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Capitolo 1

TRA ‘’COMPLESSO DELLA MUMMIA’’ E ‘’SINDOME DI FRANKEINSTEIN’’


La periodizzazione della storia del cinema distingue tre grandi periodi: il cinema delle origini (1895-1915); il cinema
classico (dalla seconda metà degli anni Dieci agli anni Cinquanta); e il cinema moderno (dagli anni Cinquanta in poi).
Tuttavia si presuppongono per tutti e tre i macro-periodi numerose articolazioni interne. Lo schema, inoltre, mostra
alcune fragilità, difatti vi sono alcune incertezze riguardo a quando avrebbe avuto origine la storia del cinema; vi sono
anche problematiche legate all’ultimo periodo. Per molti negli anni Settanta ci sarebbe stata una svolta a cui ci si
riferisce con il termine di postmoderno. Con l’avvento di quest’ultimo si ritiene che non ci si possa più considerare
collocati lungo una linea di progresso. Ciò che segna il passaggio tra la modernità e la postmodernità è la fine della
‘’tradizione della rottura’’, che prevedeva una serie di superamenti e di rivoluzioni stilistiche destinati ad essere loro
stessi superati. Dunque con l’avvento del postmoderno tutto è già stato detto e fatto.

Quando è terminata la modernità? Secondo la tesi di Laurent Jullier la differenza tra modernità e postmodernità
risiede nel fatto che la prima produce senso e domanda di essere compreso, mentre la seconda produce sensazioni e
richiede di essere sentito. Con il film Star Wars si nega la distanza tra film e il suo spettatore e si compie il passaggio
dalla comunicazione alla fusione, che ha raggiunto l’apice con l’avvento del 3D, che favorisce la possibilità di sentire
l’immagine, indipendentemente dal fatto che sia creduta vera o meno.

Questi cambiamenti ci portano ad una considerazione: forse il cinema inteso nel Novecento non esiste più. Una
sostanziale differenza si ha nel modo di consumare i film; ai giorni nostri lo spettatore non ha l’obbligo di recarsi nelle
sale. Queste ultime, inoltre, sono assai diverse: dal luogo di socializzazione, si è trasformata in un luogo dove si
forniscono servizi. Un’altra fondamentale differenza risiede nel modo di produrre le immagini; grazie all’avvento del
digitale, che permette la realizzazione di effetti speciali, il cinema postmoderno non ha necessariamente bisogno del
dispositivo fotografico. Se consideriamo Star Wars il personaggio Jabba the Hurt era un pupazzo di lattice che passava
davanti alla macchina da presa; con le tecniche digitali, invece, diviene un algoritmo.

Da sempre si è sottolineato il potere del cinema di riprodurre il reale vincendo lo scorrere del tempo, riscrivendo il
rapporto dell’uomo con la morte (Noël Burch). In particolare tale si ritorna a riflettere su tale considerazione
terminata la Seconda Guerra Mondiale. André Bazin, nello studio intitolato ‘’Ontologia dell’immagine
cinematografica’’ ritiene che il cinema risponda al bisogno fondamentale della difesa contro il tempo, bisogno
radicato nella psiche umana e riconosciuto come ‘’complesso della mummia’’. Inoltre nel 1946 si sono riconosciute le
radici del cinema nelle mummie egizie. Il cinema, difatti, così come la fotografia esprimono il desiderio di immortalità
dell’uomo; tale desiderio sarà spunto di riflessione anche per Burch che lo collocherà in un contesto tecnico-
scientifico, preferendo così l’espressione ‘’Sindrome di Frankeinstein’’. Tuttavia l’avvento del digitale cancella tale
prerogativa poiché se sullo schermo non vediamo più cose che sono passate davanti alla cinepresa, l’immagine non
risponde al bisogno dell’uomo di fermare il tempo, conservando la realtà.

Capitolo 2 Il cinema delle origini


Da strumento scientifico a forma di intrattenimento

Il meccanismo tecnologico alla base del cinema viene inventato alla fine dell’Ottocento con finalità scientifiche; difatti
viene utilizzato per studiare le fasi del movimento impercettibili all’occhio. Fondamentali sono gli esperimenti di
Eadweard Muybridge, che riesce a fissare le istantanee del movimento di un cavallo al galoppo, ottenute grazie a un
apparato di 24 macchine equidistanti. Tale lavoro ispira Etienne-Jules Marey che, per studiare il movimento degli
uccelli, crea un fucile fotografico che ha il vantaggio di beneficiare di un unico punto di vista, al contrario del
meccanismo di Muybridge.

Il cinema si fonda secondo due dinamiche: si fissano su un supporto le fasi del movimento e la capacità di proiettare
tali immagini su uno schermo. Significativo è il Praxinoscopio di Emile Reynaud, tramite il quale egli propone regolari
proiezioni pubbliche di una serie di piccole storie dipinte a mano su lunghi nastri, grazie ad una lanterna magica. Tale
strumento è un’evoluzione dello Zootropio, un cilindro aperto intervallato da fessure nella parte superiore, che
permette di osservare sulla parete interna una successione di immagini, una per ogni fessura. L’animazione si ottiene
facendo ruotare il cilindro su un perno centrale.
Decisivo fu il contributo di Thomas Edison che, a differenza di Muybridge, utilizza un solo punto di vista per fissare il
movimento. In particolare egli sfrutta l’invenzione della pellicola flessibile di Geroge Eastman, tagliandola in nastri di
35 mm con 4 perforazioni laterali per consentire alla pellicola di essere trascinata all’interno della macchina da presa.

Un’unica ma sostanziale differenza corre fra il Kinetoscope e il Cinématographe dei fratelli Lumière: il primo consiste a
un solo spettatore di assistere allo scorrimento di un breve film; il secondo, invece, proietta le immagini su uno
schermo per un intero pubblico. Per tale motivo, per quanto riguarda il primo strumento, si parla di film che
rappresentano delle attrazioni, ovvero qualcosa di sensazionale, straordinario, che non attiva dinamiche narrative e
non conosce la sintesi. Non vi è montaggio, variazione scalare e non si può parlare di inquadrature. Per effettuare le
riprese, Edison utilizza una struttura provvista di un tetto apribile e montata su rotaie in modo da seguire il movimento
della luce del sole. Tali film, inoltre, non presentano un ambiente, bensì un palcoscenico, difatti gli artisti si esibiscono
all’interno di un cono di luce che illumina la loro figura.

Il 28 dicembre 1895 ha luogo a Parigi la prima proiezione pubblica a pagamento dei film Lumière.

Dopo il convegno di Brighton

All’inizio i film erano composti da una sola inquadratura o veduta, erano accompagnati da musica; la macchina da
presa rimaneva sempre nella stessa posizione e l’azione si svolgeva nel corso di un’unica ripresa; i gestori delle sale
acquistavano più vedute e le assemblavano a loro piacimento. Lo spettacolo prevedeva inoltre la presenza di un
imbonitore che annunciava il titolo del film e ne spiegava l’azione.

Nel 1978 ci fu il convegno di Brighton, dove vengono proiettati circa 600 film datati fra il 1900 e il 1906 e durante il
quale ci si interroga sulla natura del cinema delle origini. Burch sostiene l’esistenza di un ‘’Modo di Rappresentazione
Primitivo’’, individuabile nei tratti dei film compresi tra il 1895 e il 1906-1908, biennio a partire dal quale ha inizio la
sua erosione, sfociata in uno sconvolgimento estetico caratteristico del ‘’Modo di Rappresentazione Istituzionale’’.
Prima di Burch si credeva che il linguaggio cinematografico fosse in attesa di emergere dal macchinario dei Lumière; al
contrario il primo crede che i codici del linguaggio cinematografico non hanno niente di naturale, bensì sono il
prodotto della società occidentale capitalistica d’inizio Novecento. Il biennio 1906-1908 coincide con la nascita
dell’industria cinematografica, dunque ci si rende conto che bisogna rivolgersi ad una platea di spettatori borghesi. Al
contrario il cinema delle origini si rivolgeva prevalentemente alle classi popolari, cosa ben dimostrata dall’ambiente in
cui i film venivano presentati, che non era adatto a persone schizzinose. Il film Let Me Dream Again (1900) mostra un
uomo e una donna che festeggiano bevendo e fumando; si tratta però solo di un sogno, in quanto al suo risveglio
l’uomo si trova di fianco ad una donna brutta e scorbutica. Tale film viene dunque mostrato come una semplice
attrazione ed è pensato per un pubblico popolare. Ben presto ci si accorge che il pubblico popolare non può garantire
un’espansione industriale, dunque avviene una vera e propria cesura e viene mutato il modo di rappresentazione.

Prima del convegno di Brighton si credeva ad una visione evoluzionista; oggi invece non si spinge il cinema dele origini
a quello istituzionale, bensì lo si interroga in relazione al pre-cinema. André Gaudreault, per uscire dalla visione
evoluzionista, suggerisce che non bisogna dire inquadratura (termine organico al linguaggio cinematografico che non è
ancora nato), bensì bisogna dire veduta; oppure fabbricazione delle vedute animate al posto di produzione; oppure
esibitore (compra i film e assembla le vedute) , non esercente (tipico del cinema istituzionale).

I fratelli Lumière e Méliès

Si può dividere il cinema delle origini in tre periodi:

1895-1900 film di una sola veduta.

1900 al 1906-1908 film realizzati assemblando più di una veduta, tale assemblaggio è paratattico.

19066-1908 al 1915 primi esperimenti verso la costruzione di legami ipotattici.

Durante il primo periodo lo spettatore è attratto dalla rappresentazione della realtà in movimento. Ricordiamo le
singole vedute dei fratelli Lumière, che fanno fotografia animata. I loro film possono essere inscritti nella pratica già
consolidata della fotografia. I film di Méliès invece si collocano nella pratica del teatro popolare, difatti lo spettatore è
il vecchio spettatore teatrale, esterno alla vicenda rappresentata. Se c’è variazione nella distanza tra il punto di vista e
il profilmico non è il primo a muoversi, bensì il secondo, come nell’allunaggio in Le voyage dans la Lune. Questi registi
utilizzano il cinematografo ma in ambiti che essi praticano già da tempo.
Perché ‘’istituzionale’’? Un’istituzione esercita un potere normativo, sanzione e regolamenta. L’avvento del ‘’Modo
istituzionale’’ implica che ogni inquadratura mostri solamente ciò che è utile al racconto e l’inquadratura è pensata in
modo da orientare lo spettatore. Méliès non riesce ad adattarsi e, pieno di debiti, abbandona l’attività.

La scuola di Brighton

Dopo il convegno di Brighton viene revisionato il ruolo attribuito all’opera di David Wark Griffith. Al convegno si è
scoperto che Griffith non ha inventato le tecniche cinematografiche, bensì queste ultime erano state utilizzate prima
di lui dai cinematografisti della scuola di Brighton. Griffith, tuttavia, fa un nuovo utilizzo di tali tecniche.

Nel cinema istituzionale l’attrazione non scompare bensì è inglobata in un sistema narrativo. Ad esempio il piano
ravvicinato inizialmente svolge la funzione di ingrandimento, considerato un’attrazione. Un esempio eclatante di ciò è
il film Grandma’s Reading Glass (1900) , di George Albert Smith, mostra un bambino che, attraverso la lente di
ingrandimento della nonna, osserva svariati oggetti. Al contrario nel Modo di Rappresentazione Istituzionale il piano
ravvicinato opera una sottolineatura narrativa. Nei film di Griffith vengono utilizzati per approfondire la psicologia dei
personaggi; esso, dunque, è perfettamente integrato nel flusso narrativo, come nel caso di Death’s Marathon (1913).

Edwin S. Porter

Il cinema delle origini presuppone una narrazione con caratteristiche peculiari, dominate dall’autonomia delle vedute.
Il passaggio dal cinema delle origini al cinema istituzionale implica il cosiddetto viaggio immobile, ovvero lo spettare è
completamente immerso nella narrazione; al contrario nel cinema delle origini lo spettatore è esterno alla vicenda.

The Great Train Robbery è un film costituito da 13 vedute: le prime 9 dedicate all’assalto del treno da parte di un
gruppo di malviventi; le ultime 4 all’inseguimento e all’uccisione dei banditi da parte degli uomini dello sceriffo. A
queste se ne aggiunge un’altra, che prende il nome di emblematic shot, che mette al centro il personaggio cattivo e
riassume gli elementi portanti del film. Tale film non attiva dinamiche di partecipazione, è caratterizzato da vedute
autonome assemblate in modo paratattico; e qui la macchina da presa è distante dal profilmico.

Lo stesso anno viene realizzato il film Life of an American Fireman, il cui finale ci mostra il salvataggio di una madre e
sua figlia. Tale salvataggio ci viene mostrato 2 volte, sia dall’interno della casa che dall’esterno. Per lungo tempo il film
è stato considerato perduto, ma, negli anni Quaranta viene ritrovata una copia, in cui il salvataggio è articolato dal
montaggio alternato, ovvero mostra lo stesso evento una volta sola alternando il punto di vista interno alla stanza a
quello esterno ad esso. Si pensa che su tale versione sia intervenuto un archivista che, giudicando un errore
l’articolazione formale, ha ritenuto doveroso correggerla secondo le regole dell’istituzione.

Le sovrapposizioni temporali caratterizzano anche The Great Train Robbery. Ad esempio nella decima veduta il tempo
del racconto si sovrappone a quello che intercorre tra la seconda e la nona veduta. Tuttavia la fluidità del racconto
viene garantita dalla presenza dell’imbonitore, la cui presenza è necessaria per l’assenza delle didascalie e per il fatto
che il film mostri ogni tipo d’azione in campo lungo, difatti le vedute del cinema delle origini raffigurano sempre la
totalità dell’azione e sono autonome.

Il passaggio dal cinema delle origini al cinema istituzionale determina il miglioramento delle sale, l’aumento del
biglietto, l’esaltazione della funzione didattica e moralizzatrice del cinema e il fatto che le forme narrative eclissano
quelle documentaristiche. Questo poiché si ha la necessità di attirare il pubblico borghese. Inoltre la forma narrativa
presenta un ulteriore vantaggio: consente di razionalizzare la produzione, standardizzarla e programmarla.

Capitolo 3
Verso il modo di rappresentazione istituzionale: il contributo di Griffith
L’importanza di Griffith

Egli stesso ha contribuito a mettere in circolo il mito di sé, in particolare ricordiamo la pagina pubblicitaria da lui
pubblicata dove dichiara di aver posto le basi del cinema moderno e nomina i suoi film più importanti. Gli anni
compresi tra il 1907 e il 1910 sono i più prolifici per il regista e comportano una serie di cambiamenti, dato l’avvento
del cinema istituzionale: l’obiettivo diviene narrare, lo spettatore diviene più libero, più ‘’mobile’’ grazie alle nuove
tecniche di montaggio; si passa al lungometraggio, le storie divengono più complesse, cambia la recitazione, nasce lo
star-system e, soprattutto, il pubblico muta. In quest’epoca Griffith è stato il più rappresentativo nella
sperimentazione ed egli utilizza formule già in uso per nuovi scopi, ovvero la narrazione.

Il periodo Biograph

Griffith nasce in Kentucky da una famiglia non ricca. Il padre muore presto, ma riesce a infondergli i valori tradizione e
il senso di trauma a seguito del crollo della società sudista. Attore fallito di teatro, Griffith esordisce al cinema spinto
dal bisogno di soldi. Sino al 1913 lavora alla Biograph Co. America. Egli le ridà lustro e in 5 anni rivoluziona un mondo
con ben 500 film.

Nel 1909 Griffith realizza il film A Drunkard’s Reformation, un dramma morale. Siamo in un contesto familiare assai
triste: il padre di famiglia è un alcolizzato e tale situazione si riversa sia sulla madre che sulla figlia. Padre e figlia si
recano a teatro, luogo a cui aspirare per Griffith, l’arte di riferimento. A teatro viene rappresentato l’Assomoir. Essi
seguono la pièce con molta attenzione, coinvolti nel cosiddetto viaggio immobile. Possiamo osservare ora
inquadrature relative a quello che avviene sul palco, ora a quel che accade in platea, dove assistiamo alla sfera
interiore, alla reazione psicologica che i personaggi manifestano; tutto ciò grazie al montaggio alternato e al piano
ravvicinato. Griffith svolge per il suo pubblico il medesimo discorso morale che la pièce sta svolgendo per il
protagonista ubriacone, difatti segue una riforma interiore, un mutamento del personaggio, che capisce i suoi errori.
L’inquadratura finale del quadro familiare rappresenta il premio conseguito a seguito di tale riforma. Si tratta di una
composizione evocativa, caratterizzata da un’illuminazione artificiale che richiama il focolare, simbolo del calore
familiare.

The Lonely Villa (1909) : il montaggio alternato e il ‘’finale alla Griffith’’

Tale film è considerato un appassionante thrilller. Un uomo, ingannato da un finto telegramma, lascia moglie e figlia
sole nella loro villa isolata; un gruppo di malviventi assale la casa e le donne si barricano in una stanza; la madre tenta
di telefonare il padre ma i fili vengono tagliati. Vi sono piani ravvicinati (bandito stacca la linea telefonica), una
descrizione degli spazi, della casa dove i malviventi entrano e la macchina da presa segue i personaggi passando da
una stanza all’altra raccordando sul movimento, sullo sguardo e sul suono. Griffith realizza così una sorta di prologo.
Nella seconda parte del film il montaggio interviene anche sul tempo, difatti, attraverso il montaggio alternato, ci
vengono mostrate in alternanza tre azioni simultanee, destinate a congiungersi in un unico spazio-tempo, conferendo
così suspence: quella del padre che cerca di correre in aiuto della famiglia, quella delle donne in pericolo e quella dei
malviventi in azione. Quando i banditi riescono ad entrare, subito arrivano i soccorsi; tale sequenza rappresenta il last
minute rescue (o finale alla Griffith) . Il montaggio alternato non era una novità, difatti compare nel film francese Le
cheval emballé del 1908, tuttavia qui funge come attrazione, mentre in Griffith è al servizio di dinamiche narrative.

A Corner in Wheat (1909) : il montaggio costruttore di senso

A Corner in wheat è un film dove il principio dell’alternanza tra inquadrature è la base per un paragone tra concetti
astratti, finalizzato alla produzione di un significato simbolico.

All’inizio viene mostrata una famiglia di contadini intenta a lavorare. I movimenti sono lenti e le figure, mentre
avanzano, divengono sempre più gradi, acquisendo un valore simbolico e monumentalità. Improvvisamente la scena
cambia; una didascalia annuncia ‘’il re del grano’’ e appare un uomo elegante che fuma un sigaro. Tutto ciò
rappresenta una contrapposizione tra i contadini e il capitalista spietato che specula sul grano Questi personaggi non
si incontreranno mai, eppure le loro vite sono unite da un nesso causale molto forte. Il contadino è una figura
simbolica poiché rappresenta le sofferenze di coloro che sono come lui; mentre il capitalista è la rappresentazione di
un capitalismo rapace che sfocerà nell’autodistruzione, come dimostrerà la sua fine (morire soffocato dal grano che gli
ha dato ricchezza).

Drammi psicologici Biograph: piani ravvicinati e stili di recitazione

Nel corso degli anni alla Biograph Griffith riduce gradualmente lo spazio tra la macchina da presa e i suoi attori,
soprattutto le sue attrici. Il piano ravvicinato, seppur non sia una novità, viene qui utilizzato per mettere in risalto la
psicologia dei personaggi. Un esempio chiave di ciò è il film The painted Lady, che racconta la vita tragica di una donna
succube del padre autoritario, e che rifiuta di provare il belletto della sorella. La troviamo dinanzi allo specchio,
mentre si prepara per il suo incontro amoroso; inizialmente viene colta dalla curiosità di provare il belletto, ma poi
decide di rinunciare a ciò e la sua espressione si tramuta in un sorriso, che rivela la sua psicologia. Il corteggiatore l’ha
apprezzata per quella che è.

In The New York Hat la protagonista, Mary, è ancora una giovane donna repressa da un padre bigotto. Il dramma si
svolge allo specchio; Mary vorrebbe un cappellino nuovo ma il padre rifiuta di comprarlo. Lei, però, tenta di apparire
ugualmente elegante attraverso le sue prove allo specchio, che si basano soprattutto sui movimenti delle mani. In The
Female of the Species la moglie gelosa brandisce un’accetta con intenti assassini. Il clima psicologico è dato dal
montaggio che isola la ragazza sospettata di aver sedotto l’uomo di un’altra in un’inquadratura singola, divisa da
quella che invece riprende le sue aguzzine.

The Birth of a Nation (1915)

La vicenda della tradizionale famiglia sudista dei Cameron e di quella nordista degli Stoneman si intreccia con gli eventi
storici della guerra di Secessione Americana. Il film stupisce per la libertà di montaggio e per l’abilità di mescolare
storia individuale ed eventi di massa. Tuttavia tutto ciò è messo al servizio di un’ideologia profondamente razzista.
Difatti sostiene che il Sud degli Stati Uniti dopo la guerra di Secessione sarebbe stato salvato dalla fondazione del Ku
Klux Klan. Tuttavia, a causa di numerose proteste, Griffith dovrà apportare numerose modifiche a partire dal titolo che
avrebbe dovuto essere The Clansman. Ogni elemento del film risponde ad una logica razzista; ad esempio l’amore tra
Margaret e il giovane Stoneman scoppia nei campi di cotone, luogo di sfruttamento dei neri americani. Oppure la
scena in cui Flora, sorellina di Cameron, viene importunata da Gus, soldato nero che inizia ad inseguirla fin quando ella
non si butta nel vuoto. Possiamo osservare la contrapposizione iniziale tra lo sguardo tenebroso del soldato rivolto
alla ragazzina e l’innocenza di quest’ultima, intenta a guardare uno scoiattolo.

Nella versione oggi conosciuta, tuttavia, Gus non aggredisce Flora bensì, dopo essersi avvicinato, si qualifica come
capitano, le chiede di sposarlo e le dice di non volerle farla del male.

La fuga di Flora è caratterizzata da un susseguirsi di immagini naturali da cui traspare il contrasto tra il dramma che si
sta compiendo e la bellezza della natura; tale contrasto è stato voluto al fine di dimostrare il disordine che il
matrimonio interraziale tra i due avrebbe scaturito.

Intolerance (1916)

Il tema di tale film è l’intolleranza. Griffith rappresenta quattro storie ambientate in diversi periodi storici. In epoca
moderna una madre è perseguitata da una società moralista che condanna il marito per un crimine non compiuto; a
Babilonia, nel 539 a.C., i sacerdoti del dio Baal tradiscono la patria consegnando la città impreparata alle truppe di
Ciro; nell’antica Galilea i farisei tramano per la condanna di Cristo; infine, nel XVI secolo, la protestante Occhi Castani e
il cattolico Prospero Latour, futuri sposi, vengono uccisi durante il massacro della notte di San Bartolomeo.

Ogni storia ha il proprio stile e, ad eccezione di quella ambientata in Palestina, ha anche una sua eroina. I nomi delle
protagoniste rivelano il desiderio di farne figure universali, in quanto l’obiettivo di Griffith non è solamente raccontare
storie bensì mostrare idee astratte e costruire un senso storico, politico. In Intolerance i momenti più tragici sono
spesso contrapposti da passaggi comici e, visivamente, il film alterna momenti più intimi a quelli più spettacolari, in
quanto ogni tragedia pubblica è tale poiché è composta da lutti individuali.

Intolerance, tuttavia, non ha il successo sperato, sicuramente poiché portatore di un messaggio pacifista quando
l’America sta per entrare in guerra.

Broken Blossoms (1919): la perfezione formale

Nel 1919 Griffith partecipa alla fondazione della United Artists: una casa di produzione nata per liberare gli artisti dal
giogo dei produttori.

Broken Blossoms racconta l’incontro di due emarginati, un cinese emigrato in un quartiere portuale inglese e
un’adolescente brutalizzata dal padre. In tale film i virtuosismi di montaggio sono meno ‘ostentati’ in quanto Griffith
ricorre spesso ai totali, caricati di un forte valore simbolico. Si tratta di un film costruito su piccoli gesti, alternati a
esplosioni di violenza. Il ricorso al raccordo sullo sguardo contribuisce alla definizione delle psicologie. Ad esempio,
durante il primo incontro, Cheng Huan fissa la ragazza, mentre quest’ultima fissa le bambole.
Anche in tale film traspare la volontà di trasmettere un’idea attraverso le immagini, difatti la storia di Cheng Huan,
della caduta dei suoi ideali rappresenta la fragilità delle aspirazioni umane.

Il destino di Griffith

Griffith non riuscirà ad adattarsi pienamente al nuovo linguaggio che lui stesso ha contribuito a costruire. Realizza film
considerati ‘’old fashion’’, rimanendo fedele alla sua maniera che, nel frattempo, è stata superata da una Hollywood in
piena età dell’oro.

Capitolo 4 Il cinema muto italiano


Nasce ufficialmente il 20 settembre 1905, data in cui, presso Porta Pia a Roma, viene proiettato il film La presa di
Roma di Filoteo Alberini, il quale mette in scena la conquista di Roma da parte dell’esercito italiano; si tratta del primo
film prodotto industrialmente. La messa in scena ha il suo punto di forza nella precisione storica della ricostruzione.
Nel 1904-1905 a Roma e a Napoli vi sono delle reti di sale stabili, dedicate al cinema; ciò suggerisce ad Alberini un
salto di qualità, che sfocia nella produzione industriale. Nel 1905, inoltre, nasce la società Alberini-Santoni, i cui film
coprono i generi in voga, tra cui, appunto, La presa di Roma.

Lo stato intuisce il potenziale propagandistico del cinema, difatti, nel film, vengono celebrati l’epoca cruciale del
Risorgimento e lo stato unitario, soprattutto nel finale, caratterizzato da una giovane avvenente che regge la bandiera
tricolore e la palma della vittoria, ai piedi della quale appaiono, quasi come statue, Cavour, Garibaldi, Mazzini e
Vittorio Emanuele II.

Nel cinema muto italiano è raro che vengano messi in scena conflitti sociali. Nel 1905 l’Italia è un paese giovane e per
tale motivo è necessario costruire un’identità nazionale condivisa. Inoltre, non vengono trascurate le bellezze
artistiche e naturali; difatti La presa di Roma sfrutta alcuni esterni reali, il tempo clemente e la luce solare invidiabile.

Un modello alternativo

Oggi lo stile di questo film potrebbe apparire di retroguardia, in quanto il montaggio interno alla sequenza è poco
usato, il campo-controcampo è assente, la recitazione è stilizzata e molto fisica. Questo ‘’modello alternativo’’
sostituisce complesse costruzioni in profondità di campo in cui l’organizzazione del set, i movimenti degli attori,
l’interazione con gli oggetti di scena si prefiggono di raccontare la storia e delineare le psicologie. In Italia e in Europa
l’influenza delle arti figurative è molto forte. Nel cinema italiano la bidimensionalità dell’immagine è utilizzata per
comporre quadri armonici.

Comici a confronto

La prima gag del film A Night in the Show (1915, di Charlie Chaplin) è ambientata in una sala di spettacolo e vede
Chaplin alle prese con una maschera che non sa indicargli il posto assegnato, costringendolo a spostarsi
continuamente, dando vita così ad un buffo balletto. Tutta la scena è risolta in un’unica inquadratura laterale e questa
continuità spaziale e temporale rafforza l’effetto comico. La fissità della macchina, contrapponendosi ai movimenti di
Chaplin, è alla base del meccanismo che produce la risata.

Nei primi anni Dieci a dominare il mercato sono le produzioni italiane e ogni casa di produzione cerca di accaparrarsi
artisti e di forgiare soprannomi accattivanti; è il caso di Marcel Fabre, che diviene Robinet e che, nel 1911, gira Robinet
innamorato di una chanteuse. Robinet si reca a teatro, dove si innamora di un’artista; egli la insegue in ogni dove,
portando con sé il caos. La prima parte del film ricorda il balletto del film di Charlie Chaplin e anche il taglio
dell’inquadratura è molto simile. Sul palco del teatro di A Night in the Show compare però un’incantatrice di serpenti,
il cui cesto cade , facendo sparpagliare i rettili. Lo spazio così si frammenta in sezioni che si susseguono a ritmo di un
montaggio sempre più veloce, elementi che nel cinema muto italiano sono impossibili da trovare. Robinet, invece, si
reca nel retropalco. Egli gesticola con un mazzo di fiori, rivolgendosi alla ballerina. Dietro le quinte gli attrezzisti
seguono il numero per tirare il sipario; più avanti due artisti chiacchierano e fumano. Il quadro, dunque, si divide in
quattro livelli differenti.

Il dramma storico

Inizialmente il genere storico viaggia di secolo in secolo, mettendo in scena drammi più attenti all’immutabilità delle
passioni umane che ai mutamenti imposti dal corso della Storia.
Fino al 1911 i film devono raccontare una storia comprensibile e capace di smuovere l’emozione del pubblico in un
tempo molto breve. I cineasti, dunque, preferiscono puntare su temi universali come la gelosia, l’amore, la vendetta,
ricombinandoli in nuovi contesti storici.

Ben presto si scopre un altro modo per raccontare una storia appassionante, senza che lo spettatore perda il filo della
narrazione: mettere in scena vicende che già conosce, in modo già sappia i passaggi logici. Un chiaro esempio è il film
Romeo e Giulietta (1908), dove Giulietta combatte a fianco del padre e viene ferita erroneamente da Romeo per poi
essere avvelenata dal suocero. Dunque l’obiettivo non è raccontare la vicenda dei due amanti, bensì quello di illustrare
le immagini-icona che l’immaginario comune si aspetta dal dramma.

Il riferimento ai grandi della letteratura e della storia ha anche il vantaggio di offrire una patente alta di cultura, utile
ad attirare il pubblico borghese. Dunque il cinema svolge così la funzione acculturamento, insegnamento e
formazione.

Verso il lungometraggio

Nel 1911 diventa chiaro che le grandi ambizioni didattiche e spettacolari del cinema italiano possono trovare nei film
a lungometraggio una forma molto più adatta alle esigenze. I film L’Inferno (1911), La caduta di Troia (1911) e
L’Odissea (1911), con il loro successo, hanno contribuito all’affermarsi della nuova formula. Il primo può considerarsi
un susseguirsi di quadri ispirati alle incisioni ottocentesche; è come se sfogliassimo un’edizione illustrata dell’opera e
all’improvviso le pagine si animassero.

Mantenere l’attenzione sullo schermo era difficile per un pubblico non abituato e tale film ovvia al rischio riempiendo
le immagini di elementi interessanti e meravigliosi alla vista; ciò comporta un investimento economico non
indifferente.

I kolossal storici

Nel 1913 vengono distribuiti i due film capofila dei generi che caratterizzeranno i suoi anni d’oro: Ma l’amor mio non
muore!, che inaugura il cinema delle grandi dive e Quo vadis!, che segna l’avvio del cinema storico. In Italia fino al
1911 il genere dominante è il dramma storico. Tra il 1911 e il 1914 inizia un rivolgimento: il metraggio dei film si
allunga, i set si fanno più ricchi e le comparse si moltiplicano.

Quando Guazzoni gira Quo vadis! Intercetta il nuovo gusto per il grande spettacolo storico a lungometraggio. La
vicenda privata dell’amore tra i protagonisti Licia e Vinicio ha la sua importanza, ma il vero tema è l’avvento del
Cristianesimo. Da qui possiamo evincere la grande differenza tra i drammi in costume e i nuovi kolossal: i grandi eventi
storici non sono più solo conseguenze di amori, ma sconvolgimenti incontrollabili che travolgono i personaggi.

L’accuratezza storica non si ottiene solo attraverso la ricercatezza di scene e costumi, bensì anche grazie alla
profusione di dettagli affidati alle comparse che devono mostrare come lo sforzo sia quello di ricreare le abitudini
quotidiane dell’antica Roma. Il set è ampio, ricco e costruito in profondità, il più delle volte riempito da una massa di
comparse trattata sullo schermo in maniera plastica. Inoltre è importante che nella confusione delle masse lo
spettatore capisca sempre dove rivolgere la sua attenzione per comprendere la storia. Per esempio durante la
sequenza del banchetto in cui Vinicio tenta di sedurre Lucia, dietro di loro, in fondo alla sala, siedono Nerone e
Poppea; Guazzoni, pur facendoli apparire così distanti, enfatizza la loro importanza ponendoli nel punto di fuga
prospettico di tutta la composizione . Inoltre i due sono collocati in corrispondenza simmetrica con Vinicio e Lucia, il
che suggerisce che le loro sorti, così come quelle del mondo, dipenderanno dal loro volere.

Cabiria (1914)

Cabiria di Giovanni Pastrone è il film muto italiano più importante e famoso. Si tratta di un film che va ricostruito
attraverso la collezione di copie esistenti e integrando e assemblando il testo con lo scopo di giungere al metraggio; da
ciò deriva una complicazione, ovvero numerose edizioni, copie non portavano la stessa data in quanto il film è stato
rieditato diverse volte e torna sugli schermi in versioni diverse.

Il film ha vive tre volte:

viene modificato nel 1914 e passa nei teatri di Torino, Roma, Napoli, Milano e viene distribuito nelle sale popolari.
Nella primavera del 1914 subisce i primi tagli e perde la celebre sinfonia del fuoco di Ildebrando Pizzetti, in quanto il
cinema di provincia non può ospitare tale orchestra.

Nel 1921 Pastrone riedita il film con qualche taglio e nel 1931 abbiamo una riedizione del testo, il cui danno principale
consiste nello scenario modificato; si impone il sonoro e Pastrone stesso prepara l’edizione sonorizzata, lavorando sul
negativo originale. Inoltre, per adattarsi ai nuovi ritmi di montaggio, Pastrone smargina le inquadrature che divengono
più corte; successivamente i restauri del 1995-2006 reintegrano i tagli. Egli non si limita a tagliare, bensì aggiunge
anche.

Inseriamo tale film nella categoria dell’attrazione in quanto l’impulso di esibire è maggiore di quello di attivare
dinamiche narrative.

Cabriria presenta una storia molto complessa, una storia ambientata al tempo delle guerre puniche e racconta le
disavventure della giovane siciliana Cabiria, rapita ancora bambina dai pirati nella confusione causata da un’eruzione
dell’Etna, venduta al mercato degli schiavi di Cartagine per essere sacrificata al dio Moloch e salvata dalla spia romana
Fulvio Axilla e dal suo fedele schiavo Maciste. Pastrone sceglie dunque un racconto esotico che intende alludere
all’entusiasmo coloniale da parte degli italiani, esaltati dalla guerra italo-turca.

Cabiria racconta una storia complicata e mostra immagini spettacolari, due dimensioni che non si armonizzano; i critici
americani lodano la spettacolarità delle immagini presentate, tuttavia, abituati al cinema di Griffith, lo criticano per le
evidenti difficoltà delle narrazioni e per il fatto che manchi un equilibrio fra gli effetti spettacolari e la narrazione.
Tuttavia, Cabiria ebbe uno straordinario successo a causa della monumentalità dell’apparato scenografico.

Conosciamo bene le riprese scartate; tre studiosi hanno condotto una ricerca e sono arrivati alla conclusione che le
riprese escluse non sono state scartate poiché segnate da qualche errore; per lo più si tratta di esperimenti di
linguaggio che Pastrone ha voluto fissare sulla pellicola e che ha scartato dopo un’attenta valutazione. In più le scelte
compiute da Pastrone sono perfettamente coerenti al progetto estetico di fondo, ovvero al linguaggio del cinema delle
attrazioni. Nel materiale scartato ci sono riprese ravvicinate che Pastrone gira sperimentandole, ma che decide di
eliminare perché troppo intimiste, psicologiche e incoerenti con il progetto estetico (ad esempio l’inquadratura di
Annibale che riflette sulla via da prendere). Difatti predilige dei piani più arretrati in quanto la natura spettacolare,
l’ambiente vincono sulla caratterizzazione del personaggio.

Pastrone non si affida a nessuna conoscenza pregressa; tutti i nessi causali sono affidati alle immagini e alle didascalie,
le quali sono al centro di una trovata pubblicitaria di Pastrone che decide di coinvolgere nel film Gabriele D’Annunzio;
Pastrone, difatti, chiede al poeta di inventare i nomi dei personaggi e di tradurre le didascalie nel tono aulico e oscuro
che caratterizza le sue opere. Inoltre, il regista chiede al poeta di attribuirsi la paternità del film, in modo tale che
l’eccezionalità dell’opera venga accolta da un pubblico più colto.

La pellicola si apre con la scena di un’eruzione, momento spettacolare che, di solito, i film riservano al finale; tuttavia,
ponendolo in apertura, il regista sembra sottolineare che il punto d’arrivo dei film visti fino ad allora è per Cabiria
l’inizio. La sequenza più impressionante è, tuttavia, quella ambientata nel tempio del dio Moloch e il personaggio che
più il pubblico è il gigante Maciste, protettore dei deboli e fedele al padrone. Pastrone darà vita ad una serie di film a
lui dedicati.

I film delle dive

Si tratta del secondo genere che domina il cinema italiano muto fin dal 1913. La prima grande diva non è italiana bensì
danese; si tratta di Asta Nielsen, che ha raggiunto il successo con il film L’abisso (1910).

Il vero capo-stipite del diva-film è Ma l’amor mio non muore! (1913), che il regista Mario Caserini gira per per lanciare
nel cinema Lyda Borelli. Il film racconta le peripezie di Elsa Holbein, figlia di un colonnello del ducato di Wallenstein,
ingiustamente accusato di tradimento; il suicidio del padre costringerà Elsa, bandita dal paese, a dedicarsi alla carriera
di cantante. Elsa si innamora del giovane principe di Wallenstein, che viaggia in incognito. Il loro amore impossibile
terminerà con il suicidio della protagonista che spira tra le braccia dell’amato dicendo Ma l’amor mio non muore!

Appare subito evidente come le inquadrature siano perfettamente calibrate nella composizione e come attori e
oggetti non si trovino mai casualmente in un determinato punto.
Il personaggio di Elsa, tuttavia, non corrisponde allo stereotipo della femme fatale, bensì si ispira alle eroine
romantiche del melodramma, donne eccezionali, passionali e pronte al sacrificio. Molto diversi sono i ruoli di Pina
Menichelli che, nei film Tigre reale e Il fuoco, sono donne fatali, misteriose, rapaci. La Menichelli è la principale artefici
del cinema isterico, in quanto interpreta le sue parti con scatti rapidi e nervosi. Le donne interpretate dalla terza
grande diva italiana, Francesca Bertini, sono indipendenti, forti e capricciose. Il film che la lancia, Assunta spina (1915),
si discosta molto dai tipici salotti borghesi, difatti si tratta di un sanguinoso dramma popolare; ciò è testimoniato non
solo dagli ambienti bensì anche dagli atteggiamenti della stessa sttrice. Il riferimento è alla letteratura e al teatro
verista in cui l’attenzione è concentrata sulla violenza delle passioni di un mondo naturale piuttosto che sul contesto
sociale.

Quando decide di interpretare il suo primo film, Cenere (1916), Eleonora Duse ha sessant’anni ed è attirata dalle
potenzialità del nuovo mezzo espressivo che richiede agli attori di esprimere una vasta gamma di emozioni solo con i
gesti e in un contesto diverso dalla scena teatrale.

Nel 1916 l’entrata in guerra dell’Italia ha già posto termine all’epoca d’oro del cinema italiano, chiudendo alcuni dei
mercati stranieri più ricchi. La stampa dell’epoca incolpa le dive, ree di richiedere cachet insostenibili e i film
americani, accusati di concorrenza sleale. In realtà la spinta creativa del cinema italiano è finita poiché risulta
impossibile adattarsi al nuovo ritmo e allo stile imposti da una produzione d’oltreoceano sempre più brillante.

Capitolo 5 Le avanguardie
Il concetto di avanguardia presuppone un’idea progressiva della storia dell’arte, per cui la sperimentazione di nuovi
linguaggi può divenire motivo di progresso artistico.

I gruppi di avanguardia si distinguono per il loro elitarismo; le loro tecniche nuove sono in conflitto con il linguaggio
tradizionale, con le prassi ufficiali, con le istituzioni fondate su tali prassi e con il pubblico che è il figlio
dell’establishment artistico. La rottura della tradizione da loro operata diviene ben presto tradizione della rottura,
ovvero l’idea che si debba sempre inventare qualcosa di nuovo, la volontà di rompere con la tradizione divengono
esse stesse norme e tradizioni. Solamente l’avvento della postmodernità determina la fine di questo ciclo poiché
mette in crisi l’idea che la novità possa apportare progresso.

I gruppi artistici dell’avanguardia spesso fanno propria una pratica politica e la trasferiscono nel campo dell’arte; le
avanguardie, difatti, sono impegnate a far saltare in aria il mondo dell’arte sul modello delle rivoluzione sociali. Filippo
Tommaso Marinetti, padre del futurismo italiano, si pone come se fosse il leader di un partito rivoluzionario e
costituisce un gruppo che include ed esclude i suoi membri in funzione dell’adesione ad una linea. Ci si procura anche
gli strumenti adatti promuoverlo, come giornali, manifesti che si rivolgono a tutta la società… il futurismo aspira ad
una diffusione e ad una dissoluzione all’interno della società ed entra in conflitto con tutte le istituzioni che dfendono
la tradizioni, quali musei o accademie.

L’avanguardia e il cinema

Il cinema non è stato integrato nelle istituzioni. Nel biennio 1907-1909, però, compie i primi passi verso una
legittimazione artistica, chiede di poter entrare come ultima arte e di essere difeso da una serie di nuove istituzioni.
Dal canto loro le avanguardie sono impegnate nell’operazione inversa, ovvero la distruzione delle istituzioni. Nel
momento in cui le avanguardie guardano al cinema, non lo fanno come Griffith, che lo ritiene uno strumento
narrativo, bensì prediligono il cinema brutale, non angora legittimato, ingabbiato, simbolo della modernità. Per questo
motivo occorre distinguere tra avanguardia e avanguardismo, quest’ultimo sarebbe difatti il movimento che porta
alcune tecniche sperimentate dalle avanguardie in un contesto narrativo. I film d’avanguardia sono tutti quelli contro
le istituzioni, mentre i film d’avanguardismo sono tutti quelli che vogliono operare all’interno dell’istituzione del
cinema.

Le avanguardie non narrative

Tre film condensano l'impresa dell’avanguardia cinematografica: Le retour à la raison (1923) di Man Ray; Ballet
Mécanique (1924) di Fernand Léger ed Entr’acte (1924) di René Clair e Francis Picabia. La proiezione del primo,
assemblato frettolosamente per una serata dadaista, riporta il cinema indietro di vent’anni, alle sale indisciplinate. Il
film, difatti, provoca uno scontro violento che sfocia in rissa. Tale film non è fatto per essere proiettato e, per tale
motivo, mette in discussione l’oggetto poiché il film, secondo le istituzioni, è un oggetto che dev’essere proiettato.
Man Ray si affida al frammento e rifiuta l’unità del tutto; nel contempo le componenti stesse sono negate. Il cinema
istituzionale presuppone l’utilizzo della macchina da presa, mentre Man Ray procede impressionando la pellicola per
contatto. I parametri tradizionali della rappresentazione dello spazio sono capovolti e anche quelli del tempo
attraverso le ripetizioni.

Il film Ballet mécanique esaspera lo spettatore, sottoponendolo ad un numero insopportabile di ripetizioni


dell’inquadratura di una lavandaia che si inerpica sulle scalinate di Montmartre. Entr’acte, invece, mostra una ballerina
che si rivela essere un uomo con la barba. Ciò mette dunque in crisi i canoni della chiarezza narrativa del cinema
istituzionale.

Alla fine degli anni Dieci si sviluppa la convinzione che, poiché il cinema è un’arte visiva come la pittura, la sua forma
più pura dev’essere astratta. Il primo film animato astratto è Rhythmus 21 di Hans Richter, realizzato fotografando
rotoli di carta su cui sono sviluppate variazioni di segni pittorici. Egli desidera superare i limiti della tela circoscritta
dalla cornice.

Il film che meglio incarna le tesi del movimento surrealista è Un chien andalou (1928) di Luis Buñuel. La scena iniziale
in cui il regista squarcia l’occhio di una donna indica ciò che il cinema surrealista vorrebbe fare con lo spettatore.

Le avanguardie narrative

L’avanguardia narrativa trova una prima favorevole accoglienza in Germania, nel contesto dell’evoluzione delle
tendenze espressioniste e, successivamente, in Francia con la scuola impressionista. Essi vogliono imporre il regista
come autore del film e bramano un’indipendenza creativa. Il terzo movimento di avanguardia narrativa è quello
sovietico, l’unico che non rifiuta l’ipotesi di una distruzione del cinema come istituzione. Gli altri due, invece,
sovrappongono le ambizioni estetiche più raffinate ai generi popolari in voga nel cinema di consumo.

Un esempio assai emblematico delle modalità con cui l’avanguardia narrativa adatta procedimenti modernisti per il
cinema di consumo è fornito dal film più importante dell’espressionismo tedesco, ovvero Il gabinetto del dr. Caligari
(1920) di Robert Wiene. Per fare ciò occorre rendere digeribili le distorsioni più spericolate e la soluzione adottata è
quella di una cornice che le giustifichi diegeticamente. La storia di Cesare, sonnambulo che Caligari costringe a
commettere assassini, è narrata da Francis, come se fosse il frutto della sua mente malata. Gli sceneggiatori del film,
Carl Mayer e Hans Janowitz, hanno sempre sostenuto che la loro storia fosse stata tradita dalla cornice con cui Wiene
aveva voluto ricondurla al delirio di un folle, sgonfiando così l’allegoria politica sul potere; Cesare, difatti,
rappresentava l’esperienza dell’uomo comune mandato ad uccidere dal potere. Per anni il film è stato letto come
preannuncio di Hitler. La cornice prevista dai due sceneggiatori presupponeva che Francis, sposato con Jane, sedeva
sul terrazzo assieme a degli amici. Ispirato dalla vista di una carovana di zingari egli iniziava a narrare ciò che gli era
successo anni prima. Dunque, Francis e Jane sarebbero stati mostrati come personaggi equilibrati, perciò il negativo è
incastonato in una cornice privata di inquietudini. Con la nuova cornice Wiene risponde all’esigenza dell’avanguardia
narrativa di giustificare le deformazioni stilistiche e di costruire un quadro narrativo.

Capitolo 6 L’espressionismo tedesco


Il successo de Il gabinetto del dr Caligari imprime una svolta e genera una moda, mentre la situazione postbellica
certamente favorisce questo successo. Ne consegue, infatti, una lunga scia di imitazioni che irrobustiscono in
esperienza d’avanguardia un filone le cui radici risalgono alle origini stesse dell’industria cinematografica. Il cinema
espressionista riesce a conquistare un largo pubblico coniugando sperimentazione formale, ambizioni allegoriche e
racconti fantastici basati su tradizioni locali, leggende popolari… si tratta dunque di film generati dal basso, con il
supporto e la spinta dell’industria.

L’espressionismo tedesco consiste nel primo tentativo di portare le prassi dell’avanguardia in un contesto istituzionale;
l’industria tedesca, difatti, riconosce nell’avanguardia un modo per progredire.

Com’è possibile mediare?

La soluzione può essere ritrovata nel film L’ultima risata, in cui un vecchio portiere, quando perde il proprio prestigio,
si sente umiliato e inizia ad ubriacarsi. La sua condizione è la giustificazione a un momento di sperimentazione
formale. Siamo di fronte ad un montaggio indiavolato, con accelerazioni estetiche, movimenti di macchina veloci e
circolari; occorre che lo spettatore possa ricondurli alla vicenda narrata, che possa ritrovare in essa una giustificazione.
Ciò avviene in tale film la distorsione della realtà viene giustificata perfettamente dal personaggio ubriaco. Lo
spettatore, dunque, assiste a momenti di deformazione purché essi siano inseriti in una cornice naturalistica e trovino
in essa una giustificazione diegetica.

Il gabinetto del dr Caligari

Venne proiettato a Berlino nel febbraio del 1920; si tratta del film di maggior successo dell’espressionismo tedesco;
quest’ultimo si occupa di scavare dietro la realtà per far emergere le emozioni più nascoste. Alla fine degli anni 10
l’espressionismo è già qualcosa di superato dal movimento dada e dal movimento surrealista, dunque ci sono già le
condizioni per cui un’arte come il cinema possa assimilarlo. Il cinema, però, è un’arte fortemente connessa con la
realtà, dunque come importare nel cinema le forme espressioniste? La soluzione proposta da Il gabinetto del dr
Caligari consiste nel costruire completamente il set, in modo da avvicinarsi alla stilizzazione dell’arte espressionista;
difatti, le riprese in studio mostrano scenografie dipinte che accentuano la deformazione dei contorni di oggetti,
arredi, stanze, paesaggi. La scenografia risulta essere l’elemento centrale dal punto di vista visivo; essa non è
realistica, è espressionista. Le inquadrature sono sovraccariche, soffocanti per generare un senso di minaccia sui
personaggi, mentre Il montaggio è lento proprio per permettere allo spettatore di focalizzarsi sulla scenografia. Molto
importante è l’illuminazione, spesso contrastata in modo da accentuare chiari e scuri. Per quanto riguarda gli attori, la
loro interpretazione è stilizzata, enfatizzata e ciò deforma il corpo, spingendolo verso movimenti innaturali; inoltre il
trucco è appesantito in modo da limitare l’espressività.

L’inizio mostra Francis seduto accanto ad un uomo. Improvvisamente la visione di una donna, Jane, lo sconvolge ed
egli inizia a raccontare una storia, la storia di un mondo deformato. In un piccolo paese della Germania vi sono i
preparativi per una fiera. Caligari appare quasi dal sottosuolo e si reca al municipio per chiedere l’autorizzazione di
mostrare la sua ‘’attrazione’’. Molto spesso il lavoro di corrosione della realtà rivela significati allegorici; ad esempio
l’altissimo sgabello a punta su cui è arrampicato il burocrate che deve concedere la licenza a Caligari simboleggia in
modo esplicito la discrepanza tra chi detiene il potere e chi vi si deve subordinare. Inutile dire che entrambi gli sgabelli
non possiedono le fattezze che dovrebbero caratterizzarli. L’attrazione di Caligari è Cesare, un sonnambulo che
prevede il futuro. Ben presto la città viene colpita da strani omicidi, il cui colpevole, in realtà, è proprio Cesare,
obbligato da Caligari. Il primo si innamora di Jane e manda in fumo il piano omicidio di Caligari e scappa; durante le
fuga muore. I sospetti ricadono poi su Caligari che viene rinchiuso in una cella di isolamento. Tuttavia, ben presto,
assistiamo ad un brusco ribaltamento poiché il giardino iniziale è parte di un ospedale psichiatrico e tutti i personaggi
si scoprono essere parte di tale luogo, tra cui Francis, il narratore, che risulta essere ossessionato da Caligari. Il mondo
deformato, espressionista proposto dal pazzo Francis è perfettamente giustificato dalla proiezione soggettiva di un
pazzo e incastonato all’interno di una cornice. La vicenda risulta essere ambientata in un contesto che sovrappone
magia e malattia mentale e che sovverte l’apparenza della realtà. Il film risulta essere ambiguo poiché presenta un
mondo difficilmente leggibile e l’immagine finale non smentisce il narrato, bensì lo rende incerto, suggerendo
l’ambiguità della realtà. Con il finale inizia una nuova indagine poiché la verità perseguita dall’inizio è stata smentita ed
era solo apparenza. Avviene l’imprigionamento di Francis ma l’iris e la musica mettono in discussione anche questo,
sottolineando l’incertezza. Il film, difatti, non ci propone una verità, bensì vuole lasciarci in sospeso, nel dubbio; ciò lo
rende espressionista. Il testo, inoltre, è ambiguo poiché produce conflitti. A livello della trama vi è la contrapposizione
tra la narrazione di Francis, che ha come esito lo smascheramento del Caligari e la narrazione di quest’ultimo, che ha
come esito l’opposto. E, infine, vi è un conflitto sull’interpretazione a livello critico, ovvero, da un lato, si tratta di un
film reazionario, ma dai contenuti convenzionali; oppure di un film espressionista anche nei contenuti, cosa che è
dimostrata dalla sua ambiguità. Vi è un conflitto tra i due personaggi e, a livello superiore, tra sceneggiatori e regista.
Gli sceneggiatori hanno sempre sostenuto che la loro storia fosse stata tradita dalla cornice di Wiene, nel frattempo
morto e senza voce in capitolo, che la riconduceva al delirio di un pazzo, sgonfiando così l’allegoria del potere,
disonorando il dramma e trasformandolo in un cliché . Secondo Siegfried Kracauer i due sceneggiatori hanno ragione
poiché il Caligari glorifica l’autorità e accusa di follia il suo antagonista; egli, però, non si è accorto dell’ambiguità e il
suo discorso presuppone di trovare l’origine del nazismo, dunque il Caligari viene considerato un’inquietante
preannuncio di Hitler. Il cuore della polemica tra sceneggiatori e regista gravitava attorno al bisogno di giustificare
diegeticamente, attraverso una cornice fruibile, le deformazioni stilistiche. Nel 1978 la copia della scenggiatura
posseduta dall’interprete di Caligari viene acquistata da un museo tedesco e nel 1995 viene pubblicata; essa dà conto
della versione prima delle modifiche di Wiene (vedi capitolo precedente). La cornice degli sceneggiatori riconduce gli
elementi espressionisti in un contesto normalizzato, mentre la cornice di Wiene è espressionista anche nei contenuti,
difatti disorienta lo spettatore.

Nosferatu, eine Symphonie des Grauens (Nosferatu, una sinfonia dell’orrore) (1922)

Murnau gira buona parte del film in ambienti naturali e fuori dagli studi, e anche negli interni evita l’uso di
deformazioni scenografiche. Si serve di tali riprese per sovvertire la realtà e rendere più efficace la sua contaminazione
con una dimensione estranea all’esperienza comune, diegeticamente legata a Orlock, il vampiro protagonista. Si
combinano esperienti canonici dell’espressionismo con altri meno consueti; in particolare, per segnare l’avanzata del
male, si ricorre a una luce fortemente contrastata e alle ombre conseguenti. Si ricorre anche ad un montaggio
alternato per rendere più angosciante l’arrivo di Orlock, in modo da caricare di echi sinistri i più semplici paesaggi.
Orlock è caratterizzato da una recitazione stilizzata e da un trucco molto marcato, che gli permettono di distinguersi
dagli altri personaggi. Si utilizzano prospettive e angolazioni, spesso dal basso, della macchina da presa per creare dal
vero geometrie. Si utilizzano accelerazioni, sovrimpressioni per suggerire l’alterazione del naturale; il regista si fa
anche stampare in negativo un’inquadratura in modo da ottenere la foresta bianca. L’inquietudine si spinge fino a
negare la pienezza del lieto fine , difatti il film termina con la morte di Orlock e Helen, conclusione in netto contrasto
con la sequenza iniziale dell’idillio che unisce quest’ultima al marito. Molto importanti, come ne Il gabinetto del dr
Caligari, sono le tinture, che qui svolgono una funzione narrativa. Infatti la tintura blu indica il calare della notte
oppure, nel finale, la tintura arancione indica l’arrivo dell’alba che causa la morte del vampiro.

Metropolis (1927)

Si tratta del film che chiude l’esperienza dell’espressionismo. Dopo gli svariati tagli e le numerose edizioni, nel 2010
una versione quasi integrale e prossima all’originale è stata ripristinata nel 2010. In essa si scopre che all’esperienza
espressionista, ormai in via di esaurimento, si sovrappongono indirizzi e ricerche di tipo diverso. Tratti caratteristici
dell’espressionismo come, ad esempio, le deformazioni sono limitati ad alcuni luoghi e ad alcuni personaggi, come lo
scienziato Rotwang e la sua creatura meccanica, di cui si serve per incitare gli operai alla rivolta, allo scopo di
distruggere la città e vendicarsi di Fredersen, suo rivale in amore. Essi potrebbero essere considerati gli eredi di
Caligari e Cesare. Ad essi si contrappongono il figlio di Fredersen e Maria, la donna che ama; essi riusciranno a salvare
la città. I primi sono legati ad un’estetica espressionista, caratterizzata da un mondo oscuro, vendicativo e apocalittico
che si consuma nei sotterranei della città e nelle catacombe, elementi di un ricco immaginario religioso che contamina
l’aspetto futurista, modernista della città.

Capitolo 7 L’impressionismo francese


Ad accompagnare i film vi è innanzitutto una riflessione teorica. Si assiste anche alla creazione di un’organizzazione
promozionale e culturale che accompagna i lavori, i principi teorici e le convinzioni estetiche del movimento stesso.
Ciò significa una partecipazione attiva alla gestione della sale, o ciné-clubs, nelle quali organizzare proiezioni, dibattiti,
conferenze. Questa auto-riflessività si riscontra anche nel fatto che le denominazioni di questo movimento sono state
proposte dai suoi stessi protagonisti, che intendono cose diverse. Ricordiamo impressionismo, che evidenziava
paralleli con la pittura oppure con la musica o una caratteristica propria di uno stile cinematografico che mostra la
rappresentazione psicologica. Oppure la definizione nuova avanguardia o prima avanguardia per distinguerla dalla
seconda avanguardia, rappresentata dal cinema del surrealismo. Infine primer vague, che collega al movimento degli
anni settanta nouvelle vague.

Nonostante l’attenzione fosse rivolta soprattutto al cinema non narrativo, l’impressionismo non nega la componente
narrativa e ciò si può evincere dalla scelta dei soggetti. Le sperimentazioni di questa avanguardia si circoscrivono a
luoghi significativi della narrazione, anziché investire sul film nel suo complesso.

L’avanguardia narrativa non si propone come esperienza elitaria, me come tentativo di promozione culturale del
cinema da mezzo spettacolare ad arte.

Si possono individuare diverse riflessioni appartenenti a diversi autori, tuttavia una linea comune risulta essere la
photogenié e l’idea che il cinema riesca a cogliere aspetti della realtà altrimenti elusivi, rappresentando caratteristiche
fondamentali della realtà. La loro riflessione, difatti, ruota attorno alla fotografia. Solamente attraverso di essa il
regista può elevarsi ad autore; oppure lo spettacolo al rango di arte, o ancora la prosa del film commerciale al livello di
una cinema-poesia degno della più alta considerazione estetica.
I molti restauri hanno permesso di ricostruire una produzione caratterizzata da nostalgie reazionarie intese a ridare
vigore ad una patria umiliata dalla guerra. Inoltre, affianco ai film storici, molto successo ebbe il melodramma
familiare borghese. L’intenzione è quella di superare i vincoli del realismo in favore di un cinema psicologico, che può
far leva sugli eccessi che ad esso sono connaturati per giustificare novità sul piano stilistico.

Eldorado (1921)

All’inizio a prevalere sono le sperimentazioni sugli espedienti fotografici. Emblematico è il caso di Eldorado di
L’Herbier. Il film narra una vicenda melodrammatica. La protagonista è una ballerina di flamenco, Sibilla, che viene
sedotta da Estiria, un ricco dongiovanni, che l’abbandona incinta. Di fronte al figlio malato che non può permettersi di
curare, Sibillia chiede aiuto ad Estiria, che rifiuta di riceverla. Ella, dunque, decide di rovinare il matrimonio combinato
della figlia, Conception, rivelando il suo amore per un altro uomo, Hedwick. Affidato loro il figlio, Sibilla si toglie la vita.
Eldorado è composto da cinque macro-sequenze e ogni segmento è costruito tramite un uso del montaggio alternato.

La macro-sequenza n. 1, ovvero l’esibizione presso l’El Dorado, ci mostra l’intento del regista di sottolineare la
psicologia dei personaggi. Facciamo la conoscenza di Sibilla, che si trova in mezzo a delle donne meno belle di lei e ciò
viene evidenziato dal filtro che la sfoca rispetto agli altri personaggi. Segue poi un inserto del figlio di Sibilla che si alza
dal letto, espediente che evidenzia uno stato d’animo. La sfocatura, dunque, serve sia per evidenziarla che per
mostrare la sua distrazione, dovuta al figlio malato, come poi ci viene mostrato dal montaggio alternato che lo
rappresenta. L’Herbier, dunque, cerca di cogliere una sorta di aura attorno al personaggio, come se la sua interiorità
contaminasse l’intero spazio. Il tutto è arricchito da sovrimpressioni dal significato simbolico, come nel caso della
mano che strappa con libidine i petali di un fiore su un petto di una ragazza, su cui si sovraimprime la tastiera del
pianoforte suonato nel locale, a sottolineare gli eccessi. Oppure le soggettive di Sibilla, incupite da una tintura blu che
evidenzia la drammaticità. Il regista marca le immagini mentali, attraverso, ad esempio, la deformazione di memorie
lontane di un personaggio assorto nei suoi pensieri (caso della seduzione di Sibilla nel ricordo di Estiria), oppure
intento a rievocare il passato a beneficio di un interlocutore (quando Sibilla rivela a Conception l’inganno del
padre)oppure per dare concretezza all’immaginazione artistica (Hedwick osserva le fotografie della Alhambra). Il
personaggio di Hedwick offre un pretesto per lavorare sul richiamo di esperienze pittoriche. All’inizio del terzo
segmento, le inquadrature sono contornate di bianco per richiamare il simbolismo virginale del matrimonio, ma anche
per imitare quel tipo ti fotografia che caratterizzava la borghesia. Non vanno trascurate le pause, che permettono di
osservare i paesaggi e rappresentano esempi della fascinazione fotogenica per la realtà. Questo aspetto documentario
raggiunge il culmine nell’inizio della terza sezione, dove le inquadrature dei gitani e della processione sono inserite nel
contesto narrativo (Sibilla che si fa strada nella folla per raggiungere il palazzo di Estiria).

La Roue (1923)

La risorsa più importante è l’immagine. In La Roue interessante è il modo in cui Gance, il regista, si presenta sullo
schermo, utilizzando numerose sovrimpressioni, come i treni che attraversano l’inquadratura in ogni direzione, che
sembrano essere frutto della sua mente. Nel riprendere l’incidente ferroviario che apre il film, Gance accentua gli
effetti drammatici delle inquadrature mediante tinture e giochi di luce, che simulano i riflessi dell’incendio. Egli fa
ricorso a numerosi stacchi, dando vita ad un montaggio di indolita rapidità, volto a sottolineare la drammaticità.
Ancora più rapido è il montaggio con cui riassume quegli stessi avvenimenti quando Sisif li racconta a Hersan, al fine di
sottolineare il tormento dell’uomo, rimarcato anche dalle inquadrature al presente messe in opposizione con quelle
luminose dei flashback, che presentano la fioritura della rosa, simbolo della felcità familiare, che poi sarà spezzata
dall’incapacità di Sisif di controllare le proprie emozioni. Ricordiamo anche il montaggio del secondo incidente,
causato da Sisif, che vede due treni scontrarsi. Gance li riprende in alternanza e accorciando la durata delle
inquadrature. Questo montaggio sarà chiamato accelerato.

Napoléon vu par Abel Gance

Gance porta a termine tutte le sperimentazioni condotte negli anni dall’avanguardia narrativa francese. L’a battaglia di
palle di neve del piccolo Napoleone è caratterizzata da sovrimpressioni, accompagnate da vertiginosi movimenti di
macchina e un montaggio accelerato che fa terminare la costruzione retorica del condottiero, spesso mostrato
attraverso primi e primissimi piani dalla funzione psicologica. Nella seconda battaglia di Napoleone, questa volta con i
cuscini, assistiamo ad una divisione dello schermo e ad una moltiplicazione dell’effetto caotico, che ci mostra come il
ragazzo voglia affrontare da solo i suoi compagni.
Nel finale del film Gance sperimenta anche l’utilizzo della Polyvision, un sistema di ripresa basato sull’uso di tre
macchine da presa. Quest’invenzione genera diversi effetti: l’estensione dell’inquadratura, l’affiancamento di
inquadrature diegetiche e allegoriche. Nella parte conclusiva il trittico si complica attraverso l’uso di sovrimpressioni
che si alternano attraverso il montaggio accelerato e attraverso l’utilizzo delle tinture blu e rosse, volte a richiamare la
bandiera francese.

Capitolo 8 La scuola del montaggio sovietico


Secondo Lenin il cinema è la più importante delle arti a causa della sua prospettiva didattica. Al centro delle pratiche e
delle riflessioni vi è il montaggio, che diviene una forma di rappresentazione. Si tratta dello strumento attraverso il
quale il regista organizza il proprio discorso e obbliga il pubblico a leggere gli eventi secondo la sua prospettiva.
Dunque lo spettatore sposa il punto di vista del regista, considerato l’unico responsabile del film, colui che governa la
pellicola dalla fase di scrittura al montaggio.

Fondamentali furono le riflessioni sul montaggio di Ejsenstein, che si lega al gruppo di Mejerchol’d, di cui frequenta i
laboratori di meccanica. Quest’ultimo vuole insegnare agli attori come gestire i movimenti del proprio corpo al fine di
suscitare in loro qualsiasi tipo di emozione. Dunque, secondo la sua prospettiva, le emozioni sono il prodotto dei
corrispettivi movimenti corporei e non viceversa. L’idea che il gesto dell’interprete debba produrre effetti pianificabili
sul pubblico influenza le riflessioni sul montaggio, che sfociano nella scrittura di un saggio, ovvero il montaggio delle
attrazioni cinematografiche. Qui egli spiega la sua teoria secondo cui il montaggio delle attrazioni deve produrre dei
momenti aggressivi che esercitano sullo spettatore effetti sensoriali o psicologici; esso deve, dunque, produrre
l’attrazione, combinando nella psiche le associazioni. Egli riporta come esempio il suo film Lo sciopero (1924), in
particolare il finale dove si mostra il massacro degli scioperanti, che crea un’attrazione per colpire la psiche,
frapponendo fra le inquadrature degli spari militari, la macellazione di un bue.

Secondo Kulesov, invece, il principio organico del cinema non va cercato entro i limiti del pezzo girato, bensì nella
successione di tali pezzi, dunque, per lui, conta l’associazione. Ricordiamo il suo celebre esperimento, noto come
effetto kulesov, dove il medesimo primo piano di un attore viene associato prima con l’inquadratura di un piatto di
minestra, poi con quella di una salma in una bara e infine con quella di una bambina che gioca. Gli spettatori, dunque,
hanno attribuito tre espressioni completamente diverse: rispettivamente di fame, di dolore e di gioia. Dunque Kulesov
giunge alla conclusione che il significato di un’immagine non sta nell’immagine in sé quanto nel rapporto che le
immagini intrattengono tra di loro, rapporto determinato dal montaggio.

Vertov, invece, si convince della necessità di istruire i principi del montaggio a una nuova generazione di cineoperatori,
chiamati ‘’cine-occhi’’. Il suo montaggio è al servizio di un cinema documentaristico. Esenstein accusa il linguaggio di
Vertov di essere un’esposizione di fatti asessuata, difatti in Vertov mancano gli elementi necessari per sconvolgere lo
spettatore. Alla tensione contemplativa di Vertov, Esenstein contrappone una prospettiva legata al cinema della
finzione poiché il suo obiettivo non è far conoscere la realtà, bensì scuotere lo spettatore, obbligandolo a fare i conti
con il suo punto di vista.

Le posizioni di Esenstein si contrappongono anche a Pudovkin, un allievo di Kulesov. Difatti secondo il primo l’essenza
del montaggio consiste nel conflitto fra le inquadrature, di modo che, dalla loro unione, scaturiscano scintille e dal loro
conflitto scaturisca un pensiero. Al contrario Pudovkin difende il concetto di montaggio come concatenazione di pezzi,
pezzi che, l’uno a fianco all’altro, espongono un pensiero.

Secondo Esenstein il regista non deve limitarsi a esporre un fatto (Vertov) o a rappresentare secondo un principio di
piatta consequenzialità narrativa (Pudovkin), bensì deve restituire sempre un’interpretazione, piegando la realtà per
favorire il discorso.

Tra montaggio delle attrazioni e montaggio intellettuale

Il film più importante di Esenstein è La corazzata Potemkin (1925), nata da una commissione ufficiale in vista del
ventennale dei movimenti rivoluzionari, a cui il regista crede fermamente. La vicenda si concentra su quanto accaduto
a Odessa, simbolo di tutti i moti di protesta del 1905. Tale film conta omaggi e contraffazioni, tra cui la parodia
contenuta ne Il secondo tragico Fantozzi. L’episodio ruota attorno al personaggio del mega-direttore Riccardelli, che
obbliga i propri impiegati a proiezioni serali di capolavori del passato cui seguono dibattiti. Un giorno Riccardellli
comunica che sarà proiettata, per l’ennesima volta, La corazzata Potemkin. Qui, gli elementi centrali di Esenstein
vengono ribaltati: innanzitutto il montaggio delle attrazioni non scuote i personaggi, che vedono le proiezioni come
una cultura estranea, bensì li anestetizza; e risulta paradossale anche il fatto che un testo nato per celebrare i moti
rivoluzionari sia visto come simbolo di una cultura d’élite, come strumento di oppressione e che faccia scaturire una
rivolta.

Lo stile del film è volto a creare pathos , tensione dinamica, che sono capaci di far sobbalzare il pubblico. Ad esempio è
il caso dell’apparizione della bandiera rossa, che giunge in soccorso del popolo massacrato, oppure delle
caratterizzazioni al limite del grottesco. L’artefice di questi effetti è il montaggio. La prima modalità con cui opera
prevede che, dalla catena logica che forma un evento, vengano estrapolate e accostate due immagini senza alcun
raccordo. Un esempio di ciò risulta essere uno dei momenti più impressionanti dell’episodio della scalinata: una donna
con gli occhiali e, subito dopo, senza transizione, la stessa persona con gli occhiali rotti e un occhio sanguinante.

Un secondo tipo di montaggio prevede un linguaggio metaforico-concettuale; un esempio è dato dalle tre
inquadrature che chiudono l’episodio della scalinata di Odessa. La Potemkin giunge in soccorso del popolo,
bombardando il quartiere generale nemico. Il regista passa dalle immagini del quartiere generale che esplode a quelle
di un leone che prima dorme, poi si sveglia e quindi si alza, simbolo della rivoluzione risvegliatasi.

Un terzo procedimento prevede che non si rispetti la consequenzialità temporale dell’evento. Il primo gesto di rivolta
(un marinaio che scaglia a terra un piatto su cui è scritto: dacci oggi il nostro pane quotidiano) è rappresentato da
diversi punti di vista, generando così delle sovrapposizioni temporali. Oppure la caduta in acqua del medico di bordo,
che è ripresa da quattro angolazioni diverse al fine di enfatizzare il momento.

Il montaggio può essere descritto come una collisione di elementi da cui scaturisce un concetto; tale montaggio
dunque può essere definito intellettuale perché volto a comunicare idee astratte. Lo scontro dialettico tra gli opposti
interessa più livelli: dal punto di vista dei contenuti il conflitto tra buoni e cattivi, rispettivamente il popolo e le guardie,
rappresentati con linguaggio grottesco. Dobbiamo evidenziare il fatto che il popolo è costituito da persone ben
identificabili, mentre le guardie non sono che stivali, uniformi o fucili; dunque essi sono rappresentati come una
macchina da guerra. Dal punto di vista visivo il conflitto tra le linee verticali dello sfondo e le linee orizzontali della
divisa, immagine che ha un effetto sulla psiche del personaggio. Ricordiamo anche il conflitto interiore del personaggio
che compie il 1 gesto di rivolta.

La Corazzata Potemkin riflette l felicità di un momento positivo della storia della Rivoluzione; era il periodo della
creatività rivoluzionaria, poi soffocato da Stalin. Inoltre, si tratta dell’unico film a cui non è stata rivolta l’accusa di
essere troppo complesso per essere compreso, al contrario, ad esempio, del film Ottobre (1928). Tale film intenta
celebrare la Rivoluzione del 1917 ed esso apre la via ad un cinema intellettuale, Il montaggio del film opera attraverso
le attrazioni e le manipolazioni del tempo, ma in un modo inedito, attraverso quelle che vengono chiamate
associazioni tendenziose. Per quanto riguarda il montaggio delle attrazioni ricordiamo la sequenza in cui mentre la
folla fugge sotto i colpi delle mitragliatrici, un bolscevico viene ucciso da delle donne borghesi.

Per quanto concerne la manipolazione del tempo, invece, ricordiamo la sequenza relativa all’innalzamento del ponte
levatoio sulla Neva, caratterizzata da una serie di sovrapposizioni temporali ottenute inquadrando l’azione da diversi
punti di vista. Oppure la sequenza in cui il generale Kerenskij sale la scalinata del Palazzo d’Inverno; qui vi è l’effetto di
mostrare il generale che sale più volte le stesse scale.

Infine, per quanto riguarda le associazioni tendenziose, ricordiamo la sequenza degli dei, che si apre alternando alcune
inquadrature di una chiesa di Pietrogrado con quella di un Cristo barocco. Successivamente le inquadrature della
prima divengono sempre più difficili da riconoscere, fino a che non compare una divinità orientale. Successivamente le
altre inquadrature accentuano il passaggio dalla religione cristiana verso altre forme di religione. L’obiettivo di tutto
questo è degradare l’idea di religione di Kornilov.

I film di Esenstein si rivolgono ad un pubblico esclusivamente di proletari; tuttavia egli viene accusato di produrre film
pensati per conoscitori stranieri, non certo per analfabeti contadini. Nel 1928 si tenne la Prima conferenza del Partito
Comunista per le questioni cinematografiche, dove venne stabilito che tutti i film dovevano essere pensati per un
mercato interno e per un pubblico di operai e contadini.

Capitolo 9 L’avvento del sonoro


Con l’avvento del sonoro il legame tra le immagini e il suono diviene stabile e di conseguenza le parole, la musica e i
rumori divengono parte integrante del film. Il cinema sonoro nasce il 1927 con l’uscita del film The Jazz Singer, che
viene girato con un sistema Vitaphone messo a punto dalla casa di produzione Warner Bros. La maggior parte del film,
che narra di un cantante ebreo che rifiuta la carriera di cantore di sinagoga per seguire la sua passione per il jazz, è
accompagnata solo da musica e intercalata da didascalie. Tuttavia in alcune sequenze il protagonista parla, canta e
suona e ciò rappresenta una novità. Al protagonista sarà anche attribuita una battuta che pare indirizzare al pubblico
parole profetiche: ‘’Wait a minute! You ain’t heard nothing yet!’’ Pochi mesi dopo uscirà il primo film completamente
parlato, ovvero Lights of New York.; nella prima sequenza il protagonista urla ‘’Hei you! Shut up that music!’’ L’invito
serve a sottolineare la differenza tra questo film e The Jazz Singer’’.

Successivamente le cinque major si accordano per utilizzare uno standard tecnico condiviso di modo che un esercente
non si trovi nell’impossibilità di noleggiare e proiettare i film. La scelta è un sistema sviluppato dalla Western Electric,
che permette si stampare la colonna sonora direttamente sulla pellicola.

Gli anni del passaggio al sonoro si situano a cavallo della crisi di Wall Street. In questa fase molti film vengono
distribuiti sia nella versione che nella versione sonora perché i cinema si vedono impossibilitati ad acquistare i nuovi
impianti per il sonoro. Negli Stati Uniti la conversione al sonoro è compiuta negli anni Trenta; il Giappone si adatta più
tardi a seguito della rivolta del sindacato dei benshi, attori che accompagnavano la proiezione; in Italia ci si inizia ad
attare alla nuova tecnologia quando arriva The Jazz Singer e il primo film italiano sonoro prodotto è La canzone
dell’amore.

Tecnica e stile

L’avvento del sonoro ha un’influenza molto forte anche sullo stile dei film. Inizialmente la macchina da presa veniva
inserita in una cabina insonorizzata affinché il suo ronzio non venisse registrato assieme ai dialoghi. Rumori, musiche e
battute dovevano essere registrati contemporaneamente, per tale motivo rumori imprevisti potevano rovinare
l’effetto di un’intera ripresa. I microfoni dell’epoca non erano direzionali, dunque l’attore doveva recitare rivolto verso
il punto in cui questi ultimi erano occultati. La traccia sonora stampata e la necessità di evitare salti acustici
consigliavano di limitare gli stacchi di montaggio; ciò significava rinunciare alla libertà stilistica che aveva caratterizzato
l’età dell’oro del cinema muto. Si consolida la pratica di girare con tre macchine da presa contemporaneamente, per
tale motivo non era possibile effettuare dei movimenti di macchina particolari. Dunque i film sonori apparivano per lo
più statici. L’avvento del sonoro muta profondamente il lavoro dell’attore cinematografico e per alcuni ciò rappresenta
un’opportunità, mentre per altri una sfortuna. Inoltre, bisognava reinventare una tecnica di scrittura in quanto i testi
delle didascalie non possono di certo essere paragonabili ai dialoghi di un film sonoro. Occorreva che questi ultimi
fossero compresi dal pubblico; per ovviare a questo problema dapprima si preparano più versioni di uno stesso film
con cast di nazionalità diversa. Tutto ciò verrà presto sostituito dal doppiaggio nel 1931.

Le resistenze

Vi sono state molte reazioni negative all’introduzione del sonoro. Tra queste la più celebre è quella di Charlie Chaplin,
che rifiuta di ricorrere ai dialoghi fino al film The Great Dictator (1941). In Modern Times (1936) Chaplin interpreta un
vagabondo che, nel momento in cui deve esibirsi in un locale, dimentica le parole. Inizia dunque a mimare personaggi
inventati e a cantare in un linguaggio inesistente. Tutto ciò dimostra quanto, secondo Chaplin, le parole fossero
superflue rispetto al linguaggio del corpo.

Ricordiamo anche l’idea di Rudolf Arnheim, secondo cui il sonoro rappresenta un’involuzione perché riduce la
possibilità di esprimersi attraverso la purezza della forma. Il film è un’opera d’arte perché sono proprio quegli elementi
di sottrazione che differenziano la realtà dalla sua riproduzione. Al contrario Bazin ritiene che il sonoro è un fattore
positivo perché aggiunge realismo al cinema.

Stati uniti: i generi cinematografici e l’ambiente sonoro

L’avvento dei film parlati ha influenzato la nascita dello studio system di Hollywood, ovvero un sistema di produzione
standardizzato. Ciò coincide con la codificazione dei generi, tra cui, all’inizio, spicca il musical. Ad esempio ricordiamo
The Broadway Melody, in cui si alternano scene di dialogo a numeri di canto e ballo. La struttura di questi film è simile
a quella degli spettacoli teatrali di varietà, da cui provengono i principali protagonisti dello schermo. Il fascino di un
cinema di genere presso un pubblico non è così distante dall’estetica delle attrazioni che caratterizzava il film delle
origini; i numeri musicali, difatti, devono essere attraenti e spettacolari. Allo stesso tempo le scene di dialogo
rispondono alla logica teatrale . Il pubblico, ben presto, non si sarebbe accontentato di una messa in scena troppo
rigida e teatrale e, da subito, si tenta di sperimentare soluzioni attraverso la sincronizzazione, per esempio
caratterizzando gli ambienti dal punto di vista sonoro al fine di sottolineare le atmosfere. La costruzione di un
ambiente sonoro diventa importante anche per il cinema horror, di cui citiamo il film Dracula del 1931.

L’elemento più innovativo, tuttavia, rimane sempre la parola. Inizialmente gli studios si rivolgono a chi scriveva per il
teatro, per Broadway. In pochi anni si assiste allo sviluppo di un nuovo genere, ovvero la commedia, il cui punto di
forza sono proprio i dialoghi fra i personaggi. Tra i più brillanti prestiti che il teatro concesse troviamo i fratelli Marx
che recitarono in un adattamento di un loro successo teatrale, ovvero Animal Crackers (1930), prodotto dalla
Paramount, che comprese subito, con l’avvento del sonoro, le potenzialità della loro comicità.

Il sonoro in Europa

In Europa la cinematografia tedesca e sovietica svolsero un ruolo importante nella transizione al cinema onoro.
Inizialmente le compagnie statunitense agirono all’iniziativa tedesca interrompendo l’esportazione di film americani in
Germania; tuttavia nel 1930 si arriva ad un accordo che prevede la spartizione dei mercati in due aree.

Il cinema europeo non prevede un sistema di generi come quello statunitense, bensì sperimenta ibridi e cambi di tono
all’interno dello stesso film. Il cinema tedesco punta sulla messa in scena di numeri musicali e cantati e uno dei film
più riusciti di questo periodo è L’angelo azzurro (1930), che prevede l’esecuzione di numeri musicali che, pur essendo
canzoni allegre, appaiono sullo schermo decadenti e quasi minacciosi.

La produzione europea cerca di emancipare il cinema sonoro dal rischio di ridursi a teatro filmato. In Unione Sovietica
questa esigenza viene espressa da Esenstein e Pudovkin nel Manifesto dell’asincronismo del 1928; essi propongono di
instaurare tra suono e immagini una relazione di contrappunto. In pratica la musica, il suono e le parole devono
esprimere qualcosa di diverso dalle immagini, in modo che dal sovrapporsi dei diversi stimoli si compia l’elaborazione
di nuovi concetti. La tecnica dell’asincronismo sottintende che le immagini vengano girate mute e sonorizzate
successivamente. In Desertir (1933) di Pudovkin tale tecnica viene applicata a momenti particolarmente significativi drl
racconto.

Anche la rappresentazione del silenzio ha spesso nel cinema europeo un ruolo importante. In Desertir la musica extra-
diegetica assolve un ruolo contrappuntistico, mentre in molti momenti le azioni e gli sguardi non sono accompagnati
da alcun suono.

M-Eine Stadt sucht einen Morden (1931) M-Il mostro di Dusseldorf

Si tratta del primo film sonoro realizzato da Lang.. In tale film le soluzioni acustiche adottate non sono mai scontate o
prevedibili e contribuiscono in maniera determinante alla costruzione della suspence e del clima emotivo del film. Esso
si apre con la voce di una bambina che una filastrocca che parla di un infanticida; facendo precedere la traccia sonora
alla comparsa dell’immagine, il regista sottolinea il triste presagio. La sequenza mostra poi la madre che attende la
figlia Elsie; l’attesa angosciante è scandita dal suono sordo del cucù. Nel frattempo Elsie incontra un uomo che in
realtà è il mostro di Dussendorf, che si distingue a causa della sua voce roca e dal suo fischiettare un motivetto. La
madre, disperata, grida il nome della figlia nella tromba silenziosa delle scale, ma è tutto inutile: si scopre che il
destino della bambina sarà tragico.

Capitolo 10 Il cinema classico americano


Burch invita a storicizzare il Modo di Rappresentazione Istituzionale, divenuto per tutti il linguaggio cinematografico
per antonomasia. A determinare il suo successo e la sua stabilità è stata una serie di concause di ordine estetico, ma,
soprattutto, storico, economico e politico. Il cinema classico è frutto di un’organizzazione industriale efficace; di una
soluzione delle opzioni narrative organica a un sistema storico-economico; e, allo stesso tempo, si tratta di un sistema
malleabile. Il sistema hollywoodiano, difatti, ha mostrato una capacità di trasformarsi a causa del mutamento delle
condizioni storiche; e allo stesso modo ha sempre gestito spinte alternative generatosi al suo interno. Si pensa che il
cinema classico sia nato con il formarsi del Modo di Rappresentazione Istituzionale e sia durato sino agli anni
Cinquanta, in cui si è sviluppata la Nuova Hollywood.

Il regime industriale: lo studio system


L’assetto industriale si fonda sul cosiddetto studio system, con la sua forte organizzazione intesa a garantire una
continuità estetica che renda riconoscibili le opera della singola casa di produzione, attraverso l’affidamento di film
simili a gruppi di persone legati allo studio da contratti pluriennali. I vari studi si affermano negli anni in posizione di
importanza più o meno rilevante, classificandosi in minors e majors. L’identità degli studi è anche il risultato di una
standardizzazione dei prodotti, classificati in generi. Secondo la teoria di Rick Altman il genere è il risultato del
riproporsi di aspetti semantici, sintattici e pragmatici. Si ripresentano, dunque, personaggi, ambientazioni, porzioni di
intreccio, ma anche tratti formali come scelte musicali, di illuminazione e di montaggio; vi sono anche attori e registi
che si specializzano in certi generi. Il sistema dei generi mette in comunicazione autori, spettatori e critici. Ai primi il
genere facilita il tentativo di replicare formule di successo; ai secondi permette di formulare delle previsioni e di
compiacersi vedendo che esse vengano soddisfate; ai terzi, infine, permette di inquadrare il singolo film sullo sfondo di
una tradizione.

Tuttavia non si deve considerare il genere come un’entità rigida, difatti esso è piuttosto malleabile. Innanzitutto può
accogliere all’interno del sistema hollywoodiano elementi che appaiono contrastanti; oppure si mostra capace di
permutare esperienze maturate in altri regimi cinematografici dissonanti con la chiarezza del cinema classico; e, in
terzo luogo, riesce ad adeguarsi all’emergere di nuove mode, di nuove convenienze ideologiche o culturali che, con il
passare del tempo, provocano cambiamenti. Addirittura, un genere può morire, laddove esaurisca la sua funzione e il
suo interesse per il pubblico, così come può risorgere a distanza di anni. Un esempio è il western, che tramonta con la
crisi di Hollywood per rinascere negli anni della New Hollywood.

Lo studio system è rafforzato da un’organizzazione industriale nota come ‘’concentrazione verticale’’, che consente
alle majors di controllare la produzione dei film e la loro circolazione. Sulla concentrazione verticale si appoggia il
Codice Hays del 1933, un codice di autocensura elaborato dagli studi per evitare l’istituzione di una censura federale. Il
Codice Hays è un elenco di quanto si vietava di mostrare o di dire in termini di violenza, sesso e offesa di istituzioni
politiche.

Lo star-system era fondamentale nel contesto del sistema hollywoodiano, difatti si fece di tutto per alimentare il
divismo attraverso l’edificazione di immagini pubbliche. Janet Staiger ha scomposto l’immagine della star in quattro
livelli: la persona (insieme dei ruoli) , il performer (le peculiarità del modo di recitare), il lavoratore (l’aspetto
professionale della vita) e la sfera privata. Ciascuno di essi è da intendere come una costruzione discorsiva, come il
frutto di un insieme di informazioni selezionate in modo da riflettere opportunità e valori culturalmente e
ideologicamente condizionati, attraverso media di vario genere. In secondo luogo i quattro livelli possono entrare in
contraddizione tra di loro; in particolare la persona può essere in contrasto con gli altri.

Le immagini delle star non sono immutabili, bensì subiscono oscillazioni oppure rivolgimenti radicali, dettati dalle
opportunità di mercato oppure gli scandali, che possono contraddire l’immagine divistica, danneggiando la carriera
sino al punto di farla terminare. Oppure gli scandali possono essere riassorbiti tramite una revisione dell’immagine
stessa. Quest’ultima può condizionare l’atto della fruizione di film del passato alla luce delle nuove informazioni
emerse. Il divismo consiste proprio nell’istruire lo spettatore a tenere conto dell’immagine della star nell’atto della
fruizione. L’immagine della star è costituita dai ruoli effettivamente interpretati sullo schermo. Gli attori vengono
impiegati per interpretare parti con analogie sufficienti a consentire al pubblico di individuare in ciascun interprete
una precisa tipologia di ruolo. Tutto ciò con lo scopo di capitalizzare i successi precedenti conseguiti dalla star e, al
contempo, viene favorita la chiarezza narrativa. Tali dinamiche erano inoltre favorite dalla prassi di vincolare gli attori
di successo tramite contratti pluriennali.

Vi sono infatti star che risultano indissociabili da generi ben precisi. Una persona sufficientemente solida e coerente
può attraversare generi differenti; tuttavia mutamenti repentini della persona possono condurre a fiaschi totali. Le sta,
inoltre, venivano fabbricate a tavolino da Hollywood e ciò si può ottenere tramite l’organizzazione della loro vita
privata. Un esempio che possiamo sottolineare è Rock Hudson; difatti, come lavoratore e come performer se ne
propagandano la serietà e l’impegno sul set. La sua sfera privata, invece, è elaborata per offrire l’immaginario di un
uomo ideale, immagine replicata perfettamente dalla persona. Quando egli decide di interpretare un ruolo
completamente estraneo a quest’ultima, registra un fiasco totale. Inoltre, egli viene scelto come emblema di scapolo
da desiderare, fine che si può raggiungere celando il suo orientamento sessuale.

Il regime estetico: il découpage classico


L’assetto industriale è accompagnato da una codificazione estetica e formale, basata sul cosiddetto découpage
classico. Lo stile hollywoodiano si fonda su un insieme di regole messe al servizio di tre finalità: la chiarezza del
racconto, il primato dell’azione, che presuppone l’eliminazione dei tempi morti; e l’invisibilità dell’enunciazione,
ovvero far dimenticare allo spettatore che sta assistendo ad un racconto organizzato, al fine di farlo entrare nel
mondo della finzione. Basin parlava di ‘’montaggio invisibile’’ perché tutte queste regole producono nello spettatore
una familiarità tale da renderle impercettibili. Tale risultato è ottenuto anche tramite il tabù posto sullo sguardo in
macchina.

Queste finalità sono ottenute mediante il ricorso a montaggio contiguo, alternato e analitico. Il montaggio continuo è
un insieme di raccordi:

raccordo sul movimento: se in una veduta un personaggio si muove in una certa direzione, e nella veduta successiva il
suo spostamento continua, lo si può rendere sullo schermo facendo in modo che il personaggio attraversi lo spazio
muovendosi sempre nella medesima direzione.

Raccordo sullo sguardo: quando viene inquadrato un personaggio che sta osservando qualcosa, nella prima
inquadratura si mostra il personaggio intento a guardare e in quella successiva si mostra ciò che sta osservando. La
soggettiva viene a crearsi se l’inquadratura ci restituisce la medesima direzione del personaggio che guarda.

Campo-controcampo: utilizzato nei dialoghi per inquadrare un personaggio per poi staccare sul suo interlocutore. Per
ottenere quest’effetto bisogna utilizzare la regola dei 180 gradi, ovvero la macchina da presa non deve superare una
variazione di 180 gradi, altrimenti sembrerebbe che i due personaggi guardassero nella stessa direzione.

Raccordo sull’asse: per avvicinare un oggetto e renderlo più chiaramente visibile allo spettatore si passa da
un’inquadratura a un’altra che condivide con la prima la medesima direzione, ma non la medesima distanza.

Il montaggio alternato presenta in alternanza due azioni che si svolgono contemporaneamente in luoghi diversi. Esso
rappresenta anche un sistema concepito per analizzare lo spazio filmico scomponendolo nei suoi elementi più
significativi. Il montaggio analitico serve a semplificare il racconto, ma può essere anche utile per gestire l’emotività
del pubblico, ad esempio per creare suspence.

I tratti ricorrenti del racconto sono:

1) La logica dell’intreccio procede per rapporti causa-effetto e assegna ai personaggi una centralità assoluta.

2) I personaggi sono privi di ambiguità e sono ben definibili dal punto di vista psicologico.

3) Gli intrecci presentano di norma due vicende parallele, delle quali una romantica.

4) Tutti gli elementi del film sono motivati a livello compositivo, realistico, intertestuale (ovvero secondo convenzioni
tradizionali) e autoriale (è prevista la possibilità che la finzione spettacolare manifesti se stessa).

Un esempio di prodotto tipico

Un esempio è costituito dal film The Tin Star (Il segno della legge, 1957) di Anthony Mann, che rientra nel genere
western. Vi si racconta una vicenda canonica, quella di un eroe impavido e solitario, Morgan. Incontriamo anche un
giovane sceriffo, Ben, ancora impreparato. L’intreccio ha una costruzione basata su una logica di causa-effetto e i
personaggi sono costruiti sulla base di tratti risaputi. La prima sequenza prevede un establishing shot, grazie al quale ci
viene presentato il luogo dove avviene la vicenda, proprio nel momento in cui Morgan arriva con la sua vittima in
quanto egli è un cacciatore di taglie. L’attenzione si focalizza sul coro di paesani che osservano il suo arrivo e, tramite
un raccordo di sguardo, viene enfatizzata la mano penzolante dal lenzuolo che copre il cadavere. Morgan raggiunge
poi lo sceriffo dove ha la prova dell’inesperienza di Ben; quest’ultimo lo prenderà poi come modello a cui ispirarsi.
Nella sequenza successiva facciamo poi conoscenza dell’antagonista che è riconoscibile grazie ai suoi modi scorbutici,
al suo abbigliamento nero e per il modo cui tratta un bambino a cui Morgan si affeziona. Quest’ultimo stringerà
amicizia anche con la madre vedova del ragazzo, la cui condizione favorisce l’innesto dell’intreccio romantico,
enfatizzato anche dalla storia di una giovane e Ben; quest’ultima non gli si vuole concedere fin quando non diventerà
maturo; tale processo si compirà durante lo scontro con l’antagonista. Il finale riunisce le coppie finalmente formate. I
ruoli dei protagonisti si inscrivono negli interpreti: Henry Fonda era già celebre per le sue parti di integrità morale,
mentre Anthony Perkins era ancora agli esordi.
Citizen Kane (1941)

Si tratta di un film di Orson Wells, regista che rivoluzionò il sistema radiofonico; egli, difatti, adattava alle radio i classici
della letteratura. Quando adattò ‘’L’invasione degli alieni’’ coloro che si erano connessi alla radio iniziarono davvero a
credere che fosse in corso un’invasione aliena. Wells divenne celebre grazie ad un contratto con Hollywood che gli
garantiva carta bianca dal punto di vista creativo; l’unica limitazione consisteva nel fatto che lo studio dovesse
approvare il progetto. Si trasferì ad Hollywood con la sua compagnia, ovvero la Mercury Theatre; qui iniziò a proporre
dei progetti irrealizzabili fin quando conobbe il direttore della fotografia Gregg Toland, che lo ricondusse sul piano
della fattibilità.

Citizen Kane risulta essere un prodotto al confine tra il prodotto tipico rispettoso delle norme e il prodotto che si
spinge verso lo sperimentalismo.

Nella prima inquadratura siamo di fronte ad un divieto che la macchina da presa valicherà, conducendoci ad assistere
la morte del protagonista, che avviene nella camera da letto di un castello sfarzoso. Siamo di fronte poi ad una serie di
inquadrature degli oggetti più disparati: scimmie, gondole, un ponte levatoio, un campo da golf; tali inquadrature sono
costruite secondo il sistema dei raccordi; l’unico elemento di continuità fra esse è il castello con una finestra
illuminata. Quando la macchina da presa arriva in prossimità della finestra la luce si spegne completamente ed
entriamo nella camera del protagonista Kane, del quale non conosciamo ancora il volto poiché non lo vediamo
chiaramente. Lo spettatore si trova disorientato poiché immerso in un ambiente innevato; il mistero sembra svelato
quando ci si viene mostrato il fatto che sembra di essere dentro una palla di vetro. La neve tuttavia continua a
scorrere… successivamente proprio una palla di vetro sfugge dalle mani di Kane e dal vetro vediamo entrare
un’infermiera. Prima della morte del protagonista, assistiamo ad un piano ravvicinato di Kane che sussurra la parola
‘’Rosebud’’. Tale inquadratura serve a caricare di mistero e di significato quest’ultima. Il piano ravvicinato presenta
un’immagine sgranata, per far fronte a ciò Wells introduce la neve, elemento che aggiunge mistero al mistero.

Nella seconda sequenza vi è uno stile opposto alla prima, difatti il documentario di Kane sembrerebbe risolvere tutti i
dubbi. Tuttavia è difficile districare Kane da tutte le informazione che vengono rovesciate sullo spettatore. Si tratta di
un numero di informazioni contradditorie che contravviene sul principio di chiarezza e da qui si evince la volontà di dar
conto alla complessità del reale e del personaggio, personaggio che impareremo a conoscere attraverso i flashback di
persone che lo hanno conosciuto, che divengono narratori vicari; ognuna di queste immagini presenta il proprio
punto di vista e il proprio ritratto di Kane; tutti questi elementi faticano ad allinearsi. I flashback sono dunque
psicologici poiché le diverse porzioni di narrazione relative alla vita sono riconducibili ad una precisa psicologia che
caratterizza quel particolare narratore vicario. I flashback dicono qualcosa dal punto di vista narrativo, ma anche per il
modo con cui tale narrazione è gestita dal punto di vista visivo. La natura contradditoria è suggerita dal passaggio
comunista/fascista ad esempio.

In attesa che il progetto venga approvato Wells si rende conto che una scena è ambientata in una sala di proiezione
decide di iniziare il film senza il via libera. Egli, invece di costruire l’ambiente per le riprese, adatta le riprese ad un
ambiente esistente e per fare ciò abbassa le luci, lasciando in ombra ciò che lo spettatore non può vedere. Ciò entra in
contrapposizione con il cinema classico americano in quanto quest’ultimo prevede un’illuminazione armoniosa per
garantire la chiarezza; al contrario Wells si ispira a modelli espressionisti. Egli non può pagare le comparse in quanto
non ha i soldi per iniziare; difatti una delle comparse all’inizio è proprio l’interprete di Leeland.

La parola Rosebud è il pretesto narrativo attorno al quale ruota l’intera indagine del personaggio, ovvero l’indagine di
Thompson, che vuole scoprire qual è il significato di tale parola. Il primo tentativo, con la seconda moglie, risulta
fallimentare; esso ci anticipa il risultato finale, anche se ciò ci era già stato anticipato dal divieto di accesso iniziale.

La prima peculiarità di tale film è la ripresa in continuità che prevede inquadrature molto lunghe al fine di sottolineare
la abilità attoriali del Mercury Theatre. La seconda peculiarità è la ripresa in profondità di campo, dove invece di
separare i singoli elementi con il montaggio, essi sono posti in piani diversi, distribuiti nello spazio. Wells dunque
chiede allo spettatore di leggerli in continuità. Ciò si può notare nell’inquadratura con Susan, la seconda moglie, il
cameriere e il giornalista, che si trovano rispettivamente nel 3-2-1 piano. Il giornalista è in ombra ma domina la pista
sonora, il cameriere ha bisogno di un supporto, dunque si attua la strategia del quadro nel quadro, ovvero viene
inquadrato all’interno dell’immagine da un quadro. Per quanto concerne il 3 piano, un fascio di lue cala dal soffitto,
acquistando l’attenzione dello spettatore. Si tratta, ovviamente, di un’immagine complesse a cui non si era abituati.
Successivamente ci troviamo nella biblioteca Thatcher, ovvero il tutore di Kane; parte il 1 flashback grazie ai diari del
tutore che portano in vita il personaggio. Qui Wells necessita di un raccordo per evitare di scioccare lo spettatore
durante il passaggio da un’inquadratura all’altra. L’elemento di continuità è il bianco della pagina che si collega
perfettamente all’ambiente innevato. Il piccolo Kane entra e quasi sembra spingere la scritta di Thatcher via, dunque si
sottolinea visivamente il contrasto tra Kane e Thatcher. L’inquadratura unisce una ripresa in continuità e una ripresa in
sequenza: il piccolo Kane gioca e urla ‘’Union Forever’’, mentre i genitori firmano i documenti relativi
all’allontanamento del figlio assegnato a Thatcher. Vi è un richiamo alla sequenza precedente: vi sono 3 elementi
distinti all’interno dell’inquadratura. 1 piano la madre seduta immobile; 2 piano padre che parla, agisce; 3 piano messo
in equilibrio dall’illuminazione dalla strategia del quadro nel quadro: Kane, difatti, viene inquadrato all’interno di un
quadro. Il padre e la madre si contraddicono nei gesti, difatti il padre chiude la finestra e la madre la apre. L’attrice
della madre ci ha fatto credere di essere una donna fredda (si evince dall’impressione di Thatcher), tuttavia dopo vi è
un ribaltamento in quanto ella vuole l’allontanamento di Kane per proteggerlo da un padre pericoloso. Inoltre Kane ha
un rapporto molto intimo con la madre, difatti corre subito da lei. La sequenza termina su tale inquadratura
dolcissima. Il salto ad una nuova inquadratura è determinato dal raccordo dovuto al passaggio da uno slittino all’altro,
rispettivamente lo slittino dell’infanzia perduta e lo slittino della nuova vita. Sussegue un’inquadratura grandangolo
che ci suggerisce la psicologia con cui Kane guarda il tutore. Difatti tale inquadratura lo rende imponente e oppressivo.
Vi è un nuovo salto in avanti, in particolare a quando Kane ha 25 anni e il raccordo è sonoro, garantito dalla medesima
battuta.

Bazin definisce l’inquadratura dove è evidente la volontà del regista di non utilizzare il montaggio piano-sequenza. In
seguito Metz ha proposto una definizione differente, ovvero si definisce piano-sequenza un’inquadratura priva di
stacchi di montaggio che esaurisca per intero una sequenza narrativa. Inquadrature lunghe che non esauriscono una
sequenza vengono definite long take, presenti in Citizen Kane.

Il prossimo flashback si tratta del narratore vicario Bergstain, presentato sotto il quadro del suo padrone Kane. Egli si
sta godendo la ricompensa dei suoi servizi offerti a Kane, a differenza dell’altro narratore vicario, ovvero Leeland.
Sussegue un’inquadratura girata con il grandangolo, che garantisce una profondità del campo e un’apertura angolare
maggiore, di conseguenza subentra il problema delle attrezzature che si rendono visibili; la soluzione consiste nel
rendere il soffitto basso, utilizzando stoffe; tali soffitti, associati all’ingrandimento dei personaggi, creano degli
ambienti claustrofobici, che simbolizzano le manie di grandezza di Kane.

Bergstain commenta facendo dell’ironia sull’idealismo di Leeland e racconta i successi di Kane e com’è riuscito a
portare all’Inquirer (suo giornale) chi lavora per Chronicle. Possiamo distinguere un’inquadratura A e un’inquadratura
B, che presentano degli elementi proposti in cintinuità: in cima vi è il nome della testata, anche se mutato e in basso vi
è la tiratura. Nell’inquadratura C la macchina da presa si avvicina e nell’inquadratura D la fotografia si anima, dando
vita ad un salto temporale di 6 anni.

Ci troviamo poi di fronte ad un’altra inquadratura in cui vi è lo stesso schema delle altre inquadrature longtake: in
primo piano abbiamo Leeland e Bergstain che continuano a dialogare, nel secondo piano abbiamo Kane che è
inquadrato in un quadro a simboleggiare il fatto che egli sia ingabbiato; infine, nel terzo piano, abbiamo delle
ballerine.

Abbiamo poi il flashback di Leeland che, in uno ospizio, racconta le delusioni, i tradimenti e il progressivo degenerare
del matrimonio e anche il potere della stampa di condizionare l’opinione pubblica. In particolare ricordiamo la scena
del dialogo tra Kane e la sua prima moglie. Qui è presente la regola dei 180 gradi poiché altrimenti le due inquadrature
condividerebbero lo stesso sfondo e guarderebbero nella stessa direzione.

Leeland racconta con estrema ironia e tale ironia abbraccia anche l’aspetto visivo (Kane builds theatre). Il debutto di
Susan viene rappresentato ben due volte, questo poiché in tutte e due le volte si rappresentano due punti di vista
contrastanti. Nel racconto di Leeland la macchina da presa riprende frontalmente per suggerire il punto di vista della
platea, mentre nel racconto di Susan si evidenzia il punto di vista del palco e quindi di Susan, la cui mente corre al suo
tiranno, ovvero Kane.

Weak è l’unico termine mostrato nella recensione di Leeland a riguardo del debutto di Susan. Weak potrebbe
racchiudere le iniziali di Wells e Kane, che si specchiano, rappresentando così l’affinità tra i due personaggi. In un
primo livello weak rappresenta la debolezza del canto di Susan; in un secondo livello rappresenta la debolezza degli
altri personaggi (Leeland non riesce a finire la recensione e si dà all’alcol e Kane che, per orgoglio, termina la
recensione infangando la sua vera moglie). Tale film, inoltre, nasce per denunciare il potere della stampa che riesce a
manipolare l’opinione pubblica, dunque presenta un fine politico. Tuttavia è come se Wells si fosse legato al
personaggio di Kane e da questa identificazione scaturisce un film che non incute timore bensì pietà. La debolezza di
Wells risiede nel fatto di non poter sfidare Hollywood senza essere sconfitto ed è come se Kane percepisse l’esito di
tale sconfitta. Wells, successivamente, sarà cacciato da Hollywood e girerà di set in set per racimolare denaro per
continuare i propri film.

Wells esaurisce tutto senza scindere, rifiutando il découpage classico anche nell’inquadratura relativa al tentativo
suicidio di Susan: in primo piano vi sono i medicinali, nel secondo piano Susan che si lamenta e nel terzo Kane che
cerca di abbattere la porta per soccorrere la moglie. Il primo piano e lo sfondo sono perfettamente a fuoco grazie ad
un trucco ottenuto mediante la stampatrice ottica. Ancora una volta la profondità di campo associata alla profondità
di fuoco Wells sottopone allo spettatore un’unica inquadratura densa di informazioni, chiamando chi guarda a una
partecipazione attiva nella lettura.

Kane è un uomo che ha tutto ma perde questo tutto e con ciò si identifica con Wells. Nel finale la ricerca di ricostruire
la vita di Kane e di comprendere il significato di Rosebud sembra svuotata completamente poiché sapere il significato
di Rosebud non permette di comprendere tutto il senso di una realtà così complessa. Si comprende il significato della
parola solo quando per noi ha perso il significato: Rosebud difatti è lo slittino con cui Kane gioca da piccolo; esso non è
altro che la rappresentazione di un’infanzia perduta, strappata. Noi abbiamo gli elementi per conoscere il cittadino
Kane, mentre il cinema no; ciò rappresenta una dichiarazione di impotenza.

Alle soglie del cinema moderno: Psycho (1960)

Seppur in un sistema così formalizzato alcuni registi sono riusciti a ritagliarsi spazi di manovra personali; spazi che sono
aumentati con l’avvento di una crisi che investe lo studio-system a partire dal secondo dopoguerra. Numerose sono le
cause, ad esempio l’innovazione della televisione. Oppure la crescita demografica, lo spostamento dalla città verso le
zone suburbane. In particolare l’inizio della guerra fredda e della cosiddetta ‘’caccia alle streghe’’, sostenuta dal
senatore Joseph McCarthy, che costringe all’inattività oppure all’espatrio coloro che vengono accusati di attività
antiamericane per simpatie comuniste. Nel 1948 la sentenza Paramount impone agli studi di vendere le sale,
determinando una falla nel Codice Hays che verrà trasgredito negli anni.

Consideriamo il caso del film Phsycho, film sospeso tra il classico e il moderno e opera di un regista che ha saputo, per
tutta la sua carriera, negoziare fra le proprie aspirazioni espressive e le impostazioni dello studio. L’inizio del film
presuppone un movimento di macchina che ci porta da una veduta della città di Phoenix fino all’interno di un motel,
passando per la finestra aperta. Nella camera incontriamo Sam e Marion mezzi svestiti. Le inquadrature in esterni
equivalgono al canonico establishing shot, ma infrangono il découpage classico, in particolare l’invisibilità dello stile
che favorisce il voyeurismo dello spettatore. Infatti, entrando dalla finestra, la macchina da presa, che si porta con sé
lo spettatore, esplicita la posizione voyeurista di entrambi. In secondo luogo il Codice Hays prevedeva che in presenza
di un letto matrimoniale solo una persona poteva starvi sdraiata, tuttavia, nell’inquadratura iniziale, Sam si sdraia
assieme a Marion, suggerendoci la sua volontà di ripetere ciò che hanno fatto prima del nostro arrivo.

Il film fu prodotto in autonomia e in economia, per tale motivo Hitchcock può permettersi di trasgredire quasi tutte le
convenzioni stabilite dal Modo di Rappresentazione Istituzionale. Risulta evidente, difatti, per quanto concerne la
catena logica del racconto, che la morte di Marion per mano di Norman non è dovuta al furto dei 40000 dollari da
parte della prima, che si mostra pentita; bensì è dovuto a cause più oscure, che si ricercano nello scontro fra la nevrosi
di Marion e la psicosi di Norman. Ne consegue un’ambiguità psicologica dei due personaggi, che deriva, nel caso di
Marion dal rapporto con le convenzioni borghesi e, nel caso di Norman, da una confusione di identità. Come molti film
classici, Psycho rappresenta un duplice intreccio: da un lato abbiamo la vicenda amorosa tra Sam e Marion e dall’altro
il furto dei soldi. Tali vicende perdono la loro consistenza a causa della morte della donna. Psycho trasgredisce le
convenzioni dello star-system (che non prevedono che la star muoia a metà film) per creare uno shock da sorpresa
nello spettatore. Inoltre rispetta l’invisibilità dello stile classico solo nelle scene più ‘’tranquille’’, per il resto del film
ricorre a sguardi in macchina, complessi movimenti che manifestano la presenza di uno sguardo in macchina.

Capitolo 11- Il Neorealismo


Che cos’è il neorealismo?
Abbiamo due definizioni del neorealismo; la prima presuppone il fatto che esso sia un fenomeno esteso nel tempo e
pochi film rinvenibili su un lungo arco cronologico che va dagli anni Quaranta agli anni Sessanta. Altri invece difendono
l’idea di un neorealismo corto e largo, ovvero un episodio di breve durata, circoscrivibile in soli 4 anni, dal 1945 al
1948, per cui la stragrande maggioranza dei film girati in Italia sarebbe neorealista. Il neorealismo è riconosciuto nella
sua progressiva contaminazione con prospettive schiettamente popolari. Per indicare la perdita di purezza
determinata dall’aver compromesso lo stile neorealista con i gusti del grande pubblico è stata coniata l’espressione
‘’realismo rosa’’; in particolare con essa ci si riferisce a una serie di film di successo che associano gli ambienti reali e
gli interpreti non professionisti con i toni della commedia. Il capostipite è il film Due soldi di speranza di Renato
Castellani.

L’origine del termine neorealista è piuttosto controversa. I primi tentativi di denominazione sono stati individuati in
seguito alla consacrazione del cinema italiano nel giugno del 1947 al festival di Bruxelles, nel corso del quale la critica
inizia a parlare di una nuova scuola cinematografica il cui iniziatore è Rossellini. Pochi mesi prima viene pubblicato il
saggio di Bazin relativo allo studio della ‘’scuola italiana della liberazione’’; in questo studio Bazin evidenzia il fatto che
i film del neorealismo possano essere ricondotti alla forma del reportage ricostruito: l’elemento più innovativo pare
infatti l’adesione all’attualità. In particolare Bazin si concentra sul sesto episodio di Paisà, riconoscendo come in esso
l’unità minima non sia più l’inquadratura bensì il fatto. Secondo Bazin nei film neorealisti c’è della menzogna
drammatica, ma essa è ridotta al minimo; tale minimo è regolato dalla legge dell’amalgama che consiste
nell’amalgamare attori professionisti e interpreti non professionisti. Inoltre nell’utilizzo dell’attore professionista il
neorealismo ha cura di non rinchiuderlo in un ruolo determinato, di non sottometterlo al divismo. Il dibattito sul
neorealismo esplode nel 1948 in occasione della IX Mostra del Cinema di Venezia. Qui i critici concordano nel
considerare il neorealismo un periodo storico piuttosto che una tendenza estetica e nel rifiutare il termine ‘’scuola’’.

Successivamente intorno al concetto di neorealismo si svolgono due grosse battaglie culturali, entrambe miranti a
proporre un superamento verso destra oppure verso sinistra. La prima ha come protagonista la critica cattolica, che
vorrebbe che il neorealismo perdesse la sua carica di denuncia sociale; la seconda, invece, ha per protagonista la
critica marxista, che vorrebbe una radicalizzazione dei film per quanto riguarda la loro propensione alla critica della
società. Protagonisti di questi due movimenti sono rispettivamente Rossellini e Visconti, che rappresentano le due
opposte modalità con cui il cinema italiano pratica il neorealismo.

Ciò che accomuna gli autori del neorealismo è una modalità di rappresentazione focalizzata su un rapporto stretto con
il referente, ovvero il mondo. Le strategie per giungere a questo obiettivo possono essere diverse: una consiste
nell’accumulare dettagli in apparenza insignificanti, ma costitutivi della realtà, a discapito di una narrazione forte. Il
neorealismo poggia su un’organizzazione del discorso in vista dell’effetto di far sembrare vero quanto mostrato.

Sul piano della riproduzione il neorealismo lavora per far avvertire come prossimi il segno e il referente. Sul piano della
rappresentazione il neorealismo si adopera per far intendere come prossimi i soggetti filmici e la vita quotidiana. Sul
piano dell’enunciazione il neorealismo lavora per far sentire l’autore prossimo alle vicende raccontate; e sul piano del
consumo lavora affinché il pubblico riconosca il testo.

Le declinazioni del neorealismo possono essere raggruppate attorno a due principali opzioni, quella di Rossellini e
quella di Visconti; il primo è il capofila del neorealismo fenomenologico, attento alla comunicazione dell’informazione
a discapito della sua forma; il secondo, invece. È il capofila del neorealismo estetico, che costruisce i propri tetsi
attraverso spettacolari strategie di rappresentazione.

Decostruire il mito

L’importanza del periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, che vede il passaggio da un regime totalitario a
uno democratico, dalla monarchia alla repubblica, fornisce ancora più importanza allo stesso fenomeno che lo sta
rappresentando.

Occorre decostruire il mito, demitizzarlo, storicizzandolo attraverso i documenti. Prendiamo in esame il finale di Roma
città aperta (1945). Si tratta di un testo emblematico per il fatto di nascere a ridosso delle vicende storiche che
rappresenta, ovvero l’occupazione di Roma da parte dell’esercito nazifascista. Le riprese del film iniziano pochi mesi
dopo, nella notte tra il 17 e il 18 gennaio 1945, quando nel Nord si combatte ancora e si concludono a giugno. La
postproduzione è messa a punto tra giugno e settembre, prima del passaggio di testimone tra Parri e De Gasperi. Il
paese attraversa un movimento molto delicato, il rischio è lo scoppio di una guerra civile. L’autore del film è Roberto
Rossellini, legato per molti versi al precedente regime fascista. Amico del figlio del duce, Vittorio Mussolini, ha girato
tre film per la propaganda militare; il primo film La nave bianca (1941), ambientato su una nave ospedale, vince alla
Mostra di Venezia la Coppa del Partito Nazionale Fascista; il secondo, Un pilota ritorna (1942), è un film sull’aviazione,
il cui soggetto è scritto dallo stesso Vittorio Mussolini. Il terzo, L’uomo dalla croce (1943) è forse il più compromesso in
quanto narra la storia di un cappellano sul fronte russo. Questi tre film sono raggruppati nella cosiddetta trilogia
fascista di Rossellini; tuttavia, Gianni Rondolino nel 1947 fissa la formula con cui la storiografia si riferisce a questi film:
la trilogia fascista diviene la trilogia della guerra fascista. Di certo Rossellini non era antifascista. Quando ha la
possibilità di girare dei film di propaganda non si tira indietro e sarà solo dopo l’armistizio dell’8 settembre che compie
il primo gesto di allontanamento dal regime, ovvero rifiuta l’offerta di trasferirsi a Venezia per lavorare negli
stabilimenti cinematografici creati dalla Repubblica di Salò. Di fatto, però, non militerà mai nelle file della Resistenza
propriamente detta, semmai si terrà vicino ai militanti antifascisti. Il fatto che lo spirito antifascista sia stato espresso
nel film Roma città aperta non deve stupire in quanto Rossellini rappresenta la classe sociale a cui appartiene, ovvero
una borghesia che aderisce al fascismo per poi tirarsi indietro in prossimità di una sconfitta.

Per quanto riguarda tale film vi sono state delle conseguenze sin dalla fase di scrittura; difatti la sceneggiatura, in
origine, prevedeva come referente per il personaggio del sacerdote Don Pietro il prete partigiano Don Pappagallo, che
poi verrà sostituito da Don Morosini. Il partito comunista suggerisce allo sceneggiatore di eliminare ogni riferimento
alla figura di Don Pappagallo per evitare a sua volta ogni riferimento all’attentato di Via Rasella dove il prete partigiano
perde la vita. Questo perché all’origine della strage vi sono i comunisti.

Nel corso delle riprese, inoltre, viene contestato alla produzione un dettaglio, ovvero le divise indossate dal plotone di
esecuzione nella scena della fucilazione di San Pietro. Di norma tutte le condanne a morte di cittadini italiani,
decretate dal tribunale di guerra nazista, erano fatte eseguire a soldati italiani sotto il controllo di un ufficiale tedesco.
Il giorno in cui viene fucilato Don Morosini a Forte Bravetta tocca a un plotone della Guardia di Finanza inquadrato
nelle forze della PAI (la Polizia dell’Africa Italiana). Tuttavia all’ordine di fuoco i componenti del plotone sparano in aria
e Morosini viene ucciso dall’ufficiale fascista che comanda l’esecuzione. La produzione compie un errore, ovvero fa
indossare ai soldati del plotone la divisa della PAI. Venutolo a sapere, il Ministero dell’Interno pretende che la scena
venga completamente eliminata. Ciò rappresenta un importante rischio che caratterizza il cinema neorealista, nel
rappresentare fatti noti, il film può manipolare e distorcere e ciò scaturisce delle conseguenze politiche non
indifferenti. Inizialmente Rossellini pensa di togliere i simboli dalle divise, tuttavia ciò farebbe ricadere la colpa sulla
polizia in generale; pertanto egli decide di dare la responsabilità della fucilazione non all’ufficiale fascista, bensì a
quello tedesco.

L’ideologia che guida la realizzazione del film consiste nel descrivere la Resistenza come un fenomeno italiano, quasi
fosse stata una guerra di liberazione dallo straniero e come fenomeno italiano. Il discorso sul fascismo viene rimosso e
la responsabilità viene fatta cadere sull’orco nazista. Una delle ragioni del successo di tale film fu proprio il fatto di
essere così in linea con i discorsi che si facevano in quell’immediato dopoguerra.

Luchino Visconti

Il progetto di rifondare il cinema italiano riconnettendolo alla grande tradizione del realismo inizia già sul finire degli
anni trenta, all’interno del gruppo di redattori raccolti intorno alla rivista ‘’Cinema’’, che vuole realizzare, attraverso il
cinema, un’azione politica clandestina orientata in senso antifascista. Visconti diviene il fulcro del gruppo; vengono
elaborati numerosi progetti, ma l’unico che trova realizzazione è il film Ossessione, tratto dal romanzo Il postino suona
sempre due volte. Tale film vuole squarciare la retorica trionfalistica dietro cui il regime nascondeva l’Italia. Esso
racconta la passione tra un vagabondo, Gino, e Giovanna, moglie di un benzinaio, riducendo il sesso, che negli anni
Trenta era mostrato come elevazione spirituale, solamente a una dimensione carnale; la famiglia, che nel film viene
rappresentata come una prigionia; e infine il paesaggio, che diviene un torbido scenario e il delitto, realtà negata agli
schermi del fascismo, che ora diviene il fulcro narrativo attorno a cui ruotano i destini tragici dei personaggi. La storia
torbida dei due amanti rispecchia quei particolari tempi: Gino uccide il marito di Giovanna su sua richiesta e la donna
muore mentre stanno scappando dalla polizia. Già nell’incipit del film il regista riesce a concentrare il nucleo del
dramma, mostrandoci il carattere inquieto di Gino e la situazione nella quale l’intruso è penetrato, ovvero la
monotona vita di coppia di Giovanna e il marito. Visconti tiene nascosto il volto di Gino fin quando Giovanna non lo
vede, rimanendone folgorata. In queste immagini è già presente il nucleo narrativo, ovvero la passione tra i due futuri
amanti. Ricordiamo la celebre sequenza, dopo l’omicidio, che mostra Giovanna sola in un ambiente quasi opprimente.
Non succede nulla di strano, ma ogni suo singolo gesto suona come un atto d’accusa nei confronti del rapporto con
Gino. Il paesaggio simboleggia la monotonia e la ripetitività, rappresentate in particolare da un orizzonte sempre
uguale. Il film risulta essere diviso in due parti: prima e dopo l’omicidio, tra cui esiste una precisa simmetria data dalla
successione di due temi: quello della passione tra Gino e Giovanna e quello della liberazione di tale passione:
attraverso Anita e Spagnolo, difatti, Gino tenta di dimenticare Giovanna. Il nome dello spagnolo allude ad un
antifranchismo e dietro all’offerta che fa a Gino di una vita libera e vagabonda vi è il rifiuto dell’ordine. Inoltre, l’invito
a lasciar perdere le donne potrebbe essere inteso sulla prospettiva di un rapporto omosessuale.

La censura fascista tentò di stroncare la forza polemica di Ossessione.

Successivamente Visconti torna al lungometraggio solamente nel 1948 con La terra trema. Le riprese sono effettuate
in ambienti reali, l’attore è preso dalla strada, l’ambientazione è contemporanea e le inquadrature sono semplici. Il
film si basa sull’opera verghiana de I Malavoglia. Tale film è stato commissionato da PCI e la commessa è quella di un
documentario sulle condizioni dei lavoratori. Visconti voleva che il film fosse sottotitolato in italiano in modo da
salvare la musicalità del dialetto, tuttavia secondo i comunisti tutti dovevano comprendere il testo e per tale motivo fu
introdotto il commento in voce over. La Terra trema è il più compiuto esempio di film ideologico del nostro cinema,
tant’è che persino la psicologia dei personaggi esiste in funzione dell’ideologia. Visconti non cita nei titoli di testa I
Malavoglia perché il film intrattiene con il romanzo un rapporto di alterità, difatti Verga fornisce la materia,
nient’altro. La storia del film si rifaceva alle indicazioni di fondo della politica culturale comunista e la sua storia è
interamente dominata dalla lotta di classe. I ruoli sociali sono due: chi sfrutta e chi viene sfruttato. In tale film la brama
dei Malavoglia, condannata da Verga, diviene la presa di coscienza di ‘Ntoni Valastro, sconfitta dal capitale perché
ancora individuale.

Fu la vittoria della DC a determinare il fatto che tale film non divenisse l’emblema del nuovo cinema italiano.

Roberto Rossellini

Ci sono registi come Visconti, che tendono a rifare la stessa inquadratura innumerevoli volte fino all’ottenimento del
risultato prefissato. Altri registi, come Rossellini, preferiscono all’inquadratura pensata nel dettaglio quella
improvvisata. Nel cinema rosselliniano assume una grande rilevanza il problema del non detto del testo, che chiede al
proprio lettore una cooperazione interpretativa. Se il testo è una macchina pigra, piena di buchi, di spazi lasciati vuoti
che lo spettatore deve riempire, non tutti i testi sono pigri allo stesso modo. Alcuni film di Rossellini sono pigri fino alla
negligenza, difatti i loro buchi sono, in realtà, voragini. Vediamo il caso di Paisà. Paisà si sviluppa intrecciando
documento e finzione: ogni episodio, difatti, è introdotto da immagini documentarie e prosegue inserendosi in un
contesto di finzione che si ispira a quelle immagini. La prima inquadratura è il tonfo provocato dall’esplosione di una
bomba nel mare di Sicilia (ad indicare lo sbarco alleato), l’ultima inquadratura rappresenta la successione dei tonfi dei
tre partigiani gettati nel Po dai tedeschi. Il primo tonfo è l’annuncio della liberazione, gli ultimi sottolineano il prezzo
pagato, il costo umano di quella liberazione. La prima inquadratura è dunque documentaria, mentre la seconda è
fittizia.

L’asse portante del linguaggio di Rossellini è l’ellissi. Rossellini imprime alle immagini un movimento emotivo che si
affida al repentino precipitare dei fatti. Rossellini ci pone davanti alle conclusioni senza spiegazioni o preparativi.
Attraverso un ritmo sussultorio il regista genera un senso di vertigine continua. Un esempio è costituito dal quinto
episodio. Ci troviamo in un convegno emiliano e tre cappellani militari chiedono ospitalità. Nel momento in cui i frati
scoprono che solo uno di loro è cattolico, mentre gli altri sono l’uno protestante e l’altro cattolico, rimangono
scandalizzati.

Bazin, riguardo la tecnica di Rossellini, dice che essa prevede che i fatti non si ingranino l’uno sull’altro come una
catena sul pignone; egli, inoltre, utilizza una metafora e dice che lo spirito deve saltare da un fatto all’altro
esattamente come si salta da una pietra all’altra per attraversare un fiume. Capita che il piede manchi una pietra
oppure che scivoli su di esse.

Il finale del quinto episodio si struttura intorno a due pietre-fatti instabili e collocate a una tale distanza da mettere in
rischio l’attraversamento del fiume da parte dello spettatore. La prima pietra è costituita dal seguente fatto: i frati
premono affinché Martin, il cappellano cattolico, provi a convertire i suoi due compagni alla vera religione, tuttavia
egli si rifiuta in nome dell’amicizia e della tolleranza. La seconda pietra è costituita dal seguente fatto: i frati digiunano
con l’intento di intercedere per la salvezza dei due miscredenti e Martin ringrazia per la lezione ricevuta.
Mentre nel cinema di Visconti le pietre-fatti fungono da ponte, In Paisà, dunque, le pietre-fatti mettono lo spettatore
nella necessità di attivarsi per raggiungere l’altra riva. L’azione dello spettatore, tuttavia, dipende dalla sua identità
culturale. Difatti abbiamo due esempi relativi al piano ideologico: il primo consiste in una lettera giunta dagli Stati Uniti
in cui si accusa il film di intolleranza; mentre il secondo perviene proprio dalla cattolica Italia, che accusa il film proprio
dell’opposto.

Vittorio De Sica-Cesare Zavattini

Vittorio De Sica si impone negli anni Trenta a livello divistico grazie ad una serie di commedie sentimentale dirette da
Mario Camerini. L’esordio come regista avviene con Rose scarlatte nel 1940. Nel 1943 avviene la svolta quando, al suo
quinto film I bambini ci guardano, De Sica incontra Zavattini. Quest’ultimo fu tra i più grandi teorici del neorealismo,
con la proposta di un cinema ‘’del pedinamento’’ basato sull’idea che ogni attimo della giornata di un uomo ha
un’importanza rivelatrice, che la macchina da presa ha il compito di svelare: tale poetica pervade anche Ladri di
biciclette, dove la macchina da presa ‘’pedina’’ i personaggi nel loro vagabondare quotidiano per soffermarsi su aspetti
apparentemente marginali della realtà tanto più significativi.

Secondo Bazin tale film è uno dei primi esempi di cinema pure, che presuppone, paradossalmente, ‘’niente più
cinema’’. Ciò poiché non vi sono più attori, difatti questi ultimi sono presi dalla strada. Non vi è più storia in quanto
l’intreccio è molto banale, difatti si parla del furto di una bicicletta. Non vi è nemmeno una messa in scena, difatti la
regia si dà nel modo meno evidente possibile.

La vicenda ha un’organizzazione assai compatta: un gruppo molto ristretto di personaggi (la famiglia Ricci), un’unica
attività (riprendere possesso della biciletta) in un tempo assai limitato (tre giorni). Altra caratteristica del linguaggio
realista di De Sica è data dalla scelta di campi di ripresa: di solito la macchina da presa è collocata piuttosto lontano
dagli attori, evitando così primi piani e dettagli. I piani sono pressoché frontali e i movimenti di macchina sono sempre
descrittivi. Tuttavia, la caratteristica più importante risulta essere il rispetto della durata della realtà. Il tempo
cinematografico è diverso dal tempo reale, eppure il film dà l’impressione che quest’ultimo sia lo stesso che vediamo
trascorrere sullo schermo. Il film è costruito in modo da creare una sempre maggiore sensazione di continuità. La
vicenda occupa tre giornate, da venerdì a domenica: Antonio prende servizio e si fa rubare la bicicletta (sabato) ee il
giorno seguente lui e Bruno la cercano invano; le prime due occupano mezz’ora del film e la terza occupa la restante
ora. Dunque nella prima parte sono presenti molte ellissi e salti temporali, rappresentati attraverso le dissolvenze.
Nella seconda parte, invece, molte sequenze si susseguono senza alcuna cesura cronologica. Ad esempio quando
Antonio e Bruno vanno dalla santona, escono ed incontrano il ladro, lo inseguono e tentano di farlo arrestare invano.
Tutto ciò dura 15 minuti e si tratta di un quarto d’ora reale.

Anche dal punto di vista drammaturgico il film è orchestrato con estrema maestria. Antonio e Bruno, avviliti, si
fermano a riposare sul Lungotevere: qui passa un camion di tifosi del Modena e Antonio chiede a Bruno se il Modena
sia una buona squadra. Successivamente essi si recano dalla santona e lungo il tragitto sentiamo la voce dello speaker
radiofonico che inizia la cronaca della partita Roma-Modena. Tali dettagli, seppur sembrino fini a se stessi, preparano
lo spettatore al finale tragico davanti allo stadio. Appare dunque chiaro che la regia di tale film è vigile. L’artificiosità
dell’organizzazione drammaturgica del film trova il suo climax quando Antonio si imbatte per caso nel ladro.

Il neorealismo in rapporto alla commedia e al cinema moderno

Il successivo sviluppo del neorealismo trova collocazione in un contesto di forte scontro ideologico causato dal
crescente radicalizzarsi della guerra fredda. Da un lato il mondo cattolico prende coscienza della pericolosità del
fenomeno e della necessità di contrastarlo. Dall’altro il PCI formula la richiesta di una narrativa realista ai grandi
modelli romanzeschi dell’Ottocento. In entrambi i casi il radicalizzarsi dello scontro sul finire degli anni Quaranta si
configura come una richiesta di esplicita militanza. Rossellini si impegnerà con Stromboli (Terra di Dio) (1949) e
Francesco giullare di Dio (1950) con il fine di creare un neorealismo cristiano, progetto destinato a fallire a causa
dell’ambiguità del linguaggio rosselliniano, lontano da una definizione chiara dei propri messaggi. Visconti, invece,
inserirà nell’estetica neorealista istanza ideologiche al fine di orientare la lettura dei fatti.

La fondazione del neorealismo cattolico sarebbe dovuta avvenire in occasione della XI Mostra del Cinema di Venezia.
Rossellini vi partecipa con due film religiosi, ovvero Stromboli e Francesco giullare di Dio, film realizzati con la
collaborazione del padre dominicano Morlion e gli appoggi istituzionali di Giulio Andreotti. Il patto attorno al quale
ruota il cinema di Rossellini prevede che il regista giri film ispirati da coloro che poi li avrebbero dovuti recitare.
Tuttavia la composizione della giuria risulta diversa da quella programmata e ciò determina la sconfitta di Rossellini,
anche se il suo cinema era già destinato a morire a causa del fatto che non aveva un linguaggio adatto al suo scopo di
veicolare contenuti ideologicamente schierati.

Assai meglio parve funzionare un film alla cui realizzazione parteciparono sempre Andreotti e Morlion, ovvero Don
Camillo (1952). Il film è significativo se lo si confronta con il cinema neorealista, in particolare con il film Francesco
giullare di Dio. Entrambi realizzati da Peppino Amato, soltanto Don Camillo ebbe un successo straordinario, aprendo
così la via ad una serie di film. Entrambi i film sono promossi da Andreotti-Morlion al fine di terminare la carica di
critica sociale insita nel neorealismo attraverso film organici a Chiesa e governo; tuttavia solo Don Camillo ci riesce in
quanto esso guardava in direzione dell’estetica della commedia, attraverso le scelte linguistiche e ideologiche, difatti
viene tematizzato il conflitto politico, ma per svuotarlo di senso, proiettandolo su un piano ludico.

Negli anni Cinquanta il Neorealismo si identifica solamente con la commedia; si conia dunque il termine di
neorealismo rosa.

Il neorealismo rimane per tutti gli anni Cinquanta il punto di riferimento, il modello ora da emulare, ora da rinnovare,
ora da superare. Nei primi anni Sessanta esso agisce come orizzonte di confronto su Pasolini, che si avvicina al cinema
gradualmente, dopo essersi imposto nel panorama italiano attraverso una poetica fortemente realista, caratterizzata
dall’impegno civile, dal desiderio di dar voce alle culture altre e dall’utilizzo del discorso indiretto libero, che consente
la regressione dell’autore nell’ambiente sottoproletario. Tale poetica entra in conflitto con l’avvento della ‘’grande
trasformazione’’, che modifica le pratiche culturali. Accattone e Mamma Roma (1961-1962) rappresentano l’ultimo
tentativo di riproporre una poetica che in letteratura ha già fatto il suo corso, mentre La ricotta, terzo film di Pasolini,
tematizza la crisi in corso attraverso l’introduzione di un personaggio nuovo, estraneo al processo di regressione nel
mondo sottoproletario, quello del regista borghese, interpretato da Orson Wells. Nel tematizzare la propria crisi
stilistica Pasolini tematizza la crisi del neorealismo e riflette su come sia possibile rapportarsi alla tradizione del
realismo italiano negli anni del boom economico. Il film è costruito contrapponendo due serie di inquadrature
stilisticamente diverse: le prime, in bianco e nero, ci mostrano la vicenda sottoproletaria di Stracci, mentre le seconde,
a colori, rappresentano il sofisticato mondo del regista. Pasolini partecipa al corso di Roberto Longhi all’università.
Tale corso rappresenta quasi un’esperienza cinematografica in quanto la dialettica tra gli stili dei due artisti faceva
scaturire il dramma del confronto quasi come se si fosse al cinema. L’esperienza cinematografica del corso, il cui
intento era dare ragione della rivoluzione causata dall’apparizione dell’arte di Masaccio, è riproposta ne La ricotta:
l’opposizione tra un campione masaccesco e un campione del mondo masoliniano richiama il film pasoliniano, dove si
assiste allo scontro tra due stili entrambi amati da Pasolini. Ne La ricotta di Pasolini, il cui gusto cinematografico è di
origine pittorica, il personaggio di Stracci trova espressione attraverso il sistema di forme già usato nei due film
precedenti; e l’orizzonte figurativo alla base è quello di Masaccio. In particolare Pasolini colloca il suo primo cinema
lungo la linea Giotto/Masaccio/Caravaggio, ovvero la linea del realismo tracciata da Longhi. Il secondo personaggio, il
regista, trova espressione attraverso un sistema di forme nuove e i nomi alla base di tale orizzonte sono Rosso
Fiorentino e Jacopo Pontormo, dei quali il ‘’film nel film’’ ricostruisce due noti quadri. Il volume di Giuliano Briganti La
maniera italiana, ovvero uno dei primi libri con riproduzioni a colori, ebbe un impatto enorme su Pasolini. Secondo
Briganti i manieristi sono i primi artisti devianti, maledetti e operano in un momento di rivolgimenti storici che
mettono in discussione i modelli rinascimentali precedenti. La corrispondenza con Pasolini si trova anche sul piano
delle propensioni, difatti, sia per quanto riguarda il regista sia per i manieristi, l’aspirazione del superamento del
presente è contraddetta dalla nostalgia per il passato.

Gli studi di Longhi e Briganti descrivono il fenomeno come alternativa non anticlassica al Classicismo. Nel film
pasoliniano il richiamo al Manierismo suona come la ricerca di un’alternativa non antirealistica al realismo
tradizionale; per tanto si può dire che La ricotta sia un film a metà fra tradizione neorealista (immagini in bianco e
nero) e modernità (immagini a colori).

Stromboli

L’8 maggio del 1948 Rossellini riceve una lettera da Ingrid Bergman in cui allude a una battuta del suo ultimo film,
ovvero Arco di trionfo, in cui una cantante dopo aver cantato in inglese per tutto il film, dice sul letto di morte ‘’Ti
amo, ti amo’’. La Bergman è l’attrice più importante del momento; ella è un’attrice svedese che lavora ad Hollywood
da 9 anni. Quest’ultimo, tuttavia, le sta sempre più stretto e l’attrice vuole vivere in un mondo reale. L’adesione alla
realtà viene sposata appieno dal neorealismo ed è per tale motivo che l’attrice rimane colpita dai film di Rossellini.
Quest’ultimo le propone il film Stromboli; successivamente Rossellini si reca negli Stati Uniti per ritirare un premio,
telegrafa alla Bergman e tra i due scoppia l’amore. Il proprietario della AKO, la casa di produzione di Quarto potere,
desideroso di avere la Bergman sotto contratto, firma e finanzia il film Stromboli, accordandogli piena autonomia. La
Bergman sbarca a Fiumicino e il suo arrivo è trasfigurato ne La dolce vita. I due sbarcano a Stromboli nel ’49 e, ben
presto, attorno alla coppia scoppia uno scandalo in quanto ‘’l’angelo della Bergman’’ è incinta. La realizzazione del film
avvenne in un clima teso aggravato dalla lavorazione all’aperto e, soprattutto, dalla concorrenza derivata da un film
della Magnani (il precedente grande amore di Rossellini), che presenta la stessa identica trama sull’isola di fianco,
ovvero Vulcano.

Per quanto concerne il linguaggio adottato, Rossellini non si piega alle logiche di Hollywood che cofinanzia il film. Egli
compie scelte di regia peculiari, difatti preleva una grande diva per poi collocarla in un contesto inospitale-generato
anche dal risveglio del vulcano-e costringendola a lavorare con interpreti presi dalla strada. La grande intuizione di
Rossellini sta nel fatto di aver accentuato tale difficoltà a tal punto da costruire attorno ad essa la trama del film.
Difatti il film narra l’arrivo di una donna straniera in un contesto ospitale. L’attrice, per volontà di Rossellini, non sarà
mai isolata dal suo contesto.

Rossellini evita l’uso di un montaggio analitico e la macchina da presa viene posta ad una giusta distanza in modo da
poter mettere in valore il rapporto tra personaggio e ambiente.

Di tale film sono presenti tre versioni: una per gli Stati Uniti, una per il mercato europeo e l’altra per quello italiano
(che presenta alcune varianti specifiche). Il film viene girato con due macchine da presa affiancate in modo da
impressionare due negativi, di cui uno sarà inviato agli Stati Uniti poiché il film è coprodotto proprio da questi ultimi.
Rossellini non si fida degli americani, dunque ne gira uno anche per sé. La versione americana, difatti, non viene
riconosciuta dal regista.

La versione americana dura meno rispetto alle altre due versioni e tutti i tempi morti vengono eliminati, ad esempio
viene accorciata la sequenza relativa alla tonnara. Al film viene anche aggiunta una voice over per commentare gli
eventi e indirizzare così lo spettatore; dunque non vi è una lettura personale, bensì univoca. Il finale, inoltre, è diverso,
in modo da rispondere così alle logiche di Hollywood, difatti il film presenta un happy end. Siamo di fronte ad un abile
montaggio delle parti consegnate da Rossellini; difatti un’abile inquadratura del villaggio, montata assieme al voice
over, suggerisce il ritorno di Karin dal marito. Rossellini, invece, nella versione internazionale, chiude il film con Karin
sul vulcano, si rifiuta dunque di risolvere la questione del destino di Karin dopo la notte sul vulcano.

Confronto fra versione italiana e internazionale

La versione italiana presenta un commento musicale invasivo che si sovrappone a una pista sonora complessa, in cui
giocano un ruolo importante i rumori dell’ambiente. Al contrario, nella versione internazionale, più vicina alle
ispirazioni del regista, è presente una diversa colonna audio e il commento musicale non si sovrappone ai rumori
dell’ambiente.

Nella versione italiana, inoltre, non vi è la scena del pesce, che rappresenta un ambiente ostile e che è presene nella
versione internazionale. In tale scena Karin si ritrova un pesce enorme in cucina e lo tocca con curiosità e disgusto, per
poi fare colazione con un bicchiere di vino.

Per quanto concerne il finale della versione internazionale, presentata alla mostra del cinema di Venezia, nel 1950, in
un contesto egemonizzato dalla cultura cattolica, esso viene criticato in quanto troppo ambiguo, difatti il personaggio,
dopo una notte di sofferenza, avrebbe dovuto convertirsi. Nella versione italiana il finale risponde appieno a questa
richiesta e presenta inquadrature in più.

Capitolo 12 La Nouvelle Vague


I ‘’Cahiers du cinéma’’ degli anni Cinquanta tra Rossellini e Hitchcock

Fondato nel 1951, il mensile ‘’Cahiers du cinéma’’ diviene intorno alla metà degli anni Cinquanta il laboratorio teorico-
critico della futura Nouvelle Vague. Non si può certo definire una rivista di sinistra acausa del dichiarato formalismo,
dell’amore per il cinema americano e la volontà di occuparsi di ‘’cinema per il cinema’’ che caratterizzano i Cahires du
cinéma. Seppur sia difficile definire la posizione ideologica di una rivista soggetta a numerosi mutamenti, è possibile
farsi un’idea della posizione di alcuni dei suoi redattori negli anni che vedono il recupero critico di due padri della
futura Nouvelle Vague, ovvero Rossellini e Hitchcock. Quest’ultimo è stato l’origine di una marcata spaccatura
all’interno della rivista stessa. Sui primi due numeri di essa sono i giovanissimi della redazione a darsi il compito di
fornire a Hitchcock il passaporto di autore, una provocazione difficile da intendere persino per Bazin. La campagna di
difesa di Hitchcock, animata da Godard, Truffaut, Rohmer e Rivette, trova un primo approdo in occasione della
distribuzione di Dial M for Murder, quando al regista viene dedicato un intero numero della rivista, al cui interno figura
uno dei numerosi articoli scritti contro Bazin, che si crede nella mancanza di consapevolezza del regista. Alle
provocazioni dei giovani redattori si oppongono i redattori più anziani come Pierre Kanst e lo stesso Bazin prende le
distanze da queste posizioni dei suoi giovani colleghi. Lo scontro redazionale si intensifica negli anni Cinquanta attorno
alla figura di Rossellini. La questione in realtà non si focalizza solamente su Rossellini, bensì verte sul cinema italiano
nel suo complesso. Nel corso della prima metà degli anni Cinquanta una parte dei Cahiers du cinéma sostiene Zavattini
e la sua volontà di indirizzare il neorealismo verso un cinema sociale. C’è poi l’altra parte, ovvero il gruppo di Rohmer,
Truffaut e Rivette, pe i quali in Italia esiste solo Rossellini con la sua ‘’metafisica dell’Incarnazione’’.

Intorno a Hitchcock e Rossellini i giovani redattori si danno un’identità di gruppo, che costituisce il primo passo verso
la costruzione di un altro gruppo, quello che darà vita alla Nouvelle Vague. Quest’identità incontra l’opposizione dei
redattori anziani e quella delle riviste rivali, ovvero quelle di sinistra. Mentre il gruppo di Bazin, Doniol, Kanst volevano
riguadagnare una lettura meno ideologica dei due registi, il gruppo dei redattori più giovani manifestano la volontà di
difendere i due registi, la cui opera esprimeva contenuti spirituali forti, mettendo in luce la decisiva idea di cinema
spiritualmente connotato.

La scuola della Nouvelle Vague

L’espressione ‘’Nouvelle Vague’’ compare in un’inchiesta sociologica sui fenomeni generazionali pubblicata dal
settimanale ‘’L’Express’’ nel 1957. In occasione del Festival di Cannes del 1959 l’espressione è importata in ambiente
cinematografico. Tale espressione identifica una nuova generazione di registi francesi che esordiscono nel
lungometraggio sul finire degli anni Cinquanta. Gli autori della Nouvelle Vague sono quelli che si formano alla scuola
critica dei Cahiers du cinéma, ovvero Chabrol, Godard, Rohmer, Rivette e Truffaut. La Nouvelle Vague è un fenomeno
produttivo fondato sul successo economico di film a budget ridotto. Tre produttori svolgono un ruolo di primo piano in
questa strategia economica: Pierre Braunberg, Anatole Dauman e Georges de Beauregard. Secondo Michel Marie una
scuola, per poter essere considerata tale, deve avere un corpo dottrinale critico, un programma estetico, un manifesto
che espliciti il programma, un insieme di opere rispondenti, un supporto editoriale , avversari e un leader/teorico; la
Nouvelle Vague risponde a tutti questi parametri. Per quanto riguarda il corpo dottrinale, esso è stato elaborato da
una serie di articoli usciti tra la fine degli anni Quaranta e il corso degli anni Cinquanta. Il primo importante saggio è
Nascita di una nuova avanguardia di Astruc, pubblicato nel 1948 con lo scopo di dimostrare che il cinema sta
diventando un nuovo mezzo di espressione, al pari di pittura o del romanzo. Il cinema si configura come un mezzo
attraverso cui esprimere il proprio pensiero e le proprie ossessioni. Cade così la distinzione tra sceneggiatore e regista:
quest’ultimo non si limita a illustrare una scena descritta da altri, ma con la sua caméra-stylo scrive il proprio film.
Successivamente, rispettivamente nel 1954 e nel 1955, compaiono due articoli di Truffaut: Una certa tendenza del
cinema francese e la recensione di Ali Baba et les 40 voleurs (1954) di Jacques Becker. Il primo si tratta di una
requisitoria contro il cinema francese della cosiddetta ‘’tradizione della qualità’’ (non contro il cinema commerciale,
bensì contro gli adattamenti che venivano sempre premiati ai festival, che Truffaut classifica sotto l’etichetta del
‘’realismo psicologico’’). Tale cinema si fonda sul primato dello sceneggiatore, dunque la figura del regista appare
secondaria; riprese eccelse e autori professionisti. Secondo Truffaut il prestigio di tali film deriva dai romanzi che ne
costituiscono la materia di base e dagli sceneggiatori, dunque i registi si limitano a mettere in immagine il lavoro di
questi ultimi. L’attacco è rivolto in particolare a Pierre Bost e Jean Aurenche, accusati di cercare equivalenze tra
procedimenti letterari e cinematografici, tradendo così il testo originario. Ad esempio, nell’adattamento del Diarip di
un curato di campagna di Bernanos, Aurenche si rende conto che il racconto non è cinemstograficamente realizzabile,
dunque interviene manipolando il materiale narrato. Inoltre i due autori criticati da Truffaut sono di sinistra e sono
definiti apertamente anticlericali. Tuttavia ciò che più indigna il giovane redattore non è l’infedeltà al testo originale,
bensì il fatto che l’operazione di riscrittura sia in mano agli sceneggiatori. Nel secondo articolo pubblicato da Truffaut,
quest’ultimo lancia la politique des auteurs ufficialmente, sostenendo tre tesi fondamentali:

1) Esiste un solo autore del film, il regista (lo sceneggiatore non fa altro che fornire la materia prima all’autore).

2) Certi registi dono autori, altri non lo saranno mai.


3) Non esistono opere, esistono solo autori: per cui un film sbagliato di un autore (Ali baba et les 40 valeurs) è sempre
più interessante di un film apparentemente riuscito di chi autore non è. Secondo Marie la politique des auteurs
consiste è il corpo dottrinale critico della Nouvelle Vague. Il programma estetico ha come obiettivo quello di fare film
personali; la strategia è quella del piccolo budget e dell’autoproduzione che consente di operare in libertà. Il
manifesto è Una certa tendenza del cinema francese di Truffaut. L’insieme delle opere è caratterizzato dai primi film di
Chabrol, Truffaut, Godard, Rivette e Rohme. Il supporto editoriale sono i Cahiers du cinéma. La strategia promozionale
è quella elaborata dalle pratiche critiche di Truffaut, che si configura come leader del gruppo e il teorico è André Bazin.
Gli avversari sono i registi e gli sceneggiatori del cinema di qualità francese e i critici delle riviste rivali, come ‘’Positif’’,
rivista marxista che li protegge.

Seppur sia possibile scindere un gruppo che vuole eliminare la frontiera tra finzione e documentario e un altro gruppo
improntato sulla narrazione, Marie individua un elemento comune, ovvero l’estetica della Nouvelle Vague, consistente
nelle seguenti pratiche:

1) il regista-autore è anche lo sceneggiatore del film o quantomeno ha guidato e seguito il lavoro di stesura della
sceneggiatura.

2) Bisogna privilegiare il momento delle riprese, che devono essere lasciate aperte l’improvvisazione.

3) Agli ambienti ricostruiti in studio bisogna preferire gli ambienti naturali.

4) Bisogna utilizzare una troupe leggera, composta da poche persone.

5) Bisogna optare prevalentemente per il suono in presa diretta.

6) Bisogna prediligere una pellicola ultrasensibile in modo da non dover utilizzare illuminazioni aggiuntive.

7) Bisogna utilizzare interpreti non professionisti e se si fa ricorso ad attori professionisti, bisogna optare per esordienti
che si può dirigere con maggior libertà.

La Nouvelle Vague francese è stata di stimolo a tutti i movimenti di rinnovamento delle cinematografie nazionali
sviluppatesi a partire dagli anni Sessanta, ovvero le cosiddette nouvelles vagues internazionali europee ed
extraeuropee. Inoltre in eredità non ha lasciato solamente film come À bout de souffle, ma anche una vera e propria
‘’teoria del cinema moderno’’, secondo cui li immagine filmica scaturisce dall’incontro di due polarità distinte ma
collegate: è sempre un documento di ciò che mostra (dunque è necessario che l’immagine si strutturi come uno
sguardo morale in relazione a quanto rappresenta) ed è sempre elaborazione formale e finzionale di ciò che mostra (vi
è sempre in gioco, dunque, un discorso estetico).

À bout de souffle

Si tratta di un film dedicato alla Monogram Pictures, casa di produzione americana. Da un lato il film rende omaggio al
cinema americano, dall’altro fa pezzi le prassi linguistiche stabilite. Godard, il regista, nasce a Parigi nel 1930 da una
famiglia ginevrina, alto borghese. Si iscrive a etnologia alla Sorbona e successivamente, alla Cinémathèque conosce il
gruppo dei Cahiers du cinéma. Nel 1959 Godard sviluppa il suo primo film sulle seguenti scelte: troupe leggera,
primato della ripresa sulla sceneggiatura, grande velocità di realizzazione. Inoltre esso si caratterizza per gli ambienti
reali, la camera a mano, i carrelli di fortuna, la pellicola fotografica per compensare l’assenza dell’illuminazione
artificiale. Dunque siamo di fronte ad un realismo rosselliniano, in quanto ci troviamo in esterni reali e tutto è
autentico, registrato così com’è. L’abbigliamento del protagonista, il delinquente Michel Poiccard, e la sua gestualità,
tuttavia, vanno in una direzione opposta in quanto sono troppo espliciti e sopra le righe. Il gesto compiuto da Michel,
ovvero passarsi il pollice sopra le labbra, rappresenta il fatto che egli sia stato costruito sul modello del gangster
americano incarnato da Humphrey Bogart. Dunque Michel si presenta come un personaggio contradditorio: autentico
in quanto ripreso con uno stile vicino a quello del documentario; e costruito in rapporto a modelli immaginari del
cinema. La sequenza dedicata al viaggio da Marsiglia a Parigi serve a capire cosa significa girare con attrezzature
leggere. Le inquadrature del protagonista al volante sono effettuate con una macchina a mano, collocando la
macchina da presa e l’operatore ora sul sedile posteriore, ora su quello di fianco dell’auto. Le inquadrature sono state
realizzate con luce naturale, anche quelle all’interno dell’abitacolo dell’automobile: ciò assicura all’immagine verità
fenomenica, ma anche una minore definizione; il risultato è un’immagine intenzionalmente sporca. Durante la fuga di
Michel assistiamo a un monologo apparentemente casuale. Tramite esso capiamo alcuni caratteri del personaggio: il
suo modesto orizzonte intellettuale e la sua grande vivacità. Michel, ad un certo punto, si volge direttamente allo
spettatore; qui Godard va contro a una delle regole fondamentali del cinema classico, ovvero evitare lo sguardo in
camera che rivelerebbe la messa in scena. Ciò è proprio quello che vuole fare il regista, ovvero ricordare allo
spettatore che si trova al cinema. Godard seleziona momenti del viaggio e li monta l’uno dopo l’altro senza badare ai
raccordi del cinema classico. Al contrario siamo di fronte ai jump cut, ovvero veri e propri salti, corrispondenti
all’eliminazione di fotogrammi dalla continuità di un’inquadratura. Si tratta di una procedura che rifiuta le regole della
scrittura classica. I jump cut sono presenti anche nella sequenza in cui Michel e Patricia si sposano; qui la pista sonora
è in continuità, al contrario di quella visiva, spezzata dai jump cut, che rendono il ritmo angosciato. Anche la seconda
sequenza è caratterizzata da jump cut, nel segmento dell’uccisione del poliziotto. L’aspetto più scandaloso dal punto di
vista drammaturgico è che, invece di sfruttare sul piano emozionale un evento narrativo fondamentale come quello
dell’uccisione del poliziotto, Godard ne comprime i tempi, riducendone la drammaticità. Godard, dunque, trasforma
l’evento in qualcosa di irrilevante e rende l’irrilevante un evento. Alle inquadrature brevi si alternano inquadrature
molto lunghe. È celebre la lunga carrellata che accompagna il dialogo fra Belmondo e Jean Seberg; qui la macchina da
presa segue i personaggi di spalle che scendono il boulevard e poi arretra precedendoli. La mdp è nascosta in un
furgoncino, in modo tale che il passaggio di alcuni passanti rafforzi l’autenticità dell’immagine. Godard rifiuta qualsiasi
intervento sulla realtà rappresentata, difatti evita di realizzare piani ravvicinati dei due personaggi. Il contenuto del
dialogo non è gerarchizzato da nessuna forma di montaggio, dunque tocca allo spettatore decidere cos’è importante.
Dunque il dialogo serve solo a far passare il tempo; da qui la ripresa in continuità volta a restituirci il tempo nel suo
scorrere reale. Lo spostamento dei due personaggi, inoltre, serve per mostrare una Parigi moderna, dinamica, magari
americanizzata. Il film pullula di riferimenti americani: il personaggio di Michel è costruito in rapporto ai personaggi
interpretati da Bogart e gli altri due film evocati dalla banda sonora, nei due cinema in cui prima Patricia da sola, poi
Patricia e Michel si nascondono sono americani. Sul manifesto del film si legge: Vivere pericolosamente fino all’ultimo,
frase che ci ricorda l’orizzonte dove si colloca la morte di Michel. La fuga finale del protagonista è troppo esibita e
ribadisce il carattere fittizio, ricordato, ancora una volta, dal gesto bogartiano.

Capitolo 13- Il cinema d’autore


Essendo nato come strumento per registrare il reale e per intrattenere le masse, il cinema, in un primo tempo, non
viene descritto come arte; conseguentemente non si identifica nemmeno la figura responsabile della sua realizzazione
come un autore. E quando questo termine viene introdotto nel 1908, esso si rivolge allo sceneggiatore oppure a colui
che ha scritto l’opera letteraria che fornisce la materia al film. Il regista, fino agli anni Dieci, viene visto solamente
come tecnico e la sua figura viene confusa con quella dell’operatore. È solamente sul finire del primo decennio del XX
secolo che nasce la ‘’funzione-regista’’, ovvero si riconosce il coordinamento della realizzazione del film come una
mansione che necessita di una persona dotata di precise competenze, ovvero il regista.

Affinché si inizi a parlare del regista nei termini di autore bisogna aspettare l’avvento dell’impressionismo francese,
che individuano la figura del regista come il responsabile del valore estetico di un’opera cinematografica. Tuttavia, ai
giorni d’oggi, il regista non viene visto come colui che utilizza il cinema per veicolare il suo punto di vista, bensì viene
visto come colui il cui compito è quello di evidenziare le qualità del linguaggio filmico. Prima che si arrivi a tale
concezione passerà diverso tempo anche perché negli Stati Uniti, invece, si afferma lo studio system e con esso l’idea
che il regista sia solo una delle figure che si occupano della realizzazione di un film; egli deve dunque sottostare
all’estetica proposta dallo studio ed è il produttore che decide la struttura del film. Tuttavia in tale periodo ci sono stati
cineasti che sono stati capaci di conferire un’impronta personale ai film realizzati, come Hitchcock, Wells e Ford;
quest’ultimo si è occupato di film di genere, in particolare western come Stagecoach (Ombre rosse 1939) e Fort
Apache (Il massacro di Fort Apache 1948). Egli è riuscito nell’obiettivo grazie a scelte di tipo figurativo e sviluppando
una riflessione sul rapporto tra l’individuo e la comunità sociale in cui vive.

Tuttavia la rivalutazione di alcuni dei cineasti che si sono trovati ad operare nello studio system non avviene negli Stati
Uniti, bensì in Europa. Qui, nel dopoguerra, si sviluppa la Nouvelle Vague, che riconosce la figura del regista come
autore e che concepisce il film come la testimonianza di una personalità, che si manifesta nonostante il
condizionamento industriale, attraverso uno stile personale; dunque non è solo il contenuto, bensì anche la forma ad
avere importanza. I redattori dei Cahiers du cinéma, tuttavia, non ritengono che tutti i registi siano autori, difatti
quest’ultimo termine non dev’essere confuso con il termine di derivazione teatrale ‘’metteur en scène’’.
Contemporaneamente si instaura l’idea che qualoria si uno di questi registi-autori a realizzare un film,
automaticamente quest’ultimo sarà un prodotto di qualità.
Mentre in Francia si teorizza questo concetto, tra gli anni Cinquanta e Sessanta si affermano sul piano internazionale
alcuni cineasti che possono essere considerati a tutti gli effetti degli autori, in quanto danno vita ad opere che sono
espressione di una particolare poetica. Tali registi esercitano un pieno controllo sulle loro pellicole, supervisionando
tutte le fasi della lavorazione e, talvolta, scrivendo anche le sceneggiature. L’obiettivo di essi è accrescere
intellettualmente lo spettatore.

Jacques Tati

Tati dirige solo sei film a lungometraggio, tutti a carattere comico. La prima di queste pellicole si intitola Jour de fête
(1949) e ha per protagonista un postino che in un giorno di festa continua a lavorare. In questo film troviamo alcuni
dei tratti che caratterizzano lo stile di Tati, ovvero il ricorso ad una comicità non verbale, infatti il suo modello di
riferimento è il cinema di Chaplin e Keaton; un limitato uso della parola, una narrazione priva di un vero e proprio
centro drammatico e la predilezione per le inquadrature ampie e lunghe. Egli si avvale pochissimo della parola e,
molto spesso, tende a soffocarla attraverso una sovrasonorizzazione, dettata da una musica oppure da un forte
rumore che sovrasta le voci dei personaggi. Nel film Mon Oncle (1958), incentrato sulla visita di M. Hulot al nipote
Gérard, un esempi si ha quando il rumore di un rasoio e degli elettrodomestici impediscono il dialogo tra la madre e il
padre di Gérard. Oppure, nella prima sequenza, la mdp indugia sulla discussione tra uno spazzino e un passante,
tuttavia la musica extradiegetica impedisce allo spettatore di sentire ciò che si stanno dicendo.

Le sue inquadrature promuovono uno sguardo esplorativo, difatti egli ricorre spesso a campi lunghi, alla profondità di
campo e, soprattutto, tende a non isolare i personaggi attraverso primi piani. Inoltre, le sue pellicole non presentano
una narrazione basata sulla logica causa-effetto, bensì i suoi sono film di situazione, dove il racconto si sfalda in favore
della gag. È il caso del film les vacances de M. Hulot (1953), che narra le vicende di un uomo che, recatosi al mare,
procura disturbo agli altri villeggianti. Proprio con questo fil Tati introduce il personaggio di M. Hulot, da lui stesso
interpretato. Avvalendosi di questo personaggio, Tati porta avanti una critica alla modernità e alla civiltà
industrializzata che si circonda di oggetti industrializzati che tendono a complicare l’esistenza dell’uomo. Tale
riflessione è resa inserendo i personaggi in ambienti ostili, come nel caso del film Playtime (1967). Emerge, dunque,
come questo cineasta abbia saputo imprimere una propria firma e come sia stato capace di portare avanti una
riflessione sulla società a lui contemporanea.

Federico Fellini

Fellini inizialmente si limita a collaborare in qualità di sceneggiatore alla realizzazione di numerose pellicole
neorealiste, tra cui figurano anche opere di grande rilievo come Roma città aperta e Paisà.

A differenza di Tati, Fellini è stato un cineasta prolifico. Ciò nonostante, anche nella sua filmografia è possibile
individuare temi e caratteristiche ricorrenti. I principali tratti del suo cinema sono la commissione di vicende inventate
e dati autobiografici e il ricorso a una fitta rete d’immagini dal valore simbolico. Nelle sue pellicole rievoca stagioni
della sua vita: ad esempio nel realizzare i vitelloni trae ispirazione da eventi vissuti nel periodo della sua giovinezza;
mentre in Amarcord (1973) ripropone episodi legati alla propria infanzia. Con 8 ½ (1963) porta sullo schermo le
difficoltà e le titubanze che sta vivendo sul piano professionale. Il protagonista del film, Guido Anselmi, è una sorta di
doppio dello stesso Fellini. In Intervista (1987) egli si fa addirittura personaggio, difatti tale film racconta del tentativo
di un gruppo di giornalisti giapponesi di intervistarlo. È necessario notare che il dato autobiografico è sempre
mescolato alla fantasia.

L’altra caratteristica delle pellicole di Fellini è il fatto di essere intrise di simbolismo. La costruzioni di immagini dal
valore metaforico ha un’importanza maggiore rispetto alla narrazione. Spesso vi sono inquadrature di strade oppure di
sfrenate feste notturne che, con il sopraggiungere del giorno, lasciano il posto ad un senso di vuoto. Esse sono
l’allegoria della solitudine. È possibile rintracciare anche ambientazioni circensi o personaggi grotteschi che sono il
simbolo d’irrazionalità. Altre immagini ricorrenti sono spiagge, processioni; queste ultime incarnano il momento di
transizione da uno stato di angoscia a uno di ritrovata felicità, come nel caso del finale de Le notti di Cabiria. Per
quanto riguarda i personaggi, ritornano spesso uomini narcisisti, maghi dal sesso incerto, prostitute e madri. Tali
personaggi sono figure caricaturali, dalla psicologia non definibile. Le donne, inoltre, sembrano quasi il frutto della
fantasia dell’uomo.

Una terza peculiarità del cinema di Fellini è far leva su alcuni procedimenti volti a spiazzare lo spettatore. Un primo
stratagemma consiste nell’inserire oggetti e figure surreali all’interno di scene realistiche. Ad esempio, nel film La
strada vi è una scena in cui, mentre Gelsomina siede sul ciglio della carreggiata, all’improvviso appaiono dei musicisti,
la cui presenza non trova alcuna giustificazione logica. Oppure si può verificare anche l’opposto, ovvero personaggi in
carne ed ossa vengono collocati in ambienti artificiali. Un esempio è rintracciabile nel film Amarcord (1973), in cui vi è
una scena dove i cittadini attraversano con le proprie barche un mare di plastica per andare ad accogliere una nave
che è dipinta sul fondale.

L’altro procedimento con cui Fellini crea spaesamento nello spettatore consiste nel far entrare un personaggio in
campo all’improvviso da sotto il quadro: è il caso di 8 ½, in cui, durante la scena della rivolta delle donne che fanno
parte dell’harem di Guido, una di esse spunta da sotto la mdp.

Ulteriori tratti caratteristici sono i finali aperti e la frammentarietà del racconto; tali scelte stilistiche rispecchiano
l’impossibilità del regista di descrivere appieno la vita.

Con il passare degli anni la struttura delle sue opere si fa sempre più episodica. Ad esempio nel caso de La dolce vita
(1960), siamo di fronte ad una successione apparentemente casuale di episodi, tenuti insieme da un personaggio
guida, ovvero il giornalista Marcello Rubini. La frammentarietà del film è inoltre rimarcata dalla presenza di continui
cambiamenti stilistici, non ché dal variare del ritmo della narrazione, il quale si fa ora disteso, ora incalzante. Tuttavia,
il progressivo sfaldarsi delle narrazioni non costituisce un vero e proprio mutamento, bensì la radicalizzazione di una
tendenza già presente ne I vitelloni. Ciò non significa che la maniera cinematografica felliniana non abbia subito delle
trasformazioni. Al contrario, Fellini prende presto le distanze da quell’idea di cinema come mimesi del reale per
rappresentare l’universo interiore. Tale mutamento è determinato dall’incontro con l’analista Ernest Bernard, il quale
lo avvicina all’interpretazione dei sogni. Il suo cinema diviene onirico e inizia a fare leva su un immaginario simbolico.
Ancora una volta, non si tratta di un cambiamento radicale in quanto già in film come La strada, trovano spazio
l’assurdo e il grottesco. Il realismo che informa il primo cinema di Fellini è pur sempre un ‘’realismo magico’’.

Michelangelo Antonioni

Antonioni esordisce alla regia con Gente del Po (1947), un cortometraggio a carattere documentaristico riguardante la
vita sulle sponde del fiume. Durante la seconda metà degli anni Quaranta, il cineasta italiano continua a dedicarsi alla
realizzazione di brevi documentari di matrice neorealista. Nel 1950 egli dirige il suo primo lungometraggio, ovvero
Cronaca di un amore, che segna la nascita dello ‘’stile Antonioni’’. La protagonista è Paola, una donna dall’oscuro
passato che è sposata con un miliardario, il quale assume un investigatore privato per scoprire i suoi segreti. Il film si
focalizza, dunque, sul mondo della media borghesia, aspetto che caratterizzerà tutta la sua produzione. Difatti egli
vuole evidenziare il disagio esistenziale, le insicurezze, l’alienazione proprie dell’uomo moderno, nonché la sua
incapacità di intrattenere delle relazioni autentiche con la realtà che lo circonda. Ad esempio ne Il deserto rosso (1964)
tale discorso viene proposto in relazione alla tecnologia. La protagonista è Giuliana, una donna psicologicamente
instabile che intraprende una relazione adulterina. A fare da sfondo alla vicenda troviamo i luoghi simbolo della
modernizzazione; e sarà proprio l’incapacità di Giuliana di adattarsi ad essi che scaturirà la sua alienazione e le sue
nevrosi. Nei propri film, inoltre, egli mette in luce come alla base del disagio esistenziale della borghesia ci sia la sua
propensione a ricercare un ambiente antiquato. Due sono le forze-guida che determinano l’agire degli esponenti della
borghesia: l’amore e il denaro. Antonioni, tuttavia, nelle sue pellicole non fornisce delle soluzioni, difatti le vicende
raccontate restano irrisole. Anche l’intreccio viene indebolito in quanto l’azione perde di centralità e si dà maggiore
spazio alle conseguenze che essa ha sulla psiche dei personaggi. Quello di Antonioni è, difatti, un ‘’cinema dei
sentimenti’’, che riflette su temi quali l’incomunicabilità e l’inaridimento delle relazioni personali. Un esempio è
L’avventura (1960). La vicenda di questo film ruota principalmente intorno a tre personaggi: Anna, il suo fidanzato
Sandro e l’amica Claudia. Essi partono per una crociera e improvvisamente Anna scompare; la sua scomparsa, tuttavia,
non risulta essere rilevante di per sé, bensì solo nella misura in cui tocca i sentimenti degli altri due personaggi, che
divengono presto amanti. Antonioni tende ad operare una ‘’de-drammatizzazione’’ dei propri intrecci, ovvero sposta
l’attenzione dalla narrazione alla visione. A tal scopo egli utilizza un metodo di rappresentazione che esclude
identificazione, commozione da parte dell’autore nei confronti delle situazioni dei personaggi. Ad esempio ai primi
piani predilige campi lunghi; i personaggi vengono spesso ripresi di spalle in modo da evitare che lo spettatore possa
empatizzare con essi. Inoltre il regista spesso rallenta il ritmo inserendo i cosiddetti tempi morti. Per di più le scene
iniziano addirittura prima che l’azione vera e propria sia incominciata e terminano nel momento in cui essa si
conclude. Oltre alla narrazione anche il personaggio vede diminuire la propria importanza. Grazie ad un uso della
profondità di campo, esso perde centralità in favore degli ambienti. Ad esempio ne Il deserto rosso, i personaggi
vengono ridotti a forme su uno sfondo. Antonioni, inoltre, trasforma il vagabondaggio dei personaggi nel pretesto di
mostrare le città moderne. È il caso di La notte (1961), in cui il vagabondare di Lidia, permette di mostrare una Milano
moderna. Il vagabondare dei personaggi, tuttavia, serve a suggerirne l’instabilità sentimentale e ideologica. I paesaggi
riflettono i sentimenti dei protagonisti e qualcosa di analogo viene fatto anche con il colore; ad esempio, ne Il deserto
rosso, il regista sfrutta il colore per rappresentare gli stati soggettivi di Giuliana. Non appena ha consumato un
rapporto sessuale, la stanza si tinge di rosa per simboleggiare il piacere provato; oppure vi è una scena in cui la frutta
di un venditore ambulante si tinge di grigio per rappresentare l’incertezza della donna. Si sviluppa dunque una psico-
fisiologia del colore. Un’ultima peculiarità è di dare maggior peso all’universo femminile poiché considerato più
sensibile e sincero rispetto a quello maschile.

Senz’ombra di dubbio siamo di fronte ad un regista-autore in quanto egli concepisce il cinema come un’opera d’arte
espressione delle istanze personali del proprio creatore.

Capitolo 14 La New Hollywood


L’espressione New Hollywood viene utilizzata per descrivere quel fenomeno di rinnovamento che ha investito il
cinema statunitense tra il 1967 e la seconda metà degli anni Settanta. Vi sono studiosi che ritengono più appropriato
utilizzare tale termine in riferimento alla produzione statunitense successiva al 1975, anno a partire dal quale le major
hollywoodiane hanno iniziato ad investire nella realizzazione dei blockbuster, ovvero film evento ad alto budget
pensati per ottenere grandi profitti. Vi è poi chi decide di utilizzare quest’etichetta per identificare tutta la produzione
nordamericana successiva alla fine dell’era dello studio system. In questo caso tale espressione abbraccia un arco
temporale che si estende dalla seconda metà degli anni Sessanta al nuovo millennio. All’interno di questo periodo vi
sono due fasi: la prima è nota come Hollywood Renaissance e corrisponde al decennio in cui nuovi cineasti hanno
realizzato una serie di film di rottura con il passato. Il secondo momento inizia con l’uscita di Jaws (Lo squalo, 1975, di
Steven Spielberg) e Star Wars (1977, di George Lucas) per estendersi ai nostri giorni. Quest’ultimo prende il nome di
‘’era del blockbuster’’ e si contraddistingue in quanto gli studi manifestano la tendenza di spendere elevate somme di
denaro per realizzare un ristretto numero di film promossi come sensazionali esperienze visive, da cui deriveranno
ingenti profitti. Le due fasi sono strettamente interrelate e solo parzialmente successive fra loro. L’Hollywood
Renaissance può essere letta come momento di transizione, preparatorio all’avvento dell’era dei blockbuster. In
particolare, il successo riscosso dai film appartenenti alla prima fase della rinascita di Hollywood ha consentito alle
case di produzione di comprendere quanto bisognasse estendere il proprio target di riferimento ai giovani e rinnovare
la propria offerta. Nel periodo dell’Hollywood Renaissance sono state prodotte anche numerosi film debitori della
produzione precedente come The Exorcist (1973, di William Friedkin) e Airport (1970, di George Seaton). Tali film,
tuttavia, anticipano anche alcuni tratti che caratterizzeranno i blockbuster, come, ad esempio, la scelta di far leva su
un pubblico già formato adattando vicende di romanzi. Anche dopo il 1975, allo stesso modo, sono state realizzate
pellicole in linea con l’Hollywood Renaissance, come Taxi driver (1976, di Martin Scorsese). Tale film appartiene alla
prima fase in quanto opta per accorgimenti che si possono ricondurre alla Nouvelle Vague. La produzione
dell’industria cinematografica non si riduce solo ai blockbuster bensì molte sono le pellicole a basso budget, come The
Blair Witch Project (1999 di Daniel Myrick ed Eduardo Sánchez).

Hollywood Renaissance

A metà degli anni Sessanta l’industria cinematografica statunitense versa in uno stato di profonda crisi; le famiglie,
difatti, abbandonano le sale per dedicarsi ad altri svaghi. La rinascita di Hollywood sarà determinata da una serie di
pellicole a basso budget uscite a partire del 1967; si tratta di film diretti da un gruppo di registi nati tra il 1920 e il
1936; ricordiamo, ad esempio Robert Altman, autore di M.A.S.H (1970) e Sam Peckinpah, che ha rivoluzionato il
genere western con il film The Wild Bunch (Il mucchio selvaggio, 1969). Ricordiamo anche Arthur Penn, Mike Nichols e
Dennis Horper, che hanno diretto quelli che vengono considerati i tre film manifesto della Hollywood Renaissance,
ovvero rispettivamente Bonnie ad Clyde (1967), The Graduate (1967) e Easy Rider (1969). A questi registi si aggiungono
anche Francis Ford Coppola e Scorsese, che concepiscono il cinema come opera d’arte. Tutti questi cineasti godono di
una libertà senza eguali. Uno dei fattori che li induce a infrangere le regole del cinema classico Hollywoodiano è il
diffondersi negli Stati Uniti della concezione di regista-autore, resa popolare da Andrew Sarris, che ha spinto i registi a
considerarsi artisti e non semplici impiegati dell’industria cinematografica. Essi, inoltre, con i loro film si fanno
espressione delle istanze care ai giovani, che sono i maggiori frequentatori delle sale cinematografiche. Difatti le
pellicole di questo periodo ruotano attorno alla contestazione giovanile e alla controcultura. È il caso di Easy Rider, i
cui protagonisti sono due hippie che attraversano gli Stati Uniti con le loro moto per recarsi a New Orleans. In questo
periodo non mancano però pellicole che affrontano questioni di attualità, quali la guerra del Vietnam e lo scandalo
Watergate. Molti sono i film che raccontano di complotti, come ad esempio The Parallax View (Perché un assassino,
1974, di Alan J. Pakula), il cui aspetto più innovativo è il fatto di trattare questioni contemporanee prendendo una
precisa posizione; questo perché il cinema non è più considerato una sorta di evasione, bensì un’occasione per
riflettere sulla contemporaneità. Per rispondere al gusto dei più giovani si infrangono i tabù rappresentando scene di
sesso e di violenza esplicite, come nel caso di The Graduate. Tale periodo è inoltre caratterizzato dalla cosiddetta
‘’poetica della violenza’’, ovvero si tende a tratteggiare la brutalità come sostanza stessa della vita e costume degli
americani. Per tale motivo in molte pellicole assistiamo a uccisioni efferate, come nel caso del film Bonnie e Clyde, ove
la coppia viene crivellata da pallottole. Non solo ci viene mostrato l’assassinio, bensì si insiste su di esso dilatandone la
durata attraverso il rallenti. Tuttavia mentre la morte dei due criminali è motivata dai crimini precedentemente
commessi, non vi sono alcune ragioni dietro l’uccisione dei protagonisti di Easy Rider. Tutto ciò è possibile in quanto il
Codice Hays viene del tutto abbandonato per essere sostituito da un sistema di classificazione per fasce di età,
attraverso cui si possono infrangere i tabù. Un film può essere ora classificato come G (general audience), M (mature),
R (restricted) o X (adults only). A livello stilistico la rinascita del cinema americano passa attraverso il mancato rispetto
delle regole del découpage classico; si favorisce un maggiore sperimentalismo in linea con quello della Nouvelle
Vague. Un esempio di ciò è costituito dal film Bonnie e Clyde, che ha dato vita alla Hollywood Renaissance; infatti non
si apre con un’establishing shot, bensì con primi e primissimi piani della protagonista; inoltre, tali inquadrature sono
legate da un montaggio discontinuo che ricorda quello di À bout de souffle. Infine il film fu scritto per essere diretto
proprio da Truffaut. Le pellicole dell’Hollywood Renaissance risentono anche dell’influenza del cinema underground
statunitense, per tale motivo sono spesso presenti inquadrature sghembe, asincronismi. E il caso del film Easy Rider, in
cui sono presenti delle sequenze caotiche, come quella in cui i protagonisti assumono sostanze stupefacenti con due
prostitute; tale scena è composta da brevi inquadrature legate assieme da un montaggio sincopato. Sono presenti
anche flashforward , ovvero interruzioni di una sequenza cronologica per anticipare eventi che appartengono al
seguito della storia. È importante dire che le pellicole dell’Hollywood Renaissance non rifiutano totalmente le regole
del découpage classico, bensì si limitano a infrangere le regole solo in alcuni punti; tali rotture assolvono una precisa
funzione narrativa o di caratterizzazione del personaggio; dunque viene rispettato l’approccio del cinema classico
secondo cui la forma dev’essere subordinata al racconto. Le maggiori trasgressioni sono di tipo tematico-narrativo,
ovvero la trattazione esplicita di sesso e violenza, ma anche la tendenza a portare sullo schermo personaggi
caratterizzati da una forte ambiguità morale.

A partire dal 1975 si inzierà a investire nella realizzazione dei blockbuster. La prima fase della New Hollywood di
esaurisce completamente nel 1980, quando i produttori iniziano a privare i registi della loro libertà d’azione. A
spingere i dirigenti a esercitare il proprio potere sono figure quali Coppola e Michael Cimino, che iniziano a lievitare a
dismisura i budget dei loro film. Un caso emblematico è Heaven’s Gate (I cancelli del cielo, 1980) di Cimino; tale film ha
avuto costi esorbitanti ed è stato un fiasco al botteghino, portando sull’orlo del fallimento la United Artists, ovvero la
sua casa di produzione.

L’era del blockbuster

I film realizzati durante la Hollywood Renaissance non sono stati capaci di fornire alle major una formula per ritrovare
quella prosperità economica conosciuta nel periodo d’oro dello studio system. Affinché ciò accada bisogna aspettare il
20 giugno 1975 quando nelle sale cinematografiche esce Jaws di Spielberg, pellicola tratta dall’omonimo best-seller,
che narra degli sforzi intrapresi per uccidere uno squalo terrorizzante. Si tratta di un film ad alto budget, che si rivolge
ad un pubblico di massa, in particolare ai giovani e che recupera la lezione del cinema classico hollywoodiano. Esso
viene considerato il primo blockbuster in quanto ha indicato alle major la strada da seguire per tornare a prosperare
economicamente, ovvero concentrare i propri sforzi su pochi progetti che siano spettacolari. Si comprende che per
competere con la televisione è necessario realizzare un tipo di esperienza di visione che non può essere garantita dal
piccolo schermo e si decide, dunque, di puntare sul sensazionalismo. Di conseguenza quell’attrazione del cinema delle
origini viene recuperata, ma con un fine commerciale. Se nell’Hollywood classica le narrazioni raggiungevano, in
termini di spettacolarità, il loro apice nella parte finale, i moderni blockbuster presentano un ‘’formato a picchi’’,
ovvero i momenti spettacolari punteggiano tutto il racconto. Per potersi aprire ad una maggiore spettacolarità si
sceglie di realizzare film d’azione prevalentemente poiché essi hanno il vantaggio di prestarsi maggiormente a
contenere una varietà di effetti speciali, nonché di essere più facilmente esportabili all’estero in quanto sono in grado
di trasmettere un’esperienza immediata, non di tipo linguistico o sociale, bensì di natura fenomenologica. Ancora più
importante è il fatto che essi siano anche rispondenti ai gusti dei giovani, che sono più propensi a vedere lo stesso
titolo più di una volta. Dato che l’obiettivo dei blockbuster è generare introiti elevati, risulta evidente la scelta di
rivolgersi maggiormente a questa fetta di pubblico. Tuttavia si inseriscono anche elementi che possano attirare
segmenti di pubblico minori. Dato che l’obiettivo delle major è produrre più guadagni possibili, a partire dagli anni
Sessanta esse sono diventate parte di ampie corporation mediatiche e hanno dato vita a sinergie con altre società per
massimizzare i profitti. I blockbuster, dunque, sono divenuti franchise, ovvero marchi soggetti a diritto d’autore da
sfruttarsi anche in altri settori, al fine di ottenere altri guadagni. Ciò può avvenire attraverso il merchandising oppure
può anche avvenire che si espanda il racconto del testo filmico attraverso sequel o prequel cinematografici, ma anche
attraverso fumetti, videogiochi, dando vita alle cosiddette ‘’narrazioni transmediali’’. Così facendo si mettono in rete
più media. Affinché quest’espansione del racconto possa avvenire è necessario che tali blockbuster presentino dei
buchi narrativi che possano essere colmati con testi successivi. Per essere sicuri di avere successo i blockbuster sono
spesso dei film ‘’prevenuti’’, ovvero fanno leva su un pubblico preesistente, presentando personaggi e vicende già
noti. Ciò non significa che non vi siano blockbuster la cui narrazione è originale, come ad esempio Star Wars. Le major,
tuttavia, non hanno tentato di eradicare la concezione regista-autore; al contrario l’hanno messa al servizio del
business in quanto si sono rese conto che il nome di un determinato cineasta poteva costituire uno strumento di
mercato utile. Di conseguenza sono stati tratti profitti da film già distribuiti, rimettendoli nelle sale con il director’s cut,
ovvero con il montaggio voluto dal regista, come nel caso di Blade Runner (1982, di Ridley Scott). L’industria
cinematografica ha trasformato i propri registi-autori in identità-marchio, ovvero in etichette capaci di generare certe
aspettative negli spettatori oppure per indurre investitori a finanziare un progetto-film. È importante sottolineare che
molti tratti dei blockbuster erano già presenti in pellicole appartenenti a decenni precedenti. La scelta d’investire
elevati budget nella realizzazione di film destinati ad un pubblico di massa si utilizzava anche per i kolossal biblici; la
differenza risiede nella distribuzione. Difatti prima di Jaws era in vigore il metodo del roadshowing, che prevedeva che
una pellicola venisse proiettata solo in un numero limitato di sale prestigiose per poi, quando diminuiva la domanda
per un titolo in quelle, proiettarla anche nei cinema di categoria inferiore, Con il film citato si inaugura un diverso
sistema di distribuzione, ovvero il saturation booking, che consiste nel distribuire da subito la pellicola nel maggior
numero possibile di sale cinematografiche, anticipandone l’uscita con un’intensa campagna promozionale che si
avvalga di tutti i media. L’obiettivo di tale strategia è consentire alle major di rientrare quanto prima nei costi di
produzione.

Star Wars

Si tratta di una pellicola che oggi viene considerata il blockbuster per eccellenza. Tale film è ambientato in una lontana
galassia e narra di come Luke Skywalker riesca a soccorrere la principessa Leila, la quale è stata rapita dai soldati
dell’impero. Star Wars narra dunque la classica favola dell’eroe chiamato a salvare la principessa, ambientandola però
in un universo lontano dal nostro. Mette in scena una vicenda che prosegue per rapporti di causa-effetto e i cui
personaggi sono privi di ambiguità; difatti Luke è il tipico eroe senza macchia ed è quindi lontano dai personaggi mai
pienamente positivi dell’Hollywood Renaissance. È inoltre chiara la contrapposizione tra personaggi buoni e
personaggi cattivi, difatti mentre i primi vengono individualizzati, i secondi sono un’indistinta massa. Vengono utilizzati
anche numerosi effetti speciali. Ecco che a livello pubblicitario si può insistere sull’unicità della vicenda e
dell’esperienza di visione offerta. Inoltre se il genere in cui si colloca questo film è quello della fantascienza e a
prevalere è la componente avventurosa, esso è percorso anche da un intreccio amoroso; nel pubblicizzare il film viene
evidenziato tale aspetto al fine di catturare l’attenzione del pubblico femminile. Viene inoltre proposto un
personaggio, quale il robot R2-D2, in cui anche i bambini possono identificarsi. Il film di Lucas è stato trasformato in un
franchise, commercializzando una serie di prodotti da esso derivati, quali action figure, giocattoli… la narrazione della
pellicola è stata espansa attraverso molti mezzi di comunicazione; ad esempio sono stati realizzati romanzi,
videogiochi, fumetti editi dalla Marvel Comics e anche una serie tv animata. È importante notare il fatto che Lucas, nel
1977, aveva già intenzione di estendere il racconto originario con altre pellicole. Ciò spiega la presenza, all’interno del
racconto, di diversi vuoti narrativi; tutto ciò è stato fatto in funzione di poter espandere la narrazione del film
utilizzando prequel, sequel o spin-off attraverso il mezzo cinematografico oppure altri media. Per quanto riguarda lo
stile, Lucas si è attenuto alle norme del découpage classico per favorire il viaggio immobile dello spettatore. E anche
quando è possibile riscontrare un’infrazione alla regola dei 180 gradi, come nella scena in cui Luke e Han Solo
scendono nel livello dove si trovano le celle per liberare Leila, tale scelta è subordinata alla narrazione e serve per
rappresentare un’idea di confusione. Star Wars è stata la prima pellicola a essere distribuita nel sistema sonoro Dolby-
stereo in modo da garantire allo spettatore un senso di immersione in quell’immaginario. Questo film è considerato lo
spartiacque fra il cinema moderno e quello postmoderno, tutt’oggi ancora in corso, in quanto esso risulta essere una
mescolanza fra innovazione (struttura narrativa frammentaria) e tradizione (contiene al suo interno omaggi e
riferimenti a pellicole precedenti).

Capitolo 15 Il restauro del film


Il cinema come oggetto materiale

Quando usiamo la parola ‘’film’’ possiamo intendere sia il racconto per immagini pensato per divertire, sia l’oggetto
che a questo racconto presta un supporto materiale. Il cinema nasce come spettacolo e come investimento, per tale
motivo si è avvertita la necessità di preservarlo come patrimonio culturale. Il germe delle politiche di conservazione è
stato gettato nel periodo del passaggio dal muto al sonoro in quanto è stato chiaro che questo cambiamento
tecnologico rischiava di rendere obsoleto tutto il cinema prodotto fino a quel momento poiché la produzione muta
difficilmente avrebbe offerto a produttori e distributori un ritorno economico. Se l’ottica fosse rimasta quella
esclusivamente commerciale ciò avrebbe causato la scomparsa di tutto il patrimonio cinematografico prodotto fino a
quel momento; dinanzi a tale rischio intellettuali e appassionati si organizzarono per promuovere il patrimonio filmico
come bene da conservare per il suo valore storico-culturale. Nel corso degli anni la copia di un film può essere stata
rimaneggiata e mutilata per fini differenti. Il cinema muto, in particolare, è facilmente manipolabile in quanto
l’assenza di colonna sonora lo rende più facile da rimontare. Spesso è in gioco la stessa sopravvivenza fisica delle
copie; le perdite non riguardano solo il passato più remoto, difatti sono diversi i film prodotti negli anni Settanta di cui
non sono sopravvissute copie in buono stato, anche perché la pellicola in uso in quegli anni è particolarmente instabile
chimicamente. Le proiezioni ripetute, inoltre, rompono la pellicola e l’umidità può farla ricoprire di muffa; oppure il
nitrato di cellulosa è infiammabile e spesso soggetto a processi di decadimento del colore e dell’immagine, mentre il
triacetato, che l’ha sostituito fino ai primi anni Novanta, si è rivelato soggetto al decadimento del colore e
dell’immagine. La storia del cinema è spesso una storia di perdite; se tutte le immagini in movimento si fossero
conservate, la loro mole sarebbe stata tale da impedirne l’interpretazione. La morte dei film, dunque, opera una sorta
di selezione. Questa selezione dura ancora oggi; non bisogna credere che l’avvento del digitale abbia risolto il
problema della conservazione, difatti non è ancora possibile conoscere quali problemi di decadimento presenteranno i
nuovi supporti e in più la velocità con cui le tecnologie si evolvono rischia di renderli obsoleti. Le case di produzione,
per tale motivo, stampano in pellicola la copia di conservazione anche dei film girati in digitale. Le copie di un film
antico hanno quasi sempre attraversato una storia di manipolazioni e decadimento fisico. Se il primo obiettivo del
restauro è restituire al film la possibilità di essere fruito da un pubblico contemporaneo, lo scopo sarà anche
ricostruire l’esperienza di visione del passato, reintegrando quelle stesse caratteristiche.

Un po’ di storia

Il concetto di restauro filmico è relativamente recente. Il periodo che va dalla nascita delle cineteche fino al secondo
dopoguerra può considerarsi una fase latente, in cui le copie proliferano senza che questa pratica venga ricondotta a
prassi conservative. A partire dagli anni cinquanta è possibile individuare due fasi nello sviluppo della pratica del
restauro: la prima fase può essere collocata tra la fine della guerra e gli anni Settanta. Negli anni Settanta la
sostituzione del nitrato di cellulosa con il triacetato di cellulosa causa mete a rischio la circolazione delle pellicole
prodotte fino a quel momento. Per poter continuare a fruire dei film del passato, occorreva duplicare le copie nitrato
su pellicole safety. Tale procedimento comportava dei costi e approdava a risultati di qualità inferiore. Allora è stato
necessario fare delle scelte: davanti a un’ingente mole di film che rischiavano di sparire, molti decisero di sacrificare la
qualità, duplicando il più possibile. Difatti i film muti spesso venivano preservati in bianco e nero, privi così di quelle
belle colorazioni di un tempo. Ancora più grave risulta essere il fatto che, dopo le ristampe, gli originali in nitrato
venissero distrutti per motivi di sicurezza. La conseguenza di una politica di conservazione di questo tipo è stata
l’affermarsi di pregiudizi, come l’idea secondo cui i film muti fossero noiosi, mal girati e poveri di dettagli. Tuttavia, in
molti casi, è stata proprio la scelta di puntare sulla quantità rispetto che alla qualità a permettere di salvare titoli che
oggi sarebbero stati persi. Il periodo tra gli anni Cinquanta e Settanta ha avuto il merito di rimettere in circolo i vecchi
film, sia per venire incontro alle istanze delle nuove generazioni che si ispiravano al cinema delle nouvelles vagues, sia
per far fronte all’introduzione dell’innovazione della televisione, che ha mutato il film in se stesso, adattandolo alle
esigenze del nuovo medium. Molti film sono stati adattati al passaggio televisivo subendo tagli e rimaneggiamenti. Le
copie in bianco e nero degli anni Trenta, ad esempio, sono state sottoposte ad una colorizzazione elettronica per
renderle più moderne. Il cinema muto, in particolare, è stato particolarmente soggetto a manomissioni; ad esempio, la
riproposta delle comiche dei primi Novecento in televisione ha instillato negli spettatori la convinzione secondo cui le
corse pazze e i movimenti a scatti, che molti considerano marchio caratteristico del primo cinema, sono in realtà
effetto di una manipolazione. Alla fine degli anni Settanta si è aperta una nuova fase nella storia del restauro
cinematografico, una fase che ha visto la nascita e lo sviluppo di prassi ispirate ai principi del restauro dell’arte e della
filologia. È in questo periodo che si scopre l’importanza di fonti extra-filmiche, sceneggiature, appunti di lavorazione…
inoltre il cinema restaurato comincia a trovare spazi di distribuzione anche in festival a lui dedicati. Altri elementi che
hanno contribuito a determinare tale svolta filologica sono: il nuovo entusiasmo della comunità scientifica per il
cinema delle origini che ha seguito il convegno di Brighton del 1978; la fioritura dell’analisi filmica nelle università;
l’aggravarsi del decadimento nelle copie più antiche; e le nuove possibilità di sfruttamento economico offerte
dall’home video, che hanno fondato i presupposti per una nuova cinefilia. Oggi siamo alle soglie di una fase nuova
determinata dall’avvento del digitale. Dal 2014 i distributori non propongono più agli esercenti copie in pellicola delle
nuove uscite, se non previo sovrapprezzo e molti registi iniziano a preferire la ripresa digitale. Anche questa nuova
svolta potrebbe mettere in pericolo la conservazione di molta parte dei film dell’ultimo secolo, destinati a divenire
obsoleti e invisibili.

Le specificità del restauro del film

La disciplina del restauro, trent’anni fa, era tutta da inventare e gli studiosi hanno cercato di rifarsi a termini e concetti
già rodati nelle tradizioni di restauro delle arti plastiche, focalizzandosi, in particolare, sull’opera di Cesare Brandi, tra i
principali teorici del moderno restauro d’arte. Il restauro cinematografico ha delle peculiarità utili da sottolineare:
innanzitutto la copia restaurata è diverso dai materiali di partenza; in secondo luogo è difficile interpretare in modo
univoco il concetto di ‘’originale’’. Il restauro cinematografico, al contrario di quello dei manufatti artistici, si pone
come obiettivo la stampa di una copia, ovvero la creazione di un oggetto nuovo; ciò implica che il contenuto del film
sia tradotto su un supporto che non sarà lo stesso di quello di partenza. La pellicola prodotta in epoca moderna è
tutt’altro rispetto a quella di inizio secolo; si tratta di differenze che si traducono anche dal punto di vista visivo: la
diversa sensibilità delle pellicole moderne, ad esempio, rende una gamma di sfumature molto maggiore. Con l’avvento
del digitale, la distanza tra prodotto del restauro e oggetto originale si acuisce sempre di più a causa del grado di
manipolazione cui può essere soggetta l’immagine elettronica. Un’altra differenza sostanziale rispetto al restauro delle
arti figurative consiste nel fatto che i film sono da sempre stampati e distribuite in più copie. Queste ultime non sono
esattamente identiche fin dall’inizio, ma col passare degli anni le differenze si accentuano di più. È difficile dunque
stabilire qual è l’originale. Nella sua opera fondamentale, Teoria del restauro, Brandi raccomanda la reversibilità,
ovvero le modifiche apportate all’opera devono poter essere chiaramente individuabili e rimovibili, al fine di
preservare le caratteristiche originali. Ciò è impossibile da applicare al cinema in quanto la copia restaurata è un
oggetto diverso da quello di partenza. Nel caso del film il principio della reversibilità viene tradotto in pratiche che
mantengono lo spirito delle indicazioni di Brandi: occorre preservare, anche dopo il restauro, la sopravvivenza fisica
degli originali in nitrato. Tuttavia, nei decenni passati, dopo le ristampe, i nitrati, ancora più infiammabili con
l’avanzare del decadimento, sono stati bruciati per motivi di sicurezza. L’impossibilità di identificare un originale si
risolve nella necessità di indicare quale sia la copia oggetto del restauro. Di solito si sceglie quella della prima
proiezione pubblica nel paese di produzione. Può essere tuttavia legittimo lavorare per preservare una versione
straniera o una riedizione di epoca successiva.

Preservare, restaurare, ricostruire

Proporre una definizione di restauro non è semplice, tuttavia si possono individuare tre macro-tipologie di processi
riconducibili alla preservazione delle immagini in movimento:

La preservazione è un intervento di duplicazione senza modifiche al materiale di partenza.

Il restauro è una duplicazione che prevede la correzione e il reintegro di aspetti compromessi nelle copie di partenza.

La ricostruzione è una forma di restauro che tenta di ricostruire la struttura originale del testo di riferimento
attraverso variazioni di montaggio oppure ricostruzioni di didascalie.

La scelta di quale tra questi interventi sia il più adatto varia caso per caso.

Molte scelte che si compiono anche nei restauri più accurati non possono considerarsi certezze quanto piuttosto
ipotesi. Saper valutare quale sia l’opzione può essere una delle scelte più difficili per il restauratore. Allo stesso tempo
il fatto che non ci sia un accordo unanime sulla definizione di restauro permette di giocare con le parole; ad esempio
ciò che per fini commerciali viene presentato come restauro può essere molto spesso una semplice duplicazione.

La caccia al tesoro

Quando si decide di restaurare un film, la prima cosa da fare è cercare sue tracce in giro per il mondo, procedendo ad
una verifica della ‘’reperibilità’’ delle copie. Si tratta di una specie di caccia al tesoro volta a trovare dove sono le copie
ancora esistenti di quel titolo e in che condizioni versano. Tale ricerca può dare risultati sorprendenti come nel caso di
Metropolis. Nel 2001 il conservatore Enno Patalas ne ha licenziato la versione restaurata. Nel 2008, però, un archivista
argenti ha analizzato con attenzione un 16 mm del film conservato da un collezionista privato, individuando più di
mezz’ora di immagini sconosciute. Ciò succede in quanto i film viaggiano e non dobbiamo stupirci se molti titoli del
muto italiano siano sopravvissuti solo in copie con didascalie olandesi. Ciò si deve al fatto che Jean Desmet,
importante distributore olandese attivo negli anni più importanti del cinema muto, tenne il proprio archivio di
pellicole senza smembrarlo. Dal 1938 gli archivi più importanti del mondo si sono costituiti in un’organizzazione di
coordinamento, dando vita alla FIAF. Con gli anni le relazioni si sono intensificate, sfociando nelle pubblicazioni di un
archivio online consultabile dai soci, in cui sono inseriti i dati minimi di tutti i film prodotti all’epoca del muto. In molti
casi la copia sopravvissuta è solo una; in altri casi ci si trova davanti a un gruppo di positivi, negativi e frammenti
sparpagliati nel mondo. La ricerca si concentra anche sui materiali extra-filmici.

L’iter di restauro

Le valutazioni di ordine economico e i risultati dell’indagine di reperibilità sono gli elementi più importanti per
determinare l’iter da seguire in un restauro. Un elemento assai importante è il découpage, un documento che servirà
da riferimento ai tecnici per tutte le fasi della lavorazione, in cui si segnala da quale fonte verrà presa ogni
inquadratura del film, quali modifiche dovrà subire e quali parti andranno ricostruite. La lavorazione del restauro di
solito avviene nei laboratori. Nella maggior parte dei casi si tratta di realtà commerciali, la cui attività principale è
concentrata sulle nuove produzioni (pubblicità); tuttavia esistono anche dei laboratori specializzati. Ciò è assai
importante in quanto, ad esempio, nel caso della fase del color correction digitale, ovvero della regolazione del colore,
un colorist abituato a lavorare per la pubblicità sarà maggiormente influenzato dagli standard cromatici del suo
tempo. Una persona abituata a lavorare sul restauro saprà individuare al meglio la reference per il colore. La prima
fase di lavoro in laboratorio consiste nella riparazione delle copie d’epoca, che bisogna mettere nella condizione di
essere duplicate. Quanto più le copie sono antiche, tanto più l’intervento è delicato. Per lavorare alla riparazione
occorre amare molto il film come oggetto materiale e occorre fare attenzione a non compiere interventi troppo
invasivi. A questo punto le possibilità di intervento seguono due strade molto diverse a seconda che sia deciso di
procedere in analogico o in digitale. Nel primo caso, una volta riparata la copia individuata come matrice, si procede
alla stampa. Una volta stampato il controtipo negativo, se il film prevede l’utilizzo di fonti diverse per il restauro
(collazione), con i materiali stampati verrà montato il controtipo matrice di riferimento secondo lo schema individuato
dal découpage. Oggi invece è sempre più diffusa la scelta di intervenire digitalmente, In questo caso la pellicola verrà
scansionata, ovvero trasformata in una serie di file (digital intermediate) sottoposti a pulizia grazie a determinati
software. In seguito il film potrà essere trasferito nuovamente su pellicola, se il restauro prevede una copia analogica
(file recording), o rimanere in formato digitale. Questo tipo di intervento comporta ance dei rischi. Il recente restauro
di un programma Lumière presentava immagini troppo definite e perfette che sembravano quasi quelle a cui noi
siamo abituati oggi; dunque ci sorge spontaneo chiederci se tutto ciò non sia altro che una forzatura.

Filologia e spettacolo

Il lavoro di restauro vive davvero quando riesce a incontrare un suo pubblico, indipendentemente dal fatto che ciò
accada in sala, attraverso un dvd, on line… tra le nuove modalità di fruizione non ve n’è alcuna all’altezza della visione
in sala. Spesso occorre una mediazione con i modi della contemporaneità, dal momento che le occasioni per vedere i
film in sala sono davvero pochissime. L’impegno durante il lavoro di restauro deve convergere con uno sforzo di
immaginazione da parte dello spettatore, volto a ricostruire mentalmente come quello stesso film doveva apparire
proiettato sul grande schermo. L’immaginazione è necessaria anche perché il restauro cinematografico insegue il
sogno utopico di far rinascere il passato e garantire la medesima esperienza di visione di quella di un tempo. Ciò è
impossibile soprattutto per il fatto che a essere mutato è il pubblico. Il restauro ha una doppia funzione: da un lato ci
permette di godere nuovamente del cinema del passato semplicemente come spettacolo, dall’altro la sua funzione è
legata all’ambito filologico: cercare di riprodurre film del passato nella loro integrità ci invita a fare uno sforzo di
immaginazione, inducendoci a metterci nei panni di chi, davanti a quei film ha riso, pianto o tremato.

Il linguaggio cinematografico
Ogni ripresa cinematografica si basa sulla messa in quadro, che consiste nella scelta della porzione dello spazio da
includere entro i bordi del quadro. Tale spazio è denominato campo, mentre la parte complementare è denominata
fuori campo. Tutto ciò che occupa il fuori campo esiste nel mondo della finzione (appartiene alla diegesi) e molto
spesso interagisce con ciò che è in campo. Ad esempio un personaggio fuori campo può parlare con uno in campo, o
viceversa. La dialettica che si viene a creare tra campo e fuori campo è ulteriormente complicata dai cambi di
inquadratura conseguenti a stacchi di montaggio o a movimenti di macchina che modificano la porzione di spazio
inclusa nel quadro. I concetti di campo e fuori campo si riferiscono allo spazio della finzione scenica. Davanti al campo
ci sono un regista, una mdp e tutto ciò non appartiene al mondo della finzione, cioè alla diegesi, bensì a quello del
reale della produzione. Per distinguere lo spazio diegetico da quello reale si usa parlare di fuori quadro. I riferimenti al
fuori quadro sono estremamente rari in quanto tutta la tradizione del cinema classico tende a farne dimenticare
l’esistenza per salvaguardare l’efficacia dell’illusione diegetica.

La scala dei campi e dei piani

I diversi tipi di inquadrature che si possono realizzare vengono distinti in base alla distanza che separa un elemento
profilmico (attore, oggetto…) dal punto di vista dal quale è osservato. Si tratta però di una scalatura non priva di
problemi. In primo luogo definizioni e utilizzo del lessico non coincidono nelle diverse lingue; un secondo problema
deriva dal fatto che le inquadrature del film non rispettano necessariamente quelle catalogate nella scala dei piani.
Quest’ultima descrive inquadrature statiche e in caso contrario si possono produrre nella medesima inquadratura
variazioni scalari. Sebbene si utilizzi la locuzione ‘’scala dei piani’’ per definire le singole tipologie di inquadratura si
distingue tra ‘’campi’’ e ‘’piani’’. I campi riguardano quel tipo di inquadratura nella quale viene lasciata al paesaggio
una porzione significativa di spazio; i secondi definiscono quel tipo di inquadratura in cui il personaggio prevale sullo
spazio che lo circonda. I campi si distinguono in:

campo lunghissimo: si tratta di un’inquadratura nella quale il paesaggio risulta dominante e suggerisce un’estensione
infinita oltre la linea dell’orizzonte.

Campo lungo: il paesaggio mantiene una posizione centrale nell’inquadratura, ma il personaggio si distingue meglio da
ciò che lo circonda.

Campo medio: presenta il personaggio in modo ancora più ravvicinato, tanto da fargli occupare fino a metà della
verticale del quadro.

Campo totale: si applica esclusivamente a riprese di interni che mostrino l’ambiente nella sua interezza, inclusi tutti i
personaggi che lo occupano. In alcuni casi il campo totale può essere utilizzato in funzione di piano d’ambientazione
(o establishing shots), ovvero quel tipo di inquadratura che offre allo spettatore una ripresa d’insieme della scena, in
modo da introdurlo gradualmente in un nuovo ambiente.

Campo semitotale: si tratta di un’inquadratura che riprende solo una parte di ambiente interno.

I piani, invece, si distinguono in:

figura intera: il personaggio è ripreso nella sua interezza.

Piano americano: il personaggio è ripreso dal ginocchio in su.

Mezza figura: il personaggio è inquadrato dalla vita in su,

Mezzo primo piano: il personaggio è inquadrato dal petto in su.

Primo piano: il personaggio è inquadrato dalle spalle in su.

Primissimo piano: viene ripreso solo il volto dell’attore.


Particolare: si distingue dal dettaglio; il particolare, difatti si tratta di riprese ravvicinate di parti del corpo umano,
mentre il dettaglio si tratta di riprese ravvicinate di un oggetto.

La scala dei piani inizia a essere messa a punto in parallelo al lento formarsi del découpage classico. Il cinema delle
origini mostrava, difatti, una tendenza a mantenere il personaggio a una certa distanza. Man mano che si iniziano ad
integrare nella narrazione i piani ravvicinati, essi acquistano nuovi significati. In particolare nei film di Griffith essi
vengono sfruttati per approfondire la psicologia dei personaggi. Infine i piani ravvicinati servono per distanziare lo stile
di recitazione dell’attore cinematografico da quello teatrale. Quando i piani ravvicinati iniziano ad essere ricorrenti,
negli anni Dieci, si inizia anche a classificare i tipi di inquadrature.

La distanza della macchina da presa può essere significativa; ad esempio contrapponiamo il mondo in cui il regista
hollywoodiano DeMille e un autore europeo quale Dreyer rappresentano il rogo di Giovanna D’Arco nei loro film.
DeMille, in Joan the Woman, riprende la scena dell’esecuzione alternando inquadrature che variano tra il campo
medio e il piano americano. I campi medi e i campi lunghi, a cui non rinuncia, servono a collocare il personaggio nel
contesto della scena, ma anche ad esibire la grandiosità della scenografia. Egli si limita ai piani americani e quando si
avvicina al personaggio DeMille lo fa in funzione drammatica e non in funzione psicologica. Al contrario Dreyer
costruisce il suo La passion de Jeanne d’Arc su un uso del primo piano e dei piani ravvicinati in quanto vuole
evidenziare la dimensione umana. Dreyer non ha alcuna intenzione a valorizzare la scenografia e isola il dramma
interiore del personaggio ricorrendo alla mezza figura e ai primi e primissimi piani.

Angolazione, inclinazione e altezza

I differenti tipi di inquadrature si possono distinguere anche in base all’angolazione, all’inclinazione e all’altezza della
macchina da presa; anche in questi casi le gradazioni sono infinite, ma si ricorre ad alcune classificazioni convenzionali.

Il cinema classico privilegia le inquadrature che simulano la normale visione umana al fine di ottenere un’ uniformità
che contribuisce a far sì che lo spettatore si dimentichi del fatto che ciò che vede è messo in scena per lui.
L’angolazione della macchina da presa, ovvero l’incidenza dell’asse della cinepresa rispetto al profilmico, può dare
origine a diversi tipi di inquadratura. In quella frontale la macchina da presa è posta alla medesima altezza dell’oggetto
inquadrato e di fronte ad esso. Collocando la mdp più a destra o a sinistra dell’oggetto si ottengono delle inquadrature
laterali; collocandola in basso o in alto, invece, si ottengono inquadrature dall’alto (plongée o picchiate) e dal basso (o
cabrate o contre-plongée).

L’inclinazione è il rapporto tra l’asse della mdp e l’orizzonte. L’inquadratura, dunque, può essere solo di due tipi: in
piano o inclinata. Le inquadrature inclinate sono assai rare e sono legate alla soggettiva di un personaggio. Infine
l’altezza può variare a seconda che la mdp sia collocata più in alto o più in basso della linea ideale dello sgaurdo.

Soggettive e oggettive

La soggettiva è l’inquadratura che ci mostra qualcosa dal punto di vista percettivo di un personaggio. Occorre che
siano rispettate la direzione dello sguardo del personaggio e la distanza che lo separa da ciò che sta guardando;
dunque la mdp dovrebbe occupare la stessa posizione della testa del personaggio, con i cui occhi lo spettatore è
chiamato a guardare qualcosa. L’evoluzione verso la soggettiva vera e propria è stata lenta e graduale quanto il
passaggio dal cinema delle origini a quello istituzionale. All’inizio, difatti, lo sguardo era rappresentato non curando
minimamente la distanza o la direzione, in quanto l’obiettivo era mostrare ciò che il personaggio stava guardando.
Perché si arrivi a mettere a punto la soggettiva occorre che lo sguardo rientri nell’articolazione narrativa del film, come
accade nel cinema classico, che è solito far precedere e/o seguire la soggettiva da un’inquadratura del soggetto che
guarda: la soggettiva, in questo caso, rappresenta anche una forma di raccordo. Dove manca un raccordo lo spettatore
intuisce quando si trova di fronte a una soggettiva grazie a una serie di marche formali convenzionali che spesso la
accompagnano. Di solito si tratta di:

mascherini: riproducono la forma di un mezzo che si frappone tra l’oggetto osservato e lo sguardo che gli è rivolto.

Interventi ottici: segnalano la percezione alterata che un personaggio ha della realtà.

Interventi sonori come respiri affannosi, battiti cardiaci che accompagnano la soggettiva nei film horror o nei thriller.

Movimenti di macchina che imitano il ruotare della testa o degli occhi o lo spostamento del personaggio.
A differenza della soggettiva, l’inquadratura oggettiva non coincide con lo sguardo di un personaggio. La maggior parte
degli studiosi, in questo caso, è concorde nel chiamare in causa il concetto di narratore. Secondo Gaudreault al
narratore cinematografico spettano due compiti: quello della narrazione vera e propria, ovvero la costruzione
dell’intreccio tramite la concatenazione dei segmenti narrativi che lo compongono (montaggio); e quello della
visualizzazione, ovvero la messa in quadro del profilmico. A questo narratore sono da attribuire tutte le inquadrature
del film. Nel caso in cui ci si trovi di fronte ad una soggettiva, il narratore delega temporaneamente la funzione del
racconto e della visualizzazione ad un dato personaggio. Tra narratore e personaggio sono possibili diversi livelli di
interscambio e si può distinguere fra quattro forme di inquadratura oggettiva:

oggettiva neutra: il narratore gestisce in modo assoluto (slegato da qualsiasi relazione diretta o indiretta con un dato
personaggio) la visualizzazione per mostrare allo spettatore ciò che inquadra.

Oggettiva orientata: il narratore segna in modo più vistoso la sua presenza, ad esempio scegliendo in modo inconsueto
la posizione della mdp. Lo sguardo del narratore, tuttavia, non è in relazione con alcun personaggio.

Focalizzazione psicologica: il narratore non adotta il punto di vista di un personaggio, ma riflette la percezione che tale
personaggio ha di un dato evento tramite interventi che possono interessare la visualizzazione, la dimensione sonora
oppure il montaggio.

Soggettiva libera indiretta: la definizione è di Pasolini. Essa si ha nel momento in cui il narratore adotta nel racconto
tratti che possono essere riferiti al personaggio.

Tra soggettive e oggettive vi sono anche delle gradazioni intermedie. In particolare, si parla di semi-soggettiva nel caso
dell’inquadratura in cui vediamo ciò che sta vedendo un personaggio, ma allo stesso tempo anche il personaggio
stesso. Si possono avere anche soggettive apparenti, false o senza soggetto. Si tratta di quelle inquadrature che
sembrano soggettive, ma non lo sono perché nessuno sta guardando; oppure di quelle inquadrature che iniziano in
soggettiva ma trascolorano in oggettive. Ciò accade quando vengono alterate la distanza o la direzione o quando il
personaggio che stava guardando entra in campo.

Sono accostabili alla soggettiva anche le immagini mentali o interiori di un personaggio (pensieri, ricordi, sogni,
visioni). Quando si rappresentano immagini mentali viene mostrato anche il soggetto che le produce.

I movimenti di macchina

Nei primi tempi della sua storia, il cinema è un movimento riservato agli elementi del profilmico. La macchina da presa
impara a muoversi gradualmente, portando con sé lo spettatore fino ad arrivare in quello che viene definito
‘’assorbimento diegetico dello spettatore’’, ovvero quest’ultimo viene introdotto nel mondo del racconto, di cui è
testimone invisibile. I movimenti di macchina contribuiscono in misura determinante all’illusione di tridimensionalità
del quadro ed essi sono riconducibili a poche tipologie fondamentali:

panoramica: essa fu inventata da Robert W. Paul la macchina da presa è montata su un cavalletto e ruota sul proprio
asse. La panoramica può essere, a seconda del movimento compiuto, orizzontale (destra o sinistra), verticale (alto-
basso) oppure diagonale (modo misto). Quando la mdp compie su di sé una rotazione di 360° si parla di panoramica
completa; siamo di fronte ad una panoramica a schiaffo per descrivere un movimento talmente rapido da non rendere
percepibili le inquadrature intermedie. Una funzione ricorrente della panoramica è quella di descrivere un ambiente
come se un personaggio lo osservasse ruotando il capo. Essa può anche essere utilizzata per collegare due
inquadrature.

Carrellata: è un movimento che la mdp compie senza mutare posizione rispetto al proprio asse e dopo essere stata
montata su un carrello che scorre su binari. Una delle prime carrellate della storia del cinema fu realizzata da un
operatore dei fratelli Lumière, Alexandre Promio, che aveva sistemato l’apparecchio su una gondola a Venezia.

Zoom: si tratta di un movimento in cui la mdp rimane immobile, limitandosi a sfruttare la variazione della distanza che
si può ottenere grazie ad un gioco di lenti particolari. Si ottiene uno spostamento del punto di ripresa analogo a quello
della carrellata in profondità, tanto che lo zoom è anche definito carrellata ottica.

Macchina a mano o a spalla: la mdp è mossa in libertà dall’operatore. Questo genere di ripresa produce un effetto
tremolante. La macchina a mano è stata spesso utilizzata come equivalente di un effetto verità in quanto sembra
ricondurre a una rappresentazione improvvisata per cogliere la realtà. Negli anni Sessanta l’avvento delle attrezzature
leggere ha prodotto una diffusione dell’uso della macchina a mano nel cinema verità, con conseguenze anche sul
cinema di finzione, nel quale simula l’effetto realtà di un reportage.

Steadicam: si tratta di una mdp legata al corpo dell’operatore che consente di coniugare l’agilità di una macchina a
mano con la stabilità del quadro e la fluidità dei movimenti propri di un tradizionale carrello.

Ovviamente i diversi movimenti possono essere incrociati e sommati grazie a particolari attrezzature, come nel caso
del dolly o della gru. Lo scenario di tali movimenti oggi è particolarmente ricco grazie all’avvento del digitale, che
permette di creare movimenti di macchina virtuali.

I movimenti possono essere classificati anche in base alla loro funzione. Si distinguono i movimenti motivati o
subordinati, che producono refraiming o reinquadratura, volti a seguire oggetti che si muovono; e movimenti
indipendenti, non motivati, liberi, che sono dovuti a ragioni estetiche. I movimenti possono rappresentare
un’alternativa al montaggio (si parla di montaggio interno all’inquadratura), sia collegando due quadri tramite un
movimento al posto di uno stacco, sia sostituendo una particolare forma di montaggio, ad esempio quello analitico,
portandoci a notare elementi significativi dello spazio. Il movimento può dunque isolare un elemento dello spazio, o
partire da esso per rivelare lo spazio che lo circonda.

Il montaggio

Le inquadrature vengono collegate tra di loro tramite il montaggio, termine con cui si intende il processo con cui i
segmenti di pellicola impressionata vengono selezionati, tagliati e incollati tra loro. I primi montatori ricorrevano a
forbici, matite a cera e colla. A partire dal 1918 vennero costruite postazioni più sofisticate per facilitare il montaggio e
vennero introdotti i primi prodotti di moviola (tavoli da montaggio dotati di un piccolo visore che permette di
controllare immediatamente i risultati del lavoro). Negli ultimi anni si è invece diffuso il montaggio digitale. Le funzioni
del montaggio sono:

articola l’intreccio mettendo in successione le inquadrature per costruire le diverse sequenze.

Determina il ritmo stabilendo la durata delle inquadrature e la loro successione. Nel caso in cui le modificazioni del
ritmo siano accordate alle oscillazioni emotive di un personaggio, il montaggio può contribuire alla focalizzazione
psicologica.

Fissa il significato: il senso della singola inquadratura può essere determinato dall’inquadratura che la precede o
segue.

La pellicola
La pellicola è un nastro di materiale plastico costituito da un supporto su cui è steso uno strato di sostanza
fotosensibile, l’emulsione. Sulla pellicola, in fase di ripresa, vengono impressionate immagini fisse, i fotogrammi.
Dopo l’avvento del sonoro, lo standard prevede l’impressione di 24 fotogrammi al secondo; all’epoca del muto il
numero di fotogrammi ripresi non poteva scendere sotto i 16. La pellicola è stata inventata da George Eastman Kodak
ed essa rispondeva a tre caratteristiche indispensabili per il cinema: trasparenza, flessibilità e sensibilità.

Trasparenza: la luce doveva poter attraversare la materia da impressionare e, in seguito, le immagini da proiettare.

Flessibilità: l’immagine in movimento si crea attraverso il rapido susseguirsi di fotogrammi fissi davanti agli occhi dello
spettatore. La pellicola, se adeguatamente perforata, poteva curvarsi, piegarsi e agganciarsi a ingranaggi che la
trascinassero alla velocità desiderata.

Sensibilità: l’emulsione fotografica utilizzata per le foto alla fine dell’Ottocento aveva raggiunto una sensibilità che
permetteva un tempo di posa brevissimo e buona qualità di riproduzione.

Il supporto

Molti elementi compositivi della pellicola hanno subito un’evoluzione nel corso della storia. Innanzitutto a cambiare è
stata la composizione chimica di cui è costituito il supporto:

pellicola in nitrato di cellulosa (celluloide): fino agli anni Cinquanta ha costituito il supporto della pellicola
cinematografica. È un materiale plastico trasparente, flessibile e resistente, ma anche molto infiammabile. A causa di
quest’ultima caratteristica si verificarono molti incidenti: il più noto è l’incendio al Bazar de la Charité a Parigi nel 1897,
un evento di beneficienza che prevedeva una dimostrazione dell’apparecchio Lumière.

Pellicola in triacetato (ininfiammabile). Inizialmente venne sperimentatala pellicola ininfiammabile in acetato per
ovviare ai pericoli implicati dall’infiammabilità del nitrato. Dapprima essa era utilizzata per i film destinati ad un utilizzo
didattico o casalingo, che però non offrivano una qualità dell’immagine paragonabile a quella del nitrato. All’inizio
degli anni Cinquanta si è arrivati a ritenere che il triacetato di cellulosa potesse sostituire il nitrato come supporto
standard. Col passare degli anni divenne chiara l’instabilità della pellicola in triacetato e il fatto che crei molti problemi
soprattutto a livello del colore, che può ridursi a un’omogenea tinta magenta. Il supporto acetato è inoltre soggetto
alla sindrome dell’aceto, una forma di decadenza chiamata così a causa dell’odore della pellicola dopo il rilascio di
acido acetico. Tale sindrome è inoltre contagiosa.

Pellicola in poliestere (ininfiammabile): essa ha ovviato, dagli anni Novanta, ai problemi di instabilità del triacetato.

L’emulsione

Si tratta di una gelatina organica sensibile alla luce, su cui si imprimono le immagini. Anche le caratteristiche
dell’emulsione della pellicola possono influenzare profondamente l’aspetto di un film. Le prime emulsioni, ad
esempio, necessitavano di una luce molto forte per impressionare le immagini, per tale motivo i direttori di scena
giravano solo con la luce naturale. Importanti furono anche:

l’emulsione ortocromatica: in voga fino agli anni Venti. Essa era sensibile ad un raggio limitato di colori (ultravioletti,
viola, blu…). Sullo schermo queste caratteristiche si traducevano in immagini dai contrasti forti, con ombre scure ed
effetti indesiderati. Per tale motivo gli attori dovevano avere un trucco innaturale e pesante. Essa, inoltre, era
particolarmente adatta a supportare le tecniche di colorazione meccaniche più diffuse in epoca muta, l’imbibizione e il
viraggio.

La pellicola pancromatica, invece, è sensibile a tutto lo spettro del colore. Tra i primi lungometraggi girati con negativo
pancromatico si ricorda The Headless Horseman (1922). Tale pellicola consente di riprodurre una ricca tavolozza di
sfumature del grigio.

Il formato

Si definisce formato la larghezza della pellicola espressa in millimetri. Il formato standard è il 35mm. Il nastro plastico
di 35 mm doveva avere 4 perforazioni per lato, in corrispondenza di ogni fotogramma. Questa forma rispondeva a
diverse esigenze:

Resistenza: le perforazioni dovevano essere in numero sufficiente per permettere alla pellicola di scorrere nel
proiettore senza rompersi e mantenendo la continuità.

Praticità: la pellicola doveva essere comoda da maneggiare, movimentare.

Definizione: era necessario che l’area dell’immagine della pellicola fosse abbastanza grande da permettere una buona
resa di proiezione.

Nel corso della storia, tuttavia, sono stati sperimentati diversi tipi di formati: i cosiddetti formati ridotti e i grandi
formati. I primi permettevano di avere uno strumento più maneggevole, facile da trasportare. Di solito questo tipo di
formato era dedicato alla produzione e alla distribuzione non professionale. I piccoli formati fornivano anche il
vantaggio di essere stampanti su un supporto infiammabile. Tuttavia, le piccole dimensioni non favorivano una buona
definizione nella fase di proiezione. Uno dei primi formati è stato il 28mm, prodotto dalla Pathé nel 1912, cui è seguito
il 9,5 mm o Pathé Baby nel 1922. Quelli di maggior successo sono stati però il 16 mm e il Super8. Il 16 mm è stato
messo in commercio dalla Kodak nel 1923; inizialmente prevedeva perforazioni da entrambe le parti, ma a partire
dagli anni Trenta un lato è stato utilizzato per la colonna sonora.

Negli anni Sessanta, a seguito del boom economico, il cinema amatoriale ha subito una grossa espansione. A grande
richiesta, nel 1965, la Kodak ha introdotto il Super8, formato simbolo dell’home video. Si trattava di un’evoluzione
dell’8 mm; le perforazioni erano state rimpicciolite e una parte più ampia del fotogramma era dedicata all’immagine.
Per quanto riguarda i grandi formati, negli anni Cinquanta e Sessanta i produttori hanno cercato di offrire
un’alternativa migliore alla televisione, esaltando così la spettacolarità della proiezione in sala attraverso un incentivo
a sperimentare il colore, il 3d, i formati panoramici e i formati che garantissero una definizione delle immagini più alta.
Tra tutti i grandi formati il 70 mm era il più diffuso: esso garantiva una qualità di visione almeno quattro volte
superiore al 35 mm. Tuttavia la sua lavorazione era assai costosa e l’attrezzatura di proiezione è sempre meno diffusa.
Malgrado le difficoltà, tuttavia, anche nel nuovo secolo digitale alcuni registi hanno optato per il 70mm. Quest’ultimo
è stato il grande formato più diffuso, ma non l’unico. Ricordiamo, infatti, il Vistavision, che faceva scorrere una
pellicola di 35 mm nel proiettore orizzontale. Un esperimento particolarmente suggestivo è stato quello del Cinerama,
un sistema basato sulla contemporanea proiezione di tre pellicole sincronizzate su uno schermo ricurvo, al fine di far
sentire lo spettatore avvolto dalle immagini proiettate. Esso venne laniato nel 1952 con il film This is Cinerama
( Merian C. Cooper).Questo sistema, tuttavia, non ha avuto successo a causa dei costi eccessivi e dei problemi della
sincronizzazione degli schermi diversi. Il più recente sistema analogico ad alta definizione è l’IMAX (IMage MAXimum),
che sfrutta il principio alla base del Vistavision, prevedendo lo scorrimento orizzontale in macchina di una pellicola di
70 mm. I costi sono però altissimi e la capienza delle sale apposite ridotta, dunque tale esperienza rimarrà sempre
ridotta.

L’aspect ratio

Esso indica il rapporto tra altezza e lunghezza dell’immagine cinematografica, ovvero determina la forma del
rettangolo che appare sullo schermo in proiezione. Esso influisce sulla distribuzione degli elementi del quadro e sulle
scelte stilistiche di un film. Per quanto concerne l’evoluzione, in epoca muta la prassi era quella di sfruttare tutto lo
spazio disponibile sul fotogramma, ottenendo una relazione di 1:1,33. Con l’avvento del sonoro è stato necessario
riservare una parte dello spazio su pellicola alla colonna registrata, per cui la forma dei primi talkie sarebbe risultata
quadrata se l’Academy of Motion Picture Art and Science non avesse stabilito il formato Academy, ovvero 1:1,37.
Negli anni Cinquanta, al fine di evidenziare la spettacolarità del cinema, si imposero aspect ratio panoramici, in cui la
lunghezza del quadro era assai maggiore rispetto alla larghezza. In Europa il formato più diffuso era 1:1,66, mentre
americani e inglesi preferivano 1:1,85. Ridurre ulteriormente l’altezza dell’immagine sulla pellicola, mantenendo il
fotogramma 35 mm, avrebbe significato una perdita di definizione. Per ottenere un aspect ratio più panoramico senza
perdere in qualità nel 1953 si diffuse il Cinematoscope, una tecnica che permette di ottenere sullo schermo un aspect
ratio 1:2,35 attraverso l’utilizzo di lenti anamorfiche. In fase di ripresa l’immagine veniva deformata attraverso un
obiettivo anamorfico e impressionata full frame su una normale pellicola 35 mm. I formati panoramici creano dei
problemi di adattamento nel momento in cui una pellicola cinematografica viene distribuita in televisione. Fino al
recente avvento degli schermi widescreen il formato televisivo standard era 4:3. Ciò significava che tutti i film girati in
formato panoramico per essere trasmessi in TV dovevano essere adattati alla forma dello schermo televisivo. Questo
adattamento poteva avvenire attraverso delle bande nere che vennero presto sostituite da manipolazioni invasive,
come ad esempio il taglio di porzioni di immagini o un decentramento per seguire gli elementi fondamentali.
L’avvento dei nuovi schermi widescreen in 16/9 non ha però risolto il problema; i formati panoramici, difatti, dovranno
comunque essere riadattati. La soluzione più adatta al problema sono le bande nere laterali, ma in alcuni casi ci può
essere anche un allargamento deformante delle immagini.

Il sonoro

I primi sistemi di registrazione del cinema sonoro potevano prevedere sia il sincrono tra le immagini impresse su
pellicola e i suoni incisi su appositi dischi sia la presenza della colonna sonora direttamente sulla pellicola. Vengono
utilizzati due tipi di colonna sonora prima dell’avvento del digitale:

la colonna sonora magnetica: prevede la registrazione del sonoro su una o più piste magnetiche incollate sul positivo
di proiezione sui lati che delimitano le perforazioni.

La colonna sonora ottica: riproduce il suono tramite l’impressione di un segnale audio sull’emulsione del negativo
nella parte di pellicola non utilizzata per l’immagine. Può essere ad area variabile o a densità variabile.

Inizialmente il sonoro era mono, ovvero tutti i dati audio erano contenuti in una sola traccia che veniva amplificata.
Nel 1942 Fantasia, prodotto da Walt Disney, è stato il primo film distribuito a sperimentare un sistema di suono
stereofonico. Il sistema sonoro stereofonico prevede che la colonna sonora contenga tracce diversifiate che possano
essere trasmesse ad amplificatori differenti. Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta Ray Dolby mise a punto il Dolby-
stereo, ovvero un sistema che registrava diverse piste stereo su una sola colonna ottica. Il sistema Dolby è stato
sottoposto a continui miglioramenti e nel 1988 è stato introdotto il Dolby SR. A partire dagli anni Ottanta, tuttavia, si
iniziarono a fare i primi esperimenti sul sonoro digitale.
Il colore

Il cinema muto era spesso colorato. Le colorazioni dell’epoca, tuttavia, non riproducevano i colori degli elementi
presenti nel profilmico, bensì venivano applicati sulla pellicola positiva stampata in bianco e nero. Le principali
tecniche di colorazione manuale o meccanica erano:

la colorazione a mano: i colori dell’anilina venivano applicati direttamente sulla pellicola con sottoli pennelli
fotogramma per fotogramma.

Colorazione Pochoir: venivano stampate più copie dello stesso film, da cui venivano ritagliate a mano o tramite
pantografo le aree da colorare di una singola tinta. Queste copie ritagliate venivano poi sovrapposte una per una alla
copia da colorare e servivano da stencil, giacché ogni colore veniva applicato attraverso la corrispondente sagoma
ritagliata tramite pennello o tampone.

Imbibizione: prevedeva una tinta uniforme ottenuta tramite l’immersione della gelatina in materie coloranti o tramite
la verniciatura della pellicola.

Viraggio o mordenzatura: tecnica monocromatica ottenuta tramite una reazione chimica dall’emulsione con sostanze
apposite, nel corso della quale un sale metallico colorato si sostituisce all’argento dell’emulsione senza tingere la
gelatina del film.

Molto presto si è iniziato a sperimentare tecniche diverse per riprodurre i colori naturali delle cose. Questi sistemi
potevano funzionare sulla base di sintesi additiva, ovvero mescolando i colori primari della luce (rosso, verde e blu)
oppure sulla sintesi sottrattiva, basata sui colori primari dei pigmenti (ciano, magenta e giallo) che assorbono solo
alcune lunghezze d’onda della luce, riflettendo quelle che corrispondono al colore del pigmento. Sulla sintesi additiva
si basava il Kinemacolor, creato da Charles Urban e Albert Smith nel 1906. La sintesi sottrattiva era invece alla base del
sistema di pellicola a colori del Technicolor, creato da Herbert Kalmus nel 1915. Egli ha perfezionato il suo metodo fin
quando nel 1932 ha messo a punto il Technicolor Process 4, o Glorioso Technicolor. Esso prevedeva di imprimere tre
diversi negativi camera con filtri verde, magenta e rossastro. Tramite un processo di filtraggio si ottenevano negativi
sensibili alla gamma del verde, del blu e del rosso. Da questi tre negativi venivano stampati tre positivi-matrice poi
imbibiti di ciano, magenta e giallo e stampati a contatto su una terza pellicola su cui veniva stesa una sostanza che
assorbisse i coloranti. Nel 1935 la Eastman Kodak ha prodotto il Kodachrome, sistema di pellicola colore amatoriale, e
l’afga, nel 1939, ha prodotto il negativo Afgacolor. Nel 1950 la Kodak iniziò a produrre un tipo di pellicola negativa e
positiva a colori.

IL DIGITALE
Esso implica la traduzione di un’informazione in serie numeriche, quantificabili e ripetibili in modo identico. La sua
unità di misura è il pixel. Al contrario, il cinema analogico si basa sul concetto di ‘’impronta’’ della luce sulla pellicola,
non precisamente misurabile. Quella che stiamo attraversando è un’epoca di transizione: spesso lo stesso film può
essere il prodotto di un utilizzo congiunto di tecniche analogiche e digitali. Dal dicembre 2013 lo standard per la
distribuzione cinematografica non è più la pellicola 35 mm, bensì il Digital Cinema Package.

Le riprese digitali

Le nuove tecnologie hanno mutato le tecniche di ripresa, e in particolare la registrazione del suono, il montaggio e la
stampa.

Tra le prime applicazioni a diffondersi nella produzione cinematografica c’è la registrazione digitale del suono, già
diffusa nell’industria musicale e adattata nella produzione cinematografica negli anni Novanta. Il primo film sonoro in
Dolby Digital fu Batman Returns di Burton, nel 1992. Nel 2013 si sta diffondendo velocemente l’uso di macchine da
presa digitali. Le riprese digitali permettono di acquisire le immagini in movimento direttamente come flusso di dati
che vengono poi registrati su nastro magnetico, hard disk… questo procedimento presenta dei vantaggi economici in
quanto permette di risparmiare la spesa per l’acquisto della pellicola, per lo sviluppo e per la stampa. Le riprese
digitali, inoltre, permettono di visionare sul monitor di controllo la resa del girato. Allo stesso tempo, però, le immagini
digitali presentano alcuni svantaggi: esse sono soggette al blooming, un difetto che si verifica a causa di punti luce
molto forti che provocano un effetto di sovraesposizione. I neri, inoltre, non hanno la stessa profondità dell’analogico
e la riproduzione degli incarnati degli attori non è ritenuta soddisfacente. I primi a utilizzare videocamere digitali sono
stati cineasti che si collocano ai due estremi produttivi: da un lato registi sperimentatori con a disposizione un basso
budget e dall’altro lato il cinema mainstream, soprattutto per la realizzazione di film con effetti speciali. Le riprese
digitali, inoltre, presentano dei vantaggi tecnici: la strumentazione è più leggera ed è possibile riprendere senza
interruzioni per un tempo più lungo rispetto a quello previsto dalla mdp tradizionale. La scelta del digitale o della
pellicola cambia anche la relazione del regista e dello staff con la materia del film e le esperienze sono diverse.

La post-produzione digitale

Il risultato delle riprese digitali sono immagini memorizzate su archivi temporanei che, dopo essere state compresse e
sottoposte ad un sistema di codificazione, vengono trasferite ad un server che le predispone per la post-produzione.
Anche se il film è stato girato in pellicola, esso può essere digitalizzato tramite uno scanner. In ogni caso ogni
fotogramma viene tradotto in file digitali. Ciò che si ottiene è un Digital Intermediate, cioè una serie di file che è
possibile modificare tramite software specifici per il montaggio, la Color Correction (regolazione dei valori di luce e di
colore per la stampa) o la creazione di effetti speciali particolari. L’aspetto della produzione di un film che l’avvento del
digitale ha cambiato più in fretta è il montaggio. Inizialmente si trattava di un lavoro artigianale, mentre oggi bastano
pochi clic per verificare combinazioni infinite. Il montaggio digitale, al contrario di quello analogico, è non-lineare,
ovvero permette di intervenire in qualunque punto del film senza seguire la cronologia delle immagini. L’immagine
digitale ha anche rivoluzionato gli effetti speciali; ricordiamo, in particolare, la CGI, ovvero la Computer-Generated
Imagery; si tratta di un processo che permette di gestire tridimensionalmente un’immagine bidimensionale
digitalizzata, modificandola o ricreandola. Toy Story (John Lasseter, 1995) è sttao il primo lungometraggio realizzato
completamente con questa tecnica. La CGI, inoltre, permette di ricostruire intere sequenze di film live action al
computer. I risultati più interessanti dell’applicazione del digitale agli effetti speciali risultano dall’unione della CGI con
il Digital Compositing, ovvero la possibilità di assemblare riprese diverse in un’unica immagine. Per esempio, grazie
alla tecnica del chroma key, immagini ricreate al computer possono essere unite a quelle in cui un attore recita su uno
sfondo monocromatico, che viene poi sostituito da una seconda sorgente video. Tale effetto consente di creare
atmosfere particolarmente antinaturalistiche. Un’altra possibilità offerta dall’unione tra CGI e Digital Compositing è la
creazione di personaggi e creature di fantasia che interagiscano con attori e sfondi reali. Gli attori, inoltre, possono
prestare le loro movenze a personaggi ricostruiti in digitale grazie alla tecnica motion captured. Indossando una tuta
apposita, difatti, i loro movimenti vengono registrati da un sistema computerizzato che permette di trasmetterli al
personaggio digitale. L’immagine digitale è manipolabile e uno degli aspetti più soggetti a modifiche in post-
produzione è il colore. La regolazione dei valori del colore, tuttavia, non nasce con il digitale. Nella lavorazione
analogica, prima di stampare la copia da proiezione, si stabiliscono i valori di colore di ogni scena. Questo lavoro viene
svolto davanti a una video camera (Color Analyzer) che mostra le immagini tratte dal negativo. Ciò che si vede sul
video, però, non è uguale al risultato che si ottiene in pellicola. Per poter valutare l’effetto è necessario aspettare la
fine del processo. Il Digital Color Grading ha invece introdotto due importanti novità: la resa delle scelte effettuate è
valutabile in corso d’opera e le possibilità di intervento sul colore sono maggiori rispetto a quelle offerte dal
procedimento analogico. Al contrario di quest’ultimo, il digitale permette di cambiare completamente il colore di un
oggetto e variare i toni di un solo colore senza influenzare l’intero equilibrio cromatico.

La proiezione digitale

Dal dicembre 2013 lo standard di distribuzione dei film in sala è il DCP (Digital Cinema Package); esso si tratta del
formato digitale per la proiezione cinematografica, cioè un insieme di file che costituiscono il singolo film. Nello stesso
DCP possono essere contenuti audio alternativi e sottotitoli in lingue diverse. A oggi le proiezioni digitali possono
avere una risoluzione di 2K o di 4K. Il nome deriva dal numero approssimativo di pixel contenuti in una riga orizzontale
di ogni immagine digitale (2K=2000; 4K=4000). I DCP non sono soggetti a graffi, sporco o rotture nel corso della
proiezione, tuttavia, un danno alla pellicola è spesso più facilmente risolvibile. La differenza tra proiezione in pellicola
e proiezione in digitale è anche di natura dell’immagine stessa. Difatti, l’immagine della pellicola è più morbida e
organica, mentre quella del digitale è più geometrica e regolare. Inoltre, tutte le copie digitali provenienti dallo stesso
master appariranno pressoché identiche. Le reazioni al cambiamento imposto dai nuovi standard di proiezione digitale
sono state diverse. Ad esempio Quentin Tarantino ha dichiarato che non ama né le riprese né le proiezioni digitali, che
gli appaiono come televisione proiettata in pubblico. Così come film girati in digitale possono essere distribuiti in
pellicola, anche film girati in analogico possono essere scansionati in copie digitali. I motivi per cui la proiezione
elettronica sta soppiantando quella in pellicola sono di natura commerciale: la prima, difatti, permette di risparmiare
sui costi di stampa, distribuzione e stoccaggio. Le conseguenze della diffusione del cinema digitale sono: una più facile
gestione materiale dei film, che ha permesso di diversificare la programmazione. Inoltre, per attirare il pubblico in sala,
si stanno sperimentando proiezioni in diretta di eventi live. Allo stesso tempo, però, il cinema digitale sta mettendo a
rischio le sale cinematografiche medio-piccole, prive delle risorse necessarie per adattarsi ai nuovi standard.

Il documentario
Cenni storici

L’impiego di tale termine risale all’8 febbraio 1926 quando, nel recensire Moana (1926) di Robert J. Flaherty, John
Grierson riconosce al film un ‘’valore documentario’’. Lo studioso Charles Musser ha dimostrato come la genesi di
questa forma cinematografica sia ben più antica, rintracciandone i pronomi già nelle tardo-seicentesche lezioni
illustrate da proiezioni di lanterna magica. Si può inoltre affermare che le origini del documentario coincidano con
quelle del cinema; difatti il cinematografo nasce per rispondere all’esigenza di catturare il fattuale. Agli albori del
Novecento iniziano a configurarsi anche i primi generi di non fiction. È il caso del travelogue (o documentario
turistico), che offre allo spettatore la possibilità di esplorare terre lontane senza viaggiare, o del film scientifico, tra i
cui primi esemplari si ricorda Cheese Mites (1903, di Charles Urban), cortometraggio nel quale si mostrano i
microrganismi che albergano in una fetta di formaggio. Con lo scoppio del primo conflitto mondiale la produzione di
film fattuali aumenta in quanto ci si rende conto di come il cinema reale costituisca un potente strumento di
propaganda. A questo periodo risalgono i primi lungometraggi a carattere documentario, come The Battle of the
Somme (1916) di Geoffrey H. Malins e J.B. McDowell. Questa fase iniziale del cinema del reale viene chiamata pre-
documentaria; è a partire dal 1922 con Nanook of the North di Flaherry (narra della difficile quotidianità che una
famiglia inuit affronta a causa della fame e del gelo) che si ritiene si possa parlare di documentario vero e proprio,
inteso come forma espressiva caratterizzata da un suo preciso statuto. A differenza di quanto accaduto in precedenza,
il reale non viene semplicemente descritto, bensì viene narrativizzato. Di fatti Flaherry utilizza anche strumenti come il
montaggio analitico e quello alternato. Ha così inizio la cosiddetta fase del documentario classico, durante la quale il
cinema del reale si delinea come discorso serio e si assiste al configurarsi di quella modalità di rappresentazione
documentaristica definita ‘’descrittiva’’. Quest’ultima prevede che il reale venga raccontato attraverso un montaggio
di immagini organizzate secondo una logica argomentativa. I fotogrammi, difatti, hanno semplicemente la funzione di
illustrare e comprovare quanto detto dal commento onnisciente in voice over (detto voice of God narration). Si tratta
dunque di una forma dal carattere didattico, che resterà la modalità di rappresentazione documentaristica fino al 1960
e che viene identificata ‘’col documentario in generale’’. Negli anni Venti, però, non mancano pellicole che si
discostano dall’approccio descrittivo. È il caso di Berlino. Sinfonia di una grande città, 1927) di Walter Ruttman e
Regen (Pioggia, 1929) di Ioris Ivens, ove si opta per la modalità di rappresentazione documentaristica ‘’poetica’’,
caratterizzata da un’attenzione verso i motivi che riguardano i ritmi del tempo e le associazioni dello spazio. Si pensi
anche a L’uomo con la macchina da presa (1929) di Vertov, che attesta il corso di una giornata in una grande città,
costituendo la massima espressione della concezione di cinema non recitato di Vertov, secondo cui la mdp deve
essere utilizzata per cogliere la vita alla sprovvista. Il girato ottenuto deve poi essere riorganizzato e interpretato
attraverso il montaggio al fine di evidenziare nuove verità. Tale film si inserisce nel filone delle sinfonie urbane in
quanto è una pellicola in cui si mostra quanto accade in una città dal tramonto all’alba. Esso è anche un’opera meta-
cinematografica poiché intreccia la narrazione di ciò che accade quotidianamente al racconto di una giornata nella vita
di un cineoperatore. Per questa ragione si colloca nella modalità di rappresentazione ‘’riflessiva’’, ovvero tra quei
documentari che portano lo spettatore a rapportarsi in modo più consapevole con la produzione audiovisiva fattuale.
Dunque se le pellicole che adottano l’approccio descrittivo si propongono come oggettive, tale film evidenzia invece
come l’impressione di realtà del documentario sia costruita. Al 1929 risale Drifters di Grierson, pellicola che coniuga la
concezione poetica di Flaherry e la lezione del montaggio di Vertov. Tale film dà il via ad una collaborazione tra
Grierson e l’Empire Marketing Board, che darà forma a un movimento, il Documentary Film Movement, che propugna
un’idea di documentario inteso come sistema educativo e informativo indispensabile per la vita democratica della
società. Si evidenziano anche i problemi sociali. Si pensi, ad esempio a Housing Problems (1935) di Edgar Anstey e
Arthur Elton, in cui si attestano le difficili condizioni abitative nei quartieri popolari inglesi. Quest’ultimo film è
riconosciuto come il primo documentario a ricorrere al sonoro in presa diretta.

In un primo tempo sono soprattutto i regimi dittatoriali a piegare il cinema del reale alle proprie esigenze
propagandistiche. Ad esempio in Germania viene commissionata alla regista Leni Riefenstahl la realizzazione del
documentario Il trionfo della volontà (1935) al fine di glorificare Hitler. In Italia attraverso i cinegiornali prodotti
dall’Istituto Nazionale L.U.C.E si celebra la figura del duce.
Con l’inizio della Seconda guerra mondiale le potenzialità propagandistiche vengono sfruttate da tutti i paesi
belligeranti. Molti sono, ad esempio, i documentari per movimentare le truppe, tra cui si ricordano i sette film diretti
da Frank Capra che compongono la serie Why We Fight (1942-1945). Ben presto però ci si rende conto di come
l’approccio descrittivo permetta di costruire rappresentazioni del mondo fittizie e si sente l’esigenza di trovare delle
modalità di racconto del reale capaci di un’effettiva oggettività. Le condizioni affinché ciò accada si creano solo a
seguito di una serie di innovazioni tecnologiche che permettono al regista di acquistare una libertà di movimento e di
trasformarsi in un ‘’cineasta-palomabro’’ che si immerge nel reale per cogliere la vita sul fatto. A partire dal 1960 si
apre una nuova fase della storia del cinema fattuale e si stabilisce un nuovo approccio, caratterizzato da un rifiuto di
tutte le manipolazioni. Pertanto non è più consentito fornire direttive ai protagonisti delle proprie pellicole e vengono
rifiutati il ricorso a musica e rumori extradiegetici, luce artificiale e commento in voice over al fine di riportare sullo
schermo l’autenticità del vissuto, ottenuta attraverso un’apparecchiatura meccanica che conferisce oggettività.
Questo nuovo approccio documentaristico viene promosso da due movimenti, nati negli Stati Uniti e in Francia: il
cinema diretto e il cinéma vérité. Essi si fanno espressione di due diverse modalità di racconto del reale,
rispettivamente definite da Nichols ‘’modalità osservativa’’ e la ‘’modalità partecipativa’’. La prima prevede che la
macchina da presa segua il proprio soggetto senza interferire con esso, mentre la seconda presuppone che il regista
provochi la realtà. Un esempio del primo caso è Primary (1960) di Richard Leacock, Donn Alan Pennebaker e Terrence
McCartney, in cui si mostra la battaglia elettorale fra Hubert Humphrey e John Kennedy. Qui la mdp si limita a
registrare ciò che vede, quasi come se fosse una mosca posata su un muor (da qui deriva la denominazione di tale
approccio in fly-on-the-wall). Ricordiamo, per quanto riguarda il cinéma vérité, Chronique d’un été, un film inchiesta
costituito da una serie di interviste sul tema della felicità. L’approccio osservativo è diventato la modalità di
rappresentazione di alcuni generi del cinema del reale, quali il rockumentary (documentario musicale) e il making of.

Tuttavia, a partire dagli anni Ottanta, il cinema diretto viene messo in discussione in quanto si credeva impossibile
catturare un evento senza interferire con esso. Inoltre, da quando la Sony nel 1986 immette sul mercato una
videocamera capace di ottenere immagini di buona qualità, nell’ambito del cinema del reale l’utilizzo delle tecnologie
digitali diventa sempre più massiccio. Vengo create sempre di più opere le cui immagini non sono più un’impronta
digitale di quanto presente di fronte alla mdp. L’immagine fotografica ottenuta con apparecchiature digitali può essere
soggetta ad alterazioni e manipolazioni. Tutto ciò determina, negli anni Novanta, il moltiplicarsi di possibili approcci al
racconto del fattuale. Inizia così una quarta fase della storia del cinema del reale, che Brian Winston denomina ‘’new
documentary’’, mentre John Corner preferisce definire ‘’post-documentary’’. Questo secondo studioso ritiene che tale
termine sia più adeguato per definire questa nuova fase in quanto si asside ad un incremento di opere ibride, ove
finzione e realtà si mescolano. Il fiorire di queste ultime porterà a riconoscere l’esistenza della docufiction. Il film che
segna tale svolta è Roger & Me, che parla degli effetti della decisione della General Motors di chiudere le proprie di
automobili della città di Flint. Moore realizza un film che abbandona quella sobrietà caratteristica del discorso
documentario per farsi espressione del punto di vista del proprio regista, il quale arriva, addirittura, a mettersi in
scena.

Che cos’è il documentario?

Si ritiene che si tratti di un cinema della verità che rifiuta ogni forma di trucco o di finzione; un cinema in cui la mdp è
al servizio della realtà che le sta di fronte. Il documentario, tuttavia, è soggetto a manipolazioni. Il solo atto di
inquadrare una certa porzione di spazio, oppure, durante il montaggio, il fatto di operare una selezione del girato
comportano una personale lettura. Inoltre, nel realizzare un documentario, si fa spesso ricorso a procedimenti
associati alla produzione di fiction, quali la messa in scena e la ricostruzione di eventi, oppure l’utilizzo di luci artificiali
e musiche extra-diegetiche. Difatti, come rileva Nichols, un documentario non è una semplice riproduzione, bensì è
una rappresentazione della realtà. Tuttavia, secondo lo studioso, definire un documentario non è semplice e tale
definizione non è assoluta. Nel corso dei decenni si è tentato di definire il documentario in relazione al fattuale o alle
tecniche adottate, per contrapposizione alla finzione o utilizzando il punto di vista del fruitore. Nessuno di questi
tentativi ha, però, condotto all’individuazione di una definizione condivisibile. Ad esempio sebbene sia una prerogativa
del documentario il fatto di centrarsi su eventi relativi al nostro mondo, sono molte le pellicole di finzione incentrate
su storie reali.

Analogamente la scelta di considerare il documentario non come una macro categoria contrapposta a quella del
cinema di fiction, bensì come uno dei possibili generi del più ampio territorio della non fiction, non ha fatto altro che
spostare il problema in quanto si è semplicemente introdotta una nuova categoria che necessita di essere definita.
Fallimentare è stato anche il tentativo di individuare una definizione di documentario basandosi su ciò che il pubblico
riconosce o meno come tale.

Sebbene nel corso dei decenni si sia tentato di trovare una definizione, non si è ancora arrivati a ciò e l’avvento delle
tecnologie digitali non ha certamente favorito la ricerca in quanto è venuta a crollare la certezza secondo cui il valore
documentario risieda nell’immagine fotografica in sé.

André Bazin
Si tratta del teorico di riferimento della Nouvelle Vague e uno dei più importanti critici e teorici del cinema. I suoi
articoli hanno influenzato lo studio del cinema e, soprattutto il cinema stesso, a partire dall’eredità che egli ha lasciato
co-fondando, nel 1951, i ‘’Cahiers du cinéma’’. Egli nasce ad Angiers nel 1918 e muore per leucemia nel 1958, nel
dispiacere di tutto il mondo del cinema, in particolare di Truffaut. L’atteggiamento di Bazin nei confronti della teoria
del cinema è atipico e i suoi scritti sono spesso brevi, discorsivi, interlocutori. La sua opera principale è Che cosa è il
cinema? Si tratta di un mosaico di testi già pubblicati altrove: la teoria per Bazin è un’attività che ha senso solo se può
essere condivisa e arricchita da nuove intuizioni. Il metodo baziniano è deduttivo e intuitivo; ci sono dei principi nel
suo sistema teorico, ma il resto nasce dall’esercizio della critica.

Le sue principali concezioni teoriche

Il fulcro della teoria baziniana è il concetto di realismo. La sua riflessione parte da una provocatoria analisi della
fotografia: quest’ultima, assieme al cinema, occupa un posto particolare nel sistema delle arti grazie alla sua
oggettività. Nella fotografia, difatti, è la realtà stessa e non il fotografo a impressionare la pellicola attraverso un
processo meccanico. La fotografia, inoltre, è oggettiva anche a livello psicologico; noi spettatori, difatti, siamo
consapevoli delle sue origini meccaniche e ci comportiamo di conseguenza. Il cinema, secondo Bazin, è l’estensione
della fotografia nel tempo. D’altra parte, però, secondo il critico esso è un linguaggio; affermarne l’oggettività, però,
non significa negarne la potenzialità espressiva. Anzi, le scelte stilistiche del regista sono fondamentali, tuttavia
quest’ultimo deve utilizzare i suoi strumenti per raccontare il mondo. Bazin rifiuta la tradizionale distinzione tra
cinema muto e cinema sonoro. Dal punto di vista dello stile il 1927 non ha segnato alcuna cesura, anzi, il sonoro ha
rappresentato un’ulteriore possibilità di aderenza oggettiva al mondo. Bazin distingue fra registi che credono
nell’immagine e registi che credono nella realtà. Il cinema che crede nell’immagine è quello delle tre avanguardie e
quello della scuola hollywoodiana classica, mentre il cinema che crede nella realtà è quello del neorealismo italiano.
Questi due ‘’cinema’’ si distinguono fra loro per il modo di utilizzare gli espedienti tecnici del cinema. I registi che
credono alla realtà sono in grado di mostrare più realtà sullo schermo facendo un uso moderato e non invasivo del
montaggio e, soprattutto, tramite il long take, la profondità di campo e i piani sequenza. I long take e i piani-sequenza
in profondità di campo di Welles, ad esempio, sono assai efficaci; Welles dà corpo alla realtà che riprende senza
frammentarla con il montaggio. Registi come Welles da un lato offrono allo spettatore immagini spazialmente e
temporalmente continue; dall’altro lo costringono a guardare con attenzione per cogliere tutti i dettagli. È a questo
che servono i long take e la profondità di campo, che consente di non privilegiare nessun piano dell’inquadratura con
la messa a fuoco e a costruire l’azione su più livelli. I registi che credono nell’immagine, invece, fanno un uso scorretto
del montaggio. Il cinema sovietico, ad esempio, propone allo spettatore, tramite il montaggio, dei concetti di cui le
immagini originali sono prive. Il cinema classico hollywoodiano invece scompone la sequenza in una successione di
inquadrature che impedisce allo spettatore di leggere il film attentamente. In entrambi i casi il significato non è dato
dalle immagini in sé, bensì dal loro accostamento secondo una procedura logica astratta. Bazin non critica il montaggio
in sé, bensì l’accostamento delle inquadrature che non può sostituire l’accostamento degli elementi reali nella singola
inquadratura. Il film che usa long take e profondità di campo, secondo quest’ottica, non rinuncia al montaggio, bensì
lo integra nella propria plasticità. La lettura di Bazin è molto radicale e connotata da giudizi troppo netti per
sopravvivere. Oggi la riflessione del cinema non pretende più di imporre linee guida ai registi, bensì ci si limita a
studiarne il funzionamento e la dimensione del fenomeno culturale. Anche il cinema ha preso strade diverse rispetto a
quelle ipotizzate da Bazin. La Nouvelle Vague in primis ha tradito il proprio padre spiritule: si pensi ai jump cut e al
montaggio frammentato di À bout de souffle.

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