Sei sulla pagina 1di 74

INTRODUZIONE ALLA STORIA DEL CINEMA - BERTETTO

LE ORIGINI DEL CINEMA:

Una semplicistica convenzione storica attribuisce ai fratelli Louis e Auguste Lumiere di Lione l’invenzione del cinema
e individua nella data della prima proiezione pubblica a pagamento del Cinématographe Lumiere (il 28 dicembre 1895
a Parigi al Grand Cafè de Boulevard des Capucines al costo di un franco) la simbolica data di inizio della storia del
cinema. In realtà nel 1891 negli Stati Uniti Thomas Edison e William Dickson mettono a punto il kinetoscopio: il
dispositivo consente attraverso un mirino la visione di un brevissimo film a un solo spettatore per volta. Ma il rapido
declino di questo apparecchio conferma che il futuro del cinema è legato alla produzione collettiva. Il macchinario di
Lumiere risponde di più a questa esigenza. Il dispositivo richiede la proiezione su un grande schermo, una pellicola su
supporto flessibile (supporto ottimale e la celluloide per le fotografie), un trascinamento regolare della pellicola a 16
fotogrammi al secondo, un movimento intermittente della ripresa. Il cinématographe sintetizza molte delle innovazioni
elaborate da altri ricercatori > sintesi pronta per il commercio. La perforazione della pellicola era già stata introdotta
infatti nel 1888 da Emile Reynaud, inventore del prassinoscopio, un apparecchio che consentiva con l’ausilio di
specchi di proiettare pellicole disegnate fotogramma per fotogramma dallo stesso Reynaud. Le tecniche di proiezione
dovevano molto alle esperienze della lanterna magica ovvero un apparecchio diffuso dal ‘600 che utilizzando una fonte
luminosa, un condensatore e un obiettivo consentiva la proiezione di immagini dipinte su vetro con colori traslucidi.

Il cinema poggia le sue basi sulla fotografia: la prima fotografia era stata scattata nel 1826 da Joseph Nicéphore
Niépce ritraendo la vista dalla sua finestra che fu sviluppata non su carta ma su vetro. Il primo essere umano
fotografato è invece Louis Daguerre, inventore della dagherrotipia che fu il primo procedimento fotografico per lo
sviluppo di immagini (tuttavia non riproducibili).

Negli ultimi anni dell’Ottocento la proiezione di film non costituisce uno spettacolo autonomo, è allestita in sedi
precarie come caffè o sale da ballo oppure è integrata all’interno di spettacoli come il circo o il teatro di varietà. Il
responsabile principale del modello produttivo è l’operatore di macchina da presa.Verso il 1900 si inizia a valorizzare
la messa in scena e il film narrativo a scapito delle riprese dal vero. Il modo di produzione si riorganizza e si viene a
delineare la figura del regista che diventa il responsabile della concezione del film e sovrintende alla sua lavorazione
(si tratta del cosiddetto director system). Il cinema diventa presto la forma di spettacolo più popolare: nascono un
po’ ovunque le prime sale cinematografiche permanenti, in particolare negli Stati Uniti dove dopo il 1905 si
moltiplicano i nickelodeon , ossia locali dedicati al cinema che attirano un pubblico popolare. Il loro successo è dovuto
ai programmi rapidi (dai 6 – 8 film di vario genere), nell’estrema varietà degli orari (per consentirne la visione anche ai
lavoratori) e soprattutto nei biglietti a prezzi bassi.

L’aumento esponenziale della domanda dei film sollecita un passaggio alla produzione di massa. Intorno al 1905
nascono le prime grandi strutture produttive: il paese più forte è la Francia, la Pathè s’impone come azienda leader a
livello mondiale. Un altro grande polo produttivo è l’Italia in cui il cinematografo arriva nel 1896 ma le prime strutture
produttive nascono dal 1905 (a cui risale il primo film a soggetto italiano ovvero La presa di Roma, di Filetto Alberini).
Case di produzione come la Cines Roma e l’Ambrosio dimostrano un’eccezionale capacità competitiva; in particolare
l’Italia si specializza nella produzione di film storici monumentali (come ad es. “Quo Vadis?” Di Guazzoni del 1912 e
“Cabiria” di Pastrone del 1914), poi si privilegia per il cinema muto italiano anche il melodramma mondano
d’atmosfera dannunziana e il dramma realista. Poi c’è la Danimarca dove Ole Olsen fonda la Nordisk, la più grande
compagnia di produzione del mondo dopo la Pathé. In particolare la Danimarca si specializza negli intrecci polizieschi e
nei drammi torbidi e sensuali. Anche se gli Stati Uniti rappresentano l’area più vasta del mercato mondiale, le case di
produzione non riescono a coprire la crescita della domanda interna. Questo anche a causa dello stallo produttivo
dovuto alla cosiddetta “guerra dei brevetti” : Edison per una decina d’anni tenta di impedire a chiunque lo
sfruttamento commerciale del cinema rivendicando l’esclusività dei brevetti su cineprese, proiettori e pellicole. Dopo
il 1908 l’industria cinematografica si trasforma su scala internazionale per ampliare la base del pubblico, muovendo
alla conquista della classe media, la produzione acquista dimensioni industriali.

Dal 1906 nascono le serie comiche: le prime produzioni comiche sono francesi, interpretate da Andrè Deed e Max
Linder, ma qualche anno più tardi si sviluppa una forte e innovativa produzione comica negli Stati Uniti grazie al
talento creativi di Mack Sennett (regista e produttore formatosi alla Biograph e poi fondatore nel 1912 della casa di
produzione Keystone) . Sennett attraverso numerosi e brevi film a una o due bobine perfeziona il modello della
cosiddetta slapstick comedy, (slapstick vuol dire schiaffo-bastone) cioè della comica “violenta” fatta di cadute, torte
in faccia, con una comicità farsesca e catastrofica capace di fornire una rilettura stravolta e grottesca della società e
questo grazie al succedersi ripetitivo e fulmineo delle gag (lunghe trame che stravolgono la consequenzialità spazio-
temporale e i rapporti di causa-effetto delle azioni), nella caratterizzazione estrema dei personaggi, una velocità
ritmica ineguagliata dalle comiche europee (dinamismo acrobatico basato sulla plasticità e meccanica dei corpi). I film
intorno al 1910 sono dunque prodotti secondo logiche di crescente standardizzazione. La distinzione fondamentale è
quella per generi. Anche per questo motivo i produttori americani cercano di trovare un accordo che ponga fine alla
‘guerra dei brevetti’: Edison e case produttrici come la Biograph capiscono che è necessario un controllo del mercato
e così nel 1908 si costituisce il potente trust della Motion Picture Patents Company , un accordo monopolistico che
riesce a ridurre la presenza francese, italiana e danese nel mercato interno.

il padre del cinema narrativo è D.W. Griffith con il suo ‘The Musketeers of Pig Alley’, primo film sui gangster. Il
cinema narrativo diventa l’opzione quasi esclusiva, mentre alcuni generi entrano in crisi come il documentario e il film
a trucchi. Per coinvolgere la borghesia si cerca di legittimare il cinema sul piano culturale attingendo largamente al
patrimonio letterario. Ad esempio in Francia nasce la Film d’Art, che si impegna negli adattamenti da testi teatrali
famosi. Negli USA Adolf Zukor si ispira alla Film D’art per la Famous Players in Famous Plays, embrione della futura
Paramount. Si sviluppa negli anni dieci il film di lungometraggio (60 minuti), incoraggiato dal successo dei film storici
italiani e dei melodrammi danesi. I primi anni dieci segnano una rapida espansione dell’industria cinematografica
americana: l’area centrale di produzione si sposta da New York alla costa del Pacifico, nella zona intorno a Los
Angeles. La California , che garantisce ottime condizioni climatiche per le riprese in interni e un’articolata varietà di
paesaggi, diventa la meta privilegiata di quelle case “indipendenti” che contrastano la MPPC di Edison e che
imboccano con convinzione la strada del lungometraggio.

Le cinematografie europee tendono invece a differenziarsi sempre di più come scuole nazionali, anche per l’autonomia
creativa dei singoli registi, lo scoppio della prima guerra mondiale nel 1914 rovescia i rapporti di forza a vantaggio
degli USA. Dopo il 1916 il cinema americano impone una grande egemonia, non solo perché Francia e Italia escono
indebolite dalla prima grande guerra, ma anche per altri motivi: Le piccole compagnie di distribuzione e produzione
tendono a fondersi in aziende più grandi a concentrazione verticale capaci cioè di controllare la produzione del film,
la distribuzione e la proiezione > nascono l’Universal, la Paramount, la Warner Bros, la Fox Film Co; Il modo di
produzione si trasforma: nasce il producer system . Dopo il 1914 al centro del processo di lavorazione non vi è più il
regista, ora responsabile delle riprese del film, ma il produttore, responsabile dell’intera lavorazione e il regista si
occupa solo delle riprese del film > studio system: diversificazione dei ruoli; vi è la nascita dello star system : ossia si
fa dell’attore principale il veicolo pubblicitario del film e il fulcro del processo produttivo.

Modi di rappresentazione nel cinema delle origini, attrazione e narrazione: Il cinema delle origini costituisce un
sistema propriamente detto “Modo di Rappresentazione Primitivo” (coniato da Burch) che si distingue dal “Modo di
Rappresentazione Istituzionale” coincidente col cinema narrativo classico di Hollywood. L’elemento fondamentale
del MRP è che l’inquadratura è il centro privilegiato della rappresentazione. Fino al 1902 la maggioranza dei film è
“monopuntuale” ossia costituito da una sola inquadratura. Dal 1903 si iniziano a girare film “pluripuntuali” ma anche
in questi la comunicazione tra le inquadrature è minima: il film è una giustapposizione di scene singole. Ogni piano,
prima di lasciare il passo al successivo, deve esaurire l’azione che si sviluppa all’interno del quadro. L’inquadratura del
cinema “primitivo” presenta alcuni elementi caratteristici:

- Illuminazione uniforme
- Concezione autonoma dell’inquadratura
- Cinepresa fissa e in posizione prevalentemente frontale e orizzontale
- Uso frequente del fondale dipinto
- Considerevole distanza tra macchina da presa e attori (= aderenza al piano d’insieme)
- Tendenza centrifuga (non c’è chiusura dell’inquadratura)
- Ellissi (non c’è la chiusura del racconto)
- Testo non fisso (autonomia)

La concezione del piano come entità autonoma implica una diversa logica di montaggio: Si parla di un montaggio “non
continuo”, ossia non c’è un sistema di raccordi tra le inquadrature che fluidifichi l’inevitabile discontinuità prodotta
dai cambi di inquadrature. Ci sono due differenti modalità di organizzazione del discorso cinematografico: Il sistema
delle “attrazioni mostrative” dal 1895 al 1908: ossia della priorità del trucco, dell’evento fuori dall’ordinario (molto
vicino all’attrazione del circo), i film dei primi anni si popolano di funamboli, contorsionisti, danzatrici e clown. Il
sistema del “ integrazione narrativa” dal 1908 al 1915 (prelude al cinema narrativo classico): il racconto diventa
l’elemento portante; le inquadrature non sono più elementi autonomi ma si integrano nell’unità del racconto. Per
questo le riprese tra il 1904 e il 1908 tendono sempre di più a essere realizzate in funzione del montaggio. I primi
esempi si hanno con le riprese degli incontri di boxe e le versioni cinem. Della Passione di Cristo > lo spettatore per
cogliere una continuità narrativa doveva avvalersi di competenze estranee al film come conoscere il Vangelo o regole
del pugilato. Si hanno poi i film ad inseguimento.

PERIODIZZAZIONE MRP (1895-1917):

1) Fase delle attrazioni mostrative (fino al 1908 circa)


2) Fase dell’integrazione narrativa (avvicinamento al teatro, si vuole raccontare)
Il passaggio dal cinema delle attrazioni al cinema dell’integrazione narrativa implica anche un cambiamento nelle
relazioni tra il film e lo spettatore : mentre nel 1° c’è uno spettatore che guarda e un attore che sa di esibirsi di
fronte al pubblico, nel 2° viene completamente negato il contatto tra film e spettatore. Il film narrativo costituisce un
universo chiuso in se stesso. Il MRI (Modo di rappresentazione istituzionale) elabora una serie di regole stabili (x il
linguaggio cinematografico) per costruire l’illusione della continuità. Lo spettatore è assorbito all’interno del
racconto dove è invitato ad assumere una posizione di centralità, diventando però ‘invisibile’ all’attore che si
muove all’interno del racconto. Per questo già all’inizio degli anni Dieci i produttori americani proibiscono agli attori di
guardare in macchina. L’attrazione non sparirà ai dall’orizzonte della rappresentazione cinematografica: si ritrova in
forma esplicita nel musical. Si tratta di un’impostazione che le narrazioni audiovisive ad un certo livello conservano
tuttora, nonostante le molte innovazioni tecnologiche che sono intercorse, in primis l’introduzione del sonoro
avvenuta nel 1927 e che naturalmente modificano sostanzialmente l’esperienza di spettatori.

VISIONE E SPETTACOLO

La tradizione storiografica attribuisce a Lumiere e Melies il ruolo di padri fondatori del cinema, ma in posizioni
contrapposte. Entrambi lavorarono ad un cinema della mostrazione > la fotografia animata della realtà e il trucco
sono i due aspetti di uno stesso regime spettacolare che prima di raccontare vuole far vedere. I film di Lumiere è un
prodotto in serie, costituito da una sola inquadratura di circa 50 secondi, la cinepresa è quasi sempre fissa, a volte
collocata su un supporto mobile, si privilegia una veduta d’insieme, con un’angolazione di ripresa decentrata, per
evitare l’intasamento prospettico della ripresa frontale. L’unità dei film è data dai flussi di movimento: monumenti
celebri e scorci della città sono relegati sullo sfondo, i protagonisti dell’immagine sono il corpo o l’oggetto in
movimento e le traiettorie delle folle, il resto fa parte dello sfondo in quanto elementi statici. Sul piano compositivo il
movimento degli oggetti deborda i limiti del quadro come ad esempio nel “Arrivo del treno alla Ciotat” del 1895
dove il suo ingresso nel quadro fisso genera una sensazione di dinamismo e la sua uscita oltre il quadro ricorda allo
spettatore l’esistenza di uno spazio fuori campo. Nel cinema di finzione (poco più del 10% della produzione Lumiere)
questa dimensione debordante dell’immagine viene meno: come ad esempio nel “ l’Innaffiatore innaffiato”
(Arrosseur arrosè) del 1895 non è più un frammento prelevato dal mondo reale ma un palcoscenico chiuso sul quale
esibire l’azione narrativa. Non sono ricordati come film ma come Vedute, ovvero riprese di spazi famosi come una
specie di cartolina in movimento. Le vedute dei fratelli Lumiere sono girate in patria e all’estero > la macchina da
presa si muove > Panorama > Parigi, Napoli, Egitto.

Già dal 1898 si intravede un declino dei Lumiere dovuto al fatto che la gente non richiede più semplicemente film che
mostrano la realtà ma anche film di finzione. Melies mira ad un cinema più spettacolare, fantastico, a un cinema del
trucco inventato negli spazi chiusi del teatro di posa, è il cinema d’attrazione basato non sulla storia ma sull’effetto
speciale. Sul piccolo palcoscenico del teatro Robert Houdini di Parigi Melies allestisce degli sketches in cui mescola
trucchi, giochi di prestigio e scenette comiche. Intuendo le possibilità date dal cinema si concentra sulla produzione di
film a trucchi; fonda la Star Film e costruisce nel giardino della sua villa il primo teatro di posa moderno. Melies
inventa un cinema burlesco e parodistico, nei suoi film crea universi impossibili eppure coerenti, capaci di sostituirsi
alla realtà, come ad esempio in “Viaggio sulla Luna” 1902 e “Viaggio attraverso l’impossibile” del 1904. Il
procedimento che più utilizza è quello dell’arresto (della ripresa) e sostituzione (di uno o più elementi della scena). La
continuità apparente della ripresa veniva poi ripristinata in sede di montaggio e la sovrimpressione (che gli consente di
giocare con una sua ossessione, lo sdoppiamento e la scomposizione del corpo). Il cinema di Melies si muove con
soluzioni originali tra teatralità e narrativa. L’unità di base dei suoi racconti è la singola scena, quasi mai sezionata in
inquadrature. La cinepresa è tendenzialmente fissa, gli effetti dinamici sono spesso un’illusione legata al movimento di
elementi interni al profilmico. Questa immobilità del pdv può sembrare paradossale perchè il tema narrativo prediletto
è il viaggio in cui non vi è un’autentica progressione del racconto ma prevale la successione non continua di eventi.
L’elemento centrale resta l’attrazione. Melies è interessato al contenuto delle singole scene più che al loro montaggio.
Questi elementi del cinema delle attrazioni non escludono comunque la presenza sporadica di strategie di racconto
legate al montaggio > nel finale di Viaggio sulla luna, l’astronave precipita verso la terra, si vede il proiettile uscire dal
campo, nell’inquadratura successiva il proiettile è ripreso nel momento del tuffo nell’oceano. Nella terza inquadratura
esso visto da un’acquario piomba nell’oceano.

Un altro lavoro di Melies da ricordare è ‘’Escamotage d'une dame chez Robert-Houdin’’ un cortometraggio della
durata di circa 1 minuto in bianco e nero, con alcune versioni colorate a mano.È il primo che ci sia pervenuto in cui
Méliés sperimenta la tecnica della sospensione della ripresa per creare un trucco puramente cinematografico
(arresto e sostituzione) > che consiste nel far sparire una donna. Il trucco si eseguiva tramite l'interruzione della
ripresa da parte dell'operatore, l'uscita di scena della donna e il prosieguo delle riprese a partire dalla nuova
situazione: collegate le due scene senza interruzione dava l'effetto di una subitanea sparizione. Ricordiamo infine
‘’L’homme-orchestre’’ un altro cortometraggio di circa 1 minuto e mezzo in bianco e nero. Il film è uno dei più
celebri di Méliès, per la perfetta padronanza della tecnica del Mascherino e della sovraimpressione, che permetteva
di filmare la pellicola in più fasi separate, con un risultato che faceva sembrare tutto girato contemporaneamente.
Anche la tecnica dell'arresto della ripresa, che permetteva di far sparire e apparire gli oggetti, viene qui usata. Méliès
arrivò a sdoppiare sé stesso ben sette volte, creando un'orchestra intera composta da una sola persona. Il declino del
regista arriva intorno ai primi anni Dieci, dovuto ad un declino nell’interesse del pubblico al fantastico, i drammi e la
comica sono i generi dominanti.

IL PRIMO CINEMA INGLESE

Tra il 1896 e il 1906 oltre alle possibilità tecniche e spettacolari del trucco, si elaborano alcune soluzioni di montaggio
che saranno fondamentali per l’elaborazione del MRI. Personalità come James Williamson e George Albert Smith o
come Robert William Paul e Cecil Hepworth raggiungono risultati di rilievo sul piano della ricerca linguistica e
narrativa. Nei film dei pionieri inglesi si nota un’attenzione per la componente attrazionale del trucco. Alcune delle
opere di Williamson sono quelle in cui il debole pretesto narrativo è sorretto dall’efficacia del trucco. L’attrazione è
spesso anche il frutto di un gioco col cinema> ‘’The big swallow’’ > un signore che non vuole farsi riprendere si
avvicina alla cinepresa comprendo l’intero quadro e poi inghiottendo l’apparecchio. La tendenza alla divisione
dell’azione in diverse inquadrature correlate è già evidente in un film di Smith del 1899 “Il bacio nel Tunnel”: tre
inquadrature : treno che entra in galleria / interno dello scompartimento con i due amanti che si baciano / treno che
esce dalla galleria. Smith lavora anche sulla divisione in più inquadrature di uno stesso spazio, oppure sceglie di
alternare le immagini di qualcuno che guarda alla visualizzazione di ciò che l’osservatore sta guardando > ‘’La lente
della nonna’’ del 1901 > interamente costruito sull’alternanza tra le inquadrature in campo totale di un bambino e
una nonna seduti al tavolo e le inquadrature degli oggetti che il bimbo vede attraverso la lente di ingrandimento della
nonna. James Williamson lavora soprattutto sulla continuità d’azione tra inquadrature girate in spazi diversi. Ad es. in
“Fermate il ladro!” del 1901 mette in successione più inquadrature di spazi contigui per rappresentare l’inseguimento
di un ladro (film ad inseguimento) > definisce il prototipo di uno dei più fortunati generi del cinema, il poursuite. In
‘’Al fuoco!’’ W mette in scena una storia più articolata: una casa inizia a bruciare, intervengono le autopompe, un
pompiere soccorre un uomo salvando anche la figlia. L’unità narrativa ovvero il salvataggio cattura l’attenzione dello
spettatore e consente a W di connettere due spazi non contigui ma distanti, casa e caserma. inoltre il passaggio da un
inquadratura alla successiva Williamson la realizza tramite lo stacco (e non la dissolvenza – fino 1903) prima che
l’azione sia interamente conclusa.

Negli Stati Uniti il film narrativo diventa l’opzione privilegiata intorno al 1903. Fra i registi che contribuiscono a fare
del film di finzione la principale risorsa dell’industria cinematografica americana c’è Edwin Porter. Il contributo di
PORTER è importante perché si muove tra le soluzioni tipiche del MRP e strategie che prefigurano le soluzioni
narrative del MRI. Il suo ‘’Vita di un pompiere americano’’ del 1902 riprende il film di W ma vuole trasformare il
pompiere da ruolo a personaggio, con una sua interiorità. Il montaggio evidenzia ancora i rapporti con il MRP: L’azione
del salvataggio del bambino è prima ripresa per intero dall’interno della stanza e poi ripresa dall’esterno
nell’inquadratura successiva, creando l’effetto di sovrapposizione temporale. Il film più celebre è “La grande rapina
la treno” del 1903, in cui Porter mescola elementi tipici del cinema delle attrazioni con importanti innovazioni sul
piano della narrazione e in cui c’è la volontà consapevole di raccontare qualcosa attraverso il montaggio. Il film
racconta in 14 inquadrature la storia di una banda di rapinatori che assalta un treno. Il montaggio cerca di costruire
una certa continuità spazio – temporale tra le inquadrature, ma non riesce ancora a rappresentare la simultaneità delle
azioni con un montaggio alternato. Le inquadrature spesso esauriscono in se stesse la durata di un scena. In alcuni casi
l’azione si sviluppa attraverso più inquadrature (fuga dei banditi e l’inseguimento). Si alternano inquadrature con
funzione puramente narrativa e piani più vicini a una logica mostrativo-attrazionale. La distanza tra l’attore e la
cinepresa si riduce per creare un’attrazione che aggredisca lo spettatore. Nel film c’è un limitato movimento di
macchina.il primo piano del bandito che spara verso la cinepresa e quindi verso lo spettatore, rientra in questa
tipologia, è un’attrazione che deve in un certo senso aggredire lo spettatore (l’inquadratura non si integra con lo
sviluppo dell’azione e per questo poteva essere montata o all’inizio o alla fine del film).

I punti di forza dell’industria cinematografica americana sono:


• strategia di concentrazione verticale nelle sale (hanno i teatri di posa, il personale dagli attori al regista, proprietari
di sale)—> sistema chiuso che verrà smantellato perchè le case produttrici erano anche proprietarie delle sale
• Divisione del lavoro—> catena di Montaggio
• Modello oligopolistico (motion patents company, dal 1908)
• Organismo della tutela morale
• Produzione di lungometraggi
• Trasferimento di studi da New York a Hollywood > nei primi anni 10 per le varie location che offriva
• Star system (Florence Lawrence,Biograph girl )(prima diva del cinema americano)
• Studio system
• Sistema dei generi
• Linguaggio codificato

The great train robbery (Edwin S. Porter,1903)


Primo film western in cui dimostra di poter fare inquadrature sofisticate > Macchina da presa vicinissima all’attore.
Con Porter lavora sulla costruzione di una narrazione attrazionale. Narrazione e attrazione ancora mescolati. Cosa
che anni a seguire non troveremo perchè ci si basa sulla non distrazione dello spettatore. Con MRI la 4*parete non
viene sfondata mai. Lo spettatore deve far parte della storia e ogni distrazione deve essere bandita. Il 1^piano ha
suscitato ansia. L’unico primo piano è esterno al racconto e poi si lavorerà a farlo interno al racconto.

L’EMERGENZA DEL CINEMA CLASSICO


Dopo il 1905 con la nascita del director system e la conseguente centralità del regista un ruolo fondamentale e
decisivo è svolto da David Wark Griffith. Nel 1908 è scritturato dalla Biograph come regista realizzando oltre 450 film
fino al 1913 (lo standard prevalente è il film a una bobina lungo circa 15 minuti). GRIFFITH si concentra in particolare
sulle diverse opzioni di montaggio, studia le risorse drammatiche della profondità di campo, è attirato dal dinamismo
della composizione interna al quadro e dall’attenzione per i dettagli, i primi piani e per i contrasti di luce. In
particolare si pone due obiettivi :

1) rendere comprensibili strutture narrative sempre più complesse: Griffith vuole costruire con il montaggio un
universo continuo e omogeneo a partire da un materiale discontinuo e frammentario, ovvero le inquadrature.
Ovvero si vuole rendere comprensibili le complesse relazioni temporali che si intrecciano nello spazio composito
ricostruito dal montaggio. Questo lavoro definisce un vero e proprio sistema di regole e strategie che organizza la
materia narrativa, gli da forma e chiarezza, facilita l’assorbimento dello spettatore all’interno del racconto.
Tramite il montaggio alternato di Griffith lo spettatore inizia a capire che la successione tra due inquadrature può
esprimere anche una relazione di simultaneità tra due azioni. La variante più celebre di questo meccanismo di
sospensione/rinvio è il ‘’Salvataggio dell’ultimo minuto’’.

2) investire il cinema di responsabilità ideologiche e morali: i film di Griffith sono attraversati da umanitarismo
disincantato ma in fondo ottimista, dall’esaltazione dei valori della comunità, dal mito della nuova nazione, dal
manicheismo puritano. L’attenzione ricorrente ai pericoli sociali come la malattia mentale, i contrasti di classe e
altro, aspira alla ricomposizione dell’unità familiare > Il lieto fine diventa la forma privilegiata della ideologia di
riconciliazione > in ‘’la redenzione di un ubriacone’’ del 1909 un padre di famiglia quasi alcolizzato si redime
dopo avere assistito alla rappresentazione teatrale dell’ Assommoir di Zola. L’alternanza tra le inquadrature del
palcoscenico della tragedia familiare di un bevitore e le inquadrature del padre seduto in platea con la figlia crea
un montaggio psicologico efficace.

Anche se Griffith lavora sulle possibilità narrative espresse dal montaggio non vuol dire che i suoi film utilizzino già le
regole del cinema classico. L’uso del primo piano, per esempio, eccede spesso la sua funzione narrativa per assumere
una valenza simbolica, finendo per far esprimere una particolare condizione interiore o sociale. Il volto in primo
piano ha una valenza espressiva che allontano per un attimo lo spettatore dal racconto, per trasformare il personaggio
in emblema di una particolare condizione. In “La nascita di una nazione” del 1915, un lungometraggio di 12 rulli per
180 minuti di proiezione, Griffith pone al centro del film la guerra civile americana (1861-1865). La politica
abolizionista di Lincoln, la secessione sudista, la battaglia di Petersburg, il ku klux klan, non sono un semplice sfondo.
La storia e i drammi degli individui si integrano in un complesso equilibrio tra epica e psicologia. Griffith esprime una
visione individualistica della storia > gli eventi si mettono in moto quando un uomo decide di passare coraggiosamente
all’azione. Lo scontro fratricida della guerra è messo in scena come un’inutile catastrofe, ma non è una tragedia
capace di dividere per sempre una nazione.

Nelle scene della battaglia di Petersburg vi è un’alternanza di inquadrature tra i fronti opposti, quasi a suggerire
un’identità tra gli avversari, come se la guerra unisse i contendenti proprio mentre li divide. La vera tragedia per G è
l’assassinio di Lincoln, un attentato che eliminando la forza ordinatrice del singolo genera il disordine della
collettività, rappresentato dai radicali come Stoneman e dai neri. G guarda con preoccupazione critica chi turba
l’ordine sociale: in questo caso i responsabili della rottura sono i neri che non vogliono stare al loro posto. Il conflitto
ordine-disordine è messo in scena con strategie discorsive efficaci. Nella seconda parte i neri conquistano visibilità
negativa, perchè occupano con violenza gli spazi dei bianchi. La conclusione del film presenta il last minute rescue >
la capanna dei veterani dell’Unione dove si sono rifugiati il dottor Cameron e altri bianchi è assediata dai neri ma il
KKK arriva in tempo. La ricomposizione dell’unità si esprime con l’espulsione del nero dall’inquadratura e dal racconto
> il montaggio alternato è l’esito stilistico di questa strategia ideologicamente manichea: due serie di inquadrature si
oppongono nel montaggio, e il fine ultimo di questa opposizione di spazi consiste nell’evitare che il Male (i neri) possa
contaminare lo spazio unitario e puro del Bene. Il film scatena dure polemiche (perchè deriva da un romanzo razzista)
e provoca tumulti razziali ma resta uno dei più grandi successi del cinema muto degli USA.

“Intolerance”: film del 1916 di Griffith, in cui egli vuole rappresentare il tema dell’intolleranza attraverso i secoli
e per farlo costruisce una struttura narrativa innovativa articolata in 4 episodi montati in parallelo : la caduta di
Babilonia, la passione del Cristo (prime tradizioni cinematografiche sulla passione), la strage di S. Bartolomeo (si rifà
alla Film d’Art, la strage è quella degli ugonotti nella Parigi del ‘500) e un episodio contemporaneo. La storia
garantisce unità narrativa perchè le 4 storie, realizzate in stili diversi, si alternano nel montaggio, legate a ogni
passaggio da un leitmotiv che vuole ricordare il tema centrale della tolleranza. L’episodio babilonese si ispira ai film
storici italiani dei primi anni 10, da Pastrone e Guazzoni riprende il monumentalismo scenografico. L’episodio francese
presenta una scenografia con fissità della cinepresa. L’ultimo riprende temi della diversità sociale. Griffith inserisce
nel film il modello della storia a suspance, con l’intensificazione ritmica e drammatica prodotta dal montaggio
alternato che mostra la contemporaneità degli eventi.

Griffith imprime al film un’accelerazione progressiva fino alla corsa vertiginosa del finale: si ha la sensazione che le
storie tendino a fondersi l’una nell’altra, generando nello spettatore un senso di angoscia. Si parte infatti da un inizio
lento che consente allo spettatore di inserirsi nei diversi contesti narrativi per poi passare gradualmente al finale. Gli
episodi giungono ad una vittoria dell’intolleranza e questo senso di perdita è accresciuto da Griffith per generare nello
spettatore un senso di angoscia, pronto a rovesciarsi nel finale. L’uso delle didascalie serve per orientare lo spettatore
nella comprensione delle vicende, attraverso la loro differente impostazione grafica. Utilizza la profondità di campo
per distinguere i diversi piani d’azione. Usa inoltre la luce per evidenziare dei dettagli significativi, come per
esempio il raggio che illumina la culla del bambino dondolata dalla madre, ritornello visivo, che torna più volte, e che
rappresenta l’intolleranza attraverso i secoli. C’è inoltre una concezione ciclica della storia: vi è il ripetersi delle
medesime tragedie.

I POTERI DELLA MESSA IN SCENA

Dopo il 1910 aumenta la diversificazione tra il cinema Americano, che predilige la ricerca su montaggio, e quello
Europeo che cerca di potenziare le risorse espressive della scena non sezionata dal montaggio soprattutto attraverso la
valorizzazione della profondità di campo. In Francia la Pathè approfondisce la ricerca sulle possibilità espressive del
fondale dipinto, realizzando scenografie con suggestivi effetti tridimensionali > ricordiamo ‘L’assassinat du Duc de
Guise’ di Charles Le Bargy e Andrè Calmettes del 1908 e fu la prima pellicola prodotta dalla Film D’Art (1908-11)
interpretato da attori della Comèdie Francaise, sceneggiato da Henri Cavedan, musicato da Camille Sanit-Saens,
rappresenta lo sforzo compiuto da industriali e artisti per recuperare il pubblico colto.

In Italia Il film più rappresentativo, dei kolossal storici italiani dei primi anni Dieci, è “Cabiria” di Pastrone, 1914.
È il primo film prodotto dalla Italia Film di Torino. Egli per valorizzare il film chiede la collaborazione di D’Annunzio e
il poeta rivede le didascalie e inventa nomi per i personaggi. Il film è il prototipo del ‘film d’arte’ italiano. Il film
appartiene al filone storico-epico, perchè ambientato durante le guerre puniche. L’importanza storica risiede
innanzitutto nella valorizzazione dei poteri della messa in scena, di portare qualcosa in scena per farlo vedere. Le
singole inquadrature dilatano la visibilità e la dinamicità interna della scena. Lo spazio scenografico non è più un
fondale dipinto bidimensionale e le scenografie divengono reali e protagoniste dell’inquadratura. Sono spazi vivi che
sovrastano gli eventi umani. Anche il particolare uso della luce rivela il desiderio di intensificare la potenza della
scena. Egli utilizza una grande innovazione ovvero la lampada elettrica ad arco. Con la luce elettrica egli ha la
possibilità di governare con maggiore precisione la direzione dei fasci di luce > effetti di contrasto moltiplicati. La
soluzione di messa in scena più innovativa risiede nell’uso del carrello, brevettato da Pastrone nel 1912: la funzione
più ricorrente è la connessione all’interno dello stesso piano tra due o più elementi della scena (si può partire dal
piano generale per inquadrare una porzione particolare o viceversa); in altri casi il carrello serve semplicemente a
scoprire e dilatare la vastità scenografica di un ambiente. Lontano da tutto ciò è la ricerca stilistica ed espressiva di
Emilio Ghione (personalità significativa per il cinema muto italiano) > introduce una recitazione nuova, stilizzata e
priva di enfasi e gesticolazioni eccessive, giocata sull’energia contratta e nervosa del corpo smagrito e il volto scavato
> genere di film aperto alle pulsioni e all’immaginario.

In Germania abbiamo l’antecedente dell’espressionismo tedesco ovvero l’Autorenfilm > ‘Lo studente di Praga’ (Rye,
1913) anticipa per i temi infatti l’espressionismo. Tratto da un romanzo di Hanns Heinz Ewers, interpretato da Paul
Wegener, presenta un soggetto faustiano, raccontando la storia di uno studente che vende il proprio riflesso al diavolo
e viene perseguitato dal suo doppio. L’ispirazione è tratta dalla letteratura fantastica del Romanticismo ottocentesco
(soprattutto Hoffmann), ne fu fatto un remake nel 1926 (Galeen). In Danimarca ricordiamo Benjamin Christensen e le
sue ricerche sull’illuminazione > egli trova negli effetti di controluce e nelle ombre la cifra stilistica dominante del
film d’esordio, il melodramma spionistico ‘’il misterioso X’’ del 1913 > ripresa delle sagome dei personaggi da un
interno scuro con la cinepresa rivolta verso un varco di luce. Lui e altri lavorano sulla direzionalità dei fasci di luce.
Spesso i personaggi si fanno strada nell’oscurità con una lanterna. In Svezia ricordiamo due registi, Mauritz Stiller e
Victor Sjostrom che si spostarono ad Hollywood nei primi anni 20. Il secondo mostra grande abilità nell’uso
drammatico della profondità di campo. Nel suo ‘’i proscritti’’ del 1917 emerge il sentimento della natura (caratt.
Dei film nordici) l’utilizzazione espressiva del paesaggio come elemento portante dell’azione e specchio delle tensioni
interiori. In Russia il regista più famoso è Evgenij Bauer. Nei suoi film la recitazione è rallentata e piena di pause, la
regia privilegia l’inquadratura lunga e statica, il racconto è sempre subordinato alla qualità del quadro, si conclude con
un finale tragico tipico del melodramma teatrale russo dell’800. Egli lavora su interni spaziosi inquadrati in campo
lungo: scenografie raffinate, ricche di riferimenti all’Art Nouveau.

LA MUSICA E IL COLORE NEL CINEMA MUTO

È convinzione diffusa che il cinema muto è caratterizzato dall’assenza di suoni e colori. In realtà il film delle origini
aveva quasi sempre un accompagnamento musicale e le sue potenzialità erano accresciute da efficaci tecniche di
colorazione della pellicola. Inizialmente la musica di un pianoforte in sala aveva il compito di coprire il fastidioso
ronzio del proiettore; ma la musica in ‘diretta’ aumentava anche il potere evocativo delle immagini. Tra il 1900 e il
1905 fanno la loro comparsa gli ‘imbonitori’, figure che commentavano al pubblico le immagini rendendole più
comprensibili. Verso il 1910 inizia, nei locali più signorili, a comparire l’orchestra composta da sei, otto elementi, i
quali ricorrevano alle selezioni musicali, ovvero di brani di repertorio validi per ogni tipo di situazione drammatica.
C’erano poi i rumoristi che manovrando complicati apparecchi ottenevano effetti sonori sorprendenti. Negli anni del
cinema muto si moltiplicano anche i tentativi di colorare le immagini. Il primo metodo è stato quello della colorazione
a mano di ogni singolo fotogramma con un pennellino (prediletta da Melies). Dopo il 1906, quando il cinema iniziò
ad assumere dimensioni industriali, si brevettò il sistema à pochoir, un dispositivo di colorazione meccanica a tampone
che consentiva l’impiego di 5,6 colori diversi. Successivamente verso il 1908 si inventarono due nuove forme di
colorazione: la tintura e il viraggio. I due sistemi sono accomunati dal principio della monocromia: sul fotogramma si
distribuisce un solo colore. I colori nel muto avevano principalmente due funzioni: potevano rendere più credibili
gli eventi fisici (blu per la notte, rosso per il fuoco...) e accrescevano il valore simbolico di condizioni emotive.

IL CINEMA EUROPEO DEGLI ANNI ’20 (2 CAPITOLO)

Gli anni Venti costituiscono uno dei periodi di più forte affermazione del cinema; furono proprio le mancanze del
cinema muto a sollecitare la ricerca di nuove soluzioni e nuove tecniche per arricchire i processi comunicativi ed
espressivi. La mancanza del sonoro labiale sincrono suggerisce modi diversi di organizzazione della rappresentazione e
lo sviluppo di forme visivo-dinamiche estremamente variate e differenziate. Gli anni ’20 sono ricordati come il periodo
del montaggio sovrano, cioè dell’affermazione del montaggio come procedura compositiva essenziale, sono il
momento della piena affermazione della messa in scena, che coordina in un progetto formale coerente le componenti
molteplici del cinema.

– Il cinema sovietico : produce esperienze complesse di montaggio dialettico, epico o non narrativo;
– Il cinema francese : effettua pratiche filmiche caratterizzate da un montaggio ritmico ed intensivo;
– Il cinema tedesco : lavora sulla figurazione del visibile e sulla dimensione dell’inquadratura dinamica.

Quadro politico-economico della Germania dopo la 1GM:


1918: Inizio crisi economica, armistizio, moti rivoluzionari e istituzione repubblica di Weimar
1919: sconfitta della sinistra radicale, governo liberale, Trattato di Versailles (risarcimenti ai paesi vincitori)
1923: super-inflazione (pagano pensionati e dipendenti pubblici, guadagna la grande industria che produce per
l’esportazione)
1933: presa del potere dal Nazional-Socialismo

Passaggi chiave per la storia del cinema tedesco (1910-33):


- sviluppo dello star system locale (la bionda Henry Porten, la danese Asta Nielsen)
- 1916-20: divieto d’importazione dei film stranieri, si rafforza il cinema nazionale
- 1917: nasce la UFA (Universum Film Aktien Gesellschaft)
- 1918-33: l’industria del cinema tedesca è seconda solo a Hollywood

Tra i generi dominanti sul mercato > IL FILM STORICO


Ricordiamo ‘Madame du Barry’ di Erst Lubitsch, del 1919 con Paola Negri e rappresenta al meglio il genere storico-
epico in costume, con grandi set e migliaia di comparse, nato sul modello italiano di Cabiria e dal kolossal statunitense
di Griffith. Il regista si trasferirà poi ad Hollywood nel 1922 per specializzarsi nella commedia sofisticata.

Caratteri dell’espressionismo in arte:


*Origini > il movimento artistico (pittura - teatro) nasce nel 1908 soprattutto in Germania
*Modelli > la crisi del realismo rappresentativo introdotta dalla fotografia aveva spinto la pittura a concentrarsi sulla
percezione (impressionismo) ma l’espressionismo è prima di tutto una reazione all’impressionismo, realizzando
l’esigenza di dar voce alle ragioni irrazionali dell’individuo (inconscio, immaginario, i fantasmi interiori) andando oltre
la messa in scena della percezione sensibile.
*Caratteristiche > rifiuto del realismo nel trattamento dello spazio, del colore, della figura umana. Per quanto riguarda
il teatro invece (Franz Wedekind, Ernst Toller, Georg Kaiser) troviamo scenografie e costumi ispirati alla pittura e una
recitazione caricata (gesticolazioni, grida, posture grottesche).

IL CINEMA ESPRESSIONISTA

Nonostante la sconfitta bellica, la Germania del dopoguerra conosce un’affermazione cinematografica di notevole
livello soprattutto grazie ad un’industria molto efficiente. L’industria tedesca si avvale di una organizzazione
funzionale della produzione, distribuzione e della presenza di un circuito di sale ampio. In questi anni c’è inoltre la
tendenza delle diverse società a fondersi per dar vita ad una organizzazione più funzionale per quanto riguarda la
produzione e la distribuzione. Il momento principale è la costituzione dell’UFA (Universum Film AG). Fino al 1926 la
produzione tedesca segue una politica articolata che punta a creare un nuovo pubblico, si vuole creare una nuova
esperienza di cultura di massa. Il cinema tedesco si propone di porre la cultura artistica, architettonica, teatrale
e letteraria alla base del cinema, di sfruttare i valori culturali come elementi di assicurazione della validità del
prodotto cinematografico, avvalendosi anche della collaborazione di scrittori, di drammaturghi, pittori che
garantiscono un’interazione continua tra il gusto, le immagini filmiche e i rispettivi universi culturali. I generi
prediletti sono i film storico-spettacolari, il dramma sociale e la commedia. Il cinema espressionista tedesco effettua
una sintesi tra immaginario e stile, realizza attraverso una valorizzazione particolare del lavoro di messa in scena
una forma espressiva di particolare intensità. C’è una ricerca sulla configurazione dell’immagine e quindi su spazio e
scenografia che le inquadrature possono esaltare. Tutti gli elementi della scena (profilmico) vengono rielaborati in
modo artificiale per affermarne l’incisività e la forza espressiva: la messa in scena coordina tutte le componenti per
ottenere una forma caratterizzata da una intensità e da una vibrazione visiva e spirituale particolari; i contorni delle
scenografie sono spesso alterati, irregolari, segnati da una deformazione esplicita e tendenzialmente irrealistica.
Anche i costumi sono conformi agli spazi e ai personaggi: sono operazioni di stilizzazione intensiva e deformante del
visibile. L’angoscia, la tensione, il dolore, l’ossessione dei personaggi sono direttamente impressi nella materia
scenica, diventando configurazioni oggettive ed espressive. Gli spazi sono ‘paesaggi impregnati d’anima’ (Eisner), i
volti, i corpi sono segni intensivi. La recitazione degli attori riflette questo rafforzamento dell’espressività e rende
più forti i gesti, più sottolineati i movimenti e più marcata la mimica che si avvale di un trucco molto elaborato.
Fondamentale risulta essere anche il lavoro sull’illuminazione: il cinema espressionista scompone il visibile attraverso
l’uso intenzionale di una luce fortemente contrastata mediante la contrapposizione di luci e ombre e di settori di
luce ricavati all’interno di spazi bui. Il mondo non è visibile semplicemente > sembra che la visione delle cose debba
avventurarsi nell’enigma dell’oscurità, nell’incertezza della luce. Ma questo non è soltanto un modo di vedere ma
caricandosi di implicazioni simboliche diventa anche una visualizzazione della lotta tra il bene e il male. Il montaggio
non è mai troppo rapido in quanto deve permettere all’immagine di essere pienamente vista dallo spettatore. I
montaggi alternati e i raccordi sono effettuati con progressiva abilità segnando un passaggio verso la flessibilità e la
pienezza della messa in scena. È un cinema metaforico-intensivo che valorizza il piano più della successione delle
inquadrature, e i suoi elementi figurativi più che quelli ritmici, la ricchezza delle componenti visive, informative ed
emozionali della scena più della velocità d’azione. I personaggi del cinema espressionista tendono disperatamente
verso un obiettivo senza raggiungerlo o violano le leggi e le regole del vivere in nome di un ideale da cui non
possono liberarsi. Sono personaggi che mescolano istanze di ribellione verso l’ordine naturale o l’assetto sociale, con
esperienze di angoscia e frustazione. È un cinema dell’immaginario che mette in scena la debolezza e la fragilità del
soggetto e che propone figure del genere fantastico come vampiri, cloni o sonnambuli.

L’affermazione del cinema espressionista è legata al successo di “Il gabinetto del dottor Caligari” del 1920 di Robert
WIENE, (con la sceneggiatura di Mayer e la scenografia di Warm) anche se già negli anni Dieci erano stati realizzati
film sul genere fantastico e sul doppio dell’umano che potrebbero essere considerati come antecedenti
all’espressionismo come ‘’Lo studente di Praga’’ di Rye o ‘’Il Golem’’ di Wegener, senza dimenticare infatti che nelle
arti figurativi si afferma il movimento espressionista alla fine del primo decennio con Kirchner, Heckel, Scmidt-Rottluff
e che all’inizio degli anni dieci c’è la formazione di Der Blaue Reiter con Kandinskij, Marc e Macke. Il film costituisce
una radicale trasformazione del modo di pensare il cinema e presenta una sintesi nuova tra immaginario e stile della
messa in scena. Invece di catalogarlo come film di sceneggiatura o di scenografia, si tratta di coglierne la coerenza
visiva, la ricchezza dell’immaginario e le novità. Il film presenta un prologo, una storia centrale raccontata da un
personaggio interno, e un epilogo. Narra la storia di un ciarlatano da fiera, Caligari, che ipnotizza un sonnambulo,
Cesare, per fargli compiere degli omicidi, finché viene smascherato nella sua doppia veste di direttore dell’ospedale
psichiatrico e di assassino. Ma alla fine si scopre che il narratore è in cura proprio in quell’ospedale e che si era
inventato tutto. L’ultimo sguardo ambiguo del direttore lascia tuttavia una sorta di dubbio, come rappresentazione
della difficoltà a percepire sino in fondo la verità, facendo del film un’opera complessa in cui si fronteggiano verità
differenti e tutte non persuasive. Il film punta a distorcere la realtà e gioca sull’ambiguità degli interni e degli
esterni ed è famoso per le sue scenografie irrealistiche, deformate, di spazi irregolari, di oggetti amplificate che
servono ad esprimere una “dimensione allucinatoria” e ossessiva, degli spazi irregolari, che disorientano lo
spettatore, di giochi di luci ed ombre e per la ricchezza visiva delle immagini che mostrano una visione angosciata e
alterata del reale. Dopo il film nasce infatti il Caligarismo > rappresenta un cinema “grafico” evidenziato da
un’esuberanza scenografica e prevalenza di codici teatrali in cui l’autore reinventa il mondo attraverso la
deformazione della realtà.

Un altro film di Wiene è ‘’Genuine’’ e ‘’Delitto e castigo’’ in cui si avvale ancora di scenografie deformate e distorte
per esprimere una dimensione ossessiva. Nel secondo film la città come gli interni, soprattutto stanze e scale,
presentano una realtà deformata che sembra uscire da un incubo. Le scenografie alterate attestano l’alterazione della
psiche, il cinema diviene vettore per mostrare i fantasmi interiori. Ricordiamo anche ‘’Dall’alba a mezzanotte’’
di Karl Heinz Martin, prodotto dello sviluppo del cinema grafico fatto di scenografie dipinte. Gli spazi eliminano ogni
effetto di profondità, questo è un altro esempio di ‘Caligarismo’. Su una linea intermedia si pone ‘’Il gabinetto delle
figure di cera’’ di Paul Leni, che intreccia scenografie dipinte con spazi rielaborati e giochi di luce, intesi a creare il
mondo degli incubi. Una diversa concezione dell’immagine e un diverso uso di scenografie sono presenti in film come
‘’Nosferatu il vampiro’’ di Murnau e ‘’Ombre ammonitrici’’ di Robinson. Nel cinema, a differenza delle arti,
l’espressionismo si intreccia stabilmente con il fantastico e con il fantasmatico, mostrando i limiti dell’umano e
l’incertezza dell’identità. I doppi si allargano e si diffondono: il doppio senza ombra de ‘’Lo studente di Praga’’
insidiato nel demone Scapinelli, la statua di Golem che si anima e si ribella, il vampiro Nosferatu che uccide e diffonde
la peste > sono tutte figure sostitutive dell’umano, che non perdono i caratteri antropomorfici ma creano un incubo
della crisi. ‘’Ombre ammonitrici’’ è prodotto da Grau che firma anche la scenografia e fotografato da Wagner > il
meccanismo dei raddoppiamenti delle persone attraverso le ombre è qui portato al massimo livello, grazie alla messa
in scena realizzata da un ipnotizzatore. Le dinamiche dei desideri e delle ossessioni dei personaggi e in particolare
gelosie, seduzioni, rivalità sono oggettivate in allucinazioni notturne in cui le ombre interpretano le passioni segrete
dei personaggi stessi. L’azione delle ombre assume una connotazione metafilmica.

L’ARTE DELLA MESSA IN SCENA: MURNAU E LANG


Friedrich Murnau (Robert Plumpe) è una figura significativa. Nel cinema tedesco si presenta come autore che afferma
con maturità e rigore il ruolo del regista come coordinatore di tutte le attività connesse alla realizzazione
dell’immagine. Egli ricorre a disegni analitici non solo per le scenografie ma spesso per le stesse inquadrature, usando
in alcuni passaggi una sorta di story board. La predisposizione attenta di ogni elemento della messa in scena è
finalizzata alla realizzazione di una forma visivo-dinamica segnata da un’impronta di stile personale. Molti affermano
che il suo Nosferatu sia capolavoro dell’espressionismo, ma il suo cinema è considerato invece da Bazin come esempio
di realistico al tempo del muto. In ‘’Nosferatu il vampiro’’ (1923) egli costruisce una rappresentazione intensiva del
mondo del vampiro. Con l’aiuto di Grau seleziona spazi non ricostruiti in studio, ma ricchi di singolare suggestione. Il
castello del conte Orlok è una reggia dell’incubo con architetture ogivali ed i passaggi oscuri che rappresentano uno
spazio dove si nasconde il mistero. La nave invasa dal vampiro è una sorta di veliero fantasma in cui le vele e gli
alberi sono lo scenario della presenza del male. La città quasi deserta rappresenta un cimitero urbano molto
suggestivo, amplificato dai contrasti di luci ed ombre. Sono spazi segnati dalla presenza del male. Il lavoro di regia
potenzia le suggestioni dei contrasti di luce e ombra. Il visibile, con la tecnica di Wagner, è scandito in settori diversi,
ora segnati dal forte contrasto luministico, ora dal passaggio tra gradi diversi di oscurità. Un altro film è ‘’L’ultima
risata’’ o ‘’L’ultimo uomo’’ scritto da Mayer, fotografato da Freund e con la scenografia di Herlth e Rohrig. Esso
integra spazi ricostruiti con grande cura realistica, divisi tra la miseria standardizzata dei quartieri popolari e
l’eleganza del grand hotel, con raffinate ricerche sull’immagine. La macchina da presa, gestita da Freund, è scatenata
e consente movimenti di macchina innovativi, con carrellate e panoramiche efficaci, che culminano nella ripresa
circolare a 360 gradi del protagonista ubriaco. In ‘’Tartufo’’ del 1925 egli disegna immagini raffinate in cui oggetti e
personaggi sono distribuiti nello spazio come elementi formali. In ‘’Faust’’ dell’anno dopo, egli inventa con forza
espressiva figure demoniache e scene immerse in dècors di suggestione evocativa: il tutto è dominato dalla minacciosa
figura di Mephisto. La tessitura visiva si basa su rielaborazioni dell’immagine, sulla base di fonti iconografiche come
Caravaggio, Rembrandt e Friedrich.

Per Murnau il cinema è una pittura dinamica, in cui ogni elemento è elaborato su un modello iconico. Lo spazio e
l’inquadratura hanno una forma pittorica, sono organizzati attraverso una integrazione atmosferico-tonale delle
architetture, dei personaggi e degli oggetti. Tutti gli elementi visivi sono immersi in un’atmosfera cromatica, segnata
da un lento e progressivo chiaroscuro. Questa attenzione allo spazio e all’immagine è sostenuta da un uso del
montaggio funzionale allo sviluppo della visione e capace di dilatare la visione per mettere una percezione prolungata
dell’inquadratura. In ‘’Aurora’’ del 1927 egli realizza un melodramma misogino > mostra immagini della città
americana di grande dinamismo e modernità che confermano la capacità di interpretare la contemporaneità come il
passato.

Più ancora di Murnau il regista che afferma con adesione totale il ruolo creativo del mettere in scena come
coordinatore di tutte le componenti per la produzione dell’immagine filmica è Fritz Lang. Egli elabora una sintesi
nuova tra l’applicazione sistematica delle più innovative tecnologie dell’immagine e della scena e una profonda
attitudine creativa, segnata da una volontà d’arte. Egli comincia la sua attività cinematografica nel dopoguerra a
Berlino come sceneggiatore ma passa alla regia nel 1919 realizzando film per il pubblico popolare, di genere
avventuroso, storico, fantastico. Con le due parti de ‘’Il dottor Mabuse’’ del ’22 e ‘’I Nibelunghi’’ dell’anno dopo egli
diviene un regista fondamentale per il paese. Nel 1927 realizza ‘’Metropolis’’ > la ricerca di Lang è concentrata sulla
sperimentazione tecnica e sulla dimensione visiva. Emerge infatti un gusto per l’espressionismo geometrico ed
ipertecnologico che fanno di Metropolis un film monumentale ed un’esperienza di ricerca sulle potenzialità espressive
e spettacolari del cinema. Esso è inoltre un Bildungsroman ovvero un romanzo di formazione, un film ideologico e un
dramma sociale. ‘’Destino’’ è invece una fiaba tragica, legata all’immaginario romantico, al dualismo e alla morte.
Strutturata in un prologo, in un epilogo e in 3 episodi, ambientati in un paese arabo, nel Rinascimento a Venezia e
nella Cina imperiale. Il film inventa spazi di suggestione drammatica e visiva ed evoca la Venezia del ‘500 integrando
suggestioni architettoniche e pittoriche creano un universo visivo di rigore e gusto. ‘’Il dottor Mabuse’’ diviso in due
parti è al contrario un quadro della contemporaneità drammatica della Germania del dopoguerra, dominata
dall’inflazione e dalla malavita. Egli è una sorta di superuomo negativo, che riprende il concetto di Nietzsche
apertamente. Egli è polimorfo: assume identità e fattezze diverse > la proliferazione del soggetto e la molteplicità
delle personalità riflette la crisi > tema essenziale del ‘900. I due film della saga de ‘’I Nibelunghi’’ poi ‘’La morte di
Sigfrido’’ e ‘’La vendetta di Crimilde’’ riflettono lavori di messa in scena di grande complessità. Mentre il secondo è
scandito su tempi e ritmi ieratici, che inseriscono il mito germanico nel cinema, e struttura uno spazio geometrico di
suggestione, il terzo rappresenta invece il dinamismo magmatico degli Unni e presenta un mondo barbarico dominato
dal caos. Sono due visioni del mondo e due spiriti di civiltà diverse.

La messa in scena di Lang presenta delle determinate scelte estetiche:

- c’è una figurazione forte del visibile realizzata dall’interazione di tutti gli elementi del profilmico e del filmico;
- vi è la riduzione agli aspetti essenziali delle determinazioni visivo-scenografiche al fine di costruire uno spazio
rigorosamente strutturale; lo spazio deve infatti apparire non come un insieme caotico di elementi, ma come una
dimensione strutturata su linee di fondo riconoscibili
- Un’opzione compositiva per la costruzione di strutture geometriche e simmetriche, pensate da Lang come scelte
formali più rigorose e armoniche e come attestazioni più precise della sua particolare figurazione estetica
- La trasformazione coordinata delle strutture geometriche statiche in dinamismi che ri-articolano le geometrie
formali: una delle caratteristiche fondamentali della mise en scene langhiana è proprio fondata sulla capacità di
dinamizzare le strutture geometriche costruite
- L’elaborazione della formalizzazione dello spazio in diretto rapporto con l’esigenza di produrre idee e di inscrivere
le idee nel visibile; è l’opzione per una composizione eidetica che intende potenziare e sviluppare la possibilità
dell’immagine di essere idea, è una concezione del cinema che punta alla realizzazione di una visione intellettuale,
di un sistema di composizione fondato sull’integrazione di pensiero e di immagine: una concezione del cinema come
Eidos, immagine-forma-idea fuse in un’unità rigorosa.
- Realizzazione dinamica, nella banda visiva, di una sintesi tra spazio rappresentato, spazio formale e spazio eidetico.
Un aspetto fondamentale della messa in scena di Lang è la volontà di rappresentare degli insiemi visibili
immediatamente delineati nella loro pienezza. Egli vuole mostrare subito il centro reale e le linee di forza dello
spazio e questo tramite l’uso di campi lunghi o totali o comunque di ampie inquadrature legate all’esigenza di far
vedere il più possibile e di mostrare una visibile struttura. Per questo motivo Lang non usa in modo complesso il gioco
di luci ed ombre: la visione deve essere netta e ampia, senza mascherare il campo del visibile* (in netta opposizione
con l’espressionismo!)

Nelle inquadrature di apertura della sequenza Lang costruisce le sue simmetrie con una precisione programmata che
sembra l’oggettivazione di un’ossessione, sottolinea la geometria creata introducendo nell’orizzonte spaziale un
elemento di messa in scena come centro reale e come divisore dello spazio, che rende più esplicita la simmetria. Egli
riesce a coordinare le strutture geometriche con la produzione del movimento. La sua messa in scena tende a costruire
la complessità del dinamismo in relazione alle strutture formali predisposte, realizzando paesaggi di movimenti
che non spezzano l’equilibrio formale, ma lo rielaborano in processi di trasformazione coordinati. In Metropolis è la
geometria d’insieme a piegarsi e modificarsi nel processo di movimento, costruendo nuove forme dinamiche che
riscrivono la mobilità dell’oggetto in un nuovo stile visivo. I suoi film sonori, “M, il mostro di Dusseldorf” del ’31 e “Il
testamento de dottor Mabuse” del ’33 sono rappresentazioni che rifiutano l’appiattimento sul realismo > sono modi
diversi di stilizzazione del reale, puntando alla disomogeneità degli elementi visivi e sulla presenza oscura del vuoto e
della morte.
I film Kammerspiel (teatro da camera) sono ispirati alle esperienze di Max Reinhardt e realizzati nei primi anni ’20
generalmente su sceneggiatura di Carl Mayer. Sono film con ambienti piccolo-borghesi e personaggi legati a modelli
rigidi di comportamento, drammi legati a desideri e rancori e alla minacciosa presenza del fato. Hanno una struttura
drammaturgica rigorosa, segnata dall’unità dell’azione, del tempo e del luogo. Film come “la scala di servizio” ’21 di
Jessner e Leni, “la rotaia” del ’21 e “la notte di San Silvestro” del ’24 di Lupu Pick raccontano drammi ineluttabili,
radicati nella mediocrità della vita quotidiana contemporanea e con conclusioni tragiche. Anticipano la nuova
oggettività. Il cinema tedesco presenta da un lato il film storico, con scenografie di grande sfarzo, dall’altro la
commedia, debitrice alla tradizione popolare tedesca. “Theonis, la donna dei Faraoni” “Madame du barry” “Anna
Bolena” di Lubitsch o “Danton” “Pietro il grande” di Buchowetzki ricostruiscono con toni diversi episodi, personaggi ed
eventi della storia. Prima di diventare maestro della commedia, Lubitsch si afferma come regista di film storici
impegnativi. Realizza poi commedie come “La bambola di carne” “La principessa delle ostriche” nel 1919 > sono già
evidenti elementi dello stile del regista come la presenza dello spirito berlinese, il gusto del particolare realistico,
immagini a doppio senso. A Berlino negli anni ’20 si sviluppa l’attenzione alle varietà e alle difficoltà della vita
metropolitana, la volontà di rappresentazione dei conflitti personali e sociali > film sui drammi di strada che
mostrano interesse per la realtà circostante e per il mondo contemporaneo. I drammi di Czinner e Rahn mostrano il
mondo della miseria e del dolore, la vita popolare è fatta di umiliazione e sconfitta > un universo negativo dove i
personaggi deboli vengono schiacciati. La messa in scena valorizza le angosce, i contrasti, le sopraffazioni dei soggetti
e una varietà di soluzioni visivo-dinamiche consapevoli della lezione dell’espressionismo. “la strada” di Grune o “la
tragedia di meretrici” di Rahn illustrano percorsi di sconfitta in ambiti sociali diversi, mostrando soggetti femminili
schiacciati dalla durezza delle leggi sociali. Cinema della nuova oggettività: articolazioni diverse nella prospettiva
deformante, ipertrofica e denigrante dell’espressionismo > è un cinema rappresentativo e descrittivo fondato su scene
e sequenze, con un montaggio analitico e narrativo, che fluidifica lo sviluppo rappresentativo e subordina il piano della
successione narrativa. L’impianto è reaLIstico, altre volte convenzionale, ma sempre capace di costruire percorsi
funzionali.

IL CINEMA FRANCESE DEGLI ANNI ’20:


Negli anni ’20 quest’area è molto meno produttiva. La produzione è assicurata da piccole e medie case che lavorano
con budget e programmi limitati. Grazie alle associazioni il cinema però diventa ambito culturale, interpretandolo
come forma artistica. Essenziale è la ricerca del cinema d’autore francese detto impressionismo o avanguardia
narrativa, legato al clima di riflessione artistica del cinema > lavorare sull’immagine (sovrimpressioni, effetti ottici,
filtri, mascherini, ecc) in modo che essa restituisca un’atmosfera, un’emozione, una sensazione, un’impressione
intima. I film di Delluc, Epstein, Gance e Dulac sono progetti di realizzazione del cinema come arte, affermazione di
una concezione particolare del cinema come evento estetico. Il cinema è visto come un’arte che dialoga variamente
con le altre arti, rifiuta il teatro, e trova nella pittura e nella musica due modelli possibili. Il cinema, come la musica
è considerato arte nel tempo e organizzazione nel ritmo, combinazione creativa di elementi molteplici in ritmi
dinamici, luministici e figurativi. Corpi umani, spazi naturali, parti meccaniche si intrecciano con parametri tecnici
della macchina da presa e del montaggio in un movimento coerente, formalizzato nello spazio dell’immagine e
articolato nel tempo, con un ritmo visivo. Il ritmo è assicurato da un insieme di determinazioni in movimento poste in
rapporto ad altri fattori definiti > è risultato di una sintesi tra dinamismo interno dell’inquadratura e la
successione di inquadrature. Moussiac parla di ‘autentica orchestrazione di immagini e di ritmo’. Clair afferma che
l’obiettivo del cinema è la capacità di ‘combinare armoniosamente il ritmo sentimentale dell’azione e il ritmo
matematico del numero di immagini’. Rivela i 3 fattori del ritmo nel cinema:

- La durata di ogni visione


- L’alternanza delle scene o motivi dell’azione
- Il movimento degli oggetti registrato dall’obiettivo (movimento esterno: recitazione attore, mobilità scenografia)

Gance definisce il cinema ‘musica della luce’ sottolineando l’assoluta centralità dei dinamismi luministici nel film.
Questa ricerca del ritmo visiva implica naturalmente l’attribuzione di un ruolo importante al montaggio, investito della
funzione di creare e garantire l’effetto dinamico nel tempo. Il montaggio dunque è sviluppato in funzione del
movimento, realizzato con attenzione alle relazioni metriche. Il montaggio è l’unico strumento tecnico che può
assicurare il ritmo musicale delle immagini, sfruttando relazioni matematiche o costruendo forme di alternanza tra
immagini. Il cinema francese è occupato però anche in una interrogazione sulla natura dell’immagine filmica. Un
critico di nome Delluc teorizza la ‘fotogenia’ come qualità specifica dell’immagine filmica. La fotogenia è dunque
insieme la qualità intrinseca inattesa del visibile e la possibilità di cogliere l’immediatezza delle persone, dei gesti, dei
volti, degli oggetti, nella loro autenticità, grazie alla specificità del cinema. I progetti di questo cinema hanno una
dicotomia interna: da un lato soggetti e strutture narrative spesso tratti da romanzi e racconti di gusto ottocentesco,
tradizionale e post-romantico, che assicurano lo schema narrativo e il rapporto comunicativo con il pubblico. Sono
soggetti legati a drammi personali, all’insoddisfazione soggettiva e all’impossibilità di raggiungere i propri desideri a
causa delle costrizioni sociali o dal moralismo stantio.

Abel Gance > “La Rosa sulle rotaie” del ’22 (La Roue) di Abel Gance è il resoconto di una passione semi-incestuosa
non realizzata di un ferroviere per una giovane adottata con accenti grotteschi. Sempre di Gance ricordiamo invece
film come “La follia del dottor Tube” del ’16 che mostrano esperienze di alterazione dei contorni del mondo che
allargano l’orizzonte del visibile, e lascia emergere le immagini e i percorsi della psiche individuale. Ne La Rosa sulle
rotaie gli aspetti più rilevanti sono gli effetti di dinamismo raggiunti grazie ad un montaggio accelerato, che intreccia
la velocità del treno le ruote, le componenti meccaniche, le rotaie, la locomotiva. Questa intensificazione del
movimento è ottenuta con riprese di velocità. “Napoleone” del ’27 costituisce un impegno produttivo maggiore e
sviluppa una rappresentazione ad affresco di una pagina di storia della Francia, con toni estranei alla retorica
nazionalistica. Il film monta sequenze legate alla storia individuale e alla nascita di un capo. La narrazione delle
rivoluzione si mescolo alla costruzione delle mitologia dell’imperatore. Troviamo integrate tra loro le istanze
dinamiche, analogiche e intensive, proprie del montaggio e dei movimenti della macchina da presa più sperimentali,
nonchè un sofisticato lavoro di moltiplicazione dell’immagine con sovrimpressione. Egli sviluppa un dinamismo
particolare della mdp, con l’utilizzo di movimenti di macchina elaborati e realizzati con il supporto di piattaforme e di
carrelli. Il montaggio di inquadrature brevi e mobili, l’uso delle sovrimpressioni, la stessa riduzione dello schermo in
più immagini creano inquadrature in movimento potenti, moltiplicando i pdv e garantendo un ritmo visivo
intenso. Egli ricorre anche al montaggio analogico, effettuando un parallelismo tra la tempesta marina e i contrasti
politici nella convenzione. La sperimentazione linguistica trova un punto di grande suggestione con la creazione del
trittico che consiste nella proiezione del film su uno schermo con 3 proiettori: è una prospettiva di polivisione, che
rafforza gli effetti e le potenzialità visive del cinema.

Herbier vuole invece creare una nuova sintesi artistica e oscilla tra valorizzazione del movimento e formazione di
immagini composite con forti tracce artistiche. Egli formalizza il visibile, intensifica il dinamismo visivo e realizza
effetti significativi. Nel suo film “Futurismo” appare la sequenza dell’esperimento fantascientifico che consente la
resurrezione della protagonista. Da un lato il montaggio accelerato da l’idea dell’eccezionalità dei procedimenti
tecnologici per far rivivere l’inumano > diversificazione delle immagini, uso dei dettagli, variazione dell’illuminazione,
ricorso a effetti cromatici grazie a tintura e viraggio. Le scenografie del film mostrano una galleria del gusto moderno
> gli interni disegnati da Cavalcanti mostrano l’art decò. Ricordiamo le architetture progettate da Mallet-Stevens che
propongono una visione accurata e inventiva dei modelli di razionalismo e funzionalismo architettonico. L’idea di
cinema di Herbier ricerca il ritmo del visibile e punta alla realizzazione di un’arte della visione, in cui l’immagine
non è il mero risultato di una rappresentazione ma l’effetto di una figurazione complessa.

Jean Epstein > egli fu regista, teorico e scrittore. Il suo cinema è una ricerca di stati d’animo, di impressioni
fugaci, di trasmutazioni di sentimenti. È un cinema che insegue le dinamiche psicologiche dei personaggi, le
intreccia e le mescola e insieme scopre le suggestioni degli oggetti, dei paesaggi, degli ambienti in cui l’uomo opera.
Egli immerge i soggetti nelle cose. La mobilità, la trasmutabilità sono le sue dimensioni privilegiate e le sue tecniche di
messa in scena riflettono la volontà di mostrare la mutevolezza dei sentimenti e delle persone e il divenire. Egli usa
montaggi rapidi, evocativi. Questa scrittura dell’emozione fa della sua messa in scena un’esperienza particolare: i
soggetti sono fuggenti, crisi psicologiche, mutamenti del sentire > “Cuore fedele” “La bella nivernese”.

IL CINEMA D’AVANGUARDIA E IL SURREALISMO

Bèla Balàzs nel suo “L’uomo invisibile” (1924) opera un tentativo di teorizzazione del cinema e afferma che ‘i primi
piani costituiscono la sfera più peculiare del cinema, nei primi piani si dischiude la terra inesplorata di questa nuova
arte’. Il cinema infatti viene inteso come qualcosa che possa svelare l’anima delle cose stesse, recuperando una forma
di percezione perduta dopo l’infanzia. Secondo il suo pensiero il cinema, ad un certo livello, trasforma qualsiasi cosa in
un primo piano, perchè da agli oggetti del mondo un’enfasi e un phatos che altrimenti non avrebbero (Epstein parla
qui di fotogenia, il cinema è animista> infonde un anima alle cose quotidiane). Il cinema dunque permette di
guardare non con la percezione quotidiana ma con una percezione più carica. Dall’invenzione della stampa si era
infatti fino a quel momento prediletta la parola, dimenticandosi di “guardarsi in faccia” e il cinema è proprio
quest’atmosfera che vuole ricreare. Bisogna dunque uscire dagli automatismi e avere un occhio che riesca a
meravigliarsi di nuovo. Ecco perchè film di quest’epoca come “La passione di Giovanna D’Arco” di Dreyer (1928) è
realizzato come una successione di primi piani.
In opposizione al cinema narrativo-rappresentativo si afferma dunque un cinema che si propone come altro > si
mescolano cinema d’avanguardia e puro, Absolute Film e cinema onirico, astratto, sperimentale e sinfonia visiva e si
sovrappongono continuamente. L’unità è in negativo, basata su un rifiuto, di una radicale estraneità al cinema
ufficiale e alle sue leggi. Un rifiuto della dialettica rappresentazione/mercato, della narrativi convertita in
prodotto industriale. La negazione dell’immaginario cinematografico, della codificazione della comunicazione filmica,
il rigetto delle strutture rigide della messa in scena rappresentativa, sono operanti all’interno del cinema
d’avanguardia. L’avanguardia vuole il rapporto cinema-mercato, vuole lavorare indipendentemente dal prodotto
filmico. Il filo continuo dell’intensità, oscillante come un diagramma impazzito, costituisce la condizione di esistenza
del cinema d’avanguardia. Questa intensità legata alla forza delle immagini è un modo della differenza: l’intensità è la
differenza. Le esperienze d’avanguardia sono ricerche svolte nello spazio marginale del laboratorio, in contrasto con
l’apparato industriale del cinema ufficiale. C’è il rifiuto per la dimensione tecnologica e l’affermarsi di una
dimensione artigianale. La genesi della teoria di un cinema differente risale ai primi anni dieci, legata alle ricerche
del primo futurismo in Italia e del cubismo in Francia. In Italia con la regia di Ginna, ma ispirati da Marinetti, i futuristi
realizzano un film chiamato “Vita futurista” del 1916 che riflette aspetti eterogenei del movimento, caratterizzato
dalla sperimentazione formale che dinamizza effetti di luce o immagini rappresentative.

L’astrazione nel cinema si presenta da un lato come forma organica e privilegiata della modernità, eliminazione della
variabilità umana e soggettiva e rimozione dell’angoscia personale, e dall’altro come riproduzione della struttura del
lavoro artistico, e delle sue caratteristiche di pratica individuale. L’arte è arte del movimento e trova nuovo modello
nell’arte del tempo ovvero la musica. Importante è anche il movimento del dadaismo a cui è connessa la figura di Man
Ray che realizza “Ritorno alla ragione” nel 1923 > nel breve film appaiono riprese in esterno, immagini di una
modella nuda, puntine da disegno, sale e pepe disseminati sulla pellicola: il risultato è un insieme magmatico di
materiali, caratterizzati dal caos e dal rifiuto della forma. I suoi successivi film mostrano il passaggio al surrealismo.

CARATTERI FONDAMENTALI DEL CINEMA D’AVANGUARDIA:

- Improvvisazione
- Astrattismo (Dada)
- Dinamismo e velocità
- Futurismo e cubo-futurismo
- Cinema puro > Slegato dal mercato, deve rappresentare se stesso
- Indifferenza verso il prodotto finale
- Rifiuto della forma
- Esperienza della modernità
- Disarticolare il montaggio ordinato e abbandonarsi al caos delle sensazioni

Il surrealismo nel cinema: si vuole proporre una prospettiva di cinema automatico per realizzare una composizione
non lontana dalla scrittura automatica di Breton (fondatore del movimento). I due film surrealisti più noti sono “Un
Chien andalou” (un cane andaluso) e “L’age d’or” realizzati da Luis Bunuel nel 1929 e nel ’30 e inventati insieme a
Salvador Dalì. I film costituiscono un’avventura complessa nell’inconscio e si avvalgono di immagini di natura diversa
in cui l’orizzonte dei fantasmi, i sogni e le allucinazioni si mescolano con immagini fenomeniche. In “Un Chien
andalou” prevale la dimensione fantasmatica e le ossessioni psichiche dominano la scena. Si rivela un film dedicato al
difficile e contraddittorio processo di costituzione dell’identità sessuale del giovane protagonista, attraverso le
avventure discontinue del desiderio e differenti forme di regressione. Il prologo del film ha una duplice valenza: mette
in scena l’aggressività del desiderio e la violenza implicita del rapporto uomo-donna ma funziona anche come una
dichiarazione d’intenti > la visione, lo sguardo, vanno radicalmente modificati e rifondati su nuove basi (ecco perchè
c’è il taglio dell’occhio, è una metafora, e inoltre mostra le componenti libidiche più aggressive). Il film dunque
mostra logiche e contraddittorietà delle logico del desiderio sessuale, si vuole parlare di qualcosa di cui normalmente
si tace. Ci sono numerosi slittamenti di identità legati ai fantasmi psichici. Esso ha una struttura tripartita:
- Personaggio immaturo: il rapporto col femminile è di tipo ‘materno’ ma la figura androgina va eliminata
- Il desiderio maschile si espande: il rapporto col femminile è di puro desiderio e c’è una seduzione aggressiva
- L’alter ego maschile svolge una funzione positiva, ma va poi eliminato: ribellatosi alla figura ‘paterna’, il
personaggio deve comunque scontrarsi con la frustazione del desiderio e con l’intreccio eros - thanatos.

In “L’age d’or” immagini e situazioni di tipo diverso si mescolano in un tessuto audiovisivo caratterizzato da una
grande eterogeneità di strutture e componenti. Esso intreccia caoticamente dinamiche dell’eros e della violenza
all’interno di 6 episodi, che vanno dal documentario entomologico sugli scorpioni all’evocazione blasfema con un
assassino depravato, identificato con Cristo. Le ossessioni del desiderio in entrambi i film si manifestano mostrando
forza ma anche fragilità, all’interno di figure di oggettivazione dell’inconscio di indubbia intensità. Fondamentale è il
ruolo ideativo di Dalì, delle sue fissazioni e del suo metodo paranoico-critico. Brunel si mostra in grado di segmentare
le immagini e di costituire un tessuto di ossessioni visivo-dinamiche che rivelano la ricchezza irrazionale
dell’inconscio (non basta più deformare l’immagine come faceva l’espressionismo) e aprono un nuovo orizzonte per il
cinema. La scena principale in termini psicoanalitici vuole mostrare lo scontro tra l’Es, ovvero l’aspetto più istintuale
e bestiale della nostra struttura psichica, e il Super-io, l’istanza di controllo, dell’ordine e della legge. Esso
rappresenta anche un discorso contro l’arte borghese, che invece di tenere conto della carica sovversiva della libido
cerca di sublimare gli istinti. “il moderno problema dei sentimenti, che è legato al capitalismo, non è ancora stato
risolto” (1930). Il manifesto surrealista afferma “il surrealismo è un automatismo psichico puro, che ha lo scopo di
esprimere sia verbalmente che per iscritto o in altro modo il funzionamento reale del pensiero senza il controllo della
ragione e fuori da ogni preoccupazione estetica o morale” (Sogno, Desiderio, Trasgressione, Immagine psichica,
Inconscio..).

Metodo paranoico-critico/psicanalisi: è un metodo spontaneo di conoscenza irrazionale fondato sull’


associazione interpretativo-critica dei fenomeni deliranti (Dalì, 1935). L’idea di Dalì è quella di usare le
associazioni tipiche della paranoia, ma piegarle in direzione creativa anziché di paura e delirio, trasformare la
paranoia, cioè, in una nuova forma di conoscenza, in qualcosa di produttivo. Il pensiero del surrealismo però si stacca
da Freud e dalla psicoanalisi, considerata dai surrealisti come un’altro dei cascami problematici della società
borghese, ma è pur vero che il pensiero surrealista può essere spiegato solo sulla base della psicanalisi (basti pensare
all’ Interpretazione dei Sogni). Per Freud i due principali meccanismi con cui funziona la nostra logica onirica sono:
- CONDENSAZIONE: più aspetti della vita psichica si coagulano in un solo elemento che può essere un personaggio, un
oggetto, un evento etc..
- SPOSTAMENTO: una problematicità del vissuto psichico viene traslata da un elemento - un personaggio, un oggetto,
un evento - ad un altro, magari legato al primo da qualche logica associativa

IL CINEMA SOVIETICO DEGLI ANNI ’20

Nel 1917 assistiamo a due rivoluzioni, ovvero quella di febbraio e quella di ottobre: a febbraio lo zar Nicola II viene
deposto e nasce un governo provvisorio con a capo i menscevichi, ovvero il partito riformista. A ottobre invece il
partito dei bolscevichi di Lenin prende il potere e assistiamo alla nascita dell’ URSS (Unione Repubbliche Socialiste
Sovietiche). In questi anni c’è lo sviluppo di una ampia sperimentazione interna alla rivoluzione comunista. Vi è infatti
il cosiddetto ‘Ottobre delle arti’ ossia la produzione artistica correlata alla Rivoluzione d’Ottobre, grazie alla politica
culturale illuminata di Lunacarskij che consente grande sperimentazione. Gli intellettuali e gli artisti innovatori
immaginano e realizzano esperienze innovative, che si collegano alle posizioni di rottura elaborate negli anni dieci.
L’arte non è più vista come un’emanazione dello spirito ma come una pratica sociale, capace di veicolare stimoli,
emozioni, idee e modi di pensare politicamente.
Nel progetto dell’Ottobre delle arti confluiscono:
- da un lato le teorie del cubofuturismo (Majakovskij e Krucenych) ed il progetto dell’immaginario della modernità
- le esperienze del teatro sperimentale (prima le forme popolari del balagan e poi nelle esperienze della
biomeccanica e del costruttivismo che avvicinano l’umano e alla macchina) e l’affermazione della lingua transmentale
(lo zaum)
- teorie che ricercano nuove forme di produzione culturale legate al proletariato (teorie del Proletkult di cui fa
parte inizialmente anche Eizenstejn)

Il costruttivismo rifiuta l’arte e la tradizione legata alla rappresentazione dell’uomo, per affermare l’idea di una
produzione materiale-intellettuale capace di oggettivare le pratiche e il mondo della concretezza materiale
tecnologica e della nuova ingegneria sociale. Ricordiamo inoltre le teorie formaliste elaborate da Sklovskij, Tynjanov,
Ejchenbaum e Brik che concepiscono l’opera come una struttura in cui tout se tient, ovvero concepiscono l’opera
d’arte come una struttura e come tale si cerca di studiare la possibilità di sfruttare tale struttura per una riflessione
che sia estetica e politica insieme (per il cinema > essenziale è il montaggio) e considerano il linguaggio artistico
come meccanismo che disautomatizza la percezione abituale. L’arte inoltre deve essere allargata alle nuove classi
sociali emergenti, impegnate nel progetto rivoluzionario. Lo Strutturalismo o Formalismo si è esattamente basato
sull’idea del testo filmico, sulla struttura interna ,l’idea che le diverse parti di una struttura servono a produrre un
significato e che quindi produrre una struttura estetica e politica. Il testo viene approcciato in modo più scientifico:
come i vari elementi approcciano tra di loro. Naturalmente l’idea del testo come struttura è perché anche la nostra
vita è organizzata in una struttura gerarchica.

Queste nuove teorie si riversano prima nel teatro e poi nel cinema: infatti registi come Ejzenstejn si formano nel
teatro e portano nel cinema la varietà di un’esperienza realizzata a diretto contatto con il nuovo pubblico di operai.
La caduta di Lunacarskij e la crescita del potere di Stalin riducono l’autonomia di ricerca artistica e con il 1929-30 e la
formazione della RAPP (Associazione degli scrittori proletari) come organo di controllo e di direzione dell’attività
culturale si chiudono gli ambiti di ricerca per costringere la produzione sovietica dentro modelli costrittivi del
realismo socialista. L’intervento statale nell’industria cinematografica sovietica consente lo sviluppo di un cinema
articolato, in cui le case di produzione legate allo Stato, danno vita a un cinema di educazione e di propaganda ed
anche ad un cinema di ricerca legato al programma dell’Ottobre delle arti. Il primo film di successo è “Krasnye
d’javoljata”(Diavoletti rossi, di Perestiani, 1923) ma si riconosce come pioniere del cinema sovietico Lev Kulesov che
infatti dirige la scuola statale di cinematografia, compiendo alcuni esperimenti fondati sul montaggio
cinematografico, considerato “base estetica” del film: combina il volto di Mozzuchin, uno dei grandi attori del
cinema zarista, con l’inquadratura di una minestra o di una bara, mostrando come sia l’accostamento delle
inquadrature, la correlazione visiva a produrre il senso delle immagini. Le varie inquadrature associate insieme a
degli oggetti possono far comprendere la scena —> prima consapevolezza che il significato di un’immagine non
dipende da se stessa ma dall associazione con altri elementi. Realizza una geografia immaginaria montando in
sequenza inquadrature di Mosca e materiale di repertorio della Casa Bianca a Washington > omogeneità spaziale
immaginaria. La sua idea di montaggio è fissata sulla funzionalità narrativa, ma riflette anche l’idea costruttivista di
realizzare un film secondo gli stessi principi tecnico-scientifici con cui un ingegnere compie il suo lavoro. Utilizza
strutture narrative diverse, mescolando dal burlesque al grottesco, ai meccanismi narrativi e drammatici tradizionali
ma funzionali in Dura lex (Po zakonu, 1926).
Per Ejzenstejn, suo allievo, l’arte è una pratica sociale capace di organizzare idee e modi di pensare e di influenzare
politicamente il pubblico. Egli adopera il montaggio come un conflitto: bisogna accostare inquadrature in contrasto tra
loro, per ingenerare insieme shock e pensiero (cine-pugno). Egli realizza il montaggio delle attrazioni, mira ad
indurre nello spettatore una reazione psico-sensoriale che lo faccia uscire da se, conducendolo ad una presa di
coscienza che ponga fine agli autoritarismi della percezione e della riflessione, giungendo ad una forma di estasi (ek-
stasis: uscire da una posizione statica e passiva), le attrazioni non sono in contrapposizione con un approccio riflessivo:
sono finalizzate alla ricezione di un messaggio ideologico, ecco perchè si parla anche con E di montaggio
intellettuale. Il montaggio consente la trasformazione dei materiali in strutture comunicative ed espressive.
La pratica filmica di Ejzenstejn comprende: “Sciopero” del 1925, “La corazzata Potemkin” del 1925 e “Ottobre” del
1928 nel quale è presente l’esempio più radicale di montaggio intellettuale, costituito dalla sequenza degli idoli in cui
mostra una serie di piani di simboli religiosi. (pag.59)

Esempio di montaggio delle attrazioni e intellettuale:


1) siamo verso la fine del film “Sciopero”. Qui vediamo un momento finale del film in cui i soldati a cavallo dello zar
prendono possesso dello spazio invaso dagli occupanti. La differenza tra un montaggio di questo film e “Accadde una
notte” è evidente: Il primo montaggio è ellittico (la macchina da presa di muove). Un montaggio che però funziona
ancora per costruire un’azione. Poi nella stanza della polizia col prigioniero, la cinepresa non ci conferisce chiarezza, è
tutto un accostamento di inquadrature che danno shock, sensazione inquieta. Poi il montaggio intellettuale col bue che
viene squarciato. Dove gli scioperanti devono essere trattati come animali. Assistiamo ad un crescendo progressivo
del ritmo, ad un montaggio che vuole produrre un concetto, vuole costruire una vera e propria metafora filmata:
scioperanti trattati come vere e proprie bestie.
2) il film “Ottobre”: qui fa una riflessione sul potere. E’ il Film per eccellenza del montaggio intellettuale. Qui siamo
alle prese del personaggio (Gerenskij). C’è una sequenza delle tentazioni di potere del personaggio. Quest’idea viene
messa in forma da Ejzenstejn—> immagine di corone di alloro che ci conferiscono il potere, poi la salita della scala, gli
stacchi di montaggio servono per darci idea di un interpretazione politica e non alla costruzione di una storia.
Quindi Gerenskij viene paragonato ad un pavone nel film: come dire che si sta facendo tentare da un potere narcisista.
Questi due esempi ci danno un’idea chiara del montaggio per la scuola sovietica: le diverse inquadrature servono per
darci l’idea (cinema ideetico) e non per costruire una storia. Vi è un concetto finale che ci conferisce il senso del film
e di quello che vuole trasmetterci il regista. Ejzenstejn è ancora oggi famoso soprattutto per questa pellicola.

Ora paragoniamo una sequenza del “Padrino”: Da una parte c’è un montaggio parallelo e da una parte inizia a
conferirci un’idea. La giustapposizione delle inquadrature produce un senso di ordine intellettuale: idea di un giudizio
dell’operato di questo personaggio. Idea di usare il montaggio a livello creativo. Dunque, ovviamente, negli anni
successivi ci furono anche in Italia nel dopoguerra delle tendenze che andavano nella direzione opposta: cioè un
cinema che cerca di rinunciare al montaggio e lavora sulle sequenze lunghe interminabili. Un grande teorico del
cinema, André Bazin parla di montaggio proibito: il cinema per esprimersi pienamente non dovrebbe utilizzare solo il
montaggio. Infatti per lui il cinema ha una vocazione ontologica di rapporto con la realtà. Il cinema dovrebbe lavorare
più vicino alla realtà con la profondità di campo (in cui gli elementi sono visibili). La sua idea è che va creata un’
immagine di profondità per far immergere lo spettatore all’interno della scena, nell’interezza che ha davanti.
(Neorealismo italiano).

IL CINEMA AMERICANO DEGLI ANNI ’20

Hollywood, fabbrica dei sogni:

Tra la fine della prima guerra mondiale e la grande crisi del 1929 c’è il consolidamento dell’industria
cinematografica hollywoodiana: si definisce un vero e proprio sistema che si impone a livello internazionale
diventando così un modello universale, veicolo di miti, ideologie e iconografie. Le premesse che portarono alla crescita
dell’industria cinematografica americana riguardano la particolare situazione degli Stati Uniti in questo periodo >.
negli anni della prima guerra mondiale gli USA si pongono come leader dell’economia mondiale; nel dopoguerra si
afferma una politica di liberismo estremo che consente ai prodotti cinematografici americani di imporsi sui mercati
stranieri. In generale gli anni Venti corrispondono agli anni dell’espansione economica (fino però al crollo economico
del ’29) ed a una certa apertura sul piano del costume e della morale corrente, è una prosperità che non include però
tutte le fasce sociali es. immigrati, contadini e minatori e bisogna ricordare anche la questione del proibizionismo che
scatena il contrabbando e il consumo di alcolici. Questi sono gli anni ricordati da tutti come i “ruggenti anni Venti”.
Alla base della crescita del cinema Hollywoodiano vi è anche una grande disponibilità di capitali. Negli anni Venti
infatti gli investimenti finanziari nell’industria del cinema registrano un notevole aumento e la capacità di
esportazione sui mercati esteri aumenta in modo esponenziale. Grazie a ciò il cinema Hollywoodiano stabilisce una
precisa strategia produttiva: vi è la costruzione di un’organizzazione verticale che comprende l’intero ciclo
produttivo fino alla distribuzione dei prodotti. Le principali case di produzione acquistano o costruiscono sale
cinematografiche in cui distribuiscono direttamente i loro film. A controllare la distribuzione nelle restanti sale
interviene un sistema di di Block Booking > gli esercenti che intendevano noleggiare uno o più film di una casa si
videro costretti a prenotare interi pacchetti, comprensivi di altri film, minori, dello stesso marchio di fabbrica. È una
strategia tesa alla concentrazione verticale e alla massimizzazione dei profitti che consente alle case, talvolta
associate in un regime di oligopolio, di dominare il mercato e l’immaginario del pubblico > alimentato dalle
caratteristiche delle sale: Tali sale si caratterizzano per il fasto e il design delle loro architetture (rococò - neobarocco
con reinterpretazioni dèco di architetture egiziane e spagnoleggianti), permettendo ad un pubblico popolare di
accedere a un lusso letteralmente favoloso. Oltre al film nelle sale più importanti lo spettacolo comprendeva anche
comiche, intermezzi musicali, performances dal vivo. A gestire questo apparato spettacolare erano le tre grandi case
di produzione> Studio System (5 maggiori, 3 minori) : la Paramount – publix , la Metro Goldwin Mayer (MGM), la
Warner Brothers (Bros), la 20th Century Fox e la RKO. Accanto ad esse si stagliavano le case di produzione minori
come la Universal, la Columbia e c’era poi la United Artists creata nel 1919 da attori e registi, come Chaplin e
Griffith, che miravano però a produrre e distribuire i propri prodotti in modo indipendente. Nel ’23 questa casa
produsse “La donna di Parigi” di Charles Chaplin. A causa delle contraddizioni che caratterizzano gli anni Venti, nasce
l’esigenza per le grandi case di produzione di controllare sia l’alone trasgressivo e peccaminoso che circonda la vita dei
divi, sia i contenuti stessi dei film, talvolta incentrati su soggetti scabrosi come gli eccessi provocati dal proibizionismo
o l’adulterio (presente per es. in “Mariti ciechi” di Stroheim).

Per sfuggire ai controlli della censura federale l’industria cinematografica decide di avviare una politica di
moralizzazione di se stessa: per questo i più importanti studios si associno per istituire nel 1922 la Motion Picture
Producers and Distributors Association (MPPDA), con lo scopo di stabilire una serie di misure per regolamentare il
contenuto morale dei film. A capo dell’organizzazione viene chiamato il repubblicano William Hays che condusse nel
1934 (fino all’inizio degli anni ’60) ad un vero e proprio codice di produzione. Il codice stabilisce una serie di standard
morali per la rappresentazione i tematiche sessuali, scene di violenza o di crimine, basandosi su tre principi
fondamentali: rispetto della legge, della natura e degli uomini; condanna del crimine e dell’immoralità;
rappresentazione del male solo se giustificato dalle necessità drammatiche dell’azione. Per prevenire errori e
trasgressioni Hays istituisce il Production Code Office che affianca i produttori dall’ideazione del film al montaggio
finale. Per tutti gli anni ’30 e ’40 il potere del PCO è assoluto, ma verrà messo in discussione dopo la seconda guerra
mondiale quando diversi produttori inizieranno a rifiutarlo. L’iniziativa di autocensura avviata dal 1922 contribuisce
alla definizione del sistema produttivo hollywoodiano, completando il meccanismo di standardizzazione. La
specializzazione e connotazione delle varie case, la precisa classificazione dei film secondo l’impegno produttivo,
l’eclettismo delle scelte tematiche, controllato in base a distinzioni di genere e parametri morali, la presenza dei divi
e la cura tecnica, caratterizzano un modello spettacolare che prevede, per la sua riconoscibilità e ripetitività, l’attesa
dello spettatore come ingrediente fondamentale. Un’attesa suscitata con l’interazione con i media dell’informazione,
poi guidata come ruolo testuale, con le strategie linguistiche e narrative dei singoli film.

Sviluppo dello stile classico: oltre alla linea dello studio system prosegue la tendenza del decennio precedente
secondo cui, allo sviluppo organizzato dei modi di produzione, si associano strategie di modi di rappresentazione in una
certa misura normativi e convenzionali. Il processo di costituzione di una sorta di “canone istituzionale” conosce ora
incremento significativo (stabilità con il sonoro, anni ’30-40). È la tecnologia di riproduzione del suono e la possibilità
di uno spettacolo audiovisivo unitario, nella pluralità di componenti che prevede la nuova nozione di “colonna sonora”
(rumori, voi, musica) a portare a compimento quella tendenza ad una rappresentazione compiuta. La riconduzione di
tutti gli elementi della rappresentazione alla proiezione sullo schermo di un mondo immaginario in cui la riproduzione
di spazi e suoni tende sempre più ad assomigliare alla realtà, favorisce il fenomeno di identificazione e assorbimento
dello spettatore nel mondo della finzione. Se negli anni ’10 si stabiliscono i primi raccordi convenzionali tra
un’inquadratura e un’altra, in funzione di ‘ponti’ di collegamento, nei ’20 il continuity system diventa più sofisticato,
nella stabilizzazione dei raccordi di direzione, sguardo e sull’asse di ripresa. Altre tecniche contribuiscono alla
coerenza e alla compattezza dello stile, tra queste quelle luministiche. Gli studios sono sempre più tecnologicamente
attrezzati delle majors consentono di effettuare riprese con la sola luce artificiale, gestendone le risorse con
specifiche convenzioni, come quella basilare per cui ciascuna scena veniva illuminata secondo tre fondamentali
direttrici: quella principale, key line, con la luce proveniente da un lato dell’inquadratura, quella di riempimento, fill
light, a illuminare lo sfondo, e il controluce, backlighting, a sottolineare le figure principali con interventi luministici
condotti da dietro o sopra il soggetto di ripresa.
MODO DI RAPPRESENTAZIONE ISTITUZIONALE:

- Continuità narrativa: inquadrature e scene durano lo stretto necessario, le scene sono legate l’una all’altra da un
rapporto di causa-effetto
- Spazio continuo e integrato: in cui lo spettatore può orientarsi e quasi ‘abitare’, LO SPETTATORE E’ AL CENTRO
DEL MONDO > deve essere onnipresente e guardare dal posto migliore.
- Linguaggio trasparente: lo stile deve essere ill più possibile invisibile, lo spettatore non deve rendersi conto dei
tagli di montaggio o delle posizioni della macchina da presa
- Il centro di tutto è la figura umana > è un cinema antropomorfo
- Illuminazione il più possibile piana: chiara gerarchia tra primo piano e sfondo, mai eccessiva profondità di campo
(non troppe cose a fuoco) e l’immagine deve essere innanzitutto leggibile
- Nessuna sperimentazione strutturale (flashback) eccessiva
- Armonia e ordine: l’elemento spettacolare è tenuto a freno, trionfa la spinta narrativa
ACCADDE UNA NOTTE - IT HAPPENED ONE NIGHT (1934)

- Dimensione storica: Stili di vita, contesto socio-politico naz. e internazionale, la grande depressione e il New Deal
- Dimensione produttiva: fattori economici e tecnologici, studio e Star System, passaggio al sonoro
- Dimensione estetica: stili di regia, MRI, linguaggio classico, stile invisibile

DIMENSIONE STORICA: evento fondamentale è la crisi del ’29 e la Grande depressione. Nel 1933 diventa presidente
degli stati uniti Franklin Delano Roosevelt e si inaugura il New Deal, un ‘nuovo corso’ marcato da una rinnovata
attenzione ai problemi delle classi più povere. Occorre ricostruire la fiducia nelle istituzioni sociali, nella famiglia, nel
lavoro, e il cinema può fare la sua parte. La produzione hollywoodiana degli anni ’30 vede perciò il passaggio da
modelli di soggettività e desiderio più trasgressivi a modelli più normativi. Anche il codice di censura risponde a questa
necessità di un cinema che proponga valori indentitari positivi. I film classici, di fronte al rapporto tra classi o al
rapporto tra i sessi mettono in scena soluzioni immaginarie a problemi reali (Levi-Strauss). Lo stesso ‘Accadde una
notte’ mostra gli incontri con le difficoltà economiche dell’America profonda, è una versione ironica dello stesso
viaggio intrapreso da molti americani verso la California per trovare lavoro.
James Cagney diventa famoso con un film gangster ma ora ci si vuole allontanare da queste figure al limite per
proporre modelli morali per il problema dell’identificazione del pubblico nei personaggi, ecco perchè da un film come
‘’Nemico pubblico’’ lo si vede recitare in ‘’La pattuglia dei senza paura’’ come un agente FBI. Lo scopo è quello di una
maggiore fiducia nell’America e la ripresa del paese dopo la crisi.

DIMENSIONE PRODUTTIVA: Concentrazione verticale, nascita dell’Oscar come premio, e “Accadde una notte” vinse
l’Oscar per il miglior film, miglior sceneggiatura e migliori protagonisti. Il genio del sistema non è più solo il regista in
quanto con l’arrivo del sonoro la sceneggiatura diventa fondamentale.
Le inquadrature di ‘Accadde una notte’ sono per lo più mezzi primi piani, piani medi. Sullo sfondo il tutto è sfocato
mentre a fuoco ci sono i personaggi, è un cinema antropomorfo.
Dinamiche dei generi hollywoodiani > scopo: collocazione dell’individuo in un contesto sociale
- Generi dell’ordine: in questo genere di film non c’è un ordine sociale ma bisogna costruirlo o se c’è va protetto in
quanto risulta in pericolo, sono ad esempio il Western, il Gangster film, il Poliziesco
- Generi dell’integrazione: la struttura sociale già esiste, si soffermano su come possa integrarsi l’individuo, sono ad
esempio il Musical, la Commedia, il Melodramma
In genere seguono due linee narrative queste film: AMORE (formazione della coppia, assunzione delle corrette posizioni
di genere) o LAVORO

La commedia Screwball: la traduzione sarebbe ‘palla svitata’ (lessico del baseball) o ‘commedia sofisticata’ e
prende questa connotazione soprattutto per i dialoghi ironici e arguti. Spesso coincide con la commedia del
rimatrimonio > a volte ci si sposa con una persona sbagliata o una coppia deve ritrovare l’armonia dopo una sorta di
separazione. Spesso sono matrimoni interclassisti (come una ricca ereditiera e un maggiordomo) ma dopo il New Deal
queste scelte vengono scoraggiate e si prediligono matrimoni camerateschi.

Accadde una notte: la formazione della coppia avviene tramite la ribellione iniziale alle figure paterne (Mr Andrews
e il direttore del giornale) e poi con il viaggio insieme, che produrrà in entrambi una trasformazione (per il cinema
classico il racconto è sempre una traiettoria, un viaggio - talvolta solo metaforicamente - con cui i personaggi arrivano
ad esaudire i propri desideri e capire meglio se stessi). Fondamentale è la fine con la riconciliazione con le figure
paterne, che diventano alleate della coppia. C’è dunque il bisogno di ‘rientrare nella struttura’.
Per quando riguarda il rapporto tra i sessi è soprattutto la figura femminile a dover cambiare, Ellie deve perdere i
suoi tratti da ricca ereditiera viziata a dimostrare di poter essere la giusta per Peter. Il film mostra la subordinazione
del modello anni ’20 della flapper, giovane donna dinamica e indipendente, Claudette Colbert alla mascolinità tutta
d’un pezzo dello healthy animal Clark Gable. ciononostante, è fondamentale la scena dell’autostop in cui è lei a
salvare la situazione e lui a imparare da lei, c’è dunque una certa reciprocità nel rapporto tra i sessi. Lei deve essere
in un certo senso educata: deve imparare a gestire il cibo (non mangiare cioccolatini, inzuppare le ciambelle,
accettare le carote anche se crude) ma anche il denaro e in generale fare i conti con la Grande depressione: la
dimensione comunitaria nell’autobus con il canto collettivo, il treno dei poveri che salutano amichevoli Peter. Spesso
si canta la canzone dal titolo ‘l’uomo sul trapezio volante’ per mostrare unità dopo la crisi. Il lieto fine è la risposta
fiduciosa di Capra, vero regista simbolo dell’ottimismo del New Deal. Peter appare come “il bravo ragazzo” al
contrario di King Wesley, il primo marito di Ellie, che è un vanesio. Lei appare una donna facile perchè subito sposa
King Wesley ma in realtà si mostrerà essere una brava ragazza. Da rimarcare dunque è la Reversibilità dei ruoli, un
altra caratteristica tipica della Screwball Comedy. L’atmosfera romantica e la dimensione reale alla fine si scontrano
quando Ellie confessa a Peter i suoi sentimenti ma lui non le risponde subito in quanto ha già sofferto per amore,
infondo lui ha già trovato quello che cerca ma non se ne rende ancora conto. Prima del lieto fine devono trasformare
i padri in alleati, si ha dunque un finale patriarcale alla fine una subordinazione della donna all’uomo, ma si ha
anche il recupero della dimensione dell’avventura e del piacere di giocare > riscoperta della dimensione ludica per
il rapporto di coppia e si ha comunque un esempio di matrimonio interclassista.

Il cinema classico vuole raccontare una storia, non è detto che deve essere consolante ne che ci sia Happy ending,
vuole proporre stili di vita tramite vicende appassionanti (perché tramite lo stile il pubblico si tiene attento:è uno stile
chiaro e discreto). In “accadde una notte” c’è la traiettoria più tipica del cinema classico, ovvero, la costruzione di
una coppia perchè alla fine i due protagonisti riescono a trovare la loro posizione nella loro struttura sociale. Il film
propone una visione utopica perchè afferma che le diverse classi si possano sposare tra di loro.
La variazione è importante per far capire come cambiano all’interno le posizioni ovvero i rapporti tra i personaggi. In
una scena in particolare i due stanno passando una notte insieme > Le varie inquadrature servono a costruire lo
spazio: la stanza viene trasformata nella stessa identica stanza precedente. La prima inquadratura è la stessa dell’altra
stanza, e la macchina da presa è nello stesso lato. Questo serve a ripetere la stessa costruzione che c’era la volta
precedente. Vi è mezza figura di Ellie. Tutta la sequenza sarà incentrata sull’idea che la separazione potrà essere
superata. Qui già è tematizzata l’idea che sia la figura maschile a porre dei limiti. Nel momento in cui si è costruita
l’azione della separazione, si vuole trasmettere un contenuto quasi sexy. Un’inquadratura carica di pathos—> si
percepisce che lei ha un travaglio interiore, Ellie infatti dentro cova un sentimento, è un’inquadratura abbastanza
lunga e drammatica perchè c’è lei di spalle e l’ombra di lui —> si nota una possibilità di comunicazione.
Poi si torna ad un’inquadratura esattamente uguale a quella precedente solo con la differenza che prima aveva la
maglietta e ora no. Poi un’altra inquadratura identica ma più vicina—> si chiama accordo sull’asse—> quindi piano
piano ci avviciniamo all’immagine di Ellie e alle sue sensazioni interiori. Poi di nuovo un’inquadratura identica di lui.
Quanto più lei si muove, più si avvicina la macchina da presa. Per spezzare il continuo rimbalzo tra lui e lei, si passa ad
un’inquadratura a due, quindi più ampia per non annoiare lo spettatore nell’alternanza continua delle due
inquadrature di lui e lei. Siamo ora alla sesta inquadratura della sequenza: l’ incomunicabilità regna sovrana. Qui lei
fa una domanda fondamentale: “sei mai stato innamorato?” “Penso che potresti fare contento una ragazza” siamo
tornati ad un’inquadratura a due come se mimasse il desiderio di Ellie. Nonostante sia Peter che parli l’inquadratura si
ha su di lei ed è identica all inquadratura 5.

Peter non si rende conto che quello di cui lui ha bisogno in una ragazza è proprio accanto a lui. Poi si ritorna
all’inquadratura di lei e poi di nuovo di lui, è una struttura a rima. Poi abbiamo un raccordo di sguardo ovvero lei ha
superato la barriera del gelo avvicinandosi al muro costruito con il lenzuolo, chiamato muro di Gerico. Poi stacco sulla
figura femminile, qui lei entra in campo da lui e quindi abbiamo un altro stacco con movimento di avvicinamento e lui
le dice che lei deve ritornare a dormire ma lei continua a dichiararsi e lui sembra prima accogliere i suoi sentimenti ma
poi ripete la frase di dove andare a dormire. Lei ripete due volte il discorso sull’amore e lui le ripete due volte di
andare a dormire “bed” e “love” vengono ripetute due volte dunque sono esempi di ripetizioni. L‘inquadratura poi si
allontana, perchè il regista prende atto del rifiuto di lui nei confronti di lei. Poi c’è un’inquadratura di lei e poi di lui
identica a quelle precedenti.

Da come abbiamo descritto, il montaggio classico si basa sul costruire uno spazio chiaro attraverso una
frammentazione delle varie scene dei due personaggi. Una volta stabilito questi due micro spazi ,bisogna capire se i
due possano interagire tra di loro. Lei è il personaggio dinamico perché ha maggiore confidenza con i propri sentimenti
e infatti anche la cinepresa si avvicina di più a lei ma anche a lui —> serve per farci rendere conto proprio dell
avvicinamento. Questo cinema è appunto un cinema che sembra spensierato e semplice, godibile ed evidente ma ciò
nonostante il lavoro dietro del regista è molto complicato. Dietro questa messa in scena c’è una grande riflessione:
basta pensare a queste 22 inquadrature per descrivere una piccola scena (quando lei si dichiara a lui). È un
montaggio, ovvero un stile di regia, meno spettacolare, si fa notare di meno, è più umile ma ha un lavoro
gigantesco dietro. Lo stile classico serve quindi al servizio della narrazione e contemporaneamente produce anche dei
significati: infatti abbiamo questo avvicinamento della cinepresa per rendere l’idea di avvicinamento tra i personaggi.
Quindi è il montaggio a costruire il rapporto tra i personaggi.

IL NEOREALISMO E L’AVVENTO DEL CINEMA MODERNO IN ITALIA


Prima di parlare di Neorealismo bisogna analizzare la situazione prima della seconda guerra mondiale: per cinema si
intende ora tutto l’operato cinematografico, a partire dalle tematiche presentate nei film, fino ad arrivare alle case di
produzione cinematografica. Il cinema degli anni ’30 era famoso per le sue commedie, poiché attraverso una tipologia
di film alquanto leggera, si potevano diffondere le ideologie fasciste, il cinema di questi anni veniva diretto da
Vittorio Mussolini, il figlio del Duce.

La struttura cinematografica del fascismo:


- Istituto Luce (1924, il cinegiornale 1927)
- Centro sperimentale di Cinematografia (1935)
- Cinecittà (37) > Inaugurazione con Scipione l’africano, Gallone
- Direzione generale per la cinematografia presso il MinCulPop (Ministero Cultura Popolare)
- Protezionismo (leggi Alfieri, 6 giugno ’38) > per importare i film stranieri in Italia bisognava pagare una tassa >
impennata produttiva (50 film nel ’39, 83 nel ’40, 119 nel ’42) dal ’38 i film stranieri diminuiscono fortemente

“Il cinematografo è l’arma più forte” riteneva Hitler, ecco perchè nascono numerosi film di propaganda, che
mostrano ad esempio il saluto romano in Scipione l’africano. Famosi sono le commedie ungheresi in questo momento >
“cinema dei telefoni bianchi” > film pieni di idee innovative, con ambientazioni moderne, stili di vita lussuosi, bei
paesaggi. Tutto questo repertorio è un cinema a cui si guarda con disprezzo dopo la guerra, è un cinema che nasconde
un’ideologia. Il cinema diviene luogo “della fronda” dove gli intellettuali potevano esprimere il loro dissenso relativo
a vari argomenti. Sulla rivista Cinema, diretta da Vittorio Mussolini a partire dal ’41 si propagandano le idee su come
rinnovare il cinema, si discute sulla ricerca di un “modello italiano” e viene scelto Ossessione di Luchino Visconti, un
film del 1943 (anno in cui cade il regime fascista) realizzato dunque durante il periodo dell’Italia fascista, proiettato in
anteprima per il figlio del Duce, il quale però non lo apprezzò e disse che quella rappresentata non era l’Italia, a causa
di una realtà eccessivamente cruda: corpi, desiderio, crimine, fatalismo, paesaggio (genere noir > storie di crimine
dove al centro c’era di solito una femme fatale)
Un esordio transnazionale: ci furono numerosi adattamenti di The Postman Always Rings Twice, un romanzo di
James M Cain del 1934 > Le dernier tournant di Pierre Chenal del ’39, Ossessione di Visconti, The Postman always rings
twice di Tay Garnett del ’46 e un altro dallo stesso titolo di Bob Rafelson dell’81.

Cinema antropomorfico: “l’esperienza fatta mi ha insegnato che il peso dell’essere umano, la sua presenza, è la
sola cosa che veramente colmi il fotogramma, che l’ambiente è da lui creato, dalla sua vivente presenza, e che
dalle passioni che lo agitano questo acquista verità e rilievo, mentre anche la sua momentanea assenza del rettangolo
luminoso ricondurrà ogni cosa a un aspetto di non animata natura. Il più umile gesto dell’uomo, il suo passo, le sue
esitazioni e i suoi impulsi da soli danno poesia e vibrazioni alle cose che li circondano e nelle quali si inquadrano.
Ogni diversa soluzione del problema mi sembrerà sempre un attentato alla realtà così come essa si svolge davanti
ai nostri occhi: fatta dagli uomini e da essi modificata continuamente” - Luchino Visconti, Cinema, 25 settembre ‘43

Annullare la distanza schermo/mondo: “il tempo è maturo per buttare via i copioni e per pedinare gli uomini con la
macchina da presa” - Cesare Zavattini, Poesia, solo affare del cinema italiano, “Film d’oggi”, 25 agosto ’45
“niente più attori, niente più storia, niente più messa in scena.. nell’illusione estetica perfetta della realtà, niente
più cinema” - Andrè Bazin, il realismo cinematografico e la scalata della liberazione, 1948

L’inizio del neorealismo viene fatto coincidere con l’uscita di due famosi articoli di Umberto Barbato nel ’43 dal titolo
Neorealismo e Realismo e moralità, con i quali viene sancita l’importanza determinante e innovativa di Ossessione di
Visconti (Letteratura: movimento esistente già da Gli indifferenti di Moravia del ’29, scrittura legata all’esperienza del
reale, lontana dalla perfezione linguistica, anzi con una lingua ricca di idiomi stranieri e linguaggi settoriali). Sul piano
teorico da un lato si ha l’elaborazione teorica comparsa sulle pagine della rivista Cinema e dall’altra la riflessione di
Cesare Zavattini. Segno del dibattito della rivista è Ossessione, alla cui sceneggiatura parteciparono redattori della
rivista. Zavattini va ricordato per la sua riflessione intorno al “pedinamento del reale”: seguire da vicino la realtà
significa prospettare un cinema per nulla sceneggiato ma vincolato in maniera esistenziale al solo movimento
rivelatore e sacro della ripresa. “il banale non esiste” per Zavattini, il cinema deve dunque essere in grado di
incontrare e diffondere le molteplici possibilità spettacolari che la realtà porta naturalmente scritte in se. Ricordiamo
anche il suo sodalizio con Vittorio De Sica > la coppia rappresenta uno dei 4 possibili punti di vista che compongono
lo sguardo neorealista. Ad essi si affiancarono Rossellini, Visconti e De Santis. I due insieme realizzano “Sciuscià” del
’46 e “Ladri di biciclette” e infine “Umberto D” del ’52 > lavori che procedono verso una riduzione dell’intreccio
narrativo, favorendo i tempi morti, valorizzando il gesto minimo della quotidianità, “pedinando” l’individuo nella
sua semplicità, con l’intento di scoprire in queste realtà microcellulari infiniti universi di verità da rendere conoscibili.
Anche Rossellini cerca l’impatto tra macchina da presa e flusso delle cose. L’umanità pervasiva dei suoi film, il suo
insistere sull’uomo come cardine di una storia dove non esistono buoni o cattivi, non sembra essere distante dalla
purezza dei semplici di cuore di Z-DS. Nella sua trilogia più famosa (Roma città aperta, Paisà e Germania anno zero)
l’atteggiamento dell’autore trova un corrispettivo innovativo e un personale stile “anti-spettacolare”. Egli rivela
una grande attenzione alle piccole cose, ai fatti insignificanti. Anche lui svuota lo spettacolo dalla sue componenti
canoniche, preferendo alle scene madri le attese, le stasi, le sospensioni. Nei suoi film la narrazione procede con
l’intreccio di storie particolari e distinte ma comunque confuse con la storia del luogo, la storia collettiva, per arrivare
a definire un affresco storico nato come somma di piccoli fatti autonomi.

Roma città aperta: film di Rossellini del ’45 dove si ha una commistione di generi tra film di guerra (ispirato alla
Resistenza italiana), suspence, commedia e melodramma. Nonostante tutta l’insistenza sul neorealismo, il film appare
molto costruito e per molti aspetti è un film “classico” perchè mostra l’illuminazione espressionista e un
“umanesimo brutale” in quanto vuole mostrare lo stato dell’essere umano durante il periodo fascista > scene molto
violente > e se tutta questa insistenza sul vero e sulla verità fosse soprattutto una strategia ideologica per ridare
dignità all’Italia e alla cultura italiana dopo 20 anni di dittatura?
Dopo questi film si addentra in un marcato psicologismo e un’evidente forma di religiosità > apologo, favola, aneddoto
> il fantastico e il simbolo possono portare oltre la semplice contestazione, ad una conoscenza più profonda.

Visconti invece ritiene che la distanza tra il momento dell’ideazione del soggetto e la fase finale di edizione del film è
ampia: tutto il materiale destinato all’immagine è sottoposto a un preventivo processo di selezione ed entra a far
parte del film solo in quanto necessario. Questa maniacalità della ricerca di una soluzione necessaria porta V a girare
più volte la medesima scena, per avere varianti da utilizzare nel montaggio. Egli ricorre spesso a fonti letterarie come
soggetti per i propri film > allontanamento dall’aderenza al presente: come in “Senso” del ’54 tratto dal racconto di
Boito. Il suo cinema è molto esplicito a livello sessuale, ciò dovuto al suo essere omosessuale. Egli vuole spogliare la
recitazione di tutte le superfluità, per arrivare così al “nocciolo” delle persone.
Giuseppe de Santis anche è un personaggio chiave perchè operò un abbassamento dei canoni neorealistici per una
resa popolare dei suoi film, non disegnando frequenti contaminazioni con il cinema americano e con la cultura
popolare italiana veicolata da un sistema mediale. La cultura contadina, il melodramma, il cinema e la letteratura
divengono centrali, con attenzione alla forme basse di cine e fotoromanzo compone ad es. “Riso amaro” del ’49 con
densi riferimenti popolarmente riconoscibili. Per DS il film può diventare vero momento di coinvolgimento e di
partecipazione massima del pubblico con le vicende dei personaggi. I tratti comuni che legano questi autori al
neorealismo sono la vocazione antifascista e la diffusione di una nuova morale, di un “etica dell’estetica” che affida
all’intellettuale e all’artista precisi compiti e responsabilità nella società. C’è la comune volontà di ampliare
l’orizzonte del visibile cinematografico: sono proposte sullo schermo situazioni e soggetti marginalizzate dal
cinema precedente. I film neorealisti sanciscono la visibilità di realtà quotidiane. C’è una riflessione sulle strategie di
narrazione del reale: si opta ai fini realistici e veritieri una massima trasparenza dell’immagine che tende a farsi
documento. Si mette a punto un nuovo modello di comunicazione diretta tra personaggi-pubblico, producendo
fenomeni di rispecchiamento ma anche usando modelli di rappresentazione vincolati dalla cultura popolare. Tre punti
fondamentali dunque: visibilità, narrazione del reale e rapporto con lo spettatore.

- Riprese in esterni reali


- Illuminazione naturale
- Predominanza di campi medi e lunghi
- Inquadrature più lunghe della media
- Montaggio non intrusivo
- Attori non professionisti e improvvisazione
- Protagonisti appartenenti alle classi povere
- Trame quotidiane, contemporanee, cronachistiche
- Critica sociale esplicita o implicita
- Uso del dialetto nei dialoghi

Pagina 171
Il linguaggio cinematografico

L’inquadratura: un’abitudine consolidata alla visione ci porta a considerare naturale la successione di immagini di un
film o di un qualsiasi audiovisivo. In realtà il linguaggio è complesso. Nel cinema e in fotografia, l'inquadratura è la
porzione di spazio fisico (un ambiente, un paesaggio, etc.) inquadrata dall'obiettivo della macchina da presa o
della fotocamera. L'atto di inquadrare consente di delimitare con precisione lo spazio che sarà ripreso e al contempo di
escludere tutto il resto. Nel caso del cinema, essendo l'inquadratura protratta per un determinato periodo di tempo (la
durata della ripresa), in fase di montaggio assume il significato di "unità di montaggio": è la porzione della ripresa che
rimane integra, a seguito della decisione del montatore di non tagliarla. Le singole inquadrature, una volta montate
nell'ordine voluto, formano le scene e le sequenze del film. L'inquadratura cinematografica non si distingue solo in
base alla distanza, all'altezza o all'angolazione di ripresa. Quando guardiamo un film, possiamo trovarci di fronte a
inquadrature fisse (statiche) e a inquadrature in movimento (dinamiche). Quella fra inquadratura statica e dinamica è
una distinzione fondamentale: al cinema osservare da un punto di vista fisso qualcosa che si muove, comporta uno
sguardo oggettivo sul personaggio o sull'oggetto inquadrato; adottare un punto di vista mobile, invece, provoca sempre
un senso di maggiore immediatezza, un notevole coinvolgimento dello spettatore e, dunque, uno sguardo soggettivo sul
mondo. Può essere descritta in gen anche come la successione di immagini cinematografiche, fotogrammi, senza
discontinuità di ripresa.

Il campo: il campo è tutto ciò che è compreso nell’inquadratura, il termine sta ad indicare l'ampiezza dell'ambiente
inquadrato. Solitamente, si parla di campo quando l'inquadratura è abbastanza ampia da non mettere eccessivamente
in rilievo eventuali soggetti, come persone o animali. Questi faranno semplicemente parte dell'inquadratura. Nel caso
un singolo soggetto fosse ripreso a distanza abbastanza ravvicinata da farlo divenire l'elemento principale
dell'immagine, allora si parlerebbe di piano. Il fuori campo è ciò che è escluso ma che potrebbe farne parte. Il fuori
campo è particolarmente importante per creare l’effetto della suspence nel thriller e nell’horror.
Scala dei campi:
- Campo lunghissimo: È l'inquadratura più ampia possibile; Il paesaggio o la scenografia è talmente ampio che la
presenza di eventuali figure umane sarebbe difficilmente notabile. È ripreso solitamente a grande distanza
- Campo lungo: L'ambiente, pur essendo ripreso in maniera ampia, presenta un centro di interesse. Eventuali figure
umane sono distinguibili, ma rimangono inglobate nel paesaggio.
- Campo totale:L'ambiente è rappresentato nella sua totalità (ad esempio una intera stanza); nel contempo le figure
umane assumono grande rilevanza.
- Campo medio: Le figure umane sono perfettamente distinguibili, ma lo spazio circostante è ancora preponderante,
seppur di poco.

Tipi di piano:
- Figura interna: La persona è inquadrata dai piedi alla testa, e sta esattamente nel fotogramma.
- Piano Americano: L'inquadratura parte dalla metà della coscia. Spesso utilizzato per inquadrare due o più persone
(con un taglio all'altezza delle ginocchia), questo tipo di inquadratura serve a dare all'attore maggiore libertà
espressiva e d'azione. Si ritiene che questo piano sia nato nel cinema western, dove vi era la necessità di mostrare i
personaggi armati con le fondine appese al cinturone, ma non va dimenticato come precursore David Wark Griffith,
che tra il 1908 e il 1916, pur restando fedele alla tecnica del tableau, fece uso a volte di quello che in seguito fu
definito come piano americano.
- Mezza figura: Inquadratura che riprende la figura (una o più persone) dalla vita in su.
- Mezzo primo piano: L'inquadratura tagliata approssimativamente all'altezza del petto è definita Mezzo Primo Piano
(MPP) o Mezzo Busto (MB). Nel film del 1903 The Great Train Robbery di Edwin S. Porter abbiamo il piano
ravvicinato del bandito (George Barnes) che spara agli spettatori. Probabilmente è il primo caso di mezzo busto
della storia del cinema.
- Primo piano: Inquadratura di un volto dall'altezza delle spalle. Il soggetto è isolato dal contesto, e la sua
espressione è il centro dell'attenzione. In fotografia è conosciuto anche come "formato tessera".
- Primissimo piano: Il volto del soggetto riempie l'inquadratura, ed è generalmente tagliato sopra l'attaccatura dei
capelli e a metà del collo o dal mento. L'inquadratura è molto stretta e particolarmente cinematografica,
consentendo di cogliere l'anima del soggetto.
- Dettaglio: Il Particolare è una parte del volto o del corpo, ripresa molto da vicino oppure una sua particolare azione
o sue parti in movimento. Con Dettaglio si indica lo stesso tipo di inquadratura, ma riferita esclusivamente ad un
oggetto o ad una sua azione.

Il primo e rudimentale metodo per far muovere la macchina da presa fu quello di collocarla su un mezzo di
locomozione. Il primo nome da ricordare è un operatore di Lumiere, ovvero Alexandre Promio, che portò con se la
cinepresa su una gondola. Ancora oggi la macchina da presa viene montata sulle auto, camera car, o su altri mezzi,
oggi si usano anche droni. La macchina da presa montata sui binari o su una ruota si sposta in questo modo sul set.
Spesso questo movimento viene combinato con la panoramica per avvicinarsi o allontanarsi dall’oggetto ripreso
mantenendolo centrato nell’inquadratura. Si parla invece di Zoom quando l’effetto di avvicinamento o allontanamento
viene effettuato tramite l’uso di lenti e non tramite un movimento reale della macchina da presa.

Dolly (carrello): è una sorta di carrello, con annessa una gru per riprese in altezza più complesse, sul quale si monta
una macchina da presa o una videocamera. Necessita di binari su cui poter essere trainato da uno o più macchinisti ed
oltre al peso della macchina da presa deve sopportare anche quello di un operatore. Il carrello base è costituito da
binari con segmenti di varie misure (3, 2, 1,5, 1 metri) e da curve che vengono composti dai macchinisti a seconda
delle esigenze dell'inquadratura; su detti binari possono scorrere carrelli di vario tipo, il più semplice è costituito da un
piano d'alluminio con ruote doppie appaiate e prende il nome di Piattina e su questa può essere montata una torretta
idraulica telescopica per regolare l'altezza della macchina da presa, oppure una serie di canne fisse, a segmenti di
varie lunghezze e prende il nome di Bazooka, e ancora può essere montato un dolly. Tutti i vari modelli di carrelli
costruiti nel tempo mantenevano la stessa misura di scartamento dei binari essendo stata brevettata negli anni 1950,
dopo che tali binari sostituirono quelli di legno e ruote di gomma degli anni quaranta, rendendo compatibili fra loro
carrelli costruiti in paesi diversi. Viene utilizzato in film, "live" musicali e trasmissioni televisive. In queste ultime si
adotta un dolly motorizzato che supporti solo la camera e che si possa alzare ed abbassare automaticamente. Un uso
massiccio si fa a partire da ‘’Via col vento’’ del 1939 come nella scena della Battaglia di Atlanta.

Panoramica: è una ripresa realizzata facendo ruotare (o inclinando) una macchina da presa, o una telecamera,
sul proprio asse. Tale movimento è solitamente reso possibile dalla testata di un cavalletto, che consente di ottenere
la fluidità necessaria. Possiamo distinguere vari tipi di movimento: orizzontale (in inglese "panning"), verticale (in
inglese "tilting"), obliquo (sbloccando completamente la testata), a 360 gradi, circolare, o composto (sommando più
movimenti). La panoramica può naturalmente essere combinata con tutti gli altri movimenti di macchina, ed in
particolare con la carrellata. Ad esempio, partendo da un particolare, si può allargare dolcemente l'inquadratura
spostandosi allo stesso tempo verso sinistra e concludendo in un "campo lungo".

IL MONTAGGIO

Il montaggio cinematografico è una delle fasi di realizzazione del film e delle opere audiovisive in genere. Per molti
teorici del cinema il montaggio è considerato lo specifico filmico ovvero la disciplina propria esclusivamente del
cinema e che la contraddistingue da altre forme espressive. Il montaggio è l'elemento fondante dell’istanza
narrante filmica, ed al contempo il montaggio è strumento dell'istanza narrante filmica per costruire la narrazione.
Il montaggio viene eseguito dal montatore cinematografico, si attua tramite procedure e prassi tecniche e dà luogo a
realizzazioni espressive e linguistiche. Montaggio e regia sono intrinsecamente legati, in quanto entrambi
concorrono nella costruzione espressiva del racconto filmico. Ed è con Il découpage che il montaggio inteso come
momento concettuale esce dalla moviola e "anticipa se stesso" durante la scrittura della sceneggiatura e durante le
riprese. Il découpage segmenta gli eventi narrativi ed attribuisce ad ogni segmento determinate scelte tecniche ed
artistiche (o per meglio dire espressive) orientate alla costruzione complessiva del film. Il montaggio è la prima e
principale fase della cosiddetta post produzione, che comprende tutto ciò che si svolge al termine delle riprese.
Esso nella pratica serve a cucire insieme le diverse inquadrature e serve a far orientare lo spettatore nello spazio del
film, quasi come se ci potesse abitare. La maggior parte dei film funzionano con un montaggio il più possibile
invisibile, per non distrarre lo spettatore dalla storia che viene raccontata. Queste regole sono state perfezionate a
Hollywood tra gli anni 10 e 30.

I diversi tipi di montaggio


1) montaggio contiguo : segue un’azione che da un luogo a porta ad un luogo b
2) Montaggio analitico : scompone in più inquadrature di un’azione che si svolge in un’unico luogo
3) Montaggio alternato: mette in relazione due azioni contemporanee che si svolgono in luoghi diversi, è dunque
utilizzato per narrare la stessa vicenda nello stesso tempo da due inquadrature diverse. Consiste nell'alternare
le inquadrature girate separatamente nei due ambienti che convergeranno poi nella stessa azione (fu inventato
da Edwin S. Porter nel film ampiamente dibattuto intitolato "The Life of an America Fireman").
4) Montaggio parallelo: mette in relazione due azioni che si svolgono in luoghi e tempi diversi, suggerendo una
similitudine tra esse. Fu inventato da Griffith per il film Intolerance, è usato quando si vuole accostare due
eventi, non necessariamente contemporanei, per mostrarne somiglianze o differenze;
5) Montaggio "in macchina”: realizzato cioè con la cinepresa e non tagliando fisicamente la pellicola, fermando
la ripresa per poi riprenderla in un secondo momento; oppure effettuare un piano sequenza, raccontando
un'intera scena, cambi d'ambiente compresi, senza mai staccare (senza cioè interrompere la ripresa). Nel
montaggio detto "interno" invece vi è una "negazione" del montaggio classico; un esempio può essere nel caso
di una scena fissa dove il montaggio avviene alternando la profondità di campo. Orson Welles fu maestro in
questo (si veda Quarto potere).
I raccordi di montaggio: le regole di base della continuità
• Raccordo sull’asse: viene modificato il piano di ripresa di un oggetto, ma la macchina da presa resta sullo stesso
asse.
• Raccordo sul movimento: la successione delle inquadrature montate insieme segue il movimento di un personaggio
o di un oggetto all’interno della scena: nella prima inquadratura il personaggio si muove da sinistra verso destra,
nella seconda inquadratura il personaggio entra nell’inquadratura da sinistra
• Raccordo sonoro: la successione fra le inquadrature viene motivata dall’intervento di un suono, cioè è
intradiegetico, cioè interno al mondo narrato, ma proveniente dal fuoricampo, cioè esterno alla prima inquadratura;
avviene cioè quando nella prima inquadratura si sente un suono dal fuoricampo e in quella successiva si inquadra la
fonte di quel suono
• Raccordo di sguardo: le inquadrature si succedono collegate dallo sguardo nel fuoricampo di uno dei personaggi;
nella prima inquadratura il personaggio guarda verso qualcosa fuoricampo, in quella successiva si inquadra la cosa
guardata.

La regola del 180 gradi: Questa forse è una delle più famose regole del mondo del cinema.Immagina una linea retta
che collegando i due principali poli d'attenzione di una scena, divide lo spazio del set in due semispazi. La regola
impone che le inquadrature di una medesima scena vengano ottenute mantenendo tutte le posizioni della macchina da
presa all'interno di un solo semispazio, dei due creati dalla linea immaginaria.Perché ci sia continuità nel montaggio, le
inquadrature non devono mai superare questa 4 linea invisibile. Nella figura, si vedono le camere numerate 1, 2 e 3
posizionate nel rispetto della regola dei 180 gradi. La camera 4 è oltre il confine teorico e pertanto infrange la regola.
Naturalmente ci sono tantissimi film in cui questa regola è stata infranta. Si può decidere di non rispettarla, ma è
sicuramente utile conoscerla.
IL CINEMA NOIR

il cinema noir rappresenta una messinscena molto carica a cui corrisponde una soggettività che viene raccontata,
molto diversa da quella classica, una soggettività tormentata. il noir non è un concetto semplice da definire: è un
termine che come dice la parola stessa, noir, che significa nero in francese, è stato un termine coniato dai critici
francesi nell'immediato dopoguerra. Così come in Italia dopo la censura fascista e negli anni della guerra giungono
tanti film americani, così anche in Francia, che dopo 5 anni di invasione nazista avevano 5 anni di film americani da
recuperare, e quindi ci sono vari autori che iniziano a parlare di le film noir americane, il film noir americano, e la
cosa interessante è che questa stessa definizione, noir, era stata in precedenza utilizzata per descrivere dei film
francesi stessi, ovvero quelli che abbiamo già nominati in relazione al neorealismo italiano, alcuni film del realismo
poetico francese, come Alba tragica, La strada senza nome e così via. Sono dei film questi francesi degli anni '30 che
contengono già alcuni aspetti che saranno poi presenti nel film noir americano a partire dagli anni '40, come una
tensione legata a contesti urbani popolari, di disagio e carichi di atmosfere fatali, ombre, nebbie (Il porto delle
nebbie è un ottimo esempio di film che contenga questo tipo di atmosfere). Tra l'altro alcuni di questi film francesi,
appunto come Alba Tragica del 1939 annunciano anche un altro aspetto del noir americano, ovvero la struttura a
flashback, della quale il noir è grande utilizzatore. Questa struttura rappresenta un tentativo di una soggettività
molto tormentata, quasi sempre maschile ma non solo, di ripercorrere gli eventi per mettere ordine nel proprio
vissuto, o magari confessare, perché spesso i soggetti del noir non sono innocenti, hanno quasi sempre una colpa,
quindi questa struttura riflette sulla soggettività, sulla colpa e sulla responsabilità, Alba tragica ad esempio anticipa
questa struttura. Abbiamo quindi dei film francesi che i francesi stessi chiamavano noir, poi verranno però a far parte
del realismo poetico e quindi tra questi lo stilema del film nero non è così distante, infatti vediamo anche nel
neorealismo italiano ci sono molti elementi di genere. Verrano in seguito prodotti dei film italiani che potremmo
ascrivere al noir stesso.
Bisogna ricordare che gli americani stessi non li chiamavano noir, è un termine coniato dai francesi, gli americani li
chiamavano Blood Melodramas oppure Blood and Thunder dramas, appunto i drammi del sangue e del tuono, per
dare questa idea di sensazionalismo, e di una messinscena molto carica. L'etichetta di noir si utilizzerà in America
soltanto negli anni ’70 quando una nuova generazione di studiosi leggerà ciò che i critici francesi avevano già scritto
vent’anni prima e affermeranno: “Noi non lo sapevamo, ma stavamo facendo Noir”. Uno dei primi autori americani che
scrivono del Noir sarà Paul Schrader che nel 1972 scrive un saggio intitolato Notes on film Noir, e di lì a poco andrà a
scrivere la sceneggiatura di Taxi Driver di Martin Scorsese. È importante insistere sull’idea dell’origine francese
perché il noir è un filone caratterizzato da una dimensione transnazionale: i francesi guardano al cinema americano, il
cinema dei loro liberatori, e lo esaltano, gli americani invece non vedono questo valore, per loro sono abbastanza
quotidiani, di livello medio. I francesi si innamorano e lo idolatrano, ne fanno oggetto di culto. D’altra parte i francesi
avevano avuto un certo ruolo anche per definire il neorealismo italiano, Andre Basin fu infatti uno dei fautori
dell’etichetta del neorealismo, la cultura francese in quegli anni ha sempre una grande capacità di plasmare le
categorie interpretative in ambito culturale.

L’influenza dell’Espressionismo: Questa dimensione transnazionale si lega ovviamente anche al cinema


espressionista tedesco, la quale espressione dell’angoscia attraverso le forme e le ombre era presente anche nella
seconda parte di Roma Città Aperta. Nel noir americano se ne è fatto un discorso in passato abbastanza semplificato:
tutti i registi della filmografia espressionista tedesca con l’ascesa del nazismo scappano in America e quindi nel
cinema americano ci sono per effetto ombre espressioniste. Ma in realtà non è così, perché se andiamo a vedere i
registi e direttori della fotografia di entrambi i movimenti vedremo che non sono gli stessi, ma a livello di espressione
dell’immaginario, l’espressionismo tedesco ha lasciato una forte traccia, anche perché è stato il primo movimento
cinematografico che è riuscito a trasporre l’angoscia in maniera estremamente forte in termini visivi, a rendere
la specializzazione dell’ansia, ovvero rendere reale l’ansia in termini di spazio e forme.

Va ricordato anche un film di un regista americano che cambia le carte in tavola, ovvero Citizen Kane, Quarto
Potere, di Orson Welles, che all’epoca era giovanissimo, e Quarto potere era il suo primo film. Lui era diventato
famoso per aver fatto un adattamento alla radio di La guerra dei mondi di H. G. Welles, e leggenda vuole che questa
trasposizione fu così veritiera che tantissimi ascoltatori credettero all’imminente arrivo dei marziani sulla terra.
Siccome non fu annunciato come radiodramma il pubblico si terrorizzò e in seguito questo gigantesco scherzo lo rese
famoso, e gli rese possibile stipulare un contratto con la RKO per produrre appunto Citizen Kane, la storia di un
magnate della stampa americano e della sua ascesa e caduta, un ritratto del capitalismo americano a partire dalla
morte di questo personaggio, e i tentativi di un giornalista di riuscire a capire il senso dietro alle ultime parole di
quest’uomo, che sono “Rosebud” o in italiano Rosabella , e per tutto il film il giornalista va in giro a indagare sul
significato di queste parole, e quindi le varie interviste nel film ricostruiscono la vita di Kane. Il film è strutturato
in modo molto complesso, una struttura a flashback multipli, e c’è anche una complessità per quanto riguarda i piani
e le inquadrature: Ci sono inquadrature molto lunghe, piani sequenza e una fotografia molto contrastata. Queste
quattro caratteristiche dal punto di vista stilistico sono quelle che caratterizzano il cinema Noir. Citizen Kane, in
senso stretto, non è un film noir, non è presente una serie di caratteristiche tipiche del film noir come il crimine e le
donne fatali, però c’è la struttura di detection e investigazione, e uno stile formale totalmente innovativo. Le sue
innovazioni verranno poi incanalate e smussate nel resto del cinema e sono viste come la base per l’inizio del cinema
noir.
La nascita del noir classico si fa risalire intorno al ’40-’41 con appunto Citizen Kane, alcuni dicono che il primo film
noir sia Il mistero del Falco, un film con Humphrey Bogart del 1941 e finisca con L’infernale Quinlan, un altro film
di Orson Welles del 1958, ma ovviamente in realtà si troveranno film considerabili noir sia prima che dopo questo
periodo. Il Noir trova un suo grande punto di partenza nella letteratura. Esiste tutto un filone della letteratura gialla
degli anni ’30 degli autori e in particolare di Raymond Chandler che è forse l’autore le cui opere sono state più
adattate al grande schermo, libri come Addio mia amata o Il grande sonno o Il lungo addio, che sono tutti racconti
incentrati intorno alla figura del detective Philip Marlowe, e rappresentano un distacco nettissimo dal giallo classico.
Questi detective sono a stento capaci di capire cosa stia succedendo, sono completamente immersi in un mondo
angoscioso e caotico nel quale non riescono a orientarsi, quindi mentre Sherlock Holmes è una figura
completamente distaccata, quasi mistica, che arriva da fuori e riesce ad analizzare alla perfezione e nel minimo
dettaglio gli indizi probanti, invece questi detective sono degli uomini che camminano per il mondo e sono coinvolti
nel mondo, una delle più famose frasi di Chandler è “Down these mean streets a man must go”, un uomo deve
camminare per queste strade malvagie.

Letteratura e Fotografia come ispirazione: Non parliamo più di forme ideali di intelletto che si calano dall’alto
sulla scena del crimine e risolvono il mistero ma uomini come tutti gli altri che devono affrontare un mondo di caos,
sofferenza e inganni. Tutti i detective dei gialli classici sono dei personaggi con delle caratteristiche fisiche molto
peculiari, ad esempio Poirot con la testa d’uovo o Mrs. Marple che è una anziana signora, sono personaggi bizzarri che
sono capaci di discernere gli aspetti salienti della scena del crimine grazie alle loro personalità stravaganti, e i loro
aspetti strani possono simboleggiare il fatto che loro in realtà siano tutti cervello, dei geni iper razionali che vengono
calati dall’alto per risolvere il mistero. I personaggi dei racconti pulp invece (Pulp è una parola chiave), sono dei
personaggi come gli altri, uomini disorientati dal male che incontrano sul loro percorso. Si racconta sempre di un
episodio avvenuto sul set del Grande Sonno, film con Humphrey Bogart, in cui nel ‘46 regista e sceneggiatore stavano
girando una scena del film basato sul romanzo di Chandler e si resero conto che non avevano capito chi fosse
l’assassino del maggiordomo in una delle scene. Decisero allora di chiamare lo scrittore stesso per farsi spiegare la
scena, ma lui gli rispose ubriaco dicendogli che non ne aveva assolutamente idea. Aveva quindi sviluppato un’intera
trama narrativa senza preoccuparsi minimamente di stabilire un intreccio razionale e coerente, poiché non era la
razionalità il focus di queste strutture narrative, ma il trasmettere l’impressione di un mondo completamente
caotico, fuori controllo e angosciante, un po’ Kafkiano se vogliamo. Tra gli scrittori più famosi ricordiamo James Kane
che aveva scritto il romanzo da base per Ossessione di Visconti, altro esempio di intreccio transnazionale, e Cornell
Woolrich è un altro grandissimo autore noir, che non ha un detective di riferimento ma molte delle sue storie sono
adattate sul grande schermo, come La finestra sul cortile di Hitchcock, che non è in senso stretto un noir ma si nutre
dello stesso immaginario. Quindi la letteratura è una ispirazione importante, ma contemporaneamente la fotografia,
proprio nel senso della pratica fotografica di alcuni fotografi è un punto di riferimento ugualmente cruciale, in
particolare questo fotografo chiamato Weegee, un autore che aveva una radio sintonizzata sulle frequenze della
polizia e cercava di arrivare per primo sulle scene del crimine per fare delle foto a volte anche molto crude e cruente.
E nel ’45 pubblica un libro dal titolo Naked city raccontando tutte le diverse storie di crimine di vario genere della
New York degli anni ’30 e ’40 e tra l’altro ispira un film noir, Naked city del 1948. É importante stabilire il punto di
riferimento della fotografia perché il riferimento iconografico del cinema sonoro tendeva ad essere ancora il
teatro, la letteratura, una messa in scena ordinata. E invece, con il noir, il modello iconografico di riferimento è la
fotografia, una fotografia ruvida, aspra e melodrammatica. Quindi una messa in scena che non conti più troppo sugli
elementi armonici, ordinati del cinema classico ma invece sulla forza e potenza visiva/illuministica della messa in
scena.

Gli elementi salienti del noir americano sono:


In primo elemento abbiamo le vicende criminose (che non bastano, altrimenti avremmo un giallo, un thriller, un
poliziesco). Il noir ha anche altri elementi, è abbastanza legato ad un’atmosfera americana degli anni ’40-’50.
Un’atmosfera in cui si esprime soprattutto l’idea di una mascolinità tormentata. Molte di queste narrazioni sono
storie di uomini che non sanno se hanno fatto un delitto o meno perché erano completamente in preda dell’alcol.
Quindi c’è anche una riflessione sulla violenza insita nel maschile. I protagonisti devono affrontare il dubbio radicale
“sono un assassino oppure no?” Così come poi a partire dalla fine della guerra il noir racconta il ritorno a casa di questi
reduci di guerra completamente smarriti ,anche perché hanno vissuto delle esperienze molto traumatiche. Nel
frattempo negli anni ’40 le donne, siccome non si poteva fermare la produzione industriale americana, venivano messe
a lavorare in fabbrica al posto degli uomini, al ritorno dei quali sono state costrette poi a tornare a casa, loro
malgrado. Si creano per questo delle tensioni di genere tra gli uomini che sono andati in guerra e tornano distrutti e
le donne che avevano avuto un assaggio della loro indipendenza. È anche per questo che in qualche modo nel noir la
donna spesso è un elemento minaccioso, perché questa mascolinità tormentata ha sempre un rapporto di difficile
con una femminilità che tende ad essere ammaliante e tende a prendere il potere. Le donne fatali, le femmes fatal o
anche dark ladies, sono delle seduttrici che tendono a portare l’uomo alla rovina. Nonostante a una prima lettura
non sembri un cinema femminista, nel senso che le donne sono tutte malvagie, in realtà c’è stato anche chi ha detto
che le donne del noir, anche se sono malvagie, esprimono la possibilità di essere potenti, di non essere un semplice
ornamento. Il Woman’s film non è la stessa cosa del noir ma ci sono dei film che però appartengono ad entrambi i
filoni. Qui abbiamo John Crawford in Sudden Fear, altro film che ha influenzato Lynch. John Crawford è forse la diva
che più di tutte ha fatto dei Woman’s film che sono anche dei noir in cui ci sono vicende di donne e dei loro tentativi
di emancipazione dalla povertà che spesso poi diventano delle storie di crimine. Il più famoso è “Il romanzo di
Mildred”, tratto da "Mildred Pierce" di James Cain. Quindi esiste anche la problematica del femminile, anche se
tendenzialmente il woman’s film racconta più il percorso della donna rispetto alla sua interiorità, mentre nel noir non
sempre è esplicita
la riflessione sulla propria psiche. Più che altro è l’uomo che agisce, fa cose, e si possono interpretare le sue
azioni come un tentativo di venire a patti con un trauma precedente.
Queste problematiche di gender sono cruciali anche perché sono gli anni in cui si diffondono negli Stati Uniti le teorie
psicoanalitiche di Freud. Ciò è stato definito "pop psychoanalysis", ovvero la popolarizzazione dei discorsi
psicoanalitici, di cui si notano evidenti riflessi in alcuni di questi film. Per esempio anche un film di Hitchcock come
"Io
ti salverò", in cui Ingrid Berman è una psicoanalista che cerca di curare Gregory Peck che è ossessionato da questo
sogno infantile che non riesce ad interpretare. Tra l’altro la sequenza del sogno è stata concepita, realizzata da
Hitchcock sulla base di Salvator Dalí, quindi il surrealismo rientra in questo discorso. Questa è una cosa fondamentale
perché il noir e in generale questo genere di produzione (il crime) è spesso un territorio della cultura in cui si
incontrano degli input provenienti dalla letteratura di terzo ordine, un immaginario pulp, quindi elementi popolari, di
cultura bassa (che non leggerebbe un intellettuale), però in realtà all’interno di questo materiale c’è spazio per delle
riflessioni moderniste, quindi di riflessione intellettuale, che hanno molto a che vedere con le problematiche della
cultura alta e in particolare l’idea modernista della crisi del soggetto. Da una parte questi sono film pop e dall’altra
sono anche dei racconti della profonda crisi della soggettività occidentale della metà del novecento. E proprio per
dare conto di questa crisi della soggettività, la visione del mondo non è calma, pacata, armonica come quella del
cinema classico, di “Accadde una notte”, la commedia classica, il genere dell’integrazione, del soggetto che trova il
suo spazio all’interno della struttura, una collocazione positiva all’interno del mondo, ma il noir è esattamente il
contrario: racconta quasi l’impossibilità del soggetto di trovare un posto nel mondo, quindi ad un livello
macrostrutturale, la struttura del film è labirintica, spesso ci sono più flashback in cui ovviamente ci si orienta,
perché non siamo ancora a livello dei film sperimentali di in cui non si capisce più quello che succede. Anche
all’interno dell’inquadratura stessa si lavora per fare in modo che il soggetto sia quasi sempre in una situazione di non
controllo dello spazio: gli interni sono sempre carichi di oggetti e quindi di griglie, e gli esterni, spesso reali, sono
invece spazi che non contengono, quindi spazi in cui il soggetto è minuscolo rispetto a palazzi giganteschi >
“spazializzazione dell’ansia”: interni che ingabbiano ed esterni che smarriscono, e quindi una dimensione di ansia
costante nel rapporto tra il soggetto e il mondo.

Le inquadrature, pur se centrate sulla figura umana, perché sono importanti gli attori, i corpi attoriali, questi corpi
sono inseriti all’interno di un’inquadratura in profondità di campo che li ingabbia. Ci sono angolazioni inusuali,
storte, che in un film classico non si sarebbero mai viste. Il noir invece è pieno di inquadrature oblique, per dare
l’idea dell’angoscia. Le riprese esterne reali sono anche un aspetto molto importante perchè questo cinema per
molto tempo è stato interpretato soltanto in chiave onirica, come l’intreccio tra espressionismo e surrealismo del
cinema americano degli anni ’40. Ma in realtà ha anche molto a che vedere con certe poetiche del neorealismo,
quindi le riprese esterne reali, gli esterni della città. Si sono scritti interi libri sul noir, e tramite il noir è stata
raccontata in qualche modo la geografia, l’urbanistica, l’architettura dell’ America degli anni ’40 e ’50. Un libro
straordinario di Edwuard Dimendberg che si chiama “Film noir and the Spaces of Modernity”, film noir e gli spazi
della modernità,
è una specie di interpretazione geografica del ciclo noir dagli anni ’40 agli anni ’60. L’idea è che lo stile non sia
soltanto più uno stile invisibile come quello del cinema classico, ma che esprima concetti e sensazioni in termini visivi
e enigmistici. Quindi i chiaroscuro sono fondamentali. Per dare la sensazione di ansia abbiamo inoltre l’idea che il
soggetto in qualche modo non sia qualcosa di disincarnato, di astratto, ma sia qualcosa di profondamente calato nel
corpo. Nulla spiega meglio questa cosa di una sequenza di un film: "L’ombra del passato” tratto da Raymond
Chandler, il protagonista è appunto il detective Philip Marlowe, interpretato da Dick Powell, alle prese con dei cattivi
(spesso nel noir i cattivi sono dei ricchi, ma lui riuscirà a liberarsi). Questo film esprime l’idea della soggettività
corporizzata, quindi l’idea che la nostra soggettività non sia qualcosa di astratto ma di calato nel corpo. Per marcare
questo aspetto della soggettività calata nel corpo, i film a volte mettono in scena delle inquadrature soggettive,
spesso di persone ubriache o addirittura delle inquadrature in cui il vissuto soggettivo di Marlowe, che è stato
picchiato e drogato, si estende anche alle inquadrature oggettive, con questa sorta di ragnatela che si stende davanti
all’obiettivo, e che serve ad esprimere l’alterazione della sua percezione. Inoltre è importante il monologo che lui fa
con sé stesso, quindi il tentativo di controllo tramite la parola, di racconto, la possibilità di auto raccontarsi per
mettere ordine nel mondo. Nel noir, vedere qualcosa non è di per sé garanzia della sua conoscenza: c’è un rapporto
molto complesso tra il vedere ed il conoscere, proprio perché il soggetto non è mai al controllo dell’esperienza del
mondo che fa, ma questa esperienza è sempre calata all’interno del corpo. Nella scena iniziale del film Marlowe è
seduto tranquillamente nel suo studio e guarda fuori dalla finestra e siccome c’è il lampeggiare di un neon, quando
arriva questo cliente alle spalle, lui lo vede per prima cosa riflesso nello specchio prendendosi uno spavento. Anche lì
crede di avere un’allucinazione, perché questo è un cinema che in qualche modo lavora continuamente sul confine
labile tra interno ed esterno, tra percezione esterna e vissuto interiore.

L’elemento onirico è fondamentale, è un cinema che pone delle domande radicali, perché rifiuta l’idea che il
metodo cinematografico, il dispositivo, sia per forza un dispositivo in una visione ordinata (che se vogliamo è figlia
della prospettiva ottocentesca, che è uno dei grandi modi che la cultura occidentale ha avuto di costruire uno spazio
ordinato) e invece propone spesso un’idea che la visione e quindi il cinema stesso siano nella modernità qualcosa che
propone continuamente la difficoltà nel distinguere tra interno ed esterno. Marlowe viene continuamente picchiato
quindi dice: " ecco la pozza nera di nuovo”, perché è come se cadesse continuamente in questa pozza nera. Un altro
film è quello di Preminger del ’44 in cui troveremo alcuni di questi temi ed altri, che aiuta ad individuare meglio la
dimensione del rapporto maschile-femminile. La protagonista non è una donna malvagia ma sicuramente “fatale”, il
protagonista maschile prova per lei un’attrazione vertiginosa. La traduzione in italiano del titolo del film è appunto
“Vertigine”.
Dark ladies > Il noir compie anche un’incessante indagine sulla donna e la sua possibile malvagità e
consapevolezza. Spesso ci sono come protagoniste delle donne fatali, chiamate dark ladies, normalmente sono dei
personaggi malefici, che conducono i protagonisti maschili in rovina. Altre volte invece, i personaggi maschili devono
indagare sul personaggio femminile per capire se quest’ultimo è colpevole oppure no. Il noir quindi spesso ci racconta
un mondo in cui gli uomini sono ossessionati dalla figura femminile e allo stesso tempo terrorizzati da essa.
L’immagine femminile è così potente per l’uomo che per riuscire a metterla sotto il proprio controllo, tenerla a bada
per non farsi completamente soggiogare dal potere della loro immagine, gli uomini devono compiere delle indagini su
di loro. Il noir si presta molto bene a spiegare alcune categorie psicoanalitiche e freudiane proprio perché è sempre
strutturato su questa idea che l’uomo ha a che fare con delle donne il cui potere è minaccioso. La psicoanalisi
diventa un discorso molto diffuso, tanto che gli anni Quaranta in America sono detti anche anni della Pop-
psychoanalysis, ovvero della diffusione, anche a livello divulgativo, delle teorie di Sigmund Freud (morto a Londra nel
1938). Concetti come quello del complesso edipico o della paura di castrazione, e i discorsi relativi al funzionamento
dell’inconscio e del mondo onirico compaiono spesso nelle trame dei film dell’epoca, in modo sia implicito che
esplicito. Ne è un esempio “Io ti salverò” di Hitchcock (1945), con Ingrid Bergman e Gregory Peck. La sequenza
onirica fu elaborata da Salvator Dalì, rendendo ancora più chiari i legami con il movimento surrealista degli anni Venti.

Molti tra i noir oggi più celebri non furono prodotti dalle case di produzione principali, o comunque non erano
considerati film di serie A.Nonostante si possa dire che questi sono i film dell’epoca più visti e amati ancora oggi, in
origine si trattava di prodotti di serie B e non prestigiosi. L’esempio migliore è forse Detour (E.G. Ulmer, 1945) che è
stato realizzato in 6 giorni, senza una location realistica eppure riscosse molto successo. L’idea che la mancanza di
denaro aguzzi l’ingegno creativo e faccia sì che si trovino delle soluzioni espressive innovative è una delle traiettorie
essenziali della storia del cinema. Infatti il noir di serie B sarà un modello per i cineasti della Nouvelle Vague francese
degli anni Sessanta: Jean-Luc Godard dedicherà il suo A’ bout de souffle alla Monogram Pictures, uno di questi studi
minori della cosiddetta Poverty Row di Hollywood. Da una parte, questi film appartengono alla cultura popolare, all’
immaginazione Pulp, basata sull’aspetto scandaloso del sesso e della violenza. Non a caso si chiamavano Blood
Melodramas. D’altra parte, queste narrazioni a tinte forti veicolano anche delle riflessioni sulla condizione umana
(specialmente, ma non solo, da un punto di vista maschile) nel contesto della modernità metropolitana. L’immagine
del mondo che esce fuori da questi film è quello di un universo caotico e spesso disperato, in cui i soggetti sono
intrappolati e/o smarriti e privi di punti di riferimento. In questo modo, questi film partecipano delle riflessioni della
cultura alta sulla crisi del soggetto e sulla modernità come ansia pervasiva. Spesso si dice che il noir è una forma di
modernismo vernacolare, una riflessione su temi complessi tramite però un linguaggio vernacolare, dialettale. È
interessante proprio che il cinema noir si trova a metà strada tra una cultura alta e una cultura popolare.

Altro elemento importante è la soggettiva come strumento della suspense e della storia d’amore (anche amore per il
volto femminile). Nel 1947 Robert Montgomery gira La donna nel lago (Lady in the Lake) interamente girato in
soggettiva, film molto difficili da seguire proprio perché viene mantenuto sempre lo stesso punto di vista, in questo
caso quello di un detective privato. Meno radicale ma molto più riuscito La Fuga (Dark Passage, D. Daves), film dello
stesso anno con Humphrey Bogart e Lauren Bacall che pure sfrutta moltissimo la soggettiva in tutta la prima parte. Il
noir è caratterizzato da narrazioni complesse e trame tortuose, da long-takes e piani sequenza, ossia l’inquadratura
lunga, una totale immersione nel mondo narrato.

In sintesi:

- Vicende criminose
- Mascolinità tormentata (alcolizzati, reduci)
- Donne fatali
- Strutture complesse
- Stile marcato: ombre espressionistiche, nebbie atmosferiche
- Riprese in esterni reali

- Narrazione della complessa struttura a flashback multipli


- Profondità di campo
- Long - takes (inquadrature lunghe) e piani sequenza
- Angolazioni inusuali della macchina da presa
- Illuminazione contrastata

VERTIGINE – OTTO PREMINGER: Innanzitutto la cosa più importante per analizzare il film è capire la struttura ambigua
del racconto e della voce narrante. Questo è un film che inizia con la voce narrante di Waldo Lydecker che a un
certo punto però scompare. Prima ancora che compaiano le immagini vere e proprie della storia, nel passaggio dai
titoli di testa (che sono sullo sfondo del ritratto di Laura Hunt, ritratto che domina tutta la narrazione) c'è la voce di
Waldo che inizia a raccontare. È come se la narrazione fosse fondata dalle parole di Waldo, un personaggio che muore
alla fine del film e le sue ultime parole sono " goodbye Laura, goodbye my love". "Goodbye Laura" è qualcosa che
sicuramente dice nel film, "goodbye my love" forse è qualcosa che dice la voce narrante, una voce che sembra quasi
venga dall'oltretomba -> infatti possiamo dire che se qualcuno racconta una storia dall'inizio alla fine ma alla fine della
storia è morto, è evidente che il racconto risulta quasi essere proveniente dall’oltretomba > Tecnica ripresa nel film
"Tramonto" dove il cadavere caduto in piscina racconta la storia. Questo aspetto della struttura narrativa complessa
e del flashback, aspetti fondamentali del noir, a volte si spingono ad un "livello barocco" fino all'idea che a
raccontare possa essere qualcuno che è morto.

Il noir è un genere in cui vi è un procedimento importante: l'auto-racconto e il tentativo di raccontare se stessi e di


mettere ordine - perfino in extremis e perfino dopo la morte in un mondo caotico, in un mondo in cui la conoscenza e
il desiderio non sono mai dei processi lineari e semplici. Una prima parte del film possiamo pensare facilmente sia
raccontata dal personaggio di Waldo. C'è una specie di flashback (racconto dentro il racconto) ovvero il racconto di
Waldo che, nella prima parte, si siede al ristorante col detective e gli racconta una serie di cose della vita di Laura.
Poi il resto del film non è un racconto focalizzato su Waldo ma un racconto focalizzato sul detective Mark
McPherson: nel momento in cui Mark passa il suo tempo nell'appartamento della donna morta (operazione morbosa di
desiderio necrofilo poiché non sa che è viva) la narrazione passa su Mark. Nel momento in cui lui si siede sulla
poltrona e sta bevendo (probabilmente è stordito dall'alcol) c'è una carrellata in avanti e una macchina da presa
mobile che si avvicina a Mark fino a inquadrarlo in primo piano, è a quel punto che il racconto passa su Mark. E' un
momento fondamentale perché la macchina da presa torna indietro e torna a Laura, la storia prende una svolta
inaspettata, si scopre che la donna non è morta. Anche la seconda parte si focalizza su Mark però il finale non è dal
punto di vista di Mark perché egli è ignaro degli eventi. Subentra una istanza narrante oggettiva che racconta
l'ultima scena in cui Laura rimane sola, Waldo rientra in casa e cerca di portare a termine il suo delitto.

Non c’è razionalità in senso stretto, è un film strutturato in modo completamente paradossale, perché è fondato a
partite dalla voce narrante di un personaggio morto, voce narrante che poi scompare e cede lo spazio alla narrazione
del detective che non è una narrazione oggettiva di un detective che fa un' operazione rigorosa tentando di trovare
delle prove, più che altro lui gioca con i sentimenti e reazioni di questi personaggi e rimane sempre più invischiato
in questo mondo perché non è un personaggio esterno e distaccato ma è coinvolto nella storia. Noi abbiamo già un
sentore che Mark non sia un personaggio razionale da quel gioco che lui fa in maniera ossessiva (aggeggio con cui
muove le palline). Nessun dettaglio di questo genere è buttato lì a caso ma serve a delinearci il personaggio come un
personaggio ossessivo e un po' tendente a un problema di controllo e infatti noi rimaniamo sorpresi quando
scopriamo che un detective, che ci era sembrato piuttosto rigoroso, vuole comprare il ritratto di Laura, che è una
donna morta su cui sta indagando. È chiaro che abbia questa passione necrofila. Non è possibile trovare una struttura
nazionale in questo film. Questo film è tratto da un romanzo di Vera Caspary e il suo racconto è costruito su una
serie di racconti individuali: c'è il racconto di Waldo, c'è il racconto di Mark, c'è il racconto nella deposizione di
Shelby Carpenter e poi il racconto di Laura stessa. Si tratta quindi di un romanzo strutturato a più voci, in cui ogni
personaggio racconta un pezzo, sono racconti che non si contraddicono ma si sommano per creare la storia complessiva
e dare al lettore tutte le informazioni necessarie. Il regista Preminger (è il suo primo film) invece insiste su questa
struttura ambigua, in cui non si capisce bene chi sia il padrone della narrazione perché ciò che gli interessa è dare
ambiguità.

Il registro è referenziale: noi possiamo pensare che questa sia la storia come sia realmente avvenuta ma
contemporaneamente c'è una forte dimensione onirica. C'è chi dice che la carrellata in avanti su Mark e la carrellata
indietro potrebbero essere anche una marca stilistica che ci dice che, quello che noi vediamo dopo che Mark si è
addormentato, sia un sogno ma si potrebbe pensare anche che la seconda parte, quindi il ritorno di Laura, non sia un
parto della sua mente. Non è importante se sia in un modo o nell'altro, l'importante è questa sensazione di confusione
e ambivalenza tra un registro referenziale, realistico e una dimensione onirica che riporta anche al discorso del
surrealismo. Il film è tutto strutturato sul potere delle immagini e in particolare il ritratto di Laura. I personaggi
vogliono dare ognuno la propria versione e lottano per definire il personaggio di Laura. Questo rimanda all'idea
della forza del ritratto molto presente nel cinema degli anni 40, nello stesso anno un film "La donna nel ritratto"
parla di un personaggio maschile che vede il ritratto di una donna nella vetrina, se ne innamora e immediatamente
vede la donna apparire e questo incontro è per lui l'inizio di un'avventura angosciante perché finisce di macchiarsi di
omicidio per lei, c'è il tema della forza distruttiva che si può avere per questo simulacro e l'idea della forza
distruttiva e del potere di soggiogamento dell'immagine e del volto femminile.
Per quanto riguarda Vertigine, di ritratto della bellissima attrice ne era stato realizzato uno che fu rifiutato dal
regista. Questo che vediamo nel film è una foto - dipinto, ovvero una fotografia di partenza trasformata in un quadro,
quindi la potenza dell'immagine di Laura non ha che vedere soltanto con la pittura ma anche con il cinema stesso.
Questa distinzione tra il registro realistico e il registro onirico, che il film promuove, è tutto manifestazione della
potenza dell'immagine e delle immagini cinematografiche. Il film da una parte è il racconto ossessivo di Waldo quindi è
come se scaturisse dalla sua mente malata, in quanto assassino, dall'altra sposa lo sguardo ossessivo di Mark, quindi
non si capisce se queste immagini sono il frutto dell'amore ossessivo di Waldo o dell'amore necrofilo di Mark. È come se
Preminger stesse dicendo che siamo tutti noi soggiogati da questo sogno ossessivo condiviso, come se il cinema
fosse una specie di sogno ossessivo condiviso, una forma di allucinazione onirica inter-soggettiva, siamo tutti
soggiogati dall'immagine di Laura. Il film è una riflessione sul potere dell'immagine e sulla confusione tra registra
realistico e registro che potremmo definire metafisico. È metafisico grazie a movimenti di macchina molto fluidi. La
sequenza iniziale è con una macchina da presa molto mobile.
Fino a questo momento non c'è stato nessuno stacco, c'è una macchina da presa fluida che naviga all'interno
dell'appartamento. La narrazione è fondata da questa voce di Waldo, lui dice proprio "I‘m Waldo Lydecker" in modo da
stabilire la propria soggettività e sta in qualche modo sostenendo che lui è il proprietario della narrazione che, invece,
gli sfuggirà di mano (esattamente come Laura). Lui dice "stavo scrivendo la storia di Laura quando venne a trovarmi
un altro di questi detective e io lo spiavo dalla porta semiaperta"-> viene abbastanza naturale pensare che ciò che
stiamo vedendo è dal suo punto di vista (di Waldo) ma ovviamente questo è impossibile perché lui è nella vasca da
bagno ed è collocato più a sinistra rispetto alla posizione, anche iniziale, della macchina da presa. C'è una tensione tra
oggettivo e soggettivo, tra un personaggio la cui voce vuole essere la proprietaria della narrazione e la macchina da
presa che si muove in modo insinuante all'interno dell'appartamento di questo stesso personaggio -> la macchina da
presa sta spiando nell'appartamento, come Waldo stesso dice di star facendo, ma poi ci rendiamo conto di una
sfasatura -> così come Waldo non può essere il proprietario della narrazione complessivamente, Waldo non può
nemmeno essere il proprietario di questo sguardo -> potremmo dire che la macchina da presa sta spiando gli oggetti
nell'appartamento di Waldo.

I due personaggi maschili litigano sul possesso -> l'intera narrazione sembra essere costruita sul problema di
chi, tra Waldo e Mark, possiede la storia e possiede Laura. Waldo vuole possedere tramite la voce e il discorso non
ha altri mezzi, in una messa in scena di questo tipo, appare abbastanza chiaro che Waldo sia un personaggio
omosessuale, il suo interesse per Laura non è carnale. Lui idealizza Laura, ne fa una specie di icona irraggiungibile
anche perché, in fondo, lui non vuole davvero raggiungerla e non vuole possederla eroticamente. Waldo è soprattutto
una presenza vocale e sonora. Nel finale del film Waldo si palesa, cerca di ammazzare Laura (di fare qualcosa con il
suo corpo -> ammazzare non possedere) ma contemporaneamente si sente la sua voce, su un disco registrato, che
parla dei grandi amanti della storia. Il problema di Waldo è proprio che lui non può essere una presenza fisica.
Nel romanzo di Vera Caspary, Waldo vuole uccidere Laura, non con il fucile nascosto nel pendolo, ma con un pugnale
che partiva dal suo bastone da passeggio che è una specie di simbolo fallico e della sua impotenza. Il problema del
film è che Waldo ha questo rapporto privilegiato con Laura ma vede continuamente Laura tendere a questi rapporti
con uomini che Waldo definisce bruti, villani e muscolosi e le suggerisce di aspirare ad altro ma in realtà c'è tutta
questa tensione dietro.

Mark invece è presente sin da subito come corpo, Mark infatti non parla molto, è un personaggio abbastanza
silenzioso, piuttosto agisce. C'è questa distinzione tra Waldo, che cerca di possedere Laura tramite la voce, e Mark
che invece può rappresentare il corpo, che è una dimensione abbastanza importante. Il film disegna uno scenario in
cui tutti i personaggi interessanti sono anche complessi. Tra gli uomini di Laura: Shelby Carpenter, l'altro spasimante
di Laura, che è una feccia umana infatti, mentre ha una storia con una delle donne più belle della storia del cinema,
ha anche una relazione con la cugina più anziana (lei lo sovvenziona, lui è un mantenuto) e con una modella (che è
una versione sbiadita di Laura). Egli non merita di essere il partner di elezione della figura femminile. Waldo è colui
che ha una maggiore problematicità infatti è un personaggio la cui struttura di desiderio è molto atipica in quanto
omosessuale ossessionato da una figura femminile, Mark è un personaggio che si innamora dell'immagine di Laura
(primo rapporto che ha con Laura è con la sua immagine) e quando Laura si concretizza davanti a lui, lui deve prima
fare una sorta di indagine per capire se lei sia o meno colpevole.

Quando lui la porta in commissariato e le punta addosso la lampada del terzo grado è come se stesse cercando di
sostituire quel ritratto, di negoziare un'altra immagine di Laura, è come se volesse capire un'altra verità su di lei. È
proprio su questo registro dell'ossessione per l'immagine che il film funziona meglio, la corporeità rimane un
problema. Infatti i due si scambiano quell' insipido bacio, presso la porta, prima che lei rimanga da sola. Non è un film
sull'interazione di corpi. C'è chi ne ha parlato come una storia fantastica, un film di spettri: si potrebbe infatti pensare
che Laura ricompaia solo nei sogni di Mark. È un film che funziona molto di più nell'idea di raccontare l'ossessività
e la passione per immagini lontane che non nel raccontare la vera passione di incontro tra dei corpi vivi. È un
film immerso in un mondo fantasmatico, onirico. In questo aiutano molto i movimenti sinuosi della macchina da presa
che, presenti nella prima sequenza, li rivedremo nella sequenza di illuminazione, abbastanza espressionista, del
finale; in cui di nuovo si naviga nell'appartamento, che stavolta non è quello di Waldo ma di Laura.
È un film che presenta un modo di raccontare che non è esplicito:
• la struttura a flashback che poi in realtà non sussiste
• inquadrature che sembrano delle soggettive ma non lo sono
• l'insistenza su un'ambiguità tra registro onirico e quello realistico -> il film insinua dei dubbi 

su dove siano i confini della realtà e insiste sull'idea di un amore ossessivo e della passione 

per l'immagine, la forza dell'immagine femminile.
• ha dei collegamenti con altri in cui viene rappresentato il potere dell’immagine femminile.
• può essere interpretato in modo metafisico: Laura è la figura ideale, Waldo la voce e Mark 

rappresenta il corpo.
IL CINEMA GIAPPONESE E RASHOMON:

Prima degli anni ’60 il cinema nipponico si basava su uno stile prettamente hollywoodiano ovvero che rese il cinema
una vera e propria industria. Le maggiori case di produzione erano la Shochiku, la Daiei, la Toho e la Nikkatsu che
avevano dato vita ad una struttura verticale e permetteva loro di essere attive anche sul piano della distribuzione. Lo
studioso David Bordwell nel suo saggio “Ozu” tenta di sistematizzare le principali tendenze stilistiche del cinema
giapponese classico: 1) lo stile calligrafico, tipico del jidaigeki chanbara (per chanbara si intendono i film di
samurai legati alle scene d’azione) con un andamento frenetico, quasi barocco, pieno di dinamiche figure in
movimento e con un montaggio rapido e discontinuo 2) lo stile pittorico, associato al dramma urbano e al
melodramma. Ad essere enfatizzata qui è la singola inquadratura come composizione complessa. Dominano i campi
lunghi, è diffusa la profondità di campo, le luci rendono le immagini astratte, le figure umane sono subordinate
all’insieme che le comprende, le inquadrature sono simili a quadri 3) lo stile analitico, tipico del genere gendaigeki
che si fonda sulla frammentazione di ogni scena in inquadrature statiche e ben definite da un attento uso del
montaggio, si evitano azioni esagerate e complessi movimenti di macchina, il montaggio non è eccessivamente
dinamico, propone immagini semplici e facilmente accessibili.

NARRAZIONE COMPLESSA + RASHOMON: capolavoro del cinema giapponese, è un film molto difficile dalla struttura
estremamente complessa. E’ evidente che si sta proseguendo sulla scia di una narrazione complessa, sulla costruzione
di un intreccio che sia non semplice a capire, come “il gabinetto del dottor Caligari” anche se non sembra perché al
termine abbiamo la risoluzione dell’investigazione, ma anche “Vertigini” di Otto Preminger è un film che partecipa al
tema della narrazione complessa e dell’ambiguità dell’istanza narrante, della voce narrante e dello sguardo. Quindi
questi anni 45/50 sia per quanto riguarda i film americani, sia quelli nipponici, presentano una riflessione
sull’instabilità del meccanismo narrativo e sull’impossibilità di decidere la verità. Rashomon fa dell’impossibilità
della ricostruzione della verità il suo oggetto principale.

Ci sono tanti altri film del noir americano che partecipato al tema della narrazione complessa, uno che vale la pena
nominare rispetto a tutti gli altri è sicuramente RAPINA A MANO ARMATA (secondo o terzo film di Kubrick del 1956,
che è un noir a tutti gli effetti costruito su una serie di flashback che vanno avanti e indietro nel tempo in modo molto
libero e per tale ragione richiede un’attenzione particolare). La maggior parte dei noir portano con se comunque un
risultato, sono sì strutture narrative complesse ma che alla fine consentono comunque l’accesso alla verità,
compreso il racconto di Kubrick, in cui c’è anche una corrispondenza tra questo meccanismo ad orologeria, grazie al
quale riusciamo a conoscere tutti i dettagli di ciò che è avvenuto, e il piano al centro del film, ovvero quello della
rapina che poi è l’oggetto principale del film, e così come i rapinatori elaborano un piano perfetto per rapinare un
ippodromo,
allo stesso modo Kubrick organizza un sistema ad orologeria che consegna allo spettatore un racconto completo,
quindi alla fine il senso, seppure, in modo travagliato in qualche modo allo spettatore arriva.
Un altro film degli stessi anni è PAURA IN PALCOSCENICO di Hitchcock del 1950, è un film che è diventato famoso in
modo negativo perché molto criticato, in quanto presenta un flashback falso, e a quei tempi si era soliti supporre che
la storia e il racconto di un personaggio fosse in qualche modo vero, invece in questo film, alla fine si scopre che in
realtà tale flashback è falso, quindi ciò significa immagini di un ricordo che in realtà non è mai esistito. In qualche
modo, quindi, in mette in discussione lo statuto stesso delle immagini, facendole apparire come qualcosa che inganna
lo spettatore e dichiarando apertamente che il cinema non ha necessariamente un rapporto con la realtà. Quindi anche
nel caso di Hitchcock notiamo attinenze con il noir, avendo questo sperimentato strutture narrative complesse,
flashback falsi etc. Inoltre è evidente che il cinema del dopoguerra riflette moltissimo sulla possibilità della
narrazione falsificata, ma possiamo dire che nessuno arriva allo stesso livello di Akira Kurosawa con Rashomon.

E’ un film talmente estremo, che molto spesso sembra essere stato scambiato quasi per un testo teorico, però è anche
vero che è un film che mette tanto in discussione l’idea stessa della verità. Inoltre fino al momento in cui Rashomon
non è stato mostrato al festival del cinema di Venezia del 1951, si conosceva ben poco di cinema orientale in
occidente, ma grazie al grande successo collezionato a quest’ultimo nasce la moda del cinema nipponico. Difatti il
cinema di Kurosawa rappresenta un modello per tantissimi sviluppi, anche nel cinema occidentale, in primis per alcuni
western( per es. i magnifici sette, un adattamento dei sette samurai, che appartiene al western americano, per poi
arrivare al western all’italiana di Sergio Leone e da Leone fino a Tarantino). Per quello che riguarda Rashomon, questo
presenta un meccanismo narrativo che si basa sul racconto di una stessa storia raccontata da più voci, senza che
poi si sappia mai la verità. Tale procedimento è stato poi imitato in molti altri film e anche in molte serie tv, ma se in
tutti questi la verità alla fine si conosce, la cosa interessante in Rashomon è proprio il fatto che resta un alone di
ambiguità complessivo. Rashomon è anche un po' il prototipo del film intellettuale, da festival (il festival è
solitamente il luogo specifico in cui i film orientali hanno successo) e richiede sì un pubblico intellettuale, ma
intellettuale in quanto attivatore di intelletto, ovvero un pubblico che rifletta, che interpreti e capisca ciò che
succede. Esso richiede che lo spettatore riesca ad interpretare le scene, in quanto è un film enigma (lo collegheremo
poi più avanti a questo genere di film contemporanei che sono chiamati puzzle film o mind game film , cioè i film
"gioco mentale"), contemporaneamente è anche un film che tiene abbastanza desta l'attenzione, anche perché è vero
ed è giusto inquadrare Kurosawa nell'ambito del cinema d'autore, del cinema da festival, però contemporaneamente
bisogna fare attenzione in quanto questo film è una specifica rielaborazione di alcuni generi del cinema
Giapponese, in particolare due, che qui trovano una sintesi particolare; dunque è erroneo interpretare i film
soltanto come il frutto del genio dell’autore. Kurosawa mostra la sua abilità che sta anche nel prendere degli elementi
dei film di genere e piegarli verso delle vette innovative. Questi generi sono il Jidai Geki, ovvero i film in costume
sul passato medievale (una sorta di versione giapponese del "cappa e spada", cioè I film con gli spadaccini ambientati
nel
passato dell'Europa, come ad esempio "Scaramouche" o "il prigioniero di Zenda"), ovviamente legati soprattutto alla
filosofia del Samurai, e c'è un elemento che rimanda a ciò nel film però contemporaneamente come si può vedere,
anche in un modo un po' inaspettato forse rappresenta l'aspetto più enigmatico del film, è invece anche un elemento
di legame con il geki. Il Gendai-geki è invece una storia di ambientazione contemporanea con una sorta di
attenzione ai problemi sociali, che però a volte è un modo per fare anche semplicemente dei polizieschi o dei gangster
film (ad esempio uno dei film più belli di Kurosawa si chiama "I cattivi dormono in pace", un poliziesco del 1960, che in
realtà è un adattamento dell'Amleto, e ciò è emblema del suo gioco tra cultura orientale e occidentale) fino a creare
un film che non è né l'uno né l'altro, è un Frullato di questi due generi assolutamente originale, un puzzle in cui
veramente i pezzi sono scomposti; quindi è un film composto da pezzi non rimessi in ordine.

È un film grave e triste e l'idea delle tessere di puzzle da rimettere insieme è evocata già nei titoli di testa del film,
che sono come delle inquadrature che non si capisce bene se sono referenziali, se sono legate alle storia o se sono
simboliche, in quanto spesso l'inquadratura dei titoli di testa di un film anticipa in qualche modo il contenuto in modo
simbolico. Quindi questa idea del puzzle è evocata già nei titoli di testa, e poi quello che accade è essenzialmente che
si ha un fattaccio che avviene e molte versioni diverse di ciò che accade; è anche interessante vedere nella vicenda
che viene narrata quali sono i punti sui quali i vari personaggi non concordano, in quanto questo ci aiuta ad
interpretare quali sono effettivamente le tensioni, i temi problematici che questo film ci propone. Il film d'altronde è
un mix non soltanto di generi giapponesi, ma anche di influssi culturali orientali e occidentali: l'esempio tipico di
questa commistione oriente-occidente è indubbiamente l'uso della musica, perché gioca un ruolo importante.

Domande fondamentali per questo film:


- Qual è effettivamente la struttura della narrazione? Chi è il proprietario della storia che viene raccontata?
(è un discorso strutturale, di struttura della narrazione).
- Chi è il proprietario dello sguardo? (ovviamente è collegata con la precedente poiché, se la storia è narrata in
prima persona da un personaggio magari lo spettatore si aspetta che ci siano delle inquadrature in soggettiva,
tuttavia non è sempre molto chiaro questo nel film) >> Dunque le due versioni sono collegate ma non sono la stessa
, una è una versione che riguarda la struttura del film che si pone l'interrogativo di chi capire chi sia il "proprietario
della narrazione", mentre l'altra si chiede chi sia il "proprietario dello sguardo" e che cosa dicano allo spettatore
questi sguardi.
- Quali sono i vari punti di discordanza tra le varie versioni della storia raccontata? Cosa significa ciò? Perché i
personaggi non sono d'accordo?

Rashomon va inquadrato nel discorso di cinema d’autore, storicamente è un concetto che si afferma soprattutto
intorno agli anni 50, nell’ambito cinematografico fatica ad affermarsi come tale in quanto non c’era un grande
discorso sui grandi autori, come avvenne per gli espressionisti tedeschi. Questo avviene nel dopoguerra, l’idea
dell’autore come figura principale è essenziale, questo concetto fu la base di una battaglia da parte di una rivista
nominata “Cohiers du Cinema” gestita da una serie di autori che poi diventeranno a loro volta registi, come era
successo nella rivista italiana “Cinema” durante il fascismo, molti autori diventarono autori non solo di penna, ma di
macchina da presa. Il “Cohiers du Cinema” ospita tutti i grandi della “Noveire francese” > va ricordata la loro opera
come critici, prima di lavorare con una macchina da presa, questi critici cercano di affermare la loro teoria ossia
quella della figura del registra, politica degli autori. Quindi da questa persona, ossia il produttore, possono trovarsi
varie tematiche e stili. Secondo l’ottica della politica degli autori, si preoccupa di rintracciare l’opera degli autori
anche nel sistema americano, dove invece predomina il produttore però fondamentale è la figura centrale della
dinamica produttiva e quindi una persona che si occupi di tutte le fasi della realizzazione del film, particolarmente in
relazione con la sceneggiatura. Quindi nell’ottica della politica degli autori il film è considerato come un oggetto
culturale anzi artistico, non ci si preoccupa della questione commerciale, non è un problema se incassa o meno. Il
punto essenziale è sicuramente che non si mira a divertire lo spettatore, ma a farlo crescere intellettualmente e
culturalmente, farlo riflettere. Questo è importante perché se si vuole coinvolgere le grandi masse e guadagnare,
come nel caso del film americano, mira essenzialmente all’intrattenimento e divertimento.

Invece per quanto riguarda i film d’autore, sono dei film che tendenzialmente vogliono che lo spettatore sia
attivo, e veda il film come qualcosa per capire meglio il mondo e la realtà. Naturalmente il singolo film d’autore non
ha mai una sua autonomia ma è sempre in collegamento con l’opera dell’autore. Caratteristico del cinema d’autore è
la prospettiva del tutto internazionale per cui nel momento in cui dove queste teorie escono fuori, quindi negli anni
50, noteremo le figure più importanti in quel periodo, poi negli anni che verranno ci saranno altre figure, come in
Italia con Pasolini, in Francia gli autori del Noveire, dove arrivano nella fine degli anni 50 e naturalmente così anche il
cinema Americano con Ford, Hichcock e Orson Welles e poi in seguito si dividerà con Il nuovo Hollywood con
Cassavetes. Un altro nome è quello di Ingar Bergman, il cui film “posto delle fragole” è uno dei più importanti film
d’autore degli anni 50. Ingar Bergman è un autore svedese che avrà un’influenza immensa nel cinema successivo. Nel
cinema giapponese oltre Kurosawa fa ricordato il nome di Mizoguchi e di Ozu (Viaggio a Tokyo). Tutti e 3 vanno sotto
l’etichetta del cinema d’autore ma ognuno di loro è diverso, ognuno di loro rappresenta un genere, a un certo livello
anche il cinema d’autore diventa un tipo di genere, con dei tratti simili, quindi un cinema altamente influenzato
dall’idea e visione dell’autore, tra l’altro sono cinema che troviamo spesso nei festival, quindi il cinema commerciale
incontra il pubblico nelle sale, il cinema d’autore passa attraverso i testi. Per analizzare correttamente Rashomon di
Kurosawa bisogna camminare lungo due direttrici ovvero quella del contesto storico-culturale del Giappone degli anni
’50 e la dimensione del mondo, quasi filosofica, dell’autore. Il cinema giapponese è un cinema molto forte già a
partire negli anni 10, fin quando la guerra non mette in difficoltà la produzione, perde la guerra e il paese viene
occupato dalle forze vincitrici, nello stesso periodo operarono anche ad una censura nei primi anni del dopoguerra
rispetto al genere di film tradizionale, ossia quello sulla filosofia dei samurai, questi sono visti come film troppo
legati ad una tradizione d’orgoglio giapponese, in anni cui l’identità giapponese era in piena crisi. Quindi questo
genere molto tradizionale della società giapponese subisce una censura e Kurosawa metterà in scena Rashomon proprio
perché da una parte prenderà gli elementi di JIDAI-GEKI dall’altra parte farà degli accenni al contemporaneo con
GENDAI-GEKI, tra l’altro è una sorta di “prendere” vari elementi del genere di film della cultura dei samurai, tra
questi elementi abbiamo la scena del samurai che si suicida. Come abbiamo detto anche l’altra volta Kurosawa
produce anche ambientazioni contemporanee, questo possiamo dirlo anche con i polizieschi dei Noir. Rashomon non
ha un processo lineare, è un adattamento di antologie di racconti dello scrittore AKUTAGAWA RYNOJUNE, quindi ci
troviamo in pieno Medioevo.

Il film è evidentemente strutturato su 3 piani, da una parte c’è la cornice ossia il portale, serve come piattaforma
di lancio delle narrazioni, su quella cornice ci sono una serie di narratori, c’è poi il secondo piano ossia lo scenario
anche quella è una piattaforma come un palcoscenico teatrale che è il tribunale, quindi il portale è il luogo dove
avviene l’indagine, il boscaiolo, per esempio, si rivelerà più coinvolto di quanto sembra, il monaco poi la terza figura
del viandante colui che è del tutto disinformato di quello che è accaduto, quindi è il destinatario di tutti questi
racconti, mentre nel portale non ci sono vere e proprie testimonianze, nel tribunale ci sono testimonianze dirette dai
3 personaggi principali il bandito, il samurai e la donna. Poi naturalmente c’è la scena del bosco che è la scena
principale ma che ci viene fatta vedere in maniera mediata, traslata dai racconti. Ciascuno di questi 3 scenari è in
qualche modo dotata di uno stile diverso. IL PRESENTE: viene usato il grandangolo per comprendere quanto più spazio
possibile, ad essere inquadrato è il portale battuto dalla pioggia, l’effetto è quello di una lente che amplia lo spazio,
da l’dea di uno spazio desolato. IL PASSATO RECENTE: vede l’uso di composizioni frontali con personaggi in mezza
figura ampia inquadrati con un obiettivo di 50 mm, in cui la profondità di campo è limitata soprattutto dal fatto che
alle spalle hanno un muro bianco o poco più. C’è la totale assenza di voci del giudice istruttore o di altre persone che
compiono l’interrogatorio (momento del processo) >è il passato che passa ad uno stile arcaico, con composizione
frontale, sembra quasi come il cinema muto, questo per dare un senso di orizzonte bloccato, fermo. I personaggi si
muovono in modo rituale esempio la scena della testimonianza del boscaiolo, in primo piano poi quando il boscaiolo
testimonia, si reca vicino al muro, inizia a parlare il monaco, quando poi parla il medium che sarà in contatto con
l’anima del samurai, il boscaiolo e il monaco sono sullo sfondo. C’è proprio una GERARCHIA, è uno spazio frontale,
da
l’idea anche della ritualità del processo serve per dare l’idea della liturgia di giustizia, ma non si vedono e sentono
gli investigatori, sembra una messa in scena che si fonda da se. Quindi l’uso di queste scene frontali è in fortissimo
contrasto con quello che succede nel cuore del film e del bosco > PASSATO LONTANO: dove il regista copre tutti gli
elementi del linguaggio (organizzazione del profilmico, illuminazione, scala dei piani, angolazione delle inquadrature,
montaggio), vuole dimostrare di poter muovere la macchina da presa in qualsiasi modo dando anche un senso di
“pittorico”, per esempio nel bosco c’è una profondità di campo e ricchezza di elementi nell’inquadratura, nello stesso
tempo ci sono moltissimi diversi movimenti di macchina, anche il montaggio può essere molto veloce, frequenti i
primi piani, carrellate avanti e indietro, laterali, panoramiche verticali e orizzontali, a schiaffo.

STRUTTURA: Al portale, fino a che inizia la rievocazione del boscaiolo si ha: il racconto del boscaiolo nel bosco e poi
presso il tribunale, il racconto del monaco, quello del poliziotto, quello di Tajomaru. Si ha poi il ritorno al portale,
fino a che inizia la rievocazione del monaco > racconto di Masago. Si ritorna al portale fino a che inizia la seconda
rievocazione del monaco > racconto del samurai per mezzo della medium. Si torna ancora al portale fino alla seconda
rievocazione del boscaiolo + ritorno al portale e infine si ha il finale.

E’ dunque uno stile polietico con 3 stili diversi, uno stile che sottolinea il mondo di desolazione e di pioggia, poi
abbiamo uno stile simile al cinema muto nella parte del processo, per restituire la faticosa liturgia della verità
dove porterà al nulla, quindi alla fine il nodo centrale del film è “caotico”, perché è un mondo pieno che non si
può facilmente ridurre ad ordine e anche un mondo pieno di sguardi, elemento importante del film. Quindi le
differenze del film corrispondono anche alle differenze delle modalità in cui il regista vuole il modo come guardiamo
a quelle che sono gli scenari, quindi il primo uno scenario di smarrimento l’altro è un tentativo di porre un ordine, la
parte centrale del film è completamente caotica, quindi scoprire l’enigma e la verità risulta difficile.
La partitura musicale è complessa e ibrida, talvolta vicina ai modelli occidentali altrove marcatamente nipponica
come nel finale. La dimensione di dialogo transnazionale è stata fondamentale sia nella concezione del film che nella
sua ricezione (vinse la palma d’oro di Cannes) lanciando la moda nipponica nei festival occidentali.

Titolo > RASHOMON è il nome del portale della città di KYOTO, il portale della città di Kyoto era una struttura di
difesa, con il compito di filtrare l’accesso e difendere la città, ma invece vediamo già all’inizio che si presenta come
un edificio in rovina, quindi i titoli di testa sono 11 inquadrature che noi all’inizio non sappiamo cosa siano, si
presentano come frammenti di questo edificio e vengono mostrati come sotto forma di enigma, quindi già dall’inizio
porta lo spettatore davanti ad un enigma di cui deve comporre tutti i pezzi. Questo lo troviamo anche nella scena del
boscaiolo dove ripete la frase “non capisco, proprio non capisco” > sollecita lo spettatore all’interpretazione . Questo
portale è sempre in rovina quindi non può assolvere la funzione di portale di difesa dal caos esterno, ci da un elemento
contestuale, ossia è un film che parla di una società giapponese che ha perso i propri punti di riferimento, ha
perso le proprie difese verso l’esterno e quindi il caos all’esterno sta rovinando il portale che dovrebbe portare
fuori caos e demoni, invece è un portale in rovina. TAJOMARU è un bandito e si può definire la figura principale del
film. C’è la figura femminile ovvero MASAGO, e TAKEMIRO il samurai. Poi ci sono 3 figure secondarie, il boscaiolo, il
monaco e il viandante > figure collocate nella cornice. Infine ci sono personaggi che ergono in modo marginale ossia
il
poliziotto che arresta il bandito, la medium che impersona il samurai morto contattando la sua anima e infine il
neonato che in modo bizzarro viene abbandonato sul portale. Anche per i personaggi emerge il numero 3, su questa
idea si è insistito molto perché sembra che il film è incentrato su questo numero (3 i luoghi principali, 2 piani
temporali distinti, 3 protagonisti, 3 testimoni, 3 personaggi al portale, 3 giorni tra l’uccisione del samurai e il
processo, 3 identità sessuali - M, F, Transgender), molte persone che hanno interpretato il film hanno capito che in
verità è un illusione come ogni tentativo di porre fine all’enigma, perché alla fine nella questione dell’omicidio erano
4 le versioni.
La domanda fondamentale del film è chi abbia ucciso il samurai e con quale movente (o è stato un suicidio?)
Un’altra domanda fondamentale è se il rapporto sessuale tra la moglie del samurai e il bandito sia stato
consensuale o meno.Quindi l’interrogativo riguarda i 2 grandi elementi della narrazione che sono la violenza e il
sesso , poi ci sono interrogativi secondari che riguardano l’individuare le varie bugie ossia la fuga del bandito e della
donna e le modalità della scomparsa del prezioso pugnale. Questi elementi che scorrono sono d’accordo su una cosa
ma si scontrano su un’altra, quindi non avremo mai una sovrapposizione del racconto. Queste sono le domande interne
alla narrazione, bisogna cercare anche di astrarre il discorso e quindi chiedersi in un senso più generale, non tanto
quello che è successo, perchè non possiamo stabilire definitivamente quello che è successo, però è importante
chiedersi chi sta raccontando e chi sta guardando, quindi chi è l’autore di quel segmento di racconto e chi è
l’autore delle immagini che vediamo, che non sono proprio la stessa cosa. Bisogna capire se c’è una corrispondenza o
una coerenza tra chi racconta e chi guarda, perché se fosse un racconto scritto si avrebbe un solo canale
comunicativo, la parola scritta; con il cinema che è un audiovisivo si ha un’idea del racconto e della persona che con
la voce racconta ma dall’altra si hanno delle immagini che possono essere sempre anche in contrasto e in
contrapposizione. Il cinema ci può sempre mostrare qualcosa in più rispetto alla parola e può contraddire la parola
stessa. Naturalmente poi c’è un livello di fondo, cioè di che cosa parla davvero questa storia, cioè se l’importante
non è scoprire l’enigma allora ci chiediamo dove sia il senso. Questi sono tre livelli di domande che riguardano
evidentemente tre macro situazioni interpretative molto diverse: una allude ad un livello interpretativo dei singoli
fatti minori della storia; poi c’è un livello interpretativo che riguarda la messa in scena del film, quindi come Kurosawa
ha deciso di gestire la questione della proprietà del racconto, di chi racconta e di chi guarda; e poi c’è una domanda
interpretativa di fondo, filosofica, ovvero di che cosa parla questa storia, di che cos’è la metafora tutto questo
discorso. La domanda di base è “ci si può fidare dei narratori del film?”, la risposta evidentemente è no, visto che
ognuno racconta una storia diversa è chiaro che la maggior parte di loro mentono o forse tutti. Inoltre bisogna
anche ricordare che la maggior parte delle testimonianze sono dei racconti di racconti, cioè voi avete il portale da cui
partono i racconti del boscaiolo e del monaco e poi avete il sentito dire, cioè tutto quello che sarebbe inammissibile in
un processo. Le testimonianze dei tre personaggi principali sono raccontate da altri personaggi: è il boscaiolo che,
all’interno del suo racconto, inserisce il racconto del monaco che poi è un altro personaggio che ci sta nel portale però
ci viene mostrato che testimonia al processo all’interno del flashback del boscaiolo, quindi una struttura barocca. E
così il racconto del bandito è interno a quello del boscaiolo e invece gli altri due racconti dei personaggi principali,
della donna e del Samurai partono dalla revocazione del monaco. A livello di struttura c’è un portale, nel portale ci
sono dei personaggi che parlano, la scena del processo è a sua volta vista soltanto in flashback dai personaggi che
stanno nel portale. Quindi c’è una stratificazione e infatti nelle rievocazioni (ovvero quelle fatte nel portale, mentre
i racconti sono fatti nella scena del tribunale) in uno di questi racconti si aggiunge il bosco, quindi il terzo livello, quel
terzo luogo che è poi quello principale. Il racconto del samurai non è soltanto un flashback di flashback, ma è un
flashback di flashback per mezzo di una medium in contatto con l’aldilà, quindi c’è un livello di mediazione del
racconto incredibile. L’idea di un racconto diretto è pressoché assente in questo film e quindi soltanto il boscaiolo è
l’unico che prende la parola e che ci porta dal portale direttamente nel bosco. Per gli altri c’è sempre lo step
intermedio del tribunale. Tra l’altro attenzione perché nel caso del racconto del samurai, quindi l’ultimo dei racconti
dei personaggi principali, non è neanche ben chiaro nel momento in cui si avvia il racconto quale dei personaggi che
sono sul portale faccia partire la rievocazione della scena del tribunale in cui la medium interpreta il samurai > sembra
che sia il monaco di nuovo a raccontare, così come ha ricordato quando la donna era in tribunale e ha raccontato la
sua storia, e quindi riporta la storia della donna in tribunale, così sembra che sia il monaco; ma non ne siamo
realmente sicuri perché non c’è un’immagine del volto del monaco che ricorda, che parla e racconta la storia, ma non
si sa bene chi è che sta ricordando tra il monaco e il boscaiolo il racconto del samurai. In un film del genere si
comincia a dubitare di tutto, ma si pensa possa essere una rievocazione del monaco perché ci sono due rievocazioni
del boscaiolo e del monaco, che fanno anche rima ABBA. Così d’altra parte ci sono cinque segmenti di testimonianze
in tribunale, quindi i numeri tornano, c’è una certa armonia. La domanda è anche: le immagini dei flashback sono la
visualizzazione precisa dell’immagine mentale o delle parole dei personaggi che testimoniano? Quindi
corrispondono interamente al punto di vista di qualcuno? Assolutamente no, c’è sempre la presenza di una istanza
esterna, oggettiva, che decide autonomamente, c’è la presenza di Kurosawa, del regista, che decide come
organizzare la narrazione, scegliendo il modo migliore di restituire sentimenti, convinzioni e bugie dei narratori. Ci si
può fidare dei narratori e le immagini sono precisamente l’immagine mentale? la risposta è sempre no, c’è sempre
un territorio sfuggente in cui non sappiamo esattamente cosa stiamo vedendo. Chi è il padrone delle immagini, del
racconto, e questo non significa che ci possiamo fidare, non è ben chiaro chi è il padrone delle immagini a parte
Kurosawa stesso. E’ quindi un film che in realtà costellato di una serie di soggettive problematiche.

La sequenza in cui il boscaiolo trova il cadavere del samurai è una sequenza organizzata tutta quanta sul fatto che c’è
un soggetto che sta camminando nel bosco e scopre delle cose, ma più di una volta ci viene negato un rapporto lineare
di visione. Qui, invece di vedere quello che vede lui, vediamo una specie di semi soggettiva del cadavere, quasi
come se fosse il punto di vista del cadavere del samurai in questa inquadratura espressionista e barocca in cui anche in
altre stanze prima della stessa sequenza, invece di vedere quello che vedeva lui, vediamo lui che guarda l’oggetto,
quindi sono dei momenti sottili in cui Kurosawa ricostruisce le dinamiche normali di sguardo, qui abbiamo il boscaiolo
che trova il cadavere, tra l’altro sappiamo che sta mentendo perché lui in realtà era presente da prima e scopriremo
che questa è una sequenza menzoniera, falsa testimonianza e forse proprio per questo che Kurosawa toglie gli
oggetti, decostruisce questa dinamica perché ci sta anche sottilmente dicendo “questo personaggio mente”. Invece di
avere l’oggetto del suo sguardo, che sarebbe forse stato poco piacevole, ci dà questa strana semi soggettiva del
cadavere. C’è un’inquadratura poi molto strana in cui il bandito è legato nel cortile del tribunale e guarda il cielo, in
modo del tutto stemporaneo, che non trova nemmeno nessuna particolare giustificazione narrativa, anche perché per
adesso sta testimoniando il poliziotto che l’ha catturato. A cosa serve quest’inquadratura? non è chiaro; il racconto
tornerà più avanti su Tajōmaru e anche lì la sua testimonianza inizierà con un’inquadratura ampia di lui che scappa
sulla spiaggia e quindi una scena di nuvole e sole, è come se Tajōmaru fosse legato a questi elementi della natura,
ed è quindi l’emergenza di una sua soggettività, ci sta dicendo che è una personalità autonoma che non verrà
costretta all’interno del racconto del poliziotto, forse. E’ un caso assolutamente arbitrario di uso della soggettiva. E
poi c’è forse l’inquadratura più famosa del film, che pone dei reali problemi dal punto di vista della paternità; è il
momento in cui nel racconto del samurai la donna cede alla sua violenza > visualizziamo quello che vede lei
guardando il cielo, e pure siamo all’interno del racconto di Tajōmaru e in teoria è una sua soggettiva abbastanza
strana perché racconta invece il racconto del personaggio maschile e poi ad un certo punto l’inquadratura si sfoca, a
sottolineare l’allentarsi della tensione e il cedere della donna, la sua percezione al piacere dell’amplesso. Forse è
Tajōmaru che si immagina la reazione di Masako ed è compiaciuto dall’idea che lei si abbandoni ai sensi. C’è poi
un’altra inquadratura che sembra oggettiva ma in realtà è una falsa oggettiva perché è il punto di vista del
personaggio del samurai; ma potremmo dire che quella sia una soggettiva diretta di Tajōmaru perché è lui che sta
guardando i due, in realtà vediamo poi che lui è con lo sguardo rivolto verso il basso e quindi non li sta guardando ed è
quindi un’inquadratura ambigua, che a qualcuno sembrava un’oggettiva ma poi tutto sommato è una semi-soggettiva,
ad alcuni sembra una soggettiva ma poi in realtà non lo è.

Il punto è che c’è una grande confusione dei punti di vista, le inquadrature oggettive sembrano cadere nella
soggettività; succede anche con l’inquadratura di Masako nel primo flashback, quello del bandito, attende gli uomini
che si sono allontanati ed è inquadrata in modo talmente pittorico e bello che sembra che a vederla sia l’occhio già
invaghito, innamorato di Tajōmaru . Il punto di fondo di questo discorso è che il film lavora costantemente per
complicare l’idea di ciò che è il punto di vista soggettivo e quello oggettivo; ogni distinzione netta tra soggettivo ed
oggettivo sembra compromessa e sono messi in discussione anche i consueti modi di comprensione e costruzione del
senso. Si segnalano anche alcuni campi e controcampi antichi che collegano spazi e tempi diversi, per esempio ci
sono dei momenti in cui sembra proprio che ci siano delle transizioni tra il cortile e il bosco e in cui quasi tutti i
personaggi si guardano; ne guardiamo uno che è quello in cui vediamo la continuità dello sguardo della donna nel
bosco, guarda fuori campo e vede il bandito fuori, non c’è nessuna soluzione di continuità tra i due spazi, sembra
quasi che i due personaggi stiano comunicando e forse il più radicato di tutti quanti è quello della medium che guarda,
è molto ardito il passaggio che sembra che il samurai stia guardando fuori campo verso la medium. La serie di campi e
controcampi che collegano spazi e tempi diversi mostrano un passato prossimo e un passato remoto della storia che
si accavallano senza creare un distacco netto, accentuando la permeabilità dei diversi racconti. Siamo di fronte ad un
universo disordinato, caotico, attraversato da troppi sguardi e tra l’altro conta moltissimo l’idea di chi guarda, dello
sguardo, del guardare, come l’esperienza del boscaiolo che guarda nascosto e trae piacere da questo teatrino a tre.
Ma conta anche ciò che non si vede (fuoricampo), quindi la città non si vede mai, il giudice e il generale, coloro che
conducono l’indagine, il cadavere del samurai, lo stupro o comunque l’atto sessuale, il boscaiolo nascosto; ad un certo
punto dobbiamo riconsiderare l’intera vicenda sapendo che all’interno di quello spazio che credevamo di aver
visualizzato e di aver coperto con la nostra esperienza di spettatori, in realtà in quella scena c’è sempre da qualche
parte nascosto il boscaiolo, che dà fino in fondo l’idea di un mondo che è del tutto incontrollabile.

Non è soltanto un bosco attraversato da una fitta vegetazione, ma anche di sguardi e percorsi; è come se all’interno
dell’immagine così carica e lussureggiante, si nascondesse sempre qualcosa che non possiamo rintracciare e anche alla
fine per esempio, il bambino che viene abbandonato nel finale, abbiamo l’impressione che non sia così semplice
abbandonare un bambino là dietro da un momento all’altro, eppure è quello che avviene, perché evidentemente il
non visto acquista quasi lo stesso valore di ciò che viene mostrato. Quando scopriamo che il boscaiolo è stato
presente per tutto il tempo abbiamo la sensazione che il mondo sia completamente fuori controllo, è inutile cercare di
ordinare e orientare la nostra percezione del mondo, soprattutto è impossibile farlo attraverso lo sguardo, c’è sempre
qualcosa che ci sfugge, che sta fuori, che non possiamo controllare. Nei tre racconti principali c’è sempre la notazione
dello sguardo di qualcun altro con uno sguardo del tutto disumano > il bandito che guarda la donna e dice che aveva gli
occhi di ghiaccio, aveva un’espressione intensa come quella di un bambino. La donna che deve subire la violenza del
bandito e degli occhi del marito che la condanna per il semplice fatto che lei è stata vittima della violenza, il samurai
che attribuisce una reazione positiva alle avances di Tajōmaru , dicendo che la moglie è come in trance e che non l’ha
mai vista così bella, però la trance è una sensazione di svuotamento dell’identità e quindi di disumanizzazione. Si
tratta sempre di espressioni disumane che indicano una difficoltà di relazionarsi allo sguardo dell’altro, di leggere
questo sguardo; è evidente che lo sguardo è uno dei modi più importanti di costruire un rapporto interpersonale. I
personaggi non riescono a costruire dei rapporti con delle dinamiche di sguardo lineari e sane, ma spesso devono
distogliere gli occhi, come il samurai che non vuole vedere la violenza. In qualche modo possiamo dire che questo
film è un racconto allegorico perché è una parabola dotata di un significato concettuale nascosto, di un fine
pedagogico. Il bosco è un luogo antropologico, quasi presociale, dove si scatenano le istanze umane più vicine allo
stato di natura e quindi è una sorta di macro-metafora. E’ possibile leggere questa metafora nell’ordine di un
discorso contestuale, in relazione al Giappone di quegli anni, che stava vivendo un momento di difficoltà nel rinnovare
la propria immagine nel suo complesso. Il portale è un luogo sacro, deve separare il dentro sociale dal fuori caotico, è
distrutto in stato di abbandono, cioè la scultura decorativa che viene visualizzata varie volte che doveva proteggere
dai demoni e invece è lasciata per terra, in preda dagli elementi. Gli elementi sono importanti perché nel presente
piove sempre mentre il sole e il caldo caratterizzano questo spazio simbolico e allegorico del bosco. È proprio come
se il portale non riuscisse più ad arginare l’avanzare caotico dell’istinto, però l’effetto non è che tutto è
soleggiato, al contrario, l’effetto è la pioggia, come a dire che se non si pone un margine agli istinti, l’effetto non è
veramente il godimento dionisiaco ma è invece la depressione della pioggia. Il portale è il simbolo di una società
che ha perso le sue strutture d’ordine, che arginano il caos, non esistono più gruppi sociali saldi e solidali tra di loro,
società in una crisi gerarchica, tant’è vero che la figura del samurai deve vedere la propria donna posseduta da un
altro uomo davanti ai suoi occhi. Le figure della tradizione dell’ordine sociale tradizionale sono messe in crisi. E anche
quest’idea che tutti quanti i racconti non soltanto abbiano versioni diverse ma anche che non sia possibile trovare una
conciliazione vuol dire che tutti pensano soltanto a se stessi, e quindi è anche una società di profondo egoismo,
quindi anche un messaggio anti americano, perché la società basata sull’individualismo è l’America che ha avuto anche
un importante influsso nel ’50 in Giappone avendo vinto la guerra. È una società in crisi per aver perso la guerra ma
anche il racconto di una società in crisi per la presenza degli invasori americani con questo suo individualismo
imperante. Il patto sociale, la possibilità di leggere la realtà in modo univoco, che è una delle cose importanti di
un patto sociale è rotto. In questo senso la parte finale ha un valore consolatorio, c’è questa immagine simbolica del
neonato che viene preso in carico dal boscaiolo che ha già cresciuto sei figli e quindi c’è la possibilità di una
rinascita e di una fiducia anche in questo personaggio che ha mentito, c’è una possibilità di redenzione. Se ci
allontaniamo dal contesto giapponese la cosa che ci interessa di più è la dimensione di allegoria filosofica e del
finale consolatorio. In ogni racconto si fa sentire la presenza del desiderio, di questo elemento che deforma i racconti
stessi. Il film è rimasto uno dei pilastri con cui la cultura del ‘900 ha affrontato il problema dell’impossibilità della
conoscenza; non esiste un’interpretazione singola che dia senso a tutto o che ci dia una versione definitiva dei fatti. Il
film sceglie di non privilegiare nessuna versione ma piuttosto di moltiplicare i punti di vista sugli stessi eventi in
modo tale che la verità si frantumi davanti ai nostri occhi. La sfida reale non è quindi la risoluzione dell’enigma ma
la sospensione del giudizio. La versione del boscaiolo è la più credibile, ma ad un certo livello la realtà è stata
talmente moltiplicata che leggerla come versione definitiva è possibile ma significa poi non comprendere il processo
intero del film che proprio in questa costante ripetizione ci sta dicendo che alla fin fine, ad un livello meta narrativo
non conta quello che è avvenuto ma la possibilità di rigiocare tutti gli elementi che sono in ballo per raccontare cose
diverse. Non è quindi importante che cosa sia avvenuto o meno, ma il fatto che il film ci consegna la moltiplicazione
delle storie; poi ci sono dei legittimi dubbi che in un universo così traballante di Rashomon non si vede tutto sommato
perché credere alla versione finale del boscaiolo. Il film è stato recepito fin dall’inizio come il simbolo della
moltiplicazione infinita dei punti di vista. C’è un collegamento con Caligari, è l’ambiguità dello sguardo nella
scena finale che si è sviluppata in tutto il film; Kurosawa nel finale di Rashomon cerca di mettere la pezza, ma tutto il
resto del film è proprio l’indagine di una realtà indicibile, come se prendesse il finale del Caligari che aveva lanciato
un germe di indecisione e lo sviluppa in tutto il film, poi forse ha pure la tentazione di dire come sono andate le cose
ma nel frattempo ha rotto lo schema. In un certo livello non è importante la risoluzione dell’enigma ma la sospensione
del giudizio sia su quanto sia realmente avvenuto sia su quello che è poi il significato filosofico del film, ad un certo
livello uno può anche interpretarlo come vuole. Di sicuro il film parla del dubbio, della rottura di uno schema di
conoscenza, quindi al di là del discorso etno-morale, quindi sull’idea che sia un film sullo smarrimento della
conoscenza, questo è un film sullo smarrimento di una società in crisi. Se il film funziona ancora oggi non è perché ci
propone un enigma da risolvere, ci piace perché ci coinvolge ad un livello estetico e sensoriale.

Speculazione fredda, percezione calda: il film coinvolge lo spettatore anche con una forte stimolazione estetica e
sensoriale: La pittoricità, le foglie che creano giochi di luce, un’immagine mai lineare ma affollata, che dà l’idea di
un’impossibilità di lettura armonica che poi è stimolante dal punto di vista visivo. La luce del sole caldo, la
persistenza del calore estivo del bosco che si sposa con la sensualità, i personaggi si comportano in modo animalesco
e viene enfatizzata la corporalità soprattutto del personaggio maschile ma non soltanto, con tutte le inquadrature
che ci fanno vedere le gocce di sudore sulla pelle, c’è proprio l’insistenza sull’epidermide. Si ha anche una
deformazione eccessiva e grottesca dell’atteggiamento dei personaggi > elementi del riso del bandito, del pianto della
donna che diviene riso improvvisamente, viene a galla l’elemento di convenzione sociale (il pianto simbolo di
debolezza femminile): vediamo un ribaltamento, una destabilizzazione dei ruoli di genere. Pianto e riso sono
espressioni simboliche e quasi ritualizzate.

Il grande enigma di questo film è un enigma che riguarda l’identità femminile e quindi la dialettica dei personaggi
maschili è mediata dal personaggio femminile; all’inizio sembra che il personaggio femminile sia soltanto una
pedina all’interno dei rapporti tra i personaggi maschili, come avviene nelle società patriarcali. E poi è arrivato il
momento del riso in cui la donna diventa in qualche modo un agente attivo dell’azione; i due uomini danno colpa alla
donna tendenzialmente. In qualche modo il film si regge tutto quanto su questa scena primaria come direbbe Freud,
che era per lui la scena dei genitori che fanno sesso e ad un certo livello del film si svolge attorno a questa scena
primaria che è invece la rottura della coppia, dove vediamo l’elemento del bandito che irrompe, che è l’elemento
del desiderio. Il vero enigma in fondo è anche dove si collochi la donna in questo racconto; dove sia il piacere
femminile, il vero tabù è questa rappresentazione triangolare, la scena terribile di una coppia che si rompe dal fatto
che il partner femminile abbia un amplesso con qualcun altro davanti agli occhi del partner d’origine. Quindi in
qualche modo l’enigma del film e il vero tabù è proprio dove si collochi il desiderio femminile, se lei sia più o meno
complice del tradimento. È un film che rompe la possibilità di avere una lettura lineare e richiede una dimensione
interpretativa molto forte.
Altro: tra le altre opere prima di Rashomon ricordiamo “L’angelo ubriaco” del 1948, “Cane randagio” del ’49 e
dopo Rashomon “I sette samurai” del 1954 > in molti di questi è raccontata la storia di un uomo in caparbia lotta
contro i mali e le ingiustizie della società, i suoi eroi positivi, tuttavia, non sono dei personaggi piatti ma assai
complessi, il loro è un impulso quasi irrazionale. Il ruolo fondamentale che il personaggio assume nei suoi film fa, del
cinema di Kurosawa, uno dei vertici di quel cosiddetto “umanesimo” che contrassegna il cinema giapponese del
secondo dopoguerra ma lo mescola con uno stile più spettacolare. Si ispira al teatro No e Kabuki > dal primo prende
degli effetti di ieraticità, stilizzazione e narrazione ellittica, dal secondo prende toni picareschi ed effetti comico -
burleschi. I suoi film sono quasi tutti caratterizzati da un montaggio diseguale, dai raccordi a 180 gradi, le
frequenti giustapposizioni di primi piani e campi lunghi, alternanza di inquadrature statiche e altre piene di
movimento.
La nouvelle vague in Giappone: negli anni ’60 il Giappone conosce una scossa con una nuova generazione di cineasti
che sconvolgono i modi tradizionali della rappresentazione filmica, dando vita ad una Nouvelle Vague. A guidare il
movimento c’è Nagisa Oshima che in “Notte e nebbia del Giappone” del 1960 rappresenta in maniera disincantata le
contraddizioni del movimento studentesco del suo paese con una serie di estenuanti piani sequenza. Altri registi
come Shohei Imamura in “Intenzione omicida” lavorano sulla dimensione inattuale e l’inconscio dell’essere umano.
Il film “La donna di sabbia” di Kobo Abe affronta invece il tema dell’identità dell’individuo in una società dominata
dalle dinamiche di gruppo. Dopo la Nouvelle vague il Giappone tornerà in prima linea solo negli anni ’90.

La Nouvelle vague

Nel maggio del 1959 sono presentati al Festival di Cannes “I 400 colpi ” di Truffaut e “Hiroshima mon amour” di
Resnais, e da questa data per convenzione viene fatto iniziare il nuovo corso del cinema francese degli anni ’60. Si
sviluppa raccogliendo informazioni precedenti e non operando un taglio netto con il passato. Si creano subito due
fazioni opposte riguardo la nuova ondata del cinema: i fautori sottolineano l’aria diversa che arriva in Francia da
quelle storie attuali, dal quadro di inquietudine generazionale che emerge, dalla rottura attuata sul piano dello stile e
del modo di raccontare, i detrattori invece battono il tasto sull’estraneità ai fatti storici (guerra in Algeria), del
ripiegamento intimistico, del compiaciuto estetismo, della labilità culturale. Un richiamo storico è fatto
all’avanguardia del cinema francese degli anni ’20, se non altro al suo intervento evidente e radicale di sottrarre il
cinema alle imposizioni dell’apparato produttivo e allo sforzo di sondare le possibilità del cinema che si erano andate
perdendo. Seppur i registi di questo periodo offrono spunti e stili anche molto diversi, la maggior parte di questi registi
vuole mettere in scena un disagio generazionale, c’è un atteggiamento di reazione contro il cinema commerciale. Lo
stesso Truffaut lo criticherà caratterizzandolo con una professionalità, come preconfezione, senza rischi di
sperimentazione e parlerà dei registi del passato come funzionari della macchina da presa. Si cerca di offrire ora
prodotti a basso costo ecco perchè si lasciano i teatri di posa a favore degli ambienti naturali, si servono di piccole
troupes, i film si girano in bianco e nero. Molti registi cominciarono la loro carriera autoproducendosi, come lo stesso
Truffaut e molti usufruirono, chi prima e chi dopo, anche della legge del ’59 del ministro Malraux, che concedeva
anticipi su presentazione di una meritevole sceneggiatura di un film. I minori costi sono favoriti anche dall’uso di
attrezzature “leggere” che permettono riprese all’aperto, con minore illuminazione, e con la macchina da presa “in
spalla” senza l’ausilio di carrelli, altri preferiscono le attrezzature tradizionali, come Godard, ma con una diversa
organizzazione delle riprese, con semplificazione delle tecniche linguistiche e con l’ausilio di pellicole ultrasensibili,
che rendono possibili le riprese in esterno con luce naturale. A livello stilistico non si cerca più di offrire un cinema
unicamente realistico o unicamente spettacolare, ma si cerca di mescolare realismo e finzione, per “rivelare” il dato
fenomenico e non a riprodurlo. Per quanto riguarda la narrazione si cerca di sottrarsi alla concatenazione obbligata
degli eventi, facendo entrare nel racconto l’elemento casuale, attuando digressioni, accettando i tempi morti,
stimolando un “apertura” che chiami in causa lo spettatore. Non è però solo un momento di rottura col cinema
tradizionale, per un verso lo rifiuta, quando esso vuol dire predisposizione o regola, per un altro verso però si cerca di
riproporlo, di aggiornarne l’efficacia. Scegliere un modo di fare cinema vuol dire anche porsi di fronte al cinema
precedente conoscendolo, cercarne dei modelli. Ecco perchè tutti gli esponenti critici di Cahiers du Cinema erano
stati prima critici e poi solo in un secondo momento registi, il lavoro critico è stato per questi artisti un
anticipazione, la prefigurazione di un cinema possibile.

“Cléo de 5 à 7” (“Cléo dalle 5 alle 7”) è un film in relazione a tutto il concetto di Nouvelle Vague francese ma anche
ad aspetti fondamentali: La prima riguarda il concetto di CINEMA MODERNO. Cléo dalle 5 alle 7 è anche un film
diretto da una regista donna, Agnes Varda. Il terzo elemento rilevante è che tutto sommato, l’idea delle donne che
potessero dirigere dei film era un’idea che ancora negli anni’60 era inusuale; ed è interessante perché il film stesso è
una riflessione sulla soggettività e sull’identità; il film è anche tutta una riflessione sulla caducità dell’esistenza,
sulla morte che incombe su di noi e sul fatto che, ciò nonostante, bisogna guardare la vita con leggerezza. 

La Nouvelle vague si può definire anche come “cinema delle donne”, uno dei due film più famosi è “I 400 colpi ” di
François Truffaut, film sul racconto di un’infanzia ribelle di Antoine Doinel, una specie di alter ego del regista
perché anche Truffaut era stato un bambino sregolato e ribelle prima di diventare un critico dei “Cahiers du cinéma”
> gruppo di autori cresciuti come critici negli anni precedenti alla nuova onda. Truffaut aveva avuto una vita
complicata, finché non era stato preso sotto l’ala protettiva di André Bazin, critico famoso che inizia a collaborare
anche lui con Cahiers du cinéma e quindi Truffaut esordisce, poi nel ’59 con “I 400 colpi” (“Les Quatre Cents Coups” )
= espressione tipica francese che significa “fare il diavolo a quattro”. Truffaut è forse il più duttile di tutti gli artisti
del periodo, con
una grossa alternanza di toni e forme diverse nei suoi lavori, pur aprendosi all’improvvisazione resta legato alla
concatenazione di personaggi e fatti, mescolando al meglio tradizione e modernità. Manifesta la sua concezione del
cinema come globalità, che mette insieme aspetti e forme diverse. Egli descrive spesso l’itinerario di un personaggio,
un suo percorso esistenziale, soprattutto nel tempo storico dell’infanzia sentita come stagione che si attraversa tra
dolcezza, costrizione e fuga. Il suo polo di scontro è l’esistenza regolata, predisposta > la vita sta nel disadattamento o
nell’integrazione. Infanzia, memoria e desiderio come tensione verso l’altro si affermano come leggi portanti del
suo mondo cinematografico. Truffaut è soltanto uno, però, dei vari cineasti che alla fine degli anni ’50 rappresentano
appunto “Nouvelle vague” che significa letteralmente “nuova onda”, un’ondata polemica di rinnovamento del
cinema francese. La tempistica in senso stretto della Nouvelle vague vede, in realtà, prima l’esordio dei primi due
film di Claude Chabrol, un altro dei grandi autori della Nouvelle vague. Sono due film che Chabrol gira nel ’57-’58 “Le
beau Serge” e “Les cousins” che escono uno dopo l’altro all’inizio del ’59. In primavera viene presentato in concorso
al Festival di Cannes “I 400 colpi”, dove viene presentato fuori concorso anche “Hiroshima mon amour” che è un altro
dei grandi capolavori della Nouvelle vague.

Nel ’60 abbiamo poi “À bout de souffle” (“Fino all’ultimo respiro”) di Jean-Luc Godard, forse è il titolo cardine,
insieme a “I 400 colpi” della Nouvelle vague. Godard è forse il più radicale tra i registi esordienti degli anni ’60,
propone una sorta di riscoperta o rifondazione del linguaggio cinematografico. Per Godard conoscere il passato
cinematografico e linguistico cinematografico vuol dire attentare alle sicurezze provocate dall’abitudine nello
spettatore e ridargli un nuovo sguardo. Il suo sforzo è quello di riprendere nella loro originalità elementi competitivi
del linguaggio, immagini, suoni e musica e i loro rapporti. Bisogna rompere con la consequenzialità. In questo suo film,
che diviene una sorta di manifesto, vi si legge una concezione dell’avventura come dimensione esistenziale, il ritratto
di un disordine generazionale, di una vocazione al nichilismo. Anche in seguito mostrerà la sua preferenza per
personaggi emblematici come in “una donna sposata” o per temi sociologici come in “due o tre cose che so di lei” >
ad essere originale è il modo di ribaltamento delle forme, i personaggi intesi come entità psicologiche che tendono a
scomparire. Anche in “il disprezzo” organizzato su base del racconto di Moravia, ci sono riferimenti esistenziali: ci
sono mostrati elementi accidentali, frammentari, particolari messi assieme da un montaggio evidente che rende “non
naturale” la visione. Si coglie l’istante, il non necessario, il provvisorio, c’è attenzione per le digressioni del racconto.
Verità e finzione, cinema diretto e affabulazione perdono i loro confini netti, cinema e letteratura si mescolano con
una tecnica da collage. Egli è definito “l’anima critica” della Nouvelle vague.

Questo è un cinema fatto da persone che sono già dei critici, per cui si lamentano di una qualità assolutamente
stagnante e tradizionale del cinema francese di quegli anni. Era percepito come un cinema di un’altra generazione,
che non esprimeva più la visione del mondo delle persone che erano nate tra la fine degli anni ’20 e la metà
degli anni ’30, che sono poi gli autori della Nouvelle vague→per questo motivo viene chiamato “Le cinema du papa”,
cioè un cinema di un’altra generazione. C’è una ribellione verso le generazioni più vecchie. È una ribellione
generazionale che non riguarda soltanto i modi con cui si fa il cinema ma riguarda una sorta di presa di consapevolezza
politica, in particolare in relazione alla guerra d’Algeria, in cui quest’ultima si emancipa dal dominio coloniale
francese, fu un conflitto anche molto sanguinoso su cui c’è un film in italiano che è “La battaglia di Algeri” di Gillo
Pontecorvo del ’66, quindi un film un po’ successivo. È interessante perché in qualche modo è come se i grandi moti di
rinnovamento nelle cinematografie europee nel dopo guerra avvenissero sempre in concomitanza con una fase di
ribellione e di disillusione politica. La guerra d’Algeria è il primo momento in cui la Francia, soprattutto i giovani
francesi si rendono conto che la loro patria era non una forza neutra e positiva, che aveva trionfato contro i Nazisti
durante la Seconda guerra mondiale, ma sono costretti a prendere coscienza del fatto che la Francia è una brutale
forza di occupazione. È in dubbio che nel momento in cui vi è un risveglio politico, una nuova consapevolezza ci sia
anche un desiderio di guardare e di far guardare anche agli altri il mondo in un modo diverso, e quindi ci sia
un’innovazione dal punto di vista cinematografico. Ciò era successo anche agli italiani con il Neorealismo, che poi
può essere un movimento che noi critichiamo in qualche modo, il cui portato di innovazione può essere anche
ridimensionato, però, sicuramente è vero che gli italiani usciti dalla Seconda guerra mondiale, usciti dal ventennio
fascista rinnovano il loro modo di fare cinema.
Così, i francesi che non hanno avuto un simile rinnovamento dopo la Seconda guerra mondiale, proprio perché escono
dalla Seconda guerra mondiale con un’identità riconfermata. Invece, qualche anno dopo la guerra d’Algeria può
svolgere, in qualche modo questa funzione di rottura di una visione del mondo e quindi parte anche questa ondata
polemica che si era espressa fino a quel momento; fino al ’59 si era espressa perlopiù in carta, nel senso che
Truffaut, Rohmer, Chabrol, Godard scrivono dei saggi molto interessanti che sono anche a volte tra le prime
esperienze vere e proprie di analisi del film; sia Rohmer, Chabrol che Truffaut scrivono dei libri su Hitchcock, per
esempio.
È un periodo la Nouvelle vague che è abbastanza breve: va dal ’59 alla metà degli anni ’60. È un momento in cui
ciascuno di questi autori prende una strada diversa. Godard, ad esempio, inizierà a fare un cinema profondamente
politico in cui cerca di distruggere il discorso del piacere spettatoriale perché lui, invece, vuole che lo spettatore
pensi soltanto ideologicamente.

“À bout de souffle” di Godard con Jean-Paul Belmondo e Jean Seberg è un film mitico; “Hiroshima mon amour” è
invece uno sguardo alla problematica del rapporto interraziale con una serie di flashback tra il presene e il passato (il
passato della Francia occupata dai Nazisti negli anni ’40) e poi c’è il famosissimo “Jules e Jim” sempre di Truffaut, il
più famoso racconto di un triangolo della storia del cinema e con Jean Moreau, un attrice che è una delle interpreti
chiave della Nouvelle vague insieme a Jean-Paul Belmondo. Un altro film manifesto della Nouvelle vague è “Pierrot
le fou” (“Il bandito delle 11”). Soprattutto Godard è un regista che produce tantissimo in questi anni, è anche un
regista che, tra l’altro, racconta molto i personaggi femminili. L’influsso che questi film hanno avuto sulla storia del
cinema è
immenso, per esempio, la casa di produzione di Tarantino che si chiama “La A Band Apart” il cui titolo derviva
da “Bande à part” che è un altro dei film di Godard del ’64.

Caratteristiche della Nouvelle Vague


- A differenza di altri movimenti, si tratta perlopiù di persone che si conoscevano tra di loro e che si aiutavano gli uni
con gli altri (“À bout de souffle”, ad esempio è un film diretto da Godard ma scritto da Truffaut > molto amici fino
agli anni ’70 quando avranno un litigio pubblico). “Gruppo di amici” che giravano intorno alla rivista Cahiers du cinéma
diretta da Bazin fino alla sua morte che avviene nel ’57, quindi in qualche modo è come se anche una volta liberatisi
da una sorta di “padre buono” che era Bazin, i giovani critici iniziano a mettere in pratica il rinnovamento che
auspicavano. Venivano chiamati, all’epoca, a causa delle loro istanze ribelli giovani turchi.
- Realizzano sempre film molto personali, quasi sempre scritti dal regista stesso, legati all’esperienza personale
del regista e anche all’esperienza generazionale. Sono dei film in cui veramente si respira soprattutto la
possibilità di vivere la vita urbana che è piena di libertà e allegria anche se spesso sono film da contenuti
piuttosto gravi e melanconici; sicuramente, però quella che fotografano è una gioventù che vive la vita
liberamente e forse è anche uno dei primi momenti nella storia del cinema in cui viene fotografata (la gioventù).
Cléo non è uno dei film più adatti per mostrare questo, ma “À bout de souffle” e “Bande à part” sono sicuramente
dei film che raccontano questa vita urbana, giovane, alternativa, una vita un po’ bohèmian e sono spesso dei film
che sono delle serenate alla bellezza di Parigi;
- A livello dell’organizzazione e del modo di produzione è un modo di produzione autarchico; si parla di
autoproduzione→piccoli budget, pochi soldi, troupe leggere e in generale c’è un’idea di leggerezza.
L’apparato
produttivo nel cinema della Nouvelle vague è un apparato leggero perché quello che deve fare è essenzialmente
gettarsi nel flusso dell’esistenza;
- Il suono, è in presa diretta
- L’illuminazione è naturale
- Si favorisce anche un discorso di improvvisazione
- Libertà narrativa e stilistica > montaggio, inquadrature lunghe in piani sequenza
- Innovazione per la gestione del tempo

Questo è anche il cinema in cui emergono personalità di primissima grandezza come Alain Delon, però all’inizio sono
generalmente esordienti, sono volti nuovi e dal punto di vista degli interpreti, c’è un rinnovamento generazionale. C’è
tutta un’idea di freschezza, di novità e di libertà soprattutto. È un cinema a cui non interessa precostituire,
preorganizzare la messa in scena, è invece un cinema che vuole mettersi a diretto contatto con il reale, con il mondo
esterno. I registi della Nouvelle vague sono dei registi, per così dire, dell’ ”esistenza” che vogliono porsi in contatto
diretto con l’esistenza nel suo fluire. Non sono dei registi del controllo della messa in scena (come quello
dell’Espressionismo tedesco, che invece è completamente pensato prima di essere messo in scena o un film come
“Vertigine” di Otto Preminger che è un film frutto di un’istanza del controllo, un regista che vuole cogliere l’essenza
di una storia e vuole renderla il meglio possibile). Quindi possiamo dire che, ad un certo livello, esistono due scuole di
registi nell’intera storia del cinema: ci sono quelli che vogliono pensare tutto prima e quindi vogliono distillare la loro
visione al meglio delle immagini già pensate. Riflettono sullo storyboard, sul minimo dettaglio di come devono essere
organizzate le cose, quindi lavorano di più in studio, cercano di cogliere l’essenza di un’idea e di restituirla
nell’immagine Invece gli altri della Nouvelle vague fanno il contrario, hanno una posizione filosofica diversa che dice
“per capire qualcosa del mondo io non posso stare nella mia torre d’avorio a pensare e controllare tutto, devo
andarmi a buttare e vedere quello che succede, devo incontrarmi col fluire della vita, con l’esistenza”. E per questo li
possiamo chiamare i registi dell’esistenza. (es. Jean Renoir) Quindi sono registi che cercano di scoprire qualcosa sul
mondo e sul cinema senza avere dei preconcetti, quindi buttandosi, e cercano quindi di riflettere, a stretto contatto
con il loro ambiente abituale che è appunto la città, con libertà sulla libertà , e quindi su cosa significa realmente
essere liberi ed essere al mondo. Quindi , così come tematicamente, molto spesso, il tema di questi film è un
interrogativo esistenziale radicale, che quindi riguarda evidentemente la libertà.

Così ovviamente è necessario che la libertà sia anche un punto di vista stilistico, quindi c’è un montaggio molto
libero, ci sono in generale delle opzioni stilistiche che non considerano le regole del cinema classico poiché ciò che gli
interessa non è organizzare la messa in scena precisa e puntuale, ma è invece restituire un senso esistenziale, quindi
c’è un montaggio molto spesso veloce, ci sono delle inquadrature lunghissime. In generale c’è un’innovazione sulla
gestione del tempo e della temporalità. La Nouvelle Vogue francese ad un certo livello è anche un esempio per tutta
un’altra serie di cinema giovane di quegli anni, che sia un esempio diretto o sia semplicemente un’atmosfera che si
respirava negli anni ’60 (insieme agli anni ’20 sono uno dei decenni più vivaci e liberi e di maggiore sperimentazione
nella storia delle arti) e quindi abbiamo molti nuovi cinema, ad es. Roman Polanski, Milos Formane, Pier Paolo
Pasolini, Lina Wertmuller, Martin Scorsese e tanti altri. C’è un ondata di cinema nuovi e nuovi modi di pensare al
mondo e di guardare al filmato. La Nouvelle Vague è legata a doppio filo col concetto di modernità cinematografica.


Ci sono tre livelli di discorso quando si parla di MODERNO e MODERNITÀ:

1. Da un certo punto di vista c’è un discorso Storico-culturale: La storia Moderna inizia nel 1492, se invece si parla
di modernità si pensa a qualcosa di più recente (metà ‘800).

2. Definizione del moderno in relazione al campo artistico ed estetico, dato che il cinema è un’arte.
3. Definizione del moderno in ambito cinematografico.

il “Moderno” in senso storico- culturale può essere descritto con una definizione ontologica o sociologica: La
descrizione ontologica cerca di individuare la modernità e trovare la sua essenza in delle cose che sono successe
realmente, quindi in un’ontologia in una concretezza, “la modernità è quei cambiamenti che sono legati alle
innovazioni nella comprensione della struttura stessa del globo (scoperta dell’America), ma anche della
configurazione del cielo (Rivoluzione Copernicana), così come la Modernità è quel processo legato
all’industrializzazione (Rivoluzione Industriale), all’urbanizzazione (tema della città inizia ad emergere)”. Quindi
secondo questo ragionamento, se la modernità è questo, il cinema è moderno di per se stesso perché è un
dispositivo che nasce nel 1895 ed il 1895 è un momento della modernità.

Il cinema quindi è un dispositivo che globalmente è moderno , è un procedimento tecnico che è frutto delle
innovazioni tecnologiche della modernità, quindi della Rivoluzione Industriale, espansione del Capitalismo,
Industrializzazione ecc.., tra l’altro è un procedimento tecnico che viene utilizzato per produrre delle merci, perché
tutto sommato il cinema è fatto per guadagnare e quindi legato anche all’espansione del Capitalismo, indirizzate ad un
pubblico di massa. Quindi il cinema è Moderno perché è figlio della modernità in questo senso, probabilmente se non ci
fosse stato l’avanzamento tecnologico della modernità non si poteva fare cinema. Ovviamente una prospettiva di
questo genere è sicuramente giusta ma rischia anche di appiattire l’idea della modernità su quella del processo di
modernizzazione. Quindi modernità e modernizzazione bisogna far attenzione a distinguerli e saper usarli come
termini; in particolare modernizzazione forse è un termine più pacifico che ha a che vedere con l’innovazione
tecnologica e industriale, però non è soltanto questa la modernità anche perché l’uomo non è soltanto una creatura
che fa le cose ma anche una creatura che pensa. Quindi non si può ridurre il tutto ai processi materiali che
caratterizzano lo sviluppo economico-sociale, perché accanto a questo e alla circolazione di denaro, di beni, di
tecnologie esiste un altro piano che è quello del vissuto dell’essere umano. Tutto sommato si deve cercare di guardare
alla modernità in altri termini: stabilito che tutto quello detto in precedenza è vero ora bisogna capire in che modo è
cambiato il vissuto dell’uomo? come esso sta al mondo?

Per cui si può riflettere su cosa sia il moderno non più da un punto di vista prettamente sociologico o ontologico
(quindi cercare una base materiale di che cosa sia la modernità), ma anche su come cambiano nella modernità le
condizioni della conoscenza, del sapere (gnoseologia) delle modalità su cui cambia il mondo. È ovviamente difficile
dire come cambiano le condizioni della conoscenza e del sapere in un periodo così ampio come la modernità (che
possiamo far iniziare nel 1492 o nel 1650) , però secondo De Vincenti la modernità è l’età della riflessione
sull’evoluzione (parola che richiama Darwin): importante tassello della modernità. Quindi secondo De Vincenti la
modernità è l’età dell’evoluzione, del cambiamento, della rivoluzione e quindi c’è una metamorfosi. Però la
modernità è soprattutto l’età del dubbio e della crisi radicale riguardo tutto ciò che ci riguarda, sulla ragione stessa
dell’esperienza della ragione umana sulla terra. Quindi ad un certo livello se la modernità bisogna guardarla da
questo punto di vista epistemologico (modo di guardare il mondo), e quindi diventa l’età del dubbio, l’età di cui il
soggetto deve guardare a se stesso e al mondo per capire che nulla è dato per scontato. quand’è che l’arte diventa
veramente moderna? Diventa moderna quando fa in modo di riflettere su queste cose, sul cambiamento, sulla
metamorfosi e soprattutto sulla crisi, sulla frattura dell’individuo. Quindi l’arte, incluso il cinema, per essere
autenticamente moderna deve trovare delle forme espressive corrispondenti a questa dinamica di crisi. Le
forme espressive adeguate non includono il cinema classico, poiché esso ha quello stile invisibile che rilassa e non
mira a far riflettere sui modi in cui si racconta piuttosto ad intrattenere ed inglobare lo spettatore nella propria
visione del mondo. È un cinema che non vuole far vedere il proprio stile, è invisibile. Mentre invece il cinema
moderno è un cinema che vuole sempre riflettere su come si racconta, è un cinema autoconsapevole, riflette sempre
sulle modalità con cui si produce il racconto , su come si produce il senso, che inizia a decostruire l’idea di uno stile
invisibile e di una narrazione lineare. Inoltre c’è un importantissimo elemento di riflessione metalinguistica, il
cinema moderno si interroga sul mezzo cinematografico con modalità di elaborazione del senso. Cinema moderno è
un cinema decostruttivo. Il cinema moderno attua un montaggio che non segue nulla di lineare anzi appare quasi
insensato, lo stile non è invisibile ma deve essere visto perché lo spettatore deve riflettere sui modi di messa in
scena.

È evidente che alcuni di questi elementi sono già stati presenti in altro per esempio Rashomon (Akira Kurosawa) ha
chiaramente una qualità ampiamente decostruttiva, però qui questo discorso non è più tanto un discorso su un autore
singolo, ma diventa una pratica generalizzata, uno stile comune. Il cinema moderno vero e proprio poi non ha soltanto
questa istanza metalinguistica, ma anche un tentativo di recuperare la vocazione originale dell’elemento
cinematografico, come quella dei fratelli Lumière cioè di raccontare il mondo (cosa che in Kurosawa non c’è, ma
c’è tanta allegoria). Quindi il cinema dei cineasti moderni è un cinema sì metalinguistico ma anche un cinema che si
confronta con la realtà completa, va a girare nelle strade di Parigi in cerca di recuperare l’aspetto riproduttivo del
mezzo, riproduttivo significa che cerca “un certo tipo di verità” , la sensazione di essere immersi concretamente in
un mondo vero. Il cinema moderno riflette sulla presenza e sulle dinamiche dell’esperienza. Quindi i due aspetti del
moderno sono questi, una spinta a riscoprire l’aspetto riproduttivo del mezzo e anche però sempre riflettere su questa
cosa, non illudersi che si possa andare nelle strade e ritrovare la verità del mondo, bisogna sempre tenere presente
che dietro la macchina da presa stiamo esercitando un sguardo e ci sono tanti sguardi. Questi due aspetti , il
recupero dell’aspetto riproduttivo e la riflessione metalinguistica, sono sempre presenti insieme.

Cléo dalle 5 alle 7

il film spiega bene questi due aspetti del moderno: da una parte c’è un evidente riflessione metalinguistica, e si vede
ad esempio nel momento in cui Cléo sta scendendo le scale dopo essere stata dalla lettrice dei tarocchi e
improvvisamente l’immagine di lei che scende dalle scale è ripetuta tre volte, in modo totalmente arbitrario per dare
anche l’idea, forse, di una sua angoscia esistenziale (ma non è per forza chiarissimo e non è neanche per forza così
necessario capire al millimetro che cosa significa). L’importante non è mettere a parole quello che questo
esperimento registico significa, quanto la sensazione che ci dà che è sicuramente una sensazione di spaesamento e
interrompendo il fluire normale del film ci fa porre l’attenzione alla costruzione del metodo cinematografico. E così,
diciamo che la macchina da presa è molto presente, è un’istanza che si fa molto sentire in questo film. Prima
dell’intensissimo canto di Cléo quando la vedova (sua dama di compagnia) si mette a sedere sull’altalena e la
macchina da presa inizia ad andare in altalena anch’essa è un esempio di quei momenti in cui lo stile è
incredibilmente marcato, uno forse può fare meno attenzione ad altre emergenze dello stile, questi due momenti
sono abbastanza evidenti, lo stacco di montaggio ripetuto o l’altalena nella macchina da presa sono delle marche
stilistiche talmente evidenti che non possono fare altro che attirare l’attenzione su di sé e quindi a farci pensare alla
messa in scena e allo stile. D’altra parte anche nella scena del caffè, subito dopo la prima scena quando lei poi è
uscita dalla chiromante, è una scena con delle inquadrature molto sostenute, non è un piano sequenza, però le scene
sono molto lunghe. Nel film abbiamo anche l’altra colonna, cioè l’aspetto riproduttivo, sentiamo di essere immersi
in una realtà che non è organizzata apposta, ma che è la realtà concreta di un bar di Parigi→ la macchina da presa è
messa abbastanza lontana e non sempre ci sono delle inquadrature riavvicinate di Cléo e Angél (dama di compagnia)
ma poi ci sono delle inquadrature, invece, in cui la macchina da presa è più dietro e c’è nel bar gente che va e viene
che non è in campo perché a volte sembra anche del tutto inconsapevole della presenza registica.
Quindi, riflessione metalinguistica e recupero dell’aspetto riproduttivo sicuramente ci sono tutti e due; sicuramente il
film oltre ad essere un film della Nouvelle vague è anche un film moderno e diciamo che la Nouvelle vague in generale
è “IL” movimento che trasforma il cinema moderno nella corrente principale della storia del cinema in quel momento.

Naturalmente così come il cinema classico anche il cinema moderno vanno valutati sempre anche come delle istanze
metastoriche, cioè una volta che sono stati inventati questi stili (stile classico è rigorosamente narrativo, stile moderno
è uno stile decostruttivo) saranno sempre delle opzioni stilistiche a disposizione di chi fa i film. Quindi un regista che
vuole separare un film oggi potrebbe decidere di fare un film completamente classico o moderno. Possiamo però dire
che negli anni ’60 il cinema moderno è una modalità dominate. A proposito dell’istanza dell’aspetto riproduttivo non è
soltanto nel bar che si vede, anzi, ancora di più si vede proprio nel rapporto con lo spazio urbano. Il film è
sostanzialmente un’insistita riflessione sulle modalità di attraversamento e di sguardo dello spazio urbano. Cléo
esce dalla casetta della chiromante e arriva al bar ripresa con un teleobiettivo abbastanza da lontano in modo tale da
essere immersa nel contesto in cui cammina e quindi vediamo questa città viva, brulicante, una Parigi che è
chiaramente ripresa dal vero; ma non c’è soltanto la Parigi vista a piedi, anzi, a maggior ragione forse ancora di più il
modo di guardare, un modo di guardare ancora più moderno che è quello dal taxi guidato, tra l’altro, da una donna.
Quindi istanza metalinguistica e istanza riproduttiva sono presenti tutti e due. Però cerchiamo di andare con ordine.

PARENTESI CINEMA DELLE DONNE: Nel cinema muto, in realtà, già c’erano state molte registe donne ma era ancora
un’industria nascente per cui non c’erano tanti soldi, non c’era un’organizzazione industriale rigorosa, per cui era più
facile magari che delle imprese di stampo familiare potessero affidare ruoli di rilievo ad altri. Con il cinema classico
le registe donne del cinema hollywoodiano sono soltanto due: Dorothy Arzner e Ida Lupino. Quindi diciamo era una
rarità la regia femminile ed è una rarità anche nella Nouvelle vague. Agnès Varda è l’unica regista donna della
Nouvelle vague. Ha esordito nel ’56 con il film “La Pointe Courte” che la rende famosa > non è soltanto un perfetto
esempio di cinema moderno, di riflessione metalinguistica coniugata all’istanza riproduttiva, ma è anche una
riflessione su una traiettoria femminile. È un approccio femminista perché pensa in maniera ipotetica alla
collocazione della donna nella società.

Il film si divide abbastanza bene in due parti proprio perché c’è un momento in cui Cléo è ancora vittima della
concezione di se stessa, poi è come si liberasse e iniziasse ad incamminarsi verso la riscoperta di se stessa. Quindi è
una traiettoria di liberazione perché si sente ingabbiata e il gesto simbolico che fa è quello di togliersi l’eccesso
→togliersi la parrucca, in genere, è il gesto più chiaro in cui si vuole segnalare che la donna sta uscendo dalla logica
della performance, la logica dell’apparire. Dell’apparire perché in questa prima parte del film Cleo non fa altro che
specchiarsi e quindi una parte essenziale della sua identità passa attraverso questo guardare la sua bellezza allo
specchio. Dopo quel momento di smarrimento, arriva nell’androne del palazzo e si guarda allo specchio e poi
continuerà a specchiarsi. Quindi la traiettoria di Cléo all’inizio è tutta quanta segnata da questa necessità di
specchiarsi, potremmo definirla banalmente “personalità narcisistica”. Questo discorso della vanità è evidente anche
nel negozio di caffè, in cui abbiamo una commistione di questo narcisismo con l’aspetto riproduttivo del cinema
moderno. Ad un certo punto Varda riprende Cleo che prova il cappello ma dall’esterno usando come filtro la vetrina. In
qualche modo Cleo, anziché essere in rapporto con l’esterno che è un esterno presente è invece chiusa nella sua
personalità narcisistica.
L’altra cosa che bisogna tenere in conto è il TEMPO→ il film è scandito continuamente da piccoli capitoli. La
riflessione sul tempo e sul trascorrere del tempo è una delle caratteristiche principali del cinema moderno. Il
tempo
non è dato più per scontato, infatti non c’è un ritmo veloce ma è scandito molto lentamente proprio perché l’idea
deve essere che è un cinema che restituisce tutte le sfaccettature dell’esperienza e della presenza che sono faccende
spaziali e temporali. Quindi il tempo è inteso come durata. Naturalmente qui il tempo è anche legato a questa morte
che forse sta per incombere su di lei. E quindi l’idea del tempo è legata a quella della morte che incombe ed è ciò
che fa scaturire in Cléo una necessità di ribellione. Lei è arrivata in un borgo ma sembra poi inserita tutto sommato
in un sistema (ha la dama di compagnia, ha un fidanzato) ed è tutto sommato un incontro co il tempo che forse sta per
finire che fa scattare in lei una ribellione. Ultimo elemento è la presenza della superstizione.
FELLINI: LA DOLCE VITA, 8 E MEZZO

Paragoni con Cléo dalle 5 alle 7: Essendo sempre nel campo della modernità cinematografica potremmo utilizzare il
film di Varda per individuare alcune questioni che poi ritroveremo amplificate moltissimo, fino all’ipertrofia, nel
cinema di Fellini. D’altra parte i due film sono, diciamo, dello stesso periodo: ’61 e ’63. Il film di Varda è un film
moderno, autoriale proprio perché, in qualche modo, più che raccontare una storia in senso stretto è la messa in
forma/presenza anziché la messa in scena di un personaggio. Quindi c’è un personaggio alla ricerca di una storia, più
che esserci una storia c’è appunto il personaggio che cammina, che vaga, che realmente scopre delle cose di se stesso
quindi c’è una traiettoria, però è soprattutto, appunto, il personaggio che viene mostrato, viene messo al centro a
scapito dell’intreccio. I personaggi, in particolare Cléo, ovviamente ma poi anche Antoine, nella seconda parte,
vengono esibiti da Agnès Varda a scapito dell’intreccio, dell’azione e quindi il racconto è quello di una presa di
coscienza di Cléo che da una posizione di oggetto dominata da delle dinamiche narcisistiche in cui anche lei per avere
fiducia in se stessa può contare solamente sulla propria bellezza, sul proprio essere ‘un oggetto del desiderio’, una
donna bella, piano piano inizia invece ad accostare un altro punto di vista su se stessa, una sicurezza diversa, proprio
tramite un processo poi di allontanamento da se stessa, di uscita da sé, camminando per le strade di Parigi. Questa
forma della passeggiata o della balade è una delle forme tipiche del cinema moderno e appunto questi film sono
essenzialmente delle passeggiate anziché essere veramente degli intrecci costruiti bene. È molto diverso camminare
per la strada con uno scopo (come facevano i personaggi del cinema classico) o camminarci invece così, per curiosità o
anche per disperazione ma insomma comunque aperti a prendere su di sé gli stimoli dell’esterno. Quando Cléo è
appena uscita di casa, lei incontra vari personaggi che guardano in macchina perché probabilmente non sono persone,
non sono attori, quindi sono semplicemente curiosi di vedere Agnès Varda che riprende e avvolte poi queste figure
sono frammentate da inquadrature di personaggi precedenti della storia come la dama di compagnia e così via...e
quindi, invece, possiamo definire che ci sono chiaramente delle immagini mentali di Cléo, quindi il film da una parte
è un’indagine anche abbastanza oggettiva; l’immagine spesso si riempie delle riprese dal vero di Parigi che contano
molto, sono essenziali all’economia narrativa mai stilistica della storia però contemporaneamente è anche già la messa
in scena di un mondo interiore e questo è fondamentale per poi vedere Fellini perché Fellini assolutizza quest’idea
della messa in scena dell’interiorità.

Quindi nel film di Agnès Varda ci sono anche una serie di immagini mentali e anche c’è un altro elemento a cui non
abbiamo ancora prestato attenzione, ovvero quel “film nel film”, ed è interessante perché in quel film appaiono Jean-
Luc Godard (uno dei più importanti registi della nouvelle vague, Anna Karina che era la sua musa, all’epoca sua
moglie, prima di divorziare in modo molto burrascoso, e quindi è uno dei massimi esempi di questo gruppo di amici che
lavora insieme, i cineasti della nouvelle vague sono mostrati anche come un gruppo che si diverte > è un film in cui
tutto cambia a seconda di quali occhiali si mette il protagonista che poi, tra l’altro, é Godard per l’appunto. Quindi
c’è quest’idea dello sguardo del personaggio che apre anche lo sguardo del regista e che cambiano. Lui mette gli
occhiali neri, la sua amata tra l’altro è bicolore e poi va tutto male, invece mette gli occhiali bianchi e va tutto
apposto. È una riflessione anche ionica sulla soggettività del punto di vista e quindi su come ogni film della modernità
cinematografica non è che il frutto di un punto di vista soggettivo che è il punto di vista dell’autore e quindi, tra
l’altro, è ovviamente un film muto e quindi si rifà anche un po’ agli stilemi del cinema muto. Qui mostra anche come i
cineasti della nouvelle vague, sia la prima generazione di registi/e (l’unica donna in realtà è Agnès Varda) molto
cinefili, conoscevano la storia del cinema e la usavano in modo consapevole e quindi qui abbiamo proprio in questo
breve film, così anche ironico appunto, quell’elemento che dicevamo essere uno degli elementi fondanti del cinema
moderno che è la finta auto riflessiva metalinguistica, quindi a riflettere sui modi stesso della messa in scena e
anche questo è un elemento che Fellini porterà al massimo livello, quindi poi il cammino di Cléo, essenzialmente, sarà
quello di impadronirsi di una visione diversa di sé stessa e anche una concezione diversa del tempo. Non è un caso che
proprio nel momento in cui, soltanto nel momento in cui lei dice “abbiamo tutto il tempo del mondo”, quindi sente
interiormente, grazie alla presenza dell’altro di poter sconfiggere questo tempo che ticchetta implacabile, poi in
realtà, arriva la soluzione del dottore, quasi come un premio. Per far arrivare la protagonista a una conclusione
bisognava che lei cambiasse prospettiva, uscisse da una serie di falsi bisogni/ immagini di se stessa, da una concezione
del tempo come opprimente e drammatico: lei doveva entrare in contatto con una posizione più autentica e rendersi
conto che anche di fronte alla tragedia, alla possibile eventualità di una malattia, della morte, può resistere ancora,
quindi è un passaggio di un personaggio che va da ‘essere dominato dalle immagini, dal proprio riflesso, dal
narcisismo, dalla vanità’ a qualcuno che dice “io sussisto lo stesso anche se devo fare la chemioterapia, devo
cambiare aspetto”, quindi è un passaggio da un personaggio superficiale a uno più profondo.

Fellini

Egli racconta una traiettoria sullo stesso asse però vedremo che il suo discorso, appunto, su tutti questi punti (sul
percorso di un personaggio, il suo rapporto con il cinema, quindi l’elemento autoriflessivo, il fare il cinema, il rapporto
quindi tra regista e personaggio e anche l’idea del cinema come possibilità di mettere in scena i fantasmi interiori, la
vita psichica) li prende e li estremizza al punto tale che poi non è più possibile per lui compiere evidentemente un
processo in cui il personaggio raggiunge un risultato positivo comunque acquisisce una nuova consapevolezza di se
oppure no. Già quello di Cléo non era un percorso semplice ma quello di Guido Anselmi, il regista-protagonista di 8 e
1/2 è un percorso incredibilmente tortuoso.
I primi anni ‘60 sono appunto il periodo in cui Fellini viene definitamente consacrato come uno dei massimi autori del
cinema italiano con “La dolce vita” nel 60 e “8e 1/2” nel 63, però è un periodo questo in cui è l’intero cinema
italiano a vivere un’età d’oro. Dopo gli anni del neorealismo, negli anni ‘50 il cinema italiano fu un po’ stagnate, negli
anni ’60 si ha invece un boom autoriale oltre che economico e ci sono soprattutto i film di Fellini, c’era il periodo della
maturità artistica di Antonioni, Luchino Visconti, Il Gattopardo e poi ci sono tutta una serie di esordi illustri di registi
che poi hanno continuato a lavorare per tanto tempo: Bertolucci, Bellocchio, I fratelli Taviani e anche Pier Paolo
Pasolini. Fellini ha sempre un posto d’onore tra questi perché è un personaggio che appunto, più degli altri, forse poi è
sintomatico, con questi due film compie proprio una traiettoria esemplare e in qualche modo Fellini si propone allo
stesso tempo, non è soltanto un regista demiurgo, il regista del controllo massimo della narrazione, ma anche un
po’ un regista come mago e soprattutto opera una transizione. “La dolce vita” è un film che parla del mondo, già
mette in scena una visione molto soggettiva e una serie di problematiche anche psichiche, quindi è già un racconto di
una soggettività in crisi però è ancora un racconto molto legato al mondo esterno che è la Roma della fine degli
anni’50, la Roma della modernizzazione, la Roma della Hollywood sul Tevere perché tutti i produttori americani
venivano a lavorare in Italia grazie a delle leggi fiscali molto convenienti e quindi è un film ancora molto legato, se
vogliamo, ad una messa in scena della società e non soltanto del soggetto. È un film che gioca su questi due poli: il
soggetto e la società. È un film che tra l’altro, mischia in maniera molto significativa le riprese in esterno ideali e le
riprese a Cinecittà, in particolare la famosissima Via Veneto, che è uno dei più importanti luoghi della Dolce Vita che
è in realtà un set ricostruito a teatro 5 di Cinecittà e quindi in qualche modo Fellini ancora sente l’eredità di quel
cinema di teatro dal vero che è il neorealismo anche se lo prende e lo rivolta perché non gli interessa un discorso sul
reale ma un discorso su tutti i cambiamenti che la società italiana stava affrontando legati alla
modernizzazione, quindi una società che non era pronta ad un certo livello alla modernizzazione, alla modernità e
che ci si ritrova invece a capofitto e quindi la Roma della “Dolce Vita” sembra lontana anni luce dalla Roma di
“Città Aperta”, in generale da quella del dopoguerra.

Il film racconta anche la crisi soggettiva del protagonista Marcello che è un giornalista di cronache mondane e ha delle
aspirazioni un po’ più alte: vorrebbe fare lo scrittore e il film infondo racconta dei suoi tentativi di capire cosa fare di
se stesso. É evidentemente un film che va visto con gli occhi contemporanei, sulla stessa linea d’onda de ‘La grande
bellezza’ eppure sono due film anche diversi perché ad un certo livello è come se Sorrentino credesse nella possibilità
del suo personaggio, che è anche più vecchio, di riprendere in mano la propria vita, invece Fellini palesemente mette
in scena un personaggio che come tutti i personaggi del cinema moderno è veramente e profondamente in crisi,
caratterizzato da un’impossibilità di agire. Mastroianni in questo film è un personaggio interessantissimo perché da
una parte è il latin lover seduttore, dall’altra però in realtà, è un inetto che non riesce a fare niente, non porta mai a
casa un risultato, non domina mai la situazione, quindi ‘La dolce vita‘ è un film che ha anche una sua dimensione
epica, potremmo dire, perché descrive un mondo grande. L’epica è sempre la descrizione di un universo, di un mondo,
nella sua totalità però l’epica della ‘dolce vita’ è un’epica moderna perché è un’epica in realtà priva di un eroe, in cui
l’eroe invece di essere un eroe è un inetto, è uno spettatore soprattutto. Marcello Mastroianni nella ‘dolce vita’ è un
personaggio - spettatore. Tantissime volte viene mostrato nell’arco del film non come colui che dirige, che fa, ma
come colui che guarda e anche nel suo rapporto con le donne tendenzialmente sono sempre loro a prendere
l’iniziativa, non é mai liberamente in controllo della situazione. Nella famosa scena della Fontana di Trevi in cui Anita
Ekberg, un donnone gigantesco, uno degli archetipi femminili di Fellini, fa il bagno nella Fontana di Trevi. Anche lì,
quella scena è rimasta ormai famosa e si è completamente staccata nel suo significato dal resto del film: non é che un
altro esempio di come il personaggio di Marcello non riesca mai veramente appunto a entrare in contatto con i
personaggi femminili in una posizione di controllo e di dominio, ne è sempre più che altro sopraffatto.
‘La dolce vita’ è un percorso esistenziale, che è un percorso tendenzialmente anche di caduta, è una discesa agli
inferi, una serie di stazioni, è un po’ una sorta di Divina Commedia ma solo con l’inferno. Ad ogni modo è un percorso
soggettivo di caduta, di crisi, però è ancora un percorso appunto, molto legato alla messa in scena di una realtà
sociale e sociologica che è quella di questa Roma sempre più dominata dalle dinamiche del mondo dello spettacolo,
quindi della cosiddetta ‘società dello spettacolo’ come poi la chiamerà Guy Debord in un suo famoso libro del 1968
‘L’analisi delle dinamiche della società dello spettacolo’, una società in cui siamo pienamente immersi noi oggi, in cui
l’immagine, l’apparenza vale molto di più che la realtà delle cose.

Prima di realizzare 8 e 1/2 partecipa ad un film collettivo nel ‘62 che si chiama “Boccaccio ‘70” in cui dirige un
episodio che si chiama ‘Le tentazioni del signor Antonio’ che é la storia di questo impiegato interpretato da Peppino
De Filippo tra l’altro, che diventa ossessionato da un manifesto gigantesco della stessa Anita Ekberg che fa la
pubblicità del latte (essendo una donna dalle forme generose) e quindi questo gigantesco manifesto che sta fuori dalla
sua finestra diventa per lui prima la causa di uno sdegno perché dice ‘questa è una pubblicità immorale’ e poi
ovviamente lui è ossessionato da questa figura perché ne è attratto finché Anita Ekberg non scende dal manifesto, e
inizia a perseguitarlo per le strade dell’EUR dove lui abita. Rappresenta proprio il momento tra la ‘dolce vita’ e ‘8 e
1/2’ in cui Fellini da una messa in scena della realtà verosimile passa proprio nettamente nell’universo del
simbolico, della fantasia. È chiaro che Anita Ekberg non può scendere da un manifesto e grande vari metri, inseguire
Peppino De Filippo, quindi si scavalca definitivamente la verosimiglianza a favore del mondo fantastico onirico.
8 e 1/2 è un film tutto incentrato su questo problema perché è un film in cui continuamente si va avanti e indietro tra
realtà, ricordo, fantasia, sogno a occhi aperti, film, quindi i confini tra i diversi statuti delle immagini non sono
marcati chiaramente e quindi tutto viene a unirsi, a mescolarsi, senza soluzione di continuità. 8 e 1/2 è un film che
racconta di un regista, quindi è un film assolutamente autoriflessivo. Questo Guido Anselmi che è chiaramente un
alter ego di Federico Fellini, sempre mediato da Marcello Mastroianni, quindi c’è questa specie di triangolazione tra
attore, personaggio e regista. Guido Anselmi nel film deve dirigere un film ma non si capisce mai bene se questo film
che deve dirigere sia un film di fantascienza perché lui ha fatto costruire un’astronave, o sia invece un film su se
stesso, autobiografico. A un certo punto in una scena dei provini, è chiaro che lui ha fatto dei provini a una serie di
attrici che corrispondono a delle donne della sua vita quindi non è molto chiaro come questo possa conciliarsi con un
film sugli alieni e quindi da quel momento non si capisce più nulla. In realtà questo non è esatto perché seguendo il
film é abbastanza facile capire quando si tratta della realtà e quando si tratta del sogno o del ricordo ma lo capiamo
dal punto di vista narrativo perché invece dal punto di vista dello stile il film è omogeneo, cioè tutto è girato con lo
stesso stile. È uno stile caratterizzato da profondità di campo, un’illuminazione molto espressiva chiaroscurata,
ma anche in generale un bianco e nero bello espressivo e da movimenti di macchina molto ampi. È sempre così.
anche la realtà è rappresentata come un sogno, non c ‘è una distinzione netta. A un certo punto, i produttori appena il
film era uscito, distribuirono delle copie in cui alcuni parti del sogno erano virate in seppia oppure virate in blu per
cercare di aiutare il pubblico ma poi si resero conto (a parte che Fellini non era d’accordo) che non era necessario
perché il nocciolo stesso del film era l’idea che queste dimensioni fossero indistinguibili.

Il film sembra immediatamente incominciare con un elemento molto reale ovvero l’ingorgo in autostrada che invece
si rivela uno spazio onirico. Quindi si inizia già nel segno del sogno. Evidentemente è un sogno che già ci dice molte
cose della traiettoria del protagonista perché è un sogno di intrappolamento e l’intero film racconta sostanzialmente
di questo regista che è in una fase di crisi creativa acutissima e che quindi si sente pressato, intrappolato in questa
macchina produttiva senza avere nessuna idea di che cosa mettere in scena, raccontare, di cosa far fare al cast e alla
crew. Tutti quanti lo pressano perché vogliono da lui questa capacità di costruire e di creare e invece il personaggio di
Guido è in una crisi radicale quindi si sente completamente intrappolato, poi è chiaro che questa dimensione di
intrappolamento e i tentativi di fuga non riguardano soltanto l’ aspetto professionale ma riguardano anche la
dimensione personale infatti come vedremo, Guido ha una bella moglie ma anche un’amante. Sono due tipi di donna
completamente diversi. La moglie è una donna moderna, intellettuale, colta, magra, un po’ sul modello di Audrey
Hepburn, e l’attrice che la interpreta era francese: Anouk Aimée (abbastanza famosa all’epoca) e invece poi di là
quest’amante più sul modello della maggiorata, é Sandra Milo, che è un modello di femminilità completamente
diverso, un po’ volgare e si trova preso fra questi due fuochi e in generale incapace di impegnarsi in qualsiasi senso,
sia con la moglie che con l’amante sembra volerle compiacere ma contemporaneamente volerne fuggire e quindi si
ritrova nella stessa dinamica di fuga che caratterizza la sua vita professionale e infatti quello che vedete nel
sogno é lui intrappolato in macchina e poi viene riportato giù dalla corda del produttore e del suo addetto associato in
un tentativo proprio di fuggire radicale, di fuggire sulle nuvole.

Avete anche notato come in questa prima sequenza tutta la messa in scena è votata all’attesa del primo piano del
protagonista, non si vede il volto di Mastroianni fino a che lui non si trova da solo a guardarsi allo specchio e quindi
proprio si costruisce già l’identità, la complessità dell’identità del protagonista come il vero oggetto del desiderio
degli spettatori e come l’oggetto che costruisce l’orizzonte di attesa del film: é lì che dobbiamo andare a parare, è
l’investigazione della sua identità il vero oggetto in questione. Come ha detto lui qui, ha rimandato le riprese del film
di due settimane e si sta facendo una cura termale in questo stabilimento balneare, si presuppone in Emilia Romagna,
sulla costa adriatica. per chi conosce Sorrentino, così come ‘La dolce vita’ corrisponde ‘La grande bellezza’, a ‘8 e
1/2’ corrisponde ‘Youth’ che è un film di Sorrentino interamente realizzato in una spa in Svizzera. Il film quindi si
svolge tutto in questa specie di tempo sospeso in cui tutti sono in attesa dell’inizio di queste riprese perché il
personaggio di Guido è una dimensione che assume dei connotati sempre più angosciosi, la cosa interessante qui è
anche il modo in cui dal sogno si passa a quello che evidentemente è un risveglio della vita reale.
All'inizio sembra chiaramente uno spazio mentale, però poi come è possibile vedere dal film iniziano a comparire dei
personaggi che lui incontra nella vita reale, come Mezzabotta che è un suo amico e comparirà in tutto il resto del film,
quindi è chiaro che lui lo sta incontrando nella vita vera e così quel critico, assolutamente insopportabile, a cui lui ha
chiesto aiuto per farsi quasi convincere che non deve fare nulla. Il modo in cui è messo in scena questo spazio,
palesemente non ha nulla di realistico e di naturalistico e questa è una delle caratteristiche più importanti del cinema di
Fellini, in particolare di questo film. L'idea di questi spazi-mondo sono configurati coreograficamente, ciò vuol dire che gli
attori si muovono nello spazio come se facessero un balletto e pure questo a un certo livello è uno spazio che non è per
forza uno spazio di finzione, è uno spazio a confine, forse nella prima parte della sequenza è uno spazio di finzione per la
sua immaginazione e poi dopo diventa uno spazio referenziale, cioè che ha un rapporto con un referente reale, del mondo
vero. Comunque l'essenziale è che qui i personaggi si muovono come se volessero creare delle simmetrie, dei balletti, delle
coreografie. L'idea dello spazio configurato coreograficamente è un aspetto essenziale del cinema di Fellini e di 8 1/2. La
prima parte della sequenza sicuramente è uno spazio mentale perché compare Claudia Cardinale, questo personaggio
angelicato che è un'altra delle manifestazioni della femminilità dove lei rappresenta un po' la diva idealizzata con cui lui
non vuole neanche avere alcun tipo di rapporto carnale perché è una sorta di eterno femminino assolutamente ideale e
anche profondamente empatico.
In effetti il personaggio di Claudia Cardinale è l'unica che capisce Guido a differenza della moglie e dell'amante però è un
personaggio che non è lì ma che arriverà nella sede termale alla fine del film, quindi chiaramente lei lì non c'è e infatti si
capisce che quella che gli sta porgendo il bicchiere d'acqua è una cameriera e anche anziana, però lui sta immaginando la
Cardinale che si chiama Claudia (anche il personaggio) > confusione.
Si può dire che questo film funzioni a scatole cinesi o se si vuole utilizzare un termine un po' più raffinato "la mise en
abyme" -> la messa in abisso. È un termine che si usa nell'araldica, cioè per fare gli stemmi alle famiglie nobiliari.
Mettiamo che una famiglia abbia lo stemma del leone, si fa lo stemma principale con il leone e dentro si mette un altro
piccolo stemma con lo stesso stemma, lo si fa in genere quando ci sono più stemmi che si devono unire insieme e si può
fare all'infinito volendo. Quindi è un immagine grande e al suo interno c'è un'immagine più piccola e poi ancora e poi ancora
e ancora. Si chiama messa in abisso perché a un certo livello si può arrivare fino al punto abissale in cui l'immagine
continua a contenere un'altra immagine che a sua volta contiene la stessa immagine.
È un termine che si usa molto frequentemente proprio per indicare queste strutture auto-riflessive, sia in letteratura che
nel cinema ( come scatole cinesi o matrioska). Quindi, il film ha continuamente queste confusioni; lo spazio è
coreografato, ovvero invece di essere naturale è configurato coreograficamente e questo non è l'unico elemento di
teatralità del film ma c'è anche il modo in cui gli attori recitano, ma molti altri personaggi, la stessa Claudia Cardinale, la
sua amante Carla rappresentata da Sandra Milo sono dei personaggi che più che recitare in modo credibile o vero svolgono
una performance.
Tutto quanto nel film è scenico, è teatrale, tutto è trasformato in uno spettacolo. Questa è la grande intuizione di
Fellini... Neanche tanto la confusione tra realtà e sogno, cosa che era stata ampiamente fatta dai surrealisti in poi, ma il
fatto che sia la realtà sia il sogno sia il ricordo tutto venga configurato come uno spettacolo, come una messa in
scena. Più che una realtà è un immagine. Non ci sono campi dell'esistenza che non vengano trasformati in uno spettacolo.

Quindi per Federico Fellini, per Guido Anselmi e per Marcello Mastroianni a un certo livello, tutti i campi della vita
sono uno spettacolo, sono una danza coreografica, una performance. Lo è la dimensione lavorativa evidentemente del
cinema; il rapporto con il femminile, tema fondamentale per questo film, perché le donne sono uno spettacolo; la
religione, altro tema importante di questo film, persino la religione è uno spettacolo. L’ obiettivo di Fellini non è tanto
una critica dell’istituzione ecclesiastica, il suo non è nemmeno un film politico, non vuole avere delle ricadute
effettive sulla società, è invece la rivendicazione della messa in scena radicale e totale dei propri fantasmi
psichici interiori. E’ un’assolutizzazione del suo io, del suo sé. L’obiettivo non è la critica alla religione cattolica che
pure obiettivamente non ne esce bene, ma è definita come istituzione ingessata e opprimente e sostanzialmente anti-
femminile. Egli vuole mettere in scena l’interezza dei suoi fantasmi psichici, è comunque ambiguo vedere una fantasia
sessuale, inoltre di ordine così greve e grottesco messa in scesa con tanta sincerità, anche a distanza di oltre 50 anni
perchè è un ricordo della sua infanzia. In effetti 3 anni prima la chiesa cattolica stessa si era messa a denunciare la
Dolce Vita come film immorale e in confronto a 8 e 1⁄2 nella Dolce Vita non c’è niente di immorale. C’è un
personaggio di cui Fellini dichiara di essere attratto evidentemente dall’elemento grottesco, abbietto, disgustoso,
basso, volgare; in effetti, anche la figura della sua amante, Carla, è un po’ lo stesso tipo fisico, non è così gigantesca,
però comunque è un personaggio dalla fisicità procace, tonda e abbastanza volgarotta, si trucca troppo, però
comunque non è nulla in confronto al personaggio della Saraghina che poi è un personaggio che riemergerà anche nel
Fellini successivo, perché dopo aver fatto questo salto dal mondo sociologico, ancora a contatto con il mondo presente
nella Dolce Vita, dopo Fellini sempre di più metterà in scena i propri fantasmi interiori; secondo alcuni diventa anche
la maniera di se stesso, si ripete, però sicuramente è un dato che in seguito mette sicuramente in scena il proprio
universo fantasmatico interiore.

Quindi il coraggio di mettere interamente in scena il proprio mondo interiore, anche da un punto di vista erotico e di
assolutizzarlo, questo onore e amore di sé lo ritroviamo nel cinema moderno in quanto vi è la messa in scena della
soggettività in questo film che è molto più radicale rispetto a Cleo, dove c’è un discorso molto più mediato, invece
nel film 8 e 1⁄2 qui è proprio chiaro che il regista si stia mettendo a nudo. C’è dunque quest’ elemento di modernità,
l’idea di questo autore che è al centro e che fa sentire il proprio punto di vista e la propria presenza e tutto ciò è
tipico del cinema moderno. In un film classico una cosa del genere non si potrebbe mai fare perché lo stile deve essere
invisibile e lo spettatore deve solo seguire una storia. Invece qui ci sono soltanto una serie di scene, molte sono
iconiche infatti sono rimaste nella storia del cinema, appunto dei segmenti, dei pezzi, come dei brandelli di fantasia
messi in forma. Quindi, da una parte questo film autoreferenziale è assolutamente moderno, dall’altra parte in realtà
ha già delle caratteristiche di post-moderno.

8 e 1⁄2 è anche un film post-moderno a causa di questa incredibile confusione che c’è tra i vari piani di realtà; realtà
e finzione si confondono, presente e passato, vita e morte ecc. questo è un elemento che fa parte del post-moderno.
Il post-moderno è quel momento culturale in cui la forza dell’immagine, come immagine, prende il sopravvento,
quindi non è più importante se l’immagine abbia un rapporto con una realtà da cui si origina, ma è l’immagine di per
sé a contare. Indubbiamente 8 1⁄2 è uno dei primi film che propone l’idea della forza dell’immagine a prescindere da
tutto; alcune immagini possono avere un rapporto con un referente reale, con la realtà, con un mondo vero e proprio,
altre, invece, sono delle immagini mentali e pure sono tutte quante sullo stesso piano e allo stesso livello. Anche
quest’idea della predominanza dello spettacolo, della finzione, della spettacolarità dove è difficile rintracciare il
confine netto tra realtà e spettacolo > quello messo in scena da Fellini è già un mondo in cui non conta tanto il
rapporto con il concreto e con il reale ma conta questo fiorire moltiplicarsi di immagini psichiche. Nella scena
dell’ esplicitazione della dimensione fantasmatica in relazione al femminile si ha l’harem in cui Guido si lascia andare
a una fantasia piuttosto marcata. Siamo sempre in questa stazione termale, lui si trova per la prima volta con la
moglie e l’amante, per altro l’amante era già d’accordo con lui, mentre la moglie la invita Guido personalmente; alla
fine si mette nei guai da solo, perché ha il problema della compresenza della moglie e dell’amante e si ha un po' la
sensazione che lui non voglia né l’una né l’altra, più che volerle tutte e due.
La dimensione dei fantasmi psichici ed erotici del personaggio viene assolutizzata. Questa sequenza, nota come la
sequenza dell’harem è piuttosto particolare perché da una parte mette in crisi questo immaginario che crea, perché
palesa l’ingiusta subordinazione del femminile che è presente, un’immaginazione assolutamente patriarcale e
maschilista, dall’altra parte vi è la concretizzazione di questa fantasia. Fellini non è mai stato un regista noto per
essere attento ai personaggi femminili ma li mette solo in scena come forma della propria fantasia; il suo è un punto
di vista che rimane rigorosamente maschile (soprattutto per “La Dolce Vita” e “8 1⁄2” mentre ci solo alcuni film in
cui lui è più incentrato sulla figura femminile, soprattutto quelli interpretati da sua moglie, Giulietta Masina, come in
particolare “Le notti di Cabiria” del ’57). Denunciando la propria stessa “pochezza”, il personaggio di Guido ne esce
fuori come un vero e proprio cialtrone, tutto sommato se la cava a buon mercato perché in qualche modo mette in
scena e assolutizza un’impostazione fantasmatica. Anche in questo “spezzone” vi è la presenza della dimensione
dello spettacolo (esibizione, lo spettacolo, la sua componente teatrale). Sembra quasi che a Fellini, Guido,
interessino più le donne come spettacolo, come personaggi che fanno una performance piuttosto che come partner di
un atto sessuale. La dimensione fantasmatica, erotica di Fellini è spesso quella del “voyeur”, colui che guarda. La
figura maschile si configura sempre come un guardante, come d’altra parte era già Mastroianni sin dalla Dolce Vita.

I suoi personaggi sono sempre dei personaggi che rispecchiano una difficoltà ad agire e a fare le cose, sono semmai
degli spettatori che guardano la vita dall’esterno e anche con 8 1⁄2 è evidente che Fellini, il regista, ha una crisi
creativa perché vorrebbe fare questo film sulla fantascienza e quindi vorrebbe fare un film bello, solido, narrativo, di
genere e contemporaneamente vuole mettere in scena i suoi fantasmi psichici e quindi possiamo immaginare che
Fellini stesso abbia attraversato una crisi creativa ed è chiaro che a un certo livello il film 8 1⁄2 è anche il film che
Guido Anselmi probabilmente riuscirà a girare alla fine del film in una sorta di paradossale inversione. E’
evidente che Fellini, appunto, attraversa una crisi creativa in cui si chiede come portare avanti la propria missione
autoriale ed è evidente che l’unica risposta che si può dare è di riflettere su se stesso e non riflettere sulla realtà,
come era stato fatto all’epoca del Neorealismo (come fa per la Dolce Vita). Lui fa delle dichiarazioni molte chiare da
questo punto di vista e in effetti dice “all’epoca del Neorealismo noi avevamo una realtà straordinaria tra le mani,
era un mondo completamente nuovo in cui noi non dovevamo fare niente” > Fellini era stato uno degli sceneggiatori
del Neorealismo, aveva sceneggiato anche “Roma città aperta” “e sembrava che le storie venissero da noi, era
un’intera società che aveva voglia di raccontarsi e raccontare ciò che aveva passato”. Poi a un certo punto la realtà si
normalizza nell’arco degli anni ’50, non siamo più in quel contesto di eccezionalità che caratterizza gli anni
dell’occupazione e gli anni del dopoguerra; quindi, la realtà si normalizza, si appiattisce anche perché
l’eccezionalità del Neorealismo era anche data dalla crisi che si attraversava in quegli anni, quindi gli animi erano
tormentati anche dal problema della sopravvivenza, poi il Boom Economico in qualche modo modifica la percezione di
tutti quanti (gli italiani sono tutti più tranquilli).

Quindi, dice Fellini esplicitamente “di fronte a questa realtà normalizzata, ormai appiattita, l’unica soluzione è
essere poeti. Bisogna inventare qualcosa e avere qualcosa da dire, il documento non basta più”. Quindi raccontare la
realtà, come avevano fatto i neorealisti, non bastava più (Egli già con La Dolce Vita fa una svolta, continua a
raccontare il mondo ma già racconta di un mondo dominato dallo spettacolo e dalle immagini. La Dolce Vita è una
Roma invasa dal mondo dello spettacolo e qui lui sente che l’unico modo di essere onesto e quindi di perseguire e
continuare in questa ricerca originale, di inventare e dire qualcosa, e di non farsi completamente bloccare nella crisi
creativa.In qualche modo possiamo dire che in 8 e 1⁄2 lui ha ancora il dubbio se questa sia una soluzione che funzioni
o meno ma nel corso della sua carriera dimostra che questa è una soluzione efficace. L’ultima parte del film è molto
significativa
perché vi è la messa in scena dei suoi fantasmi psichici e l’idea del mondo e dei propri rapporti come forma di
spettacolo. Alla fine lui ritrova l’ultimo lampo di felicità che alla fine risulta simile alle parole che dice Cléo quando si
rende conto che può liberarsi da quella spada di Damocle che è la visione negativa dell’esistenza e si impadronisce di
un modo diverso di guardare sé stesso che non è più un dover essere ma semplicemente un’accettazione di essere
come si è, con i propri difetti, e quindi c’è anche un nuovo rilancio creativo. Nell’ultima sequenza tutti i personaggi
della vita di Guido vanno visti come se fossero i personaggi di un grande spettacolo e quindi in qualche modo c’è un
rilancio creativo, non solo del regista Fellini ma anche del regista Guido Anselmi all’interno del film. Fondamentale
dunque resta l’idea del rilancio creativo nonostante tutto.
STAR WARS (film di George Lucas)

esce nel 1977, data che cambia il corso della storia del cinema americano nell’immaginario collettivo (ci sono cose
che tutti noi a livello immaginario, di fantasia, condividiamo) è un concetto fondamentale quando si parla di un
prodotto di questo tipo. Guerre stellari è un successo strepitoso battendo i record di ‘VIA COL VENTO’ e di ‘TUTTI
INSIEME APPASSIONATAMENTE’ che erano i film che avevano incassato di più nella storia del cinema, e anche adesso,
aggiustando gli incassi all’inflazione occupa il secondo terzo posto degli incassi nella storia del cinema. La prima cosa
da fare per parlare di star wars è evidentemente quella di inquadrarlo nel discorso della fantascienza degli anni 60 e
70. La fantascienza è ovviamente un genere sia letterario che cinematografico tendenzialmente non di letteratura né
di cinema ‘alti’ o almeno fino a star wars. Sono prodotti in genere con pochi soldi e tendenzialmente erano rimaste
delle produzioni di serie B. Proprio perché è un immaginario, se vogliamo infantile, relegata ad un tipo di letteratura
di consumo. In verità, questa situazione era già cambiata con ‘2001 ODISSEA NELLO SPAZIO’ e ‘SOLARIS’ che sono
due film del ’68 e del ’72 che segnano un altro tipo di atteggiamento verso la fantascienza che è un atteggiamento
anche molto intellettuale. 2001 odissea nello spazio rappresenta a sua volta, una svolta nella storia della fantascienza
cinematografica e anche letteraria perché è tratto da un libro di Arthur C. Clarke dove appunto, le avventure nello
spazio non sono più una scusa per effetti speciali fantasmagorici ma sono una vera e propria riflessione sull’odissea
dell’uomo e sul rapporto uomo-macchina. Solaris ugualmente film di Andrei Tarkovsky. Una locandina dell’epoca lo
definisce ‘la risposta sovietica’ come se fossero 2 risultati della corsa all’armamento cosmico che in quegli anni c’era,
la gara per arrivare per primi sulla luna tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Star word rappresenta a sua volta un
cambiamento, perché rappresenta invece un ritorno alla fantascienza come genere di intrattenimento, di
distrazione, come puro divertimento, pura fantasia; contemporaneamente è anche in qualche modo il momento in cui
la fantascienza smette definitivamente di essere un genere adatto soltanto ad un certo tipo di pubblico. Star wars
diventa un fenomeno globale. il primo film di George Lucas era ‘THX 1138’ in italiano ‘L’UOMO CHE FUGGì DAL
FUTURO’ che è già un film di fantascienza ma coglie anche un altro dei temi che c’erano spesso in quegli anni cioè
quello della fantasia distopica quindi, l’immaginario di un futuro dominato dalle macchine era assolutamente
negativo.

INCONTRI RAVVICINATI DEL TERZO TIPO di Steven Spielberg rappresenta un modello completamente diverso di
fantascienza in questo caso molto più pensoso, riflessivo. Entrambi i film erano candidati all’Oscar per miglior film e
tantissimi altri premi, ma poi perderanno a favore di ‘Annie Hall’ di Woody Allen, sono anni abbastanza ricchi e c’è
l’imbarazzo della scelta. Lucas si era affermato come autore con ‘AMERICAN GRAFFITI’ film del ’73 un classico
esempio di quelli che Fredrick Jameson (uno studioso molto importante del concetto di post-moderno) dice che gli anni
’70 sono un ‘cinema della nostalgia’. E infatti American Graffiti è una versione riflessiva e pensosa di una serie tv
come HAPPY DAYS. American graffiti, appunto, è un film dei primi anni ’70 ambientato però almeno un decennio prima
e quindi c’ha questa nostalgia di un’America pre-vietnam o meglio alle soglie del Vietnam. È un film più tipicamente
connesso ad altre tematiche di Hollywood e quindi una rilettura della storia americana e dell’identità americana, che
è insieme celebrativa ma anche dominata da un discorso nostalgico. È un film corale. Ad ogni modo, Lucas per un
attimo, tramite questo film, abbandona le sue ossessioni fantascientifiche e si afferma come autore (anche questo è
un film che riceve numerose candidature all’Oscar) è proprio il successo di un film più adatto allo spirito del tempo,
che permette poi a Lucas di ricevere i finanziamenti necessari proprio poi per ritornare sul discorso fantascientifico.
Mentre il suo progetto originale era quello di un adattamento di ‘FLASH GORDON’ i fumetti famosissimi che lui
adorava, non riesce però a ottenere i diritti per la saga di flash gordon. A quel punto sceglie di creare un proprio
mondo fantascientifico di eroi che si muovono tra pianeti diversi e combattono per la galassia.

Il protagonista originariamente si doveva chiamare Anikin Star killer che diventa Luke Skywalker. Questo è un film
che recupera tutti gli elementi del cosiddetto viaggio dell’eroe, non a caso Lucas aveva già iniziato a lavorare al suo
film qualcuno gli regala questo libro molto famoso L’ EROE DAI MILLE VOLTI di JOSEPH CAMPBELL che è un libro che
studia la struttura della fiaba la struttura del mito, il titolo si basa sull’idea che tutti gli eroi delle narrazioni
mitologiche ed epiche nei diversi periodi della storia umana tutto sommato si erano accomunati sempre da una sorta di
struttura simile in cui regna un solo eroe che ha mille volti anche mille contesti, mille antagonisti e mille aiutanti
però l’idea è che il viaggio dell’eroe sia caratterizzato sempre da una serie di elementi tipici: antagonista, oggetto
desiderato, una serie di cose che se vogliamo erano già state dette dall’analisi della fiaba di uno studioso russo
Vladimir Jakovlevič Propp per esempio. Però vengono poi propagandate negli stati uniti dal libro di Campbell che viene
regalato a Lucas il quale si rende conto che lui sta già in qualche modo costruendo, inconsapevolmente, una narrazione
che ha tutto il potenziale per entrare nella struttura classica del mito, si può anche dire che lui sia riuscito a creare
un buon mito contemporaneo. La traiettoria di Luke è una traiettoria tipica dell’eroe mitologico. D’altra parte, è
anche una traiettoria, che riprende un po’ dei canoni del cinema classico, in particolare questo conflitto con la
figura paterna ufficiale che sarebbe suo zio, in realtà...dato che l’ha cresciuto, c’è questa identificazione con questo
‘padre altro’, in realtà era un cavaliere Jedi il suo vero padre > scoprire chi è il suo vero padre è tutto il ‘problema’ di
questa trilogia. C’è evidentemente un legame con il Western lo vedremo, soprattutto grazie all’ambientazione
desertica. Una delle grandi intuizioni di Lucas è proprio l’alternanza tra buio e lucentezza in questo spazio
profondo assolutamente seducente. E invece poi la matericità e gravità dello spazio desertico. Lui tra l’altro voleva
rendere la messa in scena ancora più sporca per dare l’idea della concretezza dello spazio desertico poi litigò con il
direttore della fotografia. Quindi uno dei punti di riferimento del film è anche la storia del Western, in particolare un
capolavoro come quello di Ford ‘THE SEARCHERS - SENTIERI SELVAGGI’, a differenza di quanto accade in ‘EASY
RIDER’ qui il mito del West viene assolutamente riproposto sotto una nuova forma un nuovo spazio, se c’è qualcosa
che accomuna questi due film è il richiamo continuo al Western ma anche il modo in cui si pongono in relazione con la
tradizione americana, mentre nel film del ’69 è una modalità di contestazione e di capovolgimento di alcuni degli
aspetti del western, invece in Guerre Stellari c’è una riproposizione: la creazione di una nuova mitologia che si
presenta come una forma mito-poetica. C'è tutto un problema sulla figura paterna di Luke > Lui è cresciuto con un
uomo verso il quale ha un conflitto tipicamente generazionale, sembra una classica scena di conflitto generazionale,
vedremo che c'è molto più di questo: lui dovrà lavorare per scoprire effettivamente la storia di suo padre, che è quindi
anche la propria storia ed il proprio rapporto con la dimensione metafisica della forza. Si potrebbero fare molte
considerazioni per la struttura edipica, della problematicità del rapporto dell'eroe con la figura paterna, ma ci
interessa il legame del film con il genere Western al momento: c'è una citazione letterale nel momento in cui Luke
ritrova la casa degli zii incendiata che viene da "The Searchers” di John Ford, la scena è troppo simile per essere
casuale, in realtà le citazioni che possiamo trovare in questo film sono moltissime: già nella prima sequenza, l'idea
della nave spaziale che entra in campo dall'alto invadendo l'inquadratura da sopra è in realtà una citazione di 2001
odissea nello spazio, prende dunque “il testimone” dall'ultimo film di fantascienza americano. La figura di uno dei
droidi di "C-3PO" è chiaramente ispirata in parte al robot di "Metropolis" di Fritz Lang passando per l'uomo di latta del
"Mago di Oz”. Guerre stellari esiste dunque in un costante riferimento a prodotti precedenti della cultura di massa,

IL POSTMODERNO
È un concetto che si sviluppa inizialmente nell'ambito architettonico, che designa uno stile eclettico, l'idea di una
architettura che prende liberamente da tutti gli stili del passato. Il postmoderno in architettura è caratterizzato da un
edificio simbolo ovvero il Westin Bonaventure Hotel LA (usato in modo magistrale da Brad de Palm, in "Suicido a luci
rosse") è uno spazio con una struttura complessa, non si sa bene dove sia l'ingresso e l'uscita, le modalità di accesso
all’interiorità sono sempre complesse. In realtà è nel progetto architettonico stesso l’idea di creare una
destabilizzazione di ciò che è interno e ciò che è esterno. Vediamo così un’altra caratteristica del postmoderno,
ovvero la confusione di ogni gerarchia prestabilita e quindi soprattutto la complicazione di ogni direttrice, di ogni
dialettica, chiara tra superficie e profondità, tra ciò che è superficiale e ciò che è profondo, tra ciò che è esterno,
esteriore, e ciò che è interiore, o intimo. Il postmoderno si è sviluppato in architettura ed è proprio dall’architettura
che viene questa idea del citazionismo, dell’eclettismo citazionista come caratteristica essenziale del
postmoderno; abbiamo nominato lo spazio di Las Vegas come massimo esempio di spazio postmoderno, proprio perché
è come se non avesse identità architettonica autonoma se non tramite la citazione costante di altri linguaggi
architettonici presi in prestito. D’altra parte, in generale, lo spazio americano ha un po’ questa tendenza a citare,
decontestualizzando l’architettura europea.

Possiamo dire che il postmoderno per primo delinea un concetto di architettura eclettica e confondente: mette il
soggetto di fronte ad una struttura all'interno della quale non sa come muoversi o approcciarsi, una sorta di
smarrimento che produce una moltiplicazione degli stimoli.Ci sono molteplici aspetti del postmoderno, cosa
importante -> si può partire da una citazione sul "pastish", sul riferimento agli oggetti del passato, ma questi
discorsi sul passato non sono fondamentali, non bastano, c'è qualcosa di più complicato, c’è una complessità che pone
il soggetto dinnanzi alla tortuosità dell'esperienza. In filosofia e nel resto delle discipline umanistiche, comprese arte e
cinema, la definizione di postmoderno è stato molto influenzata dal teorico Fredric Jameson > combinazione caotica
degli stili del passato prima di una consapevolezza storica. Si mischiano infatti gli stili, si aggiungono citazioni di ogni
tipo, senza tenere conto del significato di questi al tempo in cui sono stati generati e sviluppati, dunque si tratta di
una prospettiva molto critica, apocalittica, catastrofista, comunque negativa in cui si dice il postmoderno è un'epoca
superficiale, in cui trionfa la superficie, non c'è la prova di un'analisi profonda, in cui si smarrisce la distanza che è
necessaria al senso critico e al suo posto, c'è l'immersione in un mondo di sensazioni e immagini; i soggetti smettono
di avere un atteggiamento interpretante nei confronti della realtà, questo proprio a livello di dinamiche culturali
collettive, tendono a buttarsi nel divertimento senza pensare troppo. Quest'idea di un soggetto che deve interagire con
delle immagini che sono sempre la copia di altre immagini che perdono il legame con la realtà nella sua
concretezza e rimandano solo ad altre immagini. Discorso di questo tipo lo abbiamo visto in Otto e mezzo di Fellini,
film in cui il mondo è già completamente dominato dalle immagini di immagini di immagini, anche il film stesso è il
racconto di un regista che sta girando il film che stiamo vedendo. Un circolo chiuso in cui contano solo le immagini.
L’idea è quella di un mondo superficiale in cui è difficile entrare in contatto con un'identità profonda, in cui noi
stessi, nel nostro comportamento, non facciamo altro che mettere in scena una performance che non deve per
forza corrispondere ad un nostro vissuto profondo interiore.

Black driver è uno dei grandi film teorici sul postmoderno, sull'impossibilità di distinguere gli esseri umani veri e
propri e le copie e quindi sull'immagine che chissà se ce l'ha un legame con un referente reale o sia la copia di una
copia. Vedete che già oltre al discorso sul mix di stili sul pastish, si arriva ad un discorso sul dominio delle immagini,
la predominanza e la superficie delle immagini rispetto a qualsiasi discorso di profondità. Il postmoderno è anche il
momento culturale in cui questa dinamica tra profondità e superficie entra in crisi, non c'è più l'idea che la superficie
debba rivelare qualche cosa di più profondo dietro. Il discorso sulla perdita della profondità del postmoderno è stato
declinato anche da termini positivi: sarebbe un'epoca che favorisce una nuova l'attenzione alle dimensioni
sensoriale, fisica e ludica della nostra esperienza, mettendo fine agli psicologismi, sia quotidiana che artistica e
quindi un po' quest'idea della soggettività; finisce l'idea dell’ oculocentrismo del cinema come medium basato solo
sugli occhi, come accesso ai processi della mente consci o inconsci, c'è invece l'idea di rivalutare e recuperare il
ruolo giocato dal corpo e dalla fisicità per l'appunto. Quindi l'attenzione alla dimensione sensoriale significa che poi
di fondo c'è l'attenzione alla soggettività, che non è unitaria, il soggetto postmoderno non è unitario, abbiamo
visto con Freud e la psicoanalisi il soggetto è scisso in dinamiche consce e inconsce, ma adesso il soggetto moderno è
proprio frammentato tra queste due dinamiche, e questa forte dimensione sensoriale il postmoderno è la scoperta che
l'uomo è irriducibile a questa dinamica tra conscio e inconscio ma è invece una soggettività stratificata e
complessa.

IL LEGAME CON STAR WARS: C’è un chiaro legame tra tutti questi discorsi e la proposta interpretativa avanzata dal
francese Laurent Julién che dice che star wars è un classico esempio di una nuova svolta del cinema perché coinvolge
lo spettatore sotto un punto di vista fisico. Lui parla di “bagno di sensazione”, ci parla inoltre di film- concerto
che avvolge lo spettatore in sensazioni che sono anche sonore, che colgono la sua epidermide ma anche la sua
esperienza sensoriale dal punto di vista uditivo. Ciò si nota concretamente non solo con la fanfara all'inizio, che è
vitalizzante, ma anche i suoni delle esplosioni e le spade laser. Star wars è dunque il primo film- concerto che offre
questo “bagno di sensazioni” discorso che viene poi perfezionato nell'82 con la diffusione del dolby surround e l’idea di
cinema intensivo e immersivo. L’idea è di una messa in scena molto carica, intensa non piana, non ordinata ma
appunto fatta di rumori, musica, caos, esplosioni, movimenti veloci che aiuta a immergere lo spettatore
nell'esperienza cinematografica coinvolgendo l'interezza della sua sfera sensoriale e non solo lo sguardo. Secondo
Julie, in star wars la visione non si configura tanto come strumento di conoscenza ma come forma di iperstimolazione
sensoriale, siamo li davanti allo schermo, la nostra attività cognitiva è relativa, siamo trascinati dalla pirotecnica
dello spettacolo cinematografico.

Egli dice che la componente narrativa è minoritaria e secondaria e anche l'identificazione con i personaggi è meno
importante, quello che conta è quello che c'era nel cinema delle origini, la dimensione dell'attrazione dello
spettacolo. Torna a trionfare una identificazione secondaria con i personaggi ma primaria con l'organismo stesso,
l'istanza che mette in moto lo spettacolo. Dunque il cinema postmoderno ci propone un'esperienza cinematografica
viscerale, fa appello ai nostri sensi, perché sostanzialmente legata ad una dimensione precognitiva e profondamente
fisica. La macchina da presa sicuramente si era emancipata dalla visione antropomorfica, ad altezza d'uomo,
diventando grazie all'avanzamento tecnologico, un testimone invisibile al di fuori dell'umano.. (come le inquadrature
dallo spazio profondo) è un cinema non incentrato sul personaggio come il cinema classico, ne come alter ego
dell'autore come il cinema moderno ma sullo spettatore, sull'esperienza dello spettatore cui va garantita appunto
l'immersione sensoriale. Anche il cinema classico era incentrato sullo spettatore, gli si voleva sempre dare il punto di
vista migliore sulla storia ma era molto più basato su aspetti razionali e con dinamiche di identificazione che potevano
essere molto psicologiche, invece qui di psicologico c'è molto poco e c'è un'esperienza precognitiva, rigorosamente
spettacolare e sensoriale, l'immersione in un mondo di fuochi d'artificio tramite la messa in scena intensiva.
L'esperienza spettacolare del cinema postmoderno inaugurata da star wars è più simile a quella di un luna park
piuttosto che a quella di un'esperienza cinematografica tradizionale. Una scena che ci offre un esempio concreto di
questo discorso di immersione sensoriale è quella del combattimento verso la fine del film, dominato da una figura
stilistica ovvero il travelling > un movimento di macchina che va in avanti, è la trasposizione in una singola sequenza
stilistica dell'operazione che fa tutto il film, ovvero quella di immergerci in profondità di un mondo, quasi di inglobare
lo spettatore, in un mondo costruito da questo testo che va verso il fondo che da già questo senso del fondo, della
profondità> questa sequenza è dominata da questa inquadratura in profondità che immergono lo spettatore e gli
consente di partecipare al brivido della velocità. Questa dimensione di immersione nella profondità ovviamente ci
occhieggia nei titoli di testo. Poi ci sono nei vari momenti all’interno del film in cui c’è il salto nell’iper-spazio, poi al
massimo grado c’è tutta quella lunga sequenza della battaglia finale, in cui Luke Skywalker riesce a sconfiggere la
flotta dell’impero anche grazie all’aiuto di Ian Solo, che arriva a salvarlo all’ultimo momento. Tale dimensione di
immersione torna anche nelle scene in cui il Millenium Falcon compie il salto nell’iperspazio.

Il film viene prodotto dalla 20th Century Fox, George Lucas viene a conoscenza che la casa di produzione aveva
chiuso il proprio reparto degli effetti speciali. Lucas riesce ad aprire una personale compagnia di effetti speciali
“Industrial Light & Magic” attivissima ancora oggi e che sarà l’autrice di tutti i film dall’azione alla fantascienza
dall’epoca fino ad oggi.

Ci sono delle strutture in guerre stellari “mitologiche”, che hanno a che vedere con il racconto nel senso più ampio,
più antico, come qualcosa che è connaturato alla stessa storia dell’uomo. È un film che prende delle strutture che
possiamo definire “strutture archetipiche” dell’epica, del racconto mitico-eroico. Per quanto concerne il discorso del
citazionismo in realtà è un po’ problematico ridurre il postmoderno a una questione di mera citazione, perché la storia
del cinema è piena di citazioni anche prima della stagione post moderna, quindi non basta questa idea del citazionismo
per fare un film postmoderno.
Frederic Jameson è uno dei teorici più influenti del postmoderno, ha scritto prima un saggio che poi è diventato un
libro, chiamato “Il postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo”. È un libro abbastanza
apocalittico, nel senso che è una visione postmoderna negativa, come epoca di confusione dei vari stili, quindi della
confusione di ogni consapevolezza storica definita; è evidente che citare le diverse epoche storiche, in modo del tutto
disordinato, non da nessuna consapevolezza su ciò che sono le dinamiche effettive di una società. Quindi la visione di
Jameson è una visione piuttosto negativa che vede il postmoderno l’epoca della superficie, in cui i discorsi
superficiali trionfano e si perde la distanza critica perché appunto ci si immerge in queste immagini che non
rimandano più a un senso, a una Storia, non rimandano più a una realtà, proponendo un processo conoscitivo ma
diventano delle immagini che lavorano e funziona di per sé stesse. L’immagine per l’immagine, visione abbastanza
angosciante, l’idea che siamo circondati da immagini che non sappiamo se hanno o meno un legame con la realtà.

C’è un altro teorico che ha molto insistito sull’idea del postmoderno come epoca dell’immagine autonoma,
dell’immagine simulacro: Jean Baudrillard (teorico francese). È il teorico delle immagini autonome, l’idea che
sempre di più, a partire dalla Seconda Guerra Mondiale, la società occidentale sia basata sul dominio delle
immagini, al punto tale che le immagini siano più importanti della realtà e le cose non esistono se non sono state
catturate dalle immagini. C’è quindi, appunto, una sorta di preminenza delle immagini sul referente reale, il mondo
vero e proprio >> Tutto questo discorso sull’autonomia delle immagini è un discorso che è stato fortemente acuito dal
passaggio al digitale, perché fino a che la fotografia, e quindi il cinema di conseguenza erano un processo analogico,
avevano un rapporto più stretto con il mondo fisico, il mondo dei fenomeni, perché la fotografia era una traccia
lasciata su una superficie sensibile, che essa fosse una lastra di vetro alle origini oppure poi una pellicola con una
soluzione chimica sopra che la rende particolarmente suscettibile, sensibile, quindi la luce si imprimeva, lasciava la
propria traccia fisica sul foglio. Quindi in qualche modo tra l’immagine e il mondo c’è una relazione di prossimità.
Invece nel momento in cui passiamo al digitale il processo cambia completamente: l’immagine è frutto di una
decifrazione da parte di un algoritmo, quindi non è più un processo chimico ma informatico. Non c’è più prossimità o
quel processo di sviluppo delle “camere oscure”. A metà degli anni 90 gli intellettuali di tutto il mondo hanno dato vita
ad una serie di visioni apocalittiche, poiché ritenevano che fotografia e cinema fossero ormai autonome dalla realtà.
Si diffuse quindi l’idea che la tecnologia si stava totalmente emancipando dalla realtà. Sembra appunto l’idea di
uno smarrimento, in una visione distopica, tante narrazioni postmoderne sono distopiche.

-the eternal susnshine of the spotless mind: sintetizza l’idea di una soggettività molteplice; i suoi stati d’animo
cambiano in accordo con il colore dei capelli.

Susan Sontag nel suo saggio “contro l’interpretazione” dice appunto che noi sopravvalutiamo l’idea interpretativa,
l’arte invece dovrebbe essere vissuta epidermicamente, bisognerebbe risalire al concetto di partenza della parola
estetica (in greco esthetis = percezione con i sensi). Per questo propone un’erotica dell’arte, essa non deve essere
interpretata, non deve essere frutto di una divulgazione astratta, fredda; deve essere invece qualcosa che ci
“investe” fisicamente, che ci sconvolge i sensi, non deve essere per forza un alto prodotto intellettuale. Il lascito
del postmoderno è dunque l’idea che la cultura popolare abbia lo stesso valore della cultura alta; la distinzione
tra le gerarchie del gusto tra un’arte alta e intellettuale e degna di attenzione e la cultura popolare che non è invece
prodotto di consumo. Può cambiare il gusto, ma non per forza deve esistere la gerarchia di valore, tra ciò che è
intellettuale, frutto di un’elaborazione concettuosa e dunque sta sopra e ciò che ci provoca un coinvolgimento fisico,
un certo piacere che sta per forza in basso. Tutto il discorso sull’autonomia delle immagini è importante ma va anche
contestualizzato: le immagini sono autonome ma hanno comunque un’aderenza in qualche modo alla realtà, il
postmodernismo esagera quest’idea. Invece l’abbattimento della gerarchia di valore, dove bisogna smettere di
guardare con “spocchia” la cultura popolare è uno dei grandi lasciti del postmoderno, insieme all’idea che la
soggettività è frammentata. D’altra parte le due cose sono connesse, poiché i prodotti “bassi” della cultura popolare
sono interessanti proprio perché magari fanno appello a delle sfere della nostra esperienza diverse da quelle
intellettuali ma comunque importanti. La distinzione tra arte e cultura popolare, che aveva strutturato il discorso
della modernità, cessa di essere operativa, e si rivendica l’importanza dei prodotti dell’immaginario di
massa.Questo discorso che faceva Sontag sull’erotica dell’arte, su un’arte che deve essere vissuta e non interpretata,
è stato applicato in primis a dei film di Andy Warhol, uno dei massimi esempi di cultura intellettualistica ,(come “Kiss”
o “Sleep”, chiari esperimenti intellettuali, un richiamo alla centralità dei sensi nella loro banalità, non possono essere
interpretati) ma in particolare in prodotti della cultura popolare come, per l’appunto, Star Wars, che abbiamo detto
essere un film svolta che fa cominciare una nuova stagione del cinema.

Linda Williams sostiene che il primo film post-moderno è Psycho (1960) perchè è un film che propone lo spavento
viscerale. Un’altra proposta critica sul cinema post-moderno riguarda questo film degli anni 90’ Strange Days, di
Kathryn Bigelow. Steven Shaviro analizza questo film come un film in cui si riflette sulla differenza tra emozione e
affetto. La cosa interessante è proprio questa distinzione tra emozione e affetto.
- L’emozione è un sentimento che il nostro cervello riconosce e sa darne un nome, ed è in un certo senso anche quello
viscerale; esempi: paura, felicità, eccitazione etc..
- L’affetto è un sentimento molto più volatile, meno duraturo, che non è personalizzato, esiste indipendentemente
dalla nostra soggettività. E’ un sentimento troppo veloce e indistinto per poter essere riconosciuto dal cervello e
trasformarlo in linguaggio.
Tutte le ipotesi che riguardano il cinema post-moderno mettono l’enfasi su questa dimensione, cioè una dimensione
mobilitazione fisica di iper-stimolazione che sfugge alle categorie della riflessione razionale e anche alle categorie
della riflessione psicologica.

L’AMBIVALENZA DI STAR WARS: Non tutto quello che abbiamo visto in Star Wars si adatta però a questo discorso: se
analizziamo la parte in cui Luke ha ritrovato i due detroit che sono stati lasciati dalla nave spaziale/ scopre il
messaggio della principessa Leila/ successivamente Luke porta il messaggio a Obi-Wan Kenobi/ Obi-Wan Kenobi vede il
messaggio della principessa Leila e così via.. Tutta la parte in cui riguarda l’interazione tra Luke è la figura paterna
canonica rappresentata dallo zio, non ha nulla a che vedere con il cinema immersivo, con l’esperienza sensoriale,
questa è una storia molto classica.

Secondo Pravadelli, definire l’esperienza spettatoriale che caratterizza Star Wars solo nei termini indicati da Jullier
(ovvero come esperienza di immersione sensoriale pre-cognitiva) risulta però eccessivo e tutto sommato erroneo.
Il film e come esso la maggior parte del cinema hollywoodiano contemporaneo propone piuttosto un’alternanza tra
l’intensità postmoderna e una dimensione emotivo-identificativa più tradizionale. Mentre l’inizio e il prefinale
sono fortemente immersivi, il film contiene molti episodi fortemente narrativi, che sono caratterizzati anche da uno
stile di ripresa più tradizionale: inquadratura incentrata sul personaggio, movimenti di macchina diegeticamente
motivati identificazione secondaria “classica”. Quello che propongono questi film è un’ esperienza spettatoriale
duale, ovvero da una parte caratterizzata dall’intensità post-moderna (dallo stile sensoriale), e dall’altra uno stile di
ripresa, di racconto molto più tradizionale. Nelle sequenze più narrative che sono la maggior parte del film, anche lo
stile è molto più classico, non ci sono più travelling, l’inquadratura è di nuovo antropomorfa, di nuovo incentrata sul
personaggio, i movimenti di macchina sono motivati. L’identificazione sensoriale con i personaggi è importante, tanto
è vero che Luke, Ian Solo, la principessa Leila sono diventati dei personaggi del nostro immaginario collettivo, ovvero
personaggi con cui ci siamo identificati negli ultimi quarant’anni. La nostra identificazione con Luke Skywalker è
fondamentale. D’altra parte il film costituisce una dinamica narrativa abbastanza complessa perché non ha soltanto un
eroe ma ne ha ben 2; Da una parte vi è Luke Skywalker e dall’altra vi è Han Solo, quindi l’eroe fuorilegge sul modello
di Humphrey Bogart in Casablanca. In realtà il meccanismo narrativo del film è classico, ed è piuttosto anche
sfaccettato come possiamo vedere propone l’identificazione con diversi personaggi. In qualche modo il post-moderno è
un momento cinematografico che prevede l’alternanza costante tra forme dell’immersione e forme
dell’identificazione. Così com’è la soggettività post moderna è una soggettività frammentata e stratificata. C’è
sempre una dimensione cognitiva (razionale), una emotiva (dinamiche psicologiche, identificative) ed una affettivo-
sensoriale (coinvolgimento fisico) nell’esperienza della visione.

Il film ha svolto un ruolo discriminante, il successo straordinario di Star Wars in realtà propone un nuovo
coinvolgimento e dà di nuovo un enorme potere alle case di produzione. Si torna ad un momento in cui il capitalismo
delle case di produzione prende il sopravvento e segna una fase nuova della produzione hollywoodiana che guarda
moltissimo come “target” al pubblico adolescente. Questa nuova stagione afferma che non è importante soltanto il
film quando esce nelle sale, è importante anche tutto il merchandising che viene prodotto. Nei primi anni 90’ le case
di produzione sanno che guadagneranno più dal merchandising legato ai film che dai film stessi.Le trilogie successive,
gli altri film, le serie tv, i libri, i fumetti, i videogiochi e le attrazioni da parco dei divertimenti: quello di Star Wars
possiamo dire che è un vero e proprio eco-sistema narrativo. Si tratta dunque di un esempio perfetto di transmedia
storytelling (definizione di Henry Jenkins) perché il mondo creato da Lucas è del tutto serializzato e “spalmato” su
diverse forme mediali e modalità narrative. La logica del franchise è la logica dominante della produzione
hollywoodiana contemporanea, basti pensare agli odierni film della Marvel. La Disney è in questo momento la
protagonista di un tentativo di monopolio dell’immaginario collettivo senza precedenti, avendo acquisito, tra il 2006
ed oggi, la Pixar (2006), la Marvel (2009), la Lucasfilm (2012), e la 21st Century Fox (2017).

“We are the resistance” > Questo slogan riprende il ruolo giocato dalla principessa Leila nelle manifestazioni anti-
Trump tenutesi a Boston, piene di cartelli che riprendevano la frase pronunciata da Leila “il luogo di una donna è nella
resistenza” facendone così il simbolo di un discorso femminista.
La New Hollywood e Easy Rider

Alcune metamorfosi del cinema americano, che toccano però direttamente anche lo scenario transnazionale tra gli
anni 60-70’, possiamo vederle in modo piuttosto chiaro anche nel cinema contemporaneo. Il cinema di cui stiamo
parlando è quello della NEW HOLLYWOOD, ovvero un periodo della storia del cinema americano che va dal 67 al 77,
momento preciso e particolare, quindi va in qualche modo ad uscita di alcuni film chiave come “Il laureato” di Mike
Nichols o alle storie di Arthur Penn, fino all’uscita di guerre stellari che inaugura una nuova fase. Prima di capire la
New Hollywood bisogna però cercare di comprendere come e perchè termina la Old Hollywood o la Hollywood Classica
(’10-’60), il cui prototipo d’esempio è “Accadde una notte” definito dallo Studio System. Questo sistema che si chiama
sistema di integrazione verticale dell’industria cinematografica inizia a scricchiolare nel secondo dopo guerra perché
viene attaccata dall’idea dell’integrazione verticale, esiste tutto un movimento nella metà degli anni 40 che vuole
smantellare quello che interpreta come una violazione nei diritti di concorrenza. Queste case di produzione hanno
troppo potere e questo potere limita l’iniziativa di altri possibili agenti del commercio, quindi è contro i principi
dell’’idealismo democratico statunitense, bisogna fare in modo che il mercato sia più aperto alla concorrenza e
quindi si inizia a smantellare il sistema di integrazione verticale con la sentenza Paramount nel ’48, che è una
sentenza che stabilisce che le case di produzione devono disfarsi essenzialmente dei teatri di cui sono
proprietari. Poi ci sono le rivendicazioni degli attori, che non vogliono essere più messi sotto contratto 3-5-7 anni,
ognuno vuole avere una maggiore autonomia nella decisione della mosse della propria carriera, si rendono conto che
non gli conviene più, raggiunta una certa fama, a sottostare al bello o cattivo tempo dei produttori e quindi di voler
prendere in mano la propria carriera, decidere quale film fare. Anche questo negli anni 50 mette in crisi l’organicità
dello Studio System. Il regista viene adesso considerato come un autore e non più come nella Old Hollywood un
artigiano o un semplice esecutore della volontà del produttore. Un altro segno della morte della vecchia Hollywood è
lo spostamento del baricentro produttivo dalla California a New York che si impone come l’anti Hollywood e culla di
tutte le tendenze del cinema indipendente.

Poi c’è un elemento ancora più forte che è l’avvento della Televisione, è una fase sperimentale molto lunga negli
stati uniti, alcune trasmissioni sono avviate già dal ’41 però poi, alla metà negli anni 50 la tv italiana muoveva i primi
passi > la rai inizia le trasmissioni dal ’54, ovviamente quelli che hanno la tv in Italia sono pochissimi, mentre in
America metà delle case americane hanno la televisione quindi c’è una diminuzione importante di pubblico del cinema
perché la gente ha già una forma di audio visivo a casa. Il film trova una seconda vita quando vengono trasmessi in tv,
però a livello di incassi le case di produzione sono terrorizzate dall’idea di perdere pubblico quindi Hollywood cerca di
correre ai ripari e si organizza in modo tale da offrire al pubblico ciò che la televisione non può offrire, la tv è un
piccolo schermo, prima di tutto in bianco e nero, e poi è uno schermo piccolo, ed invece il cinema punta sul
ingigantimento nella propria offerta, così si diffonde nel 1993 il formato panoramico. Prima il cinema era sempre in
quattro terzi, più rettangolare. Nel formato panoramico la struttura dell’immagine aumenta moltissimo la valenza
spettacolare del cinema, poi ha copiato altre innovazioni: il colore, la tecnologia del colore si era diffusa ampiamente
a partire dagli anni 30 ma non era diventato standard nella messa in scena, non si era diffuso il colore, essenzialmente
era utilizzato per mettere in scena dei mondi di fantasia, non era un codice cromato associato alla realtà, non
era la norma. Se un film era a colori era riservato a un tema speciale, o un film in costume o un film ambientato in un
mondo di fantasia, poi diventa la norma perché si deve difendere dalla tv, che sarà ancora per un bel po’ in bianco e
nero. Ci sono tutta una serie di effetti tecnologici che vengono mobilitati dall’industria cinematografica per difendersi
dalla televisione. Un altro di questi aspetti tecnologici riguarda il suono, il suono stereofonico, una registrazione di
una colonna audio, che non è su un solo canale radio. Poi ci sono gli esperimenti di cinema in 3D, come se fossero
una novità assoluta all’inizio degli anni nel 21esimo secolo, ma in realtà fra il ’53 e il '55 escono un sacco di film in 3D,
per un breve periodo si pensa sia il futuro del cinema ma poi diciamo che è una tecnologia che non convince, anche
adesso resta un’aggiunta, non è ancora integrato nel quotidiano della nostra esperienza cinematografica. I sedili erano
dotati di un particolare meccanismo che diffondeva degli odori, per rendere l’avventura cinematografica ancora più
immersiva > trovate tecnologiche che cercano di aumentare la qualità spettacolare, attrazionale, immersiva della
esperienza cinematografica, un’esperienza anche di eccitazione fisica. Gli Studios tendono generalmente a produrre
meno film, ma quando producono un film, ci spendono più soldi, mettono in piedi dei veri e proprio Colossal.
Il problema è che questa strategia funziona bene per alcuni anni, Hollywood negli anni ’50 riesce a non perdere ancora
il proprio primato nell’immaginario collettivo, tiene a bada la televisione, la televisione a tutte queste innovazioni non
può competere però poi insomma è una strategia che non può durare ancora a lungo anche perché le case di
produzione spendono talmente tanto per questi film che diventa difficile rientrare nei costi. I Colossal hollywoodiani, a
un certo punto diventano delle operazioni aperte. “Cleopatra” girato tra l’altro a Cinecittà, un periodo lunghissimo,
cambiano tre registi, Liz Taylor subisce una tracheotomia, divorzia e si risposa, tutto mentre sta girando quella parte,
e la FOX spende molti soldi, alla fine il film esce nel ’63, vince anche una nomination premio oscar per il miglior film,
ma i soldi spesi sono stati talmente tanti che la FOX non riesce a rientrare nei costi e va in banca rotta, ed è la prima
delle case di produzione ad andare ufficialmente in banca rotta. Quindi Il ’63 è una un po’ la data di collasso
effettivo del sistema hollywoodiano tradizionale. È un sistema che non è che perda la propria presa sul pubblico ma
che, da un punto di vista economico, diventa insostenibile. Diciamo che Hollywood a un certo punto dovrà trovare un
modo per reinventarsi al di fuori di questa logica del film colossale (questo vale per le più grandi case come la
Warner Bros o la 20th Century Fox).
La New Hollywood è caratterizzata proprio dal complesso equilibrio tra innovazione e continuità, apertura verso il
nuovo e culto della tradizione. Forse la vera ragione per cui il cinema entra in crisi è l’ideologia suburbana: succede
che nel corso del secondo dopo guerra, in particolare a partire dal 49, ma soprattutto negli anni 50, la popolazione
tende a spostarsi dai centri urbani, dalle città (New York, San Francisco..) alle zone suburbane. Quindi nei centri
urbani molte meno persone vanno al cinema e Hollywood perde due terzi del proprio pubblico, ma mentre negli anni
’40 il 60% della gente americana va al cinema una volta a settimana avendo la tv a casa, negli anni ’60 questa
percentuale cala al 20%. La domanda di fondo è: Senza la visione in sala il cinema è ancora cinema?
E se il cinema è ancora cinema se visto sul cellulare qual è effettivamente la sostanza di questa esperienza? La crisi
del pubblico non è uno scherzo e quindi Hollywood deve in qualche modo correre ai ripari. Chi è che continua ad
andare al cinema è soprattutto il pubblico urbano, quelli che in città scelgono di restare e quindi i “giovani
intellettuali”. C’è una sorta di frattura tra la visione del mondo dei grandi produttori hollywoodiani che sono
tradizionalisti, che non comprendevano più i gusti di quello che ormai era la grande vetta del suo pubblico cioè i
giovani alternativi e intellettuali dei centri urbani. Quindi si svilupparono tutta una serie di pratiche, prodotti
alternativi, non sono più prodotti realizzati dalle major hollywoodiane, c’è questo periodo tra il ’63 che è appunto
l’anno del collasso finanziario di Cleopatra e il ’67 che è un po’ l’inizio della New Hollywood, è un periodo di
transizione dove ci sono parecchi episodi strani nella storia del cinema americano, si crea un cinema di generi
divertenti, horror, fantascienza, film sui motociclisti o film sul surf. Contemporaneamente si crea anche un mercato
per un cinema indipendente che può essere americano o europeo, è un momento di grande presenza per il cinema
europeo sugli schermi americani, gli americani vanno a vedere i film europei e quindi Antonioni, Polanski che avevano
debuttato anni prima. E poi naturalmente l’ultimo pezzo di questo cinema autonomo indipendente è il cinema
sperimentale di cui fanno parte anche alcuni film di Andy Warhol, quindi un filone cinematografico interessantissimo
ma diciamo più legato alla storia dell’arte del 900. E quindi ovviamente era un cinema che mette al centro alcune
istanze di ribellione alle autorità, di messa in scena dell’immaginario giovanile, un immaginario autonomo,
indipendente dei giovani contro il potere costituito. Ora Hollywood aveva già messo in scena le istanze del verismo
giovanile e quindi ricordiamo che esiste tutto un filone degli anni ’50 sulla ribellione giovanile. Ad esempio il più
famoso naturalmente è il film “Gioventù bruciata”.

Gli anni 50 sono già un decennio in cui, diciamo così i teenagers, e il loro immaginario, iniziano a prendere il primato
della scena, si dice anche che gli anni ’50 sono il decennio dove i teenagers sono stati inventati, diventano una fetta di
pubblico specifica su cui il cinema lavora intenzionalmente, prima i teenagers erano soltanto dei non ancora adulti e
invece qui assumono una loro fisionomia indipendente quindi diciamo che Hollywood era stata abbastanza attenta a
queste tematiche ma naturalmente ancora all’interno delle strutture produttive che delineavamo la Hollywood
Classica, invece adesso questi temi raggiungono una centralità che prima non avevano, perché sono le prime strutture
che sono state mandate a malora e quindi c’è un nuovo modo di organizzare i temi e il linguaggio del cinema.
L’anno della svolta è nel 1967 in particolare con questi due film “Il laureato” e “Gangster story”. Il primo vede un
protagonista che appena tornato dalla laurea viene sedotto da un’amica dei genitori, una donna di almeno 20 anni più
grande di lui e il secondo è la storia di Bonnie e Clyde, due banditi degli anni ’30. Sono film evidentemente molto
diversi ma che sono accomunati da un’idea di rottura, una rottura che riguarda sia in linguaggio, sia lo stile, sia i temi
e sono due film che mettono appunto in scena l’idea della ribellione di una nuova generazione che vuole prendere il
centro della scena e che vuole ribellarsi al potere costituito. Un elemento importante che aiuta il diffondersi dei
temi dello stile della nuova Hollywood è l’abolizione del famigerato codice di censura promulgato nel 1930 e messo
effettivamente in pratica nel 1934, che in realtà era stato ovviamente smantellato nel cinema degli anni ’50.

L’abolizione del Codice Hays implica una nuova possibilità di aprirsi a temi di rottura. E’ un momento questo della New
Hollywood in cui effettivamente l’immaginazione è al potere, è un periodo in cui si crede in qualche modo che la
volontà di rinnovamento, di rottura di tutta una generazione di nuovi registi possa effettivamente conciliarsi con le
esigenze del pubblico del mercato e in cui si possa effettivamente andare avanti con questo clima sperimentale. Il
punto essenziale è che nella Old Hollywood o Hollywood classica comandavano i produttori mentre nella New
Hollywood comandano solo i registi. Ma nel cinema americano non era mai stato così, erano persone che erano riusciti
a imporre una propria visione negoziandola con le istanze dei produttori che erano quelli che ci mettevano i soldi e
quelli che dovevano guadagnare. Il sistema produttivo è crollato, i giovani registi hanno il coltello dalla parte del
manico, e possono fare quello che vogliono, è evidentemente un periodo che dura poco, una decina di anni, ’67 -’ 77,
poi i produttori riprendono il controllo del meccanismo cinematografico e Guerre Stellari è appunto l’esempio perfetto
di questo nonostante sia un film di un regista come Lucas, è soprattutto un film del meccanismo produttivo. E quindi è
un momento in cui i registi dominano e possono esprimere chiaramente la loro nuova visione abbiamo in realtà due
generazioni. Il nocciolo duro della new Hollywood sono Coppola, Scorsese e Spielberg e forse anche De Palma.
Coppola e Scorsese sono quelli che hanno la carriera più duratura anche perché quando i produttori riprendono un po’
in mano le redini riescono a negoziare quindi cercheranno di fare un film per se stessi e un film per i
produttori.L’ultimo film di Tarantino fotografa perfettamente questo momento di transizione. Il protagonista è un
attore di western televisivi di serie C, Di Caprio, che vuole ritrovare una nuova gioventù artistica nel cinema di serie C.
Polanski e la moglie sono i maggiori esponenti della New Hollywood, quindi Tarantino mette in scena un tenero e
improbabile incontro tra la Hollywood che è rimasta indietro, rimasta di serie c, legata al mondo televisivo e a questa
nuova ondata di generazione, è come se Tarantino volesse raccontare la loro conciliazione, far incontrare due mondi
hollywoodiani che non si sono mai realmente incontrati e naturalmente anche Joker è un film si apre con il vecchio
simbolo della Warner Bros com’era negli anni 70 e poi i due film più importanti di Scorsese Taxi Driver e Re per una
notte. Taxi Driver ha tutta una serie di innovazioni sul tema della solitudine urbana e del rapporto tra l’individuo
disturbato e la dimensione urbana ostile, c’è una splendida interpretazione di De Niro. In sintesi riaffermiamo che
questo è un cinema che ha lasciato un segno fortissimo nell’immaginario collettivo anche se è stato una fase
abbastanza breve perché poi le logiche del capitalismo cinematografico della produzione tendono ad avere di nuovo il
sopravvento e quindi non si darà più carta bianca a questi registi.

Coppola aveva tentato di risolvere il problema fondamentale nella storia del cinema ovvero il rapporto tra la
dimensione creativa e quella economica. egli, forte della fortuna accumulata con Il Padrino del ’72 e ’74, si pone
l’obiettivo di essere un regista-produttore che non solo realizza i suoi progetti senza interferenze esterne ma sostiene
il lavoro di altri cineasti come Lucas, Syberberg, per cui produce e distribuisce film. Il suo sogno è quello di realizzare
una sintesi tra pura ricerca estetica e macchina industriale hollywoodiana. Il culmine è rappresentato da Apocalypse
Now del ’79 che affronta il tema della guerra del Vietnam. All’estremo opposto del gruppo californiano (Coppola,
Lucas, Milius, Spielberg) che tenta di occupare posizioni centrali nel sistema produttivo, troviamo Woody Allen e
Martin Scorsese, autori newyorkesi > entrambi si esprimono al meglio quando raccontano storie intimamente legate
alla loro città e condividono una bruciante passione cinefila, che li porta a richiamarsi al cinema del passato, alla
Hollywood classica. Ma comunque ebraico-borghese resta il retaggio di Allen e italo-americano e proletario quello di
Scorsese. Allen in “Io e Annie” del ’77 e “Manhattan” del ’79 pone al centro della vicenda intellettuali ebrei alle
prese con storie d’amore. Gli eroi di Scorsese sono invece gangster, come in “Mean Streets” del ’73 o “Quei bravi
ragazzi” del ’89, oppure marginali la cui violenza repressa è sul punto di esplodere come in “Taxi Driver” > nella
quale impiega i falsi raccordi e i ralenti per marcare visivamente la follia del personaggio, e il racconto diviene
disarticolato, in opposizione al modello di narrazione fluida della Hollywood classica. Apocalypse Now similmente si
apre con una sequenza onirica vicina al cinema sperimentale, in cui abbondano gli sguardi in macchina, tabù del
cinema del passato.

Easy Rider: è un film del ’69 quindi esce 2 anni dopo i primi film profondamente innovatori, come Il Laureato e
Gangster Story però è considerato il terzo film simbolo della New Hollywood, è un film che tematizza in modo esplicito
l’idea di una generazione giovane a contatto con un’America tradizionalista che non la capisce, non la accetta, il
film viene interpretato da due attori giovani, ovvero Peter Fonda e Dennis Hopper. Dennis Hopper è anche regista,
Peter Fonda era anche sceneggiatore. Hopper aveva esordito come attore in alcuni film tra cui Gioventù Bruciata e
diventa un autore soltanto in questo momento e Fonda è il papà delle grandi famiglie reali hollywoodiane, perché è
figlio di Harry Fonda ovvero il più importante attore del cinema classico, e in questi anni diventa il volto femminile del
cinema dell’innovazione. In qualche modo sono delle figure che vengono già da un passato hollywoodiano ciò
nonostante innovano completamente il proprio ruolo nell’immaginario collettivo. I protagonisti del film sono Billy e
Wyatt, che fanno una traiettoria che va dalla California indietro verso la Louisiana, New Orleans, per andare a vedere
il carnevale. Acquistano una partita di droga, cocaina, dai messicani, e la rivendono a quello strano personaggio che
era una specie di simbolo grottesco del capitalismo, ed è appunto un personaggio che non vedremo mai più, che non
ha nessuna importanza se non simbolica, rappresenta la società capitalista che loro sfruttano in modo abbastanza abile
perché loro guadagnano in questa partita di droga e poi quello che cercano è qualcosa di diverso, infatti provano la
droga per esseri sicuri che sia buona, poi la rifiutano, la usano solo come modalità di guadagno per permettersi una
narrazione.Il punto è questo, questi due partono da Los Angeles che è il massimo simbolo del capitalismo americano, è
anche la città più avanzata geograficamente. Però evidentemente la società americana ha preso una piega negativa
quindi questi due da Los Angeles ripartono indietro per ritrovare l’identità vera dell’America e per seguire una propria
traiettoria di libertà infatti il discorso al cento del film è l’idea di una ricerca di libertà.

Quello che loro fanno, usano la logica del capitalismo e anche la droga, che è appunto la coca, ma soltanto per
guadagnare, la loro narrazione è un percorso alternativo, da cui la droga non sarà la coca ma la marjuana nella
sequenza del film, quindi è una ricerca di un racconto diverso, di un nuovo modo per conoscere il territorio americano,
questi sono gli anni in cui si dive nuove istanze della nuova generazione giovanile intendendo innanzitutto la ribellione
a un governo che sta portando avanti la guerra in Vietnam, sono anche gli anni delle lotte per i diritti, l’inizio delle
lotte femministe insomma un nuovo modo di guardare la società che individua nel capitalismo uno dei mali principali
e che cerca dei nuovi modelli di vita alternativi. Peter Fonda è il protagonista vero e proprio del film, Wyatt è in
qualche modo il cuore pensante della coppia. Il rapporto con il western classico è profondo e stratificato e quello che
il film cerca di proporre è appunto una rilettura della storia americana, quello che lui cerca di proporre è una rilettura
di maggiore tolleranza, una rilettura libertaria del western. Quindi la ribellione che si esprime in Easy Rider è una
ribellione che riguarda il conflitto generazionale e che riguarda un piano diacronico, un conflitto tra generazioni, ma
anche un piano sincronico perchè si rifiuta lo stile di vita delle metropoli occidentali. La scena forse più sintomatica è
quando Fonda prende l’orologio e lo getta nel deserto, come per dire “io al vostro tempo, alla vostra organizzazione
del tempo basata su ritmi capitalisti non ci sto”. Vuole invece recuperare in qualche modo lo spirito più profondo dei
pionieri del west.Proprio quella sequenza dell’orologio è significativa anche perchè spesso in questo film c’è un
montaggio non propriamente angolare: si fanno sbalzi qui e lì, inquadrature flash etc e anche questo fa parte
evidentemente della ricerca d’identità del film sul piano del linguaggio, c’è un montaggio che è debitore del modello
del cinema moderno europeo, un’idea che il montaggio non sia soltanto al sevizio della storia del racconto per
mappare chiaramente quello che succede ma che possa invece esprimere l’elemento di rottura.

Il loro percorso è un percorso complesso, non lineare, hanno un obiettivo ovvero arrivare a New Orleans per vedere la
parata del carnevale, non è che si muovono in modo completamente libero, hanno una meta, ma comunque questo
percorso dalla California alla Louisiana è molto grande e si muovono in modo abbastanza libero e vivono tutta una serie
di esperienze diverse come ad esempio il discorso dell’intolleranza > la brevissima scena in cui il proprietario del
motel, non vuole farli entrare e sono costretti a dormire all’addiaccio, ed è il primo di una serie di incontri negativi
con una popolazione chiusa, che non li capisce e loro avranno scontri sia con i rappresentati delle forze dell’ordine, sia
con gli abitanti dell’America profonda ossia con i bifolchi che sono per definizione sospettosi e negativi difronte a
questi capelloni, che invece hanno un fascino sulla popolazione femminile e quindi scatta la rivalità, e c’è tutto un
discorso di intolleranza dell’America, un’America conservatrice. Ci sono anche degli episodi di solidarietà,
abbiamo visto il Rance in Arizona, che è un primo esempio, c’è una sosta a una comunità di hippie dove sul discorso
della libertà raccoglie anche il classico discorso del post ’68, dell’amore libero, del “fate l’amore non fate la guerra”.
Il personaggio Jack Nicholson esordisce in una scena di questo film > è una parte essenziale del film, egli è un
avvocato, è un personaggio commovente perché è un borghese che entra in contatto con questi personaggi alternativi,
contro culturali, che gli faranno capire qualcosa di più su se stesso.

Quando i due arrivano a New Orleans si prendono degli acidi prima di andare alla parata quindi in qualche modo la
sequenza è completamente filtrata attraverso la loro percezione alterata della droga, in questo film la si idolatra, la
marjuana e l’ lsd sono dei mezzi di liberazione al contrario dell’eroina e della cocaina che sono dei mezzi
d’assoggettamento. Vanno in un bordello dove incontrano le prostitute, è uno dei loro incontri positivi, anche perchè
loro invece di sfruttare semplicemente questa logica del corpo femminile ne fanno in qualche modo delle loro alleate
e diventano delle compagne di esperienza, ciò che succede nel film è quello che invece appunto di usare il bordello
per uno scopo, Wyatt dice “let’s go outside” andiamo fuori, e quindi portano con se queste ragazze e vivono queste
esperienze insieme a loro e, prima di essere esperienze della droga c’è prima di tutto l’esperienza di questa parata.
Quello che noi vediamo nella parata sono una serie di immagini significative legate all’identità Americana, le forze
dell'ordine, persone che sfilano da padri fondatori, poi abbiamo l'hotel che si chiama Roosevelt, cognome dei due
principali presidenti degli Stati Uniti, c'è il veliero con le giubbe rosse della guerra di indipendenza, quelli che hanno
combattuto contro gli inglesi, poi c'è la guardia nazionale, la bandiera americana, il cavaliere senza testa, i costumi,
c'è l'incontro che non si capisce bene cosa succede fra Hopper e Il personaggio afroamericano, quindi in qualche modo
ci sono dei temi , la musica che si sente, insomma tutta una serie di cose, tutta una serie di simboli dell'identità
Americana tra l'altro quelle sono delle scene filmate durate una vera parata del carnevale, strettamente
documentaristica infatti la grana dell'immagine è anche un po’ diversa quindi la parata funziona per sintetizzare l’idea
che film sia una metafora della storia dell'America e della condizione dell’America in quel momento.

Frutto della cultura giovanile degli anni Sessanta, è anche la diffusione sempre più rilevante del fumetto, attraverso
cui i suoi storici autori entrano a far parte dell’immaginario collettivo e determinano in modo irreversibile la cultura
popolare. Non a caso, il soprannome del protagonista di Easy Rider è Capitan America, dall’iconico eroe Marvel nato
nel 1941 dalla mente di Jack Kirby e Joe Simon. A un primo sguardo si potrebbe pensare che il legame tra i due è
puramente superficiale, giustificato solo dal fatto che il casco e il chopper di Wyatt sono customizzati con la bandiera
a stelle e strisce; tuttavia, la connessione fra i due simboli del Nuovo Continente è molto più profonda e trova un
senso proprio
in quel periodo di grande mutamento che chiuse definitivamente il capitolo del post Seconda Guerra Mondiale per
aprire quello dell’emergenza economica e militare permanente, da cui non siamo mai realmente usciti. Wyatt, infatti,
è uno di quei giovani che vive la cultura hippie non come semplice contestazione, ma come radicalizzazione del
concetto di libertà alla base dello spirito yankee: silenzioso, riflessivo e sensibile,

il personaggio interpretato da Peter fonda è la quintessenza della purezza. La sua trasparenza – così come quella
del personaggio cui prende il soprannome – si scontra inevitabilmente con l’America corrotta, violenta
e intollerante che ogni eroe dovrebbe prefiggersi di combattere. Allo stesso modo, Capitan America – che appena
cinque anni prima di Easy Rider fu ripreso e riscritto da Stan Lee – si libera del nazionalismo che ha segnato la sua
nascita e si adatta agli anni della Silver Age fumettistica e della rivoluzione dei costumi, incarnando il vero ideale
della gioventù americana: proprio quell’ideale che in Easy Rider finisce sull’asfalto, tra una bandiera che brucia e
l’ennesima morte ingiusta. Proprio in virtù dell’importanza dei suoi temi, Easy Rider ha subito conquistato il titolo di
cult generazionale.
Easy Rider racchiude tutta l’essenza del 1969. Finalmente i ragazzi che andavano al cinema hanno goduto di un
prodotto artistico in grado di parlare il loro linguaggio, con dei personaggi in cui identificarsi e con un dramma che
tutti possono sentire proprio. Da quel momento si inizia a parlare di Nuova Hollywood, che accoglie nel suo pantheon
le firme più note del cinema americano di tutti i tempi; la rivoluzione di Lucas, Hopper, Altman, Scorsese, Coppola e
gli altri passa per il linguaggio, per la nuova varietà dei temi e per il coraggio di parlare di sesso, violenza, droga,
oppressione di genere e razza, inquietudine. Da questo momento in poi i giovani, folli e disperati artisti di
Hollywood si armano di camera e iniziano a raccontarsi: un nuovo capitolo è iniziato e corre su due ruote lungo tutta
l’America.

IN THE MOOD FOR LOVE

È un altro melodramma dove anche qui l’idea dell’immaginazione melodrammatica è assolutamente fondamentale.
Questo film è un melodramma abbastanza diverso poiché all’interno di esso troviamo un tipo di romanticismo
esasperato. Il film è l’opera che ha completamente consacrato questo autore di Hong Kong, Wong Kar-wai, ed è un
film molto radicale, non è un film semplice da vedere, poiché può capitare che chi lo guardi si distragga e si perda
passaggi importanti. Wong Kar-wai arriva a questo film , girato nel 99’, da una serie di progetti diversi poiché l’autore
in primis aveva a che fare con un nuovo assetto governativo ministeriale (Hong Kong passa da essere governata
dall’Inghilterra alla Cina) , quindi la sua prima idea era quella di girare questo film ‘Summer in Beijing’ una storia
d’amore con elementi musical ma poi non ottenne i permessi, e quindi decise di strutturare il racconto in maniera
diversa suddividendolo in 3 parti, 3 storie di cibo, all’inizio doveva essere diviso così, con 3 protagonisti, 3 dinamiche
diverse, 3 rapporti diversi con il cibo per raccontare Hong Kong in un aspetto temporale più ampio ma infine l’autore
finirà per girare solo una di queste tre parti che è appunto In mood for love. La trama in origine doveva estendersi per
una dozzina d’anni, quindi iniziare alla fine degli anni ’50 e arrivare fino al 1972 ma poi ovviamente si renderà conto
che non riuscirebbe ad organizzare un film su una dimensione temporale così ampia quindi finisce il film nel ’66.

Il contesto storico-culturale del film è il flusso migratorio dalla Cina popolare ad Hong Kong che provoca un
sovraffollamento degli spazi urbani e dove nasce la pratica del sub-affitto. Il film è tutto incentrato su due
appartamenti, uno affianco all’altro, due famiglie che sono costrette a causa del sovraffollamento a subaffittare
parte dei loro appartamenti ad altre persone (questi sono in qualche modo i ricordi di infanzia dell’autore visto che
anche lui è un migrante dalla Cina popolare ad Hong Kong). Un livello del film è memoriale, dove si cerca di
rintracciare e ricreare gli oggetti, il cibo, quindi l’infanzia del protagonista ma è un aspetto marginale. Il film tratta
della difficoltà della percezione, difficoltà della visione. Lo spazio del film è sia claustrofobico ma a volte c’è anche
uno spazio piacevole. La prima parte del film è la cronaca di incontri assolutamente fugaci (si salutano, si prestano
qualche libro, ma non accade nulla di più di questo). La moglie di lui e il marito di lei normalmente rimangono fuori
campo, le rare volte che sono in scena sono sempre di spalle, quindi non li vediamo mai. Il punto di riferimento di
questo film è un genere tutto interno al cinema cinese. Un particolare riferimento è al film “Primavera di una piccola
città” che è un film del ’48. In qualche modo è un film già caratterizzato da quella che è la cifra stilistica di “Mood
for love”, ovvero l’idea che c’è una materia melodrammatica di fondo dei sentimenti inespressi e anche degli eccessi
stilistici, perché poi abbiamo visto che c’è un lavoro sul colore anche in questo film. Anche qui la materia
melodrammatica c’è sia da un punto di vista stilistico che da un punto di vista narrativo, soprattutto questa idea del
desiderio represso dei personaggi, però le forme più eccessive del melodramma, quelle a tinte forti e roboanti, sono
ridimensionate a favore di una dimensione di astrazione stilistica che comunque è una dimensione molto intensa.
Questo è un film insieme a “Primavera di una piccola città” di uguale intensità. Per descrivere “Mood for love” nei
termini dell’intensità: è un’intensità meno roboante e più insinuante data dall’estrema stilizzazione. Volendo
rintracciare un altro antecedente nella storia del melodramma anche a livello di trama, si ha un grandissimo film
inglese del ‘45, “Breve incontro”, anche qui una storia d’amore extraconiugale che però viene vissuta, mentre in
“Mood for love” non si porta a compimento il tradimento secondo, il doppio tradimento. I punti di vista sono
moltissimi, la stessa realtà viene inquadrata da più punti di vista, questo vale soprattutto per le stanze dei due
appartamenti adiacenti dei protagonisti. Ci sono vari punti di vista ma questo non serve a dare conto di ogni angolo, di
ogni rivolo di quello spazio, tutt’altro. Questo è un film sulla percezione e sulla difficoltà della percezione, la vista è
sempre ostacolata in qualche modo e la visione che è concessa allo spettatore è una visione selettiva. La strategia
stilistica più importante del film è quella dello “slit staging” cioè la messa in scena tagliata, in cui l’inquadratura è
riquadrata in modo tale da circoscrivere
nettamente la porzione di spazio in cui effettivamente avviene qualcosa e in cui si possono muovere i protagonisti.
Della scena è visibile solo una minima porzione: un chiaro uso dello “slit staging” nel film è relativo a tutte queste
inquadrature nei corridoi, in cui non solo c’è una costruzione di profondità, ma anche la parte a sinistra e destra dello
schermo è sostanzialmente bloccata.
Il punto di vista della macchina da presa è distaccato, intrusivo e fa sentire lo spettatore come se stesse spiando
una realtà che non è pensata per lui, è costantemente come fossimo dall’altra parte e stessimo spiando dal buco di
una serratura, il che è assolutamente funzionale all’interno di una storia che parla di intimità negata e anche della
promiscuità di questi diversi nuclei familiari che sono essenzialmente costretti a vivere insieme e l’unica dimensione
veramente intima che si crea è quella tra i protagonisti, ed evidentemente anche quella tra i loro coniugi, è
continuamente condannata alla dimensione del segreto. Quindi in qualche modo questo film propone una visione che è
il contrario di quella che è del cinema classico. Se il cinema classico metteva lo spettatore sempre in condizione di
vedere ciò che avveniva dal punto di vista migliore, qui lo spettatore viene costantemente messo in un punto, insieme
alla macchina da presa, in cui dev’essere consapevole che sta sostanzialmente, faticosamente e tortuosamente
spiando qualcosa, quando gli viene concesso di vedere qualcosa, perché poi, come abbiamo detto, tante porzioni del
film e della sua storia gli vengono negate, non si possono vedere. Il suo desiderio di vedersi raccontare la storia è un
desiderio che può essere ottemperato soltanto in parte, è un desiderio che viene frustrato. Il film sarebbe una tortura
se avesse solo questo tipo stilistico, ci sono anche scelte diverse e quindi a volte la cinepresa si libera dallo stato di
condizionamento e si avvicina ai corpi.
Ci sono bellissimi primi piani, questo perchè sia che la macchina da presa si nasconda sia che la macchina da presa
all’improvviso si avvicini alle cose, è come se volesse attestare la sua presenza nella scena. In questo senso il film si
svolge in un tentativo di dare concretezza fisica al passato, in modo da “presentificarlo”, con un termine molto
filosofico. Quindi è un’immersione paradossale in cui il passato viene “presentificato”. Contemporaneamente la
cinepresa ribadisce la propria esclusione arbitraria di interi frammenti del mondo rappresentato e soprattutto, questo
non l’abbiamo visto, i volti dei coniugi. Non è soltanto una questione di posizionamento della macchina da presa, ma
anche del modo in cui viene affollato il profilo, la porzione di mondo che viene ripresa. La presenza delle sbarre in
tutte le scene per strada in cui loro costruiscono lentamente i brandelli del loro rapporto. Naturalmente ci sono gli
specchi che ritraggono le loro figure. In una scena ci sono loro due e ognuno dei personaggi viene ritratto,
chiaramente un correlato della frammentazione della loro identità, in cui loro da una parte sono sposati e sono
assolutamente ligi alle regole sociali, dall’altra sono presi da questo rapporto interpersonale abbastanza coinvolgente.
Dopodiché c’è un discorso sull’evidenza plastica degli oggetti, ci sono tantissimi oggettini in questo film che si
frappongono sostanzialmente ad una comprensione del mondo più completa. In tutto il film mancano delle riprese
ariose che ci diano una vera e propria idea della configurazione degli spazi sia in esterno che in interno. Gli stessi corpi
vengono frazionati, ne vengono ripresi soltanto delle parti. C’è in generale un lavoro per rimarcare la visione ridotta,
parziale e visione distante, faticosa. È un film che mette lo spettatore nella possibilità di non impadronirsi mai delle
immagini, tranne in alcuni sprazzi in cui vi sono dei primi piani bellissimi che si offrono a noi e al nostro godimento
spettatoriale, però ad un livello di trama non ci possiamo mai impadronire e immergere in questa trama. Questo è
il discorso di fondo del film: l’impossibilità di impadronirsi di alcunché. Per quanto riguarda gli spazi esterni, questa
è una città incredibile per essere una città dell’epoca, una Hong Kong assolutamente vivacissima e culturalmente
florida. È una città in cui non c’è mai nessuno, che faccia bel tempo o che diluvi e le sue vie, soprattutto quando
diluvia o quando è notte, hanno una qualità asfittica cioè non fa respirare, sono soffocanti. È una sorta di città
fantasma, questo è un film incredibilmente fantasmatico, sembra a volte svolgersi in un registro dell’onirico e della
memoria, fantasma nel senso psicanalitico, della presenza di altre persone nel nostro mondo interiore. L’orizzonte dei
personaggi rimane sempre quello della chiusura, del soffocamento, della paralisi. A questo discorso appartengono
anche i vestiti, bellissimi vestiti di lei che da una parte ne sottolineano la carica seduttiva, l’erotismo, la bellezza. Al
tempo stesso lei è come ulteriormente intrappolata, non soltanto nelle regole sociali astratte, non soltanto negli spazi
chiusi, non soltanto nelle sbarre che dominano la strada che caratterizza la loro storia d’amore, ma anche proprio
chiusa da questo codice di vestiario, queste superfici che sembrano flessuose e inviterebbero il tatto, ma sono poi un
elemento di chiusura, di soffocamento. Il tatto è un elemento importante nel film perché soprattutto si sottolinea
l’assenza di contatto tra i due. Vi sono alcune inquadrature, in cui lei si tocca, tocca il proprio vestito, quindi
semmai appunto la sensazione di mancanza, il soggetto la deve riversare su sé stessa e sulla propria pelle, sul proprio
vestiario. In una prima versione del film i due una volta affittata la stanza 2046, in quell’albergo con il corridoio rosso
e le tende rosse, dovevano amarsi appassionatamente, doveva esserci un momento di contatto profondo. E invece,
naturalmente, Won Kar-Wai, tra le varie cose che cambia, infatti è un progetto che ha subito numerose metamorfosi,
decide ad un certo punto di togliere questa cosa. Così come c’erano gli attori che interpretavano i loro coniugi, non
erano soltanto delle comparse. Ad un certo punto lui taglia tutto ciò che ha girato nei primi mesi, addirittura secondo
la testimonianza dell’attrice protagonista, ha girato 30 volte quello che è finito nel film, infatti è una lavorazione che
ha sforato completamente nei tempi e poi lui è stato costretto a iniziare a girare 2046 per obblighi contrattuali senza
finire “Mood for love”, quindi i due film si sovrappongono e lui dice significativamente: “quel periodo della mia vita è
stato come amare due persone”, che detto in questo film sembra piuttosto significativo. L’idea è quella che in 2046
seguirà il personaggio maschile e i suoi rapporti con le diverse donne della sua vita tra cui evidentemente anche Sue,
la protagonista femminile di questo film. Però in questo film era prevista almeno una scena erotica che alla fine egli
sceglie di non girare, perché decide che la cesura di questo film sarà un’estremizzazione del suo discorso sulla
mancanza, sulla perdita e sull’inafferrabilità del desiderio. L’altro elemento dello stile del film è la musica, è
chiaro a chiunque veda il film. Vi sono anche scene nell’ultima parte in cui i due protagonisti sono più vicini che mai,
proprio nel momento in cui sono in stanze diverse, ma ascoltano la stessa musica, ad esplicitare il ruolo fondamentale
del sonoro e della musica. Nel film vi sono motivi di origine latino-americana e anche l’adattamento in spagnolo di
“Mood for love” che è stato uno standard del jazz ed inciso anche da Nat King Cole. Vi sono anche altre informazioni:
una delle proprietarie di casa era in realtà una famosa cantante da giovane in quegli anni, quindi ricompare nel film
negli anni della sua giovinezza da vecchia, con un corto circuito temporale visto che è un film che cerca di riflettere
storicamente sul passato. Le dinamiche sono due: da una parte questo film è una riflessione sull’inafferrabilità del
passato, il passato che è l’infanzia di Won Kar-Wai, dall’altra c’è un discorso più specifico sul tema che viene evocato
nel titolo stesso: l’amore, l’inafferrabilità dell’amore in generale. In qualche modo il nodo del film è questo: perché
i protagonisti si comportano in questo modo? Questo è importante da capire perché se non lo capiamo ci sembra che i
personaggi si comportino in modo bizzarro. Le domande sono due: perché non portano avanti la loro storia d’amore e
perché mettono su questa sorta di teatrino in cui fingono di essere i loro coniugi fedigrafi. Da una parte è chiaro che
loro non vogliono replicare quello che hanno fatto i coniugi rispettivi, “noi non saremo mai come loro”, dice lei ad un
certo punto. Questo però non significa che vi sia un giudizio morale sull’altra coppia o comunque non è questo il
punto. È come se loro non si volessero abbassare all’adulterio borghese che è in una forma paradossalmente
ancora più conformista del matrimonio borghese. Abbassarsi non solo ad essersi sposati ma poi a fare le scappatelle,
i sotterfugi. Alla fine loro sono comunque costretti a fare sotterfugi per vedersi, ma al contrario di quello che
penserebbe chiunque, anche qualche spettatore più cinico, loro in realtà non si vedono per consumare un atto
sessuale, ma tutt’altro. Loro si vedono per produrre qualcos’altro, per essere generativi in un altro modo, non tramite
l’atto sessuale, si vedono per scrivere, quindi paradossalmente di nuovo torna il tema della creatività. Qui la
creatività è in una funzione di coppia: sono appassionati di storie di kung fu e le scrivono, quindi si incontrano per
fare gli scrittori. In qualche modo anche in senso più ampio per condividere un motivo, perché è evidente che loro
sono in qualche modo presi l’uno dall’altro. Quindi non c’è un giudizio morale perché il film stesso non è moralista.
Vi sono sequenze all’inizio in cui ci si fa intravedere la storia dei due coniugi. Vediamo la moglie di lui senza vederne il
volto, che piange. Quindi in qualche modo il film ci fa intravedere l’amore più tradizionale verso la quale sembra non
avere nessun giudizio moralistico, non è la morale il punto. Lungi da ogni moralismo, vi è questa specie di desiderio di
investigare i sentimenti degli altri. Won Kar-Wai ha detto “i miei personaggi sono inseriti in una sorta di dimensione
investigativa che rende il mio film simile ad un thriller hitchcockiano”. Anche Hitchcock spesso trattiene informazioni
allo spettatore e le lascia fuori campo, fuori scena. Anche questo è un film pieno di spazi visti soltanto parzialmente,
di ellissi temporali. È come se i personaggi, i due protagonisti, cercassero tramite questa logica paradossale della
performance in cui loro impersonificano i loro coniugi fedigrafi, di investigare quei sentimenti degli altri e
evidentemente anche i propri. Infatti lei alla fine dice “non pensavo che la confessione mi avrebbe toccato così
tanto”. È evidentemente un rapporto assolutamente paradossale, loro si trattengono dal compiere la dimensione
erotica di un’attrazione tra i due che evidentemente c’è, che si percepisce dagli sguardi di una verso l’altro sin
dall’inizio. C’è un fare affettivo e in già in qualche modo colpevole dai primi scambi di sguardi dei due personaggi, non
è che la dimensione attrattiva non ci sia, ma loro decidono di sostituirla con questa paradossale performance
che dovrebbe in qualche modo far conoscere meglio gli altri e sé stessi.

C’è una non volontà di diventare conformisticamente fedigrafi anche loro e c’è questo desiderio di creare e quindi di
scrivere insieme, di porre il loro rapporto su un piano diverso, produttivo creativamente. In fondo sia la recita che la
scrittura sono produzioni creative. Poi naturalmente se i due scelgono consapevolmente di non amarsi è anche perché
è come se sentissero che nella terra stessa della mancanza c’è il nucleo vero e proprio del desiderio. Loro non si
amano perché è come se il loro sentimento fosse ancora più forte di ciò che può essere concretamente esplicato,
agito. Forse possiamo dire che sono tendenzialmente dei soggetti depressivi che non credono di poter afferrare la
felicità, sentono che la felicità è sempre un qualcosa di completamente inafferrabile, però in effetti loro scelgono di
non amarsi perché è come se fossero consapevoli di questo discorso che però è un discorso culturale di ampio spettro
che vede che il desiderio è qualcosa che non può mai essere completamente soddisfatto. Il desiderio è qualcosa di
inafferrabile per definizione: quando lo soddisfacciamo concretamente secondo la psicoanalisi lacaniana non è che un
discorso temporaneo, parziale e poi il nostro desiderio si riattiverà, il che è anche un bene, perché uno deve vivere in
una dimensione di tensione data dal desiderio. Non ci si può mai illudere effettivamente di entrare definitivamente
e completamente in contatto col proprio oggetto del desiderio. Più che altro è come se il desiderio fosse
caratterizzato da un’inesauribile malinconia o melanconia per un oggetto perduto che non è mai stato posseduto.
Quindi nel film da una parte c’è una dimensione di nostalgia legata al passato, quindi è il passato che è
inafferrabile. Dall’altra parte il discorso sulla perdita, sull’inafferrabilità, non riguarda solo il passato ma il desiderio,
l’amore per definizione, quindi questi due personaggi decidono di non provarci neanche in qualche modo, di non vivere
mai la loro relazione e invece di spostarla tutta quanta sul piano della creatività quindi della scrittura in sé e sul piano
della performance di questo gioco delle parti che è un gioco lacerante che però gli permette di essere
contemporaneamente sia sé stessi che il coniuge dell’altro, quindi una dimensione che rende in un certo senso questo
rapporto quadrangolare, che coinvolge anche le altre persone.Nella scena finale quando il protagonista va a visitare
il tempio, finalmente uno spazio aperto, arioso, il rapporto con la donna è sfumato, è legato al passato del film stesso,
e la frase finale è “quando ripenso a quegli anni lontani, riguardo attraverso un vetro impolverato il passato che posso
vedere ma non posso toccare e tutto ciò che vedo è sfocato e indistinto”. Questa dimensione, da una parte è legata al
passato, è una frase che si lega bene all’idea che qualsiasi film, quando lo vediamo, non ci rendiamo conto. Quando lo
vediamo anni dopo, è come se si fosse aggiunto un velo impolverato sopra, una patina del tempo. Il punto non è
soltanto il passato che si può in qualche modo vedere in modo faticoso ma in qualche modo non si può toccare, ma
anche il desiderio o comunque il desiderio di questi protagonisti che sono immersi in una dinamica paradossale.

TUTTO SU MIA MADRE

Tutto su mia madre è un melodramma dove all’interno tutta la problematica nasce da un desiderio in conflitto tra
strutture sociali, è un film del ’99 le cui protagoniste sono solo donne visto che storicamente le donne avevano
problemi ad abbinare i loro desideri alla struttura sociale perché si viveva in una ‘struttura patriarcale’. Quindi nel
melodramma c’è proprio un eccesso di phatos, che si esprime anche attraverso il linguaggio, attraverso l’eccesso dei
colori, attraverso anche l’eccesso di sentimenti, di affetto. L’uso dei colori nei film non è casuale, in particolare l’uso
del color rosso in questo caso ha un aspetto predominante nelle scene del film, usato soprattutto per pathos e
atmosfera. E’ una luce di scena, ed ha un’inquadratura auto-riflessiva poiché il cinema è anche atmosfera, e
quest’ultima possiamo crearla con le luci/colori. Il film vuole osservare, con questa struttura di coincidenze, di
continui intrecci di persone che non si conoscono e che si incontrano casualmente, e soprattutto con questa
macrostruttura di ripetizione il punto di vista melodrammatico sull’esistenza segnata da una lotta tra le richieste
della società e i propri desideri e quindi c’è un carico di pathos poiché appunto i personaggi melodrammatici hanno
una forte carica di desideri non ritenuti consoni alla società , questo è il profilo melodrammatico del film, anche se poi
racconterà una storia di rinascita, i personaggi melodrammatici solitamente non sono proprio bravi a stare al mondo
poiché non sono in grado di conciliare le proprie richieste con il mondo esterno, e invece questa idea della ‘gentilezza
degli estranei’ viene vista come un qualcosa che invece esiste poiché tutto il film è incentrato su questi incontri
casuali che poi in fine creeranno davvero questa strana idea di famiglia allargata e asimmetrica. Il melodramma
prevede questa donna che dopo 17 anni torna nella città in cui ha concepito il figlio e rincontra il padre, ma è una
struttura che potrebbe anche essere ‘ridicola’, poiché il melodramma è composto da coincidenze inverosimili quasi
da soap opera, proprio perché importa il carico di sentimento coinvolto nell’azione. La struttura melodrammatica è
data sia dallo stile narrativo che dal colore ma contemporaneamente il film gioca anche sul piano dello humor (ironia)
quindi leggerezza di questi due personaggi, che sono due travestiti/transessuali che vivono in due mondi diversi poiché
Lola è un personaggio melodrammatico e invece Agrado è un personaggio umoristico. Il film quindi è tutto
giostrato da una parte da un eccesso melodrammatico e dall’altra una parte di leggerezza ironica. Almodovar (il
regista) è riuscito ad attirare l’attenzione del pubblico grazie proprio alla mescolanza nel melodramma e di humor.
Questo racconto è una riflessione complessa e stratificata sul femminile, sulla femminilità ed in generale sulle
dinamiche di genere e quindi lo analizzeremo come esempio di Queer Cinema.

Siamo arrivati in un momento in cui la protagonista, Manuela, è l’assistente della grande diva teatrale. Parleremo poi
del forte rapporto intertestuale che abbiamo tra questo film e tutta una serie di altri grandi classici come Eva contro
Eva. Quello che emerge è che si è già creata questa rivoluzione di comunità bizzarra di donne anche molto diverse.
Tutto su mia madre è un film che arriva ad un certo punto della carriera di Pedro Almodovar abbastanza avanzata. Si
tratta di un regista legato al doppio filo con la rinascita della Spagna e l’uscita della cultura spagnola dalla dittatura
franchista che termina nel ’75. È un autore strettamente legato ad un momento di grandissima effervescenza culturale
della libertà di costumi spagnola, la movida spagnola degli anni ‘80 > termine che poi è passato nel linguaggio
comune per indicare “uscire per divertirsi” che negli anni ’80 in Spagna assume un’accezione anche più trasgressivo
come si vede anche in questo film, legato a sperimentazioni con le droghe e ad una sessualità fluida. Almodovar
esordisce con una serie di film come La legge del desiderio, Tacchi a spillo, Legami che sono dei film non più di
nicchia. Essi sono film più estremi nel mettere in scena questo stile di vita. Una prima affermazione internazionale di
Almodovar avvenne, invece, nel 1988 con Donne sull’orlo di una crisi di nervi > un primo film in cui questa
dimensione erotica è presente in modo scandaloso. Dunque, si tratta di un cinema che comincia ad adattarsi ad un
pubblico più ampio. Dal punto di vista cinematografico, le sue sperimentazioni continuano negli anni successivi e
questo film vincerà un’enorme quantità di premi tantoché nel 1999 Almodovar diviene un autore affermato a livello
internazionale con Oscar etc etc.

Questo film ed in parte tutta la produzione di Almodovar è legato al concetto di QUEER > di soggettività. È un
termine inglese, il queer cinema è uno dei fenomeni del cinema degli ultimi anni. Si tratta di un aggettivo che è stato
appropriato da persone che venivano identificate strane, bizzarre e che ne hanno fatto una loro barriera identitaria.
Infatti, quando parliamo di soggettività queer dobbiamo fare riferimento ad un discorso che va anche oltre la semplice
affermazione dell’omosessualità come campo discorsivo che merita la sua autonomia, qui è qualcosa di più. Qui c’è la
consapevolezza di un posizionamento sovversivo, altro, diverso rispetto alle pratiche identitarie tradizionali che
sono naturalmente si dice “etero normative” basate sull’idea della coppia eterosessuale. Quindi vi è la consapevolezza
di questo diverso e se ne fa una pratica sovversiva, nel senso che si cerca di guardare il mondo in modo diverso proprio
sulla base di questo posizionamento . Va anche oltre la semplice affermazione dell’omosessualità in quanto essa possa
essere accettata e avere delle considerazioni che si va a contrapporre ai binomi che vano a costruire l’identità di
genere eterosessuali, quindi uomo/donna. C’è un’idea di fluidità. I personaggi si muovono in questa polarità senza
trovare una soluzione, senza avere il bisogno in qualche modo di trovare una soluzione. Questo è evidentemente
legato ad un’idea di soggettività, vi è l’idea di essere più cose contemporaneamente. L’idea di soggettività queer
prevede:

- La consapevolezza del proprio posizionamento sovversivo rispetto alle pratiche identitarie tradizionali,
che appartiene al cinema di Almodovar sin dall’inizio.
- Il rifiuto di ogni semplicistica opposizione binaria come strumento di costruzione dell’identità:
uomo/donna, omosessuale/eterosessuale, travestito/transessuale etc etc.
- La consapevolezza, anche ludica, che il processo identitario sia fondamentalmente legato alla
dimensione della performance e fortemente influenzato dalle dinamiche culturali.

Il film gioca molto anche sugli eventi melodrammatici, i colpi di scena, le casualità e le ripetizioni. Però, ad un certo
livello proprio questi contenuti legati alla soggettività queer e all’identità sono presentati come fatti senza particolari
fronzoli. Almodovar è singolarmente responsabile in qualche modo di aver portato questo genere di discorsi all’interno
dei mainstream. Dunque, queste divengono delle categorie e delle forme di rappresentazione accertate. Questo
passa in questo film come una de-erotizzazione della messa in scena . C’è una idea di fondo di una assoluta
normalità di queste cose e c’è proprio una idea di fondo del film, ovvero che le persone che si identificano con una
soggettività e sessuali queer sono più consapevoli di qualcosa che caratterizza l’identità per definizione ovvero il suo
essere mai una cosa data per assodata ma l’identità è un processo, una costruzione influenzata culturalmente.
Essa è sempre caratterizzata in un cero livello da una lezione di performance, di recitazione di immedesimazione e di
identificazione con un ruolo. Quindi, il film è un film in cui la performance non equivale a falsificazione. Anzi, c’è
un’idea che la performance sia il luogo in cui ci si può identificare con se stessi e quindi si può recitare al meglio il
proprio ruolo. È una riflessione che viene da lontano perché l’idea che noi nella nostra vita quotidiana interpretiamo
dei ruoli risale all’idea di un grande pensatore degli anni ’50 > le persone nel quotidiano, anche in famiglia, recitano
dei ruoli e si identificano con delle parti e non è una condanna alla finzione o alla inautenticità, al contrario. È un
modo per essere più autenticamente se stessi . La soggettività è legata da una performance, ognuno recita il proprio
ruolo anche in relazioni che sono i propri istinti e i propri desideri. C’è un’idea di potersi costruire anche la propria
apparenza esteriore in relazione ad un sentiero interno e quindi sconfiggendo la dinamica biologica più semplice. Il
postmoderno è l’epoca della soggettività frammentata A idea che la soggettività sia stratificata non è mai
identificabile soltanto in un modo . Storicamente, il postmoderno è anche l’epoca in cui le persone che hanno delle
configurazioni soggettive diverse che non siano semplicemente eterosessuali possono prendere il centro della scena e
scrivere il loro punto di vista.

Il postmoderno è l’epoca della fine delle grandi narrazioni con cui si interpretava il mondo. Innanzitutto, tutti i
discorsi ideologici che sono stati fatti nella storia dell’800 ma anche del ‘900,i vari discorsi del nazionalismo, il
comunismo. Nel film abbiamo anche alcuni accenni a tutta una dimensione politica, alla fine del pensiero unico delle
dittature . Si fa riferimento alla dittatura argentina. Il postmoderno non vede più un modo solo, non vi è più un
pensiero unico di interpretare la realtà ma ci sono tanti altri racconti che sono racconti delle minoranze. Prende,
inoltre, il centro della scena anche l’identità non bianca. Si aprono delle prospettive e si esce anche da un discorso
eurocentrico. Quindi, la moltiplicazione delle narrazioni è un discorso ampio e riguarda delle dinamiche macro nelle
quali una delle dimensioni più importanti è il discorso del queer cinema. La casa di produzione di Almodovar si chiama
“el deseo”. Il cinema di Almodovar è anche un cinema in cui la dimensione del desiderio è proprio l’eros del sesso ed
è interessante vedere come in qualche modo in questo film il discorso sull’identità queer non sia legato soltanto
all’eros. L’eros è tutto sommato in Tutto su mia madre meno importante dei rapporti emotivi, dei rapporti
sentimentali, dei rapporti in cura.Ciò rappresenta una svolta in cui l’autore passa dall’essere un autore di nicchia che
fa riferimento ad un pubblico più trasgressivo all’essere un autore assolutamente riconosciuto da tutti.
Contemporaneamente, è interessante perché è una svolta legata non solo al discorso di marketing. Il film è un film sul
femminile > è dominato dal femminile e si può anche dire che si tratta di un film speranzoso in quanto è incentrato sul
femminile. Per cui, in Almodovar femminile equivale a speranza. Qualche anno dopo, nel 2005 girerà la
Maleducazione che è invece un film tutto maschile e sul suo desiderio in cui vi è l’assenza del femminile. È un film sul
femminile non solo in senso del materno ma c’è uno sguardo anche di nudità che è complesso, è uno sguardo di un
uomo che dal punto di vista di omosessuale fa riflettere su questa sorta di mistero sul femminile e su come il
femminile più di altro, più del maschile sia consapevole di questa performance e quindi sia strettamente legata a
questa dimensione di creatività.

È una riflessione sulla femminilità, maternità e creatività. Nella scena del figlio che prende appunti c’è una sorta
di controcampo come se fosse il punto di vista del foglio > si tratta di una soggettiva impossibile del foglio, è come se
il figlio scrivesse sullo schermo. È come se ad un certo livello l’intero film fosse la scrittura del film stesso. C’è una
sorta di identificazione tra il registra e la figura del figlio. Il film è una riflessione sulla creatività anche in relazione
alla scrittura. Troviamo figure di scrittori omosessuali come Garcia Lorca. È un po’ come se il film fosse una
riflessione sull’essere figli maschi gay che scrivono ispirati a queste figure di donne che recitano. Le donne sono più
consapevoli che mai di questa dimensione della performance e della soggettività. Si può dire che tutto il film sia
inscritto in una sorta di inquadratura in cui la scrittura è di Esteban, il resto del film come se fosse una sua idea.
C’è un movimento di macchine molto complicato > si passa dalla dimensione della vita dei due, di Esteban, di Manuela
ed Esteban, alla convinzione del teatro, è proprio un movimento di macchina. La dimensione di ripetizione
melodrammatica è già in atto. La costruzione della scena in realtà mostra lui che scrive, la madre lo attende non sotto
al cartellone, lui la guarda, scrive di nuovo, tra l’altro questa idea della scrittura coglie il rispecchiamento
dell’immagine sull’ufficio del padre. La madre è già inglobata nel manifesto del film ed è come se questa
sovrimpressione insistita nel modo in cui si passa alla scena teatrale, è proprio come un momento in cui la dimensione
alta sia di Esteban e la realtà, la dimensione della scrittura, dell’immaginazione, quella della recitazione, la
dimensione della fotografia ingigantita, quella del cinema, quella del teatro, come se tutto quanto convergesse. Tra
l’altro, naturalmente, il grande elemento di legame tra tutte quante queste immagini è anche il colore rosso, che è
evidentemente il colore di questo film, il colore della passione, del pathos in generale, non soltanto dell’eros, della
sofferenza, il colore del melodramma, che infatti è ovunque in questo film, serve proprio a segnare questa carica
emotiva molto forte che c’è nel film. Quindi, in qualche modo, il film è iscritto nella prospettiva di Esteban, appunto
iscrive lo schermo, quindi, in qualche modo, ha una sorta di paternità, queste parole, soprattutto su mia madre non si
possono mai usare quindi non in modo superficiale sul film. Però poi il film, si emancipa anche, perché non diventa,
non è più una riflessione sul figlio, ma, diventa appunto, proprio un omaggio alla madre, alla figura della madre, alla
figura della donna come attrice, questa dimensione di performance e tutto il resto del film è una sorta di avventura
del femminile come una forza positiva. Il rapporto di Manuela ed Esteban era caratterizzato dal silenzio, lei era
attrice, nel senso che sapeva mentire bene, come se tutta la sua avventura esistenziale lei non l’avesse rivelata al
figlio. Tutto il tema è quello della favola spezzata e quindi il film serve a proporre una traiettoria riparativa, in
questo senso.
Non è a caso che Penelope Cruz, Suor Rosa, prima di morire si faccia promettere da Manuela di dire tutto al figlio, cioè
una seconda possibilità in cui non bisogna più tenere il segreto, questa dimensione del segreto deve essere superata a
prova invece di una maggiore apertura e ristrettezza delle dinamiche. In qualche modo il femminile è forza positiva,
proprio perché è consapevole del proprio posizionamento identitario della propria performance e quindi, agisce di
conseguenza. Il legame eterosessuale invece è caratterizzato come qualcosa di insostenibile, anche se poi, di
eterosessuale in senso stretto ha comunque molto poco, perché il personaggio di Lola è appunto una transessuale. Lola
e Agrado sono due facce della stessa medaglia, la faccia positiva e la faccia negativa, dove Lola è il personaggio che
vive comunque questa trasformazione in termini di sopraffazione, di aggressione, quindi mantiene su di se tutti gli
aspetti più negativi della mascolinità, non devono per forza essere agiti in questo modo e quindi la sua traiettoria,
diventa una traiettoria di morte, una traiettoria di contagio, è proprio come se Lola rappresentasse il legame
profondo tra l’eros e il thanatos, quindi l’eros e la morte, Agrado invece era una persona che, anche vive questa
appunto, questa dualità, questa molteplicità nei posizionamenti del desiderio della sessualità, ma, come dice il suo
stesso nome, lo fa anche in una modalità altruistica per rendere la vita piacevole, per rendere la vita gradevole
agli altri, quindi c’è in lei la scelta di essere libera per le altre persone che è un po’ la scelta che caratterizza anche
Manuela, quindi il femminile, visto qui come materno è il prendersi cura, Manuela ma anche Agrado sono personaggi
materni, si prendono cura di Esteban, si prendono cura di Uma.L’immagine dell’uomo è sempre vista in modo distorta,
cioè non si vede mai in modo chiaro o magari in modo negativo come l’attore oppure il padre che è deviato dalla
malattia e quindi non è mai al cento per cento posto alla realtà, è sempre in maniera deviata o distorta. Non esistono
figure di uomini che verranno presenti in questa narrazione, l’unico è Esteban all’inizio, che poi però muore.

In particolare questo film è legato a “La flor de mi secreto” , “il fiore del mio segreto”, che era un film di qualche
anno prima, del ’95 o ’94 e, al film successivo parla con lei, sono stati chiamati “La Trilogia della morte celebrale”
perché sono tutti legati a questo problema, appunto, che si è iscritto sin dall’inizio del film, all’idea del paziente che
non reagisce più, sono dei film che descrivono questa traiettoria, no l’idea della perdita del tutto, poi un processo di
crescita che in “Tutto su mia madre” è anche un allontanamento fisico, in questo film molto importante è poi il
processo di guarigione. Il melodramma, che è una della grandi fonti di questo film è un genere in cui spesso la
ripetizione è una ripetizione tragica, le traiettorie di dannazione di questo desiderio straripante delle eroine del
melodramma che soffrono, si appendono alle tende, si buttano dalle scale, è un desidero che magari si ripete
ugualmente negativo di generazione in generazione, è un destino infausto, da cui non si può uscire. Il melodramma è
il genere della fatalità e quindi del fato negativo, invece qui, in qualche modo, si prende il melodramma e si va più
al di là del melodramma. Alla fine si ha un discorso positivo, un discorso di riparazione di nascita, di crescita e questo
è presente a tutti i livelli del film. Manuela e Lola, Esteban per primo, sono scappati dall’Argentina perché c’era la
dittatura, questa parola non viene detta esplicitamente nel film perché la rilascia in tempo, però c’era un discorso
anche politico, che non è legato soltanto alla Spagna, ma alla dittatura Argentina, quindi, l’idea di questa nascita del
nuovo Esteban che corrisponde, guarda caso, al giorno della morte del dittatore, cioè un’idea di poter ricominciare
da capo, uscire dalla sofferenza, uscire dal lutto, uscire dalla dimensione del segreto e vivere invece questa
dimensione d’identità complessa e fluida, in modo più aperto, liberi da dittature politiche di ogni genere, anche quindi
di dittature mentali, perché la dittatura è anche una dimensione vista dritta al nostro cervello e che può impedirci di
accettare la politicità della nostra identità, e naturalmente l’altra dimensione di riparazione molto importante qui, è
quella lì legata all’HIV, anche perché nel ’99 che il virus scomparisse era un’immaginazione piuttosto forte, non è
come adesso che se vengono prese le adeguate medicine, ad un certo punto il virus diventa non trasmissibile.
Quindi, all’epoca era anche una forma di immaginazione, non voglio dire che era fantascientifica, perché sarebbe
esagerato, però è un atto di fede.

Nel film si ha una sorta di comunità al femminile: Manuela, Agrado, Rosa, Uma, tendenzialmente loro costruiscono
una forma di amicizia molto bizzarra, inaspettata no, perché sono persone che si rincontrano in condizioni piuttosto
strane e con cui, però, si prendono in qualche modo cura l’una delle altre, anche Uma alla fine invece si fa depositare
nella foto di Esteban perché lei si prende cura di questo lutto, di cui non può essere ritenuta direttamente
responsabile ma che, evidentemente, la tocca nel profondo. Quindi, si crea un mondo femminile, una comunità
femminile. Analizziamo ad esempio la carta da parati della casa di Manuela con tutti quei rombi > è una specie di
traslato spaziale, architettonico di un mondo avvolgente, di un mondo tendenzialmente orizzontale, l’unico momento
di verticalità invece è l’apparizione di Lola al cimitero dall’alto. La verticalità è legata all’idea della struttura di
potere, alla struttura di dominio. Lola guarda dall’alto, controlla è ancora legata, diciamo così, a questa dimensione
negativa, in cui, c’è qualcuno che deve stare sopra, che deve dominare, deve sopraffare, invece l’organizzazione
proposta dal film, tutta femminile, è tendenzialmente molto più orizzontale.
Il film propone un’ipotesi di famiglia nuova, non per forza legata strettamente alla dimensione biologica ma come
forma di legame affettivo eterodosso, eterogeneo, una vera e propria costellazione, appunto, che rimane, tutto
sommato solo femminile in questo film, però appunto è comunque molteplice, mentre Esteban ha vissuto solo con la
madre ed è chiaro che da qualche parte Manuela, cioè Manuela che è l’eroina di questo film fa anche una scelta, 17
anni prima> l’unico suo modo di salvarsi da questa forza del maschile di Lola, è di andare via, perché lui altrimenti
l’avrebbe contagiata, però è anche una scelta, comunque, egoistica, lei era già a conoscenza del desiderio di paternità
di Lola, gli dà una chance di cambiare, conoscendo suo figlio, naturalmente perché sapeva che questo non sarebbe
successo, però invece nel nuovo corso, c’è l’idea quantomeno familiare rurale, anzi, appunto neanche più costruita da
una coppia genitoriale ma da tanti punti di riferimento diversi.

Per quanto riguarda il lavoro sul colore esso si concentra sulla vivacità e sulla vividezza del colore. Il melodramma è
una sfera a tinte forti, a colori accesi, sono a tinte forti le passioni, le protagoniste. Il legame fondamentale del film è
con “Eva contro Eva”, capolavoro del 1950 di Joseph Mankiewicz, con Bette Davis. Una ragazza di nome Eva si fa
strada nella sua vita e diventa la sua assistente, in realtà poi finisce per sostituirla, diventa a sua volta una diva del
palcoscenico, quindi la trama di “Tutto su mia madre” diventa invece anche un modo di ritornare sulla trama di “Eva
contro Eva”, che appunto si chiama “All About Eve” “Tutto su Eva” in originale, e vi propone un’altra cosa, vi propone
quindi un rapporto tra il femminile, tra donne, che non è un rapporto di sopraffazione e di rivalità, ma è un rapporto
di amicizia e anche in questo c’è una cognizione riparativa.

Uma si fa accudire, appunto, da una sconosciuta che è Marlena, Agrado, ugualmente, tutto ha un’idea che nonostante
non si conosca bene si può creare un legame empatico, tramite il prendersi cura, e che il femminile, legato al materno
è particolarmente capace di questo, del prendersi cura, però naturalmente non è un femminile che è proprietà
soltanto delle donne e neanche di tutte, ma è in qualche modo una scelta. Uma sopravvive, in qualche modo, anche lei
proprio perché Lola riesce a prendersi cura del mondo di Manuela, quello che rimane del mondo di Manuela a
Barcellona, quando lei se ne va.
David Lynch: Twin Peaks e Mulholland Drive

David Keith Lynch, nato nel 1946, fa parte della generazione di registi della New Hollywood. Ciononostante segue
un suo percorso, abbastanza peculiare e ottiene successo in un secondo momento: è uno dei cineasti americani più
significativi a partire dagli anni ottanta. Egli non può essere inserito in nessuna categoria più ampia; costituisce un
universo a parte poiché il suo cinema costruisce mondi diversi e paralleli. Si tratta di una figura eccentrica del
panorama contemporaneo americano, la quale, sebbene non possa essere ingabbiata in nessuna categoria, incrocia
diversi discorsi fondamentali degli ultimi 30 anni del cinema hollywoodiano e non solo: in primis il discorso sulla
complessità narrativa, più volte incontrata con il dottor Caligari e Rashōmon. Si tratta, pertanto, di una figura
eccentrica, che non può essere inquadrata facilmente. Egli preannuncia alcuni caratteri importanti.

Lynch è pertanto una figura eccentrica così come è eccentrico il suo percorso: la prima fase della sua carriera è
contraddistinta da soli cortometraggi, poi c’è un esordio molto sperimentale con Eraserhead, un film che presenta
immagini molto forti. Si tratta di un registra che riesce ad affermarsi con The elephant man, un film più classico
del 1980 incentrato sull’uomo che supera i limiti consueti dell’umano standard (è la storia di un uomo deforme,
realmente esisto nell’Inghilterra vittoriana). Blue Man del 1986 è il film che finalmente lo consagra, essendo
presenti una serie di temi fondamentali del suo lavoro: si tratta, nello specifico, di un film ambientato in una
cittadina di provincia americana (tipica dell’immaginario degli anni 50 anche se il film si svolge negli anni 80: di
fatti, si rifà tantissimo all’immaginario idilliaco della classica casa suburbana in un mondo ideale dell’America
dell’epoca) che rivela, al di sotto la sua superficie, una zona nascosta: il protagonista Jeffrey è un giovane che
deve scoprire dentro di se degli impulsi oscuri/sadici e affrontare un padre manesco, da cui si sente diverso ma
anche in qualche modo attratto. Si tratta di un film che deve molto all’influenza surrealista e ai discorsi
psicanalitici (in particolare al complesso di Edipo: la competizione che un figlio nutre inconsciamente per il padre,
dovuta alla proiezione amorosa nei confronti del genitore di sesso opposto /madre/).
In particolare tutta l’opera di Lynch cerca di mettere in scena le configurazioni psichiche, seppur non si tratti
solamente di un film mentale bensì di un film radicato nel sentire (termine interessante dal duplice significato: il
sentire in senso strettamente uditivo ma anche il sentire in senso figurato circa la percezione, molto spesso fisica,
delle emozioni; queste due connessioni sono strettamente legate: è un film in cui la psiche/la mente è sempre
radicata e connessa con il corpo). Di fatti Lynch mette in scena fantasmi psichici, mostrandone il profondo
radicamento del sentire, sia nella sua eccezione emotiva che uditiva: la musica e il suono sono delle dimensioni
fondamentali per capire il cinema di Lynch. Tale cinema è rappresentato dal tentativo di immergere lo
spettatore con i suoi fantasmi psichici che si presentano non decifrati (così come accade a noi nei sogni). La
sfida di Lynch è quindi data dal non spiegare (caratteristica più radicata rispetto ai surrealisti), immergendo lo
spettatore in un incontro con qualcosa che sfugge la sua comprensione, con l’orrore dell’incontro con il
fantasma originario. Del resto l’idea che al fondo della nostra esperienza ci sia qualcosa di inspiegabile è veritiera
(si tratta di una sorta di smarrimento di fondo, infatti anche Twin Peaks si forma attorno all’urlo di Laura Palmer,
un urlo originario di angoscia). In un’intervista con Patty Smith, Lynch afferma: “è come se nella stanza accanto ci
fosse il puzzle completato mentre in quella in cui mi trovo riesco a guardare solo un pezzo alla volta”. L’idea è
che egli costruisce i propri film tramite non operazioni razionali ma mediante delle strutture fantasmatiche,
consegnate come dei frammenti di realtà psichica condotta senza decifrazione: più si procede in avanti, più il film
di Lynch è coraggioso nel far ciò fino a raggiungere dei livelli vastissimi, infatti Inland Empire risulta essere un film
indecifrabile. In riferimento al surrealismo si tratta di film costruiti secondo una logica parallela, la quale fa
riferimento all’idea che l’inconscio nel produrre i nostri sogni funzioni su un piano diverso, basato sulle leggi della
condensazione e dello spostamento per quanto riguarda alcuni elementi/ personaggi/oggetti (gli oggetti sono
importanti nel cinema di Lynch, cinema nel quale su alcuni spazi si condensano più significati così come qualche
discorso che era attribuito ad personaggio o uno spazio viene invece spostato su un altro spazio/personaggio: così
come studiò Freud si tratta di operazioni di base dell’inconscio).

Uno dei temi principali di Mulholland Drive è dato dall’idea della ricerca continua di un senso complessivo, il
quale è rappresentato dalla dimensione della casa/dell’abitazione, la quale è assente nel cinema di Lynch. Tale
assenza può essere rappresenta dall’idea che lo spazio domestico esista ma che non sia per niente rassicurante.
Anche Velluto Blu è un film che lavora molto su questo: è un film in cui ci troviamo in presenza di case borghesi in
questo idillico mondo degli anni ‘50 ma che dietro nasconde naturalmente ansia, angosce e pulsioni oscure. L’altra
dimensione è quella della nostalgia in cui la casa è assente e la si ricerca a tutti i costi: è come se al posto della
pienezza originaria impossibile da trovare si trovasse il fantasma originario, ossia l’orrore di fondo.
L’immaginario di Lynch è per lo appunto nostalgico e molto legato all’ambiente in cui è cresciuto, quindi gli anni
'50, per questo il riferimento è spesso, molto spesso, alla cultura degli anni '50 e lo vedrete anche in Mulholland
Drive in relazione al mondo del cinema in particolare, il film ha una relazione intertestuale forte con il cinema
degli anni '50, per cui c'è una sorta di nostalgia. Dopo appunto la consacrazione con Blue Velvet e poi con Cuore
Selvaggio nel '90, Lynch inizia la sua avventura televisiva con Twin Peaks.

Twin Peaks è una serie complessa. Lynch crea quindi dei mondi articolati, complessi e contraddittori: è un registra
che non teme di spiazzare completamente gli spettatori, non ha paura di mettere in scena cose che palesemente
non hanno senso poiché il senso va cercato altrove. Nello specifico, si tratta di vari mondi che compongono un
universo che si conosce man mano che si affronta l’intera opera di tale autore: ciò vale con quasi tutti gli autori
ma Lynch, dal suo canto, da un certo livello, ci richiede di entrare nella suo immaginario interiore e nella sua
esperienza, la quale, può essere definita, in un certo qual modo, fantasmatica. Gli universi che egli costruisce
sono distaccati dall’idea di una narrazione verosimile, bensì flirtano/giocano con tale idea per poi, nella parte
finale, disorientare lo spettatore, mandando all’aria le sue certezze. Il punto di riferimento principale da
considerare per poter comprendere il cinema di Lynch è il surrealismo: tale legame è chiaro e diretto (Meshes of
the Afternoon di Maya Deren, una registra sperimentale, costituisce un anello di congiunzione poiché si tratta di un
film sperimentale americano, girato a Los Angeles, ispirato ai surrealisti; tra l’altro è un film degli anni 40; Lynch si
è ispirato infatti al cinema degli anni 40, in particolare al noir). Il personaggio principale di Twin Peaks si chiama
Laura Palmer. I diversi riferimenti sono rappresentati sicuramente dalla tradizione surrealista, (tramite il filtro
dello stesso cinema sperimentale) ma anche da tutto l’immaginario hollywoodiano del cinema più mainstream (in
particolare il noir). Il mondo di Lynch è caratterizzato da una proliferazione apparentemente incontrollata di
traiettorie narrative: si tratta di mondi pressoché indecifrabili, i quali, però, sono stati decifrati, dopo un lungo
periodo di analisi e studio da brillantissime menti.
Twin Peaks anticipa di molti anni la svolta della TV di qualità, della TV che può assomigliare in qualche modo al
cinema perché è una seria prodotta dalla ABC, uno dei canali network principali americani. Nel '90 c'è la prima
stagione e nel '91 la seconda che viene brutalmente tagliata dal network poiché gli ascolti sono calati
significativamente. E' una serie molto innovativa perchè fino a quel momento le serie prestigiose che andavano in
onda in prima serata avevano sempre degli episodi auto-conclusivi. Iniziano negli anni '80 a crearsi delle storie che
passano da puntata a puntata, però è un cambiamento che avviene gradualmente negli anni '80 in modo abbastanza
timido. Una serie importante da questo punto di vista si chiama "District Giorno e Notte", una serie poliziesca, ma
è poi con Lynch il passaggio all'idea che l'episodio non debba essere auto-conclusivo, ma debba essere parte di
un grande flusso narrativo. Una cosa che a noi sembra ovvia, ma per l'epoca non lo era per niente. E' una
contaminazione del mondo della televisione in prima serata, che non era un mondo arcaico, però diciamo è una
contaminazione tra la Prime Time Tv e le Soap.
Le Soap avevano già questa struttura fluida in cui ovviamente non si conclude nulla tra una puntata e l'altra. Le
Soap che ovviamente esistevano già, sono partite in Ucraina negli anni '30 e poi emigrate in TV negli anni '50
avevano già questo flusso narrativo e quindi paradossalmente sono proprio le Soap a fare da modello alla
televisione di qualità. Sembra un controsenso, ma è così, perché alcuni autori e Lynch è appunto tra i primi,
decidono che si può fare una narrazione fluida, ininterrotta per puntate e puntate, e all'inizio riesce questa
combinazione tra dimensione autoriale e pubblico e così gli ascolti sono altissimi, l'ABC è contenta, però Lynch non
vorrebbe mai rivelare il mistero che c'è al centro di Twin Peaks, chi ha ucciso Laura Palmer, e ad un certo punto lo
costringono a rivelarlo durante la seconda stagione e quindi poi ovviamente gli ascolti calano, però la cosa funziona
anche male perchè quello che interessa a Lynch è rimandare continuamente una narrazione infinitamente
differita, sempre si complica il racconto, si complicano le trame, non è importante arrivare ad una conclusione,
ad un senso, semmai essere immersi in questo mondo, e lui subisce poi in maniera abbastanza pesante questa
idea, perché gli tagliano la serie tv, per cui questo mondo complesso che stava costruendo gli viene tagliato via di
netto. Da un altro lato però questa disavventura produttiva gli da un impulso cruciale perché da quel punto in poi,
da quando la struttura narrativa di Twin Peaks viene spezzata e non si ricuce più, è lo stesso per tutte le altre
narrazioni di Lynch? Fino a quel momento, Velluto Blu e Cuore Selvaggio erano dei film che avevano un inizio e una
fine e che erano certo carichi di fantasmi angosciosi, di una dimensione perturbante, però tutto sommato quello
che succedeva si capiva. Dopo Twin Peaks, dopo che la sua narrazione viene spezzata e sottratta al controllo
del suo autore, i film di Lynch saranno tutti quanti spezzati e incomprensibili, cioè la possibilità di portare a
termine una narrazione diventerà impossibile.
L'incontro con le convenzioni televisive è un punto di non ritorno, anche proprio perché è un incontro che fallisce.
E' stato un incontro a cui, ad un certo punto, il network dice "dicci chi ha ucciso la signora Palmer", poi, dopo che
lo fa rivelare, gli tagliano comunque la serie Tv. Quando gli offrono di fare il film per chiudere le trame lasciate
appese nell'ultimo episodio di Twin Peaks, lui dice afferma di non voler produrre un film in cui venga chiarita la
situazione, ma sceglie un prequel per far capire ancora meno. Quindi Fuoco cammina con me (il prequel) è un film
delirante che però è fondamentale per chi di voi voglia vedere la terza di Twin Peaks che è una stagione che lui fa
nel 2017 che è però appunto completamente dal lato della difficoltà interpretativa e quindi Twin Peaks è una
narrazione che si rompe, Fire walk with me ulteriormente e quindi da quel momento in poi tutte le sue narrazioni
saranno delle narrazioni che, ad un certo punto perdono pezzi, appunto dei puzzle incompleti, essenzialmente.

L'unica che fa eccezione è the Straight Story, una storia vera, dove Straight significa dritto, è una storia dritta
perché è la storia di un vecchio agricoltore che scopre che suo fratello sta morendo e vuole andarlo a trovare prima
che muoia, non ha come muoversi, prende un trattore e parte dritto, nelle strade americane dritte che vanno per
chilometri e chilometri dritte così. Ed è una storia completamente lineare, una storia auto-conclusiva, precisa,
rigorosa. E' anche un film che non ha elementi surrealisti, ad un certo punto lui dimostra anche al mondo di
Hollywood che lui può creare una storia lineare come questa, solo che non gli interessa. Però questa idea della
strada dritta è interessante, perchè la dimensione della strada tortuosa ritornerà nei suoi film successivi. La
strada diventa un correlato dello spazio della mente e quindi è altro che una straight story, sarà una strada
completamente piena di passaggi, incroci, imprevisti e passaggi segreti.
Dopo lo scontro con le convenzioni televisive, Lynch si dedica poi a quelli che sono ormai i suoi film più famosi,
Lost Highway e Mulholland Drive, che sono dei film in cui non c’è una possibilità di una narrazione auto-
conclusiva e quindi proseguire una strada da un punto A ad un punto Z, è impossibile. Tutto si sdoppia, si
rifrange, il doppio ha chiaramente sempre avuto una dimensione importante nel cinema di Lynch, così come in
qualsiasi cinema che sia interessato alla psiche e alle sue strutture, evidentemente. Il doppio è sempre anche il
doppio bene - male, così come il doppio realtà - fantasia, ci sono tante declinazioni del discorso sul doppio. Twin
Peaks significa le Vette Gemelle e in qualche modo chiaramente rappresenta metaforicamente il bene e il male.
In questo caso, sono le narrazioni stesse almeno a sdoppiarsi, quantomeno ci sono due mondi paralleli che vengono
raccontati da questi film. Mulholland Drive è collegabile, appunto tutti questi film sono collegabili alla sfera del
Mine Games Film, un cinema che si presenta come enigma da interpretare sia per i personaggi che per gli
spettatori. La maggior parte dei Mine Games Film sono dei thriller, proprio perché questa è l'idea dell'enigma da
interpretare e si adatta molto bene al livello dell'investigazione, però "A Beautiful Mind" non è un thriller, è una
biography, quindi è una dimensione narrativa che si espande secondo molte modalità diverse e "The Eternal
Sunshine of the Spotless Mind" non è sicuramente un thriller, è un film, un dramma dei sentimenti e come vedete
sono anche dei film per la maggior parte statunitensi, Caché (Niente da nascondere) di Michael Haneke, riguarda
anche il cinema europeo. E in Niente da nascondere l'enigma riguarda proprio la storia coloniale dell'Europa, quindi
è interessante, così come The Others di Amenabar con Nicole Kidman, è un film di un regista spagnolo, quindi è un
trend transnazionale possiamo dire. All'interno di questo trend generale un'altra distinzione che si viene a fare del
Mine Games Film potrebbe essere quali di questi film alla fine propongono effettivamente una soluzione e quali no
e tra tutti questi indubbiamente i film di Lynch sono i più radicali, non penso ci siano dei film altrettanto estremi
nel consegnare l'idea che poi questo puzzle, invece di risolverlo, viene mandato all'aria e si perde qualche pezzo.
La complessità narrativa del puzzle naturalmente riguarda anche la serietà televisiva stessa. La complessità
narrativa inaugurata da Twin Peaks vari anni dopo si espande fino ad arrivare ad una serie tv come Lost in
cui lo spettatore è perso per l'appunto in una struttura narrativa pressoché irrisolvibile, al di là dei risultati
abbastanza scarsi perchè è chiaro che i creatori di Lost ad un certo punto hanno perso il filo di quello che stavano
facendo e non avevano tutto sommato la coerenza autoriale che invece ha Lynch.

Mulholland Drive è un film le cui traiettorie narrative complesse sono difficili da decifrare e sono appunto come
delle strade intricate. Questa è una metafora veramente fondamentale ed è già, per esempio, in Lost Highway
(letteralmente autostrada perduta). Mulholland Drive è una strada di Los Angeles e in Inland Empire è un quartiere,
tra l'altro un'idea geniale chiamare un quartiere l'Impero dell'Inferno, sembra fatto apposta per fare in modo che
Lynch giri il film, l'idea di fondo è proprio questa, l'idea che lo spazio nella sua imperscrutabilità, uno spazio
difficile da percorrere, in cui è difficile orientarsi sia il correlato del labirinto della psiche, con le sue scorciatoie,
i suoi incroci inaspettati, uno spazio appunto difficilmente si percorre in una modalità lineare e che si può
controllare. Per questo poi non è uno spazio urbano qualsiasi lo spazio a cui si riferisce Lynch ma è lo spazio di Los
Angeles. Los Angeles è la città post moderna per eccellenza proprio perché è una città senza centro, sin dall'inizio
da quando si è sviluppata dalla fine dell'800 all'inizio del 900, Los Angeles non ha avuto un centro, esiste una
downtown lane, ma non ha mai avuto la funzione di centro, quella che hanno le città tradizionali, che ha avuto
anche New York. Perchè la città si è sempre sviluppata in centri paralleli che però ad un certo punto si sono uniti
in un unico comune, più che altro per questioni di convenienza amministrativa, fiscale, finanziaria, ma non c'è mai
stata un vita organizzata intorno al centro e per cui Los Angeles è organizzata intorno a quest'idea
dell'espandersi a macchia d'olio sul territorio urbano, quindi uno spazio incontrollabile e labirintico per
definizione. Se ripresa di notte, Los Angeles si presenta come uno spazio dominato da una superficie luccicante > è
il trionfo delle luci che sono anche le luci della ribalta > è la città dove ha sede la macchina dei sogni Hollywood,
è la città dove si producono le immagini, è una città che vive di luci e di immagini che si ha la possibilità di toccare
con mano. Los Angeles è appunto uno spazio luccicante, è il regno del trionfo delle immagini, è una specie di
gigantesca metafora dello spazio mentale, proprio perchè anche lo spazio mentale ad un certo livello vive soltanto
di immagini, la nostra psiche produce immagini, pensa, riflette per immagini. E queste immagini tra l'altro non
sono immagini casuali, la dimensione che dicevamo di nostalgia che rappresenta il cinema di Lynch è legata proprio
al cinema del passato e quindi Lynch fa continuamente dei riferimenti al mondo del passato, in particolare al
mondo del noir americano che non sono delle semplici citazioni, per Lynch, questa è una cosa essenziale da
capire, sembra un discorso semplice, ma è più complesso: il mondo del cinema è un altro mondo, è come se
esistesse da qualche parte, quelle immagini, quelle storie esistono quindi ad un certo livello hanno una consistenza
quasi come quelle del mondo reale, è un mondo di riferimento quello del cinema, che è sullo stesso piano di
altri mondi possibili, se non addirittura il mondo di riferimento principale, quindi proprio come se fosse una
realtà parallela.

Il mondo di riferimento di Mulholland Drive è un film del 1950 che si chiama Sunset Boulevard (Viale del
Tramonto), questo è anche il nome di una strada, esiste veramente una strada a Los Angeles che si chiama Sunset
Boulevard e il film, che prende il nome dalla strada stessa, narra di una diva sul Viale del Tramonto, interpretata
da Gloria Swanson, vera diva del muto, che non faceva film da 20 anni e che torna sullo schermo con questa
interpretazione straordinaria, nel ruolo di Norma Desmond, una diva che è convinta di fare un grande ritorno sulle
scene in realtà poi è una pazza sostanzialmente che vive di illusioni, un esempio di ciò è una delle più grandi
citazioni del film "io sono ancora grande, è lo schermo che è piccolo", come a dire io sono sempre una diva di
prima grandezza, è il cinema che è diventato un parlato, questo cinema meschino. E poi naturalmente nel
momento finale in cui lei è convinta di star girando il suo grande ritorno sulle scene, ma non è così e dice "sono
pronta per il mio primo piano". Viale del Tramonto è un riferimento per Mulholland Drive in due modi diversi, nel
senso che appunto fa parte di una specie di orizzonte citazionistico, si vedono gli studi della Paramount in
Mulholland Drive così come si vedono in Viale del Tramonto ed è anche Mulholland Drive ovviamente una storia di
successo ed insuccesso, aspirazioni al divismo e al successo recitativo nel contesto hollywoodiano, quindi c'è
un legame anche tematico e poi c'è il fatto che Mulholland Drive è una strada che arriva su Sunset Boulevard,
quindi c'è una specie di vicinanza geografica dei percorsi, dei sentieri di Los Angeles, e anche, come dire, i
sentieri della mente. C'è un intreccio proprio sull'idea della mappa di Los Angeles e della mappa mentale di Lynch.
Nell'immaginario di Lynch il mondo Hollywoodiano, il mondo quotidiano, che è il mondo della finzione
cinematografica, il mondo della realtà, quello della fantasia, quello della veglia e quello del sonno, si intrecciano
costantemente, hanno la medesima importanza e la principale attività interpretativa che il film chiede allo
spettatore è quella di capire ma ciò che stiamo vedendo è il sogno, è allucinazione, è la realtà? che cos'è? Bisogna
chiedersi fondamentalmente qual è lo statuto delle immagini che stiamo vedendo.

Le origini: Negli USA c'è il periodo di tempo che va tra prima dell'estate e dopo in cui le case di produzione chiedono ai
creativi di scrivere degli episodi pilota di alcune serie tv (anche se a volte non vengono nemmeno mandati in onda) e
questo accade anche a Lynch perchè i produttori si pentono di avergli dato carta bianca per questo nuovo lavoro.
Lynch rimane con questo materiale inutilizzato ma poi il produttore francese Alexandre gli permette di trasformare il
suo episodio pilota in un vero e proprio film e come vedrete le interpretazioni di questo film non sono mai definitive e
da questo punto di vista avete il saggio di Paolo Bertetto che è molto significativo e di un certo livello che afferma che
per creare un film (che va dal film-enigma agli altri generi) bisogna seguire 3 linee interpretative:

1 utilizzare dei saperi esterni come la filosofia, la storia dell'arte o la psicanalisi.


2 lavorare sulla soggettività dei personaggi e degli spettatori (coinvolgimento, tipo di pubblico)
3 lavorare di più sulla messa in scena del film

Possono essere perseguite separatamente ma anche conciliate poiché servono a interpretare il complesso mondo
‘immaginario' che ci vuole proporre il film. La voce dell'immaginario è ben dettagliata e spiega cosa si intende per
‘immaginario' > si intende appunto quel mondo che caratterizza i fantasmi interni dell'autore ma anche la
condizione sociale di una data epoca. Quest'immaginario viene trattato in un duplice modo: Possiamo trovarlo nei
film in cui è complicato interpretare una situazione di un certo personaggio oppure ci sono film che noi interpretiamo
in maniera molto semplice. Il film di cui parliamo è Mulholland drive che è un film-enigma contemporaneo. Il
meccanismo cinematografico è utilizzato per mettere in scena la struttura della nostra psiche e l'idea
dell’interpretazione si dirama in 3 fasi in cui l'analista deve anche avere intuito e deve cercare di capire com'è
costruito il testo del film e decostruirlo per trovare i punti oscuri che possono rivelarci il meccanismo di com'è stato
creato il film stesso e poi ricostruirlo razionalizzandolo. Il punto di vibrazione dev'essere trovato guardando le varie
scene madri (scene con picchi altissimi di intensità) e in questo caso si trova nella sequenza del silenzio e poi negli
eventi immediatamente successivi. In una scena del film le due protagoniste stanno indagando sull'identità della
ragazza bruna che non ricorda più chi è, arrivano in un residence a Los Angeles dove si pensa la bruna dovesse vivere,
ma quando arrivano trovano un cadavere in putrefazione quindi non è proprio una scena leggera. Poi tornano a casa e
dopo aver espresso i sentimenti l'una per l'altra fanno l'amore. Da questo momento il film si concentra sulle vicende di
Betty e Rita.

La seconda parte del film inizia con gli stessi attori ma non capiamo cosa sta succedendo anche perchè hanno nomi
diversi e intrattengono relazioni diverse. Quindi, come possiamo fare per aiutare l'interpretazione? Innanzitutto questo
è il punto di vibrazione perchè c'è un passaggio tra i due mondi del film. Ha tutto a che vedere con questa scatola
blu misteriosa (che è il dispositivo di passaggio tra i due mondi). Ci sono le dissolvenze a nero che significano una
sorta di difficoltoso passaggio dal sogno alla realtà e questo può essere un primo tentativo per capire. Ad un certo
punto compare la zia di Betty che non trova nessuno nella stanza come se tutta la prima parte del sogno non fosse mai
avvenuta. Dunque il primo indizio di questo sogno è la frase del cowboy "è tempo di svegliarsi" quindi le dissolvenze
rappresentato un progressivo risveglio. Da qui quindi possiamo dire che la prima parte è un sogno, all'interno del
quale il dispositivo di passaggio si concretizza in questa scatola blu, mentre la seconda è la realtà. Questa è una
soluzione interpretativa che oggi è abbastanza scontata ma al momento dell'uscita non è stato semplicissimo da capire.
Tra l'altro, la prima parte segue una progressione cronologica lineare anche se si seguono diverse linee interpretative
invece nella realtà c'è disordine e vediamo i personaggi che tornano nella loro vita quotidiana. Ci sono però anche
molte allucinazioni della protagonista che ha una psiche labile e paradossalmente il sogno è più lineare ma anche
più simile a ciò che gli spettatori del tempo si sarebbero aspettati mentre la realtà è più destrutturata e
disturbante; Alcuni personaggi del segmento A sono altri personaggi nel momento B infatti una cosa interessante è la
cameriera del locale dove si svolge la scena del barbone del sogno che nel seg. A si chiama Diane e nel Seg B si chiama
Betty. Questo è il principio che il film segue per creare confusione nelle nostre menti. Troviamo la descrizione del
Killer a cui Diane chiede di uccidere la sua ex amante Camilla che nella realtà è un killer molto responsabile, nel sogno
diventa un serial killer pazzo. La cosa interessante è che tra la prima e la seconda parte i rapporti di potere tra i
personaggi femminili si rovesciano > Nella realtà abbiamo Diane che è un’aspirante attrice che ha però fallito le sue
aspirazioni e rompe la relazione con questa bruna per provarci con il regista. E quando a si trovano ad annunciare il
loro matrimonio a casa di Adam anche lei vede la bruna (Camilla Rhodes) baciarsi con un’altra donna -> quindi è un
doppio tradimento.

Il personaggio di Camilla è senza identità ed è costretta a stare in balia degli altri personaggi. Quindi Diane sogna
che la sua ex amante torna da lei chiedendole aiuto > l’idea che qualcuno ci è sfuggito e che ci ha schiacciato con il
suo disprezzo ci porta a fare sogni del genere. Betty è una sorta di protagonista perfetta poiché è piena di spirito di
iniziativa, è l’incarnazione del bene ed è uno dei personaggi che partecipano all’avventura e poi quando si tratterà di
andare a fare il provino lei sarà bravissima. Betty gestisce bene l’investigazione grazie alle sue capacità performative
per quanto riguarda la finzione > è la protagonista per eccellenza dei film hollywoodiani. Questo sogno quindi è un
sogno riparatore poiché riesce ad avere la donna dei suoi sogni, una casa ed un lavoro. E’ significativo anche il fatto
che l’attrice che ha interpretato Betty (Naomi Watts) all’epoca non era conosciuta dunque la performance è stata
ancor di più emozionante. Nella scena successiva a questa audizione, Adam sta scegliendo la ragazza e c’è uno
scambio di sguardo tra i due, c’è un colpo di fulmine artistico poiché lui ha trovato la diva dei suoi sogni. Questa è la
configurazione di fondo, e il film ha una forte vocazione oggettuale, ossia proprio come nei sogni tutto ruoti
attorno agli oggetti che assumono una valenza accresciuta, sono simboli misteriosi nel mondo lirico ed è proprio
la chiave e la scatola blu (riferimento a “un chien andalu “) La chiave blu tra l’altro trova un corrispettivo nella
seconda chiave blu che è il messaggio in codice con cui nella realtà il killer conferma a Diane di aver ucciso la sua ex.
Da qui ne consegue che il sogno è un tentativo di rivivere gli eventi e le relazioni all’insegna del senso di colpa.
Un altro oggetto che ci aiuta ad orientarci è il posacenere che la vicina di casa si riprende nella scena del risveglio
quindi quando noi lo vediamo capiamo che si tratta di flashback anche perché vediamo che Diane e Camilla sono
ancora insieme. Il contest è il modo in cui sia Diane che Betty sono arrivate dal Canada ad Hollywood quindi queste
immagini potrebbero benissimo essere un ricordo rielaborato nel sogno. Però è anche vero che perché sono le prime
immagini che vediamo, possono essere un simbolo che il film ci offre per trasmetterci dei contenuti della psiche.
Bisogna sempre tenere in conto i vari registri poiché questo è pur sempre un film quindi Lynch ci chiede di non
impegnarci troppo a collocare le varie immagini nella realtà o nel film poiché si tratta sempre di un film creato
apposta.

E’ anche vero che i sogni non sono sempre organizzati in maniera razionale e possiamo parlare di una sorta di sequenza
simbolo con cui Lynch ci fa capire il significato del film. Abbiamo Dan che in una scena pensando al sogno che aveva
fatto decide di fare 4 passi con il suo psicanalista e girando l’angolo Dan vede di nuovo il barbone e muore di
crepacuore quindi in qualche modo la sequenza potrebbe rappresentare una piccola scatola in cui Lynch ci presenta il
senso del film. C’è questa costruzione che vede 2 sogni e poi la morte come ha colpito Dan che può colpire anche
Diane (anche tra i 2 nomi c’è un’assonanza’). I nomi per Lynch hanno quindi una grande corrispondenza onirica.
Anche Dan e Diane sono dei nomi assonanti e se quella è una sequenza che contiene il senso dell’intero film si può dire
anche che non si tratta di un sogno e di una realtà, bensì di due sogni. Nel primo sogno vi sono una serie di correzioni
della realtà che riescono ad avvenire, mentre nel secondo sogno questo non succede e la protagonista si ritrova di
nuovo con quel senso ossessivo della realtà e quindi commette il suicidio. Il primo è un segmento compensativo, in
cui Betty diventa un sostituto di Diane che è un ideale dell’io, si dice in termini psicoanalitici, in quanto crea una
traiettoria in cui lei si realizza sentimentalmente e professionalmente e, probabilmente, è una traiettoria di
vendetta nei confronti del personaggio maschile. Il rivale in amore viene punito e lei trionfa. Dunque, il primo è un
sogno di delirio di potenza, mentre il secondo (che sia realtà o che sia un incubo ossessivo) è un delirio di
persecuzione, lei infatti alla fine viene perseguitata dalle figure dei due vecchietti che aveva incontrato in aeroporto
che diventano fantasmi minuscoli, si intrufolano in casa sua e la perseguitano: sono chiaramente una figurazione di
persone più anziane che diventano dei fantasmi di persecuzione. Nel momento in cui si parla di sogno parliamo anche
dell’io, dell’ideale psicotico, ma non è un’imposizione sul film dall’esterno, bensì è il film che ci spinge ad utilizzare
un gergo di questo tipo. Bisogna fare attenzione, poiché quando parliamo di delirio psicotico, non parliamo di una cosa
generica; quanto meno è importante conoscere la differenza tra nevrosi e psicosi: la nevrosi è l’elemento di
scissione, di incapacità di conciliare tutti gli aspetti della nostra vita e nel momento in cui la nevrosi domina sul
cervello, quest’ultima si trasforma in psicosi impedendoci di comprendere la nostra vita lirica con quella reale. Vi è
un’insistenza sullo spettacolo che sembra essere dal vivo, ma in realtà è registrato. Qui non c’è una riflessione sullo
spettacolo dal vero, ma è una metafora: il cinema è uno spettacolo completamente falso, costruito e caratterizzato
da una non presenza che ciononostante riesce a suscitare un’emozione autentica. Tutto è artificiale, ma nonostante
sia tutto costruito sulla falsità, suscita ugualmente delle emozioni vere, evidentemente perché anche le
rappresentazioni false e artificiali coinvolgono il piano emotivo e fisico. Come il film stesso, è un’aggressione su un
mondo tutt’altro che reale, ma ugualmente coinvolgente.
Betty, affonda completamente nella sua performance. Nonostante sia una performance registrata vi è ugualmente una
profonda immedesimazione da parte dell’interprete, quindi anche se sta solo cantando in playback è come se stesse
effettivamente rivivendo quella scena. Vi è anche la dimensione dell’attore come qualcuno che partecipa come lo
spettatore; ci sono due corpi distinti completamente coinvolti nella rappresentazione e questa è una dimensione
importante poiché Betty è una protagonista ideale ed è anche una grande attrice. D’altra parte per Lynch non vi è
differenza tra attore e personaggio, sono semplicemente su differenti piani di realtà. Quindi la partecipazione
degli attori è sempre molto forte. In questo sogno è come se tramite la musica venisse già fuori il vero contenuto del
vissuto del personaggio. La canzone che viene cantata esprime il senso dell’abbandono (la canzone parla di due
persone che si rincontrano). Dunque, questi due segmenti possiamo interpretarli come due sogni o come sogno e realtà
e ad un certo livello sono due mondi paralleli, entrambi coinvolgenti e affascinanti. Il cinema in assoluto, come
dicevamo anche l’altra volta, si propone come attraversamento di mondi possibili: il mondo reale non è più univoco ma
è molteplice. In Lynch è come se convivessero tutta una serie di opposti; nei suoi film vi sono vari livelli di
interpretazione (ci chiediamo continuamente se si tratta di realtà, sogno, immaginazione, ecc.). Il cinema si
configura come il punto di convergenza di tutta una serie di mondi paralleli e diventa il dispositivo tramite il
quale possiamo riflettere sull’importanza cruciale che hanno le immagini della nostra vita psichica in generale.

L’orecchio secondo Lynch è sempre un organo fondamentale perchè la dimensione del sentire è sempre importante. Le
immagini esprimono solo una parte del nostro vissuto, sono anche delle figure allegoriche. Il mondo non è mai sotto il
nostro controllo, ma sempre sotto il controllo di forze perturbanti e grottesche che si nascondo altrove. Naturalmente,
molto perturbantI sono anche le protagoniste stesse che vengono doppiate nel film. Tutto è raddoppiato nel film: i
piani narrativi, le protagoniste, gli eventi, le frasi; tutto è sdoppiato, ma il doppio non è solo fra i due segmenti
narrativi, ma anche all’interno di questi. Le protagoniste stesse nel primo segmento narrativo: le identità delle
protagoniste, in particolare del personaggio Camilla/Rita è segnato dalla doppiezza; le protagoniste vengono sdoppiate
nel momento in cui incontrano quel cadavere che è praticamente la sognatrice che sta dormendo e prefigura in un
certo senso la sua stessa morte (lei effettivamente si sparerà sul letto e morirà in quella posizione, quindi potrebbe
essere non necessariamente un sogno premorte, bensì post-morte). Lo sdoppiamento fa parte anche della
configurazione stessa dell’identità in cui, in mancanza di una risposta chiara riguardo la sua vera identità, il
personaggio della donna bruna prende la propria identità dal poster che è di un film molto famoso del 1946 che si
chiama Gilda, e dice “non c’è mai stata una donna come Gilda”, che presa letteralmente vuol dire che Gilda non c’è
mai stata, non è mai esistita ma è solo una proiezione della fantasia. Quindi vi è l’idea che l’identità stessa non sia
qualche cosa che il soggetto trova all’interno di se stesso, ma che si costruisce sempre con un rimando ad un
discorso esterno. In particolare con un discorso dell’audio-visivo, ma non solo perché poi nell’appartamento della zia
(Ruth) è popolato anche da altre immagini. Si lavora molto anche su legami intertestuali del personaggio femminile ed
è evidente che questo discorso sul doppio si estenda anche ad altri personaggi.

Ad esempio, la scelta di far diventare le donne entrambe bionde, che è probabilmente il contenuto di fondo psichico di
questo film, è anche tutta una riflessione sul modo in cui l’identificazione e il desiderio si mischiano ed è una
dimensione più chiara ad esempio nel rapporto omosessuale poiché le persone sono effettivamente dello stesso sesso
perciò vi può essere un’identificazione verso qualcosa che è diverso da sé ma anche simile; tuttavia identificazione e
desiderio sono due costanti di ogni genere di rapporto, in particolare del rapporto amoroso ma non solo. Quindi vi è
un intreccio indissolubile tra identificazione, quindi desiderio di somiglianza (per questo le due donne sono diventate
entrambe bionde, perché devono assomigliarsi, in un certo senso il trionfo dell’immaginazione di Betty che Camilla
non le sfugga, vi è un desiderio di un legame simbiotico con l’altro e non è un caso che la dimensione del desiderio si
può esprimere solo nel momento in cui entrambe sono bionde > c’è un legame fortissimo tra idea di identificazione e
idea del desiderio). Il desiderio è l’incontro con un’alterità, ma è necessario che vi sia anche identificazione,
altrimenti non si riuscirebbe ad avere un rapporto significativo con l’altra persona. Qui la dimensione di
identificazione e del desiderio sono espresse come presupposti fondamentali della relazione, ma anche
presupposti fondamentali dello schermo > è necessario che riusciamo anche noi ad identificarci con ciò che stiamo
guardando. Ad un certo livello l’identità stessa non scaturisce dall’interno del soggetto, ma scaturisce con il confronto
con l’altro. Tra queste dimensioni di identificazione e desiderio tra sé e l’altro o da una soggettività ad un’altra
soggettività, sembra che il modo per passare sia questa piccola scatola blu magica che è in un certo senso l’immagine
del dispositivo cinematografico stesso, il modo che noi negoziamo per l’identificazione e il desiderio. La figura
centrale di questo film è quella macchina da presa che va in avanti e perlustra i corridoi delle case e alle volte
precede o accompagna lo sguardo della protagonista, quindi il film è caratterizzato anche da questo sguardo curioso,
dunque una dimensione di curiosità che il film vuole suscitare nello spettatore stesso, uno spettatore curioso che si
lasci coinvolgere in questo mondo del film che in realtà sono più mondi. Il film ha un contenuto depressivo, ma ciò che
vuole suscitare è la curiosità e l’azione interpretativa dello spettatore.
Rilocazione, Netflix, Cuaron e “Roma”

“Roma” di Cuarón ci serve per riflettere su un concetto fondamentale, ovvero quello di rilocazione. È un concetto
mediale che serve a riflettere su quanto il cinema oggi possa ancora essere chiamato tale nel momento in cui viene
fruito soprattutto in una dinamica che non è la sala cinematografica. Un problema già esistente che nasce negli anni
’50 con la televisione ma il problema ora è proprio l’idea che l’esperienza dell’audiovisivo nell’ambiente domestico
tenti di sostituire quello della sala cinematografica. Ovviamente il concetto di rilocazione, l’idea che il cinema si
ricollochi in altri contesti, non riguarda solo la televisione ma è molto caro anche a coloro che studiano storia dell’arte
contemporanea. Il cinema infatti si sposta anche nelle sale dei musei. Molti registri cinematografici infatti realizzano
opere video artistiche. Ad ogni modo anche se il rapporto tra cinema e museo diventa un interessante momento di
commistione di linguaggi diversi nessuno pensa che il museo sostituirà il cinema. Al contrario l’esperienza dentro le
mura domestiche viene proposta da Netflix come forma sostitutiva. La domanda di fondo dunque è: con le nuove
configurazioni dell’ambiente di visione, l’esperienza cambia al punto tale che ciò che vediamo non può essere
più chiamato cinema? Si scontrano dunque due idee: da un lato abbiamo coloro che credono che il cinema debba
avere delle formule fisse, cioè in una specifica modalità di visione, altri invece sostengono che un film sia comunque
un film a prescindere dalla modalità di visione. Non è dunque facile rispondere a tale domanda, poiché un film che
vediamo in sala è completamente diverso da un film che vediamo a casa ma notiamo sicuramente tra questi oggetti
degli elementi comuni. L’unica risposta possibile è l’auspicio di poter continuare a scegliere tra tutte queste diverse
opzioni di visione, ad ognuna delle quali corrisponde una collocazione spettatoriale diversa.

La campagna esposta da Netflix è dunque un paradosso poiché da un lato creano dei film altamente cinematografici
dall’altro contrastano l’idea dell’esperienza in sala. Il punto è che se è vero che tutte le esperienze di visione sono
tutte diverse e che condividono delle cose, ciò che riescono più facilmente a condividere è il contenuto, la trama,
quello che è invece più difficile da replicare è il connettersi con il film su un piano diverso, legato ad un’esperienza
estetica più piena e più ampia. La rilocazione dunque è per definizione uno dei destini delle immagini dell’epoca
contemporanea. Siamo in una fase di metamorfosi dove bisogna attendere per vedere cosa succederà. Dobbiamo
ricordarci che il cinema è stato sempre un continuo evolversi, come ad esempio l’esperienza di un film del 1920 era
diversa da un’esperienza di un film del 1930 per il suono, o successivamente per il colore, o per il formato panoramico.
Il cinema dunque non è mai stato un oggetto identico, ed è lecito che subisca oggi ulteriori informazioni.

Storia di Netflix

Netflix fin dall’inizio si propone come un’identità fortemente domestica perché è una compagnia che fornisce un
servizio di noleggio film a domicilio. Successivamente si afferma nel campo della produzione televisiva con la serie
“House of Card” nel 2013 e nella cinematografia americana. Netflix è disponibile in Italia dal 2015. Primo film
d’impatto sarà “Sulla mia pelle” sulla vicenda di Stefano Cucchi. Ad oggi è accessibile in tutti i paesi del mondo
tranne Cina, Corea del Nord, Crimea e Siria. Parliamo di Netflix ma ad esso si aggiungono altre piattaforme come
Nowtv, Infinity. Roma di Cuarón possiamo definirlo il cavallo di troia con cui Netflix si è inserito nel cinema alto. Lo ha
fatto affidandosi non a un prodotto hollywoodiano qualsiasi, ma lo ha chiesto ad Alfonso Cuarón, noto come uno dei 3
amigos, che hanno messo a soqquadro il cinema hollywoodiano negli ultimi 10 anni. Dal 2013 in poi solo nel 2016 non è
stata una di queste tre persone a vincere l’Oscar. Si tratta di tre registri messicani, ovvero Cuaron, Iñarritu il primo
che si è affermato, autore del film “Amores perros” e poi “Babel” e Guillermo del Toro registra della “La forma
dell’acqua” e poi Cuarón.

Alfonso Cuarón

esordisce nei primi anni 90 in Messico ma poi si sposta quasi subito in America dove redige alcuni film tra cui un
adattamento di “Grandi speranze” di Dickens, poi diventa famoso ritornando nella sua città natale, girando “Y tu
mamá también”, film su due adolescenti che hanno la possibilità di fare una gita al mare con una donna più grande.
Questo film viene candidato all’oscar per la miglior sceneggiatura e inizia dunque ad affermarsi come cineasta di
primo livello. Dopo questo film il suo profilo si è elevato, mostra di essere affidabile alle case hollywoodiane dirigendo
uno dei film della saga di Harry Potter e successivamente parte la sua vena più personale con “Children of Men”, e
successivamente con Gravity, dramma spaziale. Torna poi in Messico e dirige “Roma”. Cuarón ha sempre descritto
quest’ultimo come il suo progetto più caro. Si tratta di un progetto autobiografico, una definizione però questa
abbastanza particolare perché il film non ha una figura che può veramente corrispondere al nostro cineasta. È
un’autobiografia spostata. Il contesto dell’ambientazione del film è quella della Colonia Roma, quartiere borghese
di Città del Messico dove lo stesso Cuarón è cresciuto. Essendo nato nel 1961 aveva diciamo 10 anni durante il periodo
in cui si svolge il film. Film molto particolare per cui lo stesso Guillermo del Toro decide di creare 10 punti
interpretativi del film. Il film è segnato da una dimensione transnazionale, diasporica, subalterna e postcoloniale.
Questi aggettivi sottolineano un plurilinguismo: si sottotitolano lo spagnolo e il mizteco, lingua della protagonista
Cleo, invece l’inglese è lasciato privo di sottotitoli. Un’operazione interessante perché da una parte significa che il
film è pensato per un pubblico anglofono che non ha bisogno di sottotitoli, dall’altra per tutti quelli che non sono
anglofoni l’inglese deve rimanere una lingua straniera. Netflix ha scelto per questa sua operazione di affermarsi come
una casa di produzione di opere di alta qualità artistica non su un film meramente hollywoodiano ma su un’opera
parzialmente autobiografica di un autore transnazionale dall’identità diasporica, cioè autore nato in Messico ma che
ha lavorato durante la sua carriera in America, mentre identità diasporica fa riferimento al fatto che nel cinema
contemporaneo hanno voci anche autori e autrici che sono dei soggetti migranti.
Roma è un film di sintesi, da una parte presenta molte caratteristiche del world cinema contemporaneo (cinema
attento alle identità subalterne degli scenari post-coloniali) dall’altro ha riscosso uno strepitoso successo anche negli
Stati Uniti, vincendo 3 oscar su 10 nomination. Il film presenta una ricerca estetica precisa. Il formato panoramico è
essenziale alla ricerca estetica di Cuarón, sia in relazione agli interni della casa che agli esterni urbani e soprattutto
quelli legati al paesaggio. È un film girato in pellicola e dunque presenta una grande differenza dai film girati
direttamente con strumenti digitali, tra cui la qualità dell’immagine. Dobbiamo sottolineare che grande importanza è
il ruolo giocato dai riferimenti iconografici alla fotografia di Manuel Alvarez Bravo, il più importante street
fotografo messicano.

Stile di Cuarón

Lo stile di Cuaron è caratterizzato soprattutto da carrelli laterali e da panoramiche, spesso a 360 gradi soprattutto
quando si deve perlustrare l’ambiente domestico in cui lavora la domestica, protagonista di questo film, Cleo, di
origine mizteca che lavora però per una famiglia di messicani bianchi. Altro fattore fondamentale è la durata, si parla
di durata senza stacchi, il montaggio in qualche modo è secondario. Tutto ciò che vediamo è messo a fuoco, è tutto
visibile. Quella di Cuarón è in generale la scelta di una cinepresa osservativa che permette un approccio empatico e
coinvolgente ma deve essere allo stesso tempo un approccio attento perché non è uno stile che coinvolge facilmente
lo spettatore, come ad esempio accade nella prima scena dove vediamo semplicemente Cleo pulire il vicoletto dai
bisogni del cane. Sono delle scene molto lunghe in cui accade ben poco, sono veramente la concretizzazione di
alcune prescrizioni del Neorealismo. In questo stile osservativo è presente anche un registro ironico, come se la
macchina da presa guardasse i suoi protagonisti. Su questo concetto interviene Guillermo del Toro in cui insiste
sull’idea che il film sia un murale e non un ritratto, idea contro a coloro che definivano questo film basato solo sulle
banalità delle piccole vicende quotidiane. Afferma dunque che è un affresco in cui sono presenti all’interno non
solo realtà quotidiane ma anche eventi storici e politici. Molto importante è anche la dimensione uditiva, il film
rifiuta categoricamente di avere una colonna extra-diegetica. Sono presenti soltanto musiche interne alla storia, come
ad esempio il rumore dell’acqua. Guillermo del Toro si sofferma anche sulla problematica della “sala non sala”, poiché
il film visto al cinema ha sicuramente dei messaggi sonori più efficaci. Da notare sicuramente é la cura compositiva di
Cuarón quindi le sue inquadrature spesso simmetriche o comunque incredibilmente curate da un punto di vista
compositivo, questa sua dimensione di ricerca estetica (le panoramiche, i carrelli laterali..) attraverso questa
macchina da presa “osservativa”.

Una delle scene più importanti in cui più concretamente possiamo notare che i precetti neorealisti non erano soltanto
una teoria ma che qualche volta sono anche stati messi in pratica, è una scena all’inizio di Umberto D. di Vittorio de
Sica in cui si osserva una servetta che prepara la colazione per una serie di persone che vivono nella pensione in cui
vive anche il protagonista Umberto D. In questa scena, tra l’altro, apprendiamo che la servetta è incinta ma non è
sposata ed è esattamente quello che succede anche alla protagonista del film Roma. C’é quindi un legame stretto tra i
film, quasi come se a un certo livello Cuarón avesse preso quella scena (che poi ha un filo narrativo molto secondario
in Umberto D) e l’avesse trasformata in un film intero. Però contemporaneamente oltre ad essere un omaggio al
neorealismo, il film è anche parzialmente autobiografico. È interessante perché nel suo primo film messicano di
successo “Y tu mamá también - Anche tua madre” ad un certo punto uno dei protagonisti del film durante questo
road trip verso il mare passa vicino ad un villaggio e si rende conto che quello è il villaggio della governante che si è
preso cura di lui sin da quando era piccolo. E attraverso la voce narrante di questo film (perché lì c’è un voice over
molto forte) apprendiamo che lui si rese conto che non aveva mai visitato quel villaggio e non aveva mai riflettuto
effettivamente sulla vita di questa persona (che poi si vede anche in una delle scene iniziali del film) e quindi
evidentemente in quest’opera precedente di Cuarón già c’erano i segni della narrazione di Roma (anche se poi il
film va in direzioni completamente ed indubbiamente diverse perché è una specie di commedia con dei toni
drammatici molto legati all’eros.) Inoltre c’erano già dei germogli di questa idea di tornare al mondo dell’infanzia,
ma non guardando dal proprio punto di vista (quello del bambino che Cuarón era stato) bensì da quello di questa
figura fantasma; tutte le governanti, in particolare quelle di origine etnicamente diversa, tendono ad essere delle
presenze invisibili nelle famiglie occidentali. La cosa interessante è questo spostamento non è un’operazione
nostalgica, nonostante ci sia un’attenzione spasmodica alla ricostruzione dei dettagli, addirittura per riuscire a calare
lo spettatore nel mondo del Messico del ’70/’71.

Cuarón e il suo scenografo hanno ricostruito interi pezzi del quartiere Roma in studio perché ovviamente in più di
quarant’anni è tutto molto cambiato. Quindi c’è un lavoro di ricostruzione storica molto forte ma non è
accompagnato, a differenza di quanto accade di solito, da un’operazione nostalgica. Il film non è privo di pathos in
assoluto ma il pathos è legato alla vicenda di Cleo e non ad una proiezione nostalgica quindi non è una nostalgia
restauratrice bensì è una nostalgia riflessiva e spostata verso il tentativo di guardare al passato in modo diverso per
comprendere anche il presente in un modo diverso. In qualche modo l’idea è proprio quella di prendere la
prospettiva marginalizzata di Cleo e di metterla al centro.

È fortissima anche questa scelta del bianco e nero. È assolutamente funzionale oltre che alla ricerca esegetica, anche
a darci questa idea della distanza temporale. Ad esempio troviamo una scena in cui il personaggio più piccolo, Pepe, fa
una cosa stranissima: parla di quando lui era grande (creatività che riescono ad avere solo i bambini). Il bambino
presenta questo corto circuito temporale e dice a Theo “quando io ero grande tu c’eri ma eri un’altra persona” quindi
troviamo l’idea di passato e presente che si sovrappongono in maniera assolutamente complessa: parla con dei verbi
al passato di una situazione in cui lui era grande ma in realtà immaginando un futuro. In Pepe vediamo quindi un po’ la
figura autoriale: Pepe, come l’autore, ha questa tendenza a riflettere su passato e presente e sul loro intreccio.
Lo sguardo però è principalmente quello di Cleo, ed è proprio questa l’operazione fondamentale del film: prendere
l’ottica subalterna di una persona subordinata dal punto di vista della classe e metterla al centro (è come dire
prendere lo sguardo del terzo mondo e metterlo al centro del discorso del primo mondo). Dobbiamo però comunque
prendere consapevolezza del fatto che il punto di vista di questo film è in uno dei figli di questa famiglia e che quindi
non è effettivamente un film fatto da una domestica mixteca anche se Cuarón con tutta l’onestà possibile vuole
comunque farle un omaggio (come si percepisce già in “Y tu mamá también”): vuole provare a riflettere e a mettersi
nei panni -pur consapevole della distanza- di questa persona che lui addirittura per i primi anni della sua vita ha
chiamato mamma perché c’era un rapporto anche molto simbiotico.

Cleo è la persona tramite cui noi esperiamo il film. Il film e le sue inquadrature, pur molto osservative, sono
comunque centrate in prossimità di Cleo. Nel film non ci sono né molte inquadrature soggettive né molte inquadrature
sue. Per esempio quando lei è a letto con Fermín la macchina da presa è un attimo accanto a lei, non è proprio con
lei. Però si può dire che in un film che è più rigorosamente oggettivo che non soggettivo, comunque il nostro punto di
ingresso è con Cleo. È così come la sua attività lavorativa dà una una forma ed una struttura alla vita di questa
famiglia. Eppure ad un certo livello lei non farà mai veramente parte di questa famiglia.Qualcuno potrebbe
ingenuamente sbagliare ed interpretare questo film come se Cleo ad un certo punto diventasse un soggetto più attivo e
fosse accettata dalla famiglia; questo sarebbe sarebbe un errore madornale perché il rapporto tra Cleo e la famiglia è
un rapporto che ha alcuni momenti di vicinanza ma che rimarrà sempre un rapporto gerarchizzato. Possiamo parlare
anche di “coscienza di classe” perché questo è un film molto consapevole delle differenze di classe. È proprio delle
differenze di classe che vuole parlare ma ne vuole parlare in modo complesso perché invece di raccontare la storia di
una domestica maltratta da una famiglia crudele, parla della storia, comunque dolente e difficile, di una domestica in
una famiglia assolutamente progressista e comprensiva. E mostra che, nonostante la famiglia sia progressista e
comprensiva, le differenze di classe esistono lo stesso e sono percepibili ovunque, anche tra la famiglia che dà lavoro a
Cleo e i loro parenti che vivono altrove e i loro amici che vivono in una tenuta più vicina al confine con l’America ed
hanno degli ospiti “gringos” quindi degli ospiti americani. È un film che in qualche modo parla sempre delle differenze
di classe. Altra cosa fondamentale è l’importanza delle scene al cinema.

È interessante che Cuarón che fa un film per Netflix, ci metta dentro almeno 3 scene legate all’ “andare al cinema”.
La prima scena è quella che abbiamo visto all’inizio quando Cleo si fa convincere da Fermín a non andare al cinema
ma a girare per la città e poi finisce in camera. Nella seconda scena Cleo dice a Fermín di essere incinta, lui se la dà a
gambe ed in modo assai ironico Cuarón gli fa vedere un film che si chiama “La Fuga fantastica” che è una storia di
aviatori, e aviatore voleva essere anche il bambino (comincia ad emergere il tema del cielo). Nella terza scena, i
ragazzini vedono al cinema un film su degli astronauti che hanno un’avaria e si trovano dispersi nello spazio (scena che
ha chiaramente poi ha ispirato Cuarón per Gravity); in questa scena loro rivedono il padre che dovrebbe essere a
lavorare ma che è invece con l’amante (donna molto più giovane per cui poi lascia la famiglia). Le scene al cinema
sono significative perché è interessante che ci siano queste tre sequenze in un film bandiera dell’esperienza
cinematografica online. Poi queste scene sono tematicamente connesse sia a questo tema del cielo e dello spazio
che inizia a vedere comparire gli aviatori e gli astronauti e sia perché sono legate appunto ad una critica feroce alla
mascolinità. Gli uomini non escono molto bene da questo film in entrambe le svolte narrative: la gravidanza di Cléo
che si vede abbandonata da Fermín e il padre che abbandona la famiglia, sono entrambe più centrate su uomini che se
la danno a gambe. Roma è quindi un film che si incentra molto sulla resilienza di personaggi femminili che vengono
lasciati soli da questi uomini. Il padre è un uomo inetto e codardo che usa la scusa del lavoro e poi non torna a casa.
Nel caso di Fermín il discorso è ancora peggiore perché ad un certo punto si scoprirà essere un personaggio violento.
Abbiamo già visto la scena in cui Fermín fa in questa pantomima abbastanza ridicola che Cleo osserva; è difficile
interpretare il volto di Cleo mentre lo guarda esibirsi perché da una parte sembra estasiata da questo spettacolo,
dall’altra sembra che stia per scoppiare a ridere, io stesso non so come interpretarla. Nulla togliendo alle arti marziali,
lui in questa scena sta performando anche la sua nudità. È quindi una sorta di parodia di questa mascolinità e del suo
uso del bastone. Ad un certo punto, in uno dei più gravi momenti di svolta melodrammatica del film, il volto di Fermín
sarà associato alla violenza e al posto del bastone che utilizzava durante le arti marziali, utilizzerà una pistola. Tra
l’altro in questa scena di violenza in cui utilizza la pistola, Fermín indossa una t-shirt con sopra scritto “Love is” > Love
is violence?
I due personaggi maschili analizzati sono personaggi molto problematici; c’è quindi nel film una critica molto forte
non soltanto alle dinamiche di classe ma alle dinamiche patriarcali del Messico di quell’epoca (e probabilmente in
generale è anche una critica alla società patriarcale contemporanea). Con la figura di Fermín questo discorso sulla
violenza si sposta da un piano strettamente provato all’ambito storico-politico. Una delle critiche mosse a questo film
è stata “come si permette Cuarón di parlare con il punto di vista della sua cameriera?” lui è un maschio bianco e non
dovrebbe illudersi di poter aderire al suo punto di vista. In realtà lui non si illude e fa quello che può, mette su una
messa in scena essendo consapevole del fatto che il suo è solo uno sguardo esterno ed osservativo quindi non si illude
di avere lo stesso punto di vista di Cleo. Ha un punto di vista che può empaticamente mettersi in prossimità di esso
ma non è lo stesso. Quindi questa è la prima critica mossa: non si può parlare al posto dei subalterni. Anche se
innanzitutto lui stesso è un autore transnazionale e quindi con una collocazione identitaria complessa, sicuramente è
molto più intitolato a parlare lui di queste cose che non un George Lucas. L’altra critica che è stata fatta a questo film
è l’idea di dire che esso sia sulla resilienza femminile e sull’alleanza tra le due donne. Perché vedremo che Cleo,
terrorizzata, va dalla padrona convinta che sarà licenziata per il fatto di essere incinta ma la padrona, la signora Sofía
interpretata da Marina de Tavira che è una delle poche attrici professioniste nel film (perché ad esempio Yalitza
Aparicio, l’attrice che interpreta Cleo, è assolutamente non professionista, quindi anche in questo simile al
neorealismo), reagisce molto bene alla notizia di Cleo e la aiuta, la porta dal dottore, non la licenzia, e quindi si crea
questa dinamica di alleanza tra le due donne. Questo film quindi ci propone un’alleanza interclassista tra figure
femminili ma questo è un problema perché in qualche modo si annacqua il potenziale politico: il fatto che le donne
superino la differenza di classe e si alleino è una falsa utopia, questa cosa non avviene davvero. In particolare c’è
stato l’intervento di un gruppo comunista che ha fatto un’uscita tremenda su questo film sostenendo che quest’idea
dell’alleanza femminile interclassista sia un’idea retrograda e inoltre hanno fatto uno scivolone clamoroso: hanno
parlato della protagonista utilizzando il termine “gringa” che significa significa “bianco” e la protagonista è mizteca,
quindi loro hanno usato una parola senza nemmeno sapere di cosa stessero parlando.

Il punto di fondo è questo: il film, nel promuovere quest’idea di una padrona alleata della serva, non vuole e non può
cancellare la crudeltà delle gerarchie sociali; esso vuole solo essere una sorta di “testimonianza documentaria” di
un percorso soggettivo (che poi è anche un percorso di classe). Il percorso di Cleo non si concluderà con la grande
presa di coscienza di dover prendere un cartello ed andare a manifestare però non significa che per questo il film è
meno valido. Certamente Cleo è un personaggio che accetta il suo status e la sua posizione nella gerarchia sociale ma
sarebbe stato anacronistico descrivere una presa di coscienza politica di questo personaggio. È molto più fedele
al punto di vista di Cleo e del personaggio che l’ha ispirata (Libo, la tata di Cuarón) e di tanti altri personaggi come
loro veramente esistiti, che non ci fosse una presa di coscienza di classe. I vari momenti di vicinanza affettiva di
Cleo con la famiglia non smentiscono mai la collocazione di Cleo in un ruolo subordinato, nonostante gli sforzi
della padrona. Verso la fine del film c’è una scena molto sintomatica in cui dopo aver ringraziato Cleo per una cosa
molto importante fatta verso la fine del film, uno dei bambini le chiede un milkshake quindi questo ci fa capire che il
rapporto rimane sempre lo stesso. Quindi definire il film anti-femminista sembra una sciocchezza colossale, anzi ad un
certo livello il film sottolinea come Cleo faccia parte di diversi gruppi minoritari che all’interno di una società
patriarcale hanno più difficoltà ad affermare il proprio punto di vista e la propria voce. Quindi da una parte è una
donna, e in questo la troviamo accomunata alla sua padrona di casa, dall’altra è una nativa messicana e serva, quindi
si può dire che la sua posizione intersezionale (intersezionalità è un termine che serve ad indicare proprio quando
una persona appartiene a diverse categorie subalterne) sia pienamente realizzata.

Quest’idea del film come antifemminista sembra una sciocchezza. Al contrario, il film è pienamente connesso ad una
dimensione storico-politica (senza dire precisamente cosa accade il giorno del massacro del Corpus Christi, 10 giugno
1971). A volte il film viene anche additato come un film che si concentra molto solo sulla dimensione intimista ma solo
perché non si è attenti e non ci si rende conto che la storia drammatica personale che viene raccontata accade
sempre sullo sfondo degli eventi storici. E questo sfondo non è uno qualsiasi, ci sono delle indicazioni precise:
stiamo parlando delle rivolte studentesche contro il presidente Luis Echeverría che finirono nel sangue più volte
(‘68, ‘70, ‘71). Non si capisce bene quante persone siano morte perché la stima ufficiale governativa è di 25 ma c’è chi
dice 120. Quella era la fase in cui il Messico era in un momento di grandi tentazioni sia dal punto di vista governativo
che militare ed il film fa un riferimento molto chiaro quando Fermín finirà per far parte di queste formazioni
paramilitari degli halcones, falchi (anche noi parliamo dei “falchi” per indicare degli agenti in borghese, anche se lì si
trattava di persone che facevano cose peggiori). Fermín era preparato per combattere e in effetti ha trovato sfogo a
questa sua violenza facendo parte di una formazione militare repressiva.

Il film è anche in realtà profondamente calato nella dimensione storica messicana; si fa più volte riferimento anche
agli espropri di terreni, quindi alla continua e programmata marginalizzazione della classe dei campesinos (=i
contadini). È quindi un film tutt’altro che estraneo che però fa filtrare la storia dai margini delle sue inquadrature
panoramiche e non la prende quasi mai di faccia. L’importanza insinuante della storia la vedete anche nella scena in
cui il marito va via con la macchina e la padrona di casa sta lì e guarda attonita la strada quando ad un certo punto
arriva una parata militare. Una cosa così semplice potrebbe sembrare semplicemente un espediente melodrammatico,
invece è un indizio che intorno ai nostri personaggi e ai loro drammi personali agisce la storia. Il film è attraversato da
una serie di presagi negativi (c’è un terremoto, un bicchiere che si rompe proprio nel momento del brindisi di
capodanno...), tutta una serie di tratti fatalisti. La traiettoria di Cleo è piena di coincidenze; questa logica fatalista
che nel film è molto presente e che sembra corrispondere un po’ anche alle credenze di Cleo -che non era una persona
molto istruita- si potrebbe facilmente prestare ad una messa in scena molto melodrammatica e invece la tecnica
osservativa di Cuarón funziona molto efficacemente anche su questo piano perché mette in scena dei contenuti molto
complicati, tosti, dolenti e drammatici senza mai indulgere, non fa mai uno stacco ad effetto per far piangere, non c’è
mai un’inquadratura ricattatoria, semplicistica melodrammatica in senso spicciolo, invece il film mantiene
questo sguardo distanziato rifiutando di abbandonarsi all’eccesso emotivo. Un filosofo come Slavoj Žižek si è
lamentato proprio del fatto che il film non ci faccia mai veramente partecipare col punto di vista della protagonista e
che anche nei momenti più drammatici non siamo mai veramente abbastanza vicini a lei.

Ma il punto è proprio questo: anche questo sguardo osservativo e distante può essere empatico perché è uno
sguardo molto lucido che rifiuta le emozioni facili; è evidente che la dimensione empatica ed avvolgente di una
regia di questo tipo si percepisce meglio: più grande è lo schermo, più è facile percepire. L’inizio e la fine del film
enfatizzano molto questa logica un po’ fatalista dell’essere sotto al cielo. In una scena vediamo Cleo che lava il
pavimento e grazie alla lucentezza dell’acqua vediamo il cielo che vi si specchia dentro quindi cielo e terra sono
sintetizzati dall’acqua ma ovviamente non è una sintesi illusoria perché cielo e terra rimangono insanabilmente
distanti così come sono distanti le classi; c’è una tentazione dell’impossibilità della persona situata in una
determinata classe di emanciparsi da essa e degli esseri umani in generale di emanciparsi dal loro legame con la terra,
nonostante gli uomini tendano a voler volare in vari modi (per questo il tema del volo, dei piloti e degli astronauti). Il
tema della distanza tra terra e cielo si accoppia al tema della distanza tra le classi nel descrivere questo mondo in cui
la mobilità ed il contatto con qualcosa di trascendentale sono difficili. Nel momento in cui ci si mette in attitudine
meditativa rispetto al film, l’importanza del cielo viene fuori molte volte. Il discorso della terra e del cielo e della
distanza di questi due piani dell’esistenza -come li definisce Del Toro- è suggerita nella prima inquadratura e appunto i
due sono in qualche modo riuniti dall’acqua. In quella che potremmo definire una sorta di “filosofia degli elementi”
di questo film (perché è veramente un film che gioca proprio anche su questo), l’acqua diventa lo strumento di
rivelazione di moltissime verità e avrà addirittura un ruolo fondamentale nella scena catartica del pre-finale, così
come avvenuto anche in “Y tu mamá también” quindi deve essere per Cuarón un discorso molto legato al Messico, la
sua patria, che percepisce in connessione col marittimo. L’acqua avrà un ruolo assolutamente fondamentale nel finale
del film. C’è questa scena bellissima in cui Cleo e Pepe fingono di essere morti con una capacità giocosa che soltanto i
bambini possono avere a cui lei però sta al gioco con grande capacità (approfittando di questi 5 minuti di pausa per
stare sotto al cielo e al sole). Quindi da una parte abbiamo questo rapporto fondamentale cielo-terra e dall’altra
l’irrecuperabilità di questa distanza. In qualche modo la dimensione del mare e quindi dell’acqua nelle sue varie
forme, svolge una chiara funzione catartica.

La catarsi è un concetto aristotelico, indica un momento di liberazione e superamento dei traumi. Però ancora una
volta non significa che il ruolo di Cleo nella famiglia cambi. Quindi parliamo di catarsi ma anche di consapevolezza
del perdurare di queste distanze. Il percorso di Cleo è comunque in qualche modo un percorso di presa di coscienza
che non è politica piena, non è nemmeno l’integrazione all’interno di una dimensione familiare perché rimarranno per
sempre i suoi padroni e ci sarà per sempre una gerarchizzazione: per quanto potranno tenere conto di lei, la
ignoreranno sempre. Ciò nonostante lei come persona compie una metamorfosi ben sintetizzata dall’inquadratura
finale del film che invece di essere un’inquadratura che guarda la terra, è appunto un’inquadratura in cui lei
“ascende al cielo” ( = metaforicamente > sale una scala).

Potrebbero piacerti anche