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ANTOLOGIA E TESTI DI STORIA DEL CINEMA

BAZINE, 1945, ONTOLOGIA DELL’IMMAGINE CINEMATOGRAFICA


All’origine della pittura e della scultura si ritrova il “complesso della mummia”, cioè
difendersi dalla morte attraverso la perennità materiale del corpo. Abbiamo un
bisogno atavico di lottare contro il tempo, la cui vittoria è rappresentata dalla
morte. Fissare l’immagine carnale dell’essere lo riconduce alla vita: salvarlo
attraverso l’apparenza. Oggi non si crede più all’identità ontologica del ritratto, ma
si ammette che ci aiuta a ricordare, e quindi a salvarlo da una seconda morte. Non si
tratta più della sopravvivenza ma della creazione di un universo ideale. “Che vanità
la pittura” se non si svela il nostro bisogno primitivo di avere ragione del tempo. La
storia delle arti plastiche è innanzi tutto la storia della loro psicologia, e quindi della
rassomiglianza.
La fotografia e il cinema spiegano dunque la crisi della pittura moderna del 1800.
L’avvenimento decisivo di senza dubbio l’invenzione del primo sistema scientifico e
meccanico della prospettiva.
Ormai la pittura era divisa in due aspirazioni: una propriamente estetica, l’altra che
desidera rimpiazzare il mondo con il suo doppio. La disputa del realismo nell’arte
deriva da questo malinteso, dalla confusione fra l’estetica e la psicologia, fra
l’autentico realismo e lo pseudorealismo dell’inganno ottico che si soddisfa
dell’illusione delle forme. L’arte medievale non soffre questo conflitto perché
ignorava questo dramma rivelato dalle possibilità tecniche. La prospettiva è dunque
il peccato originale della pittura occidentale.
Niepce e Lumiere ne furono redentori. La fotografia ha liberato le arti plastiche dalla
loro ossessione della rassomiglianza. Per quanto sia abile il pittore, la sua opera sarà
condizionata da una soggettività inevitabile. Mentre la fotografia è una riproduzione
meccanica della realtà, da cui l’uomo è escluso. L’originalità della fotografia risiede
dunque nella sua oggettività essenziale (il gruppo di lenti, del resto, si chiama
“obiettivo”). Solo nella fotografia godiamo dell’assenza dell’uomo, come se fosse un
fenomeno naturale. L’obiettivo solo ci permette di sostituire l’oggetto con l’oggetto
stesso, ma liberato dal tempo. Vite arrestate nella loro durata, liberate dal loro
destino dalla virtù del meccanismo impassibile; la fotografia imbalsama il tempo.
Il cinema appare come il compimento della fotografia, per la prima volta l’immagine
delle cose è anche quella della loro durata (la mummia del cambiamento).
L’immagine meccanica è l’avvenimento più importante nella storia delle arti
plastiche, opponendo alla pittura una concorrenza che raggiungeva l’identità del
modello, costringendola a convertirsi a sua volta in oggetto.
Che vanità ormai la condanna Pascaliana dato che la fotografia ci permette di
ammirare l’originale che i nostri occhi non sarebbero stati capaci di amare e nella
pittura un puro oggetto la cui ragione ha cessato di essere il riferimento alla natura.

BURCH, 2001, IL LUCERNARIO DELL’INFINITO


Dall’invenzione della fotografia, qualsiasi nuovo risultato della tecnica venne
interpretato come il riempimento di una lacuna. Lo stereoscopio permise alla
fotografia di superare se stessa, al punto che “un giorno sarà in grado di riprodurre
la natura viva e immateriale”. Il M.R.I. soddisfa appunto un’aspirazione alla
tridimensionalità.
L’altra linea di sviluppo costituita dai progressi dell’animazione grafica
(phenakistiscope) venne accolta in modo simile. Così come i tentativi di collegare
tra di loro le diverse strategie: lo stereoscope fornisce agli oggetti tridimensionalità,
il phenakistiscope gli fornisce movimento. Il bioscope fornisce entrambe. Edison
quando volle collegare il suo fonografo a un apparecchio che potesse riprodurre e
catturare immagini, dava voce a quella volontà atavica di estendere la propria
conquista della natura fino a trionfare sulla morte con un surrogato della vita.
È necessario fare un passo indietro ed esaminare i rapporti tra la ricerca scientifica e
l’archeologia del cinema. La fotografia viene inventata, e assume la funzione di
rappresentazione dello spazio. La fotografia contribuirà poi alla distruzione del
sistema rappresentativo del Rinascimento.
È evidente che il nuovo ritrovato tecnologico veniva anche a soddisfare un’oggettiva
esigenza delle scienze descrittive di quegli anni. Non è lecito però separare le
pratiche scientifiche da quelle ideologiche senza usare un’estrema cautela.
In più esisteva un altro percorso nella preistoria del cinema, ovvero la ricerca
dell’illusione. Solo una descrizione analitica del movimento animale e umano poteva
interessare alla scienza, e il phenakistiscope e i suoi simili rappresentavano quasi
una regressione da questo punto di vista.
Muybridge animava le figure di un cavallo al galoppo con il suo zoopraxinoscope e
per molto tempo nessuno credette che quelle immagini fossero vere. Anche Marey
pensò fossere brutte e false, ma poi si chiese “Non sarà che forse il brutto è soltanto
l’ignoto e che la verità vista per la prima volta offende l’occhio?”. L’apporto di
Muybridge è cruciale, da un certo punto di vista tutto il lavoro dei grandi pionieri del
cinema consisterà nel restituire bellezza a quelle immagini in movimento.
Gli esperimenti di Marey, ispirati come quelli di Muybridge al phenakistiscope,
mostrano una perfetta sintonia con il sogno frankensteiniano del XIX secolo,
pensiero dal quale però si discosta chiaramente. Per Marey però, e per la fisiologia
dell’epoca, gli animali e gli uomini sono macchine. Si pootrebbe addirittura
aggiungere che altri aspetti delle ricerche di Marey aprirono la strada al Taylorismo.
Per Marey e Londe però solo il movimento rallentato o accellerato può interessare
la sintesi scientifica. Infatti, per Londe, guardare queste immagini corrisponde a
guardare l’oggetto reale. Il cinematografo Lumiere è l’esito di quella ricerca tesa al
segreto della duplicazione della vita, ma bisogna considerare anche la deviazione
scientifica di cui le innovazioni di Lumiere sono un proseguimento.
L’apparato scientifico e industriale dell’azienda di pellicole e lastre fotografiche dei
Lumiere costituì una fondamentale base d’appoggio. La prima pellicola del 1895
consiste in una singola veduta (vue), gli operai del loro stabilimento quando escono
dal lavoro. Questa ripresa costituisce un esperimento di osservazione della realtà, in
quanto si trattava di cogliere un’azione del tutto imprevedibile. Nella prospettiva di
un cinema primitivo, i tratti essenziali della ripresa erano: una certa ampiezza del
campo, una certa altezza degli “attori”, una rigorosa frontalità. Tratti che
ritorneranno costantemente fino al 1905. Questi tratti derivano innanzitutto dalle
pratiche fotografiche (le scene di strada o il paesaggio urbano). Il paesaggio urbano
animato era però un sovrappiù di policentrismo. Servivano infatti più visioni dello
stesso film per cogliere tutti i dettagli presenti nell’inquadratura. Sarebbe ingiusto
però considerare questi film come delle cartoline animate. La produzione e
l’influenza di quell’immagine-modello può essere ricollegata alla tendenza scientista.
I fratelli Lumiere si considerarono per tutta la vita, e giustamente, dei ricercatori. Le
scene Lumiere si muovono in effetti come un microorganismo sotto la lente di un
biologo. I Lumiere si limitano quindi a scegliere l’inquadratura più adatta a
intrappolare la realtà. Alla fine della sua vita Louis Lumiere afferma di non aver mai
fatto quella che si chiama “messa in scena” e di avere solo fatto lavoro di ricerca.
Naturalmente questo non impedì al cinematografo di militare sotto la bandiera
dell’ideologia frankensteiniana. Gli unici due articoli usciti il giorno della prima
presentazione al salon indien sottolineano come questa tecnologia possa far vivere i
cari dopo la loro morte, e quindi a sopprimere quest’ultima.
BURCH, 2001, UN MODO DI RAPPRESENTAZIONE PRIMITIVO
Il periodo che porta alla creazione del M.R.I. rappresenta semplicemente un’epoca
di transizione, i cui tratti specifici dipendono dalle forze contraddittorie del cinema
di quegli anni. È esistito sicuramente un M.R.P. indiscutibilmente più povero sul
piano semantico del M.R.I. L’erosione di questo metodo primitivo, inizia con una
concezione di montaggio nata nei film più sperimentali. Questi film turbano
l’equilibrio primitivo, che era caratterizzato soprattutto dalla non-chiusura: del
racconto, della struttura e del suo statuto. Ad esempio, i film di un tempo davano
scontate delle istanze narrative, o te le raccontavano prima del film. Oggi un film
deve saper raccontare la propria storia, per cui molti film primitivi appaiono
illeggibili. Vi è poi l’avvento delle didascalie, che però non sposta i termini della
questione, dato che sottraggono il contenuto narrativo della scena, eliminandone la
suspense.
Esiste una storia delle diverse “conclusioni” al cinema, come la conclusione punitiva
(Arrosseur et arrossé), che però è semplicemente uno scioglimento, e non una
conclusione istituzionale per come la intendiamo noi. Un’altra conlusione tipica è
l’apoteosi di Melies. Ma entrambe sono conclusioni aperte e si associano a forme
primitive, ma quanto meno potevano escludere didascalie e commentatore.
La tappa successiva verso la chiusura è il piano emblematico, che trova il suo
esempio nell’inquadratura finale di The Great Train Robbery. Sarà negli anni
successivi un modo per rivelare il sorriso incantatore della giovane eroina. Nella sua
dimensione presentazionale, quindi, il piano emblematico si rifiuta ancora alla
chiusura.
Un’altra caratteristica del cinema primitivo è la sua prodigiosa “circolazione di
segni”. Era molto facile stampare copie pirata e distribuirle senza permesso. Ogni
film inoltre poteva essere copiato nella sostanza, nella messa in scena, nel
decoupage da qualsiasi altro cineasta senza alcuna ritorsione. Il primo processo
risale solo al 1908, ma non esisteva un principio di proprietà artistica per il cinema.
Il tratto più vistoso è però l’assenza della “persona classica”.
Il cinema primitivo non è un “oggetto buono”, sulla base del fatto che prefigura il
rifiuto che più tardi il modernismo opporrà alla leggibilità della rappresentazione
classica. Sognare il cinema primitivo come di un paradiso perduto, e non riconoscere
il progresso del M.R.I., significa flirtare con l’oscurantismo.
MARINETTI, 1916, LA CINEMATOGRAFIA FUTURISTA
Al di là dei luoghi comuni futuristi (nazionalismo, esaltazione della guerra, della
macchina, della velocità, rifiuto del libro…) questo testo fa lavorare insieme due
nozioni teoriche contraddittorie: il cinema puro e la poliespressività. L’affermazione
del cinema come arte autonoma assume per i futuristi la rivendicazione di un
cinema non narrativo e astratto, che cerca i suoi modelli nella musica e nella pittura
moderna. Qui interviene l’idea futurista di sintesi, applicata al cinematografo: solo
per mezzo di esso si potrà raggiungere quella poliespressività verso la quale tendono
tutte le più moderne tecniche artistiche. Il cinema è quindi un’arte che racchiude le
altre, una manipolazione di elementi eterogenei. Nel film futurista entreranno come
mezzi di espressione gli elementi più svariati, poesie cinematografate, simultaneità e
compenetrazioni di tempi e di spazi, ricerche musicali cinematografate, drammi
d’oggetti, parole in libertà, stati d’animo… Tutto questo mentre ad Hollywood si
andava ormai codificando il racconto cinematografico. Il futurismo testimonia più
che altro l’assunzione di nuovi materiali nella ricerca estetica, dove il cinema è un
elemento di novità e di rottura nei confronti della tradizione letterario e artistica.
Dunque, appare come il mezzo più adatto alla plurisensibilità futurista. È impossibile
negare che i futuristi hanno dimostrato che tutto è possibile al cinema.
Il cinematografo tende a rimanere estremamente passatista, ma in esso vi è la
possibilità di un’arte futurista. È un’arte a sé, non deve mai copiare il palcoscenico.
Deve anche compiere l’evoluzione della pittura: distaccarsi dalla realtà, dalla
fotografia, dal grazioso e dal solenne. Deve diventare mezzo di espressione di
un’arte nuova e immensamente più vasta di tutte quelle esistenti.
I film saranno:
- Analogie Cinematografiche: sentimento espresso da un’immagine. L’universo
sarà vocabolario;
- Poemi, discorsi e poesie cinematografati: le immagini che li compongono
passeranno sullo schermo. Trasformare le poesie monotone in spettacoli
eccitanti;
- Simultaneità e compenetrazioni di tempi e luoghi: 2 o 3 visioni differenti una
accanto all’altra;
- Ricerche musicali cinematografate;
- Stati d’animo cinematografati;
- Esercitazioni quotidiane per liberarsi dalla logica cinematografate;
- Drammi d’oggetti cinematografati: oggetti animati e umanizzati;
- Vetrine di idee, d’avvenimenti, di tipi, d’oggetti cinematografati;
- Congressi, flirts, risse e matrimoni di smorfie, di mimiche cinematografati;
- Ricostruzioni irreali del corpo umano cinematografate;
- Drammi di sproporzioni cinematografate;
- Drammi potenziali e piani strategici di sentimenti cinematografati;
- Equivalenze lineari plastiche, cromatiche di uomini, avvenimenti, pensieri ecc.
cinematografate;
- Parole in libertà in movimento cinematografate: Lettere umanizzate, drammi
geometrici, sensibilità numerica.

DELLUC, 1920, FOTOGENIA

Con Delluc si istituisce la figura del critico cinematografico. Lui si definì un cineasta,
cioè persone e figure che hanno fatto qualcosa per l’industria del cinema. La sua non
era semplicemente critica, ma anche promozione culturale e divulgazione, e stimolo
per il rinnovo del cinema francese. Egli non considera il cinema solo in prospettiva
artistica, ma come un’arte industriale: “la grande potenza di quest’arte è di essere
popolare, il cinema va ovunque. Le sale sono migliaia in ogni paese, i film sono nel
mondo intero, i commercianti rendono più intensa questa industria espressiva che
tende alla perfezione simultanea di arte e commercio”.
Nei capitoli iniziali di fotogenia si parla del rapporto tra cinema e fotografia. Secondo
Delluc sono le regole imposte e i procedimenti esasperati degli operatori a
mascherare la mancanza di idee e la mediocrità degli interpreti. Una “buona
fotografia è quella che non ha un aspetto artistico”. Il cinema è fotogenia, cioè la
capacità di distillare dalla realtà la sua verità lirica attraverso tutti gli elementi di cui
dispone, che non sono soltanto quelli fotografici. Delluc propugna così un cinema
dalla semplicità nuda, trasparente proprio quando si serve dei suoi artefici: “lo
schermo chiede tutte le raffinatezze dell’idea e della tecnica, ma lo spettatore non
deve sapere il prezzo di tale sforzo, deve soltanto osservare l’espressione e riceverla
completamente nuda”. Delluc dice che “l’arte sarebbe inutile, se ognuno fosse
capace di gustare coscientemente la bellezza profonda del minuto che passa”.
“La fotogenia nel suo senso stretto è profondamente monotona e insignificante.
Diverse attrici, insignificanti, si sono fatte strada al cinema grazie ai registi. Non si
vuol sentir parlare di talento degli attori, basta siano fotogenici. Se si continua a
volere il grazioso si otterrà il brutto. Un individuo, bello o brutto, ma espressivo,
conserverà la sua espressione intensificata dalla fotografia, se è questo che si vuole.
La fotogenia è l’accordo tra cinema e fotografia, che sono due cose diverse.
Il nostro occhio vede immagini sfocate, mentre lo schermo non ne ha il diritto? (flou)
Bisogna trasgredire a certe regole. Ogni passo in avanti della fotografia si tramuta in
mania. Manca snobismo. All’arte manca di che vivere in simpatia e di che lottare.
Finché il pubblico non costringerà gli artigiani a sforzarsi, la qualità del cinema non
assumerà il suo vero carattere. Si ha avuto lo snobismo per il chiaroscuro… e ora del
contro luce. Il loro abuso è il vero problema. Una buona fotografia non ha un
aspetto artistico. Che tutto sia naturale al cinema!”

EJZENSTEIN, 1986, IL MONTAGGIO DELLE ATTRAZIONI


Il teatro è connesso al cinema dalla comunanza del materiale di base, cioè lo
spettatore, e da uno stesso fine, il “modellare” questo spettatore nel senso voluto
attraverso una serie di pressioni sulla sua psiche. Solo questo orientamento
finalistico può giustificare un’impresa capace di assicurare al pubblico una
soddisfazione reale che tuttavia deriva da una compartecipazione fittizia a ciò che
viene mostrato (empatia). Il cinema, come il teatro, è dunque una forma di violenza.
Il Montaggio delle attrazioni è il procedimento comune, che libera l’oggetto
cinematografico dalla sceneggiatura narrativa e offre alla critica il metodo per
eseguire perizie veramente oggettive sugli eventi teatrali o cinematografici.
L’attrazione è per noi qualsiasi fatto presentato, noto e verificato, che esercita un
determinato effetto sull’attenzione e l’emozione dello spettatore, e che è capace di
orientare l’emozione in una determinata direzione. Il film dev’essere una selezione
tendenziosa di eventi tali da esercitare sul pubblico un modellaggio psicologico.
Questo cinema è classista poiché il calcolo attrazionale è pensabile solo in presenza
di un pubblico già noto, omogeneo e selezionato.
Questa “arte delle combinazioni”, con il suo mostrare non fatti reali ma riflessi (foto)
convenzionali, abbisogna della comparazione. Il montaggio è quindi una condizione
essenziale del cinema, sul cui carattere convenzionale esso si fonda.
Nel cinema l’azione influenzante si ottiene combinando e accumulando nella psiche
dello spettatore le associazioni necessarie al fine perseguito.
Quanto a procedure, quella fondata su semplici combinazioni per contrasto, spesso
consente un effetto emozionale deciso e intenso. L’esperimento del montaggio delle
attrazioni consiste nel comparare i soggetti mirando a un effetto tematico.
Ci avviciniamo gradualmente alla questione della sceneggiatura. Dobbiamo
ricordarci che al di fuori della “agitazione” non esiste nessun cinema. Questa
consiste nel creare una serie nuova di riflessi condizionati ottenuti creando
un’associazione tra certi eventi selezionati e i riflessi incondizionati. La crociata
contro il cinema recitato, che esercita un’influenza molto potente, è dovuta alla
scarsa qualità delle sceneggiature e delle tecniche di esecuzione.
La sceneggiatura è una ricetta di pezzi e combinazioni di montaggio, per il cui
tramite l’autore intende sottoporre il pubblico a una determinata serie di scosse,
che alla fine si raccoglie nell’effetto emozionale complessivo richiesto, esercitando la
pressione necessaria sulla sua psiche. Questo compito, data la scarsa capacità degli
sceneggiatori, tocca al regista. La presenza o l’assenza di una sceneggiatura scritta
non è poi così essenziale: sarà sufficiente uno schema basilare di orientamento.
L’approccio di montaggio è l’unico vero e insuperabile strumento linguistico del
cinema. Nella presentazione, il fattore decisivo dev’essere l’immediatezza e
l’economia delle forze impegnate nell’esercizio dell’attività associativa. Pertanto, in
presenza di un fatto esposto in maniera continuativa, il lavoro del cineasta esige
anche una scuola dei punti di ripresa, calcolati sotto il profilo del montaggio.
Per quanto riguarda la rappresentazione dell’esistente, si deve procedere a una
rivoluzione nelle fondamenta del cinema, o non rimarrà altro che un estetismo
dell’esistente. Sono convinto che il futuro appartiene alle forme senza intreccio
narrativo. Ancora, però, non è il caso di trascurare l’efficacia dell’attore.
Questa “recitazione”, vittima di una campagna condotta contro l’attore, non tiene
minimamente conto del tempo e dello spazio, e assomiglia solo alla lontana a una
qualche azione umana.

DZIGA VERTOV, 1926, NOI e ISTRUZIONI PROVVISORIE AI CIRCOLI


DEL KINOGLAZ
Alla base della pratica Vertoviana stanno due concetti basilari: l’istanza di
appropriazione visiva della realtà; e l’ipotesi di cinematizzazione dell’URSS operaia e
contadina, ovvero l’utilizzo del cinema come strumento per la partecipazione diretta
delle masse a tutte le scelte operate in Unione Sovietica. “Vertov aveva pensato che
il cinema fosse un linguaggio da usare e non da subire. E non solo, pensava che la
classe operaia dovesse imparare questo linguaggio per appropriarsi al valore di
realtà ad esso pertinente, che, come tutti i linguaggi, si prestava sia alla conoscenza
che alla mistificazione, e che l’apprendimento delle sue forme era necessario.”
Montani.
NOI:
Mettendo a nudo l’anima delle macchine, facendo innamorare contadino e trattore,
macchinista e locomotiva, noi portiamo la creatività nel lavoro meccanico, noi
imparentiamo l’uomo alle macchine, noi formiamo uomini nuovi, capaci di
movimenti leggeri e precisi come quelli delle macchine.
Chiunque ami la propria arte deve ricercarne l’essenza tecnica. Ci vuole un sistema
rigoroso di movimenti esatti.
Il Kinokismo è l’arte di organizzare i movimenti necessari delle cose nello spazio
grazie all’utilizzazione di un insieme artistico-ritmico conforme alle proprietà del
materiale e al ritmo interno di ogni cosa. Sono gli intervalli (passaggi da un
movimento all’altro) a costituire il materiale.
Il cinema è anche l’arte di immaginare i movimenti delle cose nello spazio, in
conformità con i dati della scienza.
Portati dalle ali delle ipotesi, i nostri occhi, che si muovono come eliche, si
moltiplicano nella pluralità del futuro.
ISTRUZIONI PROVVISORIE AI CIRCOLI DEL KINOGLAZ:
1. Introduzione
Il nostro occhio vede molto male e molto poco: di qui l’invenzione del
microscopio per poter vedere ciò che sfugge all’occhio nudo, del telescopio per
esplorare mondi lontani e sconosciuti, della cinepresa per penetrare più in
profondità nel mondo visibile, per esplorare e registrare i fenomeni visibili, per
non dimenticare ciò che accade e ciò di cui si dovrà assolutamente tener conto in
futuro. Qualunque film realizzato sulla base di una sceneggiatura e sul principio
della recitazione è uno spettacolo teatrale, e ciò non ha niente a che fare con la
vera vocazione della macchina da presa: l’esplorazione di fatti reali. La
Kinopravda prima, e il kinoglaz ora, lavorano fuori dal teatro per la creazione di
un cinema sovietico rosso.
2. Il lavoro del kinoglaz
Ci sono due figure. Il dirigente del circolo e il kinok-osservatore. La prima dà alla
seconda il tema dell’indagine della realtà, che dovrà osservare attentamente
l’ambiente e le persone che ci lavorano, sforzandosi di connettere tra loro
fenomeni isolati. Il dirigente dovrà infine raccogliere tutti i bollettini e sistemarli
finché la struttura del tema non risulti sufficientemente chiara. Esistono tre
categorie di temi: osservazione di un posto, di persone, di un tema (ad es.:
l’acqua, il pane, le scarpe). E infine vi è una terza figura, il consiglio del Kinoglaz.
Questa si appoggia sull’apparato tecnico composto dalla cellula dei Kinoki rossi,
delle piccole fabbriche che lavorano il materiale raccolto in cineoggetto, ma
anche dei centri di insegnamento per avviare nuovi circoli.
3. Parole d’ordine elementari
4. I kinoki e il montaggio
I Kinoki intendono il montaggio come l’organizzazione del mondo visibile. Il
montaggio è ininterrotto dalla prima osservazione fino al completamento del
cineoggetto seguendo uno schema.
5. I Kinoki e la sceneggiatura
Il montaggio è l’organizzazione del materiale, e non la penna di un letterato. Ciò
non significa che lavoriamo senza riflessioni ne piani. I kinoki realizzano il loro
cineoggetto sulla base di concreti cinedocumenti relativi all’inchiesta. La
sceneggiatura è l’invenzione di qualcuno che desidera trasformare un racconto in
film, e questo non è il compito del cinema.

EJZENSTEJN, 1929, LA DIALETTICA DELLA FORMA


CINEMATOGRAFICA
La struttura dialettica (il montaggio) rappresenta il fondamento strutturale di
tutti i fenomeni, e determina sia la natura che la storia dei processi messi in atto
dalla creazione artistica. L’arte è sempre conflitto (l’essere come costante
evoluzione di due opposti): per la sua missione sociale, per la sua natura, e per la
sua metodologia (il montaggio). Ejzenstejn procede sistematicamente alla
classificazione di una retorica delle composizioni di montaggio pensate per un
cinema intellettuale capace di creare non solo tensioni ottiche o emotive, ma veri
e propri concetti. Supera il montaggio delle attrazioni.
L’immagine coglie non la realtà ma la sua forma. Ejzenstejn perviene ad una
acquisizione teorica: Il riconoscimento del carattere segnico di ciascuna
immagine, operato attraverso il montaggio all’interno dell’inquadratura. Per lui
l’eterogeneità, la complessità, la stratificazione sono caratteristiche strutturali
del linguaggio del cinema, un dato materiale dello strumento. Negli anni 30 la
problematica del cinema intellettuale aprirà a considerazioni sul pathos, su cui
Ejzenstejn scrive: “il pathos dimostra la sua efficacia quando costringe lo
spettatore a uscire da sé stesso”. Non per andare nel nulla, ma per acquisire una
nuova qualità, per essere qualcosa di nuovo.
ALTMAN RICK, 2009, I GENERI DI HOLLYWOOD
La teoria tradizionale del genere cinematografico è basata su sette presupposti
1. I film di genere sono prodotti in serie. In base ai termini di genere si
progettano le produzioni.
2. Film dello stesso genere hanno componenti simili (contenutistico-formali).
3. I produttori associano ciascun film ad un unico genere tra quelli disponibili.
4. I distributori e gli esercenti rispettano l’identità di genere che i produttori
assegnano.
5. I consumatori scelgono film contrassegnati dal genere attribuito loro.
6. Durante la visione gli spettatori seguono una serie univoca di indicazioni di
genere.
7. I critici colgono e comunicano correttamente il genere di ciascun film.
Questa interpretazione rappresenta un modus operandi di Hollywood durante gli
anni degli Studio (fino al 60).
La seguente critica mette in evidenza alcuni problemi insiti nelle nozioni di
genere più diffuse:
Molti dei film di genere erano classificati come film di serie B a budget ridotto,
questo perché alle major interessa conservare l’esclusiva piuttosto che i generi
che fanno tutti gli studios. In anni recenti si è fatta chiarezza sulla natura dei
generi, è evidente che anche quando i testi rappresentano caratteristiche in
comune queste non bastano a garantire una percezione univoca da parte degli
spettatori. Anziché ricondurre i film a un genere, gli Studios hanno lavorato per
creare generi nuovi, creati in base a età e sesso degli spettatori. Gli studios hanno
sempre dato indicazioni di genere contrastanti anche per rivolgersi a un target
molto differenziato. Inoltre, è impossibile che le numerose reti di spettatori e
critici garantiscano uniformità di giudizio. I film di Hollywood sono progettati per
trarre profitto dall’affiliazione di più generi. La maggior parte degli approcci
teorici vede nei critici una semplice appendice dell’industria, idea priva di
fondamento in quanto Hollywood ha orientato la critica già un secolo fa. I critici
sono portati verso il genere, poiché solo appellandosi a categorie stabili e
autorevoli i loro commenti possono acquistare maggior valore.
I film di genere dipendono da due fattori correlati ma differenti. Le componenti
dei film di una determinata categoria sono le componenti semantiche. Infatti i
generi col tempo acquisiscono una struttura sintattica, combinando le
componenti semantiche come i rapporti tra i personaggi, l’intreccio o le metafore
portanti. Questo rende ogni western, ad esempio, diverso dall’altro.
Tutti i film di genere hollywoodiani hanno in comune certe caratteristiche: sono
dualistici, ripetitivi, cumulativi, prevedibili, intertestuale, simbolici e funzionali.
Ai termini di genere si richiede quasi sempre di assumere svariati significati e
molteplici funzioni. Ad esempio, il termine “musical” da delle informazioni
specifiche al produttore. Agli esercenti lo stesso termine dice qualcosa di diverso:
non individua esigenze produttive, ma suggerisce la nicchia di pubblico. A loro
volta gli spettatori hanno una reazione differente, creando aspettative in base al
genere del film. Se gruppi differenti intendono il genere nello stesso modo,
l’impiego della sua terminologia può semplificare il processo comunicativo.
Anche se costituisce più spesso un terreno di scontro.
Sebbene non si sottraggano mai completamente all’influenza culturale, i generi
presentano di continuo modelli alternativi rispetto aa quelli socialmente
prestabiliti. I generi di HW di solito si affidano a personaggi e azioni che si
distinguono per la loro eccentricità nei confronti di un certo mondo culturale
(fuorilegge-western, nemici stranieri-guerra, alieni-fantascienza). Tuttavia, i film
hollywoodiani al momento di intensificazione massima, fanno sempre ristabilire i
valori culturali. Ciò che rende di successo i generi hollywoodiani è il sapiente
dosaggio con cui combinano gli eventi e le occasioni che scatenano piacere, da
un lato, e la restaurazione finale dei valori culturali, dall’altro.

BAZINE, 1950-55, L’EVOLUZIONE DEL LINGUAGGIO


CINEMATOGRAFICO
Il sonoro rappresenta una rivoluzione estetica? Nel cinema che va dai 20 al 40
distinguo due grandi tendenze: i registi che credono nell’immagine e quelli che
credono nella realtà.
L’immagine è ciò che la rappresentazione può donare all’oggetto rappresentato:
la plasticità dell’immagine e le risorse del montaggio. Il montaggio rappresenta la
nascita del cinema come arte, differenziandolo dalla fotografia. Il montaggio può
essere invisibile, ma la neutralità non rende conto di tutte le possibilità, le quali si
colgono perfettamente nei tre procedimenti noti come Montaggio parallelo,
Montaggio accelerato e Montaggio delle attrazioni. Nel primo caso si ha la
possibilità di rappresentare la simultaneità di due eventi. Mediante la
moltiplicazione di inquadrature sempre più brevi si ha la sensazione di
accelerazione. Infine il montaggio delle attrazioni si può definire come il
rafforzamento del senso dell’immagine mediante l’accostamento di un’altra
immagine che non appartiene necessariamente allo stesso avvenimento. Questi
tipi di montaggio creano tutti la stessa cosa: un senso che le immagini singole
non hanno. Il senso non sta nell’immagine, ne è l’ombra proiettata, per mezzo
del montaggio, sul piano di coscienza dello spettatore.
Se l’essenziale dell’arte stesse in tutto ciò che la plasticità e il montaggio possono
aggiungere a una realtà data, l’arte muta sarebbe completa.
Esiste però in epoca muta un cinema che fa del montaggio solo una minor parte,
dove l’immagine non per ciò che aggiunge, ma per ciò che rivela. In rapporto a
questa tendenza il mutismo del film privava la realtà di uno dei suoi elementi.
Le produzioni francesi e americane sono sufficienti per definire il cinema parlato
anteguerra. Per quanto riguarda il fondo: grandi generi dalle regole ben
elaborate capaci di piacere al più vasto pubblico possibile. Per quanto riguarda la
forma: degli stili di fotografia chiari e conformi al soggetto; riconciliazione di
immagine e suono. Si hanno tutti i caratteri della pienezza di un’arte classica.
Nel 40-50 la vera rivoluzione sta infatti nei soggetti e non nello stile. Il neoralismo
è di fatto un umanesimo e non uno stile di regia. Ma a soggetto nuovo nuova
forma!
Una caratteristica importante, che lascia alle spalle il decoupage, è la ripresa
della profondità di campo rispetto allo sfondo sfocato. Renoir ne è precursore, la
sua profondità sopprime il montaggio, sostituito dalle frequenti panoramiche e
dalle entrate di campo. Welles ha quindi imparato questo metodo da Renoir, e i
suoi piani sequenza sono il rifiuto di spezzettare la stessa scena. Il piano
sequenza del regista moderno non elimina il montaggio, ma lo integra alla
propria plasticità. La profondità di campo non rappresenta una caratteristica
dell’operatore ma un’acquisizione capitale della regia: un progresso dialettico.
Psicologicamente la profondità di campo ha una struttura più realistica e implica
un atteggiamento più attivo dello spettatore.
Il montaggio si oppone al senso dell’ambiguità, mentre la profondità di campo la
reintroduce come possibilità. Citizene Kane è il più grande esempio di quanto
detto finora.
BAZINE, 1948, IL REALISMO CINEMATOGRAFICO E LA SCUOLA
ITALIANA DELLA LIBERAZIONE
Non c’è dubbio che la liberazione ha avuto un ruolo importante nella produzione
cinematografica italiana. Ma ciò che è successo non è un miracolo.
Il fascismo ha lasciato sussistere un certo pluralismo estetico e il CSC e il Festival
di Venezia sono oggi misura di prestigio. Il fascismo ha fornito l’Italia di teatri di
posa moderni e non ha impedito la realizzazione di opere di valore. È vero che
molte produzioni confermano una certa caricatura portata avanti da Cabiria, ma
esisteva un filone artistico riservato al mercato nazionale che presentava film
come Quattro passi fra le nuvole.
Registi come De Sica si sono sempre impegnati nella realizzazione di commedie
molto umane, piene di sensibilità e realismo: I bambini ci guardano (1942). Non ci
sono del resto tanti nomi nuovi. Ma non se ne deve concludere che la nuova
scuola italiana non esiste.
La resistenza e la liberazione hanno fornito i principali temi. In Italia la liberazione
non significava un ritorno alla libertà, ma rivoluzione politica, occupazione
alleata, sconvolgimento economico e sociale. Rossellini ha girato Paisà in un
periodo in cui il racconto era ancora attuale. Il cinema italiano si attesta
sull’attualità. Ne deriva che questi film presentano un valore documentario
eccezionale. In un mondo ancora ossessionato dall’odio, il cinema italiano è il
solo a salvare, nel senso stesso dell’epoca che dipinge, un umanesimo
rivoluzionario.
Tutti i film rifiutano la realtà sociale di cui si servono ma sanno non trattarla
come un mezzo. Prima di essere condannabile, il mondo è. Non si tratta mai di
politica ma di socialità.
Inoltre, è da riconoscere l’eccellenza degli interpreti: Anna Magnani, Fabrizi,
Pagliero (in Roma città aperta). Rossellini girava anche con comparse occasionali
prese sul posto delle riprese, da bambini di strada a una ragazza analfabeta in
Paisà. Questa costanza realista comincia addirittura da Lumiere, poi nel cinema
russo. Ma non è l’assenza di attori professionisti a caratterizzare il realismo
cinematografico. Quando l’amalgama di attori professionisti e non è riuscita si
ottiene quella straordinaria impressione di verità dei film italiani. Questo metodo
è però instabile, il successo di un film rischia di confermare l’attore nel ruolo che
riveste.
Il cinema italiano ricorda che non c’è realismo in arte che non sia prima di tutto
profondamente estetico. Il realismo italiano non comporta affatto una
regressione, ma un progresso dell’espressione. Dopo l’eresia dell’espressionismo,
e dopo il parlato il cinema tende verso il realismo. Ma il realismo in arte non può
che derivare da artefici. Si possono classificare gli stili cinematografici in funzione
del grado di realtà che essi rappresentano. Chiameremo realista ogni sistema di
espressione, ogni procedimento di racconto che tenda a far apparire più realtà
sullo schermo.
I due grandi eventi che segnano la storia del cinema sono Citizene Kane e Paisà.
Orson Welles ha restituito all’illusione cinematografica la sua continuità. Con la
profondità di campo non è il decoupage a scegliere cosa vedere, è lo spirito dello
spettatore a discernere lo spettro drammatico della scena.
Da altri punti di vista il cinema si è però allontanato dalla realtà per la
complessità della sua tecnica, impedendosi di ricorrere ad ambienti naturali o ad
interpreti non professionisti. All’opposto di Citizene Kane si pone Farrebique, ma
in mezzo restano numerose possibili mescolanze. Bisognerà sempre sacrificare
qualcosa della realtà alla realtà.
Partendo dalla tecnica del racconto si può rivelare l’estetica implicita dell’opera
cinematografica. Lo stile è definito dalla natura dei fatti riportati. Dopo il parlato
un film esige troppo lavoro e troppo denaro per ammettere titubanza, ma nel
film italiano ha parte importante l’improvvisazione. Le condizioni materiali della
realizzazione in Italia, immediatamente dopo la liberazione, la natura dei soggetti
trattati e senza dubbio anche un qualche genio tecnico hanno liberato i registi da
queste servitù del decoupage. Rossellini è partito con la sua mdp, della pellicola e
dei canovacci di storie che avrebbe modificato in base all’ispirazione.
L’improvvisazione è spesso ridotta ai dettagli, ma basta a dare un tono diverso al
film. Per alcune inquadrature in movimento ci vuole tatto, come quello di un
pittore quando dipinge. Quasi tutto viene fatto all’altezza dell’occhio o a partire
da punti di vista concreti come un tetto o una finestra.
Quanto alla fotografia, l’illuminazione assume un debole ruolo espressivo. Perché
la maggior parte delle riprese vengono fatte in esterni, e perché lo stile reportage
s’identifica con il grigiore dei giornali.
Paisà è senza dubbio il primo film ad essere una raccolta di novelle.
Nel decoupage tradizionale il fatto viene aggredito e analizzato dalla macchina da
presa. I fatti, in Rossellini, acquistano senso, ma non nella maniera di un utensile.
I fatti si susseguono e lo spirito si accorge che si raccolgono e che finiscono per
significare qualcosa che era in ciascuno di essi. Una morale alla quale lo spirito
non può sfuggire. In paisà l’unità del racconto è il fatto, il cui senso viene fuori
solo a posteriori grazie ad altri fatti.
Rossellini e Welles, in fondo, hanno la stessa concezione estetica del realismo.
L’essenza del cinema italiano è l’equivalente cinematografico del romanzo
americano. A HW si moltiplicano gli adattamenti, ma è in Italia che si realizza, con
naturalezza e disinvoltura, su soggetti originali, il cinema della letteratura
americana. Non è un caso che i soldati americani siano dei personaggi importanti
in molti film italiani. Il cinema italiano ha saputo trovare per lo schermo gli
equivalenti propriamente cinematografici della più importante rivoluzione
letteraria moderna. (1948)

ZAVATTINI, 1953, ALCUNE IDEE SUL CINEMA


Non bisogna stupirsi che il cinema abbia sentito la necessità di una storia da
inserire nella realtà, per renderla appassionante e non noiosa. La caratteristica
più importante del neorealismo sembra che sia quella di essersi resi conto che
questa necessità non fosse altro che una maschera della nostra sconfitta. Sì è
accorto che la realtà è enormemente ricca: bastava saperla guardare. Il compito
dell’artista dovrebbe essere quello di portare l’uomo a riflettere sulle cose reali.
Tutto ciò che si fa evadendo dalla realtà è un tradimento.
La posizione degli americani è antitetica a quella del neorealismo: a noi interessa
la realtà confinante con noi stessi e ci interessa conoscerla a fondo direttamente,
gli americani continuano ad accontentarsi di una conoscenza edulcorata. Da noi
non può esistere carenza di soggetti, come accade in America, perché non ci sarà
mai carenza di realtà.
Quali conseguenze di carattere narrativo ha portato questa presa di coscienza?
1- In una scena si tende a portare tutto al valore fondamentale.
2- Ogni momento contiene da solo materiale sufficiente per un film.
Non si tratta più di rendere reali cose immaginate, ma di rendere significative le
cose quali sono.
Il neorealismo, se vuole essere conseguente, deve proseguire con lo stesso
impulso morale che lo ha caratterizzato al suo sorgere, ma su una strada
analitico-documentaria. Il racconto, infatti, inizialmente era il più semplice
possibile.
Di eroi più o meno immaginari ne ho piene le scatole, io voglio incontrare il vero
protagonista della vita di oggi. Voglio parlare con lui. Bisogna far capire che siamo
tutti ugualmente interessanti.
Il termine neorealismo implica l’eliminazione della figura tecnico-professionale,
compreso lo sceneggiatore. Non hanno più senso i manuali e i termini come
“primo piano”. Ognuno ha la sua sceneggiatura personale.
Se voglio scrivere una scena di due uomini che litigano non voglio pensarla a
tavolino, devo uscire fuori e trovarli. A me interessa il dramma delle cose che si
incontrano, non delle cose prepensate.

SADOUL, 1964, DALLA SECONDA GUERRA MONDIALE AI


GIORNI NOSTRI
PARAGUAY: Vi erano soltanto una trentina di cinematografi. Nel ’57 viene
realizzato Il Tuono Tra Le Fronde. Il film presentava belle scene ma nell’insieme
era mediocre. Il contributo del Paraguay si limitava alle comparse e ai paesaggi
naturali.
BRASILE: In Brasile il cinema conobbe un interessante sviluppo artistico nel
decennio 1925-35. Il primo lungo fu realizzato nel 1913 (Il delitto di Bahanos). Il
primo cine-club fu fondato nel 1925 San Paolo. Mauro fu uno dei più talentuosi
registi di film muti. Anche Peixoto, con Limite, attirò l’attenzione di Ejzenstein e
di Pudovkin. L’avvento del sonoro stimolò la produzione che tuttavia non superò i
dieci film all’anno. Dal ’35 si produssero principalmente film destinati a lanciare
canzoni per il carnevale di Rio. La diva di questi film musicali, Carmen Miranda, fu
presto scritturata da Hollywood. Nel ’41 il Brasile produsse un solo film. Durante
la guerra fu fondata la casa di produzione Atlantida, che doveva realizzare film
per il carnevale, composta da Mauro, Barros e Carmen Santos. Mauro diresse
molti film, tra cui Argila. Per molti anni si dedicò all’Istituto Nacional de Cinema
Educativo per istruire alcuni documentaristi. Rui Santos realizzò un documentario
su Rio, in cui mostrava il divario tra quartieri residenziali e favelas. Da qui molti
sforzi, anche per film tratti da romanzi ma sempre risultati mediocri.
Nel 1950 arrivò Alberto Cavalcanti, chiamato dalla Vera Cruz di San Paolo, in
conflitto con Rio. Il più famoso film di questa nuova tendenza fu Il Cangaceiro di
Barreto. Questo film impose il Brasile in tutto il mondo e non fu l’unico.
Cavalcanti lasciò la Vera Cruz e fece numerosi film in Brasile, tra cui O Canto do
Mar. Hollywood continuò però a monopolizzare il mercato, e nel 1958 arrivò
addirittura a 250 milioni di biglietti venduti in Brasile. Vera Cruz fallì e Cavalcanti
tornò in Italia. Ma in Brasile stava nascendo una nuova generazione di cineasti.
Verso il ’60 il monopolio di HW cominciò a tramontare ma i talenti rimasero
comunque casi isolati a causa degli scarsi capitali. Tuttavia nel ’62 Opagador de
promesas ottenne un premio a Cannes. Dal ’63 in poi il cinema si riprese e nel ’69
si arrivò a 70 film all’anno. La rivoluzione del cinema novo iniziò da un gruppo di
intellettuali, tra cui Nelson Pereira dos Santos, che girò il primo capolavoro Vidas
Secas. Il più noto dei registi fu Glauber Rocha: Il dio nero e Il diavolo biondo fu il
suo capolavoro insieme a Terra in Transe.
Questo fecondo periodo si può dividere in tre filoni: Il filone nordestino, legato
alla realtà del sertao, il filone urbano, che analizza le classi medie, quello
tropicalista, che si riallaccia alla scuola poetica degli anni Venti nella ricerca di
una specificità culturale nazionale.
Purtroppo, il ciclo si è concluso anche a causa del governo dei gorilla che
impedisce l’uscita di numerosi film.

ROCHA GLAUBER, 1986, EZTETYKA DELLA FAME


L’America latina rimane tuttora una colonia. Il condizionamento economico e
politico ci ha condotti al rachitismo filosofico e all’impotenza, che generano
sterilità e isteria. La prima si riferisce a tutta quella produzione di opere
dimenticabili. La seconda all’indignazione sociale, che provoca anarchia ma anche
una ricerca per una ricetta per l’arte popolare. Ma è tutto frustrazione dovuta
alla colonizzazione. La fame latino-americana deve essere l’essenza della sua
stessa società, qui risiede la tragica originalità del cinema novo: la nostra fame
però, essendo sentita, non è compresa.
La fame è il tema centrale del cinema novo, e questo miserabilismo si
contrappone ai film di gente ricca, a film allegri, rapidi, senza messaggi e con fini
industriali. L’impegno con la verità ha fatto di questo cinema un fenomeno
internazionale. Per gli europei si tratta di uno strano surrealismo tropicale. Per il
brasiliano di vergogna nazionale. Sappiano che la fame non sarà curata dal
governo, e sappiamo che soltanto una cultura della fame può superarsi
qualitativamente: la più alta manifestazione culturale della fame è la violenza.
Una estetica della violenza è il momento in cui il colonizzatore si accorge
dell’esistenza del colonizzato. Fino ad allora il colonizzato è uno schiavo.
Il cinema novo non può realmente svilupparsi restando ai margini della dinamica
economica e culturale dell’America latina. Tuttavia, il cinema novo non è
strettamente brasiliano: dove ci sia un cineasta disposto ad affrontare la verità e i
padroni ipocriti ci sarà cinema novo. Per questo il cinema novo si allontana
dall’industria, perché l’impegno del cinema industriale è con la menzogna e lo
sfruttamento. Il cinema novo è un insieme di film che alla fine darà al pubblico la
coscienza della propria miseria.

JULLIER LAURIENT, 2006, INTRODUZIONE DE IL CINEMA


POSTMODERNO
Quando si tratta di postmodernità la cosa più semplice è parlare di calcio. E più
precisamente della “paura del portiere prima del calcio di rigore”.
- Livello 1
Il portiere si tuffa dove ha guardato e dove ha calciato il rigorista. Questa
situazione è lo stile classico: il pubblico prende le storie come tali e senza
malizia.
- Livello 2
Il portiere si tuffa dove ha guardato il rigorista ma questo calcia dalla parte
opposta. Questa situazione è lo stile moderno: creare straniamento che passa
per la possibilità della menzogna e della derisione.
- Livello 3
Il rigorista calcia dove ha guardato ma lascia intendere di voler fare l’opposto.
Il portiere può essere sia classico che moderno. Questa situazione è la
postmodernità. Si racconta una storia nei bei tempi andati, ma si è più
maliziosi.
- Livello 4
Il rigorista guarda a sinistra ma tira a destra lasciando intendere che, se avesse
voluto, avrebbe potuto calciare a sinistra. Egli non è obbligato a prendere in
contropiede il livello 1, mentre un modernista si sarebbe sentito in dovere di
farlo. È un’altra figura della postmodernità, dove si riciclano figure classiche e
moderne (Tarantino o Soderbergh).
Il termine postmoderno è fonte di confusione. In primo luogo, la si può usare per
designare un’arte nel quale “la posta in gioco è avvicinare la materia”. In secondo
luogo, il prefisso “post” sembra designare un periodo temporale che verrebbe dopo
la modernità. Ma questa idea di progresso è falsa. Questo stile raccogli figure che
per la maggior parte sono note al cinema da decenni.
Il cinema postmoderno è funservice. Ama le scenografie sferiche perché sostiene
l’idea multiculturale per cui tutti i punti di vista si equivalgono. Il cinema
postmoderno esibisce la sua tecnica (schermi giganti, altoparlanti…). Si prende gioco
dei confini tra ciò che appartiene alla storia e ciò che non vi appartiene. Il cinema
postmoderno, infine, ha rinunciato all’idea di progresso artistico. L’artista
postmoderno non si oppone a quelli che l’hanno preceduto, ragion per cui egli può
pescare dai modelli precedenti. Ciò che conta è essere cool.

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