) lo stesso uomo non è che un fatto tra gli altri, al quale non viene data nessuna importanza a priori. E proprio questo permette ai registi italiani di girare scene di autobus o di carrozze ferroviarie perché in sanno descrivere un’azione senza dividerla dal suo contesto materiale. Secondo Bazin, la sottigliezza e la morbidezza dei movimenti della loro macchina da presa in questi spazi stretti e pieni di uomini e la naturalezza del comportamento dei personaggi che entrano in campo, fanno di queste scene il pezzo di bravura per eccellenza del cinema italiano. - Il realismo del cinema italiano e la tecnica del romanzo americano. Secondo Bazin, sia “Quarto Potere” che “Paisà” pervengono ad un découpage che rispetta (pressappoco alla stessa maniera) la realtà. In entrambi ritroviamo la stessa dipendenza dell'attore rispetto all'ambiente e lo stesso realismo dell'interpretazione imposta a tutti i personaggi in campo, quale che sia la loro “importanza” drammatica. Quindi in questi due film, anche con modalità di stile molto diverse, il racconto stesso si ordina alla stessa maniera, in quanto, secondo Bazin, sia Rossellini che Welles hanno la stessa concezione estetica di “realismo”. Bazin sostiene che l'estetica del cinema italiano sia l'equivalente cinematografico del romanzo americano. Hollywood continua ad adattare i romanzi americani sullo schermo, ma sono pochissimi i film americani che hanno saputo riportare qualcosa dello stile dei romanzieri ovvero della struttura del racconto. È in Italia che si realizza il cinema della letteratura americana. E questo avviene perché esiste un accordo del cinema e della letteratura su degli stessi dati estetici, su una comune concezione dei rapporti dell’arte e della realtà. “Ladri di Biciclette”. “Ladri di Biciclette” è un film del 1948 diretto da Vittorio De Sica. Prende spunto dall'omonimo romanzo di Luigi Bartolini del 1946, sebbene si tratti di un soggetto originale di Cesare Zavattini. È tutt'ora considerato come un classico del cinema ed è ritenuto uno dei massimi capolavori del neorealismo cinematografico italiano. Breve trama: Siamo nell’immediato secondo dopoguerra. Il disoccupato Antonio riesce a ottenere il posto di attacchino, lavoro in cui è necessario l’uso della bicicletta. Per recuperare il mezzo, la moglie di Antonio decide di scambiarla con la biancheria che avevano in casa. Antonio inizia così a lavorare, ma proprio durante il primo giorno, mentre è intento a incollare un manifesto cinematografico, la bicicletta gli viene rubata. La disperazione assale il protagonista che non riceve alcun aiuto dalle persone che si trovavano là vicino in quel momento. Nonostante riesca a trovare il ladro dopo un lungo vagare per la città di Roma in compagnia del figlio Bruno, si trova costretto a fuggire per evitare di essere malmenato. In preda alla più totale rassegnazione, Antonio, giunto nei pressi dello stadio, decide di rubare una bicicletta, ma viene bloccato e aggredito dalla folla che lo libera solo grazie alle grida e le lacrime del piccolo Bruno. Quest'ultimo stringe la mano al padre e i due si allontanano tra la folla, mentre su Roma scende la sera. Secondo Bazin, il cinema neorealista ha dato ben presto segni visibili di stanchezza. Esempio è il film Patto col diavolo (1949) di Luigi Chiarini: un cupo melodramma d'amore campagnolo. Bazin nota che il neorealismo cominciava a puntare sul problema rurale, dunque, alle “città aperte” succedono le campagne chiuse. Il neorealismo stava quindi cominciando ad avere qualche difficoltà. Ma secondo Bazin, De Sica, con Ladri di biciclette, è riuscito ad uscire da tale difficoltà, ritornando a giustificare tutta l'estetica del neorealismo. Bazin sostiene che Ladri di biciclette è neorealista secondo tutti i principi che si possono ricavare dai migliori film italiani. È un intrigo popolare, non un avvenimento straordinario, ma un incidente della vita quotidiana di un lavoratore. Non ci sono delitti passionali o coincidenze tipiche di un poliziesco. Siamo alle prese con un incidente banale: un operaio passa tutto il giorno a carcere, invano, a Roma la bicicletta che gli è stata rubata. Questa bicicletta era diventata uno strumento di lavoro e, se non la trova, tornerà senza dubbio ad essere disoccupato. La sera, dopo ore di corse inutili, cerca anche lui di rubare una bicicletta, ma viene preso, e poi lasciato andare; dunque, si ritrova altrettanto povero ma con l’aggiunta della vergogna di essersi abbassato al livello del suo ladro. L’avvenimento in sé non possiede nessuna valenza drammatica, prende senso solo in funzione della situazione sociale della vittima. Bazin sostiene che sarebbe solo una banale disavventura se non fosse per il tema importante della disoccupazione che caratterizza la società italiana del 1948. Allo stesso modo va intesa la scelta della bicicletta come oggetto chiave del dramma in quanto fa riferimento sia ai costumi urbani italiani di quel periodo sia al momento storico in cui i mezzi di trasporto meccanici sono ancora rari e molto costosi. Tutto è stato realizzato per strada e gli interpreti sono tutti dei non professionisti, nessuno di loro aveva la minima esperienza di teatro o cinema. Quello che colpisce nel film è che, pur essendoci un’idea politica di fondo molto forte il film non sembra mai una propaganda: i fatti accadono soprattutto per caso e non per la volontà di qualcuno. Proprio così, senza veli ideologici, lo spettatore può comprendere come la realtà delle cose vada cambiata. Il messaggio sociale, quindi, non viene esposto, è intrinseco all’avvenimento descritto nel film, la tesi implicita, secondo Bazin, è di una meravigliosa semplicità: nel mondo in cui vive questo operaio i poveri, per sopravvivere, devono derubarsi fra di loro. Bazin sostiene che, in genere, un film di propaganda cercherebbe di dimostrarci che l'operaio non può ritrovare la sua bicicletta, mentre De Sica si limita a mostrarci che l'operaio può non ritrovare la sua bicicletta e che perciò senza dubbio tornerà ad essere disoccupato. L’idea di inserire il figlio dell’operaio fu di De Sica e ad essa si deve probabilmente la grandezza del film. Nel racconto di Bartolini il bambino non è assolutamente presente. La presenza di questo nuovo personaggio permette di dare maggiore impatto umano alla storia. La cosa incredibile è che in realtà il bambino non è un elemento essenziale per far proseguire la storia. Tuttavia, la presenza del figlio che osserva e partecipa alla disavventure del padre cambia la prospettiva del film. Non si tratta più solo di ritrovare la bicicletta per non essere disoccupato ma anche per permettersi di mantenere il figlio e allo stesso tempo essere un esempio di vita per il pargolo. Infatti, la trovata del bambino, secondo Bazin, è un colpo di genio. Come sostiene Bazin, è infatti il bambino a dare all’avventura dell’operaio la sua dimensione etica e a tracciare la strada verso una prospettiva morale in un film che potrebbe essere solo sociale. La complicità che si stabilisce tra padre e figlio è importantissima per la morale del film, è proprio l’ammirazione del figlio nei confronti del padre e il fatto che quest’ultimo ne è consapevole a dare al finale del film la sua grandezza tragica. La vergogna sociale dell'operaio smascherato e schiaffeggiato in mezzo alla strada non è nulla in confronto al fatto che ciò è avvenuto col figlio presente. Secondo Bazin, il bambino costituisce una sorta di riserva drammatica che a seconda dei casi serve da contrappunto o al contrario passa al primo piano melodico. Bazin sostiene, però, che non sarebbe esagerato affermare che Ladri di biciclette è la storia della camminata per le strade di Roma di un padre col figlio. Ad avvalorare questa definizione Bazin ci fa ricordare che De Sica, per scegliere il bambino, non si è soffermato sulle abilità interpretative e sulla qualità di recitazione ma sulla camminata. Come detto il film è interpretato da attori non professionisti, ma, nonostante questa non sia una novità, Ladri di biciclette, secondo Bazin, supera nettamente i film che lo precedono. Bazin sostiene che la riuscita suprema di De Sica, a cui gli altri gli si sono solamente avvicinati, è di aver saputo trovare la contraddizione dell'azione spettacolare e dell'avvenimento. In questo, Ladri di biciclette è uno dei primi esempi di cinema puro: niente più attori, niente più storia, niente più messa in scena; quindi, si arriva all’illusione estetica perfetta della realtà: niente più cinema. “Europa 51”. “Europa 51” è un film 1952 diretto da Roberto Rossellini. Come si era accusato De Sica di aver fatto un melodramma sociale, così si è accusato Rossellini, con “Europa 51”, di cadere nell’ideologia politica confusa e anche piuttosto reazionaria. Breve trama: È la storia di una giovane donna ricca e frivola che, dopo aver perso il suo unico figlio per un tentato suicidio, subisce uno choc morale tanto violento da farla sprofondare in una in una crisi di coscienza. La giovane donna tenta inizialmente di riprendersi tramite l’azione sociale su suggerimento di un cugino intellettuale comunista. Poi si convince che la carità debba oltrepassare le categorie della politica e perfino della morale religiosa e sociale. Così è portata prima a curare fino alla morte una prostituta, poi ad aiutare a fuggire un giovane criminale. Quest'ultima è la goccia che fa traboccare il vaso. Lo scandalo che ne deriva spinge il marito, con la complicità della famiglia, a rinchiuderla in una “casa di cura”. Naturalmente si potrebbe pensare che Europa 51 fosse il mondo dei partiti e dei reclutamenti sociali sotto tutte le forme. Ma Rossellini è ossessionato dallo scandalo della morte dei bambini e più ancora dal loro suicidio. È attorno a questa esperienza che il film prende corpo, uno dei temi è quello della santità laica. La sua organizzazione più o meno abile della sceneggiatura importa poco, ciò che conta è che ogni sequenza sia una sorta di meditazione su questi temi fondamentali. Anche qui, come in Ladri di biciclette, non si tratta di dimostrare ma solo di mostrare. Rossellini, proprio come De Sica, ripudia le categorie della recitazione e dell’espressione drammatica per costringere la realtà a venire allo scoperto. Rossellini non fa mai recitare i suoi attori, non gli fa mai esprimere alcun sentimento, li costringe solo ad essere in una certa maniera di fronte alla macchina da presa. In una tale messa in scena, dunque, i gesti degli attori sono più importanti dei sentimenti che si dipingono sul loro volto o di ciò che dicono. “Le notti di Cabiria” o il viaggio al termine del Neorealismo. “Le notti di Cabiria” è un film drammatico del 1957 diretto da Federico Fellini. Breve trama: Cabiria è una prostituta che, nonostante le difficoltà che ha vissuto, non ha perso l'ottimismo e la capacità di sognare. Proprio per la sua ingenuità, la maggior parte delle volte, va incontro a grosse delusioni: perfino il suo 'protettore', che proclama di amarla, non esita a gettarla nel fiume per rubarle la borsa piena dei soldi guadagnati durante la serata. Un giorno, dopo l'ennesima delusione, Cabiria vede una processione composta da uomini e donne, diretta al Santuario del Divino Amore e vi si unisce pregando la Madonna che la aiuti a cambiare vita. Ma ben presto lo sconforto ha il sopravvento. Desiderosa di innamorarsi, si ritroverà in un cinema-teatro di periferia pronta a essere ingannata per l'ennesima volta (un uomo le chiederà di sposarla, lei vende tutto quel poco che ha, per poi scoprire che il fidanzato voleva solo il suo denaro e tenterà di ucciderla). Sarà di nuovo il suo ottimismo a non permetterle di smettere di sorridere e lungo una strada di campagna, incontra una comitiva di giovani che cantano e suonano in allegria, coinvolgendo Cabiria nella loro gioia di vivere. Cabiria capisce di non essere sola e torna a credere ingenuamente nella vita, in quella sorta di circo, ci dice Fellini, che è l'esistenza umana. Secondo Bazin, Fellini ha saputo dare al suo film la tensione di una tragedia senza ricorrere a categorie estranee al suo universo. Cabiria, la piccola prostituta dall'anima semplice non è un personaggio del repertorio melodrammatico, perché le motivazioni del suo desiderio di “uscirne” non hanno niente a che vedere con gli ideali della morale borghese. Essa non disprezza affatto il suo mestiere, ma quest'ultimo riserva solo delusioni, che essa si augura di uscirne attraverso l'amore impossibile di un bravo ragazzo che non gli chiederà nulla. Le notti di Cabiria (proprio come Il Bidone e La Strada) sono la storia di un’ascesi, di una depurazione e in particolar modo di una salvezza. La bellezza deriva dalla costruzione perfetta degli episodi, e ogni episodio esiste da e per sé stesso ma è contemporaneamente parte integrante di un ordine che fa sempre apparire, successivamente, la sua necessità (al contrario degli altri due film). Cabiria segue un cammino in cui tutte le tappe la preparano alla tappa che l’aspetta. Quello che Fellini ha in comune con De Sica e Rossellini non è il significato profondo dei suoi film, ma l’importanza che questi registi danno alla rappresentazione della realtà rispetto alle strutture drammatiche. Bazin sostiene che il cinema italiano ha sostituito un “realismo fenomenologico” in cui la realtà non è corretta in funzione della psicologia e delle esigenze del dramma. Bazin afferma che Fellini è il regista che va più in là nell’estetica neorealista, tanto in là da attraversarla e trovarsi dall’altra parte. I personaggi felliniani non si distinguono mai per il loro “carattere” ma esclusivamente per la loro apparenza. È importante anche la scenografia felliniana che ha un ruolo importante, il quale deriva dagli accordi o disaccordi che si vengono a creare tra l’ambiente e il personaggio. Secondo Bazin è proprio qui che si tocca la frontiera del realismo e che, spingendo ancora più lontano, Fellini ci porta dall'altro lato. Bazin afferma infatti che nei film felliniani tutto avviene come se cogliessimo i personaggi non più fra gli oggetti, ma per trasparenza, attraverso di essi, tramite un processo di “sovra-naturalizzazione”. A tal proposito Bazin fa riferimento alla “metafora dell'angelo”, sostenendo che Fellini, fin dai suoi primi film, è ossessionato dall'angelizzazione dei suoi personaggi, un po' come se lo stato angelico fosse nell'universo felliniano il riferimento ultimo, la misura dell'essere. Bazin cita alcuni film attraverso i quali si può notare tale processo (Vitelloni, Bidone). Il simbolismo felliniano è inesauribile e secondo Bazin tutta la sua opera potrebbe essere studiata solo da questo punto di vista, ciò che importa è risituarla nella logica neorealistica. Bazin afferma, dunque, che Fellini non contraddice il realismo e neppure il neorealismo, ma lo compie superandolo in una riorganizzazione poetica del mondo. Secondo Bazin, Fellini ha compiuto una rivoluzione neorealistica, che opera anche al livello del racconto: Fellini ha innovato la sceneggiatura senza alcun concatenamento drammatico, fondata solo sulla descrizione fenomenologica dei personaggi. Inoltre, in Fellini, sono le grandi articolazioni drammatiche della sceneggiatura a servire da raccordi, e sono le lunghe sequenze descrittive (apparentemente senza incidenza sullo svolgimento dell'”azione”) a costituire le scene veramente importanti e rivelatrici. Bazin afferma infatti che è quando non agiscono che i personaggi felliniani si rivelano meglio (tramite la loro agitazione) allo spettatore. Per concludere, Bazin si concentra sul finale di “Le notti di Cabiria”, in particolare sull'ultima immagine che, secondo Bazin, è la più audace e la più forte dell'opera di Fellini. Cabiria, spogliata di tutto, del suo denaro, del suo amore, della sua fede, si ritrova svuotata di se stessa su una strada senza speranza. Appare un gruppo di ragazzi che cantando e ballano camminando e Cabiria, dal fondo del suo nulla, risale dolcemente verso la vita. Ma ciò che ha colpito Bazin è il fine ultimo del tocco di regia: lo sguardo di Cabiria passa più volte sull'obiettivo della macchina della cinepresa senza mai fermarsi, come se, secondo Bazin, invitasse con lo sguardo gli spettatori a seguirla sulla strada che essa riprende. Bazin sostiene che tale invito è un invito diretto anche per strapparci alla nostra posizione di spettatori.