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CHE COSA È IL CINEMA?

Il film come opera d’arte e come mito nella riflessione di un maestro della critica.
André Bazin (1918-1958) è stato un critico cinematografico francese. È stato fondatore con Doniel-
Valcroze dei prestigiosi “Cahiers du Cinema” (1952), ovvero la rivista cinematografica francese più
importante. Inoltre, Bazin è stato il padre spirituale dei registi della “Nouvelle Vague” (movimento
cinematografico francese).
Questo libro raccoglie gran parte degli articoli e dei saggi che Bazin ha dedicato al cinema, mettendo a
fuoco alcuni nodi che ancora oggi (a quarant’anni di distanza) sono al centro della riflessione teorica.
La prima parte del volume è dedicata al problema della rappresentazione, a spiegare il magico potere
che ha il cinema di dare attraverso ombre e luci un “senso di realtà” (ontologico, dice Bazin). Seguono
una serie di scritti che approfondiscono i rapporti del cinema con le altre forme di espressione. Infine,
sono affrontati con ottica sociologica alcuni aspetti particolari, dall’infanzia all’erotismo, dalle figure
di Bogart e Chaplin, al western. Il libro di conclude con alcuni dei saggi più famosi, quelli dedicati al
Neorealismo: Bazin vi trasmette la sua visione del cinema come arte legata all’evoluzione della società
e capace di superare i limiti dello spettacolo per diventare “gran teatro del mondo”.

Presentazione.
Secondo l’autore del libro, Bazin è colui che meglio di ogni altro rappresenta una teoria idealista del
cinema. L’influenza di Bazin sul cinema moderno è indiscutibile, infatti egli ha saputo presagire ciò
che stava succedendo nel cinema durante gli anni ’50 e che sarebbe poi esploso negli anni ’60. In ogni
caso, le analisi di Bazin segnano la fine del cinema di finzione e l’intrusione di quella nozione
“ontologica” di realtà che è un po’ di dilemma degli anni ’60: scoperta del cinema-verità, intrusione
delle tecniche del 16 mm, ossessione del piano-sequenza, ecc. In un ultima analisi, riflettere sul cinema
significa per Bazin cogliere “come uno specchio” un riflesso del mondo, troppo caotico per essere
analizzato in sé. Il cinema diventa il Gran Teatro del Mondo, ovvero un ritratto sacro di un modello
profano.

Parte Prima: Ontologia e Linguaggio.


Ontologia dell’immagine fotografica.
Bazin esemplifica quello che lui chiama “complesso della mummia”, parlando della tendenza degli
antichi egizi ad imbalsamare il corpo dei faraoni ed a proteggerli al meglio dai saccheggi utilizzando
addirittura delle statuette di terracotta, sorta di mummie di ricambio, poste accanto al sarcofago, per
assicurare la pace allo spirito del faraone e capaci di sostituirsi al corpo se questo fosse stato distrutto.
Ciò era fatto per mantenere nel tempo immutata l’immagine del faraone. Quindi, con il “complesso
della mummia”, Bazin allude alla difesa da parte dell’uomo dalla scorrevolezza del tempo, evitandone
ogni applicabilità e deformazione.
Le arti plastiche avevano una funzione “magica”, possiamo pensare, ad esempio, all’orso di argilla
crivellato di frecce nella caverna preistorica per l’efficacia della caccia. Ovviamente con l’evoluzione
dell’arte e della civiltà le cose cambiano: ad esempio, Luigi XIV non si faceva imbalsamare, ma esisteva
l’usanza di farsi ritrarre (pittura). In seguito, la fotografia, con la sua nascita ha dato pace a quella che
era la continua ricerca del realismo nella pittura, allontanandosi proprio dalla simulazione della realtà.
Infatti, l’originalità della fotografia in rapporto alla pittura risiede automaticamente senza intervento
creativo dell’uomo.
Tutte le sue arti sono fondate sulla presenza dell’uomo, ma solo nella fotografia ne godiamo l’essenza.
La fotografia, dunque, si è sostituita alla pittura nella rappresentazione più fedele della realtà. In questa
prospettiva, il cinema appare come il compimento nel tempo dell’oggettività fotografica. Il film non
conserva solo l’oggetto avvolto nel suo istante, ma per la prima volta l’immagine delle cose è anche
quella della loro durata. D’altronde, dice Bazin, il cinema è un linguaggio. Dunque, l’uomo avrebbe il
bisogno primordiale di difendersi dal tempo e il cinema assolverebbe questa esigenza, perché “fissa
artificialmente le apparenze carnali dell’essere” per strapparlo al flusso della durata e ricondurlo alla
vita. Grazie alle loro proprietà fisiche, la fotografia ed il cinema hanno, quindi, determinato una frattura
decisiva nella storia delle arti plastiche.
Il mito del cinema totale.
Secondo Bazin, il cinema è un fenomeno idealista. Di fatto, esso non deve quasi nulla allo spirito
scientifico; infatti, i suoi padri non sono scienziati, ma sono, secondo Bazin, degli industriali ingegnosi.
La scoperta del cinema non è avvenuta solo grazie alle scoperte tecniche che l’hanno permesso, al
contrario una realizzazione approssimativa e complicata dell’idea precede quasi sempre la scoperta
industriale che può consentirne l’applicazione pratica. Muybridge (pioniere della fotografia in
movimento), nel 1877 e nel 1880 riesce a realizzare un immenso complesso che gli permetterà di
impressionare, con l’immagine di un cavallo a galoppo, la prima sequenza cinematografica. Ma, per
ottenere questo risultato, ha dovuto accontentarsi del collodio umido su lastra di vetro.
Marey (studioso dei movimenti e precursore della cinematografia), dopo la scoperta nel 1880 della
gelatina di bromuro d’argento, costruì col suo fucile fotografico una vera e propria celluloide; lo stesso
Lumière tenterà dapprima di impiegare pellicole di carta.
Sadoul (storico e critico del cinema) nota, giustamente, che niente si opponeva alla realizzazione di un
fenachistiscopio (antico strumento ottico che consente di visualizzare immagini animate) o di uno
zootropio (dispositivo ottico che consente di visualizzare immagini in movimento) fin dall’antichità.
Sicuramente sono i lavori di un autentico scienziato, Plateau, ad essere all’origine delle molteplici
invenzioni meccaniche che permisero un uso popolare della loro scoperta. Senza alcun rapporto
scientificamente necessario, però, i lavori di Plateau sono pressappoco contemporanei a quelli di Niepce
(fotografo e ricercatore francese), come se l’intenzione dei ricercatori avesse, per secoli, atteso per
interessarsi alla sintesi del movimento. Dunque, il cinema fotografico avrebbe potuto innestarsi verso
il 1890 su un fenachistiscopio immaginato fin dal XVI secolo, perciò il ritardo nell’invenzione di questo
apparecchio è altrettanto inquietante dell’esistenza dei precursori del cinema fotografico.
L’immaginazione di tali precursori identifica l’idea cinematografica a una rappresentazione totale e
integrale della realtà e alla restituzione di un’illusione perfetta del mondo esterno col suono, il colore e
il rilievo. Nel 1891, Edison brevetta il cinetoscopio, che può essere considerato come il precursore del
proiettore cinematografico ed egli riteneva che questo apparecchio dovesse essere accoppiato ad un
fonografo (dispositivo pensato per registrare e riprodurre il suono, progettato sempre da Edison verso
il 1876).
Reynaud (precursore del cinema d’animazione) dipingeva da tempo le sue figurine e i primi film di
Méliès sono colorati a stampo. Il mito direttore dell’invenzione del cinema è dunque il compimento di
quello che domina tutte le tecniche di riproduzione meccanica della realtà che nacquero nel XIX secolo,
dalla fotografia al fonografo. È quello del realismo integrale, di una ricreazione del mondo a sua
immagine. Infatti, per cinema totale si intende un cinema capace di ricreare ogni aspetto sensibile del
reale, l’immagine a colori, il suono, il rilievo. Coloro che hanno avuto minore fiducia nell’avvenire del
cinema come arte e come industria sono proprio i due industriali Edison e Lumière. Infatti, Edison si è
accontentato del suo cinetoscopio, e Lumière ha rifiutato la vendita del proprio brevetto a Méliès perché
pensava senza dubbio di poter ottenere maggiore profitto sfruttandolo lui stesso, ma di fatto come un
giocattolo di cui il pubblico, un giorno o l’altro, si sarebbe stancato.
Quanto ai vari scienziati come Marey, essi hanno servito il cinema solo incidentalmente, in quanto
avevano di mira un altro obiettivo. Infine, Bernard Palissy ed altri fanatici e pionieri disinteressati, non
sono né industriali né scienziati, ma gente posseduta dalla loro immaginazione. Bazin dice che se il
cinema è nato lo è dalla convergenza della loro ossessione, cioè da un mito, quello del cinema totale.
Dunque, tutto ciò spiega il motivo del ritardo.
Vita e morte della sovrimpressione.
Bazin sostiene che il fantastico del cinema è consentito solo dal realismo irresistibile dell’immagine
fotografica, in quanto è essa ad imporci la presenza dell’inverosimile. Ciò che infatti piace al pubblico
nel fantastico cinematografico è evidentemente il suo realismo, cioè la contraddizione fra l’oggettività
dell’immagine fotografica e il carattere incredibile dell’avvenimento. Non è un caso che il primo a
comprendere le possibilità artistiche del cinema, Georges Mèliés, fosse un prestigiatore. Bazin prende
in considerazione tre film americani usciti sugli schermi francesi subito dopo la guerra; questi film
rivelano la relatività del realismo e della credibilità dei trucchi. Si tratta di “Here Comes Mr. Jordan”,
“Tom, Dick and Harry” e “Our Town”. Nessuno dei tre presenta trucchi spettacolari alla maniera dei
grandi classici del genere; sembra che Hollywood stia abbandonando i trucchi tradizionali a vantaggio
di un carattere più psicologico.
1) Nel primo film è stato lasciato completamente al pubblico il compito di interpretare
intellettualmente l’immagine a partire dall’azione, come a teatro. Il sogno resta il pezzo di
bravura del fantastico cinematografico, rappresentato quasi sempre con la sovrimpressione.
2) Nel secondo film si è usata l’accelerazione per illustrare i sogni di Ginger Rogers (nel film
Janie, la protagonista) e la deformazione di certi personaggi con un trucco ottico che fa pensare
soprattutto ad una costruzione drammatica della sequenza che tiene conto dei dati della
psicologia moderna. Ma l’humor di cui sono impregnati i sogni, secondo Bazin, non toglie nulla
al realismo psicologico.
3) Nel terzo film, una ragazza in coma, sognando di essere morta, assiste mentalmente a certi
momenti della propria vita passata ai quali il suo fantasma ha appena preso parte. La scena si
svolge in cucina, all’ora della colazione fra madre e figlia (l’attuale “morta”). Lo spettro è
bianco e appare in leggera sovrimpressione sull’ambiente o sui personaggi di terzo piano.
Quando il fantasma gira intorno alla tavola, Bazin dice che cominciamo a provare uno strano
disagio e avviene qualcosa di anormale che non si chiarisce ancora molto bene. Con un po’ di
attenzione, procede Bazin, scopriamo che la nostra inquietudine proviene dal fatto che questo
strano fantasma era in realtà per la prima volta un “vero” fantasma, trasparente agli oggetti e
alle persone situate dietro di lui, capace di attraversare le cose e le persone in una maniera
naturalissima.
L’America, utilizzando il procedimento del dunning, ha reso inaccettabili certi impieghi della
sovrimpressione. Fino ad allora era facile sovrapporre due fotografie, che però restavano
reciprocamente trasparenti. Grazie al dunning, a certi miglioramenti dovuti in particolare all’impiego
della pellicola bipack (due strati) e a un miglioramento importante della messa a punto dell’uso dei
mascherini, è possibile ottenere una sovraimpressione opaca di due fotografie oppure un’opacità a senso
unico a beneficio di una sola delle due immagini, come accade al fantasma di “Our Town” che può
essere nascosto dagli oggetti in primo piano senza cessare di essere trasparente agli oggetti situati dietro
di lui. Queste proprietà sovrannaturali sono indispensabili alla verosimiglianza. Bazin sostiene che la
sovrimpressione suggerisce convenzionalmente l’immaginario, ma il suo valore descrittivo
nell’evocazione del sovrannaturale risulta insufficiente.
A proposito di “Why we fight”. Storia, documenti e materiali di repertorio.
La guerra e la sua apocalisse sono state all’origine di un rivalorizzazione decisiva del reportage
documentario. La guerra, con le sue immense distruzioni, le sue innumerevoli migrazioni, i suoi campi
di concentramento, le sue bombe atomiche, si lascia di molto dietro l’arte d’immaginazione che
pretendeva di ricostruire. Secondo Bazin, il gusto del reportage di guerra sembra che derivi da una serie
di esigenze psicologiche e forse morali. Bazin accenna ad un “complesso di Nerone”, ossia la tendenza
degli esseri umani ad essere attratti dalla distruzione e dal dolore pur ripudiandoli idealmente.
L’uomo moderno avverte la necessità, secondo Bazin, di assistere alla Storia. Dato che la Storia non è
un balletto regolato in anticipo, conviene sparpagliare sul suo passaggio il maggior numero di macchine
da presa per essere sicuri di coglierla sul fatto (storico naturalmente). Dunque, il cameraman, corre
altrettanto pericolo dei soldati di cui è incaricato di filmarne la morte, anche a costo della propria vita,
purché la pellicola si salvi. Bazin, dunque, sostiene che viviamo sempre di più in un mondo spogliato
dal cinema, un mondo che tende a trasformare la propria immagine, di cui i mezzi più diffusi sono i
cinegiornali, e perciò il mondo è spogliato dall’obiettivo delle cineprese. Bazin parla in particolar modo
della serie americana “Why we fight”, apparsa in Francia subito dopo la Liberazione. I film di questa
serie non solo avevano il merito di introdurre un tono nuovo all’arte della propaganda, un tono misurato,
convincente senza violenza, didattico e coinvolgente nello stesso tempo, ma sapevano essere
appassionati come un romanzo poliziesco, pur essendo composti unicamente di materiale di repertorio.
Si tratta, secondo Bazin, di un genere nuovo: il documentario ideologico di montaggio. Sono film
astratti, puramente logici che si servono, però, del materiale di repertorio. Con una perfezione che
difficilmente può essere superata, questi film hanno stabilito che il montaggio a posteriori di documenti
ripresi ad altri fini poteva raggiungere la precisione del linguaggio. Quindi, i migliori documentari di
montaggio non erano altro che racconti; questi, invece, sono un discorso. Il principio di questo genere
di documentario consiste essenzialmente nel prestare alle immagini la struttura logica del discorso e al
discorso stesso la credibilità e l’evidenza dell’immagine fotografica. Lo spettatore ha l’illusione di
assistere ad una dimostrazione visiva, mentre in realtà questa è una successione di fatti univoci che
stanno insieme solo grazie alle parole che li accompagnano.
C’è una differenza con gli altri documentari. Un documentario, ad esempio, sulla costruzione di un
ponte mostra e spiega. Dunque, non c’è, in questo caso, nessuna frode intellettuale. Questi film, invece,
si basano su un abuso della psicologia, della credenza, della percezione. Spieghiamo perché:
analizzando da vicino certe sequenze come quella della battaglia davanti a Mosca (terzo film della
serie), ci si rende conto che è evidente che una battaglia di questa ampiezza non può venir
cinematografata. Dunque, il lavoro del montatore è consistito nello scegliere pezzi di repertorio concreti
(anche se non corrispondono alla realtà di ciò che stava rappresentando) in modo tale da ricostruire
quella battaglia, avendo così l’illusione di assistere a scene reali di quest’ultima. Quindi, se fino alla
fotografia il “fatto storico” veniva ricostruito sulla base di documenti, col cinema, dice Bazin, possiamo
citare i fatti in carne e ossa.
Morte ogni pomeriggio.
Bazin comincia parlando del regista Pierre Braunberger, elogiando, in particolare, le capacità di
montaggio di Myriam Borsoutsky, evidenziandone il film documentario “La course de toureaux”, che
mostrava un torero ed un toro dal vivo e il toro aveva i suoi primi piani senza il bisogno di essere
sostituito da una testa impagliata. Quanto al lavoro dei due, egli dice che le riprese raccolte e montate
sono di sorprendente efficacia. Infatti, parlando del regista, egli dice che sicuramente le corride sono
state frequentemente filmate visto che la cinepresa ci restituisce il lavoro dell'arena in maniera così
completa. Parlando, invece, del lavoro di Myriam, egli mostra un grande stupore per il suo talento. A
tal proposito, Bazin sostiene che l'arte del montatore è l'elemento maggiore della creazione del film.
Egli dice che non ha mai assistito ad una corrida e non pretende che il film gli offra tutte le emozioni,
sostiene, però, che il film dovrebbe restituire l'essenzialità di una vera corrida: la morte. Infatti, è proprio
attorno alla presenza della morte che si costituisce il balletto tragico della corrida. Bazin sostiene inoltre
che la realtà che il cinema riproduce è la realtà del mondo in cui siamo inclusi, di cui la pellicola riprende
una sagoma insieme spaziale e temporale.
Bazin dice che non si può ripetere un solo istante della propria vita, ma uno qualsiasi di questi istanti il
cinema può ripeterlo indefinitamente. Quindi nessun istante è identico ad un altro, tuttavia ce n'è uno
che fa eccezione, ovvero la morte. Quest'ultima è per l'essere umano il momento unico per eccellenza.
Ma Bazin sostiene che ci sono due componenti della realtà che il cinema non dovrebbe testimoniare:
l'atto sessuale e la morte, che sono, secondo Bazin, la negazione assoluta del tempo oggettivo, ovvero
l'istante qualitativo allo stato puro. Le rappresentazioni di queste due componenti sono, secondo Bazin
delle oscenità, qualcosa da tenere ai margini, fuori dalla scena.
Per capire fino in fondo la posizione di Bazin, occorre rifarsi all’altro suo fondamentale saggio
Ontologia dell’immagine fotografica, dove il grande critico francese teorizzava l’origine psicanalitica
delle arti plastiche e anche del cinema come “complesso della mummia”: l’uomo avrebbe infatti il
bisogno primordiale di difendersi dal tempo e il cinema assolverebbe questa esigenza, perché “fissa
artificialmente le apparenze carnali dell’essere” per “strapparlo al flusso della durata e ricondurlo alla
vita”. Solo a partire da ciò si può capire come per Bazin l’atto sessuale e la morte diventino dei tabù
cinematografici, in quanto rappresentano la “vittoria del tempo”, contro cui l’uomo nulla può fare per
difendersi. Lo stesso André Bazin descrive la morte come equivalente negativo del godimento sessuale,
che non per nulla viene qualificato come “pètite mort”, cioè “piccola morte”.
Il mito di Stalin nel cinema sovietico.
Secondo Bazin, una delle originalità del cinema sovietico è la sua audacia nel rappresentare personaggi
storici contemporanei viventi, tuttavia, “la messa in scena” di tali personaggi ha assunto un’importanza
centrale solo con Stalin. Infatti, mentre i film su Lenin sono apparsi solo dopo la sua morte, quelli su
Stalin apparivano fin dalla guerra. Ci viene proposto l’immagine di Stalin in diversi film sovietici come:
“Il terzo colpo”, “La battaglia di Stalingrado” e “Il giuramento”. Con questo saggio, Bazin delinea
i tratti di un’immagine in cui la biografia e il corpo stesso di Stalin si propongono, in questi film, nella
forma di una trascendenza incarnata, che scandisce il movimento stesso della Storia.
Bazin sostiene che l’immagine idolatrica di Stalin nel cinema sovietico sfrutta il realismo psicologico-
tecnico del cinema, usando tale credenza non per indagare la realtà, come sta facendo il cinema italiano
del dopoguerra, ma per costruire miti, così da farsi proiezione e al contempo mistificazione del Soggetto
stesso della visione. Dunque, quanto a Stalin, non si tratta più di un uomo, ma di un mito. L’icona in
movimento di Stalin, per la sua forza persuasiva, si impone come immagine incontestabile, totalitaria,
come esibizione di una divinità infallibile e onnisciente.
Dunque, se Stalin, benché vivo, può essere personaggio principale di un film, è perché non è più misura
umana, ma perché beneficia della trascendenza che caratterizza gli dèi vivi e gli eroi morti. È proprio
per questo che, secondo Bazin, la sua rappresentazione cinematografica, nonostante la sua presenza
reale, è possibile. Addirittura, Bazin ci assicura da fonti certe che lo stesso Stalin si documentava sulla
realtà sovietica attraverso il cinema della mitologia staliniana. Ad esempio, non avendo messo piede in
un villaggio dal 1928, è attraverso i film che conosceva la campagna e l’agricoltura e questi film
avevano di molto abbellito la realtà. Infine, Bazin osò anche dire che Stalin arrivava a convincersi del
proprio genio proprio con lo spettacolo dei film stalinisti.
Pasticcio e posticcio o il nulla dei baffetti.
In questo saggio, Bazin accusa Hitler di aver rubato i baffetti a Charlot (personaggio immaginario del
cinema muto ideato e interpretato da Charlie Chaplin fino a identificarsi con lui). Dopodiché Charlot si
riprende i baffetti, che nel frattempo sono diventati dei baffetti alla Hitler e con essi divenne Hinkel,
personaggio del film di Chaplin “Il dittatore”. I personaggi del film sono evidenti caricature di
personaggi reali, proprio come Hinkel che rimanda a Hitler.
BREVE TRAMA: siamo in un periodo imprecisato tra le due Guerre Mondiali: il Dittatore Hynkel
(interpretato da Chaplin) prende il potere nello Stato di Tomania, invadendo poi la vicina Ostria. Un
barbiere ebreo (anch’egli interpretato da Chaplin) gli somiglia incredibilmente. Il caso vuole che
quest’ultimo si sostituisca a lui (ad Hitler) e, quando forse tutti si aspettavano un discorso di odio
razzista e di guerra, egli pronuncia invece un discorso inneggiante all’amore ed all’uguaglianza, che
apre le porte alla Speranza.
Bazin sostiene che Hinkel non è altro che Hitler ridotto alla sua essenza ma privato dalla sua esistenza.
Charlot/Chaplin non uccide il suo avversario col ridicolo, ma lo annienta ricreando di fronte a lui un
Dittatore perfetto, assoluto, necessario, nei cui confronti si è assolutamente liberi da ogni impegno
storico e psicologico. Quindi, disponendo della sua esistenza, Charlot gliel’ha ripresa per annientarla. I
rapporti di Charlot con Hitler sono, secondo Bazin, un fenomeno eccezionale, forse unico nella storia
dell’arte universale. Charlot ha creato con Hitler un essere indipendente perfino dall’esistenza di Hitler
sesso. Hinkel, al limite, potrebbe esistere senza Hitler poiché è nato da Charlot, ma quanto a Hitler, lui
non può far sì che Hinkel non esista su tutti gli schermi del mondo.
Da qui Bazin sposta l’attenzione alla centralità dei baffetti, sostenendo che “Il dittatore” sarebbe stato
impossibile se Hitler si fosse tagliato i baffi in modo diverso da Charlot. Tutta l’arte di Chaplin non
avrebbe potuto farci nulla. Quindi, infine, Bazin sostiene che non è il talento di mimo, non è neppure il
genio di Chaplin che lo autorizzano a girare questo film, ma sono solo questi baffetti. Dunque, Charlot
ha atteso il tempo dovuto, ma ha saputo riprendersi il suo bene.
Introduzione a una simbolica di Charlot.
- Charlot è un personaggio mitico.
Charlot è un personaggio mitico che domina ciascuna delle avventure nelle quali è coinvolto. Per
milioni di uomini su questo pianeta, Charlot è un eroe come lo era per altre civiltà Ulisse.
- Ma cos’è che fa correre Charlot?
La continuità e la coerenza dell’esistenza di Charlot può essere colta attraverso i film che egli abita. Il
pubblico lo riconosce dal viso e soprattutto dai baffetti, nonché dalla sua camminata ad anatra. Il
personaggio ha anche delle costanti interne che lo costituiscono: ad esempio, Charlot cerca sempre di
aggirare le difficoltà piuttosto che risolverle, quindi, si serve solo di soluzioni provvisorie come se per
lui l’avvenire non esistesse. Ma per Charlot, a tutto c’è una soluzione.
- Charlot e gli oggetti.
Nel nostro mondo gli oggetti sono degli utensili diretti verso uno scopo ben preciso. Per Charlot, non è
così. Quindi, ogni volta che egli vuole servirsi di un oggetto secondo il suo modo utilitaristico, cioè
sociale, o lo fa con una goffaggine ridicola oppure sono gli stessi oggetti a rifiutarsi volontariamente.
Ad esempio, nel film “Giorno di festa” la vecchia Ford si ferma ogni volta che apre lo sportello.
Paradossalmente gli oggetti che si rifiutano lo servono anche con molta facilità, cioè sembrano aiutarlo.
Ad esempio, nell’”Evaso” un abat-jour trasforma Charlot in lampadario invisibile ai poliziotti. Quindi,
poi, Charlot crede di esseri sbarazzato dalle guardie che lo inseguivano gettando loro delle pietre
dall’alto di una scogliera, ma invece di approfittare della situazione per scappare, egli si diverte gettando
loro altri sassolini. In questo modo non vede arrivargli alle spalle un loro collega che lo guarda fare.
Cercando con la mano una pietra, Charlot incontra la scarpa della guardia e invece di fuggire ricopre il
piede con un po’ di terra. Ovviamente a questo segue la risata del pubblico. Charlot, in questo caso,
spinge fino all’assurdo la sua tendenza fondamentale a non superare l’istante.
Bazin ci informa che le gag di Charlot sono spesso di una brevità da lasciare solo il tempo necessario
per coglierle, e non sono seguite da alcun tempo morto del racconto che permetterebbe di riflettervi.
Secondo Bazin, Charlot ha innalzato la sua genialità di clown grazie al cinema: Chaplin aveva bisogno
dei mezzi del cinema per liberare al massimo la comicità della servitù dello spazio e del tempo imposte
dal palcoscenico o dalla pista del circo. Inoltre, Bazin sostiene che i migliori film di Chaplin possono
essere visti indefinitamente senza che il piacere ne sia diminuito, anzi al contrario lasciano il posto ad
un piacere molto più raffinato che è il riconoscimento di una perfezione.
- La pedata è l’uomo.
Un’altra caratteristica di Charlot è la pedata all’indietro. È significativo, infatti, che non sia mai pedata
in avanti, come se non volesse mai portarsi dietro qualcosa del passato. Questa caratteristica della pedata
è capace di esprimere, secondo Bazin, mille sfumature del “finalmente libero” nei confronti delle cose
e degli avvenimenti.
- Il peccato di ripetizione.
Un’altra caratteristica di Charlot è la tendenza alla meccanizzazione, che sarebbe il prezzo della sua
aderenza agli avvenimenti e alle cose. È il caso del film “Tempi moderni”, in cui Charlot, lavorando
alla catena di montaggio, continua affannosamente ad avvitare dei bulloni immaginari. Il fatto è che la
meccanizzazione è in qualche modo il peccato fondamentale di Charlot. La sua libertà nei confronti
delle cose e degli avvenimenti si proietta nella durata sotto una forma meccanica, come una forza
d’inerzia che continua la sua spinta iniziale. Il peccato capitale di Charlot è dunque la “ripetizione”.
- Un uomo fuori dal sacro.
Uno degli aspetti più caratteristici della libertà di Charlot nei confronti della società è la sua totale
indifferenza alle categorie del sacro, cioè ai diversi aspetti sociali della vita religiosa. Possiamo pensare
al film “Il pellegrino”, che addirittura incontrò qualche difficoltà con la censura dell’epoca, in quanto
suscitò l’indignazione di associazioni ecclesiastiche e ministri evangelici che vi rilevarono offese al
Vangelo e alla chiesa protestante.
Ma del sacro non fanno parte solamente i riti religiosi: possiamo pensare alle mille buone regole che la
Società impone, ad esempio, il modo di mangiare in Società. Charlot si rifiuta di seguire tali regole,
infatti mette, ad esempio, il gomito nei piatti, versa la minestra sui pantaloni e così via. Religioso o no,
il sacro è sempre presente nella vita sociale ed è con esso che la società mantiene la propria coerenza
come un campo magnetico. Ma Charlot, dice Bazin, è fatto di un altro metallo. Infatti, per lui la categoria
di sacro non esiste, gli è inconcepibile.
Montaggio proibito.
La riflessione di Bazin parte dalla messa a confronto di due film per bambini. Il primo è “Une fée pas
comme les autres” di Jean Tourane e il secondo è “Le Ballon Rouge” di Albert Lamorisse. Tramite
l’analisi di queste due pellicole vuole dimostrare come l’intervento del montaggio non sia sempre
necessario, ma anzi, rischi di compromettere la narrativa filmica. Infatti, egli stesso dice che questo
articolo non sarà una vera critica, ma il suo proposito è solo quello di analizzare alcune leggi del
montaggio nel loro rapporto con l’espressione cinematografica e soprattutto con la loro ontologia
estetica.
Bazin comincia analizzando il film di Tourane. In questo film il regista inserisce degli animali ed è
evidente che i sentimenti umani prestati alle bestie sono una proiezione della nostra coscienza. Secondo
Bazin, in questo film, il montaggio è artificio necessario alla narrazione. L’obiettivo è quello di
antropomorfizzare gli animali inquadrati e i loro comportamenti, al fine di renderli attori protagonisti
del film. Il cinema, dice Bazin, moltiplica le interpretazioni statiche della fotografia con quelle che
nascono dall’accostamento delle inquadrature. È molto importante notare che gli animali di Tourane
non sono addestrati, ma addomesticati e il talento del regista consiste proprio nel farli rimanere più o
meno immobili per la durata della ripresa.
L’ambiente circostante, il travestimento e il commento bastano già a conferire all’andatura della bestia
un senso umano, il tutto precisato dal montaggio che lo crea quasi del tutto. Si costruisce così una storia
con numerosi personaggi di caratteri diversi e tutto ciò che i protagonisti (gli animali) fanno è
semplicemente quello di starsene tranquilli nel campo della macchina da presa. Dunque, è per questo
motivo che il montaggio in questo film non è solo sufficiente ma necessario, in quanto è esso a costruire
il senso narrativo del film. ovviamente se le bestie di questo film fossero stati animali sapienti, capaci
di realizzare con l’addestramento la maggior parte delle azioni che il montaggio porta a loro credito, il
senso del film sarebbe stato radicalmente spostato.
Nel film di Lamorisse, invece, il montaggio assume un ruolo ben diverso, cioè non è necessario. Scopo
del film è zoomorfizzare un palloncino affinché segua il suo “padrone” come un cane. Il palloncino di
Lamorisse, però, a differenza delle bestie di Tourane, compie realmente davanti alla macchina da presa
i movimenti che gli vediamo compiere. Si tratta di un’illusione ma che non deve nulla al cinema in
quanto tale perché nasce dalla realtà. Infatti, essa è concreta e non il risultato dei prolungamenti virtuali
del montaggio. La specificità cinematografica, quindi, qui non si palesa più nel montaggio, ma nella
validità dell’immagine in sé. Ovviamente si potrebbe obiettare che i palloncini di Lamorisse sono
truccati, ma Bazin sostiene che se non lo fossero saremmo in presenza di un documentario.
Bazin sostiene che ciò di cui c’è bisogno per la pienezza estetica dell’impresa è che noi possiamo
credere alla realtà degli avvenimenti sapendo che sono truccati, ma reciprocamente, bisogna che
l’immaginario abbia sullo schermo la densità spaziale del reale. Il cinema deve essere arte che sintetizza
un profondo legame tra la realtà e l’immagine. La necessità di realismo comporta delle soluzioni
estetiche e narrative molto forti e radicali: Bazin individua nel piano-sequenza uno dei capisaldi della
sua teoria cinematografica, in quanto nel piano-sequenza il tempo della narrazione coincide con quello
della realtà. Al contrario, vanno evitati quegli artefici estetici che possono minare il realismo della messa
in scena cinematografico. Secondo Bazin, il montaggio deve essere utilizzato entro limiti ben precisi.
Addirittura, egli arriva ad enunciare una legge estetica: “Quando l’essenziale di un avvenimento
dipende da una presenza simultanea di due o più fattori dell’azione, il montaggio è proibito”.
Bazin, però, si preoccupa subito di rendere meno acuta l’intransigenza di tale legge, sostenendo che
questo non significa obbligatoriamente ritornare al piano-sequenza. Dunque, egli sostiene che il
montaggio è utilizzabile ma bisogna che l’unità spaziale dell’avvenimento sia rispettata nel momento
in cui la sua rottura trasformerebbe la realtà nella sua semplice rappresentazione immaginaria. In poche
parole, significa: dare continuità e omogeneità alle inquadrature (questa è una caratteristica del
cinema classico, i cui principali mezzi sono i raccordi che garantiscono continuità e uniscono tra loro
due inquadrature).
L’evoluzione del linguaggio cinematografico.
In questo testo, Bazin distingue, nel cinema dal ’20 al ’40, due grandi e opposte tendenze: i registi che
credono nell’immagine e quelli che credono nella realtà. Per immagine, Bazin intende tutto ciò che alla
cosa rappresentata può aggiungere la sua rappresentazione sullo schermo: si tratta della plasticità
dell’immagine e delle risorse del montaggio. Nella plasticità bisogna comprendere lo stile della
scenografia, del trucco, della recitazione, dell’illuminazione e infine dell’angolazione che completa la
composizione. Quanto al montaggio, invece, esso rappresenta la nascita del cinema come arte: il che lo
differenzia dalla semplice fotografia animata, facendone un linguaggio. I principali tipi di montaggio
sono:
- Invisibile: è il caso più frequente del film americano classico d’anteguerra. La suddivisione in
inquadrature ha la funzione di analizzare l’avvenimento secondo la logica materiale o
drammatica della scena.
- Parallelo: creato da Griffith, esprime la simultaneità di due azioni lontane nello spazio
attraverso il succedersi di inquadrature dell’una e dell’altra.
- Accelerato: dare l’illusione di accelerazione mediante la moltiplicazione di inquadrature
sempre più brevi.
- Delle attrazioni: creato da Ejzenstejn, riguarda il rafforzamento del senso dell’immagine
mediante l’accostamento di un’altra immagine che non appartiene necessariamente allo stesso
avvenimento. Questo tipo di montaggio è stato poco utilizzato anche da suo creatore.
Naturalmente esistono diverse combinazioni di questi procedimenti, che hanno però un tratto comune:
la creazione di un senso che le immagini oggettivamente non contengono e che deriva soltanto dal
loro rapporto. I montaggi di Kulesov o di Ejzenstejn non mostravano l’avvenimento, ma vi alludevano
soltanto attraverso l’accostamento di più immagini che provocano in noi un’associazione di idee: essi,
dalla realtà che intendevano descrivere, attingevano la maggior parte dei loro elementi, ma il significato
finale del film risiedeva molto più nell’organizzazione di essi che nel loro contenuto oggettivo.
Sia attraverso il contenuto plastico dell’immagine che attraverso le risorse del montaggio, il cinema
dispone di molti procedimenti per imporre allo spettatore la propria interpretazione dell’avvenimento
rappresentato. Ma, se l’essenziale dell’arte cinematografica stesse in tutto ciò che il montaggio e la
plasticità possono aggiungere ad una realtà data, allora il suono avrebbe solamente un ruolo subordinato,
di contrappunto all’immagine visiva. Bazin riflette sul fatto che si è considerato l’espressionismo del
montaggio e dell’immagine come l’essenza dell’arte cinematografica, ed è proprio questa nozione che
mette implicitamente in causa, fin dal cinema muto, registi come Stroheim o Flaherty. Nei loro film il
montaggio ha solamente il ruolo di eliminazione in una realtà troppo abbondante: in poche parole, il
montaggio non assume un ruolo decisivo, così come la plasticità dell’immagine.
Stroheim è quello che più di tutti si è opposto all’espressionismo dell’immagine e del montaggio: il
principio della sua regia era quello di guardare il mondo abbastanza da vicino e con sufficiente
insistenza affinché esso finisca col rivelare la sua crudeltà e la sua bruttezza. Dunque, questi esempi
indicano l’esistenza, in piena epoca muta, di un’arte cinematografica esattamente all’opposto di ciò che
si identifica col cinema di eccellenza: si cessa, quindi, di considerare il montaggio e la composizione
plastica dell’immagine come l’essenza stessa del linguaggio cinematografico e l’immagine conta:
prima di tutto non per ciò che essa aggiunge alla realtà ma per ciò che ne rivela.
Bazin a questo punto riflette sul fatto che in rapporto a questa tendenza, il mutismo del film costituiva
di fatto un’infermità: la realtà meno uno dei suoi elementi.
Bazin procede esaminando la storia del cinema dal 1930 al 1950, sostenendo innanzitutto che dal 1930
al 1940 sembra essersi affermata, soprattutto in America, una certa comunità d’espressione nel
linguaggio cinematografico. È il trionfo ad Hollywood di alcuni grandi generi come: la commedia
americana, il burlesque, film di danza e varietà, polizieschi e gangster, dramma psicologico e di
costume, film fantastico e dell’orrore, il western. In quello stesso periodo si consolida a livello mondiale
anche il cinema francese, caratterizzato dal realismo nero e poetico, i quali maggiori registi furono:
Renoir, Feyder, Carné e Duvivier.
Il cinema americano e francese definì il cinema parlato d’anteguerra come un’arte pervenuta
visibilmente all’equilibrio e alla maturità. Riguardo il fondo, vi erano grandi generi dalle regole ben
elaborate capaci di piacere e interessare al più vasto pubblico internazionale; riguardo la forma, invece,
gli stili di decoupage e fotografia erano perfettamente chiari e conformi al loro soggetto e, inoltre, vi
era una totale riconciliazione dell’immagine e del suono. Bazin sostiene che rivedendo dei film di John
Ford o di Marcel Carnè si ha la sensazione di un’arte che ha trovato il suo equilibrio perfetto, la sua
forma ideale e, reciprocamente, vi si ammirano dei temi drammatici e morali: in breve, in questi film si
possono cogliere tutti i caratteri della pienezza di un’arte classica.
Nel cinema del dopoguerra, invece, emergevano quello italiano e l’apparire di un cinema britannico
originale svincolato dalle influenze hollywoodiane. Gli anni ’30 sono anche stati gli anni del suono e
della pellicola pancromatica. Insomma, dopo la diffusione dell’uso della pancromatica, la conoscenza
delle risorse del microfono e la generalizzazione della gru nelle attrezzature dei teatri di posa, si possono
ritenere acquisite le condizioni tecniche necessarie per l’arte cinematografica dopo il 1930. Nel 1939 il
cinema parlato aveva raggiunto ovunque il suo profilo di equilibrio. Dopo il ’40, a livello tecnico, si
assiste all’aumento di sensibilità della pellicola, che consentiva all’operatore di eliminare lo sfondo
sfocato che generalmente era di rigore.
- Evoluzione del “découpage” cinematografico dopo il parlato.
Nel 1938 si trova quasi dappertutto lo stesso découpage (la tecnica con cui il regista individua nella
sceneggiature le singole riprese da effettuare), di cui i tratti peculiari erano: la verosimiglianza dello
spazio (nel quale è sempre determinata la posizione del personaggio) e le sue intenzioni e i suoi effetti,
cioè drammatici e psicologici. I cambiamenti dei punti di vista della cinepresa non vi aggiungono nulla;
infatti, si limitano a presentare la realtà in modo più efficace, accentuando ciò che merita. La storia
veniva descritta attraverso una successione di inquadrature il cui numero variava relativamente poco
(circa 600). La tecnica caratteristica di questo découpage era il campo-controcampo: ad esempio, nel
dialogo la ripresa era alternata secondo la logica del testo, passando ad inquadrature prima l’uno e poi
l’altro interlocutore.
Questo tipo di découpage verrà messo in discussione dalla profondità di campo usata da registi come
Orson Welles e William Wyler. La profondità di campo è una tecnica che permette a tutto ciò che appare
nell’inquadratura, sia in primo piano che sullo sfondo, di essere costantemente a fuoco (nitidezza).
Esempio emblematico dell’utilizzo di questa tecnica è il film “Quarto Potere” (Citizen Kane) del 1941,
diretto da Orson Welles. Grazie alla profondità di campo, in questo film scene intere sono girate senza
interruzione (piano-sequenza), a volte anche con la cinepresa immobile. Con la profondità di campo
nessun dettaglio viene escluso, la disposizione di un oggetto è tale che lo spettatore non può non evitarne
il significato: nel decoupage classico il montaggio avrebbe spezzato il tutto in una serie di inquadrature.
La profondità di campo valorizza l’avvenimento e influenza i rapporti dello spettatore con lo spettacolo;
infatti, pone lo spettatore in un rapporto con l’immagine più vicino a quello che egli ha con la realtà.
Questo implica, a sua volta, un atteggiamento mentale più attivo dello spettatore per cogliere tutti i
dettagli. Con “Quarto potere”, Orson Welles rivoluziona le pratiche del cosiddetto “cinema delle
origini” rifondando, di fatto, le tecniche della ripresa cinematografica. Egli ricostruisce e migliora lo
stile di maestri del primo cinema, dai quali trae ispirazione e suggerimenti. Welles fonde in modo
magistrale elementi del teatro e del cinema ricostruendo il punto di vista dello spettatore con
inquadrature innovative.
L’aspetto più innovativo del film “Quarto potere” fu, come abbiamo detto, la profondità di campo, di
cui però Welles non è l’inventore, tanto che tale tecnica compare già nei film dei fratelli Lumière, ma
era stata bandita da Hollywood perché distraeva lo spettatore con dettagli insignificanti e infrangeva la
regola della gerarchia tra primo piano e sfondo. Welles, con l’aiuto del direttore della fotografia Toland,
riprese questa volta ispirandosi agli stili di Stroheim e John Ford (Wells vide trenta volte “Ombre
Rosse” durante la lavorazione di “Quarto potere”) e ricorrendo a una potentissima illuminazione del
teatro di posa fino a dare allo spazio una straordinaria potenza visiva.
Contro le regole del cinema classico, in particolare quella della leggibilità immediata, era anche l’uso
di lenti e obiettivi grandangolari che vennero usate nel film per distorcere le immagini ottenendo effetti
espressivi e simbolici. In generale, infatti, un elemento continuamente rendendolo incapace di gustarsi
la storia in tranquillità. Altra trasgressione, è la mancanza di un tempo lineare, anzi la struttura temporale
è composta da continui salti in avanti e salti indietro, addirittura con la ripetizione di alcuni episodi,
come il debutto di Susan raccontato da due diversi narratori.
Grande anticipazione del cinema moderno si trova nell’uso della cinepresa: essa non è un dato
oggettivo, né uno strumento per mostrare il punto di vista dei personaggi; essa si muove invece
indipendente per il set; è lo sguardo del regista. Quindi lo spettatore deve cogliere l’essenza pensando
e riflettendo sugli indizi che gli fornisce il regista. Dunque, “Quarto potere”, con tutti i suoi aspetti
innovativi, si inserisce in un movimento d’insieme che conferma un po’ dappertutto questa rivoluzione
del linguaggio. Il piano-sequenza di Welles, secondo Bazin, è una tappa fondamentale dell’evoluzione
del linguaggio cinematografico, che dopo essere passato attraverso il “montaggio del muto” e il
“découpage del parlato”, tende a riscoprire l’inquadratura fissa, ma in uno sviluppo dialettico che
integra tutte le conquiste del découpage nel realismo del piano-sequenza.
Bazin conclude sostenendo che al tempo del cinema muto, il montaggio evocava ciò che il realizzatore
voleva dire, quello del 1938 descriveva, mentre dal ’40 al ’50 il regista scrive direttamente in cinema.
“Il cineasta non è più soltanto il concorrente del pittore o del drammaturgo, ma finalmente l’eguale del
romanziere”.
William Wyler o il giansenista della messa in scena.
- Il realismo di Wyler.
Bazin, studiando in dettaglio la regia di Wyler, arriva a sostenere che essa rivela per i suoi film
visibilissime differenze, sia nell’impiego della macchina da presa che nella qualità della fotografia.
Wyler non mostra di avere né ambienti né personaggi preferiti, al massimo predilige le storie
psicologiche su sfondo sociale, ma questo, secondo Bazin, non definisce lo stile di un regista. Proprio
per questo motivo, Bazin sostiene che Wyler è inimitabile, in quanto l’imitazione non renderebbe, visto
che nessuna forma precisa definisce la sua regia. Dunque, Wyler non può avere imitatori, ma solo
discepoli. Bazin prende in considerazione due film del regista: “The little foxes” e “I migliori anni della
nostra vita”.
1) The Little Foxes (1941): trae origine dall’omonima opera teatrale di Hellman, che sembra però
non aver quasi subito l’adattamento, in quanto il film di Wyler ne rispetta il testo quasi
integralmente. Bazin fa notare che, in genere, il buon adattamento consiste nel “trasporre” nei
mezzi propri del cinema il massimo di ciò che può sfuggire alle costrizioni letterarie e tecniche
del teatro, in modo tale da introdurre un po’ di “cinema” nella massa teatrale. Nonostante Wyler
non l’abbia fatto, quest’opera, secondo Bazin, è una delle opere più puramente
cinematografiche che siano mai state fatte. L’essenziale del film si svolge nello stesso ambiente:
il salone a pianterreno in una grande villa. In fondo, una scala che porta alle camere del primo
piano. Nessun elemento pittoresco interviene a rendere singolare questo luogo drammatico e la
scala infondo al salone assume esattamente il ruolo di un praticabile teatrale. Bazin a questo
punti analizza la scena capitale del film, ovvero quella della morte di Hebert Marshall, situata
appunto in questo ambiente.
Questa analisi rivela chiaramente i segreti essenziali dello stile di Wyler. Nel film si può vedere
che Bette Davis (moglie della vittima) è seduta in secondo piano, al centro, frontale rispetto al
pubblico, mentre un’illuminazione tagliente accentua il suo viso. In primo piano si vede, invece,
Hebert Marshall (la vittima). Le battute tra marito e moglie vengono scambiate senza che muti
inquadratura, a questo punto segue la crisi cardiaca del marito che supplica la moglie di andargli
a prendere le gocce in camera. La moglie non lo fa. Dunque, a partire da questo momento in
poi, tutto l’interesse drammatico sta nella valorizzazione dell’immobilità. Marshall è costretto
ad alzarsi per andare a prendere la medicina e questo sforzo lo ucciderà sui primi gradini della
scala.
A teatro, dice Bazin, questa scena sarebbe stata costruita apparentemente alla stessa maniera,
ma nonostante le apparenze, la regia di Wyler si serve al massimo dei mezzi che gli offrono la
cinepresa e l’inquadratura. Vediamo perché. Il posto di Bette Davis al centro dello schermo le
conferisce una posizione privilegiata nella geometria drammatica dello spazio, la scena gravita
intorno a lei, ma questa immobilità viene messa in evidenzia dalla doppia uscita di campo di
Marshall, dove la cinepresa, al posto di seguirlo, rimane immobile. Quando finalmente Marshall
rientra per la seconda volta in campo e sale le scale, Wyler chiese al suo operatore Toland di
non mettere a fuoco su tutta la profondità del campo, in modo tale che la caduta di Marshall e
la sua morte non fossero visibili chiaramente dallo spettatore. Questa sfocatura, secondo Bazin,
fa accrescere nello spettatore un senso d’inquietudine, in quanto si deve cercare di distinguere
da lontano l’esito di un dramma. Con questa analisi Bazin vuole dimostrare che il massimo
coefficiente cinematografico coincide paradossalmente con il minimo di messa in scena
possibile. Infatti, niente poteva meglio moltiplicare la potenza drammatica di questa scena
dell’immobilità assoluta della cinepresa, il minimo movimento avrebbe fatto cadere la tensione
drammatica. Quindi, è proprio la macchina da presa, qui, ad organizzare l’azione.
2) I migliori anni della nostra vita (1946): ispirato al romanzo “Glory for me” di Kantor, è il
film più lungo e costoso della sua carriera. Wyler, con questo film, ha volto fare un’opera tanto
civica quanto artistica. La guerra ha influenzato molto il cinema europeo, tanto che lo stesso
regista dice che senza questa esperienza non avrebbe mai potuto fare questo film come l’ha
fatto. Bazin nota che nei “Migliori anni della nostra vita” lo scrupolo etico della realtà ha trovato
la sua trascrizione estetica nella messa in scena. Wyler, infatti, non si è accontentato di rispettare
la verità psicologica e sociale nella sceneggiatura e nella recitazione degli attori, ma ha anche
cercato di trovare degli equivalenti estetici nella regia.
Il senso di realismo in questo film si può vedere già dalla scenografia costruita appunto a
dimensioni reali: gli attori portavano vestiti e trucchi simili a quelli che i loro personaggi
portavano nella realtà. La tendenza “realista”, dice Bazin, esiste nel cinema già ai tempi di
Lumière, ma le forme che ha potuto prendere sono sopravvissute solo in proposizione
dell’invenzione estetica che essa implicava.
Bazin sostiene che non c’è solo in proposizione dell’invenzione estetica che essa implicava.
Bazin sostiene che non c’è solo un realismo, ma ce ne sono tanti: ogni epoca ha il suo, cioè la
tecnica e l’estetica che meglio possano captarlo. Wyler, ad esempio, ha deciso di integrare al
découpage e all’immagine il massimo di realtà. Nei film “I migliori anni della nostra vita”, il
suo intendo non è quello di provocare lo spettatore ma semplicemente di fargli vedere tutto e
di permettergli di scegliere “a suo grande gradimento” su quale dettaglio soffermarsi. Bazin
sostiene che questo è un atto di lealtà verso lo spettatore, in quanto si gioca a carte scoperte.
Anche Wyler utilizza moltissimo la profondità di campo, ma come dice Bazin, la sua vuol dire
essere liberale e democratica come la coscienza dello spettatore americano e i protagonisti del
film.

- Lo stile senza stile.


Quindi, la profondità di campo di Wyler equivale alla perfetta neutralità e trasparenza dello stile che
non deve interporre alcuna colorazione. Anche Wyler, come Welles, ha lavorato con Toland. D’accordo
con Wyler, quest’ultimo ha dunque utilizzato in questo film (“I migliori anni della nostra vita”) una
tecnica diversa da quella impiegata in “Quarto potere” di Welles. Innanzitutto, nell’illuminazione:
Welles ricercava le luci contrastate, violente e insieme sfumate, mentre Wyler ha chiesto a Toland
un’illuminazione più neutra possibile, non estetica, semplicemente una luce onesta che illumini a
sufficienza l’attore e l’ambiente che lo circonda. Ma, l’opposizione delle due tecniche si coglie meglio
nella differenza degli obiettivi: gli obiettivi grandangolari di “Quarto potere” deformavano fortemente
le prospettive, mentre quelli dei “Migliori anni della nostra vita” erano più conformi alla geometria di
una visione normale.
Wyler proibisce certe risorse di messa in scena per meglio rispettare la realtà. Tutto, infatti, tende alla
neutralità: scene, costumi, illuminazione fotografica. Bazin scrive che “sembra che questa in scena si
definisca con la sua assenza”. Gli sforzi di Wyler concorrono non solo a ottenere un universo
cinematografico rigorosamente conforme alla realtà, ma anche il meno possibile modificato dalla
cinepresa. Questo, naturalmente, si ripercuote sul découpage.
Innanzitutto, Bazin spiega che al cinema, generalmente, il numero medio delle inquadrature diminuisce
del loro realismo, tanto che i film parlati hanno meno inquadrature di quelli muti. Di fatto, i “Migliori
anni della nostra vita” non ha più di 190 inquadrature all’ora, mentre gli altri film in genere ne hanno
in media da 300 a 400 all’ora, cioè quasi il doppio. Inoltre, sempre in questo film, spesso ci sono delle
inquadrature di più di due minuti, dunque, non resta più traccia delle risorse del montaggio. Lo stesso
découpage è singolarmente ridotto: l’inquadratura e la sequenza tendono a identificarsi. Anche Orson
Welles utilizzava il piano-sequenza, ma con diverse intenzioni estetiche. Infatti, l’estetica del
découpage di Wyler rimane costante, i procedimenti di racconto mirano ad assicurargli il massimo di
chiarezza e di efficacia drammatica; invece, l’estetica del découpage di Welles mira esattamente al
contrario.
Anche la profondità di campo utilizzata da entrambi i registi ha scopi diversi: per Welles è un fine
estetico, mentre per Wyler resta ancora subordinata alle esigenze drammatiche della messa in scena e
in particolare della chiarezza del racconto. Bazin sostiene che sarebbe ingenuo confondere questa
perfetta neutralità di Wyler con un’assenza di arte (pensiamo al caso del film “The little foxes”). Nei
“Migliori anni della nostra vita”, Wyler non si serve dei procedimenti di découpage imposti dalla moda,
e per questo, secondo Bazin, ci voleva più coraggio e immaginazione, visto che si è privato del loro
aiuto.
Wyler ha inoltre riposto molta fiducia a Toland per il découpage tecnico sul set, infatti, il regista non
ha scritto alcuna sceneggiatura preliminare. Il film è stato praticamente realizzato sulla base di un
découpage drammatico di cui ciascuna scena doveva trovare sul set la sua soluzione tecnica. La messa
in scena di Wyler è stata dunque concentrata sugli attori. Anche l’analisi di “The little foxes” rivela
chiaramente come il regista sappia far ruotare un’intera scena sull’attore. Per lui, l’azione è prima di
tutto espressa dall’attore, ed è proprio in funzione dell’attore che Wyler concepisce il suo lavoro di
valorizzazione dell’azione.
L’ambiente e la macchina da presa ci sono solo per permettere all’attore di concentrare su di sé il
massimo d’intensità drammatica. D’altronde, secondo Bazin, il cinema comincia quando la corniche
dello schermo o la prossimità della macchina da presa o del microfono servono a valorizzare l’azione o
l’attore. Tra l’altro lo stesso Wyler, quando parla della sua messa in scena, è sempre in funzione dello
spettatore, con la preoccupazione unica e primaria di fargli esattamente capire l’azione. L’immenso
talento del regista sta, secondo Bazin, in questa scienza della chiarezza attraverso la depurazione della
forma, la comune umiltà di fronte al soggetto e allo spettatore. Wyler ha scelto di realizzare in cinema
ciò che costituisce l’essenziale della messa in scena teatrale, ma secondo Bazin non c’è un’inquadratura
di un film di Wyler che non sia cinema puro.

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