Sei sulla pagina 1di 30

Lezione 1

La nascita del cinema avviene all’incirca intorno alle fine dell’Ottocento, precisamente il 28 dicembre 1895,
quando i fratelli Lumière, considerati padri fondatori del cinema, in questa data, per la prima volta, in una
occasione pubblica danno visione d’immagini in movimento impresse su di una pellicola. Da quella volta si
generò una reazione a catena inarrestabile. L’affermazione della fotografia

La nascita del cinematographe


La fotografia servì a dare un punto di svolta, a segnare il punto di distacco in cui non si parla più d’imitazione ma
di una rappresentazione oggettiva della realtà, non si ha più il dipinto che rappresenta in modo quasi reale, ma
un dispositivo, che attraverso un meccanismo imprime su pellicola le immagini, tramite dei processi chimici.
L’uomo fin dal principio ha sempre avuto un bisogno di autorappresentazione, anche per quanto riguarda
l’aspetto della conservazione della memoria.
In questo momento s’inizia a parlare di auto-rappresentazione democratica, ovvero alla portata di tutti: se prima
della fotografia erano solo gli aristocratici che potevano permettere di farsi ritrarre, le cose con la fotografia
cambiano, essa diventa alla portata di tutti.
Quindi il cinema, il cinematografo è una diretta conseguenza della fotografia e di tutto ciò che c’era stato prima.
Il 28 dicembre del 1895 i fratelli Lumière danno vita al cinematographe, in italiano cinematografo, un dispositivo
che consentiva sia la ripresa, sia la proiezione delle immagini incise sulla pellicola.
Questo dei fratelli Lumière è uno dei tanti dispositivi che vengono brevettati in Europa e negli Stati Uniti, che
consentono la visione d’immagini in movimento che prendono il nome di “vedute”, una terminologia attribuita
dagli storici dei film del tempo, visto che si trattavano di clip molto brevi.
Il movimento è sempre stato ricercato, prima con la pittura poi la fotografia, nell’800 con il realismo c’è sempre
una ricerca maggiore di rappresentare il movimento, spesso veniva replicato scattando in sequenza gruppi
d’immagini per formare quello che poi genererà una sequenza d’immagini che darà vita al movimento.
Il cinematographe diede vita a dei nuovi impulsi, non soltanto legati alle incisioni d’immagini su pellicola ma creò
un nuovo modo collettivo di riunire le persone, oggi con la tecnologia è semplice guardare un film, al tempo
anche la decisione di guardare queste “vedute” era importante, era sinonimo del cambiamento che viveva anche
la società, è anche questo che ha fatto sì che il 28 dicembre diventi la data canonica della nascita del cinema.

Negli Stati Uniti, contemporaneamente, Thomas Edison aveva brevettato un altro dispositivo che consentiva la
visione monoculare, ovvero era una grande scatola al cui interno c’era la pellicola che consentiva la visione
d’immagini in movimento, ma limitata a una sola persona per volta, ciò ovviamente consentiva un’esperienza
diversa da quella dei fratelli lumiere.

Caratteristiche del primo film dei fratelli Lumière


Innanzitutto, si parla di un tipo produzione che prende il nome “delle origini”, questo nome gli fu dato da alcuni
storici, che datarono tutta la prima produzione dei fratelli lumière con questa terminologia Produzione delle
origini (1895-1901), altri storici invece la denominarono come Cinema delle attrazioni mostrative.
Una delle caratteristiche iniziali delle “vedute” dei fratelli Lumière era la presenza di una sola inquadratura
statica, il cinematografo era infatti sostenuto da un treppiedi e non era quindi propenso al movimento.
Nell’immagine possiamo vedere una scena del primo film di Lumière, che riprende gli operai della propria
fabbrica (avevano una fabbrica di stampe fotografiche) all’uscita dalla fabbrica.
Nonostante il cinematografo era fermo e sostenuto dal treppiedi, e quindi il macchinario non aveva possibilità di
movimento, la dinamicità della scena è data dalle persone in moto e da tutti gli altri elementi che costruiscono lo
sfondo, come il passaggio del cane o della bicicletta, ciò da dinamicità alla scena, restituendo così un senso
maggiore di movimento a chi osserva.
Spesso si parla dei fratelli Lumière con i pionieri del cinema documentaristico, ciò si evince dalle scene che
rappresentano ritratti di vita quotidiana, semplice.
Nelle scene è anche possibile notare la consapevolezza del cinematografo: nonostante vengano riprese scene
di vita quotidiana, i protagonisti della pellicola sono consapevoli di essere ripresi e questo si deduce dal modo in
cui sono vestiti, ma anche da alcuni atteggiamenti che assumono, come il guardare in camera o il salutare.
Ogni scena ha la sua identità, mostra uno scorcio della quotidianità delle persone, immortala dei momenti
importanti irripetibili, ciò che prima era possibile solo con la fotografia ora lo diventa anche con il cinema,
immortalando non solo la realtà ma anche il movimento.
I fratelli Lumière sapevano ben gestire l’inquadratura, niente era lasciato al caso essendo un’inquadratura fissa,
poiché al tempo non esisteva il montaggio tutto era ben bilanciato per dare sia senso di profondità e di
movimento, tutta la scena avviene in quella singola inquadratura, infatti, con i fratelli lumière si parla di
inquadratura centripeta.
Una delle pellicole più famose dei fratelli Lumière, che conferma i concetti già citati è L'arrivo di un treno alla
stazione di La Ciotat (1896).
Già dalla struttura dell’inquadratura, possiamo vedere che la macchina è stata posizionata in maniera che
vengano riprese le persone che aspettano il treno, allo stesso tempo è inquadrato il treno con i binari.
Qui I due fratelli decidono di non riprendere frontalmente l’arrivo del treno, ma si affidano alla cosiddetta
inquadratura angolata che permette di ottenere una maggiore profondità di campo.
La prima proiezione di questo film avvenne il 6 gennaio 1896, le persone del tempo non avendo mai visto niente
del genere, avevano un senso di percezione alterato, la pellicola spaventò molti spettatori che credendo di
essere travolti dal treno fuggirono dalla sala.

Lezione 2
Il kinetoscopio (1891) è un dispositivo che viene brevettato qualche anno prima rispetto al Cinématographe
Lumière (1895), da Thomas Alva Edison. La foto ci rende chiaro il meccanismo di questo dispositivo, al cui
interno si faceva scorrere la pellicola ed attraverso questo monopolo, questo foro inserito sopra, il fruitore aveva
modo con una visione monoculare (con un solo occhio) di guardare al suo interno. Quindi capiamo bene come il
lavoro che fanno i fratelli Lumière consentisse in tutt’altro tipo di fruizione, ovvero, seduti all’interno di una sala
(un caffè, una sala teatrale), mentre per Edison abbiamo la visione di un breve film, in piedi, con un solo occhio.
Abbiamo quindi altre condizioni anche di carattere percettivo. Cinématographe Lumière soppianta tutta una serie
di dispositivi che erano già stati brevettati.

Edward Muybridge è un fotografo che qualche anno prima si era posto il problema di dare forma al movimento e
quindi ha iniziato a fare delle sperimentazioni sulla fotografia in movimento, cioè prendere un soggetto e con uno
scatto multiplo provare a cogliere i vari istanti di un movimento che potevano essere: un esercizio ginnico, i
cavalli in corsa ect…

Andando a ritroso, possiamo osservare dalla foto stessa come questo fosse quello che succedeva un po’
ovunque anche nel corso del Settecento nelle città, nei piccoli villaggi, avevamo degli spettacoli itineranti vicini
alle arti del circo (ancora oggi arte itinerante). Vi erano una serie di dispositivi, tipi di esperienze legate alla
visione che venivano offerte nelle città ma anche nei centri più rurali. Questa rappresentazione grafica ci mostra
due dispositivi ottici. Il dispositivo in primo piano è Il mondo nuovo, una scatola con tutti questi fori al cui interno
erano visibili delle immagini. Questo dispositivo era interessante perché oltre a far vedere cose spettacolari,
veniva anche usato come strumento di informazione. Esempio in questo caso è Resto di niente tratto da
un’importante romanzo storico scritto da Enzo Striano dal quale poi una regista napoletana, Antonietta De Lillo,
ha tratto un film, che racconta la rivoluzione del ’99 (rivoluzione napoletana) ed in particolare la figura di
Eleonora de Fonseca Pimentel ed è l’indomani della Rivoluzione francese quando viene tagliata la testa a Maria
Antonietta (ex regina). C’è questa scena nel film dove abbiamo il mondo nuovo, in cui vi è un signore che
richiama le persone e dice: Venite a vedere come tagliano la testa a Maria Antonietta. Quindi c’è al suo interno
una rappresentazione chiaramente grafica, di illustrazione, però viene rappresentata. Chiaramente in questo
caso la decapitazione dei reali di Francia era un evento politico ma anche sensazionale, la Rivoluzione francese
mette in atto una serie di moti rivoluzionari, anche se non erano immagini fotografiche, quella non era veramente
la regina che perdeva la testa e moriva, ma era un’attrazione andare a vedere. Alle spalle sempre di questa
immagine c’è il panorama che era una tenda al cui interno era tappezzata da raffigurazioni, ed entrando,
nell’atto di muoversi, lo spettatore viveva come una sorta di spettacolo della visione. Questi sono uno dei tanti
dispositivi che gli storici hanno introdotto in questa lunga storia del precinema.

La lanterna magica
Si parla di pre-cinema quando a partire dal Seicento si ha l’introduzione del primissimo dispositivo La lanterna
magica, in cui si prova, all’inizio non con la pellicola fotografica, in un tipo di situazione simile allo spettacolo
cinematografico. La lanterna magica aveva un certo tipo di meccanismo, dove al suo interno si faceva scorrere
un vetrino (rettangolo di vetro) sul quale si dipingevano delle cose.
I fratelli Lumière colsero subito l’importanza dell’apparecchio che brevettarono, ma non si aspettavano che
questo strumento potesse diventare un linguaggio, poiché di linguaggio c’è poco, non c’è una costruzione
narrativa. Quando si brevetta un apparecchio vi è la necessità di attribuirgli un nome e loro prima di arrivare a
Cinematographe avevano pensato a Domitor, parola derivante dal latino dominator [tutt’oggi si tiene un
convegno con questo termine sulla storia del cinema muto per ricordare questa prima idea dei Lumière che è
particolarmente significativa poiché loro immaginarono questo occhio in grado di riprendere il mondo, le strade
etc. riflettendo sull’idea di un occhio dominatore in grado di osservare e controllare quello che inquadra]. I fratelli
ben presto si resero conto che con questo dispositivo potevano anche far viaggiare e far vedere, ad un pubblico
che non si sarebbe mai mosso dal proprio paese o città, luoghi lontani (esempi di luoghi sfruttati in questo senso
dai Lumière furono: Egitto, Vietnam, Giappone, Libano, Messico, Napoli). Il 28 dicembre presentano lo strumento
e a marzo, come si evince dai loro film in rete, già si trovano in giro per il mondo con gli operatori a filmare. Poi
erano soliti mettere in uso dei programmi nelle sale dove le persone pagavano e vedevano questi filmati di un
minuto. Questo ce la dice lunga per quanto riguarda la loro idea di dispositivo capace di andare in giro per il
mondo, filmare i luoghi e proiettarli. Ovviamente in molti casi con un occhio molto vicino ad una certa etnografia
che fa vedere ciò che uno già aveva nel proprio immaginario. Non c’è una ricerca antropologica, ma il desiderio
di trovare il corrispettivo in termini filmici di quello che già è presente.

Fin dai primi anni si capì che si poteva agire con dei micro-pennelli direttamente sulla pellicola (modalità
artigianale), presto si affermeranno anche altre tecniche come quella di immergere la pellicola nel colore (si
affermerà un codice cromatico: giallo per ambiente aperto e soleggiato, blu per la notte, rosso per segmenti di
narrazione frazionari).

Presto accanto al mito da sfatare per quanto riguarda l’accostare al cinema muto il bianco e nero, vi è quello
dell’elemento sonoro: solo alla fine degli anni ’20 sarà possibile utilizzare una pellicola che consenta poi di
registrare anche il suono e restituire la voce agli attori. Per questi primi anni della storia del cinema c’è la musica
e i rumoristi in sala che vanno a colmare questa mancanza.

Qui vediamo un altro tipo di danza. Possiamo dunque affermare che, i primi soggetti delle prime produzioni sono
ballerine, ballerini, pugili, corpi che si mostrano, animali. Ci troviamo in una fase delle attrazioni molto
eterogenea nei suoi contenuti: non troviamo solo la danza, ma anche lotte tra galli e tutto ciò che poteva essere
attrattivo. Sicuramente, la danza e lo sport (dunque corpi che si mostrano in movimento) sono i temi più
ricorrenti. C’è una grande attenzione a livello internazionale a questo tipo di produzione e cominciano a crearsi
subito delle realtà produttive nei vari paesi. Molto presto, però, questo tipo di interesse comincia a calare. È il
momento in cui ci si accorge che se questa nuova strada vuole sopravvivere deve trovare una propria identità,
trovata poi nell’integrazione narrativa. Non si trattava più di far vedere solo corpi, figure, animali o luoghi, ma di
cominciare a raccontare.
Non si può registrare il dialogo, quindi si comincia a inserire la didascalia dei cartelli che oltre a indicare il titolo,
possono anche inserire anche degli elementi al proprio interno per aiutare la comprensione di ciò che sta
accadendo.
Presto si capì che, per agevolare questo tipo di narrazione, era il caso di attingere anche a delle storie note, ad
un patrimonio teatrale, letterario e culturale.

Quella che viene presa in considerazione è la storia del cinema occidentale perché, come avevano intuito i
fratelli Lumière quando hanno pensato alla parola Domitor, il cinema diventa anche espressione di potere, di
cinematografie nazionali che esercitano dei poteri. È chiaro che se osserviamo il Nord Africa, tra la fine ‘800 e i
primi del ‘900 siamo nel massimo dell’espansione coloniale e paesi come Algeria, Marocco, Tunisia ed Egitto
vengono utilizzati come produzioni dalle potenze coloniali. Sarà solo poi, alla fine degli anni ’50 e gli anni ’60,
con i vari processi di indipendenza, che questi paesi cominceranno ad avere una propria storia del cinema.
L’Algeria ha una nascita della propria storia del cinema strettamente legata alla guerra per l’indipendenza e
nasce proprio con quest’identità di documentare quello che è accaduto, così il cinema diventa uno strumento di
affermazione, di autodeterminazione identitario e nazionale. Tra gli anni ’50 e gli anni ’60 abbiamo dunque i primi
film nazionali, mentre negli anni precedenti questi luoghi sono stati depredati dal punto di vista cinematografico.
Si andava lì a girare il film, a prendere manovali, le location, rendendo questi luoghi simbolo di un certo tipo di
narrazione del colonialismo da un punto di vista eurocentrico.
Durante il corso, verranno osservati due posizioni storiche: uno dall’Europa e l’altro riguardante gli Stati Uniti.
Questa questione legata all’attingere al proprio patrimonio culturale e teatrale è una via percorsa in particolare
dal cinema europeo e soprattutto da quello italiano: in Italia vi erano esposizioni della Divina Commedia

Cosa fanno i produttori?


Cominciano a cercare di attrarre degli scrittori importanti come nel caso di Cabiria che ha segnato l’apice della
legittimazione culturale: è un film del 1914 in cui Pastrone – il regista torinese a capo della casa di produzione
Itala Film – decide di chiamare D’Annunzio, il più grande intellettuale a disposizione in quegli anni.
Negli Stati Uniti non si preoccupano di attrarre un certo tipo di pubblico, ma pensano a come rendere questo tipo
di spettacolo il più attrattivo possibile. Troviamo subito una prima produzione vorticosa soprattutto nel cinema
comico che affina una serie di tecniche e riprese che sarà alla base di questo nuovo linguaggio.
Cosa si fa negli Stati Uniti e in Europa?
In Europa vi è il primo film a soggetto del 1905 di Alberini – uno dei primi pionieri del cinema – che scrive e dirige
il film La Presa di Roma, un film storico che racconta un segmento del Risorgimento italiano: prende un pezzo di
storia molto recente, qualcosa accaduto meno di 50 anni prima, e mette un primo punto nell’atto di nascita del
cinema in Italia nel provare a rappresentare dei fatti storici.

La Presa di Roma è considerato il primo film a soggetto italiano che però è arrivato mutilato in alcune parti: in
fase di restauro è stato deciso, rintracciando alcuni documenti, di inserire delle rappresentazioni grafiche e dipinti
per colmare quei vuoti dati dalla mancanza di parti di pellicola. Ricordiamo come nei primi anni le pellicole
fossero facilmente infiammabili e che l’idea iniziale era commerciale nel far vedere il film per poi distruggerli.
Negli Stati Uniti si è pensato di realizzare qualcosa che invece avesse più a che fare con il coinvolgimento
emotivo del pubblico. Uscirà il talento e il genio di Charlie Chaplin che comincia a lavorare alla gag e che poi lo
porterà in una strada melodrammatica in cui affronterà temi sociali e politici importanti: dal ragazzino
abbandonato all’emigrazione, fino al Grande Dittatore.
In Europa, invece, si cerca di avvicinare il pubblico ad andare a vedere delle storie che fanno parte del proprio
immaginario e del proprio patrimonio culturale sul grande schermo. Anche questo tipo di rappresentazione si
evolverà, si investirà molto sulla musica, sulla scenografia con l’intenzione di arricchire il film anche con grandi
costumisti e scenografi portando il cinema ad una sorta di “arte totale” in grado di inglobare tutte le arti.
Abbiamo dunque un apice, toccato con Cabiria, dove però nel mentre negli Stati Uniti arrivano altri film come
nascita di una nazione dove questi elementi della tensione e del primo piano uniti a un certo tipo di recitazione
molto diversa faranno retrocedere questa strada italiana di investire su tutti questi elementi spettacolari ma poco
investiti dal punto di vista linguistico-narrativo. L’uso del montaggio diventerà specifico del linguaggio filmico e
autonomo dal teatro: mentre nel teatro vedremo sempre un personaggio nella sua interezza, il cinema ha la
capacità di portare sul volto del personaggio e creare un’empatia inedita.

Lezione 3
Ritornando dunque alla definizione di film a soggetto, si parla quindi di un film alla cui origine c'è un'idea da
sviluppare e da raccontare;

Il cinema nel Novecento


Il cinema ha sempre vissuto dei cambiamenti estremamente repentini. Si possono analizzare, dunque i periodi:
1895-1905, in dieci anni succedono tantissime cose, se si considerano, invece, 1905-1915 ancora altri
cambiamenti. Di fatto nella Presa Di Roma (1905), non ci sono attori e attrici riconoscibili, non ci sono registi, non
ci sono costumisti, non c'è nessun tipo di elemento che invece, dieci anni dopo è articolato con un sistema
divistico, un sistema autoriale, registi che si vogliono imporre con determinati temi, generi.
Nel 1915 il cinema è muto, invece nel 1926/27 si hanno già i primi tentativi di cinema sonoro che ribalta e
sconvolge tutto l'impianto narrativo e produttivo. C'è tutto un corpus di attori e attrici che a un certo punto è
inadeguato, perché non sa recitare con la propria voce. Di fatto inizialmente essi provenivano dal teatro, ma
poco dopo vennero sostituiti da attori dediti alla cinematografia che ottenne la sua indipendenza a livello artistico.
Negli anni ’10 del Novecento, invece, ormai si è affermato il lungometraggio, il sistema divistico, le riviste
dedicate esclusivamente al cinema che avevano il compito di promuovere un tale film in uscita (interviste al
regista, agli attori, foto di scena), stessa cosa per le radio.

In questo film ci sono delle didascalie che sono del film e alcune che però sono anche più riassuntive perché
nelle fasi di restauro, quando ci sono dei tagli della pellicola, attraverso un lavoro molto capillare e delicato dei
restauratori chimici, tecnici ma anche storici e si va a ricercare o a ricreare quelle didascalie che non sono state
ritrovate, ma che potevano creare una scena.
I primi film sonori che dovevano prevedere una distribuzione internazionale sono stati girati con cast diversi, con
degli attori anglofoni che poi sono stati sostituiti da attori francofoni, però in questo modo si riusciva ad avere gli
stessi costumi, quindi la stessa produzione cambiando solo gli attori. Poi si è pensato al doppiaggio, poi ai
sottotitoli, insomma si è provato poi a capire “ma come si fa adesso? se prima avevamo deli attori che si
muovevano ma sostanzialmente potevano parlare qualsiasi lingua e quindi bastava tradurre le didascalie,
adesso come si fa?” Chiaramente poi si è andato per tentativi. Tentativi che anche tutt’oggi coesistono, perché
noi abbiamo paesi in cui è inammissibile il film doppiato, in Italia ad esempio abbiamo sempre avuto una scuola
di recitazione, di arte e grammatica importante, chiaramente si è imposta in qualche modo la scuola di
doppiaggio e quindi abbiamo sempre avuto grandi attori e grandi attrici che hanno fatto solo quello o anche in
particolare quello. Inoltre, abbiamo dei riferimenti anche pittorici, come l’inquadratura del dipinto della Breccia di
Porta Pia, che fa una serie di riferimenti cronografici che lavorano a supporto.

(ci ha mostrato un film quello che è considerato dagli storici il primo film d’azione americano)
Anche qui i primati si declinano già per generi diversi. Il primo film a soggetto è un film storico, questo invece è
considerato il primo film d’azione, quindi, siamo all’interno di una costruzione diversa di linguaggio. Lì siamo
nell’evocazione di un momento storico, un tipo di rappresentazione che ingloba il fondale storico, il dipinto, ai
quadri alla rappresentazione della Breccia di Porta Pia, attori che sostanzialmente sono figuranti, una sorta di
teatro filmato. Qui invece, siamo negli Stati Uniti, con uno dei primi pionieri che lavora per le prime realtà
produttivi americane che la Thomas Edison, quindi si avvia la produzione, nascono dei primi produttori che
creano le condizioni economiche produttive per realizzare i primi film e Porter è uno dei primi che si adopera a
realizzare quei fil narrativi e che quindi raccontano qualcosa. Però se in Italia la produzione dei film narrativi si
pone nella storia qui siamo invece nella costruzione di nazione, suspense, quella cifra narrativa stilistica che sarà
onnipresente in una determinata produzione del cinema statunitense. Dura circa dieci minuti. Facciamo
attenzione al montaggio, a come l’inquadratura si interrompe per fare continuare l’azione in un’inquadratura
successiva, quindi ci sono i primi raccolti, ossia dei banditi che scendono dal treno e scappano nell’inquadratura
successiva e continuano ad essere in fuga, ad esempio; quindi, vediamo una serie di elementi che sono fondativi
del linguaggio.

Lezione 4
David Griffith
David Griffith, secondo tutti i manuali di storia del cinema internazionale, è indicato come il principale pioniere
fondatore del linguaggio cinematografico, quello che ha capito che il cinema non era teatro filmato (quello che
abbiamo visto con il cinema delle origini), ma che è un linguaggio nuovo, autonomo. Si nutre e si alimenta in
primis dell'inquadratura e quindi l’inquadratura non è solo quella frontale alla Lumière, ma è un’inquadratura che
può articolare un discorso.
Come un film costruisce un discorso? Se voi foste uno dei tanti operatori Lumière venuti qui a filmare la lezione
firmereste me che sto facendo la lezione. Invece Griffith cosa capisce? Capisce che la macchina da presa può
fare molto di più che riprendere un’intera situazione, può portarci all’interno della vita delle persone.
Dopo le riprese si va in sala montaggio e si lavora a questa costruzione.

Tra gli anni ’20 e ’30 ci sono alcuni teorici che cominciano a parlare di come il cinema ci fa portare dentro la vita,
ma soprattutto nell’interiorità dei personaggi, attraverso l'uso del primo piano. Esempio: Carl Theodor Dreyer,
che realizza alla fine degli anni ’20, un film dedicato alla figura di Giovanna D’Arco quasi esclusivamente con i
primi piani di questo personaggio.

Fin dai primi anni della storia del cinema le donne sono molto interessate, non solo ad essere attrici, ma in
particolare anche a scrivere sceneggiature o a dirigere film – oltre che poi impiegate in tante altre professioni.
Questo perché all'inizio della storia del cinema il film era visto con un po’ di ambiguità, non sappiamo ancora se
è un'arte o no, se è una produzione che può avere dei fini commerciali.

Ad esempio, quelle giornaliste che un po’ si muovevano tra l’articoletto o avevano una propensione per la
scrittura cominciano a trovare nel cinema una strada. Oggi noi diciamo che Griffith è il pioniere che ha affermato
e fondato il linguaggio cinematografico, però se poi andiamo a vedere ad esempio i film di Lois Weber che è una
sua contemporanea vediamo che fa esattamente lo stesso lavoro di costruzione di linguaggio.

Torniamo a Cabiria. Questa immagine riproduce una delle tante locandine e dei tanti manifesti che vengono
realizzati per i film. Si affermarono subito le riviste nei cinema su cui poi vengono promossi e pubblicizzati i film,
quindi, nasce anche un altro lavoro – che arriva dal teatro – ed è quello del cartellonista, quello dell'artista che è
chiamato a fare le locandine per i film.

Questo è il momento in cui più si utilizza l’antichità (tema di Cabiria) come motivo per giustificare le imprese
coloniali.

Giovanni Pastrone nel 1914 a Torino pensa di realizzare una grande opera. Chiama Gabriele D’Annunzio, che in
realtà sappiamo ha fatto molto poco, non ha scritto tutto il film, però il suo nome viene ampiamente sfruttato sul
piano promozionale. Si può trovare il nome di Gabriele D’Annunzio dappertutto come se lui fosse il regista
perché in questi primi anni del Novecento non c'è ancora una consapevolezza della figura del regista come
autore. Regista è colui che dirige la scena, inquadra, ma deve ancora affermarsi in Italia e in Europa questo tipo
di discorso, cosa che invece negli Stati Uniti – in particolare con David Griffith – viene rivendicata.
Puntualmente in tutte le locandine dell’Itala film troviamo il nome della casa di produzione, la città, il nome di
D’Annunzio e il titolo. Poi c’è questo sottotitolo “visione storica del terzo secolo a.C.” che troviamo anche nei
primi titoli del film.
Gli storici critici si sono molto soffermati su questo sottotitolo che Pastrone inserisce perché in effetti il film ha un
che di molto spettacolare. Più che narrativo, il piacere della visione è proprio dato da una serie di elementi non
legati all'intreccio. Il film si chiama Cabiria, un personaggio in realtà debolissimo, non abbiamo primi piani di
Cabiria e non abbiamo nessun tipo di empatia con questa ragazzina che poi diventa grande alla fine del film.
Però c’è un vero grande forte personaggio in Cabiria, qual è? Maciste.
Quindi “visione storica del terzo secolo a.C.” la prima cosa che ci salta all’occhio sono le scenografie. Cosa fa
Pastrone negli studi della Itala? Fa costruire in scala naturale il tempio di Moloch, anziché investire sulla
recitazione – che è molto scarsa, sembrano quasi dei mimi, anche Maciste quando fa quelle cose sono molto
semplici. Tra l’altro Maciste era quello che poi sarà l'origine del primo caso di divismo maschile in Italia.
Bartolomeo Pagano, l’attore che lo interpreta.
Parti delle scenografie del film sono conservate al Museo del cinema di Torino che, proprio a partire da questo
film, ha fondato anche la sua identità. C’è anche una parte di archivio dove sono conservate le lettere che si
scrivevano in cui si discutevano dei personaggi, di come li immaginavano ed a un certo punto si comincia a
parlare di Maciste. Maciste lo si volle uno schiavo numida, interpretato da Bartolomeo Pagano che recita nel
cosiddetto black face, ha la pelle dipinta, non per dargli questa identità del tutto africana, proprio un numida, un
meticcio.

In La grande proletaria si è mossa, ad un certo punto parla proprio dei meridionali o delle popolazioni del Sud
che spostandosi un po’ più giù potrebbero trovare lavoro, casa, territori, campi da coltivare. Si comincia a
pensare ad una delocalizzazione, ad una risoluzione del problema sud per l’Italia giolittiana. Non è un caso che
poi questo Maciste non è proprio nero, è quasi un siciliano, si mette un po’ una figura di transito che rappresenta
i valori buoni, mentre dall’altro lato ci sono i cartaginesi che sacrificano bambine nel tempio di Moloch solo per
soddisfare questo Dio crudele e non c’è nessun tipo di finalità buona in questo, rappresentano quella parte
culturale che l’Italia invece vuole occupare. Questo tipo di narrazione alimenta quel tipo di biologia. Ma allo
stesso tempo Maciste è uno schiavo, ma è fedele e buono, mette in atto la sua forza bruta solo per aiutare
Cabiria.
Cabiria, la ragazzina non ha un tipo di riscontro nel pubblico, proprio quasi invisibile. La vera figura forte in
questo film è Maciste. Intanto Maciste è il primo caso di spin-off della storia del cinema mondiale, cioè per la
prima volta un personaggio non principale di un film aziona una serie di narrazioni che lo vedono protagonista.
Infatti, nella filmografia dell’attore, oltre Cabiria, c’è il primo film che lo vede protagonista dal titolo Maciste del
1915, del 1916 invece è Maciste alpino. E così via.
In Maciste contro lo sceicco (1926) si riprende quell’archetipico orientalista che è la figura dello sceicco,
onnipresente nelle varie cinematografie occidentali. Nel primo film del 1915 lo vediamo sullo schermo nel ruolo di
un soggetto molto particolare perché c'è la storia di una ragazza che è perseguitata da un parente che vuole
impadronirsi della sua eredità, va a vedere al cinema Cabiria e qui guarda Maciste nel film e pensa di andare a
chiedere a Bartolomeo Pagano – quindi all’attore che lo interpreta – aiuto. Lei si reca negli studi in cui lui sta
lavorando come attore. Che cosa ci fa vedere il film? Quando Cabiria va in camerino, Bartolomeo Pagano si lava
la faccia e quindi mostra all’Italia che non è numida, non è nero e nemmeno mulatto, bensì bianco. Quindi
Maciste d’ora in poi subisce questo processo di sbiancamento
C’è una piccola orchestra, rappresenta un po’ la classica situazione della proiezione del film muto. C'è una
persona fuori che invita il pubblico ad entrare. Un’altra cosa interessante è il silenzio e la messa in discussione
della possibilità o meno di mangiare, soprattutto nelle sale d’essai in cui vengono programmati i film d’autore in
cui si vorrebbe la perfetta fruizione e visione del film.
Il film Cabiria esce nel 1914, è un momento di affermazione del lungometraggio, di film più lunghi. La prima
produzione era infatti caratterizzata da film brevi, con attori e attrici di scarso livello e narrazioni improvvisate.
Siamo in un momento in cui non tutti erano convinti che il film fosse come il teatro e per questo il film fu
proiettato al Mercadante. Il film fu visto anche da Benedetto Croce, il quale scriverà su Cabiria, e Matilde Serao,
la quale dice che è stata un’esperienza entusiasmante. Il cinema rappresenta un’attività redditizia che allettava
l’attore o l’attrice che all’inizio si rifiutava categoricamente di recitare in un film, ma che poi acconsentiva. Matilde
Serao è un caso emblematico, all’inizio, in un articolo del 1906 parla del cinema come un virus, come qualcosa
di cui bisogna trovare un rimedio, poi nel 1914 va a vedere Cabiria, nel mentre ne aveva visti tanti altri, si
entusiasma fino ad arrivare a cedere i diritti dei suoi libri e anche a scrivere dei soggetti. Con Cabiria siamo a
Torino, ma nel mentre il cinema si sviluppa anche in altre città, come Milano, Roma e Napoli e in queste città
prende vita il cosiddetto cinema regionale. Ad esempio, Napoli. Il cinema napoletano dei primi anni racconta
anche i bassi, la malavita, la violenza, il triangolo amoroso, quel tipo di vita che il fascismo non vuole più che si
racconti, solo nel secondo dopoguerra con il neorealismo e con i cinema popolare degli anni 50 ritroverà una
legittimità.
Lezione 5
Mario Martone è uno dei registi italiani più importanti ormai, con una carriera trascinante più da 40 anni di
esperienza tra teatro e cinema. Nel secondo dopoguerra si assiste al ritorno del cinema napoletano e tra gli anni
’80 e ’90 si parla invece di un nuovo cinema napoletano, di cui tra l’altro Mario Martone ne farà parte. Si ritorna
un po’ come i primi del ‘900 ad affrontare dei temi legati anche alla specificità della città, alla sua storia, ai suoi
problemi, alle sue stratificazioni e sicuramente Martone è uno di questi registi che ancora oggi continua a fare
film. Importante è il film che racconta la storia di Eduardo Scarpetta, un grande autore, padre di Eduardo De
Filippo, di Titina e di Peppino, un grande capocomico, che comincia a lavorare e diventa un po’ la figura di
spicco. Ad esempio, Miseria e Nobiltà è la trasposizione cinematografica dell’opera di Scarpetta, e poi sta
continuamente a teatro il “Felice Sciosciammocca”, che è un altro archetipo che subentra la figura di Pulcinella in
un’evoluzione.
Nel film di Martone c’è proprio quella messa in crisi di un certo tipo di teatro, di un certo tipo comicità. Scarpetta
è un po’ in declino, c’è un momento di conflitto generazionale con uno dei suoi figli, Vincenzo Scarpetta e ad un
certo punto lui dice: “Basta, adesso ti ci metti pure tu? Già c’è il cinematografo che mi sta assillando” perché
mette in qualche modo anche in discussione dei modelli precedenti come poteva essere quel tipo di comicità e di
scrittura teatrale di Scarpetta. In un certo senso così “riattiva” un cosiddetto cinema napoletano, così come si era
affermato nei primi anni del ‘900 con tutta una serie di pellicole con un fiorire di case di produzione, che lavorano
esclusivamente a Napoli su questo tipo di narrazioni fortemente legate alla propria cultura, e al proprio un
patrimonio culturale teatrale, musicale letterario, un po’ come farà, in generale, il cinema in Italia.

I generi cinematografici
Avendo come riferimento dei sistemi di rappresentazione come il teatro e la letteratura, fin dalla prima
produzione narrativa, la produzione cinematografica si suddivide in generi. La suddivisione in generi entra fin da
subito in modo quasi assolutamente necessario, perché un tipo di narrazione dove gli attori non possono parlare,
perché non li sentiamo, in un sistema ancora primitivo di rappresentazione, il genere in qualche modo ci situa
immediatamente. Il genere in qualche modo ci orienta nella scelta di quelli che possono essere anche i nostri
gusti. Negli Stati Uniti si impone un’importante casa di produzione, la Keystone Company di Mack Sennett, dove
comincia a lavorare Charlie Chaplin, e quindi fa solo comiche

Cabiria si potrebbe dire essere la rappresentazione di un genere tipico italiano, che è il film colossal. Seguendo
le orme di Chaplin con gli stessi poliziotti nascono i Keystone Cops.

Cosa fanno i poliziotti della Keystone? Inseguono sempre la persona sbagliata o magari mentre stanno per
arrivare al ladro, al malfattore, inciampano finiscono in una pozzanghera, gli cade una cosa in testa. Sennet, uno
dei primi produttori di film comici, lavora su una costruzione del linguaggio: un’inquadratura A che porta in
un’inquadratura B che porta in un’inquadratura C.

David Griffith e The Lonely Villa


In The Lonely Villa/ La Villa Solitaria Griffith intuisce che attraverso un certo uso del montaggio, cioè affiancando
delle inquadrature ad altre inquadrature, può generare una tensione nello spettatore del pubblico, quello che poi
è passato alla storia come la suspence, quella tensione emotiva e quindi è come se fin da subito lui avesse
capito proprio l’impatto sul pubblico di un certo tipo di narrazione.
Già il titolo è importante da cui si capisce che si sta per vedere un film che si situa in un contesto isolato. Molto
brevemente, accade che un padre di famiglia s’allontana da questa villa dove vive con le figlie e la moglie, va in
città e nel mentre dei malviventi tentano un furto a casa sua, dove la moglie con le bambine sono in gran
pericolo. Attraverso un montaggio alternato ci fa vedere contemporaneamente quello che vivono le bambine con
la madre nella villa e quello che sta tentando di fare il padre.
È abbastanza chiaro come Griffith lavori alla costruzione della suspence fino a questo tipo di narrazione che è
sua specifica del cosiddetto last minute rescue, cioè “salvataggio all’ultimo minuto” che qui è davvero molto
rapido, l’attimo in cui il padre alla fine arriva e riesce a mettere in salvo la propria famiglia.

Nei lungometraggi, in particolare in The Birth of a Nation questo aspetto diventa molto più articolato, fino ad
arrivare allo scioglimento dell’ultimo minuto, quel momento in cui sembra non ci sia via di scampo per le persone
in pericolo, ma c’è poi l’irrompere di una figura che salva. Griffith lavora su questa sperimentazione del
montaggio sia in questa chiave più legata alla suspence, sia in un altro modo, in chiave più ideologica
moralistica, cioè utilizza questo tipo di alternanza tra una situazione e l’altra lavorando più che su un montaggio
alternato su un montaggio parallelo.

A Corner in Wheat
In questo cortometraggio Griffith sposta l’attenzione del pubblico su altre questioni: l’articolazione in borsa del
costo di una materia prima come il grano, un bene primario, che serve per fare il pane in primis e i suoi derivati e
che quindi serve a tutti. Dunque, si parla di come la speculazione sul costo del grano porti all’aumento di un
bene primario come il pane e abbia degli effetti su tutta una fascia della popolazione che non ha condizione
economica tale da stare al passo con questa “lievitazione” del prezzo di un bene primario come il pane. Ciò porta
da un lato ad una situazione in cui i ricchi sono sempre più ricchi e dall’altro i poveri sono sempre più in difficoltà,
perché se prima andavano dal fornaio con pochi centesimi, ora non riescono più a portare il pane a casa. Questo
è molto importante, perché Griffith, oltre a coprire questo ruolo di figura pionieristica perché mette mano al
montaggio e articola la narrazione filmica come pochi hanno fatto prima e lavora anche alla costruzione della
suspence, della tensione. Molto presto capisce che il cinema può essere anche strumento di riflessione, può
produrre anche un pensiero, un racconto che può essere anche orientato a trasmettere dei valori, a
sensibilizzare il pubblico a riflettere su varie questioni. Altro elemento importante è l’uso della didascalia di
Griffith. Fino a Griffith, la didascalia serviva per dare indicazioni; Griffith invece usa la didascalia anche in chiave
morale.
Qui abbiamo un procedimento narrativo parallelo. Cosa si intende per montaggio parallelo? Griffith ci mette di
fronte a due gruppi di persone che non hanno alcuna interazione tra loro: contadini all’inizio e alla fine, come
cornice iniziale e di chiusura, che non incontrano mai gli speculatori, quelli che lui chiama nella didascalia “i re
del grano”, sono personaggi che fisicamente non si incontrano, viaggiano in parallelo come i binari, senza mai
incrociarsi.

Altre volte, in modo altrettanto sapiente, Griffith, invece di spezzare la narrazione con la didascalia, quando
riesce la inserisce nell’inquadratura.

Questa narrazione parallela è fatta di forti contrasti: c’è una ripresa che alterna la scena della festa, del
banchetto, della ricchezza, della gioia a questa inquadratura che è un’istantanea di queste persone che non
hanno possibilità di comprare e poi torna di nuovo ai ricchi. Quindi c’è alternanza di situazioni parallele. Un’altra
cosa che usa spesso nei suoi film la si vede nella scena in cui arriva un telegramma in cui questo magnate viene
informato che sono stati aggiunti 4 milioni di dollari al suo patrimonio perché questa speculazione gli ha portato
enorme ricchezza e qui non usa lo stile della didascalia ma ci fa vedere direttamente il telegramma, anticipando
un po’ l’inquadratura soggettiva che utilizzerà nei lungometraggi. Compie in modo ancora non perfetto (lo farà in
modo molto più puntale nei lungometraggi a venire) il cosiddetto “raccordo di sguardo”, in cui dapprima si
riprende una persona nell’atto di guardare qualcosa, poi nella seconda inquadratura si mostra quello che questa
persona sta guardando, che è la soggettiva.
Griffith è una figura passata alla storia per il suo moralismo, quindi, è chiaro che lui in questo tipo di narrazione,
come tutte le narrazioni moraleggianti, mostra il magnate che fa una brutta fine e la deve fare anche in un modo
fortemente simbolico. Infatti, egli muore sommerso dalla sua stessa ricchezza ovvero il grano, poiché cade in
una botola della sua azienda e muore.

Lezione 6
I casi Griffith, Chaplin e Méliès ci danno la possibilità di parlare della questione produttiva, imprenditoriale e
artistica ma anche autoriale; sono questioni che, andando avanti nel nostro percorso lungo la storia del cinema,
saranno da recuperare.
È il 1902 e in Francia c’è un altro pioniere della storia del cinema, Geo Méliès, il cui contributo è legato a capire
fin da subito anche le potenzialità di genere del cinema, un certo cinema alla base della fantascienza. Anche qui
ancora una volta si tratta di qualcosa che aveva fatto anche la letteratura e non a caso Méliès si appoggia a uno
scrittore molto noto: Jules Verne, il quale scrisse Il viaggio nella luna, Il viaggio nell’ impossibile, quindi una serie
di racconti narrativi che cominciano ad immaginare delle esperienze che nella contemporaneità non erano
possibili. Nel 1902 andare sulla luna rappresentava la fantascienza, mentre un secolo dopo è un’esperienza già
più volte fatta.
George Méliès era un illusionista e faceva spettacoli di magia e capisce che questo dispositivo poteva in qualche
modo far evolvere la sua arte: attraverso il montaggio, il cinema gli consente di portare sullo schermo i suoi
trucchi, i quali avvengono attraverso altre tecniche.

Un homme de tête è stato prodotto un paio di anni dopo l’esperienza Lumière. È un trucco che riesce a fare con
la sovraimpressione, ovvero impressiona più volte la pellicola con la sua testa e quindi lavora sulla pellicola e sul
montaggio. I primi lavori di Méliès sono questi, attrazioni dimostrative dove non racconta nulla, ma fa
semplicemente vedere qualcosa di spettacolare: lui è l’inventore del cinema a trucchi. Tra l’altro lui è anche uno
dei primi a utilizzare il colore sulla pellicola, colorando con dei micro pennelli la pellicola fotogramma.

Anche nel cinema di Méliès incontriamo la questione produttiva. Méliès fonda una propria casa di produzione
che è la Star Film e fa edificare un bellissimo teatro di posa con un tetto in vetro nei sobborghi di Parigi. Otterrà
un enorme successo ma in seguito finirà in disgrazia perché non aveva ancora capito, da un punto di vista
imprenditoriale e commerciale, quale fosse il sistema da scegliere. Méliès produceva un film, ne stampava 10/20
copie e le vendeva, non aveva capito che avrebbe dovuto lavorare sui diritti di proiezione così come accade
oggi. Lui diventa molto famoso sicuramente ma in realtà così facendo arricchiva chi comprava, poiché
chiaramente gli esercenti pagavano il film una volta per poi proiettarlo per anni, quindi l’esercente guadagnava
tanto. Inoltre, essendo da un lato un artista e dall’altro un produttore, non aveva una dotazione imprenditoriale.

Méliès non aveva nemmeno ancora capito la funzione del montaggio in chiave narrativa ma solamente in chiave
spettacolare.
In questa scena gli attori stanno preparando la spedizione sulla luna, l’inquadratura è frontale, non c’è alcun tipo
di segmentazione della scena, le donne hanno solo funzione decorativa.
L’immagine della luna che viene colpita, che è disseminata in tante altre narrazioni.

Negli Stati Uniti si impone un tipo di produzione cinematografica dove sin da subito è molto netta la linea di
demarcazione tra regista, attore e produttore. Quindi le prime grandi case di produzione nel corso degli anni ’10
decidono di lasciare New York, che nei primi del ‘900 è la capitale culturale degli Stati Uniti (il grande teatro era a
New York, il teatro d’avanguardia), e per una serie di ragioni decidono poi di andare a trovare uno spazio adatto
all’insediamento produttivo.
Hollywood è una zona periferica alla città di Los Angeles, in California ed è il luogo in cui le prime grandi case di
produzione decidono di spostarsi.

A capo delle case di produzione c’è il produttore la figura che mette i capitali e si inizia a parlare di Producer's
System, cioè è il produttore che decide chi deve recitare, chi deve fare un ruolo, chi un altro, quale genere e tipo
di narrazione perseguire. Cominciano ad esserci una serie di questioni in campo e c’è l’arrivo della censura.

Il cinema delle origini, in particolare il cinema delle origini americane, avvia fin da subito una produzione di film
porno perché la portata è tale che ti colpisce subito il risvolto.

Anche qui comincia a porsi la questione dell’autore che in primis si pone D. W. Griffith. Egli aveva cominciato
con la Biograph, una delle prime realtà produttive newyorkesi. A un certo punto lascia questa casa di produzione
e si mette in proprio. Fonda una propria realtà produttiva perché ormai è sufficientemente noto per avviare una
sua casa di produzione.

The Birth of a Nation


Questo film venne proiettato anche alla Casa Bianca e raggiunge i grandi teatri italiani ed europei. A Napoli
viene proiettato al Mercadante.
“Cabiria” di Pastrone convince Griffith a realizzare una grande opera a carattere storico con una durata di tre
ore. Oggi è raro trovare film che durano così tanto. Dopo queste prime esperienze, al cinema ci sono varie
discipline che entrano in merito anche dal punto rivista della sostenibilità motoria, perché quando vediamo un
film siamo fermi in una sala al buio almeno per un certo numero di minuti e sono previsti degli stacchi. Tuttavia,
l’attenzione non reggeva e molto presto si capisce che dal punto di vista di esperienza e di intuizione la durata
ottimale era 90 minuti. Quando entriamo nell’era del cinema classico si standardizza intorno ai 90 minuti che è
ancora oggi la durata canonica.
Con Cabiria Griffith capisce che si può mettere in scena un certo tipo di racconto corale e storico con un certo
tipo di accompagnamento musicale. Lui prima aveva già lavorato alla costruzione dei personaggi e della
suspense con la “Villa Solitaria” di molti anni prima. Nel 1915 lui aveva ormai raffinato questa tecnica narrativa e
mette mano ad una narrazione storica che, a differenza di Pastrone, non va così dietro nel tempo ma di pochi
decenni, alla Guerra di Secessione (alla guerra civile tra nordisti e sudisti). Inserisce il personaggio di Abraham
Lincoln e la sua uccisione e soprattutto affronta un certo tipo di narrazione prima degli schiavi neri che lavorano
nelle piantagioni di cotone. Si arriverà poi all’abolizione della schiavitù e all’interno di tutta quella dinamica di
conflitti e di scontro ci saranno poi degli episodi molto violenti che porteranno alla creazione del movimento che
oggi viene universalmente riconosciuto come un movimento terroristico: il Ku Klux Klan, persone che di notte
s’incappucciano di bianco, vanno a cavallo a cercare i neri presunti colpevoli di atti di violenza e di rappresaglia e
compiono episodi di giustizia sommaria.

Griffith va a mettere mano alla questione d’identità nazionale forte della Guerra di Secessione accaduta pochi
decenni prima. Infatti, gli americani degli anni ’10 consideravano la Guerra di secessione una questione cruciale.
Griffith compie una narrazione di stampo prettamente razzista. Già con Cabiria c’era un orientalismo molto
presente: mettere da una parte i buoni, i romani, e dall’altra i cattivi come i barbari e i cirilli-cartaginesi.
Possiamo vedere come concepisce la didascalia graficamente: mette questa cornice e mette a destra, a sinistra,
al centro e sotto il suo nome o le sue iniziali, presenti anche nella didascalia dei crediti, con i nomi con i
personaggi degli attori e ovviamente il suo.
L’ uscita di questo film scatenerà il putiferio: da un lato la comunità afroamericana, dall’altro tutti quelli che si
dichiaravano antirazzisti e vedevano in questo film una nazione di stampo razzista. Ci furono molti episodi di
proteste molto accese durante le proiezioni di questo film, perciò, Griffith decise di inserire delle didascalie.
In questa didascalia è chiara la sua retorica e dice: se in questo lavoro noi siamo riusciti a mostrare l’orrore della
guerra questo sforzo non sarà stato vano.

Nel 2015 è uscito un film girato da un regista afroamericano che racconta gli stessi eventi storici riprendendo
parti della narrazione di Griffith ma da una prospettiva completamente ribaltata, utilizzando però lo stesso titolo:
The Birth of a Nation.

Quando in America si sta avviando il Producer’s System, il nome del regista non compare nei manifesti, ma
solamente la casa di produzione e il nome degli attori e delle attrici, perché accanto al Producer System si
afferma lo Star System: sistema produttivo che ruota intorno alla figura della star. Si va al cinema non a vedere
il film di Griffith ma per vedere la star del film. Non c’è un Director’s System, quindi c’è una riconoscibilità
solamente dello studio, della casa di produzione e degli attori e delle attrici. Paradossalmente proprio in questo
panorama Griffith rivendica la sua produzione.
In Italia invece, la figura del regista sarà più riconoscibile, come il caso Cabiria in cui la paternità viene data a
D’Annunzio, cioè il nome di Pastrone proprio non viene fuori, ma questo è un caso abbastanza particolare.
Griffith, inoltre, non aveva paura della censura, poiché voleva avere il diritto di mostrare il lato oscuro del male,
da illuminare con la stessa libertà che viene concessa alla parola scritta ovvero l’arte alla quale appartiene la
Bibbia e i lavori di Shakespeare. Questa didascalia è importante: si è appena nel 1915 ma lui ha già la
consapevolezza che il cinema si sta situando nel sistema accanto a una figura sacra delle arti sceniche e del
teatro, oltre che della letteratura teatrale, che è quella di Shakespeare. Ma non gli basta Shakespeare come
figura di paragone, addirittura lui chiama in causa la Bibbia.

Charlie Chaplin
Charlie Chaplin, assieme a Griffith e ad altri attori attrici come ad esempio Mary Pickford, a un certo punto
decidono di fondare una realtà produttiva indipendente. Chaplin comincia con un grande importante produttore
Mack Sennett, che dà vita alla company con la quale produce un tipo di comicità molto fisica, fatta di slapping
(schiaffo e bastone), inseguimenti, torte in faccia, momenti rocamboleschi, che sono però dal punto di vista
narrativo molto scarsi. C’è adesione a un certo tipo di spettacolo che con l’arte del racconto non ha nulla a che
fare. Da un punto di vista architettonico, gli studi imponenti in quanto per poter girare serviva molto spazio.
Chaplin con le sue importanti particolari capacità recitative comincia a lavorare come attore comico e molto
presto decide di lasciare questa esperienza iniziale per virare verso un tipo di narrazione diversa.

The Kid
Questo è il primo lungometraggio di Chaplin, autore e regista del cinema statunitense. Chaplin arriva negli Stati
Uniti dalla Gran Bretagna con la propria famiglia e cresce in un contesto artistico legato al teatro, in particolare al
teatro del mimo, un’esperienza che porterà in tutti i suoi lavori.
The kid arriva dopo una serie molto ampia di esperienze artistiche come attore e da qui comincia ad affinare il
personaggio. Quella che poi diventerà nel suo cinema la figura di Charlot è molto connotata in primis per
l’abbigliamento, straccione ma elegante, dalla portata politica molto forte. Da un lato ha i pantaloni stracciati, la
giacca malmessa, dall’altro prova a portare sullo schermo un’eleganza che è fatta soprattutto di valori in una
società che è sempre più capitalista in cui i valori stanno andando in malora. Il personaggio di Charlot prova a
resistere e Chaplin, film dopo film, comincia ad affinare una propria autorialità. In realtà Chaplin porta avanti la
sua visione del comico molto particolare, con una dimensione melodrammatica molto forte: in The Kid si parla
dell’abbandono di un bambino da parte della mamma che non lo può tenere. Quindi lui affronta così questa
problematica sociale, fatta da due piccole miserie che si incontrano. Charlot per poter campare ripara i legni, e il
ragazzino abbandonato, in cerca una figura di riferimento, trova Charlot che però cerca in tutti i modi di
scacciarlo. Film dopo film va a toccare una serie di questioni politiche importanti, sempre con questa doppia cifra
di genere.

Si può citare il film L’emigrante. Charlot migra dall’Europa agli Stati Uniti, ha il mal di mare per questo viaggio
estenuante, viene scambiato per ladro, si innamora, non ha soldi, tutta una serie di situazioni comiche. Invita la
ragazza che ha conosciuto sulla nave al ristorante una volta arrivati negli Stati Uniti, poi si trova a racimolare
pochi centesimi per poter offrire il caffè. Alla base c’è l’elemento drammatico della traversata che avveniva in
condizioni non rosee, e tutto quello che poi attendeva le persone all’arrivo, i documenti, il riconoscimento.
Il tutto è ambientato tra gli anni ’10 e ’20, dunque c’è l’immagine fortemente simbolica dell’arrivo della nave a
New York, dove si vede la Statua della Libertà, ma spesso queste persone non trovavano grandi condizioni di
inserimento, quindi, Charlot/Chaplin compie una riflessione sulla miseria che aspettava dall’altro lato dell’oceano
queste persone che andavano a cercare fortuna lasciando le proprie case.
Film dopo film lui inserisce delle questioni politiche e sociali importanti, fino ad arrivare a due film: Modern Times
e Il Grande Dittatore.
Nel corso della seconda metà degli anni ’20 il cinema comincerà la sperimentazione per risolvere il gap sonoro.
Si comincerà ad arrivare ai primi film sonori compiuti tra il ’29 e il ’30 e ciò determinerà la crisi di molti attori e
attrici che avevano lavorato anni in un tipo di rappresentazione completamente diversa.
Per Charlie Chaplin/Charlot, molto legato a un’arte mimica, la definizione dei suoi personaggi è data dal trucco,
dall’abito, dall’espressione, dagli occhi, non ha bisogno di parlare. Quando arriva il sonoro lui si rifiuta di fare film
sonori, non sente questa esigenza, vede una menomazione. Era stato sempre molto attento alla musica che
scriveva egli stesso.
Un’adesione completa avviene con Il Grande Dittatore, in cui c’è un gioco comico di un personaggio ebreo tale
e quale a Hitler che per questo motivo viene perseguitato, il gioco del doppio tipico del genere comico del teatro,
non solo del mondo cinematografico. Chaplin fa questo discorso all’umanità, nel momento storico in cui la
Seconda guerra mondiale è ancora in atto.
In Modern Times del 1936, compie una riflessione sul sistema produttivo che sta completamente
disumanizzando l’uomo riducendolo a una mera macchina. L’operaio affronta il momento del pasto dove è tutto
meccanizzato, automatizzato. In chiave comica si fa una riflessione su come in questi anni il capitalismo sta
completamente trasformando le modalità produttive.

Lezione 7
La proiezione verso una concezione del film come opera d'arte, come opera di un autore, di un artista, di un
regista sarà molto più forte in Europa, come in Francia, Germania. In Europa tra gli anni ’10 e ’20 comincia una
serie di ricerche e con l’inizio del futurismo italiano, le arti sono state investite da una forte riconfigurazione delle
modalità di rappresentazione, e anche il cinema vive una stagione molto eterogenea tra Italia, Francia,
Germania, Russia. In questi anni ci saranno dei punti fermi rispetto a quello che il cinema può fare, può essere,
può rappresentare e sperimentare. I movimenti dell'avanguardia sono tanti e diversi.

In questo documentario prodotto da British Film Institute, Martin Scorsese compie un viaggio nel cinema
americano. Nella prima parte ripercorre l'affermazione, la fondazione di Hollywood e la dialettica, la diatriba tra
regista, produttore e sistema produttivo. Il cinema ha lavorato sulla sua rappresentazione, ci sono tanti film che
hanno raccontato il mondo del cinema. Non è un caso che Scorsese cominci questo documentario con questa
clip, gettando l'attenzione sulla relazione così complessa tra produttore e regista.
Il film è segmentato in dieci parti ma è visionabile per intero. Scorsese organizza la narrazione: c’è prima “il
dilemma del regista”, poi la seconda parte intitolata “il regista come storyteller”, ed è un continuo andare avanti
nella storia del cinema americano.

Hollywood si struttura come industria, il sistema è completamente opposto, ci sono delle case di produzione che
hanno come fine quello di produrre un totale di film all’anno, nell’apice della produzione hollywoodiana ogni casa
di produzione realizzava circa 50 film all’anno, quindi una mole di lavoro impegnativa.
Quindi, il produttore ingaggia sceneggiatori, attori, attrici, costumisti, scenografi, registi oltre a tutto il comparto
delle maestranze, che sono figure che alla stregua di queste altre figure professionali e creative sono dipendenti,
loro facevano dei contratti non per un solo film.
Il sistema hollywoodiano nel suo periodo classico, dagli anni ’20 agli anni ’50, aveva lo scenografo stipendiato
che doveva fare le scene per tutti i film che produceva la casa di produzione e non necessariamente reiterava
sempre lo stesso genere.
Quando dice “se era un film che aveva sempre le tende bianche di seta allora era un film MGM” lo afferma
perché MGM usava quel tipo di scenografia, perché da un lato avendo alle proprie dipendenze quel gruppo di
scenografo e costumisti c’è una riconoscibilità in questo tipo di professioni e c’era anche un discorso industriale
e commerciale di riutilizzare set e costumi, e quindi film dopo film le cose venivano riciclate, questo è anche il
motivo per cui le case di produzione si standardizzavano nei generi. Quindi c’è dietro una logica industriale e
commerciale che porta a sfruttare al massimo sia ambienti e costumi i ma anche attori e attrici e registi.

C’è la testimonianza di Frank Capra, un director di Hollywood che soffriva molto questa marginalità in cui
venivano tenuti i registi. A un certo punto c’è la locandina che indica il nome del regista, quindi alcuni registi son
riusciti nel corso della Hollywood classica ad affermarsi da un punto di vista autoriale e ad ottenere un
riconoscibilità che in questo sistema che si articola tra producer system e star system: si vedeva promosso o il
marchio o il nome della casa di produzione, lo star system sfruttava il ruolo dell’attore o dell’attrice e quindi sulla
locandina e sull’apparato professionale ci finiscono i nomi degli attori, delle attrici e della casa di produzione.
Questo sistema che definiamo industriale è un’industria culturale e quello che quest’industria produce sono
storie, narrazioni e quindi non è un prodotto come un altro ma è un tipo di narrazione che alimenta un
immaginario molto ampio fatto di storie, di valori e modelli di riferimento quello che poi viene chiamato l’american
way of life.
Nel documentario Scorsese parla dei cosiddetti “generi autoctoni”, fortemente radicati nei contesti e negli
ambienti in cui si sviluppano, come ad esempio il Western che racconta il mito della frontiera e il conflitto tra
quelli che volgarmente vengono chiamati “indiani d'America”, i nativi e gli Americani. Nelle clip di Walsh è
importante il paesaggio che in qualche modo è predominante e tutti i valori che vengono veicolati.
Il Gangster Movie invece è un genere che rappresenta il contesto metropolitano: storie di gangster, mali affari,
malavita che chiaramente si collocano in un determinato ambiente metropolitano e quindi portano anche qui
sullo schermo delle questioni ampie che hanno anche a che fare con un certo tipo di costruzione identitaria.
Alcuni generi prendono vita dalla letteratura, dal teatro e quindi sono un'evoluzione di un sistema delle arti della
rappresentazione precedente, altri invece nascono (come il Western) dalle prime narrazioni dei primi anni del
Novecento.

Una delle questioni del panorama audiovisivo-contemporaneo più attuale è quello della serialità, quanto la
serialità oggi in qualche modo stia tenendo banco alle altre forme come il film, il documentario, film di finzione.
Nella serialità è insito quel meccanismo di affezione al personaggio, a quello che gli accade, ai suoi sviluppi. Il
cinema, anche se in narrazioni diverse, ha sempre agito su un certo schema ripetitivo cioè di riportare sullo
schermo degli schemi narrativi agiti dai personaggi, e lo sappiamo anche noi che alla base di qualsiasi
narrazione tout court (che sia un testo letterario, romanzo) c'è una fabula che prevede un intreccio e una
dinamica tra i personaggi che i teorici della letteratura hanno da molto tempo riscontrato, e che alla fine le storie
nella loro varietà sono veramente poche e quindi si può declinare all'infinito uno schema che però è sempre lo
stesso.
Quello che poi ci porta al cinema o a vedere una serie dopo l'altra è l'assistere continuamente ad una dinamica
tra i personaggi che provano in qualche modo a rappresentare le questioni che hanno a che fare con la vita,
come l'amore, l'odio, lo scontro, il conflitto, la morte. Tuttavia, questi grandi temi possono essere declinati nel
genere comico, in un musical piuttosto che in un western.

Dunque, si parla di Hollywood come una grande industria culturale che ha avuto un suo ruolo nel raccontare e
risollevare quei valori della società americana che ad un certo punto vengono messi in crisi da determinati eventi
storici. È un periodo storico di grande sviluppo degli Stati Uniti.
Con le avanguardie tra gli anni ’10 e ’20, l'Europa viene investita e travolta dalla Prima Guerra Mondiale che da
un punto di vista produttivo segnerà le sorti delle cinematografie nazionali, a fronte invece di un contesto
americano molto più florido che vede appunto nel cinema una grande industria culturale che può da un lato
veicolare capitali e dall'altro declinare dei valori che definiscono la società statunitense.
Griffith si convince del lungometraggio negli Stati Uniti dopo la visione di Cabiria perché è un grande colossal
che riusciva a mantenere l'attenzione del pubblico per un tempo così lungo. Dopo la Prima Guerra Mondiale
questa forte presenza del cinema europeo, in particolare quello italiano all'estero, viene ridimensionata perché è
una scenografia europea-italiana che si indebolisce con la sconfitta della Prima Guerra Mondiale. Al contrario ad
Hollywood si vede un'organizzazione in chiave industriale, che per rafforzare ancora di più questa questione del
côté culturale, si arricchisce anche di voci che vengono dall'Europa e che scappano ad un certo punto durante il
nazifascismo, in particolare attori, attrici, sceneggiatori, registi, ebrei che di fronte ad un momento così nero della
storia europea decidono di emigrare e così Hollywood si arricchisce anche di questa visione più europea.
Quindi quello hollywoodiano è un panorama estremamente eterogeneo e ricco di esperienze che in questi anni
per molti decenni articola il panorama di Hollywood tra un continuo braccio di ferro e se in questo sistema così
blindato ci sono registi che non riescono a sostenere il predominio del produttore, tuttavia, alcuni riescono, come
John Ford e Alfred Hitchcock.
Hitchcock è un'altra figura che parte dalla Gran Bretagna, quindi con tutto il suo bagaglio culturale, artistico,
europeo, anglosassone e che poi arriva ad Hollywood.
Anche Greta Garbo è una grande attrice che arriva ad Hollywood e che diventerà una grande diva, proveniente
dal cinema del nord-Europa, quindi c'è anche questo fenomeno di emigrazione artistica che rende Hollywood
ancora più forte.

Lezione 8
Con lo Star System hollywoodiano i contratti che le case di produzione facevano sottoscrivere agli attori e alle
attrici sembravano quasi non avere limiti: il controllo del peso piuttosto che un certo tipo di condotta di vita,
l’indicazione di a che ora andare a dormire, fino poi anche a sottoporsi a interventi di chirurgia estetica. Questi
contratti compravano la vita dell’attore/attrice, provando in tutti i modi a sfruttare la loro vita, il corpo, la
performance e l’interpretazione. In questo modo essi diventano, da un punto di vista commerciale, un tassello
importantissimo perché il primo elemento di attrazione verso il pubblico, fin da subito si è riscontrato proprio in
questo meccanismo di affezione e immedesimazione nei confronti dei personaggi. Ciò ha generato il desidero,
da parte degli spettatori, di essere pettinati come quella diva, di portare quel tipo di sopracciglia, quel tipo di
trucco e abito. È accaduto fin da subito proprio perché il cinema è stato, sin dagli inizi del ‘900, un’arte di massa
che ha raggiunto un numero sproporzionato di persone, e che poi ha anche generato questa influenza legata al
costume e alla moda.
Accade tutt’oggi che dei film hanno anticipato delle mode e anche dei modi di vestire, come è accaduto con
American Gigolò (primi anni ’80) con Richard Gere, in cui è la prima volta che un uomo comincia a mescolare il
jeans con la giacca classica.

L’età d’oro di Hollywood


L’età d’oro di Hollywood avviene in un momento in cui, alla fine degli anni ’20, ci si trova di fronte alla prima
introduzione del sonoro che mette un primo punto al percorso evolutivo del linguaggio cinematografico. Il cinema
nasce a fine ‘800 con una serie di problemi: non c’è il montaggio, non si possono sentire la voce degli
attori/attrici, la cinepresa non si muove, si ha una forte dipendenza con il modello teatrale. Già nei primi anni del
‘900 alcuni pionieri cominciano a lavorare su una serie di strumenti narrativi, linguistici e tecnici e quindi in questi
anni si inizia a lavorare sull’uso del montaggio, la dinamica tra scene e personaggio, tutta una serie di espedienti
tecnici narrativi per mettere su quella che viene chiamata una vera e propria grammatica cinematografica.
Quando si parla di Hollywood classica/cinema americano classico, non si parla solo di aspetti formali e visivi, ma
di una continua negoziazione con l’aspetto industriale e commerciale e, quindi, un certo tipo di organizzazione
produttiva.

Hollywood, più di ogni altra realtà produttiva, ha lavorato sulla “fabbrica dei sogni” mettendo a punto un sistema
basato sulla metafora del sogno: si va al cinema, si è rapiti dal film e per tutta la sua durata si vivono desideri ed
emozioni che la narrazione restituisce.
Hollywood diventa serbatoio di immagini e modi di fare, di atteggiamenti e volti. Oggi il dibattito contemporaneo è
molto centrato anche su un certo tipo di fisicità e di immaginario veicolato dai media. Invece, nella Hollywood
classica c’era molto meno varietà, che proponeva un certo tipo di mascolinità e femminilità, sia in negativo che in
positivo.

Greta Garbo è un’attrice diva che si muove dall’Europa verso gli Stati Uniti. La Garbo porterà sugli schermi un
certo tipo di femminilità anche chiusa in una sua espressività. Quando uscirà Ninotchka di Lubitsch, il trailer e i
manifesti portano la scritta “Greta Garbo sorride”, perché è la prima volta che la Garbo interpreta un personaggio
che ad un certo punto ride. I personaggi affidati a lei fino a quel punto erano molto complessi e rigidi, rimarcando
la femminilità nord-europea.

Via col Vento è un grande film che ebbe un grande impatto mediatico. Grande importanza è data alla narrazione
e alla tecnica: quel carrello all’indietro nel finale che crea un particolare effetto.

Il mago di Oz di Victor Fleming è del 1939. Questa è una delle prime sperimentazioni a colori. È interessante
vedere come Hollywood ricorre al colore in chiave fantastica, non in realistico. Le scene realistiche, infatti, sono
in bianco e nero, e diventano a colori quando si entra nel mondo fantastico.
Le prime sperimentazioni a colori non sono nate per creare una rappresentazione reale, ma il contrario. Nei
decenni precedenti la narrazione si era standardizzata in Bianco e nero e il pubblico non aveva difficoltà ad
entrare nella pellicola in bianco e nero. Il colore diventa quindi veicolo di fantastico.

Quarto Potere di Orson Welles è un film del 1941. È un film che invece mette a dura prova il sistema
hollywoodiano, la sceneggiatura di ferro, il predominio del producer system.

Viale del tramonto (1950) di Billy Wilder. Billy Wilder è un grande regista e Viale del tramonto è un film che
racconta la deriva dello star system e la crisi di una diva del cinema, interpretata in questo caso da Gloria
Swanson. Il film rappresenta una delle tante narrazioni che riflettono sul cinema e sul mondo del cinema.

Questa è la nozione di classico. Nel moderno, invece, non riusciamo a trovare canoni e stili che si ripetono. Nel
classico riscontriamo il riconoscibile: la durata, le dinamiche, il conflitto tra bene e male, un inizio uno sviluppo e
una fine, un happy ending, tutti meccanismi che si reiterano.

Lo studio è sia quello che si intende come “teatro di posa”, ma lo studio in inglese indica anche l’insieme degli
spazi e degli edifici in cui la casa di produzione si insedia. Lo studio system non è nient’altro che l’apparato
industriale della Hollywood classica caratterizzato dall’egemonia di alcuni grandi studios, che producono e
distribuiscono film su larga scala.
Nella Hollywood classica c’era un vero e proprio oligopolio, cioè il potere era in mano a poche case di
produzione che dettano una serie di leggi, le cosiddette Majors o Big Five che si consolidano e mettono insieme
per blindare il mercato cinematografico dalla concorrenza. Queste sono la Paramount, la Warner Bros, la 20th
Century Fox, la RKO (che darà la possibilità a Orson Welles di girare Quarto Potere) e la Metro-Goldwin-Mayer.
Ognuna di queste case ha il proprio teatro di posa, il proprio studio di post-produzione e i propri magazzini, ha un
parterre di artisti e attori sotto contratto che lavorano seguendo le direttive del producer: è un’organizzazione
verticale.

Ogni Major è specifica e lo fa attraverso i generi, anche per ottimizzare i costi di produzione, specializzandosi in
un genere e non in tanti, ha a disposizione attori e attrici con contratti. Si andava alla ricerca di talenti che
potessero avere nel tempo un impatto sul pubblico. Contrariamente ai cachet altissimi degli attori di oggi, nella
Hollywood classica si provava a veicolare un attore o un’attrice, come Marylin Monroe, la si sottoponeva ad un
contratto decennale e all’inizio della propria carriera non avendo fama lavoravano sulla trasformazione dell’attore
o dell’attrice in diva e sfruttavano la persona all’inverosimile. Si faceva un vero e proprio lavoro di costruzione
divistica per trarne profitto al massimo.
Molte immagini legate ai musical che si afferma con l’avvento del sonoro e ogni casa di produzione in base al
tipo di coreografo che, al tipo di costumista e attore porta avanti il proprio tipo di riconoscibilità.

Le majors si organizzano in maniera capillare controllando non solo la produzione ma anche la distribuzione e
l’esercizio. Esse possedevano anche sale cinematografiche e si assicuravano attraverso esse la distribuzione.
Ciò indeboliva le produzioni indipendenti che avevano poco spazio per far vedere le pellicole. Le majors avevano
anche messo a punto un sistema di block-booking, in cui davano a noleggio agli esercenti e sale non le singole
pellicole ma un insieme in film: creavano pacchetti che un gestore di una sala era costretto a prendere. Le major
si davano la possibilità senza rischi commerciali di sondare nuove possibilità: se l’esercente indipendente avesse
voluto far vedere Via col vento avrebbe dovuto prendere in distribuzione altre pellicole che non avevano quel
successo, e il riscontro economico era assicurato.
Accanto alle Majors, abbiamo le Minors o Little three, che erano la Universal, la Columbia e la United Artist
(composta da Chaplin, Griffith, ecc.).
La principale differenza tra Minors e Majors era che le Minors non avevano una propria rete di sale dove far
vedere film. Chiaramente il panorama hollywoodiano è molto eterogeneo e abbiamo accanto a loro anche molti
produttori indipendenti come Samuel Goldwyn, Selznick. Poi ci sono anche case di produzione che si
specializzano in film a basso costo come la Monogram e la Republic.

Il regista in questo Studio System va inserito in una visione diversa da oggi. Ai tempi era una delle tante figure
guidate dal produttore, come si può vedere in Il bruto e la bella di Vincent Minnelli dove c’è uno scontro tra
l’artista e la produzione. Ciò non deve indurre nell’equivoco di pensare che non ci fossero state figure registiche
più forti. Tra i più forti troviamo Hitchcock, Orson Welles e John Ford. Welles arriva alla RKO con un contratto
nuovo, con una “carta bianca”. A circa 20 anni divenne molto noto e la RKO che era in difficoltà negli anni ’30
concesse a Welles la possibilità di fare ciò che voleva. Welles metterà così tanto a soqquadro i canoni che
cominciò a produrre film complicati, che non ebbero successo, né furono compresi e portarono alla sua uscita
dal sistema di Hollywood.
Le case di produzione organizzano la propria produzione seguendo quello che già avevano prodotto e affinato,
creando un sistema del genere in cui da un lato abbiamo un meccanismo di standardizzazione ma allo stesso
tempo ogni film mette in atto una differenziazione, aggiungendo elementi nuovi per rendere il film interessante.

I generi rispondono al desiderio dello spettatore di sentirti raccontare la stessa storia ma in modi diversi.
Da un lato il genere mette in atto una differenziazione ma prova anche a rispondere alle aspettative del pubblico.
Ci sarà poi anche una evoluzione dei generi, in base al periodo storico in cui questi vengono declinati.

Il codice di autocensura
Il codice Hays. Hays è un giurista che venne chiamato dagli studios a stilare un codice in cui c’è scritto cosa si
può fare o no in un film. Si arriva all’autocensura perché negli Stati Uniti non esisteva una censura federale e
poteva capitare che in alcuni stati federali la pellicola potesse non arrivare.
Nel 1922, gli studios si dotano di un organismo comune (la Motion Pictures and Distribution of America, MPPDA)
mettendo a capo di questa istituzione Will Hays, ex esponente del partito repubblicano.
Si comincia a scrivere nel codice che non si poteva, ad esempio, in un film drammatico o in un gangster movie,
far vedere come compiere un omicidio o fare una rapina, per evitare il potere emulativo della pellicola. Inoltre,
prima di distribuire i film nelle sale, l’ufficio Hays doveva validare le pellicole e perciò viene istituito un marchio di
approvazione. La censura non veniva dall’esterno, come oggi, ma viene esercitata dalla stessa fabbrica
Hollywoodiana per non dover bloccare la distribuzione dei film.
Questo è uno dei marchi di approvazione, dove si scriveva con un numero di certificato l’approvazione del film.
Il codice Hays entra in crisi negli anni ’50, quando, da un punto di vista legale, si dichiara illegale l’oligopolio delle
Majors che dovettero poi vendere le proprie sale.
Negli anni ’60 il pubblico cambia, le storie cambiano ed entra il conflitto generazionale, l’uso delle droghe,
contesto politico diverso e allora il codice Hays decade per permettere ad Hollywood di evolversi ed essere
vicino a quello che la società era ai tempi.
Lezione 9
Nosferatu di Murnau, un film del 1922. Il film (abbiamo parlato spesso di come il cinema europeo inizi subito ad
attingere alla letteratura) parte dal Dracula di Bram Stoker. Siamo quindi di fronte a un capolavoro letterario che
viene trasposto al cinema in una modalità di rappresentazione che inseriamo all'interno di questo movimento:
l'espressionismo.
Qual è la grande lezione delle avanguardie storiche e in particolare l'espressionismo? Che dagli anni '20 i registi,
gli autori, coadiuvati ovviamente dagli scenografi dell'espressionismo tedesco che mettono mano a un tipo di
scenografia espressionista, quindi c'è un lavoro del segno che viene chiamato in causa per creare questo tipo di
poetica. Qui, il cinema, in particolare in Europa, attraverso questa esperienza delle avanguardie, arriva a una
conquista. Il cinema può provare a essere vicino alla realtà così come noi la percepiamo.
Con l'espressionismo c'è tutto un lavoro che approfondisce l'interiorità, tutto quello che ci viene dal dentro e che
portato al di fuori ci porta delle forme lontane da una verosimiglianza, da un realismo. È quello che troviamo con
Nosferatu, siamo di fronte a una figura che dalla letteratura passa nel cinema e che poi il cinema declinerà con
tanti lavori che fanno riferimento alla figura di Dracula e poi del Nosferatu.

Lezione 10
Entr’Acte esce nel ‘24 e questo cortometraggio fu pensato per essere proiettato durante l'intervallo di un balletto.
René Clair, insieme a Francis Picabia, pensa di realizzare, scrivere, l’incipit del film.
La sua destinazione è diretta a un pubblico alto-borghese, intellettuale: tutta l’alta società parigina corre a teatro
per vedere questo spettacolo che allora aveva riscosso molta attenzione dalla critica. È chiaro che questo
sguardo sarcastico, irriverente verso la società diventa ancora più forte se si pensa all'occasione. Questa
principale destinazione di Entr’Acte ci consente di definire meglio la questione di avanguardie.

Nel corso degli anni ‘20 cominciano a nascere i primi cine-club, le prime occasioni di fruire un cinema altro,
sperimentale, che esce dalla distribuzione e dall’ordinaria produzione.
Quando si parla del cinema surrealista, del cinema dadaista, non erano film che venivano programmati per
andare nelle sale, ma che avevano delle circolazioni parallele. C’è un doppio binario, una sperimentazione
artistica che indaga quali possano essere le possibilità del cinema. La Francia è uno dei primi Paesi che
adottano questa modalità alternativa di fruizione che sostiene anche la produzione sperimentale: c’è la sala e la
sala d'essai.

In molti film degli anni 20 c’è anche una forte presenza della città, dello spazio urbano, che ad esempio in questo
caso viene raccontato e messo in forma attraverso sovrimpressioni, immagini che capovolgono il paesaggio
urbano parigino. Da un lato c’è l’elemento della velocità.

La lezione delle avanguardie è molto importante perché, al di là di quello che può sembrare come nel caso di
Entr’Acte, che è un gioco dadaista, un gioco artistico. Sicuramente la scena del funerale è un po’ il momento in
cui il perbenismo borghese si manifesta che viene capovolto con una serie di elementi: con il cammello, con
queste ghirlande di pane, che vengono poi mangiate da coloro che partecipano al corteo funebre, e poi questo
uso del rallenty che poi invece diventa accelerazione. In particolare, nella scena della bara che cade, in questo
corteo che ad un certo punto assume delle dimensioni vertiginose, che poi porterà al volo della bara dalla quale
poi emerge un mago, che compie il gesto di far sparire tutti, fino a far sparire sé stesso. Qui chiaramente c’è un
riferimento a questo mago del cinema a cui abbiamo accennato nelle prime lezioni che è Georges Méliès, che
avrà un destino molto avverso nella sua vita.
Solo negli anni ‘30 ci sarà, ad opera dei surrealisti, un’attenzione al suo cinema con una prima retrospettiva, ma
qui già nel ‘24 con queste incursioni di illusionismo, di magia, c’è anche un primo riconoscimento da parte di
René Clair, di Caviat, di altri artisti che avete visto citati alla fine come Duchamp, Man Ray e tanti protagonisti
nella scena artistica parigina. Qualche anno dopo, sulla scia di Entr’Acte, arrivano altri due film.

Il primo è Berlino, sinfonia di una grande città (1927) di Walter Ruttmann, un documentario sperimentale e
artistico che esercita una messa in forma della vita della città. C’è una forte riflessione, in quegli anni, sulla città
come organismo pulsante che ha una propria dimensione. Qui si mette mano ad una narrazione molto articolata
della città che si esplicita attraverso il movimento, i mezzi di trasporto (tram o treno) che sono l’essenza della
vita. In questo film Ruttmann, assorbendo in modo magistrale la lezione del cinema astratto tedesco che lavora
su forme e linee, va a realizzare una serie di inquadrature sulla città di Berlino andando a cogliere questa
dimensione geometrica.
La città è rappresentata come un organismo che si sveglia, come un essere vivente, fino alla chiusura del primo
atto in cui Ruttmann dà un primo momento di città “dormiente” che si anima, da un lato, con il trasporto
(elemento importante che mette in movimento le persone). C’è un montaggio molto serrato con tutti gli
ingranaggi dell’industria che è molto ampia (va da immagini di siderurgia fino, ad esempio, al pane sfornato o le
bottiglie di latte prodotte con un meccanismo automatizzato) e che fa capire quanto la tecnica e l’automatismo
abbiano sostituito l’artigianalità in cui l’uomo era al centro.

L’altro film è L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov (appartiene all’avanguardia russa/sovietica che
continua il proprio percorso di sperimentazione sul linguaggio cinematografico, ponendo attenzione al piano
politico, sociale ed educativo del cinema). Vertov, in questo suo capolavoro, rappresenta un saggio visivo della
“teoria del cineocchio”: era convinto che l’occhio della macchina da presa avesse la capacità di osservare e
restituire la realtà in modo più fedele dell’occhio umano.
Questo film riprende, all’inizio, pochi istanti con l’uso di didascalia in cui dichiara, come in un manifesto, che il
cinema è un linguaggio internazionale e non ha bisogno di attori, sceneggiatori e produttori per poter
comunicare. Vertov fa riferimento alla figura dell’operatore come quell’entità che, attraverso la macchina da
presa, esercita questo sguardo per tutto il film. Accanto alla ripresa c’è un altro elemento fondante che è quello
del montaggio inteso come selezione di elementi visivi che aiutano l’articolazione di un discorso.
Rispetto al film di Ruttmann, in L’uomo con la macchina da presa c’è un discorso più evidente sul cinema e
un’esibizione del meccanismo della rappresentazione della visione. Vertov inserisce continuamente, nel
montaggio, elementi come la ripresa, l’obiettivo, la pellicola tagliata ed incollata in fase di montaggio.

Lezione 11
Tra gli anni ’10 e gli anni ’20, l’assenza dei dialoghi e delle voci degli attori all’inizio sembrava una difficoltà del
linguaggio di rappresentazione scenica e visiva, ma ad un certo punto diventa una qualità perché il cinema, in
questo modo, può affidare alle immagini la comunicazione.

Oggi si parla della fotogenia, di quanto siamo fotogenici. Il concetto, però, viene elaborato da Jean Epstein negli
anni ’20 dove appunto si inizia a parlare di come la macchina da presa riuscisse a catturare tutte le emozioni
dell’attore, tutti i suoi sentimenti e le sue qualità morali. Quando la macchina da presa inquadra un paesaggio o
un volto, questa inquadratura conferisce all’immagine una sensazione che magari noi non riusciamo a percepire
normalmente.

Nel corso degli anni ’20 il cinema avrà un ruolo particolare: dal punto di vista teorico e produttivo ha un impatto
sulle società molto forti. Mussolini, Hitler e Stalin si accorgono che il cinema, da un lato, può essere utilizzato
come strumento di propaganda e di formazione del consenso; dall’altro lato capiscono che dev’essere censurato
proprio a causa di questo potere che può esercitare. Nel 1924 viene istituita l’unione della cinematografia
educativa (LUCE) di cui le proiezioni divennero obbligatorie dal 1926. Furono censurati nel mercato
cinematografico nazionale quei film stranieri che potevano trasmettere idee e concetti diversi dall’ideologia
dominante.
Nel 1932 nasce la Mostra del Cinema di Venezia, una grande vetrina internazionale della produzione italiana, e
nel 1934 la direzione generale per la cinematografia, guidata da Luigi Freddi. Nel 1935 nasce il centro
sperimentale di cinematografia, l’ente nazionale industrie cinematografiche (ENIC) e nel ’36 nasce Cinecittà. Il
cinema italiano passa dai 12 lungometraggi a 83 nel 1940. A capo di queste produzioni c’è la CINES, che si
sviluppa negli anni del fascismo. A capo della CINES c’è Emilio Cecchi, letterario di prestigio. È un cinema d’arte
e di cultura che chiama artisti e altri intellettuali. Cecchi chiama a lavorare grandi intellettuali come Pirandello e
Mario Soldati e tutto ciò accade in un momento in cui c’è una forte limitazione della libertà di espressione in
quanto al potere c’era il fascismo; dall’altro lato si crea una sorta di premessa critica e teorica che porterà l’Italia
a partire dall’immediato secondo dopoguerra al manifestarsi della stagione del cinema del neorealismo, quando
verranno realizzati film come Roma città aperta. De Sica, inizialmente, lavora come attore e poi diventerà un
grande regista, è attore del cosiddetto genere dei telefoni bianchi, commedie italiane degli anni ’30 in cui viene
raccontata un’Italia molto distante dalla realtà, un’Italia florida che ruota intorno ai valori del matrimonio, della
famiglia.

Alla mostra del cinema di Venezia veniva data molta importanza anche ai politici, una forte presenza politica che
in realtà non svanisce poi con la Seconda Guerra Mondiale e con l'inizio dell'Italia Repubblicana perché questo
interesse chiaramente verso il cinema continua ad essere mantenuto molto alto dai governi italiani. Ad esempio,
Andreotti sarà un politico che presterà attenzione anche sul piano legislativo e a proposito di Ladri di biciclette
(1948) ci sarà una forte polemica che attacca duramente questo film e De Sica perché colpevole di portare sullo
schermo un'immagine miserabile dell'Italia e degli italiani.

Con l'avvento del nazismo tante figure di sceneggiatori, attori, registi, da un lato per questioni strettamente
legate alle persecuzioni dovute alle leggi razziali, scappano appena riescono negli Stati Uniti, anche perché è il
momento in cui Hollywood diventa ancora più importante anche da un punto di vista culturale e creativo, poiché
queste figure europee portano con sé un grande bagaglio culturale importante.
Goebbels viene indicato nel 1933 come ministro della propaganda e sarà una di quelle figure che avrà grande
attenzione al cinema, che deve avere una funzione di evasione e distrazione, quindi una produzione interna non
estera e che racconti storie, commedie e drammi legati alla grande letteratura di storia. Una donna che si presta
al cinema di propaganda è Leni Riefenstahl che, quando il regime nazista verrà smantellato dopo la fine della
Seconda Guerra Mondiale, sarà una figura fortemente compromessa. Uno dei suoi documentari più importanti è
Olimpia che realizza per le Olimpiadi di Berlino, dove da un lato lei mette a disposizione la sua grande capacità
artistica, ma che chiaramente sostiene tutta la narrazione legata alla razza ariana e alla supremazia dei tedeschi;
quindi, sono immagini che destano disagio.
Il trionfo della volontà (1934) è un documentario realizzato da Veit Harlan sul congresso nazista di Norimberga
dove c'è un'esaltazione della figura di Hitler e del partito.
È chiaro che il cinema tedesco si devia verso un'esaltazione diretta e indiretta della politica del Terzo Reich che
sfocerà dell'Olocausto e nella Seconda guerra mondiale.

Lezione 12
L’Atalante è un film del 1934, quindi ormai l’avvento del sonoro è stato completamente assorbito dalle varie
cinematografie nazionali. Sceneggiatori, registi e autori hanno la possibilità di utilizzare non solo la voce degli
attori ma anche di farli interagire con la musica, perché da sempre essa fa parte della vita e quindi anche della
narrazione; dunque, anche le canzoni cominciano ad entrare nella diegesi.
Jean Vigo rappresenta una personalità dannata all'interno della storia del cinema, perché muore proprio nelle
ultime settimane di lavorazione dell’Atalante. Era molto giovane aveva già realizzato un mediometraggio di
finzione che è Zèro de Conduit (Zero in condotta) dove racconta in modo assolutamente irriverente le istituzioni,
in particolare quella scolastica: il collegio, dove dei ragazzini vivono e si ribellano alle condizioni dure a cui sono
sottoposti in un momento storico in cui l'educazione era impartita attraverso delle modalità che passano
attraverso la violenza e la coercizione.
Prima ancora però Jean Vigo aveva realizzato due documentari. Il primo, A propos de Nice(A proposito di Nizza)
con l'attenzione relativa alle città e alla vita delle città. Qui Vigo realizza un’opera che assorbe la lezione delle
avanguardie come del resto farà anche ne L’Atalante, in cui c’è una forte soggettività, l’uso della
sovraimpressione ecc.
In questo film i protagonisti sono due giovani che si sposano e avviano una vita di coppia molto particolare
all’interno di questa imbarcazione che è appunto l’Atalante, che dà il nome al film. Nel corso della storia verrà
fuori tutta la mancanza di preparazione ad una relazione, ad una vita così diversa rispetto invece all’età che
questi individui vivevano da ragazzi e per la prima volta c’è un’attenzione del film rispetto a questioni del genere.

Lezione 13
L’Atalante è un film che rompe tutte le modalità classiche di narrazione, che ingloba molte lezioni e le conquiste
delle avanguardie come l’impressionismo e l’espressionismo. È stato per lungo tempo un film dimenticato, ma
quando poi è stato ritrovato ci si è resi conto che quella copia non corrispondeva al progetto iniziale, alcune
scene erano state cambiate, le musiche cambiate.
Nel passaggio dal muto al sonoro si arriva all’eccesso dell’uso del dialogo; quindi, c’è un momento in cui esso
quasi prende il sopravvento sulle inquadrature. Invece Vigo è ancora dentro la ricerca artistica legata alla
rappresentazione del film e in questo film si vede tutto, allo stesso tempo non rinuncia alla possibilità di
introdurre la musica, le canzoni. Il brano Il canto dei marinai che è la canzone che Giulietta ascolta più volte e
che una volta arrivata a Parigi ascolta in un negozio, riportandola a ciò che ha lasciato alle spalle.
Ricorda: il soggetto è la prima base su cui si sviluppa la sceneggiatura, non prevede inquadrature, battute, tutte
le cose che finiscono nella sceneggiatura.

Ci sono delle campane che non sono né proprio a festa né proprio a morto, sono un po’ incerte nel loro ruolo.
Poi inizia questo corteo, dove c’è lei, bianchissima, con un abito da sposa e i capelli biondi. Più è vista come una
figura illuminante all’interno del film che agisce un po’ all’altezza, alla luminosità di Jean. Sono due personalità in
un qualche modo contrapposte anche come espressione caratteriale e anche chiaramente come impostazione
verso la vita, verso questo inizio. Nel corteo c’è la madre che piange, che si asciuga le lacrime. Sono tutti vestiti
di nero, quindi non c’è tanta gioia in questo inizio. È come se già da questo inizio si capisse che quest’unione
non nasce da grandissimi auspici. Anche dalle prime battute del corteo e dei partecipanti, non abbiamo un
banchetto in quanto decidono di non fare una festa e dalla chiesa partono direttamente da quella che sarà la loro
nuova vita. C’è subito anche il contrasto tra la campagna, il villaggio dove Juliette è nata e cresciuta, e il suo
desiderio di andarsene. Una volta a bordo, Juliette comincia ad avere delle perplessità, perché lo slancio verso
la nuova vita e la nuova libertà, in realtà il microcosmo dell’Atalante è un microcosmo molto claustrofobico.

Un’altra chiave di lettura è la dicotomia tra acqua e terra. L’acqua ha un ruolo importante anche dal punto di vista
visivo: quando lui non la trova più, la cerca sott’acqua, diventa anche il luogo del desiderio e che lo esaudisce.
È l’unica donna in un gruppo di maschi che hanno tre età completamente diverse: Jean il marito, è giovane ed è
lo sposo, c’è un ragazzino che in qualche modo rappresenta la famiglia e poi c’è questa figura molto perturbante
che è Gen, quello più anziano che ha vissuto una vita molto particolare, fatta di estremi, piaceri e libertà. Quindi
non è la rappresentazione del classico personaggio anziano, portatore di saggezza, ma è portatore di
turbamento, in particolare in questa cabina in cui vive, piena zeppa di oggetti. Gen è ricco di tatuaggi, dei segni
del trascorso della sua vita, il suo è un corpo memoria, che si fa portatore di una vita piena, fatta di incontri, di
disavventure.

Nel momento in cui scendono dall’imbarcazione, la costruzione di questo spazio è molto interessante: c’è una
delimitazione tra lo spazio della danza e i clienti che sono lì per mangiare. Vigo indugia molto in questo
segmento perché è il primo momento in cui lei finalmente esce e vede tutto ciò che aveva sempre desiderato, la
vita e la musica. Ha quest’approccio molto collaborante che è ciò che irrigidisce la posizione di Jean che è
chiaramente geloso.
Nell’incontro con l’ambulante s’intensifica il desiderio di Parigi e tutte le esperienze legate alla città. Lei
raggiunge, attraverso quest’incontro, un desiderio ancora più forte della città. A primo impatto, quello della
vetrina, del gioiello, che diventa molto presto vetrina-spettacolo con queste marionette, burattini che si muovono
e si calmano: questo primo impatto sembra quasi averla appagata. Però, quando torna al porto non trova Jean,
che ha deciso di andare. Lì ci sono le riprese del cantiere, di una realtà portuale abbandonata e la necessità di
dover ritornare nell’ambiente urbano e questo primo impatto con la biglietteria e con il furto. Questo causa una
reazione violentissima da parte degli astanti che si avventano su questo borseggiatore, vittima di un’aggressione
fortissima. Tutto quello che c’è attorno a lei rappresenta una città problematica. Parigi ha sempre rappresentato
la ville lumière, la città spettacolo, invece Vigo, inserisce nel film una serie di aspetti della città che il cinema non
faceva vedere rispetto alla narrazione classica della città di Parigi.

La scena forse più nota del film è la reazione al rifiuto di Juliette, Jean sente fortemente la mancanza della
moglie tanto da rivederla sott’acqua con l’abito da sposa in maniera raggiante. Il tema dell’acqua, presente sin
dall’inizio, gioca una metonimia rispetto alla vita terrestre e, in qualche modo, rappresenta anche una circolarità
come spesso accade nelle narrazioni: l’inizio della vita di coppia, dove lei lascia la vita di paese per avviare la
vita matrimoniale sull’imbarcazione lungo il fiume, la problematicità di una situazione che diventa per lei
insostenibile e quindi c’è la discesa sulla terra, l’allontanamento e l'attraversamento di Parigi, che però diventa il
luogo inatteso e inaspettato perché non è come lei pensava fosse; la ricerca di lui (Jean) in acqua che poi la
ritrova, quasi come se fosse un presagio; e alla fine il ritorno. È come se, in qualche modo, questo alternarsi tra
terra e acqua fosse un percorso di formazione: questo momento, che lei prende di ricerca per sé, le consente di
avere la maturità per tornare.

Altra scena particolarmente significativa del film e anche molto all’avanguardia per la concezione e il tipo di
montaggio utilizzato da Vigo, è la notte in cui i due sono separati ma, attraverso il montaggio, c’è una fusione dei
loro desideri, della loro ricerca, che li vede insieme.
La rappresentazione del desiderio è in chiave anti-realistica, in questo caso immaginifica, una rappresentazione
del desiderio, delle pulsioni così come quelle inquadrature in cui vediamo le sovrimpressioni. È una dimensione
che va in antitesi al realismo perché mette in forma qualcosa che si sente ma non si vede: il tuffo che Jean
compie per vedere se la ritrova, in realtà serve per andare a vedere se realmente la desidera. Per lui è la prova
che quello che vuole è Juliette così com’è, anche se ad un certo punto la rifiuta perché attratta dalla vita, dalle
emozioni, dagli altri e non sta al suo posto. Quando la lascia a terra e parte è perché la rifiuta e arriva a pensare
che Juliette non fa per lui perché non sta in quel perimetro nel quale lei deve stare. Soffre e la desidera come
accade nella scena della notte, in cui entrambi si dimenano l’uno pensando all’altro, sono in preda al desiderio
dell’altro, dell’altro Jean e dell’altro Juliette. Lui si tuffa per verificare se davvero Juliette è quello che vuole, nel
momento in cui la vede capisce che la deve cercare e lì c’è l'intervento della figura anziana, père Jules, che
riporta ognuno al suo posto. In questo allontanamento entrambi hanno compiuto un percorso: Juliette desiderava
avere un impatto con la vita, con la città, e quindi Parigi, ma in realtà fa un percorso di formazione, di crescita
soggettiva, individuale, e non all’interno della coppia.

Questo è uno di quei pochi film che, in modo così forte, va a fondo in una rappresentazione di crescita, di
maturità, di vita; è il percorso di formazione senza sconti, è la messa in forma delle pulsioni, delle passioni, di
quello che vorremmo per noi e non per l’altro. Vigo rappresenta la vita.

Lezione 14
Film: Susanna!
Il finale del film ha in qualche modo un percorso circolare, alla base del film classico Hollywoodiano che ha una
struttura narrativa che il cinema classico segue fedelmente rispetto ai film cosiddetti “moderni”, dove questa
forma classica sarà fortemente messa in discussione. Qui la circolarità è data visivamente in modo molto forte. Il
personaggio di David è quello che compie un percorso di trasformazione che lo porta, da un lato, di nuovo in
quella stessa condizione di immobilità, sospensione. All'inizio del film richiama un po’ la scultura del pensatore di
Rodin, col capo un po' sospeso a riflettere. Però poi il film mette in atto una serie di situazioni dinamiche che
scuotono quest’uomo che incontrerà un personaggio femminile, Susan, estremamente mobile, dinamica, che lo
travolgerà. La scena finale riporta nel luogo iniziale dove però cambia la disposizione dei personaggi. Se nella
scena iniziale c’è Alice, la fidanzata/segretaria dello scienziato descritta e inquadrata in un determinato modo,
nella scena finale non c’è più, ma c’è Susan e questa sua identità così travolgente che poi non può fare che far
cadere tutto il lavoro di ricostruzione del brontosauro che aveva così tanto impegnato David col suo lavoro.

È un tipo di commedia che resiste, che ha un registro commedico molto forte che si nutre anche di una serie di
modelli precedenti, tipo la slapstik comedy, e molta ilarità è data da una serie di gag fisiche: il campo da golf, la
macchina che Susan mette a dura prova nelle manovre di parcheggio, il tema del doppio, la sostituzione come
quando arriva lo sceriffo e in particolare una delle gag più divertenti è quella che fa sì che prima i vestiti dell’uno
e poi dell’altra si strappino. In quella sequenza c’è un avvicinamento dei corpi di Susan e Riad. L’espediente
della gag del vestito che si rompe in modo molto particolare nel didietro di Susan fa sì che David si avvicina a lei
da dietro e la protegga col proprio corpo. Abbiamo un contatto fisico davvero ardito, quella è una prima messa in
forma di un desiderio di due persone.
Il film è pieno di riferimenti anche legati al desiderio sessuale che Hawks inserisce in modo molto sapiente in
questo film, in un momento storico in cui il cinema segue determinate regole e canoni, prova in qualche modo a
forzare la sceneggiatura “di ferro”, tutto ciò che non si può mostrare e raccontare, utilizzando in primis la
possibilità date dalla commedia. In realtà Susanne è un film che si situa tra due sottogeneri: quello della
commedia “svitata” da un lato, e la commedia sofisticata dall’altro, in un’ambientazione molto “upper class”: lui è
uno scienziato, lei è una ricca ereditiera nipote di una donna molto ricca e influente.

La prima scena di Susanne comincia dopo un’inquadratura di insieme che ci situa nel contesto. Si vede prima il
museo da lontano, poi abbiamo subito dopo una seconda inquadratura spiega cos'è l’edificio inquadrato (un
museo di storia naturale), poi fa vedere un campo d’insieme, un’enorme sala dove c’è un lavoro di ricostruzione
di un brontosauro, non si vede ancora il protagonista. È sempre molto importante soffermarsi, quando si fa
l’analisi di un film, all’inquadratura che introduce un personaggio, tipo questa, in cui un uomo che guarda un osso
e sta sospeso. Alice viene presentata come una donna castigata e si scopre dal dialogo che i due stanno per
sposarsi, quasi per puro caso.
È il professore che lo dice, che preso dall’entusiasmo la abbraccia, stanno per coronare più che il matrimonio un
sogno lavorativo, sta per arrivare questo famoso osso. Lui cede all’entusiasmo ma lei lo ferma. Hawks non
degna mai di un’inquadratura in primo piano ad Alice, che in realtà Alice si sta ponendo come una futura sposa
molto anomala. Non vuole figli, sembrerebbe non volere avere nemmeno rapporti fisici, intimi, è un personaggio
un po’ fuori dagli schemi, e quindi anche all’interno della dinamica del film classico non va bene perché non sta
incarnando quel ruolo tipico della moglie e della madre, si sta invece opponendo perché pensa che la
dimensione lavorativa sia più importante.
Quando lei ribadisce che la loro unione è un’unione consacrata al lavoro e che non ci sarà nessuna luna di miele
né tantomeno quello che lui si aspetta, in realtà lui è un po’ scontento, non è contento di sposare una donna che
è così sottomessa alla sua dimensione lavorativa. È un modello di femminilità controcorrente, non per forza
negativo, però è chiaro che sta portando a non enfatizzare con il personaggio. Lui è un personaggio un po’
“sospeso”, perché è chiaro che è dedito al lavoro, ma il suo desiderio verso la vita matrimoniale lo pone come un
uomo che desidera e ha bisogno di qualcun altro.

L’incontro con Susan avviene nello spazio del gioco, nello spazio del cosiddetto “tempo libero”, all’aria aperta.
Anche qui c’è l’equivoco della pallina, ma quando Susan lo incontra per la prima volta la disposizione fisica dei
due è quella della donna che si fa rincorrere e seguire. Lui è sempre un passo indietro, non riesce mai ad avere
il potere su di lei. Lui dal primo momento assumerà sempre questa posizione un po’ subordinata, quella di
sottostare al volere e ai desideri di questa donna. Il contatto fisico è assolutamente inconsueto per il cinema
dell’epoca, la maggior parte delle scene sono scene in cui c’è un bacio preso da diverse angolazioni, non c’è mai
troppa fisicità nel cinema degli anni ’30.

David per molto tempo ancora resiste ad Alice, però sin da subito, dal secondo incontro, si appiccica addosso a
Susan e quindi è come se in qualche modo nel film l’intreccio agisca in questo modo. Si capisce fin da subito che
i due finiranno insieme, ma non si sa come e attraverso quali dinamiche; questo è un altro meccanismo tipico nel
film classico. Nel film moderno c’è una perdita della centralità, della narrazione. L’uomo degli anni ’60 perde le
certezze, la centralità, il potere, anche il potere sulla narrazione.
Un altro discorso posto dal film in termini di dualismo/opposizione è quello della comicità legata al leopardo, lo
scambio continuo, così come il rapporto tra città e campagna. La città è il luogo in cui David è assorto nel suo
lavoro, è il museo, il brontosauro. Lui perde tutti i suoi riferimenti quando arriva in campagna travolto da Susan; è
in campagna che si sveste, si sporca, assume delle posizioni animali quando stanno cercando di ritrovare l’osso
e di inseguire il cane in campagna, dunque, lui ha modo di cedere da un lato la dimensione più naturale/animale
ed è quello il momento in cui lui cede a quelli che sono i suoi desideri.
Dell’opposizione dei due modelli di femminilità tra Alice e Susan, un’altra scena funzionale è quella delle due
donne a telefono: qui Hawks sceglie di trarre queste due conversazioni telefoniche utilizzando lo stesso impianto
di inquadrature e anche disposizione dello spazio, dove le due donne sono appunto portatrici di due modelli
diversi.
Ancora una volta c’è Susan seduta alla scrivania, con un tailleur, con gli occhiali attaccata ad un telefono nero in
un ambiente domestico, molto semplice e ordinato; invece poi quando c’è Alice che ha un abito di organza
costosissimo, è attaccata al telefono bianco e poi arriva anche lei alla stessa posa e seduta, dove gli interni sono
completamente diversi: è tutto bianco, è tutto in radio a questa luce che la illumina ulteriormente, e infine c’è
l’elemento del leopardo che rende tutto sopra le righe, ma simboleggia una dimensione naturale e animale molto
forte.

L’omosessualità era un grande taboo e ovviamente non poteva essere rappresentata, ma c’è un espediente
comico dato dalla sottrazione degli abiti di David mentre fa la doccia da parte di Susan poiché non vuole che
l’uomo torni in città per sposarsi. Ciò fa sì che lui debba coprirsi con una vestaglia bianca e piena di piume.
Qui è importante soffermarsi sul dialogo originale tra David e la zia. Quando l’uomo scende, apre la porta e
incontra la zia in italiano c’è la battuta “sono diventato pazzo”, ma in realtà nella battuta in inglese non viene
utilizzata la parola crazy ma gay che significava gaio ma già negli anni ’30 il termine gay aveva assunto una
doppia valenza e aveva cominciato a indicare l’omosessualità maschile, questo riferimento al termine gay
sicuramente non tutto il pubblico americano era stato in grado di cogliere poiché era davvero l’inizio in cui in
determinati ambienti si comincia ad utilizzare questo termine.

Nel film ci sono delle ellissi dove non si vede ciò che accade ma si capisce che è successo qualcosa, come
quando l’auto si scontra con il carico di galline e polli. Il film in generale, il film classico lavora su questa
struttura ellittica in cui non vengono mostrate tutte le scene, ma attraverso il dialogo e la costruzione della
scena successiva restituisce da un punto di vista narrativo ciò che non abbiamo visto.
La scena della stazione di polizia finisce in modo molto particolare per quando riguarda la disposizione dei corpi,
poiché è la prima volta che Susan si fa proteggere, si mette dietro, si colloca nella giusta posizione per poi
essere in qualche modo moglie. È l’unico momento in cui David agisce, perché lei è in pericolo , capisce che è il
leopardo non addomesticato.
Nel finale, nella scena del museo è interessante come lui è di nuovo nella stessa posizione ma insieme a Susan.

La casa di produzione, la RKO Radio Pictures è una delle principali case di produzione dell’industria
hollywoodiana ma che nei prossimi anni avrà difficoltà sul piano economico. Questa difficoltà porterà la RKO ad
offrire un contratto ad un giovane artista americano, Orson Welles che nel 1939, qualche anno dopo l’uscita di
Susanna, diventerà molto famoso per uno scherzo radiofonico. Welles è un giovane attore, regista che si
afferma in particolare in teatro per le sue regie dei grandi Shakespeariani che rivisita in chiave contemporanea
come nessuno aveva mai fatto prima e ottiene la conduzione e la scritta per uno dei principali programmi
radiofonici statunitensi, il CBS. Welles mette in scena degli adattamenti letterari e per la “guerra dei mondi”, per
questo testo di fantascienza pensa di portare in radio una radiocronaca dell’arrivo dei marziani. Quindi tutti quelli
che per caso si sintonizzavano durante la trasmissione, pensò che effettivamente stessero arrivando gli alieni e
si scatenò il panico. La RKO, in difficoltà economica, pensò quindi di offrire a questo giovane regista di realizzare
il primo lungometraggio, lasciandogli totale carta bianca.
Welles scrive, dirige e interpreta Quarto potere (Citizen Kane) considerato uno dei film più importanti della storia
del cinema mondiale. Il film esce nel 1941, infrangendo qualsiasi regola del film classico hollywoodiano. Kane,
interpretato da Welles stesso, è il protagonista che racconta in modo discontinuo la sua storia dall’infanzia fino al
punto di morte. Gli americani che andarono a vedere il film e si sedettero in sale e nei primi secondi del film
osservano Kane in punto di morte. Comincia così una narrazione a ritroso attraverso cinque lunghi flashback che
vengono attivati attraverso cinque diverse testimonianze.
Il flashback è uno strumento narrativo presente nel film classico fin dalle origini, ma serviva per raccontare un
ricordo del personaggio qui invece il flashback diventa uno strumento portante della narrazione. Il film, però, non
venne apprezzato, poiché la critica e il pubblico ebbe difficoltà a interpretare il film. Quindi la RKO che aveva
riposto in questa operazione strategica parte della sua ripresa, fu totalmente fallimentare.

LEZIONE 15
Roberto Rossellini regista italiano, è una delle voci più forti del neorealismo italiano, che aveva già incominciato
nei primi anni 40 a girare film; quindi, quando era ancora in piedi il regime fascista. Sarà proprio lui che darà
spazio ad un tipo di rappresentazione completamente diversa, a cominciare da un film manifesto per Roma città
aperta. Una grande attrice, che poi diventerà una diva del cinema italiano che è Anna Magnani, interpreta il
ruolo di Pina, uno dei ruoli più tragici della storia del cinema e in particolare del nostro cinema, che è al centro di
una narrazione che racconta la resistenza all’occupazione nazista nel 43 della città di Roma. È un film fatto sulle
macerie, è estremamente rappresentativo di quello che viveva l’Italia in quei momenti, in particolare Roma. La
pellicola è scarsissima, soldi non ce ne sono e per la prima volta si mette mano ad un tipo di produzione che
nasce sull’esigenza di raccontare delle storie.
Roma città aperta è il primo film della trilogia di Rossellini, la cosiddetta trilogia della guerra. Il secondo film è
Paisà, un film ad episodi. Roma città aperta è un film di finzione, in cui si mescola finzione e documentario
perché Rossellini girò per le strade di Roma, negli appartamenti, nelle case bombardate. Quindi per la prima
volta non c’è bisogno di ricostruire degli armenti per una situazione così particolare.
Mette insieme attori professionisti come Anna Magnani, che era già un’attrice affermata come Aldo Fabrizi,
insieme ad attori non professionisti.
Paisà racconta una serie di microstorie legate all’incontro tra italiani/e (a cominciare dalla Sicilia e risalire verso
nord) e i soldati alleati. Molto importante è l’episodio napoletano di paisà, dove vediamo l’incontro tra un soldato
afroamericano e un piccolo scugnizzo napoletano, che appunto si incontrano proprio vicino piazza mercato,
scena molto intensa in cui il soldato afroamericano pensato come ebrezza e il ragazzino si parlano in due lingue
l’una sconosciuta all’altra e che sostanzialmente si trovano uniti dalle proprie condizioni.
Quindi questo soldato afroamericano è qui a piazza mercato seduto su una montagna di macerie, pietre. Piazza
mercato è stata una delle aree maggiormente colpite dai bombardamenti durante la Seconda guerra mondiale;
quindi, questo soldato incomincia ad immaginare questo suo rientro eroico negli Stati Uniti, per poi avere un
prologo in cui immagina un rientro nella sua casa misera e quella che erano le condizioni in cui vivevano gli
afroamericani negli anni 40 negli Stati Uniti. Rossellini mette a confronto quest’identità degli afroamericani con
quella del piccolo scugnizzo, mentre il soldato si addormenta gli ruba le scarpe.
Nel 48 decide di andare a Berlino e di girare appunto Germania anno zero, terzo della trilogia. Racconta la
storia di questo ragazzino, che vive in un contesto familiare tragico, con un padre malato, che diventa un vero e
proprio problema perché rappresenta una bocca da sfamare al fronte di resistenza che non riesce in alcun modo
a concorrere, partecipare alla sopravvivenza. È un film tragico, vediamo questo ragazzino vagare per questa
città ridotta in macerie e molto presto questa dimensione urbanistica della città di Berlino in frantumi diventa il
simbolo di umanità disintegrata.
Il film finisce con un atto ancora più tragico, ovvero, il suicidio del piccolo. Germania anno zero catapulta il
pubblico in una dimensione tragica, senza alcuna via d’uscita.
Ladri di biciclette. Anche qui c’è la presenza di un bambino, qui il personaggio del bambino ha un ruolo
importante, nulla affatto accessorio come spesso accadeva in un film classico che aveva il ruolo più “decorativo”.
Il piccolo Bruno rappresenta quella speranza di una morale ancora non intaccata, che può in qualche modo
proiettare l’Italia verso un futuro meno misero e in più momenti nei dialoghi tra padre e figlio quello più posato,
lucido, più maturo sembra proprio essere questo bambino. Sicuramente rappresenta il film che in particolare
anche all’estero ebbe una critica molto importante, un film che scardinò una serie di regole del film classico però
in molti momenti ripristina il tipo di narrazione di stampo classico.
De Sica mette mano al soggetto del film insieme a Cesare Zavattini, che è stato lo sceneggiatore che lo ha
accompagnato nella sua fase neorealista. Zavattini diventa un po’ il teorico del neorealismo arrivando poi
qualche anno dopo la realizzazione di biciclette a teorizzare un cinema ancora più puro. Ladri di biciclette ha
un impianto stilistico molto particolare per la stragrande maggioranza di scene, inquadrature. Noi siamo distanti
dai personaggi, la macchina raramente li inquadra in primo piano. Siamo in questa tecnica del pedinamento che
Zavattini aveva teorizzato ricorrendo a questa frase: “il tempo è maturo per buttare via i copioni per pedinare gli
uomini con la macchina da presa”.
In Italia durante gli anni 30 del cinema sonoro, a predominare è soprattutto un tipo di commedia chiamata
commedia dei telefoni bianchi in cui si sente molto forte un’assenza di realismo. Si ricorre a un tipo di produzione
cinematografica, dovuta un po' anche all’impatto del film classico Hollywoodiano, cioè un tipo di narrazione molto
lontana dalla realtà del paese che attiva proprio un dibattito in primis tra gli intellettuali, tra gli artisti che
cominciano a sentire la necessità di realismo.
Cesare Zavattini insieme a De Sica teorizza questa tecnica del pedinamento, che poteva mettere lo spettatore in
una posizione di osservazione e sono tante le inquadrature in cui noi vediamo il povero Antonio Ricci a cui è
stata rubata la bicicletta, camminare per le strade di Roma con il figlio Bruno; molto spesso essere inquadrati a
distanza, per mano, di spalle.
Per quanto riguarda il ricorso alla letteratura, De Sica e Zavattini prendono il romanzo omonimo di Bartolini che
era stato da poco pubblicato. Nel romanzo è il 1943, nel film tra il 47 e il 48, la guerra è finita, una condizione di
dopoguerra fortemente difficile. in primis il primo grosso problema era il lavoro, Infatti Ladri di biciclette si apre
con questa folla fuori all’ufficio di collocamento. Ad un certo punto esce un impiegato e chiama Ricci. Ricci è uno
dei tanti che poi si sente chiamato, esce da questo gruppo di disoccupati che stazionano fuori dal collocamento e
c’è il momento della bicicletta. Invece nel romanzo di Bartolini, il proprietario della bicicletta è un intellettuale, un
pittore; uno che usa la bicicletta per andare sull’Appia antica nel fine settimana a passare un po’ di ore di svago .
Quindi vedete che scatto c’è no tra una Roma sullo sfondo che appare misera, stracciona fatta di ladri di
biciclette.
L’importante è anche vedere la struttura, come de Sica e Zavattini lavorino sul tempo. È un film che racconta tre
giornate di questo personaggio: il venerdì è il giorno in cui lui ottiene il lavoro a fronte. Però del possesso della
bicicletta e quindi c’è il momento in cui lui torna a casa, dice alla moglie: ho trovato lavoro ma serve la bicicletta.
Ma la bicicletta è impegnata. Il sabato è il giorno di lavoro, questo momento molto denso del risveglio all’alba, di
Bruno, di questo bambino che aiuta il papà di prima mattina a lucidare la bicicletta, dice: questa non c’era prima
che la portassimo al banco dei pegni, perché non gliel’hai detto che te l’hanno ammaccata? È una figura reattiva
rispetto a quello che accade. La domenica è la giornata più lunga. Il film dura un’ora e mezza e la domenica
occupa un’ora del film
Nelle prime due giornate abbiamo un uso ricorrente della dissolvenza, la dissolvenza è quel momento in cui c’è
quest’inquadratura che un po’ svanisce e impone l’ingresso per un’inquadratura successiva ma nella grammatica
cinematografica la dissolvenza ci fa intendere che c’è qualcosa che è accaduto e che noi non vediamo quindi un
passaggio del tempo tra una scena e l’altra. C’è un uso di montaggio molto diverso tra il venerdì e il sabato, dove
i tempi sono più condensati e invece nella ricerca della bicicletta abbiamo una maggiore coincidenza del tempo
della ripresa con il tempo dell’azione. Qui il fatto è nullo, c’è uno dei tanti disperati umani del 48’ a cui viene
rubata la bicicletta; al commissariato, quando lui va a denunciare, qualcuno che chiede al commissario: ma che
cosa è successo? E il commissario risponde: no, niente, una bicicletta.
Perché fare un film su un uomo che nel 48’ perde la bicicletta perché gliel’hanno rubata? Si rappresenta
attraverso il realismo, una drammaticità economica, sociale, umana. Che cosa arriva a fare Antonio Ricci nel
film? Ruba a sua volta la bicicletta. E quindi quel tipo di visione manichea che ancora una volta il cinema
classico di stampo hollywoodiano aveva portato sullo schermo: Da una parte i buoni da una parte i cattivi; chi
subisce un torto è la parte buona della storia. In realtà qui cosa vediamo? Che chi ha rubato la bicicletta è un
povero cristo, e Antonio ricci a sua volta è talmente disperato che non può far altro che rubare una bicicletta. È
solo la presenza, lo sguardo del bambino che interviene e che in qualche modo giudica il padre e fa sì che non
venga arrestato.
dà al film una potenza accentuata dal ricorso all’attore non protagonista, ma le volte in cui invece quest’attore
inesperto deve dire una battuta, guardare verso l’alto è lì che il film si indebolisce perché stiamo di fronte a una
persona che ha scarse capacità interpretative.
Chiaramente viene chiesto a questi pescatori di recitare nella propria lingua. L’operazione che compie Visconti è
un’operazione in qualche modo di denuncia perché nell’Italia del ‘48, era sempre più accentuato il divario tra
nord e sud. La terra trema” faceva parte di un progetto più ampio, finanziato dal PC; doveva avere la prima
finalità di aprire una finestra sulle condizioni lavorative di vita del profondo sud della Sicilia che viveva ancora in
condizioni molto molto precarie. E mentre i governi della democrazia cristiana provavano a narrare un paese che
si stava avviando verso una ripresa e una ricrescita, e Visconti qui a sua volta vuole invece portare l’attenzione
su questo contesto. Tra l’altro lo stesso “Ladri di biciclette”, che fu un film premiato con l’oscar, quindi, ebbe una
risonanza internazionale enorme; fu molto criticato dalla politica italiana perché in quegli anni ormai a tre anni
dalla fine della guerra ormai lasciato alle spalle il fascismo, la retorica della politica italiana era quella di un paese
in ripresa; quindi, portare sullo schermo delle storie così misere, era per la politica italiana un mostrare al mondo
un’Italia invece ancora in estrema difficoltà. Andreotti sarà autore di una legge che obbligherà le case di
produzione hollywoodiane a reinvestire in Italia parte degli incassi al botteghino nelle sale Italiane, perché è
chiaro che nel secondo dopoguerra, non c’è immediatamente una ripresa intensa della produzione. Nel secondo
dopoguerra assistiamo invece ad una sproporzione dei film hollywoodiani nelle sale italiane. E non a caso,
quando ad Antonio Ricci rubano la bicicletta lui in realtà sta attaccando il manifesto di una diva del cinema
hollywoodiano: Rita Hayworth (quindi un manifesto cinematografico)
Dunque, è anche molto forte questo riferimento, cioè la prima cosa che fa come attacchino Antonio Ricci nel film
è quello di attaccare un manifesto di un film hollywoodiano. Però appunto gli italiani danno i loro soldi alla
produzione hollywoodiane; quindi, i soldi degli italiani vanno a finire negli Stati Uniti. E quindi Andreotti ebbe
questa lucidità di emanare una legge che prevedeva che una percentuale degli incassi dei film esteri dovevano
essere reinvestiti in Italia. E quindi questo avviò poi un fenomeno della cosiddetta “Hollywood sul Tevere “, che è
un po’ anche un sottotraccia alla “Dolce Vita” di Fellini perché poi è quello il momento in cui tante produzioni
hollywoodiane si spostano in Italia.
Invece, una cosa che prima non abbiamo detto, è che il personaggio di Antonio Ricci, l’attore, nel film è doppiato
e quindi quello che noi vediamo in modo molto forte è la sua presenza fisica però appunto della sua debolezza
interpretativa dove c’è una forte presenza del romanesco.
Un’altra cosa che possiamo ricordare è che poi il fascismo aveva assolutamente vietato l’uso dei dialetti nel film,
cosa che aveva anche lì inficiato un qualsiasi effetto di reale, di realismo. Con il neorealismo invece abbiamo
un’irruzione nella varietà linguistica del paese che era stata negata dal fascismo che chiaramente nel secondo
dopoguerra irrompe in modo molto forte in questi film.
Luchino Visconti nel 43’ realizza “Ossessione”, un film che porta sugli schermi italiani una storia di adulterio e di
omicidio raccontata attraverso due personaggi dannati che sono Gino e Giovanna (gli attori si chiamano in realtà
Massimo Girotti e Clara Calamai). Vengono per la prima volta rappresentati e inquadrati in tutta la loro carnalità,
in tutta la loro fisicità. Secondo Visconti i tempi erano maturi per guardare ad un’arte rivoluzionaria ispirata ad
un’umanità che soffre e che spera.
Luchino Visconti nel 48’ con “La terra Trema”, va in Sicilia, ad Acitrezza e chiede ad una comunità di pescatori
di prendere parte al film. Qui Visconti compie un’azione molto particolare perché utilizza dei personaggi che in
realtà interpretano tutti loro stessi; racconta, prova a trasporre i Malavoglia di Verga. E gira con questi pescatori,
nelle loro case, con le loro barche, con le loro reti, con i loro vestiti; provando a compiere un’operazione da un
lato documentaristico. Però con un’attenzione alla costruzione del film molto minuziosa.
In questo film, porta un’attenzione al quadro, all’inquadratura, molto particolare. Chiaramente il film uscì con
questo ricorso al dialetto siciliano. E quando fu presentato a Venezia ad un certo punto del film ci fu una versione
doppiata, una versione sottotitolata perché era incomprensibile. Però appunto più volte Visconti lo ribadì: questa
è la lingua degli umili, degli ultimi. Loro parlano così.
Francesco Rosi è stato un grande regista italiano napoletano che ha lavorato come assistente alla regia accanto
a Visconti su “La terra Trema”. C’è una sua testimonianza che racconta il metodo di Visconti di lavorare che è,
come dire, tutt’altro che improvvisato (un po’ come invece abbiamo sentito). Sicuramente ci sono dei film e forse
il film che più aderisce ad un’idea di fretta e di necessità di girare senza andare a curare il montaggio. Non c’è
una sceneggiatura già precostituita dove poi le scene sono il corrispettivo di tutto quello che già sceneggiatore e
regista hanno previsto ma che però doveva rispondere ad una precisione formale impeccabile.
La stagione neorealista è chiamata stagione proprio perché ha una sua durata estremamente circoscritta che
sostanzialmente si fa partire da questa premessa che è “Ossessione” di Visconti del ’43, dove racconta la storia
della moglie di un oste più vecchio, grasso, petulante (insomma una relazione sostanzialmente priva di qualsiasi
sentimento e passione amorosa) che incontra un giovane che è Gino (interpretato da un bellissimo Massimo
Girotti). C’è la prima frattura rispetto al cinema precedente; con “Roma città aperta” e la trilogia della guerra di
Rossellini siamo in presenza di una stagione molto breve ma intensa che porta quella che gli storici chiamano
una “coralità di voci”.
Rossellini andrà verso un realismo più introspettivo e psicologico, alla fine degli anni ‘40 incontrerà questa
grande attrice che è Ingrid Bergman della quale si innamorerà e con la quale farà “Europa 51” e “Viaggio in
Italia” e subirà anche molti attacchi dalla critica in qualche modo di aver tradito un po’ i valori del neorealismo.
“Viaggio in Italia” racconta la storia di due coniugi inglesi che ormai sono in una forte crisi matrimoniale e
arrivano a Napoli per prendere possesso di un’eredità di una villa ai piedi del Vesuvio, in questo viaggio questi
due coniugi in realtà compiono un percorso prima individuale che poi nel finale li rivedrà insieme. Quindi vedete
come c’è un forte distacco dai temi neorealisti però qui comunque ci troviamo in una rappresentazione, anche
nella città di Napoli, molto realista e vicina alla poetica realista.

De Sica invece andrà verso un realismo più popolare, il così detto “realismo rosa” con questo ciclo di “Pane
amore e fantasia” dove questi toni più drammatici del neorealismo puro saranno dissolti in un cinema più
popolare.
Visconti invece darà vita a questi grandi capolavori di forte impianto storico come “Senso” e “Il Gattopardo”
quindi dei film che vanno a problematizzare la storia recente del paese e affrontare questioni importanti con un
ricorso ad una cura stilistica, al colore, a riferimenti pittorici musicali letterari molto ricchi.
È singolare che alla Mostra di Venezia del ‘59 il Leone D’oro sarà vinto ex aequo da “Il generale della rovere” di
Rossellini e dalla “La Grande guerra” di Monicelli (Monicelli era nato nel 1915 e siamo nel ‘59).
Al festival di Cannes vengono presentati film come “I 400 colpi” di François Truffaut che è un ragazzino e
“Hiroshima Mon Amour” di Alain Resnais quindi opere di autori giovani. Questo ci fa anche capire un po’ come il
contesto italiano degli anni ‘60 è un contesto molto eterogeneo che vede una varietà generazionale molto ampia.

LEZIONE 16
La nouvelle vague
Il neorealismo italiano rappresenta una vera propria scuola per le varie cinematografie e i cosiddetti ‘nuovi autori’
e questa condizione di rinnovamento riguarderà tutte le cinematografie e paesi.
Negli anni ‘50 e ‘60 le società occidentali si trasformano e l’Italia ha un rapidissimo processo di
industrializzazione con nuovi valori legati ai nuovi bisogni e consumi, dove il simbolo diventa l’automobile, il polo
produttivo si sviluppa verso Nord (sia italiano che europeo) e quindi causando un forte flusso migratorio. Questo
processo di modernizzazione coinvolge anche il cinema.
In Francia, dopo l’occupazione nazista che aveva bloccato la circolazione dei film americani, nei primi anni ‘50 si
ha una forte diffusione del cinema americano e produzione hollywoodiana e si sviluppa anche lo studio della
storia del cinema con l’elaborazione di manuali e libri sulla storia del cinema. Nascono le cineteche e gli archivi,
che contribuirono a dare una maggiore consapevolezza del patrimonio cinematografico.
I giovani che cominciano a fare cinema ‘50-‘60 sono le prime generazioni che utilizzano la pratica del
citazionismo (riferimento ad altri film o stili).
Nel 1951 viene pubblicata una rivista ‘faro’ per la nuova critica, ‘Cahiers du cinéma’, fondata da uno dei più
grandi teorici del cinema, André Basin. Su queste riviste si comincia anche a parlare del cinema americano e
dell’autorialità del cinema americano: in questi anni François Truffaut (regista che inaugura la Nouvelle Vague
con ‘I quattrocento colpi) va in America e incontra Alfred Hitchcock (inglese trasferitosi negli Stati Uniti portando
un nuovo modo di fare cinema) che era considerato uno dei tanti directors e non un autore/regista di grande
importanza come adesso. Insieme scriveranno un volume ‘Hitchcock-Truffaut’, considerato un manuale di regia.
Un altro maestro del cinema Hollywoodiano che ancora fino ad allora non era stato affatto considerato da un
punto di vista, appunto, autoriale è Howard Hawks, il regista di ‘Susanna!’ (Bringing Up Baby!).
Il dibattito intorno all’autore è un dibattito che si avvia già sul finire degli anni Quaranta: tutti i manuali di storia del
cinema quando parlano di Nouvelle Vague citano questo articolo che è ‘Naissance d’une nouvelle avantgarde: la
caméra-stylo’. È la nascita di una nuova avanguardia, la macchina da presa come penna, una riflessione portata
avanti proprio su un’analogia tra il regista e lo scrittore. Il cinema secondo Astraux stava diventando sempre di
più un linguaggio.
Per molti decenni si era faticato a considerare il regista come un autore, perché è lo scrittore compie il suo atto
creativo in maniera soggettiva ed individuale, senza alcun altro apporto se non la propria creatività. Invece, il
regista deve fare i conti con una serie di altre figure, come il produttore, gli attori e le attrici. I cahiers du cinema
hanno una grande importanza poi nello sviluppo della Nouvelle Vague, con ragazzi giovani che fanno, studiano e
analizzano il cinema, rifiutando il cosiddetto ‘cinéma de papà’, quel cinema francese delle grandi produzioni
legate ai grandi divi con una fotografia e recitazione molto impostata.
Nel cinema classico la profondità di campo era bandita e bisognava portare all'interno del film delle inquadrature
molto ben definite. Una data simbolica per l'affermazione, per l’avvio di questa cosiddetta Nouvelle Vague è
sicuramente quella del ’59: al Festival di Cannes in concorso vengono inseriti in competizioni ‘I quattrocento
colpi’ di François Truffaut e ‘Hiroshima monamour’ di Alais Rasnais e con grande con grande stupore la giuria
premia il film di Truffaut.
Al Festival del cinema di Berlino un altro giovane, Claude Chabrol, che ruotava intorno al circolo dei Cahiers du
Cinéma presenta ‘Les cousins’. In questi film la lezione del neorealismo è molto forte: è il primato
dell'osservazione e una decomposizione del racconto. Nel 1960 Jean Luc Godard gira ‘Fino all’ultimo respiro’, un
film che rompe tutte le regole del film classico, nel montaggio, nella recitazione, nella struttura, nei tempi e via
dicendo.
Nell’episodio presso gli Champs-Elysées Godard giovanissimo che si mise all’interno di una vettura, posizionò la
macchina da presa e riprese Michelle e Patrice, due giovani che camminavano e parlavano nella folla. Nessuno
era consapevole di finire nel film, non c’era alcun tipo di impostazione legata alle vecchie modalità di produzione.
Quando si gira per strada, infatti, si blinda il set, tutto ciò che c’è dentro è controllato.
Godard pensò di far recitare questi attori tra l’inconsapevolezza dei passanti di essere ripresi.
Ciò ci dà la possibilità di ricordare una questione importante legata al nuovo cinema, cioè l’evoluzione delle
macchine da presa. Tutto questo era impensabile anni prima, quando le macchine da presa avevano dimensioni
maggiori e difficili da trasportare. Negli anni 50 cominciano ad essere prodotte cineprese performative più
piccole, maneggiabili e che permettevano la registrazione del suono. Anche le misure e le iniziative statali sono
importanti, nei primi anni 50 il governo francese proprio per sostenere i nuovi autori istituisce un premio per i
cortometraggi.
È anche un momento di rinnovamento, soprattutto per quanto riguarda costumi, moda, rapporto uomo-donna.
Ciò è visibile in “Fino all’ultimo respiro”, dove Patricia, la ragazza americana di cui si innamora Michelle, ha un
abbigliamento particolare: porta un taglio corto, indossa un cappello da uomo, indossa camicie larghe.
Assistiamo anche all’affermazione del movimento femminista con cui le donne richiedono i propri diritti.
Un altro ruolo sull’emergere di queste nuove generazioni è ricoperto dall’affermazione di “Scuole professionali di
cinema”, sicuramente un ruolo importante è ricoperto da tre istituzioni negli USA, in Inghilterra e in Francia:
- Moma di New York, un museo di arte moderna che già negli anni 50 apre una sezione riguardante il cinema;
- National film Theatre a Londra, propone i capolavori della storia del cinema
- Le Cinémathèque Francaise.

Questi registi hanno la consapevolezza che all’interno dell’esperienza del film ci può essere il piacere di vedere
un’inquadratura. Godard fa vedere che cos’è il cinema, come si struttura, quali sono gli ingranaggi culturali.
Il cinema classico aveva lavorato per un montaggio invisibile, lo spettatore non doveva accorgersi della struttura
ma doveva essere assorbito dalla narrazione. Il cinema della modernità non ha paura di far vedere il montaggio,
l’inquadratura e far vedere che “Il cinema è il cinema” (Godard) e rivendicano il diritto di rompere dei tabù; infatti,
“Fino all’ultimo respiro” è un film molto denso da questo punto di vista.
Sono gli anni in cui si dirà che la forma è il contenuto, quindi è tutto intriso di modernità.
Modernità visibile particolarmente in Italia, che negli anni precedenti aveva subito un’interruzione degli anni d’oro
con l’ingresso della nazione in guerra. Negli anni 70 Sergio Leone mette mano al Western, un genere autoctono
fondativo della cinematografia americana, ma lo destruttura completamente, prende quello che nel cinema
hollywoodiano era stato sempre tenuto a bada come il sangue e la violenza bruta. I personaggi di Sergio Leone
agiscono per soldi e non c’è alcuna legge morale. Ma c’è una messa in scena che soddisfa un piacere della
visione: una lentezza dell’inquadratura, un uso della musica. Ennio Morricone, che produce una colonna sonora
onnipresente nei film di Sergio Leone.
Il panorama italiano negli anni 60 è molto variegato e ci sono due generi molto forti che sono stati a lungo poco
considerati dalla critica proprio perché ottenevano un grande successo tra il pubblico:
- il Western all’italiana, chiamato anche “Spaghetti Western” in cui si gira in ambienti deserti ed isolati
senza grandi infrastrutture produttive;
- Commedia all’italiana, che porta nuova linfa al cinema italiano. Ricordiamo i “Soliti ignoti” di Mario
Monicelli e il “Sorpasso” di Dino Risi.
È una commedia molto particolare che prova a ragionare sulla società italiana, ciò che causa questo rapido
mutamento della società con l’industrializzazione.
C’è anche Pierpaolo Pasolini con “L’accattone” o “Il Vangelo secondo Matteo”, dove Pasolini per la prima volta
racconta la figura di Cristo, di Maria e di Maddalena. Gira il film a Matera, un set naturale e prende la propria
madre per il ruolo di Maria ai piedi della croce, prende attori non proprio professionisti. Racconta Cristo come un
uomo qualsiasi, rivediamo quell’umanità che era stata cercata nelle borgate romane.
Pasolini era convinto che il cinema potesse essere una lingua capace di parlare a tutti attraverso le immagini.

Nei primi anni 60 gli incassi delle sale italiane vedevano solo il 30% interessati alle produzioni nazionali,
chiaramente con una forte presenza del cinema hollywoodiano, ma alla fine del decennio c’è un completo
ribaltamento; infatti, ai botteghini il 60% degli incassi è delle produzioni nazionali, con Pasolini, Bellocchio,
Bertolucci che si affiancano a registi che avevano un’attività avviata nei decenni precedenti.
Rossellini che inizia ad interessarsi alla televisione e Fellini negli anni 60 registra “La dolce vita”, un grande
capolavoro, lui è una figura imparagonabile, il suo realismo magico unico.
Antonioni aveva cominciato alla fine degli anni 40 con lavori documentaristici, negli anni 60 firma capolavori
come “L’avventura”, “l’eclissi” e “La notte”. Successivamente, egli girerà a Londra e negli Stati Uniti.
Quindi questi registi iniziano ad accedere a set e attori internazionali. Leone riuscirà ad attivare il genere
Western all’interno della nuova Hollywood con nuove narrazioni che incarnano questa perdita di certezza
nell’opposizione tra il bene e il male. Il nuovo eroe ha perso tutte le certezze e questo va ad intaccare tutta la
produzione hollywoodiana. Questa nuova generazione che anima il 68 interesserà quindi tutte le società
occidentali e non solo.

LEZIONE 17
New Hollywood
Per New Hollywood si intende un periodo di rinnovo del cinema americano che va dalla fine degli anni sessanta
e l'inizio degli anni ottanta.
Come ogni corrente, anche la New Hollywood si instaura lentamente e gradualmente nel mondo del cinema.
In questo periodo, si ha un ribaltamento della gerarchia cinematografica americana ed europea.
Il cinema americano, già a partire dagli anni '10 con la nascita di Hollywood, pone le basi per quella categoria di
film definiti "classici".
In Europa, con le avanguardie, si instaurano nel cinema nuovi linguaggi.
Sia Europa che America, giocano un ruolo fondamentale nel mondo cinematografico.
Ma nonostante ciò, ancora oggi, troviamo nei film rifierimenti alla stagione classica di Hollywood.
In Europa, nel dopoguerra, si avvia una narrazione più potente; in Italia, ad esempio, nasce il neo-realismo.
Mentre qui il cinema è influenzato da fattori politici e sociali, in America nasce la New Hollywood.
Questa corrente avvia il suo percorso dopo un periodo di particolare crisi dovuta a più punti:
- il crollo degli spettatori con l'avvento della televisione
-Il successo dei film europei, soprattutto con la Nouvelle Vague francese e gli spaghetti western italiani.
Il cinema prova a distaccarsi dalla televisione, proponendo allo spettatore cose che la televisione ancora non è in
grado di dare, come le pellicole a colori. Inoltre si prova anche ad aumentare la grandezza dello schermo
cinematografico, in modo da rendere il tutto più attrattivo, e la tecnica 3D.
Proprio in questo periodo, abbiamo un drastico cambio generazionale che favorisce l'avvento della New
Hollywood.
Fra i membri della nuova generazione di autori, abbiamo sicuramente Hitchcock. Quest'ultimo fin da subito si
pone come eccezione, portando nel cinema dei grandi capolavori grazie alle tecniche utilizzate e alla costruzione
dettagliata di un nuovo genere di suspense, garantendo quindi una risposta attiva da parte degli spettatori.
Possiamo dividere, in linea generale, la generazione di autori della new Hollywood in tre categorie:
• Autori emigrati, alle loro prime armi con la regia europea.
Qui troviamo personalità come Forman, Passer, Polanski, Clayton, Russell.
•Giovani talenti che sono influenzati dal cinema europeo e in particolare dalla Nouvelle Vogue.
Questi nuovi autori apprendono in maniera diversa dagli autori del periodo classico; frequentano infatti scuole di
cinema e prendono apprendistati.
Questi registi, oltre a voler studiare il cinema, vogliono comprenderlo.
•Chi ha già lavorato in televisione e vuole fare esperienza del cinema.

Ad Hollywood nel secondo ‘900, secondo dopo guerra, ci sono registi che arrivano in particolare dai paesi
dell’est, che hanno cominciato a formarsi all’interno della dimensione del nuovo cinema europeo amatoriale e
che per una serie di motivi decidono di andare negli Stati Uniti; come Polansky ed altri, che daranno un enorme
contributo a questa stagione.
Quali sono le caratteristiche comuni di questi nuovi registi, che per la maggior parte sono nati intorno agli anni 40
e sono dunque giovanissimi?
Innanzitutto, sono molto influenzati dal cinema d’autore europeo, in particolare dalla novel bag (presumo sia la
Nouvelle Vogue), e studiano cinema all’università.
Alcuni tra questi autori:

George Lucas (1944-)


Steven Spielberg (1946-)
George A. Romero (1940-)
John Carpenter (1948-)
Terrence Malick (1943-)
John Milius (1944-)
Michael Cimino (1939-)
Paul Schrader (1946-)
David Lynch (1946-)
Jonathan Demme (1944-)

Molti dei quali sono ancora attivi


È particolarmente interessante vedere come Hollywood si trasformi a partire dall’idea di autorialità, perché per
tutto il periodo classico il regista è una delle tante maestranze che lavorano alla realizzazione del film, e quindi la
sua visione, prospettiva artistica è di volta in volta negoziata col produttore, e lo stile nella quale si muove il
regista della Hollywood classica è uno stile imposto da un sistema fatto da regole formali, elogi. Adesso i tempi
sono maturi per ribaltare questa gerarchia e vedere il regista come autore. La possibilità di parlare di autorialità
avverrà solo intorno agli anni 50 e verrà proprio dalla Francia andando ad applicare il concetto di autore al
cinema americano.
La teoria sull’autore che viene avviata dalle pagine francesi investe anche il dibattito anglosassone, a cominciare
da una rivista nata nel ’62 in Inghilterra, intitolata Movie, che arriverà anche negli Stati Uniti.
Viene anche messo in discussione il cosiddetto star sistem, ci troviamo dunque difronte a nuovi attori e attrici
che abbandonano quella recitazione impostata, si afferma l’actor studios con una recitazione più naturale, più
vicina ai canoni del naturalismo, altro importante ribaltamento.
Poi mette estratti di film:
1)Gioventù bruciata (nuova generazione di ragazzi degli anni 40 che manifestano forte disagio, dedito all’alcol,
quindi un forte disagio giovanile)
2)Il laureato

LEZIONE 18
*La prof inserirà un file word nel team tra i materiali con i vari saggi da studiare per l’esame per i frequentanti
(sostituzione del Gabinetto del dottor Caligari con Nosferatu) *

Cinema italiano nel secondo dopo guerra una volta esaurita la cosiddetta stagione neorealista.
Ieri abbiamo ribadito quanto sia stato importante il neorealismo per l’affermazione e l’emergere del cosiddetto
cinema nuovo a livello internazionale che poi c’è tutta un’area geografica che abbiamo sacrificato come ad
esempio l’America latina dove anche li si verifica un cosiddetto cinema novo in cui si afferma il realismo, si
afferma un ricorso al cinema anche in chiave politica molto forte e interessante.
Quindi il neorealismo è stato davvero una spinta propulsiva non solo per il cinema italiano ma davvero un po’ per
tutte le cinematografie.
Durante il regime fascista è sostanzialmente messo in atto uno strumento di censura nei confronti del cinema
estero ma in particolare del cinema hollywoodiano, nel secondo dopoguerra, chiaramente, in particolare con i
nuovi rapporti che si instaurano tra Stati Uniti e Italia, pensate al piano Marshall che convoglia diversi fondi per
risollevare il paese, l’Italia anche non essendo più una dittatura dato che il 2 giugno vota per la Repubblica non
può più consentire questo tipo di blocco della produzione hollywoodiana, quello che però viene fatto è
l’emanazione di una legge che obbliga le produzioni americane ad investire parte degli incassi nelle sale, nei
botteghini italiani e quindi poi quello che si viene a creare è lo spostamento di alcune produzioni che arrivano in
Italia che usano cinecittà come set ricorrendo anche alle maestranze italiane e quindi molti film hollywoodiani
vengono poi prodotti e realizzati fisicamente anche in Italia.
Così come era stato già fatto nell’edificare e creare i studi di cinecittà viene messo mano nel 61 ad un’importante
ristrutturazione degli stabilimenti cinematografici della Tirrenia viene creata una nuova città del cinema che
prende il nome di Dinocittà dal nome di Dino De Laurentis e si inaugura una nuova stagione dei grandi produttori
che investono in modo molto forte i propri capitali nel cinema.
Un’altra cosa importante è la riforma della censura perché appunto fino a tutto il 1961 era ancora in piedi la
censura fascista che metteva tanti paletti nella sceneggiatura, nei dialoghi, in tutto ciò che si poteva fare e non
fare, è un po’ come quello che è successo negli Stati Uniti con l’abbandono del codice Hays che chiaramente
non è equiparabile alla censura italiana.
In seguito, vi è una riforma che motiva gli interventi di censura solo legati alla tutela del comune sentimento del
pudore e quindi crollano una serie di paletti che impedivano di trattare questioni politiche, questioni legate ad un
certo tipo di rappresentazione della famiglia, violenza e tutto quello che potete immaginare.
Nel 65 viene varata la legge Corona che riconosce per la prima volta il valore culturale e sociale al cinema che
da molto sostegno al cinema d’autore, al cinema di qualità, vengono istituiti dei premi di qualità che prevedono
dei premi annuali in denaro.
È anche interessante vedere come la televisione comincia nel corso degli anni 60 comincia a produrre o a co-
produrre dei film di finzione i primi registi che iniziano a lavorare con produzioni rai sono Roberto Rossellini o
Blasetti, ovviamente l’industria privata vede un po’ di malocchio questo intervento della tv nella produzione
perché si pone in una forte concorrenza.
Ora sia per quanto riguarda il cinema della New Hollywood sia per quanto riguarda la Nouvelle Vague noi
abbiamo visto un fenomeno di rinnovamento generazionale, arrivano registi molto giovani poco più di venti anni
sia ad animare la produzione hollywoodiana sia ad animare il cinema della Nouvelle Vague.
Quello che invece accade in Italia è un fenomeno molto particolare perché il panorama cinematografico
internazionale è sostanzialmente diviso in una nuova generazione che alimenterà poi quello che viene chiamato
il cosiddetto cinema della crisi, registi come Pasolini, Marco Bellocchio, Bertolucci cominciano a raccontare delle
storie che danno voce a questa crisi che sostanzialmente comincia a vivere l’Italia che non è più una crisi
economica perché l’Italia negli anni 60 comincia a vivere un fenomeno di boom economico, c’è un grande
sostegno all’industria, pensate alla Fiat, a come l’industria nel popolo settentrionale poi determina anche un
flusso di immigrazione da sud a nord ma chiaramente come ha evidenziato Pierpaolo Pasolini un intellettuale,
uno scrittore ad un certo punto sente che il cinema rappresenta una lingua nuova capace dia arrivare a tutti e
quindi a partire da Accattone nel 61 comincia a realizzare una serie di film guardando a quel cosiddetto
sottoproletariato urbano in particolare nella città di Roma che è tenuto fuori dallo sviluppo e dal boom
economico.
Quindi, da un lato abbiamo queste nuove generazioni che danno voce alla crisi e dall’altro abbiamo ancora attivi
registi che continuano a fare cinema come ad esempio Rossellini, Visconti, Antonioni, Fellini che avevano già
cominciato tra gli anni 40 e l’immediato secondo dopo guerra a fare film. Abbiamo generazioni diverse che si
affiancano nella produzione della cinematografia internazionale e quindi abbiamo registi cosiddetti veterani che
erano già attivi sotto al fascismo, una generazione che si era formata con il neorealismo Visconti e Rossellino e
quella dei nuovi autori Bellocchio, Bertolucci e Pasolini.
Un fenomeno molto interessante che connota il cinema italiano degni anni 60 è l’emergere di due generi
sostanzialmente nuovi per il nostro cinema: una è la cosiddetta commedia all’italiana e l’altro è il cosiddetto
spaghetti-western, cinema western che ad un certo punto, in particolare un regista che poi diventerà un gigante
del cinema che è Sergio Leone, comincerà a girare in Italia, nella campagna laziale, in Sardegna o talvolta in
Spagna che non era mai stato prodotto in Europa essendo un genere autoctono che nasce negli Stati Uniti che
racconta il mito della frontiera.
Quello che vediamo nei film di Leone è un western moderno in cui non ci sono più quei valori legati alla frontiera,
alla terra, all’identità americana che in qualche modo giustificava la violenza che puntualmente viene scagliata
contro i nativi d’America, quelli che venivano chiamati gli indiani.
In questo tipo di western manca completamente questa connotazione e chiaramente il motore di questi antieroi
sono sostanzialmente il potere e i soldi, in tale narrazione c’è un cambiamento fin dal titolo.
Un evento molto forte della narrazione è la musica che è affidata a quello che sarà uno dei più importanti
compositori per il cinema del secondo Novecento che è Ernio Morricone con un ricorso anche alla
rappresentazione del paesaggio davvero unica.
Si creerà un fenomeno davvero impensabile, degli autori, dei registi italiani che da un piccolo paese che però è
stato capace di grandi opere anche all’interno del panorama cinematografico riescono a ribaltare, riformulare i
codici di un genere nato negli Stati Uniti che è stato per decenni prodotto dalla grande industria Hollywoodiana e
il western italiano avrà anche delle ripercussioni sul western americano e quindi difronte a questo enorme
successo internazionale del cinema western italiano cosiddetto spaghetti-western anche il western americano
dovrà un po’ rivedere i suoi codici.
Qui è interessante vedere come nel corso di un decennio, ovvero il decennio 60, il cinema italiano si trova a
vivere una stagione davvero aurea perché se agli inizi degli anni 60 l’Italia produceva 129 film difronte invece ai
230 americani tra il 68 ed il 69 invece raddoppia la sua capacità di produzione riuscendo a competere con i
grandi numeri americani e chiaramente anche questo determinerà un ridimensionamento degli incassi nelle sale
italiane del cinema hollywoodiano ed un risultato per quanto riguarda la produzione nazionale.
Nello stesso anno a Cannes vengono premiati e presentati due film di due registi emergenti, giovani come
Francois Truffaut e Resnais mentre invece a Venezia abbiamo due registi che vincono il leone d’oro ex-equo uno
è Roberto Rossellini e l’altro è Mario Monicelli rispettivamente con Il generale della Rovere e La grande guerra,
due registi che avevano già una certa età, questo vi da ancora una volta la misura di come in Italia ci sia questa
compresenza generazionale.
È interessante anche ricordare come questa impennata produttiva ma anche di grande valore artistico e culturale
è determinata anche da una generazione davvero di grazia di produttori illuminati affiancati da una serie di case
di produzione indipendenti come “L’arco Film” di Alfredo Bini che è la casa di produzione che consente a Pasolini
di girare i suoi film.
Ritorniamo ancora sulla questione dei generi come la commedia all’italiana e anche l’horror, il quale sembrava
l’ennesimo genere dove il cinema hollywoodiano si era posto come leader, si trasforma, non è più l’horror del
Nosferatu degli anni 20.
Ritorna anche il Peplum, il cinema storico mitologico che aveva fatto grande il cinema italiano degli anni 10.
Qui in un processo osmotico il cinema hollywoodiano negli anni 50 prova con il cinemascope a girare dei film di
nuovo ambientati in un passato lontano, biblico, pensate a I dieci comandamenti, alla Tunica che sono questi film
che riportano l’antichità e la mitologia nel cinema hollywoodiano, attirando il pubblico sia con il technicolor, ossia,
la pellicola a colori e sia con questo nuovo formato molto esteso, ampio, dilatato che è il cinemascope, si investe
in un formato estremamente particolare che mirava a ribaltare un po’ l’appeal che nel frattempo stava
rappresentando la tv che gli spettatori americani potevano vedere tranquillamente nel salotto di casa, invece, il
tipo di cinema, di esperienza spettatoriale con un’espansione della superficie dello schermo poteva
rappresentare un forte appeal per lasciare il proprio spazio domestico ed andare al cinema.
Come abbiamo detto ieri questa è una stagione dove i tentativi si esauriscono molto presto perché solo una volta
che Hollywood capirà che il bacino è sostanzialmente quello dei giovani è li che ci sarà un cambio di contenuti, di
poetica e così via.
Domanda: Possiamo anche dire che la pellicola a colori, in Germania, riuscirà ad avere dei risultati con il regime
nazista?
Risposta: No, i film sono ancora in bianco e nero per tutti gli anni 40, in realtà, delle prime pellicole a colori
vengono sperimentati alla fine degli anni 30 basti pensare al mago Oz che è un film realizzato sia in bianco e
nero che a colori e il colore viene utilizzato per girare tutta quella parte del mago di Oz fantastica conseguente
all’uragano. Il cinema utilizza il colore per realizzare il surreale ed utilizza il bianco e nero per le scene realistiche
e quindi il film parte in bianco e nero e poi vira verso dei colori molto vividi, forti e quindi per molto tempo
nonostante fossero disponibili le pellicole a colori sono state raramente utilizzate perché in realtà il bianco e nero
non ha mai posto questioni relative all’effetto di verosimile o di realismo ma era talmente assorbita la
rappresentazione in bianco e nero che non veniva vista.
Nel cinema americano il primo impiego negli anni 50 viene utilizzato o in questo cinema di tipo più spettacolare
con il technicolor legato ad un tipo di rappresentazione storico-mitologica all’interno del cinemascope o nel
melodramma in quella parte in cui i sentimenti, le emozioni erano esasperate, però, per molto tempo ancora si fa
ricorso al bianco e nero nonostante fosse disponibile il film a colori, pensate a Psycho di Hitchcock che è un film
in bianco e nero.
Il cinema europeo degli anni 30 è assolutamente un film in bianco e nero.
La commedia all’italiana è un genere specifico che si manifesta solo nella nostra cinematografia e che prende
questa definizione perché fa riferimento ad un film che è Divorzio all’italiana e che si pone come una
commissione di più generi: da un lato abbiamo l’elemento commedico ma dall’altro c’è una componente
drammatica sempre però connotata da una forte critica alla società.
Potremo fare un riferimento al film come Il sorpasso di Dino Risi con Vittorio Guzman che è un film che racconta
la perdita dei valori della società italiana in questo momento di trasformazione da paese sostanzialmente
agricolo a paese industriale e il soprasso non è solo quello legato a quello che accade in questo film che finisce
tragicamente con un incidente stradale dove muore il protagonista interpretato da Guzman ma è anche il
sorpasso di un’Italia che prova a scavalcare e ad accelerare un processo di sviluppo e di progresso ma che da
un punto di vista valoriale si perde.
Questa è anche la stagione dei nuovi e grandi attori come Guzman, Mastroianni, Sordi, lo stesso Totò, insomma
abbiamo una presenza di grandi interpreti che poi connotano in modo ancora più forte questa nuova stagione.
Se negli anni 50 abbiamo ancora questa commedia popolare che molto spesso è stata anche individuata come
neorealismo rosa negli anni 60, appunto, irrompe questa commedia nuova che sostanzialmente perde quel coté
popolare, sentimentale, un po' melò ed invece non fa sconti nel raccontare le trasformazioni del paese.
È anche una stagione di grandi registi come Dino Risi, Mario Monicelli, Ettore Scola affiancati da un gruppo di
sceneggiatori, scrittori che hanno saputo costruire della storia in modo molto sapiente, da lì nasce un po' quel
cinema capace di leggere la realtà, andare un po’a fondo e compiere un’analisi e una rappresentazione critica
attraverso i personaggi c’è, quindi, un’evoluzione: il neorealismo compie questa pratica istantanea di fotografare
il paese drammatica e quello che accade negli anni 50 e nei primi anni 60 attraverso una serie di misure legate
al governo che provano a risollevare il paese da un punto di vista economico è un paese fortemente trasformato
sul piano urbanistico, demografico, la popolazione dai piccoli centri del sud viene dislocata in un nord industriale
e quindi c’è tutta una perdita d’identità e ciò trasforma il paese.
Oggi, a distanza di anni, siamo ancora in un forte divario tra nord e sud ed il cinema italiano di quei anni è stato
capace di raccontarlo attraverso l’ironia, la satira, la commedia e quindi per sommi capi questa è la commedia
all’italiana.
Il sorpasso di Dino Risi con Vittorio Guzman: scena con un elemento commedico che fa continuamente
riferimento ad un‘Italia che si sta trasformando.
Protagonisti: Vittorio Guzman che interpreta Bruno, un quarantenne rampante che ama le belle donne, le
macchine sportive, infatti, durante la maggior parte del film è al volante di una macchina molto performativa,
un’Aurelia e il co-protagonista è Jean-Louis Trintignant che interpreta uno studente.
Ambientazione: mattina del 15 agosto 1962, i due si incontrano per caso e Bruno travolge lo studente in una
giornata in macchina, un viaggio lungo la via Aurelia e sarà un viaggio che finisce drammaticamente con la
morte di Roberto.
Il film è un continuo di battute e di registro commedico.
Anche solo attraverso una breve clip Dino Risi porta sullo schermo attraverso, il personaggio di Bruno, una
perdita di valori, un’incapacità di riconoscere la cultura, sono gli anni in cui si porta la letteratura, la radio e c’è la
battuta in cui Bruno chiede a Roberto “hai anche tu il disco? (Garcia Lorca)” come se il riconoscimento di
Roberto della scrittura di Garcia Lorca potesse avvenire solo tramite il disco e non invece tramite l’opera nella
sua fisicità di libro.
Vi è la denigrazione della famiglia che si riunisce il 15 agosto nel giorno di festa che secondo Bruno è un
qualcosa di arcaico.
C’è il riferimento ad Antonioni che nel mentre aveva messo mano sulla trilogia dell’incomunicabilità,
dell’alienazione dove lui dice che con la notte prima ancora con l’avventura “ho dormito, il cinema che fa dormire”
questo essere in qualche modo rozzo però allo stesso tempo rampante, quindi, rappresenta quel benessere di
un’Italia che da un lato si risolleva economicamente ed accede ad una serie di benefit ma nello stesso tempo
questo non si affianca ad una crescita culturale e qui è designato in modo molto efficace.
Il film che desta ilarità sempre con dei forti riferimenti sociali e politici ha un finale tragico, incidente stradale dove
muore il più giovane, il co-protagonista.
Una commedia all’italiana molto particolare che mescola il tragico ed il commedico lasciando molto spesso poco
margine ad una visione positiva ma assolutamente critica e satirica.
I protagonisti arrivano fino in Toscana.
Stagione molto ricca di esperienze, attori, registi che fanno grande il cinema di questi anni.

Potrebbero piacerti anche