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Riassunto La Galassia Lumiere

Estetica e Teoria dell'Immagine (Università degli Studi di Salerno)

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LA GALASSIA LUMIERE
1. RILOCAZIONE

Tacita

Nell'ottobre 2011, l'artista inglese Tacita Dean presenta alla Tate Modern di Londra una sua opera
intitolata Film. Si tratta di un cortometraggio in pellicola, proiettato in loop su un grande schermo, in
uno spazio buio dotato di una lunga panca per sedersi. Film è indubbiamente un atto alla difesa della
pellicola, ma sembra anche invocare la preservazione di un medium-dispositivo: nella Tate ritroviamo
anche tutti gli elementi essenziali del cinema e che ne hanno caratterizzato la base materiale, però li
ripropone come componenti di un'installazione artistica. Quello che presenta non è ciò che solitamente
va sotto la parola "cinema" cioè una serie di immagini e di suoni volti a fornire un certo tipo di
rappresentazione del mondo e a istituire un certo tipo di rapporto con lo spettatore. È arte.
Quasi a contrappunto troviamo molti episodi in cui il cinema, inteso come forma di rappresentazione e di
spettatorialità, non solo continua a vivere, ma anzi si espande al di fuori dei suoi territori abituali,
indipendentemente dalla presenza del suo tradizionale supporto e del suo tradizionale dispositivo.
Ma la presenza diffusa del cinema va bene al di là di questi episodi. La stessa industria cinematografica
incoraggia questi canali alternativi, muovendo un film da un canale di distribuzione all'altro con sempre
maggiore velocità. Abbiamo anche una grande disponibilità di immagini e suoni che usano un linguaggio
cinematografico per formati meno tradizionali. Oggi questa situazione si è ulteriormente consolidata.
L'enorme diffusione degli schermi nella nostra vita quotidiana porta con sé una presenza del cinema
sempre maggiore. Gli consente nuove modalità di distribuzione, nuove tipologie di prodotti e nuovi
contesti di fruizione. Gli permette di continuare a vivere pur adattandosi a un nuovo paesaggio.
Si è davanti a un (piccolo) paradosso: da un lato un'artista che difende una base tecnologica tradizionale,
anche a scapito di un modo di fruizione, dall'altro un'evidente tendenza, che coinvolge diversi settori
industriali e commerciali, a far sopravvivere un modo di fruizione anche rinunciando a una tecnologia.
Che ne è del cinema in un momento in cui perde componenti essenziali e guadagna opportunità
inedite? Che cosa diventa in un tempo in cui tutti i media a causa dei processi di convergenza
sembrano uscite dalle loro solite piste e imboccare nuove strade? Che cos'è e dov'è?
Innanzitutto un medium non è solo un supporto o un dispositivo, è anche una forma culturale: ciò che lo
definisce è la maniera in cui esso ci mette in relazione con il mondo e gli altri, e dunque il tipo di
esperienza che esso attiva. Per esperienza si intende sia un confronto con una realtà, sia la capacità di
trarre da questo confronto una conoscenza, sia l'abilità di gestire questo ed altri incontri. Il cinema fin
dalle sue origini ha ruotato attorno al fatto di offrirci delle immagini attraverso cui riconfigurare il nostro
rapporto con la realtà.
In secondo luogo, le due facce del medium, e cioè la sua natura di supporto e di dispositivo da un lato, e
la sua natura di forma culturale dall'altro, sono di solito strettamente intrecciate: facciamo esperienza
della realtà nei modi in cui una tecnologia ci consente di farlo Tuttavia i due aspetti sono anche distinti,
ed è utile usare due nomi diversi. Una cosa infatti è la base materiale di un medium, un'altra la maniera
in cui esso organizza i nostri vissuti. La distinzione diventa particolarmente importante oggi, in un
momento in cui il tipo di esperienza che caratterizza un medium sembra potersi riattivare anche senza la
presenza completa della sua tradizionale base materiale.
Terzo. Cosa consente a un'esperienza di rilocarsi in nuovi ambienti fisici e mediali? Un nuovo contesto
comporta comunque delle trasformazioni. Tuttavia un'esperienza rimane in qualche modo la stessa
quando la nuova situazione in cui ci troviamo, e il nostro modo di reagire, conservano, se non singoli
elementi tradizionali, almeno un profilo o una forma cinematografica. In questi casi noi riconosciamo la
presenza del cinema anche quando esso non è più come, e dove, era prima.
Quarto. Riconoscere un medium, e soprattutto il cinema, in un ambiente che non è più il suo è
comunque un'operazione complessa. Per un verso questo riconoscimento porta indietro: se è affidato alla
memori e all'abitudine si cerca la rispondenza a un modello canonico. Ma il riconoscimento può anche
assumere un aspetto progressivo: di fronte a situazioni per forza imperfette, ecco che ci immaginiamo
letteralmente cosa il cinema possa essere, e dunque ci apriamo a un possibile. È anche così, in questa
sospensione tra passato e futuro, tra essere stato e poter essere, che il cinema, rilocandosi, può
sopravvivere.

Ritorno all'esperienza

Il cinema fin da subito è considerato come una peculiare forma di esperienza, ma si tratta anche di un
dispositivo tecnico: esso nasce da una serie di brevetti, e i primi commentatori e i primi teorici sono
affascinati dalla presenza di una "macchina". Non è dunque un caso che in Europa, nei primi tre decenni
del 900, uno degli appellativi più comuni del cinema fosse quello di "arte meccanica".

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Tuttavia la "macchina" conta non per quello che è, ma per quello che fa e fa fare. Béla Balàzs in una
delle pagine cruciali del suo L'uomo invisibile parla del cinema come di una "tecnica per la riproduzione e
la diffusione della produzione spirituale". Il cinema restaura le nostre capacità visive, e ci restituisce
confidenza con il linguaggio del corpo. L'accento va dunque messo sul modo in cui un dispositivo mobilita
i nostri sensi e ci mette in rapporto con la realtà - sul tipo di esperienza che esso fa lievitare.
Quest'esperienza deve molto alla "macchina", ma non tutto. Essa si appoggia a una tecnologia, ma trova
anche altrove il suo alimento. Ad esempio l'esaltazione della vista è indubbiamente legata al fatto che il
cinema lavora su immagini proiettate su uno schermo, e per di più le presenta in una sala buia, ad
aumentare la nostra concentrazione. Ma se siamo spinti a spalancare gli occhi davanti a queste immagini
è anche a causa della nostra curiosità e delle nostre ossessioni.
Le immagini filmiche ci mettono in contatto con la realtà, anzi, con la vita. In una delle prima
presentazioni dell'invenzione dei Limière, André Gay collega direttamente l' "impressionante sensazione
del movimento reale e della vita" al funzionamento del dispositivo. Qualche anno più tardi, Ricciotto
Canudo, nel suo famoso manifesto Nascita della sesta arte, nel sottolineare la capacità del cinema di
restituire la realtà nella sua interezza, parlerà di "una specie di teatro scientifico, fatto di calcolo
preciso, di espressione meccanica". Tuttavia elenca anche altre motivazioni alla base di questa
rappresentazione esatta della vita: ad esempio la tendenza moderna verso la documentazione più che
verso la fantasia, o l'inclinazione della cultura occidentale verso l'azione anziché la contemplazione. Per
lui il cinema sostanzialmente è un nuovo tipo di scrittura (nata soprattutto come tentativo di afferrare
gli aspetti sfuggenti della realtà, sia interiore che esteriore, per comunicarli ad altri. In quest'ottica, il
cinema registra la realtà e la vita per andare incontro al bisogno dell'uomo di celebrare "il suo trionfo
sull'effimero e la morte".
Il ritorno del reale sullo schermo provoca un effetto perturbante. Il cinema è il regno dello stupore. Non
si tratta però solo di un prodigio della tecnica: la sorpresa nasce anche da una capacità di reagire e di
partecipare a quanto si vede.
Il cinema fa appello anche alla nostra immaginazione, e ci riesce bene perché l'immagine sullo schermo
non ha una sua consistenza fisica. Ma l'immaginazione trova via libera anche perché il cinema, da solo e
attraverso prestiti delle altre arti, ha messo a punto un linguaggio capaci di valorizzare la fantasia.
D'altra parte il cinema ci offre una conoscenza del mondo. Lo fa perché il suo occhio meccanico è capace
di cogliere la sottile logica che anima la realtà come nessun essere umano saprebbe fare. Come ricorda
Sergej Ejzenstejn, la scomposizione e la ricomposizione dei fenomeni visibili che sta alla base della
conoscenza è un procedimento che l'arte pratica già da tempo: il cinema non fa altro che portarlo alla
sua perfezione.
Infine il cinema ci fa sentire membri di una collettività. Questo senso di appartenenza che accompagna
la visione di un film nasce dalla possibilità di proiettare la stessa pellicola nello stesso momento in molti
luoghi. Ma questo senso di appartenenza è anche legato al desiderio ancestrale di creare uno stato di
comunione grazie a cui spartire sentimenti e valori; così come è legato alla capacità della folla moderna
di condividere interessi e punti di attenzione fino a formare una vera e propria opinione pubblica.
Dunque il cinema non è semplicemente una "macchina": è soprattutto una forma di esperienza in cui
entrano in gioco fattori sociali, culturali ed estetici. È uno dei dispositivi tecnici che tra 8 e 900 hanno
cambiato il nostro modo di percepire il mondo; ma è anche qualcosa che va oltre la presenza di una
tecnologia, e che si collega direttamente a bisogni antropologici, a una tradizione espressiva, alle
tendenze del tempo, all'emergere di nuovi linguaggi.
La teoria del cinema nei primi due decenni del secolo scorso porta avanti con costanza questo approccio
"esperienziale". Negli anni 30 le cose cambieranno un po' e la "macchina" troverà la sua rivincita. Le
limitazioni tecniche sono ciò che spinge il cinema verso un proprio specifico linguaggio; è solo guardando
al dispositivo che si trovano le soluzioni espressive più giuste. Ma l'approccio "esperienziale" continuerà a
essere presente, marcando a fondo in quegli stessi anni i pensiero di Walter Benjamin e di Sigfried
Kracauer.
Gli elementi messi in luce da questo approccio variano nel corso dei decenni. Ad esempio all'inizio del
900 molti studiosi sottolineano la sintonia dell'esperienza cinematografica con l'esperienza moderna
mentre a metà del secolo ciò che viene evidenziato sono piuttosto alcune implicazioni antropologiche.
Emerge tuttavia una sorta di nucleo centrale: al cinema noi fronteggiamo immagini in movimento su uno
schermo; queste immagini ci rimettono in contatto con la realtà vivente, facendocela vedere nella sua
pienezza; nutrono contemporaneamente la nostra immaginazione, aprendosi al possibile; chiedono
un'adesione a quanto è rappresentato; si offrono come strumenti di conoscenza e di consapevolezza; e
infine ci fanno vivere all'unisono con altri spettatori. Questi tratti non sono esclusivi del cinema né
offrono una definizione in senso stretto: nel loro insieme tuttavia caratterizzano un fenomeno.

Le sensazioni a domicilio

Un tratto peculiare di questa esperienza è che una volta provata dentro la sala buia, emerge anche
altrove, persino lontano dalla presenza di uno schermo.

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In Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Luigi Pirandello descrive una semplice scena di vita
quotidiana come se fosse vista attraverso inquadrature soggettive e un montaggio basato sul campo-
controcampo.
Riferendosi agli stessi anni in cui Pirandello scrive il suo romanzo, Jean-Paul Sartre ricorda nella sua
autobiografia l'intrecciarsi della sua infanzia con il cinema, e confessa di ritrovare l'atmosfera di quei
primi cinematografi anche nelle occasioni più impreviste.
Nel bellissimo racconto-saggio della propria ascensione al vulcano Etna, Jean Epstein ritrova nello
spettacolo dell'eruzione qualcosa che è tipico del cinema. Del resto Epstein ricorda nelle stesse pagine
che il giorno prima, scendendo le scale di un albergo di Catania tutte foderate di specchi, aveva avuto
un'impressione analoga e contraria. La sua immagine riflessa in mille profili gli aveva offerto una visione
impietosa di sé stesso: esattamente come sullo schermo in cui vediamo le cose senza gli abituali filtri.
E infine Michel de Certeau, anni dopo, quando il cinema già sta cambiando il proprio statuto, constata
come la visione di un film di Jacques Tati consenta di vedere Parigi con occhi diversi, come se la città
continuasse a vivere su uno schermo.
Dunque l'esperienza di cinema è contagiosa, essa si riproduce anche lontano dalla sala buia. In La
conquista dell'ubiquità, parlando di musica e grammofono, Paul Valéry osserva come i mezzi di cui
l'uomo si sta dotando saranno in grado di far rivivere anche altrove le emozioni che apparentemente
sembrano confinate in un terreno proprio. Il risultato sarà un sistema che consentirà di riattivare tutti i
possibili tipi di esperienza a comando.
Dunque la particolarità dei media in quanto mezzi di comunicazione è di poter spostare le esperienze
liberamente. Magari riprendendole da altri ambiti espressivi. Ciò significa che un medium, nella misura
in cui è anche un "sistema di sensazioni", una forma culturale, può estendersi oltre ai suoi confini grazie
ad altri supporti, ad altri media. I media che si aggiungono danno al medium precedente la chance di
continuare a vivere anche altrove.
Valéry non menziona il cinema nel suo saggio. La ragione è che negli anni in cui scrive non c'è ancora
un'estensione che possa far arrivare dappertutto il "sistema delle sensazioni" che caratterizza un film.
Intorno agli anni in cui Valéry scrive, il cinema è pronto ad andare oltre i propri confini, ma non ha
ancora modo di farlo pienamente.
Questo modo arriverà più tardi. Il momento coinciderà con l'arrivo della tv, del VHS, dei DVD, del pc, del
tablet, dell'home theater, ecc. Oggi ci troviamo a viverne il punto forse più culminante.

La rilocazione del cinema

La rilocazione è quel processo grazie a cui un’esperienza mediale si riattiva e si ripropone altrove
rispetto a dove si è formata, con altri dispositivi e in altri ambienti.
Il sistema delle sensazioni che tradizionalmente accompagna un medium trova un nuovo sbocco. Grazie a
un nuovo canale un tipo di esperienza rinasce altrove, e il medium originale può così proseguire la sua
vita.
L’idea di rilocazione tende ad andare più in là della rimediazione. La rimediazione è quel processo
attraverso cui un medium è incorporato e rappresentato all’interno di un altro medium. Si tratta di una
strategia portata avanti in particolare dai media elettronici e può condurre sia a un riassorbimento senza
apparenti alterazioni del medium precedente nel nuovo, sia il rimodellamento del vecchio medium nel
nuovo. Ciò che dunque nella rimediazione conta è un dispositivo e la sua raffigurazione. La rilocazione
mette in gioco invece altri aspetti, Innanzitutto evidenzia il ruolo dell’esperienza. Un medium è definito
dal tipo di sguardo, di ascolto, di attenzione e di sensibilità, che lo accompagna; dunque è il permanere
del suo modo di percepire le cose e di rielaborare questa percezione che ne assicura discontinuità. I
media sopravvivono finché sopravvive la forma dell’esperienza che li caratterizza. in secondo luogo la
rilocazione evidenzia il ruolo dell’ambiente. Un medium è definito anche dalla situazione in cui opera o
che crea. Conta la maniera in cui un device prende posto nel mondo. Il concetto di rilocazione vuole
appunto sottolineare il fatto che il prolungamento di un medium al di là del suo terreno d’esercizio
mette in gioco il permanere di un tipo di esperienza e coinvolge uno spazio fisico e tecnologico.
Questa attenzione allo spostarsi di un’esperienza porta a confrontarsi con due altre problematiche. La
prima è il rapporto tra flussi e località. Ciò che caratterizza il nostro tempo è la presenza di una serie di
movimenti che ridisegnano profondamente il paesaggio circostante. L’arresto dei capitali (ad es.) in un
luogo non solo comporta nuovi equilibri, ma tende anche a creare letteralmente nuove località. Il
concetto di rilocazione vuole sottolineare l’analogia tra le trasformazioni del cinema e i processi di
circolazione che caratterizzano il mondo attuale.
La seconda problematica è quella che si raccoglie attorno ai termini di de-territorializzazione e ri-
territorializzazione. Poteri, istituzioni, ecc., spesso si distaccano da un sistema strutturato , vagano in
qualche modo in una terra di nessuno, per poi magari radicarsi in un nuovo territorio. In questo
movimento, quel che conta è il processo di liberazione di un vincolo e insieme la forma che assume il
paesaggio grazie a queste migrazioni. Il concetto di rilocazione vuole recuperare questo senso di
continua destrutturazione e ristrutturazione e insieme l’idea di flessibilità e dispersione.

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Quasi come

La rilocazione fa sì che un’esperienza rinasca quasi come la stessa. Se vista da un certo punto di vista,
un’esperienza rilocata non assomiglia affatto all’esperienza che essa cerca di proseguire.
Nella sua migrazione, esso incontra nuovi tipi di schermi. Questi schermi offrono condizioni di visione
assai differenti rispetto allo schermo della sala. Lo spettatore che vede un film sui nuovi schermi tende
in quanto media user ad attivare un’attenzione multi focalizzata che lo porta a seguire più cose allo
stesso tempo. Quello che egli vive è un’esperienza del cinema oltre il cinema.
Per quanto spinta ai margini la visione tende anche a restare cinematografica. Essa può anche dar luogo
a un’esperienza di cinema di ritorno. Ecco che questo spettatore riesce a isolarsi nell’ambiente, a
recuperare la magnificenza delle immagini, a concentrarsi su una storia. Arriva a farlo perché la
situazione da un lato è flessibile, e in qualche modo riaggiustabile; dall’altro perché la situazione
presenta comunque una serie di caratteristiche tipiche su cui ci si può appoggiare. Di qui la possibilità di
sfumare quello che appare come difforme, e di far lievitare invece quello che ci riporta a una fruizione
più tradizionale. Il cinema ritorna allora a essere cinema.
Nell’esperienza rilocata, quel che conta non sono tanto le condizioni materiali, quanto una
configurazione. Ma quel che soprattutto importa è il modo in cui i diversi elementi di correlano tra loro.
E’ questa configurazione che ci dice che cosa l’insieme degli elementi è o può essere, e in che direzione
opera o può operare. E in particolare è questa configurazione che fa apparire la situazione come
cinematografica. La configurazione emerge letteralmente dalla situazione quale essa è, con tutte le sue
imperfezioni. Ogni situazione è deformata, dal momento che si realizza sulla base di condizioni
contingenti e particolari. La configurazione che emerge riporta però questa deformazione a una forma
specifica: fa risaltare il disegno soggiacente alla situazione; evidenzia il suo cosa e il suo come; mette in
luce il principio a cui essa risponde. Fino a poter rivelare appunto la presenza di una cinematograficità
anche là dove non sembra esserci.

Processi di riconoscimenti

Nel riconoscimento accettiamo una realtà, e in qualche modo le diamo uno statuto. Il riconoscimento è
un agnizione, grazie a cui qualcosa viene individuato, viene accertato, viene ravvisato in sé; ed è una
ratifica, grazie a cui qualcosa viene convalidato, riceve un assenso, viene costituito in quanto tale.
Entrambe queste operazioni ruotano attorno al fatto di avere un idea di quello con cui si ha a che fare:
nel primo caso si tratta si un’idea che viene richiamata per poter effettuare un’identificazione corretta;
nel secondo, invece, essa viene costruita per così dire a posteriori, come risultato di un’accentazione.
Entrambe queste operazioni non riguardano solo la dimensione cognitiva: essa implicano un modo
concreto di rapportarsi a quello che si è riconosciuto, e dunque un insieme di pratiche da mettere in
campo.
Ciò che ci fa arrivare a un’esperienza di cinema oltre il cinema, o al contrario, un’esperienza di cinema
di ritorno, è appunto il modo in cui noi riconosciamo la situazione. Quest’ultima si presenta come del
tutto ambigua. Ma il riconoscimento opera una disambiguazione: ciò che vediamo è una cosa o l’altra.
L’incertezza continua a essere un elemento costitutivo. Rimane tuttavia il fatto che, per in questa
incertezza, siamo spinti a far emergere una configurazione cinematografica degli elementi, o al
contrario una non-cinematografica; per quanto ci sia una sorta di zona grigia, noi siamo indirizzati verso
una soluzione.
Non si tratto solo di una scelta a livello mentale: ci sono elementi contestuali forti che dicono verso dove
andare.
Il riconoscimento implica un’ “idea di”.
E’ un’idea ciò che per un verso ci consente di identificare quello che abbiamo di fronte, e per un altro
verso ciò che acquistiamo nel momento in cui accettiamo una realtà. Deriviamo l’idea di cinema che ci
permette di riconoscere la nostra esperienza da:
- un immagine sociale di cinema che costituisce un punto di riferimento;
- un’abitudine: ogni volta che andiamo al cinema ritroviamo gli stessi elementi e attiviamo gli
stessi comportamenti
- la nostra memori a di spettatori: ci ricordiamo cosa il cinema è stato
- lavoro d’immaginazione: davanti a una situazione imprevista, ipotizziamo di avere a che fare
con il cinema e proviamo a interpretare in questa chiave quel che vediamo, In questo caso ci
muoviamo sulla base si una congettura.
Questa idea è un fondamentale strumento di orientamento: ci aiuta a capire se abbiamo a che fare con
un’esperienza cinematografica o no. Essa è anche uno strumento costitutivo, ci fa interpretare la nostra
esperienza come cinematografica, e dunque la fa essere quella che è.
Non è un modello unico e fisso. L’idea di cinema va letta al plurale.

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In ogni caso, costituisce una componente essenziale dell’esperienza. Grazie all’affiorare di un’ide,
torniamo su quello che stiamo provando, e capiamo di che cosa si tratta. Essa ci dice che stiamo vivendo
qualcosa, e che cosa stiamo vivendo; e dunque permette alla nostra esperienza di acquistare, coscienza
di sé. Essa è esperienza perché ci fa capire d’essere esperienza e di quale tipo è. L’inesperienza è
sempre in agguato, anche e soprattutto nelle situazioni più intense. La presenza di un’idea ricongiunge
una ricchezza sensoriale con un percorso di rielaborazione e ci fa rivivere fino in fondo e per davvero la
nostra esperienza.

Un’idea di cinema

Come un’idea di cinema funziona in situazioni borderline quali tendono a essere quelle che nascono dalla
rilocazione.
Il blog al femminile Allwomanstalk.com propone una lista in ordine di preferenza dei luoghi dove vedere
un film. Al primo posto c’è In bed. Se si analizzano le motivazioni vediamo affiorare un’idea di cinema
che non è troppo distante da quella tradizionale: a letto ci si può rilassare, concentrarsi sul film e farlo
magari in compagnia. A letto lo spettatore ridiventa quel sognatore che le teorie del cinema hanno
sempre considerato egli sia.
La questione del luogo emerge anche in un breve articolo del Chraleston City Paper, per il quale il
cinema è soprattutto un rituale e un’atmosfera.
Numerose le osservazioni intorno al consumo di film in casa. Il cinema è soprattutto una forma di visione
intensa e insieme rilassata: non importa il luogo dove la si realizza.
Lo stesso schema di ragionamento ritorna anche in un lungo articolo pubblicato sul sito
Apartmenttherapy.com. L’articolo contiene una serie di consigli per rendere la visione di un film a casa
il più piacevole possibile. Non è difficile notare che si tratta di regole che riproducono le condizioni della
sala. Ancora una volta, si nota emergere un’idea che fa i conti con la novità della situazione, ma si
riaggancia anche alla tradizione.
Ci sono tuttavia situazioni meno facili. E’ il caso della visione di film su dispositivi mobili. L’esperienza
cinematografica tradizionale prevede uno spettatore statico, non mobile. il film è sempre stato una
forma di compagnia per lo spettatore; vederlo su un dispositivo mobile diventa legittimo se serve a
questo scopo. Naturalmente se uno cerca la qualità della visione, allora è meglio scegliere schermi
grandi. Ci sono dunque più modi di dare continuità all’esperienza di cinema: essi dipendono dai caratteri
che si voglio salvaguardare. Altre situazioni sono ancora più problematiche. Il film forum di Mubi.com ha
ospitato nell'arco di un paio di anni un dibattito sul vedere film in aereo. Sull'aereo scegliamo noi il film,
e questo è per molti aspetti un elemento discriminante; tuttavia questa condizione ci consente anche di
allargare il raggio delle nostre esperienza consuete. Le condizioni di visione su un aereo possono
sembrare avverse ma si possono trovare dei rimedi. Si tratta solo di aumentare la superficie dello
schermo quel tanto da riprodurre la qualità e la concentrazione della visione tradizionale.
Riconoscere la presenza del cinema in nuove situazioni è più facile quando esistono passaggi intermedi.
In alcuni casi questo passaggio intermedio è ricreato a posteriori, proprio per rendere più
cinematografica la nuova situazione, ci sono diversi gruppo di spettatori che organizzano visioni
collettive, in cui ciascuno vede il film scelto a casa sua, ma tutti nello stesso momento, scambiandosi
osservazioni via Twitter. L'idea di essere parte di un pubblico aiuta a sentirsi al cinema come una volta,
anche se ora si è soli.
Questa operazione può anche essere portata al limite. L'idea di cinema si sposta, e da una visione
caratterizzata da buona qualità, in un buon ambiente, e in buona compagnia, passa a definire una
visione all'insegna della sorpresa, della bizzarria, della provocazione. Se per un verso c'è una vera e
propria ridefinizione dell'esperienza filmica, per un altro verso ritroviamo alcuni tratti messi in luce dai
primi teorici, come l'eccitazione sensoriale, o il gusto dell'insolito e della sorpresa.
Nelle situazioni borderline evochiamo una certa idea di cinema che ci proviene dall'abitudine, dalla
memoria e anche dall'immaginazione; non dimentichiamo le condizioni effettive in cui ci troviamo; anzi,
queste condizioni ci spingono ancora di più a interrogare la situazione; tuttavia dentro ciò che può
apparire anomalo, troviamo aspetti consueti, o perché capaci di riportarci a una storia pregressa, o
perché caratterizzati da una possibile ricorrenza; sono questi aspetti consueti che consentono di far
riemergere il cinema anche lontano dai suoi contesti canonici Insomma, operiamo un riconoscimento:
identifichiamo dei tratti e definiamo una situazione.
Il cinema per Philippe Dubois è soprattutto un immaginario dell'immagine che permea
fondamentalmente le nostre menti e i nostri pensieri, fino al punto da imporsi su altre forme che serve
come base per pensare il nostro rapporto con tutti gli altri tipi di immagini contemporanee. È proprio
questa capacità di un'idea di imporsi su molte situazioni che porta Dubois a vedere nel cinema una
presenza oramai diffusissima.

Cinema, nonostante tutto

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Il fatto di riconoscere la presenza di qualcosa di cinematografico in situazioni borderline significa


innanzitutto accettare l'imperfezione. Il cinema rilocato non è mai cinema al 100%. Ma sono proprio le
sue mancanze che si rivelano positive: non solo ci spingono a interrogarci, ma anche ci offrono le
possibilità di portare alla luce una configurazione che nonostante tutto continua a essere
cinematografica. Raymond Bellour considera il cinema rilocato come una forma di visione degradata:
quando si ricerca il semplice ritorno di un modello previo, il diverso non può che funzionare da
impedimento. Partire dall'imperfezione, e fare un punto di vantaggio: solo così il cinema può tornare.
In secondo luogo riconoscere la presenza del cinema anche laddove le circostanze sembrano contrarie
comporta una lettura tendenziosa. Riconoscere è vedere l'identico sotto la diversità degli aspetti, e
sancirlo come identico. In questo senso riconoscere è un atto fortemente creativo. In questa logica
bisogna distinguere tra gesto retrospettivo e gesto proiettivo. Nel primo caso si riconosce nel solco di una
tradizione, nel secondo ricostruisce una tradizione a partire dal riconoscimento. La rilocazione spinge su
questo secondo versante, e dunque stimola l'immaginazione più che la memoria e l'abitudine.
In terzo luogo riconoscere la presenza di qualcosa di cinematografico comporta anche il fatto che noi
sappiamo recuperare tratti finiti nell'ombra. Miriam Hansen, in un testo celebre, sottolinea proprio come
il cinema contemporaneo, se sembra violare molte regole stabilizzate con Hollywood, in realtà riattiva
alcuni caratteri tipici delle origini. Il post-cinema è il ritorno dei tratti iniziali del modello. Le situazioni
borderline talvolta mettono in luce anche strade che erano state intuite, ma mai veramente praticate. Il
post-cinema è anche la realizzazione di possibilità rimaste inattuate.
Riconoscere la presenza del cinema nelle nuove situazioni è un lavoro complesso e arrischiato. Ma solo
attraverso esso arriviamo a vedere come questa presenza abbia una sua profonda autenticità.

Autenticità, origine

Walter Benjamin nella premessa a Il dramma barocco tedesco cerca di capire come definite un genere
caratterizzato da opere assai diverse tra loro. In questo contesto l’autenticità non si pone più come una
diretta rispondenza a un canone, né come la permanenza evidente di una serie di tratti. Qualcosa è
autentico non in se stesso, perché corrisponde esattamente a un modello, o perché ci giunge intatto dal
passato, ma perché arriviamo a considerarlo come tale, tenendo conto della storia in cui è immerso,
delle condizioni in cui si riaffaccia, del destino verso cui si orienta.
Benjamin parla dell'origine dell'originario. Non si tratta di trovare un punto di partenza che giustifichi ciò
che accade in seguito: l'origine è piuttosto un vortice che si crea attorno a un costante divenire. In
questo continuo trapassare l'elemento centrale di un fenomeno non si dà mai a vedere in quanto tale.
Quando noi operiamo riconoscimento, ci misuriamo con qualcosa per così dire di incompleto; proviamo
letteralmente ricostruirlo; ma ogni ricostruzione non potrà che ruota attorno a questa incompletezza.
Possiamo in ogni caso formarci l'idea di un oggetto o di un fenomeno: ma possiamo farlo solo lungo
l'intero cammino di questo oggetto o di questo fenomeno, e sapremo definire ciò che è proprio o no solo
al termine di questo cammino. Questo fatto ci costringe dunque confrontarci con un arco temporale, con
un prima è un dopo. Abbiamo un cammino dell'oggetto del fenomeno che si dispiega verso una preistoria
e verso una post-storia. E allora tenendo conto di questo quadro, che chiama in causa il riconoscimento,
il suo intero percorso, un'idea che lo sostiene, che possiamo ben dire che l'esperienza rilocata parla
insieme linguaggio dell'autenticità e quello della deformazione. Un'esperienza rilocata richiamo un
modello, ma nel suo divenire, nel suo essere teso tra una preistoria e una post-storia, tra ciò che è stato
è ciò che sarà. È per questo che essa è insieme così fedele e così traditrice, fino ad aprirsi a forme di
esperienza che sembrano ai limiti o che sembrano negare il suo stesso modello. Ma solo così essa è
esperienza di cinema.

2. RELIQUIE E ICONE

Alfredo

In un film zeppo di simboli come Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore ci si sofferma su tre
grandi metafore. La prima riguarda il desiderio del cinema di uscire dal suo luogo tradizionale, fuori
dalla sala, per trovare nuovi ambienti in cui far vivere le proprie immagini i propri suoni. E' una
tentazione antica.
La seconda metafora riguarda invece il rischio di morte che il cinema corre nel lasciare la sala.
La terza metafora è quella che adombra una possibile rinascita del cinema.
Il cinema continuerà a vivere.
Poco più di vent'anni dopo il film di Giuseppe Tornatore, e poco più di 60 anni dopo l'episodio che
racconta, l'uscita del cinema fuori dal suo tempio si è consumata. Lo schermo della sala si prolunga in

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quello della tv, in quello del computer o dei tablet, in quello dello smartphone. L'effetto è che il cinema
è ovunque, magari mascherato o mescolato. Esso invade il nostro orizzonte e ne riempie gli interstizi.

Il cinema fuori della sala buia

Le sale cinematografiche esistono ancora e sono in crescita. Sul lungo periodo, i biglietti venduti, dopo
aver subito un progressivo calo nel secondo dopoguerra che li aveva portati negli anni 70 e 80 a toccare il
punto più basso, sono complessivamente risaliti e oggi appaiono tenere il loro livello anche se con
oscillazioni e stagnazioni.
Il cinema però è oramai largamente consumato anche fuori della sala. Gli spettatori scelgono più luoghi
dove vedere un film: non si legano solo a uno e soprattutto non si legano più alla sala.
In questo quadro la visione di un film in televisione appare un settore di grande rilievo.
Lo streaming è la forma più in crescita di accesso a un film. A favore del video on demand gioca anche il
fatto che esso sia disponibile in un'ampia serie di piattaforme che includono i dispositivi mobili collegati
a Internet. Questi ultimi liberano la visione dall'obbligo di avvenire in un luogo preciso e la rendono
possibile letteralmente ovunque. La trasformazione introdotta dal DVD qui trova il suo completamento.
Va ricordato infine che il cinema si può anche piratare. Non sembra esserci una correlazione diretta tra
successo del film al box office il numero di download due punti piuttosto, sembrano costituirsi delle aree
parallele. In ogni caso quest'ambito di consumo ha un suo crescente rilievo.

Le due strade della rilocazione

La rilocazione sembra seguire due strade maestre. La prima ha al centro l'oggetto della visione, il film.
Non potendo riproporre tutti gli elementi dell'esperienza tradizionale della sala, si ripropone il cosa
vedere, indipendentemente dal come. E’ perché c'è un oggetto che posso dare avvio all'esperienza. La
sala tuttavia non c'è. Il luogo in cui mi trovo sembra proprio l'opposto. Devo perciò intervenire
sull'ambiente per renderlo adatto a una visione. L'effetto è quello di crearmi uno spazio in cui c'è posto
solo per il film che sto vedendo e in cui il fluire del mondo esterno sembra sospeso. Si tratta però di uno
spazio immaginario, di una bolle esistenziale in cui mi rifugio perché lo voglio, non di un luogo fisico già
bell’e pronto in cui posso prendere posto com'è la sala. Naturalmente questo costrutto personale risulta
fragile e provvisorio. L'esperienza affidata al solo oggetto della visione, e non più sostenuta
dall'ambiente, d'un tratto scolora.
La seconda strada è esattamente opposta. L'esperienza del cinema si riattiva lontano dai suoi luoghi
canonici non tanto perché c'è la disponibilità di un oggetto quanto perché c'è un ambiente adatto essa. È
un come prima di un cosa vedere, che fanno scattare l'esperienza di cinema. Sono le modalità, prima
ancora che gli oggetti, che rendono spettatori cinematografici. Non è un caso allora che ciò che guardo
può anche cambiare, senza che io cambi registrato d’esperienza. Se il primo percorso di locazione mi
restituiva un oggetto e insieme mi obbligava ad agire sull'ambiente, qui mi ritrovo un ambiente, e posso
rimodulare l'oggetto. Naturalmente questo lavoro di adattamento dell'oggetto alla situazione non sempre
tiene.

Delivery, setting

Il cinema si riloca perché rende disponibile altrove ciò che si vuole vedere, oppure perché ripropone
altrove le condizioni ottimali con cui vederlo. Nel primo caso si ha a che fare con un oggetto della
visione che viene consegnato nel luogo in cui ci si trova; nel secondo con un ambiente della visione che
viene riallestito dove è possibile. Da una parte interviene un trasporto, un delivery; dall’altra una
riorganizzazione dello spazio, un setting.
Ciascuna di queste due strade ha in qualche modo una storia alle spalle. I processi di delivery cominciano
già negli anni 60, quando la tv offre la possibilità di vedere i film sul piccolo schermo. Si tratta anche del
primo passo si una migrazione del cinema verso un nuovo ambiente. Questa migrazione si rafforza a metà
degli anni 70 con l’avvento della tv via cavo e con i suoi canali dedicati . La prima compagnia a operare è
la HBO che nel 1980 a sua volta crea un canale interamente specializzato in cinema, Cinemax, che
promuove anche nuove produzioni. Il film trova a questo punto una sua casa sullo schermo tv. Nello
stesso annoi in cui entra in scena la tv via cavo, un altro strumento di delivery raggiunge un largo
successo di pubblico: il 1975 è anche l’anno del VCR, con i due standard, il VHS del JVC e il Betamac
della Sony. Il VCR era nato per registrare su nastro le trasmissioni televisive, in modo da conservarle per
una visione futura, ma si rivela ben presto un ottimo strumento per riprodurre opere pre registrate: di
qui un largo commercio di film su videocassetta, da acquistare o noleggiare in negozi specializzati, per
poi portarli a casa e vederli quando si vuole. Il VCR costringe a sbarazzarsi di una temporalità rigorosa
come quella imposta dalla sala; in cambio gli offre ulteriori possibilità di circolazione. Il DVD e la

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possibilità di scaricare i film dalla rete, completeranno questa traiettoria: la visione acquisterà ulteriori
e più complessi tratti, ma nello stesso tempo il film diventerà estremamente duttile.
Sia le operazioni di delivery sia quelle di setting hanno accompagnato il cinema in una buona parte della
sua vita più recente: è da tempo che esso riesce a rendere disponibili i film, e insieme riesce a trovare
spazio adatti alla visione, anche fuori della sala. E’ con il nuovo millennio che le due strade alla base
della rilocazione del cinema, oltre a farsi più larghe, diventano anche ben visibili. Ciò avviene per
l’imporsi di due tipi di media.
Da un lato abbiamo una serie di dispositivi che sono mirati appunto a trasportare. Essi servono a rendere
disponibili testi, immagini e suoni di qualsiasi tipo, ovunque e in qualunque momento, per utenti che lo
richiedono. Si tratta di media estremamente flessibili. Inoltre sono relativamente neutri, cioè in grado di
ospitare materiale senza costringerlo entro i propri parametri. Infine sono in qualche modo
intercambiabili, e cioè capaci di attivarsi anche al posto di altri dispositivi. Questi media puntano a
recapitare ciò di cui si ha bisogno nel modo più diretto e mirato possibile. Ciò a cui essi portano è allora
un personalized media delivery system, come lo chiama David Morley.
Dall’altro lato abbiamo una serie di dispositivi che lavorano in qualche modo all’opposto. Più che
trasportare contenuti, essi allestiscono ambienti in cui l’utente può entrare (videogiochi, argumented
reality). C’è un mondo che prende forma, in cui immergersi e con cui interagire. Essi offrono un luogo e
consentono letteralmente di viverlo.
Questi due tipi di media talvolta si sovrappongono. Tuttavia essi evidenziano anche due logiche diverse,
che hanno al centro rispettivamente il contenuto e l’ambiente: in un caso tutto ruota attorno ai testi,
immagini o suoni di cui voglio appropriarmi; nell’altro tutto dipende da un contesto di vita in cui voglio
immettermi. L’espansione dei media segue ora una logica, ora l’altra; e anche la rilocazione del cinema
segue questo scenario. Viene offerto ora un oggetto da vedere, lasciando il compito di completare
idealmente l’ambiente in cui vederlo, ora un ambiente di visione, lasciando la facoltà di scegliere
l’oggetto.

La scissione dell’esperienza di cinema

Questa doppia opzione consente al cinema di conquistare una più ampia fetta di territorio. C’è tuttavia
una controparte a questa espansione. Non si tratta solo delle trasformazioni a cui l’esperienza del
cinema va inevitabilmente incontro: si perde la linearità e la progressività della visione, si perdono i
confini tra film e altri tipi di prodotti, si perde il piacere di cercare il film là dove viene proiettato. Si
tratta di qualcosa di più radicale: con una rilocazione, un’esperienza tradizionalmente unitaria si spacca
in due. Il cinema è stato a lungo sia qualcosa da vedere sia un modo di vederlo. Il fatto che si punti ora
sull’oggetto, ora sull’ambiente introduce una profonda frattura tra il cosa e il come. Il cinema diventa
due cose, non più una sola.
E’ ben vero che l’oggetto e le modalità dell’esperienza filmica sono entrati in tensione anche nel
passato. Quando negli anni 20 fioriscono i movie places all’insegna del lusso e della decorazione, e ancor
più quando negli stessi anni diventano di moda gli atmospheric theatres con un grande cielo dipinto sul
soffitto e spesso paesaggi raffigurati sulle pareti, si esalta il luogo della visione prima ancora che la
pellicola che viene proiettata. Sigfried Kracauer, in uno scritto del 1927 porta alla luce anche il senso di
questo spettacolo: se guardiamo alle architetture e all’arredo delle sale, capiamo che la
rappresentazione del mondo è tanto più vera quanto più comunica un’idea di superficialità e di
esteriorità che sono caratteristiche dei nuovi modi di vita. Al contrario, quanto tra il 28 ottobre e il 30
dicembre 1934 Iris Barry presenta una serie di film sotto l’etichetta The Motion Piture, 1914-1934 nel
Connecticut e quando un anno dopo lo replica al MoMa di NY, estendendolo, ciò che viene messo in
rilievo è l’oggetto dell’esperienza filmica. Iris Barry è consapevole che la modalità con cui i film vengono
presentati conta, ma per lei il cinema è soprattutto una collezione di opere che hanno il loro valore
intrinseco nel modo in cui sono girate, raccontate, recitate. Questo valore si afferma quale sia la
maniera in cui le opere sono fruite: di qui la sua decisione ad esempio di presentare anche semplici
frammenti e la sua scelta di presentare i film in un museo d’arte.
Dunque anche nel suo periodo classico il cinema s’intensifica ora in una modalità di visione, ora in un
oggetto della visione. Due poli. E tuttavia non si dubita mai che l’uno possa esistere senza l’altro.
La rilocazione spezza questa unità. L’identificazione del cinema ora con qualcosa da vedere, ora con una
qualità della visione, legata soprattutto al luogo, tende a diventare esclusiva.
Non mancano momenti in cui questi due fronti si avvicinano.
C’è oramai il senso di una spaccatura: il cinema o è un oggetto o è una modalità. La conseguenza è
indubbiamente pesante: l’esperienza del cinema è va incontro a un’inevitabile biforcazione. Sarà
esperienza filmica se porta sul cosa, o esperienza cinematografica, se porta sul come. Due tipi di
incontro; due modi di fare; due forme di piacere. Lo aveva già annunciato Roland Barthes, in uno dei
suoi saggi più belli dicendo che il cinema non può impedirgli di pensare alla sala più che al film. Barthes
rompeva una parola per isolarne i due significati, ma optava anche per uno dei due a discapito dell’altro.
Barthes anticipava l’attimo in cui il cinema si trova davanti a due strade.

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Altre scissioni

Del resto questa spaccatura non è l’unica che colpisce il cinema nel momento n cui si riloca altrove.
Pensiamo alla migrazione del cinema verso i piccoli schermi dei dispositivi portatili, e verso il grande
schermo dell’Imax. Haidee Wasson, in un’eccellente analisi comparativa sia dei film predisposti per i
due tipi di schermo, sia dei loro modi di consumo, ha messo in luce come in un caso emerge
un’esperienza centrata su una dimensione di intimità, nell’altro su una dimensione di spettacolarità. Il
cinema ha tradizionalmente tenuti uniti i precedenti di entrambe le forme, mentre adesso li scinde.
Spesso la scissione avviene anche all’interno di un’unica situazione. Ad esempio, davanti agli schermi
urbani il passante ha una doppia possibilità. Si può fermare a guardare ciò che mostrano, ma per fare
questo non solo deve fermarsi, ma deve anche isolarsi dall’ambiente circostante. Deve smettere di
essere un passante e deve provare ad essere uno spettatore. Ma egli può anche fare la scelta opposta:
continuare a camminare, gettare un’occhiata a quegli schermi nella stessa maniera in cui si guarda
attorno. La presenza di queste due scelte contrapposte ha come effetto di far cessare la convivenza di
due forme di attenzione che il cinema sapeva tenere insieme: nella sala ci si può lasciare andare a uno
sguardo partecipe, e nello steso tempo ci si può rilassare fino alla distrazione. Il passante è invece a un
bivio e si trova a dover scegliere due forme opposte di esperienza.
Si prendano ora gli schermi domestici. L’home theater pretende da noi non solo una certa
concentrazione ,a anche una serie di gesti che ci aiutano a legarci a quello che stiamo vedendo. Lo
schermo della tv collocato in cucina funziona diversamente. Non chiede un rito: lascia nella quotidianità.
La conseguenza sarà una spaccatura di quello che il cinema teneva assieme: nella sala ritualità e
quotidianità s’intrecciavano; in casa i due aspetti si separano e si propongono come poli esperienziali
opposti.
Si prendano anche gli schermi mobili che vengono usati per accedere a una serie di immagini, testi e
suoni: al centro del rapporto con loro c’è un processo di appropriazioni. Ma questi schemi sono anche
uno strumento di controllo, attivo e passivo.
E usandoli, si è tenuti sotto sorveglianza. La conseguenza è una scissione di quello che il cinema teneva
assieme. Se esso dava la sensazione sia di poter esplorare il mondo, sia di potersi impadronire di esso,
adesso bisogna scegliere: o navigare alla scoperta di nuovi territori o star bene attenti al proprio.

Frammenti e sostituti

Questa serie di scissioni segnala una profonda trasformazione nell’esperienza di cinema. E’ il profondo
disarticolarsi di un regime di visione che sembra minacciare il proseguimento del cammino del cinema.
Nuovo Cinema Paradiso lo dice bene: dopo l’incendio che distrugge il cinema del paese, e dopo che
Alfredo ha perso la vista, nulla rimarrà più come prima. La congiunzione dell’interesse collettivo e delle
implicazioni personali, quella dimensione rituale spalmata sulla quotidianità , quella voglia di essere
sorpresi associata a un controllo sociale esercitato in questo caso dal prete, non riusciranno più a
incastrarsi l’uno nell’altro fino a formare un complesso apparentemente contraddittorio e in realtà ben
solido. Il cinema diventerà un oggetto composito, le cui singole facce rifrangeranno talvolta realtà molto
diverse.
Nuovo Cinema Paradiso parla anche di una continuità. E’ letteralmente un lascito, il bisogno di
confrontarsi con quelle immagini che insieme riproducono il mondo e accendono la nostra fantasia. Ci
saranno sempre film da vedere.
Questo riporta alle due strade della rilocazione. E se per un verso rompono il cinema in due, fin quasi a
ucciderlo, per un altro ne assicurano la sopravvivenza.
Nei processi all’insegna del delivery si ha a che fare in qualche modo con un frammento di cinema. Il
film è una componente di un complesso pi vasto. Preso in generale, è ciò che si va a vedere in una sala. E
preso nella sua singolarità, è un’opera tra le tante che l’industria ha via via prodotto. Dunque nei
processi di delivery si fa esperienza di cinema perché si fa esperienza di un suo pezzo, di quanto esso
abitualmente offre al suo spettatore o anche di quello che è stato ed è. Qui la rilocazione funziona in
qualche modo per metonimia: essa appunto offre una parte che sta per il tutto, o una parte che mette in
contatto con il tutto.
L’esperienza di cinema sarà tanto più intensa e completa quanto più il film che si guarda, ad esempio sul
DVD player, farò rivivere i piaceri provati guardandolo in sala, o farà capire meglio la storia raccontata, o
spiegherà attraverso il materiale aggiuntivo il ruolo che ha avuto nella storia del cinema, o porterà con
sé il successo che è conquistato al botteghino, o anche suggerirà le tendenze attuali nella produzione,
ecc. Ecco perché anche un film in DVD è avvantaggiato dl fatto di aver avuto una vita nel circuito dei
cinema: perché in questo modo è un frammento che sa testimoniare meglio, che può mettere in contatto
meglio con la totalità a cui appartiene. Nei processi basati su un setting, viene offerto un sostituto di
quello che è il cinema. Infatti questi processi mirano a creare ambienti di visione che siano il più

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possibile simili a quello della sala. Nel caso del setting non si ha a che fare con una parte che mette in
contatto con il tutto, ma con una situazione in cui si trasferiscono proprietà che appartengono a un’altra
situazione. La logica soggiacente diventa quella della metafora: nel setting letteralmente si
attribuiscono le modalità di visione cinematografiche a un nuovo ambiente, e si chiede di cogliere in esso
delle possibilità che apparentemente non gli sono proprie.
Negli home theater costruiti dall’architetto Theo Kalomirakis, che riprendono i grandi movie places
degli anni 20 e 30, la somiglianza non è mirata solo a creare un’imitazione del passato, ma letteralmente
a far rivivere l’atmosfera e lo spirito di quei templi del cinema. Si tratterà di un’esperienza centrata
soprattutto sulle condizioni della visione. Ma nella misura in cui essa ricalcherà ciò che è stato l’andare
al cinema classico, essa apparirà del tutto soddisfacente e piena.

Cinema come reliquia, cinema come icona.

Non si tratta solo di due strategie diverse attraverso cui rilocare l’esperienza filmica, ma anche due modi
diversi di riferirsi al cinema, di assicurare all’esperienza rilocata la sua pienezza.
Nei processi di delivery, si recupera l’esperienza canonica del cinema perché si ha tra le mani qualcosa
che ne è stato parte o ne è parte. Si guarda un frammento di un corpus più grande e di una situazione
più grande. Esso può anche essere considerato un semplice residuo rispetto a quel corpus e a quella
situazione. Ma anche in quanto semplice residuo, è capace di rimettere in contatto con il cinema:
vedendolo, ci si ricollega alla storia e ai modi di presentazione di quest’ultimo. Sotto questo aspetto, il
film funziona come una vera e propria reliquia.
Gli spezzoni che in Nuovo CInema Paradiso Alfredo ha conservato con cura per lasciarli a Totò. che or li
guarda con nostalgia per il tempo passato, sono delle reliquie. Al pari di questi spezzoni, tutti i film
passati sui media delivery funzionano come reliquie.
Nel caso invece dei processi di setting, l’ambiente di visione riporta all’esperienza canonica del cinema
grazie a una somiglianza, più che grazie a un contatto. L’home theater è una copia della sala; ed esso
funziona proprio perché condivide molti tratti del suo modello. Si ha dunque a che fare con qualcosa che
sta per qualcos’altro, ma che nel sostituirlo, ne riprende l’essenza. Sotto quest’aspetto, i processi di
setting seguono la logica dell’icona. Un’icona infatti è una raffigurazione che possiede una somiglianza
intrinseca con quanto è raffigurato. L’icona riattiva concretamente la presenza del modello. Essa lo
riporta pienamente tra noi anche se nel farlo finisce inevitabilmente per rimarcarne l’assenza.
I processi di riallestimento di un luogo di visione sembrano seguire questa stessa strada. Non si tratta
solo di nostalgia per un certo modo di vedere i film; si tratta anche di riconoscere un modello e di far sì
che esso possa travasarsi nella copia. Si vuole che lo spirito della sala si trasferisca o lasci un’impronta
sul luogo di visione. In questo senso, la rilocazione del cinema, prova a darci la pienezza di
un’esperienza. In Nuovo Cinema Paradiso è lo stesso Totò che diventa un’icona: egli reincarna ruoli,
passioni e sogni di un cinefilo puro, e insieme cerca di reincarnare la grande storia del cinema nel lavoro
che svolge.

L’autenticità del cinema rilocato

Parlare di reliquia e icona ci aiuta a ricordare che il cinema è stato spesso considerato un oggetto di
culto. La teoria dei primi decenni del 900 ha evidenziato volentieri gli aspetti quasi religiosi dell’andare
al cinema.
Oggi assistiamo a un ritorno della cinefilia, come se le trasformazioni del cinema imponessero da un lato
una più grande ammirazione per ciò che rischia di scomparire, dall’altro una più grande apertura a ciò
che si sta imponendo. Nico Baumbach osserva che la cinefilia oggi può significare due cose: una risposta
alla scarsità o una risposta all’abbondanza. Nel primo caso essa è un modo di amare un oggetto che sta
scomparendo. Nel secondo caso, invece, la cinefilia è una risposta alla presenza di un nuovo tipo di
utopia digitale, sia emergente che già a portata di mano. Qui l’idea che domina è che praticamente
tutto è virtualmente disponibile. Si tratta dunque di una cinefilia inclusiva che incorpora tutto e tutti.
Nel primo caso la cinefilia si sviluppa soprattutto attraverso un culto delle reliquie, nel secondo
attraverso un culto delle icone Anche la nuova cinefilia dunque ha una dimensione di culto: essa,
trattando i propri oggetti d’amore ora come resti sacri, ora come copie vere, dà loro una dimensione di
assoluta autenticità.
Il secondo rinvio che le icone e le reliquie ci consentono è a uno dei massimi teorici del cinema, André
Bazin. Egli afferma che da un lato, l’immagine fotografica conserva in sé la presenza del mondo grazie al
fatto di avere avuto un contatto esistenziale con esso. Dall’altro lato l’immagine fotografica ripropone la
realtà, fino a farla rivivere in sé, grazie alla sua somiglianza. Sia in una situazione che nell’altra, la
realtà si prolunga nell’immagine, e quest’ultima consente alla prima di ripresentarsi integralmente. E’
questo che dà all’immagine la sua autenticità.

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Concepire il cinema rilocato come reliquia e come icona è un modo per cogliere una serie di suggestioni
che hanno attraversato il cinema e che hanno posto la questione della sua autenticità. Ora, in una fase
in cui il cinema sembra perdersi, riproporre la stessa questione è essenziale. La reliquia e l’icona, con le
loro logiche sottostanti, forniscono una risposta. E’ il contatto con quello che il cinema è stato e insieme
l’emanazione o ‘imprimersi del cinema nella sua replica, che fanno sì che l’esperienza continui ad essere
un’esperienza di cinema. Non abbiamo solo frammenti e sostituti: abbiamo letteralmente la permanenza
di ciò che è stato. L’esperienza rilocata non è solo il ricordo di un modello: è il modello.

3. ASSEMBLAGE

Paul e Madeleine

L’undicesimo capitolo di Masculin féminin, di Jean-Luc Godard non è solo uno dei più gustosi episodi
del film, ma anche, come sovente in Godard, di un’aperta riflessione su cos’è il cinema. Si segue una
coppia che, assieme a due amiche, entra in una sala non solo per vedere un film, ma anche per viverlo; e
assistiamo a tutte le difficoltà che si frappongono a questo desiderio. Paule e Madeleine vorrebbero
avere un’esperienza di cinema, ma le condizioni in cui si trovano la impediscono. Sala, schermo,
pubblico e film non s’incastrano tra di loro. La macchina cinematografica non funziona, è come se fosse
inceppata.
Oggi in un momento in cui la rilocazione del cinema è su alti devices e in altri ambienti comporta non
solo un disallineamento tra luogo della visione, oggetto della visione e modi della visione, ma anche
cambiamenti radicali in ciascuno di questi tre elementi. La sala non è più l’unico posto in cui vedere un
film. Il film in senso tradizionale non è più l’unico oggetto della visione. E i modi di visione sembrano
assumere caratteristiche sempre più personali e contingenti
Molti hanno considerato, e continuano a considerare, il cinema come un complesso di elementi
estremamente compatto e formato da componenti uniche e precise. Le nuove condizioni di esistenza del
cinema, così come alcune ampie trasformazioni del quadro in cui viviamo, accompagnare da alcuni
ripensamenti teorici di fondo, portano a correggere questa concezione un po’ rigida. Oggi la tecnologia
non obbedisce più al modello otto-novecentesco, basato su entità integrate e monofunzionali: essa
appare come un elemento diffuso, disponibile a più combinazioni e a più usi. Ne deriva la crescente
convinzione che in realtà il cinema sia costituito da una serie di elementi eterogenei, spesso provenienti
da altri campi e talvolta permutabili, che si aggregano in base alle circostanze. Il cinema è qualcosa che
si configura di volta in volta, sulla spinta della situazione, di un bisogno, di un ricordo. E l’esperienza di
cinema approfitta di tutte le possibili occasioni per rivivere.
Il cambio di prospettiva è profondo. Il dispositivo no appare più come una struttura precostituita, chiusa
e vincolante, ma come un complesso aperto e flessibile, non è più un apparato ma piuttosto un
assemblage. E non è più la macchina a determinare l’esperienza a trovare la sua macchina. Anche nelle
situazioni più controverse, il cinema più trovare le condizioni di base perché l’esperienza che lo
contraddistingue possa continuare. Anche in nuovi ambienti e con nuovi dispositivi, esso può
letteralmente reinstaurarsi come cinema. Fino a fornire, nuove occasioni di reincarnamento.
Strategie di riparazione

Non si ha più a che fare con una macchina cinematografica che s’inceppa, ma con situazioni diverse, in
cui questa macchina sembra, apparentemente, scomparire. si mettono in campo strategie di riparazione.
Apparentemente, la visione individuale e in mobilità è l’esatto contrario della visione collettiva e
immobile che il cinema ha adottato fin dalla sua nascita. L’avvento del cinema infatti a disegnato un
fronte netto: da un lato gli spettacoli basati su immagini fisse e spettatore libero di muoversi nello
spazio secondo un percorso individuale; dall’altro spettacoli basati su immagini mobili e spettatori fissi
raccolti in un pubblico davanti allo schermo. Il cinema occupando il secondo fronte, ha caratterizzato
come non cinematografico il primo.
Tuttavia oggi, nell’ambito dei nuovi media, sembrano emergere almeno tre possibilità che rendono
questa contrapposizione meno radicale.
La prima strategia di riparazione riguarda lo spazio in cui lo spettatore è collocato. Che sta usando un
dispositivo mobile per vedere materiali cinematografici o video di solito si trova in mezzo ad ambienti
che tendono a distrarlo. Ciò non impedisce tuttavia di staccarsi dal contesto circostante e immergersi
meglio in quanto si sta vedendo. Il vero elemento decisivo è che l’utente arriva a costruirsi una vera e
propria bolla nella quale rifugiarsi e trovare uno spazio personale di manovra. Questa bolla ha pareti
molto fragili, che si possono infrangere in ogni momento. La privacy che assicura è del tutto precaria,
visto che l’utente continua a essere esposto agli sguardi di chiunque gli passa accanto. Tuttavia questa
bolla offre anche una sorta di riparo. Grazie a essa si allestisce una casa mobile in cui si ritrova
dimensione di familiarità anche all’interno di una spazio estraneo e spesso inospitale. E’ un rifugio
provvisorio. La bolla che si costruisce in ambienti aperti, per quanto del tutto precaria, e per quanto
basata su uno sforzo mentale, riproduce gli stessi processi che vengono attivati negli ambienti più
protetti. E’ grazie a essa che mi rimetto a tu per tu con l’oggetto della mia visione.

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La seconda strategia di riparazione che i nuovi media offrono riguarda lo statuto dello spettatore.
L’utente di un dispositivo mobile può trovare una certa intimità con quanto sta vedendo, ma in
apparenza ha maggior difficoltà a far corpo con un pubblico. La bolla in cui si rifugia può essere
condivisa da qualcuno ma non può mai allargarsi oltre un certo limite. Ci sono altri strumenti per far sì
che una visione tendenzialmente individuale possa assumere un carattere più collettivo. Essi sono legati
al fatto che i nuovi dispositivi funzionano come piattaforme mediali, e cioè come strumenti che
aggregano più funzioni e più servizi. Di qui la possibilità di vedere un film o un video, ma anche di
restare in contatto con altri individui che fanno la stessa cosa. Vedo, e parlo di quello che vedo con
qualcuno che perciò diventa idealmente mio vicino di poltrona. Il cinema è sempre stato associato a un
pubblico: il nuovo contesto mediale consente di costruire pubblici immaginati anche quando lo
spettatore si ritrova da solo di fronte al display di un computer o di un tablet.
La terza strategia riguardo l’oggetto della visione. Ci muoviamo in un ambiente saturo di immagini di
tutti i tipi. E usiamo strumenti che ci permettono di catturare queste immagini senza alcuna distinzione
interna. Il cinema è solo una piccola parte del flusso continuo di immagini e suoni che ci raggiunge dai
tanti schermi a cui siamo esposti; e questi schermi solo raramente si presentano come cinematografici. Il
cinema arriva attraverso la mediazione di qualcun altro: ma arriva conservando la sua identità. Il
percorso che posso fa è più lungo rispetto alla distribuzione in sala: prevede due passi invece di uno. Ma
è un percorso di garanzia.
Dunque se è ben vero che i nuovi contesti di visione sono lontani dall’esperienza classica del cinema, è
anche vero che possiamo riparare la situazione. Persino la visione in mobilità può riavvicinarsi al modello
canonico. Le tre possibilità giocano un ruolo fondamentale: grazie alla costruzione di una bolla
esistenziale possiamo sentirci come in uno spazio protetto, anche se siamo all’aperto; grazie alla
presenza di un pubblico immaginato possiamo tornare a far corpo con una comunità, anche se siamo
impegnati in una visione individuale; e grazie a un percorso a due passi possiamo continuare a godere dei
grandi mondi che il cinema sa costruire, anche in mezzo al caos dei materiali disponibili.
Certo, le differenze rimangono, e pesano. L’ambiente aperto accentua le possibilità di distrazione,
portando verso forme di fruizione in cui lo spettatore è pronto ad abbandonare quanto sta vedendo a
favore di qualcosa d’altro. L’assenza di un pubblico reale e l’indeterminatezza del materiale a
disposizione favoriscono un’ipertrofia del narcisismo e un’instabilità del desiderio: lo spettatore non sa
cosa vuole, e finisce con il volere tutto. Mescolato a materiale altro, il film tende a prestarsi a usi
differenti.
Il cinema incontra nuovi ambienti, e si confronta con nuove condizioni: ma non ci abbandona.
Semplicemente si riloca.

La questione del dispositivo

Tendiamo a pensare che le nostre esperienze dipendano dalle condizioni in cui ci troviamo. Ciò è
particolarmente vero per i media: da Marshall McLuhan in poi è opinione corrente che i diversi mezzi di
comunicazione, a seconda delle tecnologie usate, favoriscano diverse forme di percezione e di pensiero.
Questo significa che lontano da sala buia, proiettore, pellicola e schermo, non si può avere
un’esperienza cinematografica. Le strategie di riparazione sembrano invece suggerirci proprio l’inverso.
Una forma di esperienza consolidata come quella cinematografica sarebbe in grado di agire sulle
circostanze, fino a potersi affermare anche se queste ultime non sono tutte favorevoli.
Le due posizioni riflettono evidentemente due modi diversi di considerare gli elementi di base del
cinema, e cioè il suo dispositivo. Francois Albera e Maria Tortajada mostrano come il concetto di
dispositivo richiami storicamente almeno cinque aspetti: la presenza di una serie di componenti tecniche
legate tra loro; la presenza di una macchina che tiene queste componenti assieme; il fatto che questa
macchina possa includere in un’unica situazione anche il suo utilizzatore; il fatto che questa macchina
assegni a questo utilizzatore un ruolo preciso; e infine il fatto che essa lo assoggetti a un ordine di
comportamento ben definito. Se nel pensare a questi aspetti assumiamo che le componenti di un
dispositivo costituiscano un insieme compatto e stabile, se immaginiamo che questo insieme dia luogo a
una e una sola forma di esperienza, irrealizzabile senza di esso, e se infine pensiamo che il soggetto non
abbia alcuno spazio di manovra, arriviamo allora a un’unica sola conclusione: noi viviamo quello che la
macchina vuole farci vivere, e abbiamo bisogno di questa macchina per viverlo. L’idea di dispositivo
come apparato esemplifica questa posizione. Se invece consideriamo la base materiale come un
complesso eterogeneo di elementi, che possono essere integrati, permutati, rifunzionalizzati, e se
pensiamo al soggetto come qualcosa che viene determinato dal meccanismo, ma che a sua colta, può
intervenire nel gioco, possiamo pensare che il cinema si ricrea anche in altri contesti e circostanze. Qui
l’esperienza continua a essere influenzata dalle condizioni in cui essa ha luogo, ma queste condizioni non

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sono date una volta per tutte, nè operano solo in una direzione; anzi, possono ristrutturarsi sulla base
del tipo di esperienza che si pone come modello di riferimento.
Negli ultimi anni si è venuta facendo strada questa idea di dispositivo più duttile e più aperta. A ciò ha
contribuito sia un ripensamento teorico sia una trasformazione nei modi d’essere della macchina
cinematografica.

Il dispositivo come apparato

In due testi di Jean-Loius Baudry negli anni 70 viene inaugurata l’idea di dispositivo come apparato. Per
Baudry da un lato la cinepresa e il proiettore, dall’altro il proiettore, la sala buia e lo schermo, formano
un meccanismo caratterizzato soprattutto dal fatto di creare una serie di effetti ideologici. Il primo di
questi effetti consiste nell’occultamento del lavoro compiuto dalla cinepresa e dal proiettore. Lo
spettatore semplicemente gode della restituzione del mondo, vittima di un’allucinazione che gli fa
prendere per una percezione diretta delle cose quella che è invece una semplice rappresentazione. Il
secondo effetto ideologico consiste nella creazione di un soggetto in cui chi vede un film può
immedesimarsi. Lo spettatore si identifica nell’occhio della cinepresa, acquista coscienza di sé e di
quanto vede, ma anche si illude di essere la fonte del gioco. Il terzo effetto è quello di una regressione
verso stati anteriori. Lo spettatore è immobile e tutt’occhi: ciò lo porta a rivivere il percorso che porta
alla formazione di un io c il percorso si una conoscenza mediata del mondo che di pretende immediata.
Ciò che Baudry fa è collegare le componenti tecniche del cinema in un insieme estremamente omogeneo
e chiuso, pensare che questo insieme determini direttamente quello che lo spettatore vive, e
identificare la forma dell’esperienza con la struttura del dispositivo. E’ la teoria dell’apparato.
Nel ventennio e oltre in cui questa teoria è in auge, non mancano interventi che provano a offrirle
integrazioni o a correggerne la rigidità. Tra le integrazioni, un posto di rilievo hanno quelle suggerite da
Chrisitan Metz. Metz analizza le grandi pulsioni che sostengono l’attività spettatoriale, rispettivamente
l’identificazione speculare, il voyerismo e il feticismo, e le mette in parallelo con i caratteri
dell’immagine cinematografica, e cioè il suo presentarsi come specchio della realtà, il suo essere
separata dall’osservatore, e il suo essere frammentaria. Viene sovrapposta una macchina psichica a una
tecnologica. Il dispositivo, oltre che un luogo di incastri, può diventare anche un luogo di confronti e di
riaggiustamenti.
Quanto alle correzioni, due in particolare. Il primo all’inizio degli anni 90 è di Jonathan Crary. Egli nota
come la macchina cinematografica sia un punto verso cui convergono non solo scoperte scientifiche, ma
anche discorsi e pratiche sociali. Questi elementi formano una rete vasta in cui possono convivere
orientamenti diversi. Il cinema ad esempio si pone all’incrocio di due strade: da un lato abbiamo la
tradizione della visione prospettica, che pone l’osservatore come destinatario e organizzatore della
rappresentazione; dall’altro lato c’è la visione stereoscopica, che presuppone un osservatore non di
fronte alla scena ma immerso in essa. E’ sopratutto essa che conduce a un’idea di visione e di spettatore
moderni. Il fatto che il cinema, pur imparentato con la camera oscura, abbia a che fare anche con la
visione stereoscopica, dimostra bene come una tecnologia non sia valutabile in sé, ma dipenda dal
contesto in cui opera e dalla storia in cui si inserisce.
La seconda voce, alla fine degli anni 90, è quella di Rosalind Krauss. Lei evidenzia come, a differenza
della pittura, alla base del cinema non ci sia un semplice supposto, ma una macchina complessa formata
da diverse componenti, e aperta a diversi equilibri. E’ una struttura ricorsiva e autoregolata, qualcosa
che si costruisce di volta in volta. Il cinema è un modo per misurarsi con uno strumento di base che non
li vincola ad andare in una soluzione, né che li blocca in una sola dimensione.
Crary e Krauss danno all’idea di apparato una piegatura diversa: il dispositivo cinematografico è una
realtà storica, caratterizzata da genealogie plurime e da assetti variabili; e il soggetto è preso nel gioco
del meccanismo, ma trova in esso anche un proprio spazio di manovra, una maggior complessità e
flessibilità.

Dall’apparato all’assemblage

Un concetto come quello di assemblage può restituire al dispositivo i suoi contorni più propri.
Un saggio di Giorgio Agamben, intitolato Cos’è il dispositivo?, da un lato rilegge Foucault in cui il
termine dispositif ha una funzione centrale, dall’altra cerca di chiarire il significato della parola
attraverso la sua radice etimologica. Dispositivo è la traduzione latina del greco “oikonomia”, che nella
riflessione teologica tra il II e il VI sec sta a indicare la maniera in cui Dio amministra il mondo nel
disegno della salvezza. In quest’ottica, emerge bene come un dispositivo sia uno strumento operativo.
Questo compito si esplica in massima parte attraverso processi di assoggetivazione: chi entra nel
perimetro di un dispositivo si vede assegnato un profilo preciso che lo incasella, ma ch però gli apre
anche una sfera di azione. Tutti i dispositivi conducono sempre alla costruzione di una soggettività nella
quale un individuo si cala, e a partire dalla quale si muove. I dispositivo contemporanei accentuano

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questa direzione: essi diventano sempre più numerosi, e nel far questo offrono sempre più soggettività
agli individui che passano dall’uno all’altro. Ma ciò che definisce i dispositivi contemporanei è il fatto
che essi agiscono attraverso dei processi di desoggettivazione. Chi li utilizza perde il suo io. Agamben,
per sfuggire a tale trappola, suggerisce di lavorare sulla profanazione. Profanare significa restituire le
cose all’uso comune, dopo che la consacrazione le aveva poste in una sfera separata. Nel caso dei
dispositivi, essa è ciò che consente di dissequestrare quanto essi hanno catturato e tengono separato,
per renderlo in qualche modo di nuovo nostro.
E’ vero che un soggetto non può muoversi liberamente, esso è quello che il dispositivo lo fa essere. E’
però verso anche che esistono manovre che gli offrono una possibilità di emancipazione. Le pratiche di
profanazione consentono a un soggetto, per quanto determinato dalla situazione in cui si trova, di
forzare le circostanze e di riappropriarsi del terreno in cui si muove.
Questo senso di apertura emerge anche da un intervento di Gilles Deleuze, scritto 10 anni prima e con lo
stesso titolo. Deleuze, rileggendo anche lui Foucault, ridefinisce il dispositivo come un insieme
multilineare composto di linee di natura diversa. Queste linee non delimitano ne circoscrivono sistemi
omogenei, ma tracciano processi in perenne disequilibrio. Il dispositivo è dunque un complesso formato
da elementi assai diversi tra loro , la cui caratteristica è quella di essere in continua trasformazione e in
continuo divenire .Se è vero che una soggettività non è mai data, ma è un costrutto, è anche vero che
essa è sempre aperta al mutamento. Noi apparteniamo a dei dispositivi e agiamo in essi . Ma in ogni
dispositivo, bisogna distinguere ciò che siamo e ciò che stiamo diventando. Il dispositivo si modifica,
assieme e grazie al suo soggetto.
Deleuze aggiunge un secondo elemento importante. Se è vero che un dispositivo è formato da un
complesso di elementi assai eterogenei e mai in perfetto equilibrio, è anche vero che esso è sempre in
grado di tenere insieme tutte le diverse linee di un disegno unitario, che a sua volta cambia sotto la
pressione delle dinamiche in atto. Ci sono diverse componenti, un loro continuo interferire reciproco, la
presenza di punti di crisi, ma anche una sorta di struttura complessiva a cui tutte queste cose fanno
riferimento, sia pure essa stessa mutevole.
La nozione di concatenamento è essenziale. Essa indica il fatto che i diversi elementi si ricompongono
tra loro, in una sorta di amalgama. Il termine è per altro al centro di un'altra opera di Deleuze,
Millepiani, in cui designa ciò che tiene insieme componenti estremamente eterogenei, ciò che dà
consistenza un complesso molto diversificato. Il termine francese utilizzato è agencement: tradurlo con
concatenamento forse non sottolinea abbastanza la natura eterogenea degli elementi in gioco, nè il fatto
che essi alla fine formino un nuovo complesso, una nuova unità, anche se mai del tutto omogenea. Nella
traduzione in inglese è stato reso con assemblage: un termine che ricorda una pratica artistica basata
sulla combinazione di oggetti preesistenti con cui realizzare composizioni tridimensionali e che
attraverso questa via evoca meglio l'idea di una convocazione di elementi disparati e insieme l'idea di
una loro riconfigurazione in una nuova entità. L'assemblage è fatto di tante componenti che hanno avuto
una loro vita anche al di fuori dell'opera, e che riunendosi formano un nuovo aggregato che assume
l'aspetto di un'unità. Gli aspetti che Deleuze sottolinea sono proprio questi: un'eterogeneità, un prelievo
da altri contesti, una ricombinazione, e la formazione di una nuova entità.
Considerare il dispositivo come un assemblage consente di non avere più a che fare con una macchina
precostituite in modo univoco, ma con qualcosa che si forma di volta in volta sotto le pressioni delle
circostanze, e i cui elementi sono liberi di entrare anche in altre combinazioni. E non si ha più a che fare
con una macchina che cattura chi entra nel suo raggio d'azione ma che semmai lo fa entrare in tensione
con l'insieme. L’assemblage è un'entità coerente e consistente, senza essere compatta;e determina le
sue componenti, senza essere una trappola. È una macchina ma anche un punto d'incontro in cui diversi
elementi trovano un arrangiamento.

L’assemblage-cinema

Frncoise Albera e Maria Tortajada hanno fatto un tentativo simile di descrivere il cinema in termini di
assemblage per il cinema dei primi tempi. Entrano in gioco diversi elementi.
Il primo degli elementi è la presenza di una serie di immagini e di suoni raggruppati in un modo più o
meno intenzionale e coerente. Un film si caratterizza per parecchi aspetti e rinvia ad almeno tre realtà.
C'è un insieme di prodotti che costituisce il corpo grosso del cinema, e che si identifica con la parte più
evidente della sua storia. C'è un insieme di regole di costruzione di questi prodotti sul piano narrativo,
stilistico o grammaticale, che per quanto cambi nel tempo, costituisce un punto di riferimento per i
processi di produzione. E infine c'è un'attività produttiva che segue e talvolta sfida le regole di base. Il
film si pone all'intersezione di queste tre realtà: è parte di un ideale archivio; è il risultato di un lavoro;
manifesta un linguaggio.
Il secondo elemento è costituito dalle pratiche di consumo del film. Si tratta di gesti anche elementari.
Si ha a che fare con attività sul piano percettivo, cognitivo, operativo, razionale. Ciò che queste pratiche
mettono in gioco è il nostro corpo, la nostra mente, i rapporti con gli altri e i nostri commerci con la

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realtà. E lo fanno qui rispetto a un atto ben preciso, seguire immagini e suoni per un tempo determinato.
Il cinema è un'esperienza che implica vista e udito in una situazione circoscritta.
Il terzo elemento è costituito dagli ambienti. Noi apparteniamo sempre a uno spazio e questo spazio ci
determina. Tutti spazi che si caratterizzano per il fatto di offrire una superficie su cui proiettare
immagini e per il fatto di costruire una sorta di piccolo rifugio, almeno ideale, in cui ritirarsi per un certo
tempo.
Infine ci sono una serie di grandi bisogni simbolici. Si collocano su un piano in qualche modo opposto
rispetto ai tre elementi precedenti: quanto quelli costituivano risorse a disposizione, tanto questi
rappresentano necessità che richiedono risposta. Gli uni costituiscono la quotidianità, ciò tra cui ci si
disbriga; gli altri sono componenti strategiche, ciò che orienta l'azione. Gli uni costituiscono la
quotidianità; gli altri definiscono un'antropologia. Pi che bisogni si tratta di istanze. Si tratta infatti di
qualcosa che letteralmente preme; ma anche di qualcosa che ci investe profondamente in quanto
uomini. Il cinema è innanzitutto il bisogno di ritrovare il reale attraverso le sue apparenze, ma anche di
dare una veste reale alla nostra immaginazione.
A questi quattro elementi di base ne vanno aggiunti almeno altri due: una tecnologia e uno spettatore.
Essi tuttavia offrono già un nucleo di definizione dell'assemblage-cinema: c'è un insieme di immagini e
suoni, che si offrono al consumo, in un determinato luogo, e in risposta a una serie di bisogni individuali,
culturali, antropologico. Questi quattro elementi di base sono di per sé indipendenti e possono emergere
anche altrove. Ci sono due aspetti che fanno sì che questi quattro elementi, di per sé fluttuanti, si
riterritorializzino in un ambito che li tiene uniti.
L'uno è la presenza di una negoziazione, quando elementi dissimili cercano di adattarsi reciprocamente
in nome di un comune vantaggio. Il cinema è una macchina basata sull'adattamento. Elementi
apparentemente estranei si confrontano, si riaggiustano e si incastrano l'uno sull'altro. Le quattro
componenti chiave non fanno eccezione. Il loro accordo rappresenta un vantaggio per tutti. In
particolare le istanze simboliche, calandosi in un contesto quotidiano, trovano una concretezza, mentre
le pratiche, gli ambienti e i discorsi, commisurandosi con un quadro più ampio, perdono la loro
contingenza e occasionalità. Un bisogno indistinto diventa bisogno di cinema e luoghi, immagini e
comportamenti disponibili a molte cose si mettono al servizio di quella che appare una vera e propria
istituzione sociale.
Va notato come i processi di adattamento riguardino anche i singoli elementi. La negoziazione opera a
tutti i livelli.
In secondo luogo l'accordo tra i diversi elementi è spesso sancito da un particolare che diventa così
l'elemento che sutura l'insieme. La teoria del cinema degli anni 70 ha ampiamente analizzato come a
livello del film questa sutura sia assicurata dal gioco di sguardi che implicano un soggetto assente. Altre
forme di sutura sono ad esempio, nell'invenzione dei Luimere in uno schermo illuminato per il tempo di
una proiezione. Lo schermo cerca di mantenere questo ruolo ancora oggi; un altro è il buio in sala: il
cinema ha spesso cercato di farne a meno, ma in definitiva esso è ciò che ha consentito e ancora
consente a un ambiente di adattarsi compiutamente a una visione.
Infine se l'accordo garantisce vantaggi, comporta anche perdite: se incanalati, i quattro elementi chiave
perdono parte della loro potenzialità. Si riterritorializzano nel cinema e diventano rispettivamente film,
ambiente di visione, pratiche di consumo, bisogno di realtà e di immaginazione. In cambio, trovata una
loro forma, gli elementi costituiscono un vero insieme.
È a questo punto che interviene il secondo elemento di interesse, e cioè una ricorsività. Una volta
stabilizzati in sé e nei loro reciproci rapporti, gli elementi possono ritornare, occupando la stessa
posizione. Ciò conduce alla creazione di un terreno d'esercizio stabile, in cui le componenti si incastrano
secondo modalità consolidate. La ricorsività, oltre che una stabilità, porta con sé anche un certo
automatismo. Quando interviene una forma narrativa, uno stile, una figurazione: un film sembra andare
avanti da solo, lungo binari consueti. Ma è anche quello che succede quando interviene un'abitudine:
questa volta sono i comportamenti ad andare avanti da soli, sulla base di gesti oramai interiorizzati. La
ricorsività aiuta anche a rendere riconoscibile l’insieme: il fatto che le cose ritornino, le fa quadrare
subito; dice subito di cosa si tratta. Questo riconoscimento troverà poi un riscontro in una serie di
discorsi che cosa il cinema è o potrebbe essere. Ciò che allora si avrà è un'immagine sociale del cinema,
che letteralmente sancisce ciò che esso è. È a questo punto che il dispositivo trova la sua definizione e la
sua identità.
Altre due componenti essenziali sono la tecnologia e lo spettatore. La spazio in cui essere emergono è
proprio quello della negoziazione e della ricorsività.
La tecnologia apparentemente non solo costituisce il cuore del dispositivo, ma è anche ciò che gli
garantisce la massima stabilità. Sotto questo aspetto la tecnologia è strettamente legata
all'automatismo: è il luogo di un funzionamento considerato insieme come scontato e costante.
Se la tecnologia riesce a fare questo, è perché è riuscita a coordinare una serie di componenti in gioco.
Essa insomma ha attuato una buona negoziazione. Ciò che appare come scontato e fisso è dunque in
realtà il risultato di una serie di confronti aperti che solo a un certo punto arrivano a un momento di
standardizzazione: alla base della componente tecnologica non c'è solo un automatismo; c'è anche un
progressivo aggiustamento. Oggi questo aggiustamento delle componenti tecniche appare più urgente

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che nel passato: si ha a che fare con tante diverse apparecchiature che si prestano a molteplici usi e che
devono essere sistemate di volta in volta. Le componenti e le combinazioni possibili sono numerose; e
solo dopo che un certo incastro si è realizzato, il dispositivo comincia a funzionare. In questo senso oggi
la tecnologia lascia più spazio alla negoziazione. Naturalmente, una volta raggiunto un compromesso,
esso potrà diventare letteralmente automatico.
Anche lo spettatore ha a che fare con un certo automatismo. I media attivano una serie di processi
percettivi largamente fissi. In questo modo i media organizzano un sensorio che funziona appunto
automaticamente. Tuttavia lo spettatore è anche quell'elemento dinamico sospeso tra un essere e
diventare di cui parla Deleuze. Egli è dunque tendenzialmente una delle linee di rottura
dell'assemblage. In questo senso lo spettatore è ciò che può tenere aperto il gioco. Collocato
nell'intersezione di discorsi, pratiche, luoghi e bisogni, lo spettatore interviene sull'equilibrio tra gli
elementi. Di qui un continuo movimento.
Detto questo lo spettatore non è il solo elemento di trasformazione, né egli è libero nella sua azione:
egli continua a essere una componente del dispositivo e dunque a muoversi dentro e non sopra esso.
Tuttavia, proprio per una posizione liminale, il soggetto è anche colui che verifica costantemente
l'orizzonte delle possibilità. Ponendosi come una componente particolarmente dinamica.

Profanazioni e reincarnamenti

La migrazione del cinema suscita sempre di più due posizioni opposte. In La Querelle des dispositif,
Raymond Bellour afferma che solo l'esperienza nella sala buia merita d'essere chiamata cinema; fuori
della sala abbiamo solo una visione degradata dei film cinematografici, oppure un territorio altro quale è
quello del cinema d'artista o delle installazioni, riservate alle gallerie e ai musei. Sul versante opposto,
altri studiosi, come Philippe Dubois, spingono non solo per una moltiplicazione oltre misura della
presenza del cinema, ma anche per un suo sostanziale scioglimento dentro la grande corrente delle
immagini in movimento a cui siamo quotidianamente esposti. Il cinema è una realtà dinamica, sempre
sul punto di oltrepassare i cuoi confini, e sempre pronta a ribadire i suoi caratteri di base.
Possiamo cogliere assai bene questo gioco di rotture e di riaggiustamenti, in cui l'identità del cinema
sembra sempre sul punto di perdersi per poi ricostituirsi, nelle cosiddette pratiche grassroots. Si tratta
di quelle pratiche dal basso attraverso cui gli utenti dei media sperimentano nuovi usi sia
dell'apparecchiatura sia dei contenuti. Tra queste pratiche troviamo, ad esempio, il riadattamento della
tecnologia per produrre effetti diversi da quelli previsti, forme alternative di produzione e distribuzione
dei film; le proiezioni in cui gli spettatori possono intervenire e interferire con quanto stanno vedendo; i
remake fatti dai fan con intento tra l'affettuoso e l'ironico; le riedizioni di un filmato, montato
diversamente o fuso con le immagini o i suoni di un altro prodotto per far emergere così un significato
diverso. Non è difficile vedere come queste pratiche puntino a metter in discussione sia i singoli
elementi del cinema che le loro relazioni reciproche. Un soggetto, pur iscritto nel dispositivo, ne mette
alla prova il funzionamento. Sotto questo aspetto le pratiche grassroots riposano spesso su un
comportamento ludico, quel comportamenti che simula una situazione facendola tuttavia funzionare a
vuoto e dunque neutralizzandone gli effetti. È quel che succede con i fan di Star wars e Star trek. I fan
intervengono soprattutto sulla componente testuale del film. Lo fanno gioiosamente, da una parte come
forma di paradossale rispetto, dall'altro per liberarsi da ogni soggezione.
Ma uno spettatore può arrivare allo stesso punto anche approfittando della mascherata che gli si apre
davanti e cioè sperimentando le molte identità che i media gli offrono fino a pervertirne l'azione. È quel
che succede con i retakes e i mash-ups. Qui è il processo produttivo, con i suoi ruoli prefissati, che viene
messo in discussione. Naturalmente nelle pratiche grassroots gli elementi posti sotto stress sono anche
altri come l e visioni collettive a distanza e al modo in cui esse cambiano il senso dell'ambiente; le
tecniche anomale usate nei retakes e al modo in cui esse cambiano l'idea di automatismo. È tutto il
dispositivo a essere messo alla prova.
Le pratiche grassroots non sono sempre finalizzate alla rottura del gioco, mirano anche ad attivare o
riattivare strade largamente percorribili.
Non a caso esse hanno già prodotto dei tipi di azione oramai in qualche modo consacrate: retakes, mash
up, comportamenti virali, ecc. Quelli che all'inizio erano gesti antagonisti, arrivano presto a far parte del
sistema. Sul versante apparentemente opposto alla profanazione, ma intimamente collegato a essa,
troviamo anche operazioni di fondazione e rifondazione del dispositivo. In questi casi è come se il
soggetto lavorasse perché operasse meglio il complesso che lo definisce per fare della propria inclusione
un atto voluto e non subito.
È in questo orizzonte che si collocano le strategie di riparazione. Profanazione e risacralizzazione sono
due facce della stessa medaglia.
Ed è appunto una ricanalizzazione che in qualche modo muove le strategie di riparazione. Esse mirano a
restaurare il cinema: a ridargli la forza che si merita, e a restituirne il profilo. Sia facendo del soggetto
non solo un fedele ma anche un officiante. Il cinema ritorna essere cinema. Soltanto un'idea di
dispositivo come assemblage, e cioè come complesso eterogeneo di elementi che si combinano e

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ricombinano senza tregua, con un soggetto sempre teso tra il non essere più il provare a essere altro, è
solo questa idea che ci consente di vedere come profanazione e incantamento siano sottilmente
complementari.

Una macchina instabile

Il cinema è sempre stato un medium che ha provato a esplorare nuove strade attraverso un lavoro sulle
sue singole componenti, o attraverso una loro ricombinazione, o anche attraverso l'immissione di nuovi
elementi. Questo gesto in generale è servito a capire meglio la sua natura è a rafforzarne i profili.
Ad esempio, a partire dagli anni Sessanta del Novecento troviamo parecchi artisti, associati a movimenti
come il Fluxus o la performance , che lavorano con e sul cinema, interrogandone in modo radicale gli
elementi di base. Gli esiti sono spesso estremi. Si ha una rinuncia all'immagine: per Zen for film, Nam
June Paik usa una pellicola Vergine che proiettata sullo schermo lo rende una superficie bianca . Ci sono
opere che mobilitano una pluralità di schermi, da 2 fino a 7, talvolta con lo stesso film che viene
proiettato a velocità diverse. Ci sono spazi di visione totalmente nuovi, come il video-drome di Stan
VanDerBeek, in cui una serie di proiettori non sincronizzati tra di loro funzionano contemporaneamente,
creando così uno spettacolo casuale e ogni volta diverso. Ci sono schermi mobili, schermi non in asse con
il proiettore, schermi orizzontali, schermi convessi. Ci sono performance che diventano film e film che
entrano nelle performance. Ci sono proiezioni in sala che vengono disturbate dalla presenza dell'artista.
Ci sono esperienze multimediali, che associano proiezioni con suoni e azioni dal vivo. Ci sono proiettori
in funzione ma senza pellicola, solo con il loro raggio luminoso; ma anche pellicole che vengono esibite
in quanto tali, senza essere inserite in un proiettore; o film proiettati che si chiede allo spettatore in
sala di immaginare.
Spesso queste operazioni sono mirati a far emergere questioni più squisitamente politiche, o di gender, o
più ampiamente estetiche. Tuttavia, come ben riassume Valie Export a proposito del suo stesso lavoro,
operare con il cinema significa inevitabilmente mettere alla prova il dispositivo, per capirne le
possibilità. Nel cinema espanso il fenomeno filmico è inizialmente suddiviso nei suoi elementi formali, e
poi rimesso di nuovo insieme in un modo nuovo. Le componenti del film sono parzialmente sostituite da
altri elementi, al fine di installare nuovi segni del reale. La disposizione formale degli elementi del film
in cui questi vengono scambiati o sostituiti da altri ha un effetto artisticamente liberatorio; essa fa
emergere nuove possibilità. La ricerca passa necessariamente per una distruzione è una ricostruzione del
dispositivo, sia per potersene impadronire meglio, sia per evidenziarne nuovi aspetti. Tanto è vero che
alcuni risultati possono diventare soluzioni diffuse.
In questo senso gli artisti degli anni 60 e 70 sono impiegati in pratiche grassroots ante litteram. Essi si
muovono in una dimensione fortemente critica e sono ben consapevoli che il soggetto è scritto dentro il
dispositivo, mentre oggi i media users adottano spesso un atteggiamento ludico, e presumono che la loro
azione si sviluppi liberamente sulla base del loro semplici impegno. In entrambi i casi ci sono una
distruzione è una ricostruzione del dispositivo che porta a una sua riconfigurazione. Sia l'artista degli
anni 60 e 70 che il nuovo media users contemporaneo riarrangiano un set di elementi che si trovano tra
le mani, sostituendo o aggiungendo pezzi, e facendo emergere nuovi manufatti. Essi evidenziano come il
dispositivo cinematografico sia una realtà instabile, che può essere riorganizzata continuamente. È la
natura di assemblage della macchina-cinema che rende questa azione pensabile è realizzabile.

I confini del cinema

Il lavoro sul dispositivo è in realtà una costante della storia del cinema. Lo vediamo in opera in molte
delle installazioni che hanno il cinema come proprio esplicito riferimento. Ma lo possiamo rintracciare
anche in molta della sperimentazione che punteggia l'età d'oro del cinema.
Si pensi alle numerose utopie che emergono negli anni 20. A metà del decennio, nel suo volume Pittura
Fotografia Film, Laslo Moholy-Nagy studia spazi di visione con una struttura e un ruolo del tutto diversi
da quello correnti: immagina uno schermo a forma di settore di sfera su cui proiettare diversi film in
continuo movimento. Sempre nello stesso volume pensa anche a un'abolizione dello schermo. Sempre
nell'ambito del Bauhaus, troviamo altri progetti volti a creare nuove condizioni di visione: ad esempio si
pensi al teatro totale di Walter Gropius o al teatro sferico di Andor Weininger. Ma la progettazione
investe anche gli ambienti pubblici: in uno scritto di qualche anno più tardi, Laslo Moholy-Nagy ipotizza
proiezioni sulle pareti delle case, o addirittura sulle nuvole o su banchi di nebbia creati appositamente,
e considera la città come un gigantesco spazio espressivo in cui l'artista può intervenire. L'idea di città
come grande teatro cinematografico del resto si affaccia anche nel futurismo e nel costruttivismo russo.
Tornando allo schermo, è celebre la conferenza tenuta a Hollywood nel 1930 da Sergej Ejzenstejn: in un
momento in cui l'industria comincia a pensare al formato panoramico, egli propone l'adozione di uno
schermo quadrato, che possa contenere due assi di sviluppo dell'immagine, quella verticale e quello
orizzontale, se necessario alternandole. Negli stessi anni, sempre a Hollywood, Ejzenstejn progetta

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anche The Glass House , un film che richiede di essere proiettato su uno schermo di smisurata
ampiezza, tale da cambiare completamente il senso della stanza buia e le modalità della visione da
parte dello spettatore. 12 anni prima, anche il critico italiano Enrico Toddi aveva proposto uno schermo
a formato variabile ed espandibile, capace di adattarsi alla realtà rappresentata, fino a creare forme di
coinvolgimento dello spettatore del tutto differenziate. Quello che in ogni caso è sorprendente è il fatto
che la grandissima maggioranza di queste sperimentazioni, nel far riferimento al cinema, dichiarano di
svilupparsi dentro i suoi confini, o in una sua immediata estensione. Certe variazioni implicano nuovi tipi
di testi, nuovi tipi di ambienti, nuovi tipi di esigenze, in questo senso sembrano aprire un orizzonte
nuovo. Ma anche quando i modelli di riferimento si allontanano dal consueto, ecco che essi tendono a
essere percepiti come una gemmazione sul vecchio tronco piuttosto che come una specie totalmente
diversa. Nel 1922 viene introdotto il Pathé Baby, una macchina da proiezione con pellicola a passo
ridotto concepita per uso sostanzialmente domestico: per quanto i cambiamenti apportati al dispositivo
cinematografico possono sembrare minimi, il pathé baby implica almeno potenzialmente spazi, forme e
oggetti di visioni diversi da quelli della sala buia. Ebbene il critico ceco Karel Taige, se per un verso
sottolineare la diversità del nuovo apparecchio, per l'altro ne sottolinea anche la complementarità
rispetto al modello dominante.
Roger Odin ha osservato che una volta adeguata la definizione di cinema a fatti comunemente accettati
anche la sperimentazione più radicale può esservi fatta rientrare senza troppe difficoltà. Semmai, può
essere utile articolare il cinema in tanti sottoterritori, e riconoscere, a fianco della produzione
mainstream, zone parallele. Il risultato è di individuare differenze, ma anche di mantenerle dentro
l'orizzonte di un'unità.
Raymond Bellure prima di assumere la sua posizione aveva compiuto un gesto ancora più radicale . Il
cinema che sta nascendo attorno e fuori della sala è indubbiamente un cinema altro, egli afferma;
tuttavia non è difficile vedere come le categorie che hanno caratterizzato il cinema tradizionale
continuano a svolgere un ruolo centrale anche nella nuova realtà. Anche le installazioni ispirate al
cinema hanno a che fare con pareti, con superfici riflettenti, con una successione, con una proiezione:
semplicemente, questi elementi non sono più dati per scontati ma sono punti interrogativi. Li troviamo
spesso sotto altre vesti , ma il riferimento ideale appare lo stesso; tanto e vero possiamo cogliere
l'emergere di identiche preoccupazioni anche in registi come Godard, Akerman o Varda. Ne consegue la
possibilità di cogliere nelle opere sperimentali e d'avanguardia il nucleo stesso che muove il cinema. O
anche di identificare in queste opere, che dialogano con l'arte contemporanea, una zona intermedia in
cui il cinema sporgendosi fuori dei suoi confini, mettendosi in una zona apparentemente di nessuno,
trova le proprie radici. Se molto cinema contemporaneo è cinema altro, ciò non significa che non sia più
cinema: lo è nella sostanza che mostra; lo è nelle possibilità che apre.
Cinema, non-più-cinema, nuovamente-cinema

Il cinema è sempre stato una macchina assai flessibile, aperta alle innovazioni e insieme attenta ai
propri equilibri. Tutta la sua storia infatti è punteggiata dalla voglia di mettere alla prova il dispositivo,
di introdurre nuove varianti, di sperimentare nuove possibilità. Insieme è caratterizzata da una sorta di
costante fedeltà all'idea di cinema, quasi che sfidare il dispositivo fosse un modo di rafforzarlo. Tutta la
sua storia è piena di tentativi di profanazione e di ricorrenti santificazioni.
In questo senso, se è vero che il cinema oggi si trova di fronte a una sfida decisiva , che lo spinge verso
nuovi territori e verso nuove forme di esistenza, è anche vero che è come se esso vi si fosse preparato da
tempo. Se è vero che il cinema da sempre tenta di uscire da se , è anche vero che ha cercato
costantemente di restare legato alla propria natura.
Se questo è potuto avvenire è proprio perché il dispositivo ha funzionato come un assemblage più che
come un apparato. Da sempre il cinema ha costruito la sua macchina mettendo insieme pezzi diversi,
alla fine però trovando una configurazione complessiva che fosse compatibile con quella solitamente
praticata. E da sempre il cinema ha messo lo spettatore in condizioni di vivere un'esperienza che poteva
essere più in là di quanto egli potesse attendersi e insieme dentro il suo perimetro consueto. Il cinema
ha sempre potuto essere qualcosa d'altro, e ha sempre voluto essere lo stesso.

4. ESPANSIONE

Luke Skywalker

Nel 2010 comincia a circolare nella rete con crescente successo un'opera intitolata Star Wars uncut. Si
tratta di un remake basato su una frammentazione dell'opera precedente. L'episodio IV è stato suddiviso
in segmenti di 15 secondi, ed è stato chiesto agli utenti della rete di rigirare ciascun segmento a
piacere , usando tutte le possibili modalità. In nuovi segmenti sono stati poi rimontati nello stesso ordine
e per la stessa durata dell'originale, ma non necessariamente rispettando le battute del dialogo. L'effetto
è un'opera apparentemente bizzarra, in cui coesistono stili , registri espressivi, e intenzioni estetiche del
tutto differenti; in cui l'omaggio al film di culto si mescola al piacere dell'iconoclastia.

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Il promotore dell'impresa è Casey Pugh, un developer di prodotti audiovisivi che lavora soprattutto per il
web. Ma l'operazione ruota attorno a un numero più ampio di protagonisti: una comunità di fan, pronta a
passare da spettatori a produttori; un film culto, che viene ripreso in una logica che travalica il semplice
rifacimento; e infine la presenza della rete, che funziona come luogo di mobilitazione e di dialogo , e
insieme come punto di raccolta di materiale audiovisivo messo a disposizione di tutti.
Tutti questi elementi fanno di Star Wars uncut un film sintomatico, capace di dirci parecchie cose sullo
statuto del cinema contemporaneo.
Innanzitutto Star Wars uncut è debitore del film di Lucas, ma nello stesso tempo esibisce una creatività
largamente indipendente dal suo modello. In questo, esso testimonia la diffusa vocazione del cinema
attuale a riprendere narrazioni precedenti, per dare loro una nuova veste, o per illustrare versanti
rimasti finora in ombra , o per riempire intervalli, o per far emergere nuove chiavi di lettura; ma anche
la vocazione a costruire storie parallele, che si intrecciano a distanza con quelle narrate da altri media,
si tratti di episodi televisivi o di Videogiochi.
In secondo luogo Star Wars uncut è fatto dai fan; circola in rete; viene tuttavia considerato un'opera
industriale a tutti gli effetti; e viene talvolta proiettato in sale normali. Sotto questo aspetto il film
testimonia la presenza di nuovi modelli produttivi, di distribuzione e di consumo che si aggiungono e
spesso si sovrappongono a quelli tradizionali. Siamo al di là della tradizionale distinzione tra cinema
degli studios e cinema d'autore; oggi c'è anche una creatività dal basso, connessa a figure
semiprofessionali, a nuove modalità di collaborazione, e a forme non istituzionali di circolazione dei
film.
In terzo luogo Star Wars uncut non è solo una serie di sequenze montate in successione ma è anche un
progetto di cui leggiamo la spiegazione sul sito del film, è il continuo intervento dei fan, è un archivio di
frammenti, è un dialogo tra i partecipanti all'impresa, ed è l'attività stessa di promozione del prodotto.
Sotto questo aspetto Star Wars uncut testimonia come oggi sotto l'etichetta "cinema" si raccolga una
larga messe di materiali eterogenei. I film si prolungano nel making of, nei commenti degli spettatori,
nelle parodie o nei rimontaggi, in possibili nuove edizioni .
Infine Star Wars uncut allinea i più diversi tipi di immagini. In questo, esso testimonia la tentazione del
cinema contemporaneo di andare al di là delle immagini fotografiche che hanno tradizionalmente
caratterizzato il medium. L'avvento del digitale ha certo aperto nuove possibilità: ma è l'idea stessa di
immagine filmica che viene messa in discussione. Il cinema non possiede più una sua pur vaga
caratterizzazione. È un terreno aperto, pronto a ospitare le più svariate forme di iconicità.
Star Wars uncut prende quello che indubbiamente è un monumento della storia del cinema, ma nel
celebrarlo ne scavalca i confini stilistici, produttivi e istituzionali. Lavora su un'espansione di quelle che
sono le modalità e le misure tradizionali. Il cinema contemporaneo si presenta spesso all'insegna dell'
espansione:esso appare prontissimo ad adottare nuove soluzioni, a copiare quello che altri media fanno,
a superare i suoi modelli tipici. Così facendo tuttavia esso si espone anche a rischi. Infatti nel momento
in cui abbandona l'unicità di un'opera, la centralità del film, l'omogeneità di un'industria e la peculiarità
di un linguaggio, il cinema sembra anche perdersi nel gran mare dei prodotti audiovisivi.

Il cinema espanso - intorno al 1970

La vocazione espansionistica del cinema è possibile coglierla persino nel cinema delle origini: la capacità
di quest'ultimo di portare sullo schermo qualunque cosa fosse di interesse del pubblico, può essere
interpretata non solo come volontà di definire un proprio terreno, manchi come un desiderio di lavorare
sul terreno altrui. Fin dal suo debutto il cinema ha guardato alle foto di famiglia, alle cartoline
illustrate, alla letteratura, al teatro, al Music Hall, alle comic strips, al giornalismo, cercando di avere
scambi con loro, ma anche, se necessario, di annetterli.
Momento chiave è il 1970. In quest'anno lo so americano Gene Youngblood pubblica un libro di largo
successo dal titolo Expended Cinema. Sheldon Renan ne aveva già parlato e Youngblood riprende il
termine e ne esplora tutte le implicazioni. Il suo punto di partenza è l'idea che si stia realizzando una
trasformazione epocale: l'umanità sta entrando in una nuova era, l'età paleo cibernetica, caratterizzata
da un evidente logoramento dei vecchi concetti e dall'emergere di nuove forme di sensibilità. A questa
trasformazione contribuisce soprattutto il fatto che viviamo in un ambiente oramai profondamente
mediatizzato. Il cinema fa parte di questa rete intermediale, e ciò lo porta a confrontarsi
sistematicamente con tutti i mezzi di comunicazione che operano nel nostro contesto di vita, non solo
quelli ad esso più affini. La conseguenza è una spinta a rinnovare radicalmente i propri strumenti
espressivi , e ancor più ad uscire da sé stesso, per allargare decisamente il proprio raggio d'azione. Sulla
base delle sperimentazioni condotte negli anni 60 da una serie di film maker, video artisti, e scienziati,
Youngblood evidenzia alcune grandi tendenze che portano il cinema oltre i suoi tradizionali confini.
La prima tendenza è legata al medium in quanto tale. Il cinema sta acquisendo una crescente
consapevolezza dei propri mezzi: da un lato cerca di sfruttare meglio quelli che ha già, mirando a
risultati mai raggiunti prima; dall'altro lato cerca di aggiungerne di nuovi, che spandano le proprie
possibilità espressive. Youngblood parla di una fusione tra sensibilità estetica e innovazione tecnologica e

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porta come esempio le opere di Stan Barkhage , di Michael Snow, di Jordan Belson , e di altri
filmmaker . Essi lavorano a un synesthetic cinema che è capace di coinvolgere tutti i nostri sensi.
Youngblood aggiunge anche che questo cinema, proprio perché così ricco di soluzioni, è il solo linguaggio
estetico adatto all'ambiente postindustrie e postalfabetizzato costruito dall'uomo con la sua rete di
sorgenti di informazione .
La seconda tendenza è legata all'emergere di una creatività diffusa. Essa è resa possibile dalla presenza
di tecnologie facilmente accessibili, e nello stesso tempo dall'avvento di una cultura non più legata
all'idea di massa. Di qui una presenza del cinema in parecchi momenti della quotidianità, e un suo uso
più accentuatamente individuale.
La terza tendenza è connessa alla possibilità di creare un feedback tra film e spettatori. Questi ultimi
non sono semplici consumatori: sono interlocutori che nel rispondere a ciò che vedono arricchiscono la
comunicazione. Viviamo in un contesto che non è più monodirezionale, ma è caratterizzato da una
continua circolazione di informazioni in tutte le direzioni.
La quarta tendenza è legata alla crescente interconnessione del cinema con altri media. Di qui una ricca
gamma di matrimoni in via di celebrazione e da sviluppare. Uno di questi è con il teatro: il cinema può
diventare una componente essenziale degli spettacoli dal vivo, dar luogo a quello che gli Youngblood
chiama intermedia theatre, di cui troviamo un esempio nelle opere di Carolee Schneemann e di John
Cage . Un'altra consulenza è quella con la televisione. Youngblood pensa alle ricerche che puntano a
esplorare le possibilità estetiche del nastro magnetico, e che danno luogo a quelli che egli chiama
synesthetic videotape. Ma egli pensa anche alle prime installazioni che attraverso l'uso di molteplici
schermi puntano a creare teledynamic environments. E pensa persino alla televisione commerciale per la
sua capacità di ricordarci che un artista è anche un comunicatore che deve sapersi rivolgere a
un'audience.
La convergenza più nuova e produttiva è tuttavia con il computer: una macchina che secondo Youngblood
potrà cancellare il confine tra ciò che sentiamo e ciò che vediamo al punto da diventare uno strumento
parapsicologico per la proiezione diretta di pensieri ed emozioni. Grazie a questo matrimonio, il cinema
può dunque passare alla rappresentazione diretta della coscienza umana. Prima ci sono passi intermedi.
Youngblood parla di cybernetic cinema, in cui i plotter disegnano figure senza l'input di un disegnatore.
Ancora egli si riferisce ai computer film, in cui le figure prendono vita su uno schermo catodico al di
fuori di tutti i tradizionali processi di filmmaking, semplicemente generate da un programma. Descrive il
videographic cinema, che nasce dall'incontro della televisione con il cinema. E menziona infine gli
holographic movies, con il loro tentativo di andare oltre la piattezza dell'immagine per recuperare figure
a tre dimensioni. Si tratta ancora di esperimenti: ma egli vede in essi la strada più produttiva per il
cinema a venire. L'espansione è un processo inevitabile: essa risponde all'espansione della nostra mente,
che consente all'uomo di entrare in una nuova era.

Nuove espansioni - intorno al 2013

Il libro di Gene Youngblood coglie bene un punto di svolta, legato al ruolo oramai decisivo dei media
nella nostra vita quotidiana; intuisce l'importanza delle nascenti tecnologie elettroniche; legge un
decennio di sperimentazione e di ricerca espressiva come una risposta alle novità che stanno emergendo;
e suggerisce che il cinema potrà conservare la sua identità solo se saprà trovare nuove strade su cui
incamminarsi. Il cinema o sarà espanso o rischierà di non contare più nulla. Gli anni successivi
radicalizzeranno l'auspicio di Youngblood. La capacità del cinema di uscire dai propri confini tradizionali
diventerà sempre più evidente, e riguarderà non solo la ricerca artistica, bensì anche la produzione
corrente, quella mainstream. Il cinema si espanderà in modo ben più consistente di quanto si poteva
prevedere.
Se il cinema oggi adotta modalità espressive prese dai videogiochi o dalla rete, se incrementa la propria
tecnologia per raggiungere gli effetti che si possono trovare nei parchi tematici, o se si prolunga sugli
schermi della TV o degli smartphone, è anche perché 40 anni fa è diventato consapevole di far parte di
una rete intermediale, e, a rischio di perdersi, si è messo radicalmente in gioco.
Un primo nucleo dell'attuale espansione si ricollega in qualche modo alle osservazioni di Younglood
sull'implementazione tecnologica del medium. Negli ultimi anni il cinema si è arricchito di numerose
nuove tecnologie, sia sul piano del sonoro, sia sul piano del visivo. Queste nuove tecnologie mirano tutte
a intensificare il livello dell'esperienza cinematografica attraverso un maggior coinvolgimento dei nostri
sensi. Ciò fa del cinema un medium non più solo ottico. La conseguenza è dunque un ampliamento dei
suoi punti di riferimento.
Il secondo nucleo di espansione è legato alla crescente presenza di una produzione dal basso. Youngblood
notava l'affermarsi di una creatività di massa: oggi questa creatività ha assunto contorni ancora
maggiori, grazie alla disponibilità di tecnologie a costo contenuto per la ripresa e il montaggio, e
contemporaneamente grazie alla presenza di nuove possibilità di far circolare il proprio materiale. Molta
della creazione dal basso è opera dei fan.

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Chuck Tryon ha commentato un ampio numero di questi prodotti, basati sostanzialmente sulle pratiche
di retake o di remix. Si va dai fake trailers, che propagandano film noti offrendone un riassunto del tutto
diverso dall'originale o anche propagandano film mai fatti, come se fossero già in distribuzione, fino ai
compilation videos, che raccolgono una scelta di scene di film messe in ordine di preferenza, spesso con
intenti parodistici. Tryon riconosce in questi prodotti una vera e propria forma culturale, e intravvede in
essi un modo per il cinema di proiettarsi su uno scenario come quello attuale, fortemente legato al
bisogno di esprimersi, alla voglia di intervenire nei processi, alla necessitò di creare legami sociali, e alla
possibilità di accedere a prodotti con un tocco del mouse.
L'idea di Jonathan Gray è che si tratti sostanzialmente di paratesti, e cioè di testi che accompagnano
altri testi nel tentativo di offrirne una nuova interpretazione. Sembrano compiere un gesto polemico ma
in realtà il loro scopo primario è quello di intensificare l'esperienza offerta da alcuni testi per trovare
una propria personale via per accostarsi a essi.
John Caldwell dimostra che questa produzione dal basso sia complementare rispetto alla produzione
industriale. Anzi, quest'ultima si appropria sempre più delle tattiche tipiche della produzione dal basso.
Terzo grande nucleo dell'espansione cinematografica attuale, legata al numero crescente di adattamenti,
remakes, sequels, prequels, reebots, e così via. È come se il cinema contemporaneo lavorasse sempre sul
raddoppiamento. L'elemento nuovo è il numero e la qualità delle relazioni. Da un lato il numero dei
media con cui confrontarsi è aumentato. Dall'altro lato più che di un furto si deve parlare ormai di una
sparizione: una narrazione avviata da un medium viene continuata da un altro, portata avanti in
parallelo da un altro ancora, reinterpretata da un altro, e così via.
Henry Jenkins parla di trans media storytelling. Il complesso degli elementi di una storia è
sistematicamente suddiviso tra molteplici canali di distribuzione, con lo scopo di creare un'esperienza di
intrattenimento unificata e coordinata.
È quello che succede ad esempio ai Pirati dei Caraibi. Si può entrare in questa narrazione da molte
porte e percorrerla in molte direzioni: essa è comunque spalmata su tutta una serie di canali di
distribuzione.
Il quarto nucleo di espansione del cinema contemporaneo richiama le osservazioni di Youngblood sul
feedback. Oggi la risposta dell'audience si è fatta massiccia, costituisce una parte integrante del film.
Chuck Tryon ha analizzato parecchi esempi di interventi o discussioni in rete.
È perlomeno dagli anni 20 che i film sono sistematicamente accompagnati da una serie di ricorsi sociali
che li riprendono, li commentano, li valorizzano. Christian Metz, riferendosi alla critica e alla teoria,
parla di una terza macchina che affianca quella industriale della produzione e quella psicologica della
visione. La funzione di questa terza macchina è di fare del cinema un oggetto accettabile della società.
Questi discorsi sui film svolgono ancora la funzione di valorizzazione e di ratificazione; semplicemente
non sono più soltanto un accompagnamento al film; sono piuttosto qualcosa che fa pienamente corpo con
il film stesso.
Il quinto nucleo di espansione del cinema contemporaneo è strettamente legato alla presenza del
computer. Youngbloo aveva intuito come il matrimonio con questo nuovo dispositivo sarebbe stato più
produttivo. Ed effettivamente il computer offre al cinema la possibilità di andare oltre il tipo di
immagine che esso ha sempre usato e di adottare invece un nuovo tipo, l'immagine digitale. Il cinema
non è più necessariamente un calco del mondo: esso ora può creare direttamente la realtà raffigurata
sulla base si un logaritmo.
Numerosi studiosi hanno letto questo avvento della computer generated imaginery come una cesura
rispetto alla tradizione. Mentre l'immagine fotografica presupponeva l'esistenza effettiva di quanto è
raffigurato, l'immagine digitale più costituire anche una semplice invenzione: dunque il film cessa di
essere la testimonianza diretta di qualcosa che è realmente avvenuto. David Rodowick constata come la
narrazione cinematografica continui a essere un modello anche per i racconti offerti dai nuovi media;
tuttavia il passaggio al digitale inaugura un nuovo modo di rappresentazione. L'immagine sullo schermo
non è più un ritratto dal vero della realtà, ma semmai una mappa che guida il nostro sguardo; ciò che
emerge è la presenza di un'interfaccia che fa da filtro tra noi e il mondo rappresentato. Per Lev
Manovich l'avvento del digitale è la fine del cinema come ambito specifico; quest'ultimo ritorna a essere
una semplice regione del più ampio campo delle arti figurative; il suo compito è quello di rappresentare
la realtà interna ed esterna con gli occhi dell'artista più che assicurare un legame stretto con il mondo.
Tom Gunning, in risposta a Rodowick, parla dell’intima connessione del cinema con la realtà, non è un
fatto esclusivo dell'immagine fotografica; un film mi mette in diretto contatto con il mondo anche grazie
ad altri mezzi, tra cui ad esempio la capacità di restituire il movimento delle cose. Su di un altro
terreno, Stephen Prince accetta l'idea che l'immagine digitale non funzioni più come una traccia diretta
del reale; ma il processo attraverso cui noi prendiamo come reale ciò che essa rappresenta ricalca quello
attivato dall'immagine fotografica. Ciò significa che il cinema può continuare a essere se stesso anche
quando adotta il digitale; anzi, il digitale consente al cinema di proseguire la sua strada allargando il
campo delle sue possibilità, e aumentando il numero delle sue tangenze.
Naturalmente esiste anche un'espansione spaziale. Il cinema occupa nuovi ambienti.

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Dal cinematografo al cinetico (e allo schermico)

Il cinema oggi è un'esperienza visiva che prova a coinvolgere anche gli altri sensi. È una miriade di
prodotti che dalle opere industriali si allargano alle opere amatoriali. È una serie di racconti che
riprendono altri racconti e danno vita a nuovi racconti che riprendono altri racconti e danno vita a nuovi
racconti. È una piattaforma di distribuzione di contenuti che si connette e si prolunga in altre
piattaforme mediali. È un complesso di discorsi, che partono dai film per poi far corpo con essi. È una
forma espressiva all'incrocio di diverse tradizioni, tra cui quella della pittura e quella della fotografia. È
un dispositivo che cerca di appropriarsi di immagini provenienti anche da altri dispositivi. È un medium
che si diffonde sul territorio, occupando come sempre nuovi luoghi. Oggi l'espansione è la realtà che
meglio definisce il cinema.
Si potrebbe facilmente obiettare che il cinema non ha mai veramente occupato un ambito
esclusivamente suo. Esso ha visto convivere differenti pratiche di produzione e consumo. Ha tenuto
insieme parecchi discorsi. Infine non si è mai limitato a immagini filmiche. Il cinema è sempre stato più
ampio di se stesso.
Tuttavia la presenza di una tecnologia di base ben identificabile ha sempre consentito al cinema di
trovare un minimo comune denominatore. Così come la centralità del film gli ha consentito di
organizzare quello che gli ruotava attorno. E infine la presenza di un lavoro di filtro gli ha consentito di
dirigere quello che nel frattempo prendeva dall'esterno. Il cinema ha avuto sempre dei baricentri che
oggi sembrano venir meno. Di qui l'apparente facilità della sua espansione: non c'è più qualcosa che lo
trattiene in se stesso.
Questo movimento che porta il cinema oltre i suoi confini ha in sé qualcosa di paradossale. Da un lato
rappresenta una grande opportunità: il cinema può sviluppare le proprie potenzialità interne, può
includere in sé altre realtà e può allargarsi verso nuovi territori. Dall'altro lato però ciò comporta anche
dei pericoli: l'espansione può anche voler dire un cambio di natura; o può voler dire sciogliersi in un
terreno che non è più strettamente proprio. Il cinema acquisisce nuove possibilità e stringe nuovi
rapporti: ma non sa più bene chi è e dov'è.
Il terreno che emerge appare così ampio e comprensivo da essere privo di ogni specificazione. Ciò che lo
qualifica è un tratto del tutto generale: la semplice presenza d'immagini in movimento che prendono
posto su uno schermo. Sotto questo aspetto gli unici aggettivi da usare sono proprio cinetico e schermi:
essi infatti evidenziano una caratteristica che essendo comune a quasi tutto non caratterizza per
davvero; o meglio, designano una qualità senza una precisa determinazione. Serge Daney, per definire
questo terreno indistinto, usa il termine visivo contrapposto a immagine: cinetico e schermico,
contrapposti a cinematografico e filmico, vanno nella stessa direzione. Il cinema espanso si muove
oramai in questo amplissimo orizzonte dell'indeterminato. Ciò che lo qualifica rischia di non essere
diverso da quello che qualifica altri ambiti mediali. La conseguenza è che il cinema non appare più come
una realtà data per scontata. È qualcosa che deve dimostrare d'esserci e di essere se stesso. Deve
emergere dall'ampio e generico territorio del cinetico e dello schermico e affermare la propria esistenza.
Deve uscire dall'indistinzione per evidenziare la propria specificità. Il cinema, oggi, si trova a dover
ritornare a essere cinema.

Restare-cinema, diventare-cinema

Esistono alcune pratiche ricorrente che consentono al cinema di riaffermarsi in quanto tale. Alcune sono
di tipo difensivo: il cinema cerca di restare quello che è, fingendo che l'espansione cui va incontro non
abbia effetti distruttivi o disorientanti. Altre sono invece più aperte: una serie di prodotti diventano
cinema, dopo aver attraversato il gran mare delle immagini schermi che. Alcune di queste pratiche
riguardano la vita sciale del film: si attivano nel momento in cui una serie di prodotti si presentano ai
loro spettatori. Altre invece riguardano direttamente questi prodotti, il modo in cui sono pensati, le
forme che essi assumono.
Partendo dalle strategie sociali numerose cerimonie grazie alle quali cinema festeggia se stesso, e nel
farlo afferma di essere ancora vivo e ancora cinema. I festival spesso associamo alla dimensione
cerimoniale anche a una dimensione di scoperta.
Anche l'archivio e il museo ci ricordano che il cinema continua ad abitare tra di noi. Questo promemoria
può evidenziare soprattutto la presenza di una storia gloriosa, come fa la cinematheque francaise nella
sua autopresentazione. Ma il rimando alla storia è spesso anche connesso alle sfide che il cinema si trova
oggi ad affrontare. Così la Academy of Motion Picture Art and Sciences preannuncia il proprio museo,
con una dichiarazione che è un perfetto mèlange di richiamo alla tradizione e accettazione del
cambiamento. In altri casi invece il disperdersi del cinema in un campo più vasto è accettato, ma ciò
non impedisce di fare del cinema la regione centrale di questo territorio.
Anche le edizioni di DVD offrono una testimonianza che il cinema continua a vivere, e insieme una prova
che i confini del film si allargano.

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Infine, un ruolo cruciale viene svolto anche da alcuni siti web che seguono la produzione corrente. Il più
noto e insieme il più indicativo di questi siti è indubbiamente IMD. Esso contiene un database di tutti i
film prodotto, e insieme ne fornisce un continuo aggiornamento. Oltre che uno straordinario strumento
di consultazione, il sito in realtà funziona come una sorta di autorità che definisce cosa entra nel campo
del cinema e cosa ne resta fuori. È interessante notare che questi confini vengono considerati mobili.

Media caldi

Ci sono anche strategie di autoaffermazione del cinema che riguardano direttamente i film, il modo in
cui sono pensati e le forme che assumono.
Negli stessi anni in cui Gene Youngblood pubblica il suo contributo, Marshall McLuhan, nel suo Gli
strumenti del comunicare, avanza una distinzione tra media caldi e media freddi. In particolare sono
hot quei media che investono i propri destinatari con una tale ricchezza percettiva da non richiedere
alcuna forma di integrazione, mentre sono cool quei media che propongono ai propri destinatari
messaggi a bassa definizione che devono essere in qualche modo completati sia da un punto di vista
percettivo che interpretativo.
Il cinema è un media caldo. Ha una ricchezza di informazione che lo apparenta al libro. Come il libro,
anche il film procede attraverso una serrata successione di blocchi. Come il libro anche il film alimenta
la fantasia dello spettatore riuscendo a materializzarla davanti ai suoi occhi. Come il libro, anche il film
fa appello alla vista. Ma rispetto alla pagina scritta il film riesce a illustrare una situazione o a
rappresentare un eventoin modo ancora più ricco. Esso porta subito nel cuore dell'azione; fa vedere le
cose nel loro ambiente; offre perfette ricostruzioni del presente e del passato. Inoltre riesce a
mobilitare più aspetti sensoriali, grazie alla presenza della musica, dei dialoghi e del colore. Un film
coinvolge l'intero corpo. Infine riesce ad associare alla riproduzione meccanica della realtà la capacità di
produrre sogni. La conseguenza è che lo spettatore si sente preso e quasi sovrastato dalle immagini e dai
suoni, fino a cadere in una sorta di sonno ipnotico.
Una tale caratterizzazione del cinema ha dietro di sé una lunga tradizione. Altri studiosi prima di
McLuhan avevano pensato il cinema in termini di intensità sensoriale e insieme di stupore e di
abbandono. Così Jean Epstein in Ingrandimento descrive l'impatto dello spettatore con il film. Bela
Balzas ribadisce questa combinazione di intensità e vicinanza. Qualche anno prima Giovanni Papini
aveva sottolineato la particolare forza delle immagini filmiche. E Ricciotto Canudo, nel suo famoso
manifesto Nascita della sesta arte aveva evidenziato come il cinematografo non fa che esaltare il
principio della rappresentazione della vita nella sua verità totale ed esclusivamente esteriore.
Una delle strade con cui il cinema cerca oggi di restare o di diventare cinema, consiste nel farsi
campione dell'alta definizione. È interessante notare come nello scambio continuo con gli altri media il
cinema spesso riservi per sé il contenuto più spettacolare e aggressivo. A questa dimensione semantica se
ne aggiunge spesso una sintattica: il cinema presenta narrazioni più cogenti. Le storie narrate non sono
semplicemente un nucleo ma offrono una trama coerente e compatta. Inoltre queste storie procedono
con un ritmo particolarmente incalzante, fino a togliere letteralmente il fiato. Infine c'è una dimensione
iconografica: il cinema si riserva il tipo di immagine più densa. Si pensi in particolare alla crescente
diffusione di tecnologie come l'Imax, all'ulteriore ingrandimento degli schermi, e soprattutto al recente
rifiorire del 3D.
La prima esplosione del 3D, intorno agli anni 1952-54, venne vissuta e propagandata proprio in chiave di
alta definizione. Il 3D infatti prometteva un'immagine dotata di un'intensità percettiva inusuale: la realtà
sembrava materializzarsi in tutto il suo spessore, al punto di poter quasi uscire dallo schermo e
circondare lo spettatore. In un saggio scritto poco prima di morire, Sergej Ejzestejn aveva colto in pieno
questa caratteristica. Il cinema stereoscopico realizza la piena illusione della tridimensionalità. Esso
offre la possibilità di attirare lo spettatore fin dentro ciò che un tempo non era altro che la superficie
piana dello schermo; e di proiettare verso di lui. Ciò che prima rimaneva disteso lungo lo specchio della
superficie schermina. Soprattutto il secondo movimento appariva a Ejzestejn 3ìessenziale. Come ha
notato Miriam Ross, il cinema stereoscopico costruiva una visione così intensa da sconfinare nel tatto.
Il rilancio del 3D in versione digitale riafferma con Avatar di James Cameron la vocazione del cinema a
lavorare sull'alta definizione, ma attenua la dimensione polemica di questa scelta. La visione
stereoscopica, infatti, continua ad apparire come un tratto qualificante del cinema, ma funziona anche
da ponte verso alti media. Per un verso il nuovo cinema in 3D non nasconde più le sue affinità con vecchi
dispositivi della visione, come la fantasmagoria e il panorama, che volevano offrire al loro spettatore una
visione coinvolgente. Del resto Ejzestejn aveva già osservato che il cinema stereoscopico è parente
prossimo di tutti i tentativi di rompere la soglia tra rappresentazione e osservatore, e aveva
esemplificato questa sua convinzione con esempi che andavano dalla pittura al teatro. Per un altro
verso, non è un caso che a non molta distanza dall'uscita di Avatar immagini stereoscopiche cominciano
a diventare disponibili dapprima per la televisione, poi anche sugli smartphone. L'applicazione non avrà
il successo sperato, ma mostra come il cinema si anche pensato come un apripista. La ripresa del 3D è
esemplare del bisogno del cinema contemporaneo di riaffermare la propria identità, grazie a un lavoro

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sull'alta definizione; ma è anche indicativa del fatto che nel momento in cui esso vuole restare o
ridiventare cinema, continua anche a voler mantenere un dialogo aperto con il territorio in cui opera.

Alta e bassa definizione

Il cinema non si muove solo nella direzione dell'alta definizione; lavora anche sempre più con immagini a
bassa definizione. Questa strada viene proseguita da film che presentano immagini povere, che mancano
della consueta qualità delle immagini che vediamo sugli schermi cinematografici. L'artista e teorico Hito
Steyerl parla di queste immagini povere come di un Lumpenproletariat dell'iconosfera contemporanea.
Il cinema dà sempre più spazio a queste immagini fino a farle letteralmente proprie.
La distinzione tra hot e cool non consente a McLuhan solo distribuire i media in due grandi categorie. La
distinzione serve anche a distinguere diverse epoche. In particolare, egli sottolinea il passaggio della
freddezza sell'oralità originaria al calore della scrittura alfabetica, poi il transito dalla freddezza della
cultura medievale fondata sulla trascrizione e sul commento di manoscritti al calore della cultura
trasformata dalla diffusione della stampa gutenberghiana a caratteri mobili, e infine il passaggio da
un'epoca calda, l'epoca meccanica, a un'epoca fredda, l'epoca elettrica.
La prima ragione che porta il cinema verso le immagini povere è il fatto che oggi esso opera in un'epoca
fredda. L'abbassamento di temperatura era già cominciato negli anni 50, con l'avvento della televisione,
e il cinema aveva reagito con film tutti caratterizzati da un realismo visivo a bassa definizione e a bassa
intensità, in perfetta armonia con il nuovo clima creato dalla fredda immagine della TV. Internet porta
con sé un temperatura ulteriormente bassa: e il cinema, adottando immagini povere, agisce di
conseguenza.
Ma c'è anche una seconda ragione: la presenza di immagini povere consente di aprire un diverso spazio di
manovra. McLuhan infatti prevede anche che i media possano cambiare temperatura internamente: nel
corso della loro vita possono o surriscaldarsi o raffreddarsi, fino ad abbracciare forme apparentemente
contrarie a quelle iniziali. In questi casi essi finiscono con l'interferire con altri media, fino a sovrapporsi
alla loro sfera di azione. Questo confluire dei media tra loro , fino a collassare l'uno sull'altro, ha come
effetto quello di liberare energie ibride. Queste energie ibride servono a far emergere quello che spesso
è nascosto. Le energie ibride servono a riacquistare coscienza della situazione. La seconda ragione per
cui il cinema espanso accetta di lavorare con le immagini povere, è perché questo modo può recuperare
coscienza di sé e del campo in cui opera. Se il ricordo all'alta definizione, e in particolare al 3D,
consentiva al cinema di consegnare il mondo rappresentato allo spettatore, fino a farglielo sentire
letteralmente a portata di mano, l'apertura alla bassa definizione serve a svegliare questo stesso
spettator, a metterlo sull'avviso, e a costringerlo a pensare a cosa significa oggi rappresentare il mondo.
In questo senso, l'introduzione di una bassa temperatura in un medium caldo può avviare una critica
all'economia politica dei segni capace di mettere riflessivamente a nudo quello che i media sono e fanno
oggi.
Nell'opera di un regista come Harun Farocki l'appropriazione delle immagini di più comune circolazione
si traduce in una riflessione sullo statuto stesso dell'immagine contemporanea.
Farocki sviluppa una riflessione critica sulla grande quantità di immagini anonime e operative che
contribuiscono al funzionamento disciplinato ed efficiente della società contemporanea. Il cinema
diventa qui il terreno privilegiato in cui maturare una consapevolezza rispetto al panorama in cui siamo
immersi.
Ma possiamo trovare elementi di critica all'economia politica dei segni anche nel cinema mainstream.
L'esempio più evidente è Redacted di Brian De Palma. Il film mescola diversi tipi di immagine: quelle
girate con la sua handycam dal soldato Salazar per il suo video diario; quelle del documentario di un
regista francese su Samarra; quelle delle telecamere di sorveglianza del campo militare; quelle dei
servizi giornalistici dall'Iraq o delle televisioni locali; quelle delle webcam attraverso cui i soldati
comunicano con i propri familiari; quelle, notturne, registrate dalle microtelecamere sugli elmetti dei
soldati; quelle girate dagli insorti iracheni e postate su internet. In questa apparente accozzaglia, le
immagini più povere inevitabilmente si scontrano con quelle più ricche: queste ultime rivelano la
retorica che le anima, come nel caso del documentario francese. Ma anche le immagini povere mostrano
i loro limiti, sia quando pretendono di cogliere gli eventi sul fatto sua quando ambiscono a raggiungere
un livello professionale.
In altri casi l'auto riflessività porta a spaccare il film in due. Prendiamo un'opera peraltro controversa
come Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow. Nell'ultima parte del film, quella che ritrae la missione dei
Navy Seals a caccia di Osama Bin Laden, c'è un largo uso di immagini identiche a quelle, sgranate e
monocrome, ottenute con i visori all'infrarosso o registrate delle microtelecamere installate sugli elmetti
dei soldati. Si tratta di una scelta che accontenta il desiderio voyeuristico dello spettatore: tuttavia essa
ha anche la capacità di evidenziare retrospettivamente la natura sostanzialmente spettacolare della
prima parte del film, girata con immagini tradizionali. Le immagini piene facevano vedere assai bene i
fatti, in tutto il loro svolgimento esteriore. Le immagini povere sell'ultima parte del film non ci fanno
vedere altrettanto bene i fatti, ma in cambio hanno un'ambizione maggiore: vogliono cogliere gli eventi

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dall'interno nel loro svolgimento e con il vissuto che vi partecipa. La conseguenza è una scissione che
attraversa tutto il film e che forse riguarda tutto il cinema contemporaneo: una cosa è l'effetto di realtà,
quello grazie cui recuperiamo il mondo nei suoi contorni; un'altra l'effetto di verità, attraverso cui
recuperiamo il mondo nei suoi processi e nei suoi significati intrinseci. Le immagini piene ci danno il
primo, le immagini povere il secondo. Realtà e verità non hanno più tutt'uno come nel passato; ci
vogliono due regimi sensoriali per descrivere il mondo.
Effettivamente, le immagini povere oggi sono spesso associate all'autenticità, alla sincerità. Molti film ne
fanno uso per guadagnare questi valori. Georges Didi-Huberman, analizzando quattro fotografie prese
dai prigionieri di Auschwitz, ha magistralmente mostrato come è proprio una certa invisibilità che
garantisce il fatto che un'immagine parli. La presenza di un contrasto di temperatura evidenzia questo
legame tra invisibilità e verità ,a ci aiuta anche a relativizzarlo. L'effetto di verità può essere anche un
semplice tic stilistico, come nel film capostipite The Blair Witch Project di Eduardo Sanchez e Daniel
Myrick, e nei molti film ispirati a esso. O può anche essere un falso presupposto, magari per giustificare
un'azione conseguente, come ha ben mostrato Farrocki proprio per le immagini di guerra. Le immagini
povere possono essere false, così come quelle ricche possono diventare vere, quando ad esempio
conservano il loro valore di traccia. Qui che conta è creare tra i due tipi di immagine una dialettica: è
essa che consente di far emerger una critica all'economia politica dei segni, e dunque di acquistare una
piena consapevolezza di come le immagini funzionano e dei valori che portano.
Ne deriva una conclusione in qualche modo paradossale. L'adozione della bassa definizione se per un
verso porta il cinema lontano da quella che sembra essere la sua vocazione principale, per un altro vero
continua a farlo restare nel suo spazio elettivo. Le immagini povere costringono il cinema a rinunciare a
un'altra definizione sul piano percettivo, ma gliene fanno guadagnare una sul piano cognitivo. Sollecitano
una riflessione sulla circolazione dei segni e sulla loro verità. Una macchina dell'illusione riesce anche ad
acquistare un'intelligenza.

Uno e trino

Innanzitutto abbiamo un ampio movimento che porta il cinema fuori dai suoi tradizionali confini, verso
nuove forme di produzione, nuovi prodotti, una nuova idea di testo e nuovi tipi d'immagine. Il cinema
allarga il suo raggio d'azione: implementa le proprie possibilità interne, associa a sé altri media, e si
sposta sul più ampio terreno delle immagini in movimento. Esso diventa cinema espanso.
Questa espansione porta però con sé il rischio di una perdita d'identità. Il cinema cerca di esorcizzare
questo pericolo riallacciandosi a una tradizione che lo vede lavorare su un forte coinvolgimento dei
sensi. Di qui la ricerca d'immagini particolarmente ricche, di storie serrate, di situazioni estreme, di un
ambiente sonoro avvolgente. In questo quadro, l'adozione del 3D appare particolarmente significativa: il
cinema riafferma la propria capacità di fare aderire lo spettatore al mondo rappresentato prima e meglio
di qualunque altro media.
Il cinema lavora comunque su immagini povere. Qui il cinema non persegue l'adesione dello spettatore al
mondo rappresento ma il sorgere di una coscienza critica che investe lo stato dei media e la loro
responsabilità nei processi di conoscenza. Se queste immagini povere sono a bassa definizione, la
consapevolezza che suscitano è ad alta definizione. Anche'esse lavorano a un processo d'intensificazione,
della componente cognitiva.
Abbiamo dunque un cinema espanso, che predica la dispersione; un cinema volutamente caldo, che
ricerca l'adesione; e un cinema più freddo, che fa emergere un'autoconsapevolezza. I rapporti tra le
diverse aree appaiono più sfumati e più complessi. Non abbiamo più un ideale convergenza come negli
anni d'oro della settima arte, quando forme di cinema diverse tendevano però a ispirarsi allo stesso
modello. Né abbiamo più un aperto conflitto, come a partire dagli anni 50, in cui il primo cinema, quello
hollywoodiano, il secondo, quello degli artisti, e il terzo quello legato alle cinematografie emergenti dei
paesi del sud del mondo, proponevano modelli diversi pur muovendosi in un universo comune. Abbiamo
piuttosto tre ipotesi che cercano di venire incontro al bisogno del cinema di restare se stesso a di
ridiventare cinema, ma che lo fanno ciascuno a suo modo, anche se poi è il loro confronto che fa
emergere alcuni degli aspetti più interessanti del cinema d'oggi. I tre cinema viaggiano paralleli. Anche
perché alla fine essi occupano tre zone diverse dell'universo mediale: rispettivamente la rete, il
blockbuster, e la sperimentazione.
Non mancano transiti da un ambito all'altro. Si pensi alle pratiche grassroots che recuperano immagini ad
alta intensità dei film di successo e le rimontano attraverso un gioco ironico che le raffredda rendendole
così adatte alla rete.
Sul fronte opposto, penso all'inserzione d'immagini povere dentro film ad alta definizione, destinati al
circuito commerciale.
Dunque ci sono passerelle. Ma in questa circolazione di procedimenti ci sono anche passaggi difficili. Nel
terzo episodio della serie The Bourne Identity di Paul Greendgrass, c'è una sequenza in cui attraverso
una serie di telecamere di sorveglianza, i capi della CIA seguono Bourne all'interno della Waterloo Station
in cui lo hanno attirato per ucciderlo. Qui tuttavia ci sono immagini live, anziché immagini registrate;

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così come abbiamo uno sguardo che, anziché cercare la verità, serve per coordinare un'azione. Ciò
significa che dentro il film ad alta definizione non c'è più un altro piccolo film che restituisce al primo la
coscienza di cos' oggi un'immagine, ma qualcosa che appartiene piuttosto all'universo televisivo o
all'universo della sorveglianza. Qui il cinema smette di voler esplorare un diverso modo d'essere, e
sembra attratto da ciò che esso non è.
Oggi il cinema è uno e trino; è proprio la sua triplice dimensione che fa emergere le dialettiche che gli
consentono di cercare di restare o di ridiventare cinema; ma questa triplice dimensione rende anche
inevitabilmente visibile una geografia retrostante dei media che rende il lavoro di convergenza difficile e
faticoso.

La distribuzione del sensibile

La presenza di tre cinema rivela anche una geografia sociale e politica, con cui il cinema, nei suoi
processi di espansione egualmente si confronta.
Il filosofo francese Jacques Rancerie ha avanzato il concetto di distribuzione del sensibile. Esso
definisce il modo in cui una determinata società rende accessibile ai sensi ciò che è presente al suo
interno. Esiste sempre qualcosa di comune a tutti i membri di una società, ma esso viene reso disponibile
in forme diverse. Rendere accessibile una parola o un'immagine significa definire ruoli e posizioni, che a
loro volta possono cambiare a seconda dei canali usati e del modo di usarli. Le arti sono luoghi per
eccellenza in cui si realizza questo distribuzione del sensibile. Ma questa distribuzione del sensibile è
anche indicativa dei modi di partecipazione alla vita sociale. L'accessibilità o meno a una parola o a
un'immagine, l'essere destinatari diretti o testimoni muti, aver accesso a una discussione pubblica o
doversi tenere le cose per sé, definiscono le modalità di cittadinanza e insieme la rete dei poteri. In
questo senso la politica ha una base estetica: l'organizzazione di una società.
Ranciere prende in esame i regimi di sensibilità, ma anziché differenziali per l'intensità li distingue sulla
base del modo in cui essi assegnano parti e funzioni e dunque articolano uno spazio sociale. In questa
maniera ci consente di cogliere un'ulteriore implicazione.
Il cinema, fin dalla sua nascita esemplifica un regime estetico caratterizzato da una distribuzione
egualitaria dei sensi. Non a caso infatti molti teorici dei primi tempi parlano del cinema come un'arte
democratica per eccellenza: esso ammette alla visione le più diverse classi sociali e offre a tutti la
possibilità di vedere allo stesso modo. Il cinema espanso sembra radicalizzi questa strada: esso si apre
anche a tutti i tipi di immagine e a tutti i tipi di media. Lavora sull'inclusività. In questo senso incarna
bene l'emergere d quella che Rancerie chiama la grande paratassi, e che si pone al culmine di un
processo di equalizzazione; la volontà di unire il tutto con il tutto porta le arti non a collocarsi su un
terreno in cui ogni proprio sprofonda, a favore di una caotica giustapposizione, un grande indifferenziato
mescolamento di significati e di materialità. Anche il cinema espanso con la sua disponibilità verso l'altro
da sé, in qualche modo pratica il travaso e l'accumulazione.
Ebbene questo tentativo di ospitare dentro di sé nuovi pezzi di territorio, accompagnato dall'inevitabile
scivolare fuori dei propri confini, pare tipico dei processi di globalizzazione che caratterizzano oggi il
mondo. Il lavoro di aggregazione di nuovi modi di produzione, di nuove forme di consumo e di nuovi
linguaggi, e per converso la capacità di contaminare con la propria presenza nuovi ambienti sociali, nuovi
strumenti di intrattenimento e nuove forme di espressione, riflette bene la presenza di una rete sempre
più fitta e aperta di relazioni e di interscambi. Nel mondo globale ogni cosa può spostarsi da un ambito
all'altro, può diventare accessibile, può fondersi con un altro contesto. In questo senso il cinema espanso
può ben essere preso a simbolo di una circolazione del sensibile, più ancora che di una sua distribuzione
il visibile e l'udibile passano senza sosta da un ambito all'altro, anche a rischio di entrare in una terra di
nessuno.
Ranciere nota che la grande paratassi comporta due rischi: da un lato confina con la grande esplosione
schizofrenica in cui la fase si inabissa nel grido; dall'altro confina con il consenso alla grande eguaglianza
del mercato e della linguistica. Sono a ben vedere i due rischi che corre anche il cinema espanso: da un
lato quello di una sensorialità che non si connette più a dei significati,dall'altro quello di una dispersione
che porta a una perdita d'identità. Il cinema reagisce a questi rischi sviluppando strategie che preservano
o addirittura rafforzano la sua identità. Il cinema reagisce a questi rischi sviluppando strategie che
preservano o addirittura rafforzano la sua identità in particolare da un lato ricorre a un'altra definizione
sul piano sensoriale che lo riaggancia alla sua storia, dall'altra a immagini povere dotate però di una
forte carica critica. Questo ritorno dell'intensità ha come effetto una valorizzazione delle immagini: ne
esalta e raddoppia la presenza; evidenzia il loro ruolo documentale o il loro ruolo ludico; le fa entrare in
tensione con gli altri segni presenti nello spazio sociale. Il ritorno dell'intensità crea zone di
addensamento e zone di rarefazione che consentono al cinema espanso di uscire dalla omogeneità in cui
rischiava di cadere. Il sensibile ritorna a ridistribuirsi: le immagini ritrovano destinazioni precise in
rapporto a precisi effetti. Esse cercano di indirizzarsi da un lato verso coloro che vogliono aderire al
mondo, sia pur attraverso le sue rappresentazioni, dall'altro verso coloro che si fanno carico di una
coscienza critica nei confronti della situazione in cui ci troviamo.

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Questa doppia risposta trova un riscontro nei processi di globalizzazione e in particolare un riscontro nei
processi di globalizzazione e in particolare nei modi in cui si cerca di sottrarsi a essi. Contro la creazione
di una società indifferenziata, da un lato abbiamo soggetti che ricercano una fusione spesso mitica
dentro una comunità originaria; dall'altro abbiamo soggetti che cercano di controllare quanto avviene
attorno a loro in nome della ragione. Nel suo tentativo di restare cinema, il cinema espanso pare seguire
due piste: esso chiama lo spettatore o a ritornare membro di una comunità di sognatori, in un tempo e in
uno spazio limitati, o a riacquistare coscienza del mondo nella speranza di riprenderlo in mano. Lo fa in
modo soft ma effettivo, mostrando i rischi e le opportunità che stanno dentro ciascuna delle strade che
esso sembra perseguire.
Tra McLuhan e Rancière c'è più di un'affinità: qualunque strada il cinema prende, essa ci rivela anche la
trama delle relazioni in cui siamo immersi. L'espansione del cinema diventa allora più chiara: scegliendo
la strada della dispersione, o quella dell'adesione, o quella dell'autoconsapevolezza, esso fa emergere
anche territori diversi in cui vuole operare. Nel primo caso quello che entra in campo è il segno di una
circolazione indifferenziata dei segni capace di aprire la strada a una comunità globale; nel secondo è
una spinta a trovare nuovi centri di gravità che aggreghino una comunità attorno a un oggetto comune;
nel terzo è un tentativo di creare una consapevolezza collettiva che consenta a una comunità di agire e
autodeterminarsi. Il cinema espanso è ciascuna di queste strade, e nello stesso tempo tutte e tre
assieme.

5. IPERTROPIA

Piazza Duomo

Lo spazio conta. Una convinzione diffusa stabilisce che i media, prescindano sempre più dal senso del
luogo. La tv ha cominciato a far vivere in due posti simultaneamente, a casa nostra e dove accade
l'evento trasmesso; oggi i devices mobili ci consentono di essere in contatto con chiunque, e con
qualunque cosa, dovunque ci troviamo. In realtà, se ci mettiamo sul piano dell'esperienza, vediamo che
il dove continua a pesare. L'esperienza è sempre situata su un territorio, oltre che incarnata in un
soggetto e calata in una cultura. Ogni schermo occupa un posto, e insieme dà vita a un ambiente di
visione.
Lo spazio è anche un punto di contrapposizioni. I nuovi ambienti di visione che nascono attorno alla
presenza di uno schermo non sono mai del tutto pacifici: vecchie funzioni cercano di resistere; nuove
funzioni combattono per affermarsi. Anche spazi apparentemente dedicati sono sempre attraversati da
tensioni.
In questi nuovi spazi il cinema non rappresenta più una presenza fissa e scontata come era dentro la sala
buia. Non è più qualcosa che c'è; è semmai qualcosa che interviene, o anche sopravviene. Questo venir
incontro allo spettatore da parte del cinema ha come effetto una profonda trasformazione
nell'esperienza filmica. Se la sala tradizionale era un luogo in cui recarsi per potersi affacciare a un
mondo diverso da quello della vita quotidiana, e dunque in cui si lasciava un qui per spostarsi verso un
altrove, nei nuovi ambienti di visione, invece, il cinema, raggiungendoci dove ci troviamo, porta un
altrove al nostro qui. Ciò significa la dine della natura eterotrofa della sala tradizionale: i nuovi luoghi di
visione sono piuttosto caratterizzati da un'ipertrofia, e cioè dal fatto che un mondo altro si rende
disponibile, risponde alla convocazione, viene da noi.
A ben guardare, il cinema ha sempre ospitato questo movimento centripeto. Chi sedeva in sala, davanti
allo schermo, si sentiva proiettata nel cuore dell'azione, ma allo stesso momento si vedeva anche
raggiunto dalle immagini e dai suoni. Il cinema portava il suo spettatore altrove, ma anche gli
riconsegnava quanto la cinepresa aveva già catturato. Sotto questo aspetto il cinema, per quanto è stato
un arte eterotrofa, esso è anche stato costantemente tentato dall'ipertrofia. Oggi, rilocandosi, può forse
riscoprire questa sua vocazione più segreta.

Lo spazio della visione

Innanzitutto, è bene ricordare che lo spazio in cui si vive è un costrutto; è il risultato di una serie di
azioni fisiche o mentali che si applicano su di esso, per farlo diventare il nostro ambiente. Sono stati
numerosi gli studiosi che hanno messo in luce l'insieme delle pratiche capaci di trasformare un luogo
considerato semplice contenitore in un vero e proprio spazio di vita. Abbiano interventi diretti, processi
di appropriazione, riti di fondazione e così via.

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In questo quadro, non è illegittimo pensare allo schermo come a un presenza che produce spazio. Lo
schermo non occupa semplicemente un posto; semmai lo costituisce. Ciò è soprattutto vero per i nuovi
ambienti in cui esso interviene: qui il ruolo che esso svolge è attivo ad almeno 3 livelli.
In primo luogo la presenza dello schermo definisce o ridefinisce il contesto. L'ambiente si apre a una
nuova funzione, acquista un nuovo senso. Possono emergere come dal nulla, ma questa funzione e questo
senso possono anche sovrapporsi a una situazione precedente, magari senza cancellarla del tutto. Sia in
un caso che nell'altro, la presenza di uno schermo porta a determinare e a qualificare il luogo in cui esso
si inserisce, gli dà un'identità.
In secondo luogo la presenza di uno schermo riarticola lo spazio: fa emergere punti d'attenzione, segnala
alcuni elementi a scapito di altri, fissa nuovi confini. La configurazione dell'ambiente cambia e si
definisce un nuovo specifico impianto. Quel che qui interviene è un'operazione cartografica, quel che
emerge è una mappa del luogo.
In terzo luogo la presenza di uno schermo introduce una serie di istruzioni di comportamento. Se non
altro per poter vedere bene, l'osservatore è spinto a compiere certi atti, in conseguenza dei quali assume
certi atteggiamenti, posture e posizioni ideologiche, ecc. Il luogo qui assume una praticabilità
È attraverso questi passi che uno schermo interviene su un luogo; ed è grazie a essi che lo fa diventare
uno spazio della visione. Questi tre passi coinvolgono direttamente una dimensione semantica, sintattica
e pragmatica. Sotto questo aspetto lo schermo detta il suo linguaggio a ciò che lo circonda; o anche lo
schermo si appropria del luogo in cui si trova, lo ricategorizza a partire da sé, e lo investe della propria
azione diretta o indiretta.
In ogni caso lo schermo crea uno spazio della visione. Un luogo si raccorda a un occhio e da semplice
contenitore diventa ambiente da vivere.

Il cinema e i suoi ambienti

La presenza del cinema nei nuovi spazi di visione sembra contrassegnata da una certa ambiguità. Se per
un lato esso sembra portarli sul proprio terreno, per un altro verso crea anche situazioni più difficili da
decifrare, in cui la cinematograficità del luogo viene messa in discussione.
Non c'è dubbio che uno spazio della visione diventa uno spazio cinematografico quanto più si ricollega a
una tradizione. Tuttavia questo collegamento può avere diversi significati. Ad esempio l'home theater
ricorda da vicino lo spazio pubblico della proiezione. Per quanto sia collocato all'interno di un luogo non
aperto a estranei, esso può funzionare da vero e proprio sostituto della sala cinematografica. Del resto,
fin dai suoi primi anni il cinema pensa di poter operare anche entro le mura domestiche; e
parallelamente, fin dalla seconda metà dell'800, la casa è apparsa come un luogo prono a ospitare
tecnologie per la comunicazione e l'intrattenimento.
Nel caso invece della rilocazione del cinema dentro luoghi d'esposizione, l'imitazione della sala buia può
produrre effetti assai più sfumati. Maeve Connelly ha esaminato alcune installazioni che replicano da
vicino l'ambiente cinematografico tradizionale. Ebbene anche se questi progetti attingono chiaramente a
immagini, memorie ed esperienze del cinema come forma culturale con una lunga storia, non
costituiscono necessariamente un'evocazione nostalgica di una socialità perduta e idealizzata. Al
contrario, essi interrogano a fondo il tipo di legami sociali che il cinema ha saputo creare; ne
evidenziano alcuni aspetti, come la vicinanza si sconosciuti; esplorano i contrasti ta dimensione pubblica
e privata o tra senso dell'intimità e della collettività; provano ad allineare questa socialità con i ritmi e
le routine proprie della vita urbana; e infine ridisegnano e rilanciano l'idea dell'essere insieme che il
cinema ha cominciato a delineare. La somiglianza può essere utile a restaurare uno spazio
cinematografico; ma essa può anche avere una funzione più sottile, e in particolare nutrire una
progettazione rivolta al futuro, e persino introdurre discontinuità rispetto alla tradizione.
In secondo luogo la presenza del cinema nei novi luoghi di visione è contrassegnata da una sorta di
biforcazione. Essa sembra costringere lo spazio a disposizione. Nel primo caso il mondo raffigurato ha un
peso più modesto e lascia all'osservatore la possibilità di dominare quanto ha sotto li occhi; nel secondo
caso invece la rappresentazione assume la massima evidenza, si impone sull'ambiente circostante, e
quasi annichilisce l'osservatore. Questa differenza di taglia riporta alle origini del cinema, e in
particolare al passaggio dal fenachistoscopio o dal kinestoscopio con le loro piccole figura al Vitascope di
Edison o al Cinematographe dei Lumiere con le loro immagini a grandezza naturale, o anche più grandi.
Quando poi il cinema introduce il primo piano, in cui dettagli diventano giganti, ecco che scatta anche
un senso di minaccia e di smarrimento.
In realtà, al di fuori del cinema, è tutta la cultura iconografica dell'800 che lavora sui poli opposti del
minuscolo e del gigantesco. Questa contrapposizione diventa particolarmente evidente a metà secolo,
per un verso con la diffusione dei biglietti da visita con fotografia, a cui si contrappongono i billboards
sui muri delle città, e per un ltro verso con l'impadronirsi del paesaggio da parte dello spettatore grazie
ai visori portatili e per converso con il suo perdersi dentro i grandi panorami circolari.

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L'attuale varietà e diffusione degli schermi favorisce questo processo di gulliverizzazione, come lo
chiama Erikki Huhtamo: ci si confronta sempre più spesso con qualcuno o qualcosa che è estremamente
più piccolo o estremamente più grande di noi. La conseguenza è l'emergere di due situazioni divergenti.
Da un lato i piccoli schermi e le miniature danno vita a uno spazio del controllo. Dall'altro, con i
megaschermi e le figure gigantesche prende piede uno spazio dello spettacolo in cui godiamo della
magnificenza di ciò che è più ampio della vita. Il cinema-cinema è apparentemente su questo secondo
lato: ma non dimentichiamo che esso ha anche sempre alimentato pulsioni mirate a tener sotto controllo
il mondo.
In terzo luogo la presenza del cinema nei nuovi luoghi di visione crea risonanze. Per quanto uno schermo
assegni a un luogo nuove funzioni, l'ambiente conserva sempre memoria di quello che è stato e che in
alcuni casi continua a essere.
Nel caso dell'home theater, l'irruzione del cinema in un ambiente domestico, pronto a sua volta a
ritornare in primo piano, porta a una sorta di estetizzazione della casa. I dispositivi tecnologici sono
esibiti, non solo perché motivo di vanto, ma anche per il fascino che un oggetto di design suscita.
Talvolta questa estetizzazione coinvolge altri elementi: riviste di settore suggeriscono agli utenti
dell'home theater di associare ai film il cibo adatto, in modo da creare un'esperienza per così dire
integrata.
Sul versante opposto, c'è quello che si potrebbe chiamare una domesticità delle sale cinematografiche.
Infatti, in nome della comodità, oggi esse spesso adottano poltrone che sono veri e propri divani,
lasciano allo spettatore più spazio attorno, lo fanno insomma sentire come se fosse a casa sua.
Abbiamo forme di sovrapposizione anche negli spazi pubblici. La visione di un film su un aereo porta a
una forte privatizzazione di uno spazio collettivo: i passeggeri si immergono nella visione, si rifugiano
dentro il loro sedile, si allontanano dall'idea stessa di viaggio. Per converso, una media-facade porta a
una monumentalizzazione dello spazio pubblico: lo schermo funziona come se fosse un Landmark
piuttosto che a offrire una finestra sul mondo a spettatori curiosi.
Il cinema s'inserisce nei nuovi luoghi di visione non senza incontrare resistenze e non senza dar luogo a
negoziazioni. In particolare, esso crea spazi che si caratterizzano per una logica del "sia..sia": spazi
multipli che coontengono più cose, ma anche spazi in bilico che pensono da un parte o dall'altra. Il
cinema non è una presenza tranquilla: essa si accompagna a tensioni e riaggiusta menti, in un gioco
dinamico e aperto.

Nuove spettatorialità

Questo spazio cinematografico contrassegnato da una pluralità di accenti dà luogo inevitabilmente a


nuove forme di spettatorialità. Ciò che emerge sono atteggiamenti e comportamenti più complessi,
meno strutturati, più occasionali.
Ad esempio, i megaschermi negli ambienti urbani presentano soprattutto sport e pubblicità, ma anche
brani di film, trailer, documentari e videoclip. Si tratta di un materiale con un buon grado di interesse,
ma che non sempre riesce ad attrarre un'attenzione stabile. La conseguenza è che solo raramente si
costituisce un pubblico nel senso classico del termine; ciò che si forma è un semipubblico, a metà strada
tra l'aggregato casuale formato dai passanti e la potenziale comunità di spettatori.
Sul versante opposto, è indubbio che c'è una generale tendenza a far lievitare le forme di consumo
individuali. Gli schermi di dimensioni contenute lavorano con particolare forza in questa direzione.
Guardano qualcosa sullo schermo del tablet, del laptop o dello smartphone privatizzo la visione,
compresa quella filmica. Tuttavia capita che ci siano gruppi di persone, collocate in uno stesso spazio
che guardano la stessa cosa ciascuno sul proprio apparecchio portatile; qualcuno dà magari un'occhiata a
quello che passa sull'apparecchio del vicino. Qui la visione non è completamente privata: c'è come l'avvio
di una dimensione pubblica, senza che peraltro essa decolli. È un regime semiprivato.
Nello spazio di casa ci si può concentrare sulla visione, ma si può anche spezzarla, riorganizzarla in
ordine diverso, o completarla più avanti. Ciò introduce un atemporalità diversa da quella della funzione
tipica della sala: ci si affranca dalla durata imposta dal film. Ma un film rimane tale anche quando passa
su DVD; anzi, il fatto di poterlo vedere a pezzi, rallentato, tornando indietro, completandolo dopo
consente di cogliere aspetti che erano ì ,ma che uno sguardo normale non avrebbe mai rivelato. Ciò
significa che il DVD non abolisce completamente la continuità della visione; semmai la complica grazie a
passi che sembrano frammentarla e sospenderla. Il risultato è un regime che si potrebbe anche chiamare
si semicontinuità
Ritornando agli schermi di dimensioni contenute: essi consentono allo spettatore di muoversi mentre sta
guardando qualcosa. Tale condizione sembra anch'essa contraddire il modello classico della visione
filmica, che prevedeva un pubblico immobile di fronte a immagini mobili. Boris Groys ha però colto nel
modello classico una vera e propria incongruenza: alo spettatore, bloccato nella sua poltrona, viene
negata quella vita attiva che le immagini sullo schermo celebrano. Sotto questo aspetto, la visione in
mobilità può anche essere vista come un'uscita da questa incongruenza: lo spettatore vive per davvero il
mondo in trasformazione, non si limita a contemplarlo. Sotto questo aspetto la visione in mobilità non è

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cinematografica nei fatti ma lo è nella sostanza. Diciamo che la si può definire come
semicinematografica: cambia un'abitudine, ma riafferma la sua vocazione.

Eterogeneità e contingenza

Se è vero che uno schermo tende a costruire uno spazio della visione, non è detto che questo spazio
abbia i caratteri dell'esclusività e della permanenza. L'emigrazione degli schermi fuori dalla sala non
garantisce lo stesso risultato: per un verso la loro coesistenza con altri elementi, porta il cinema a
diventare una presenza più diffusa, ma anche più sfumata e più incerta.
I nuovi spazi della visione non sono, né possono essere più spazi dedicati. Essi si aprono al cinema, ma di
volta in volta, e mai proprio del tutto. Dipende dalle circostanze: sono esse che fanno lievitare il grado
di cinematograficità dell'ambiente. E dipende dagli equilibri momentanei: sono essi che decidono se il
cinema coabita con altri elementi. Uno schermo lavora per costruire punti di visione; ma non sempre
questi punti costituiscono un premio per gli occhi.
Questa dimensione contingente e occasionale può sembrare una condanna. Rilocandosi, il cinema allarga
il suo raggio d'azione, ma sembra spesso anche muoversi su un terreno non suo. Guadagna spazio, ma
perde il suo ambiente. Per un altro verso però questa dimensione apre anche uno scenario assai
interessante. Quando la presenza del cinema non appare più scontata esso diventa qualcosa in cui
imbattiamo, qualcosa che ci troviamo a scoprire. Ma anche in questo secondo caso, il cinema è un
elemento che interviene sforzando la situazione e imponendosi su altre possibili presenze. In questo
senso, dopo esser stato un'istituzione, esso si presenta sempre un'occorrenza. È dunque una realtà che
incontriamo, una realtà che ci viene incontro.
Victor Burgin, in un'appassionata analisi di quel che resta del cinema oggi, sottolinea con forza questo
suo venir incontro allo spettatore. Sono oramai i film che si avvicinano a noi, in mille modi e in mille
circostanze, anche attraverso frammenti, memorie, richiami. Il cinema preme per essere accolto, al
punto di rischiare qualche volta di assumere un'identità fantomatica. Negli spazi pubblici e privati in cui
il cinema si riloca, è come se esso si presentasse al suo spettatore, gli si facesse dappresso, volesse
raggiungerlo; insomma, è come se lo sorprendesse e gli si consegnasse. Lo spettatore non va più al
cinema; semmai lo trova sul suo cammino.
Andare al cinema

Considerations sur la situation du spectateur au cinema di Enrich Fieldman, pubblicato nel 1956, è
un'accurata e intelligente descrizione di che cosa significa andare al cinema.
Feldmann suggerisce l'esistenza di tre fasi nell'esperienza filmica. La prima è quella in cui lo spettatore
paga un biglietto e si avvia verso la sala. In questa fase, abbiamo a che fare più con un consumatore che
con un vero e proprio spettatore. Tuttavia la transazione economica è strettamente intrecciata alla
volontà di uscire dalla quotidianità per accedere a un nuovo spazio. In questo senso il pagamento del
biglietto è funzionale al superamento di una vera e propria soglia.
La seconda fase è quella in cui lo spettatore entra in sala e vi prende posto. La scelta della poltrona non
è banale: egli si può sedere accanto ad altri, mantenendo con loro un contatto, e sottolineando così il
fatto che in questa fase è più un membro di un pubblico che un vero e proprio spettatore; oppure può
scegliere di isolarsi e predisporsi alla visione. In entrambi i casi si è in una situazione intermedia: lo
spettatore non è più nella stessa condizione in cui era prima di entrare in sala; il legame con l'esterno si
va affievolendo; la terza fase ha avvio quando le luci si abbassano e comincia la proiezione. Abbiamo un
taglio netto con la realtà quotidiana, e insieme abbiamo un riorientamento dell'attenzione. È a questo
punto che lo spettatore diventa veramente tale: quando si dedica totalmente al film. Questa sua
disponibilità ha come conseguenza anche una forte adesione alle vicende raccontate: il mondo sullo
schermo viene preso per reale, e viene vissuto come se chi lo guarda ne facesse parte. Il proseguo della
pellicola consolida questa situazione. Lo spettatore entra nella realtà rappresentata.
Questo ingresso nel mondo raffigurato sullo schermo non si realizza però mai del tutto. Feldmann chiude
infatti il suo saggio dicendo che il racconto filmico presenta una serie di peripezie su cui è impossibile
intervenire. Per quanto riguarda lo spettatore si proietta e si identifichi nell'universo fittizio che il film
gli offre, continua a esserci una sottile barriera che lo tiene separato da esso. Lo spettatore, seduto in
sala, rimane sempre attaccato al mondo reale.
Feldmann offre un ritratto assi pertinente dell'esperienza cinematografica. Egli la riconduce a un
percorso che porta una persona ad abbandonare la quotidianità, a entrare in una sala dotata di uno
schermo e a cercare di penetrare nell'universo che prende vita su quest'ultimo. Andare al cinema
significa soprattutto lasciare un territorio consueto e affacciarsi cu un mondo altro. In questo senso si
tratta di confrontarsi con un'eterotopia, e cioè con l'esistenza di un luogo un po' speciale che, collocato
qui, si apre sull'altrove.

Dall'eterotopia all'ipertropia

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La nozione di eterotopia è stata avanzata da Michel Foucalut, in una conferenza tenuta nel 1967 ma
pubblicata solo nel 1984. Il termine si riferisce all'esistenza di spazi che mettono in comunicazione il
mondo in cui viviamo con situazioni che eccedono la normalità quotidiana. In tutti questi casi una
dimensione altra si rende presente dentro il nostro mondo, rimanendo separata, ma diventando anche
accessibile. Di qui una differenza assai marcata rispetto all'utopia: mentre quest'ultima è un altrove che
non ha un dove, l'eterotopia è uno spazio concreto che consente di arrivare all'altrove, partendo appunto
dal qui.
Tutte le culture hanno elaborato forme di eterotopia, sia pur con modalità e con scopi diversi. E tutte le
eterotopie hanno una struttura simile, Foucault descrive alcuni di questi tratti ricorrenti.
Ad esempio, esse sono spazi contrassegnati da una serie di soglie che siamo chiamati a sfidare e
superare.
Ancora essa possiede un disegno variegato, con tanti pezzi diversi che coesistono tra di loro. Il teatro, il
giardino esemplificano bene questa composizione eterogenea.
Le eterotopie sono anche luoghi che in qualche modo sospendono il fluire del tempo quotidiano. Il
cimitero, in cui si sancisce la fine della vita e insieme si istituisce una quasi eternità. Infine le eterotopie
hanno una doppia funzione. Creare uno spazio illusorio che denuncia come ancor più illusorio l'intero
spazio reale, tanto perfetto, meticoloso e ben sistemato, quanto il nostro disordinato, maldisposto,
caotico. In questo secondo caso si ha a che fare con eterotopie di compensazione, si cui le colonie
possono costituire un buon esempio.
Si tratta di veri e propri contro-luoghi. La sala cinematografica classica rientra bene tra le eterotrofie.
La sua triplice soglia, economica, fisica e simbolica, il suo accostare spazi differenti, quali sono uno
spazio della socialità e uno della rappresentazione, il suo sospendere il tempo quotidiani e immetterlo in
un altro flusso, e infine il suo essere insieme periferia e specchio della società, corrispondono
perfettamente ai caratteri descritti da Foucault.
Va notato che nei nuovi ambienti in cui il cinema si riloca la presenza di una sogli si assottiglia
moltissimo. Inoltre la loro composizione interna, più che variegata è variabile. Questi luoghi divisione
cambiano assetto di volta in volta. Ancora questi luoghi di visione sono veri contro-luoghi. Più che
riprendere e rovesciare la geografia del nostro mondo quotidiani, vi s'inseriscono perfettamente, fino a
farne pienamente parte.
La conseguenza è un rovesciamento della situazione precedente. I nuovi ambienti di visione non sono più
luoghi da raggiungere, ma semmai luoghi che s'incontrano sul proprio cammino. E le rappresentazioni che
si affacciano sugli schermi non costituiscono mondi verso cui protendersi, ma semmai mondi che
appaiono davanti a me, si offrono al mio sguardo e si mettono a disposizione. Insomma, in questi
ambienti non c'è più un aprirsi del qui verso l'altrove, ma piuttosto un altrove che arriva qui e si scioglie
in esso.
Questa nuova struttura spaziale è chiamata ipertrofia a sottolineare il fatto che anziché un decollo verso
un luogo altro, ci sono tanti luoghi altri che atterrano qui, fino a saturare il mondo. Il cinema, rilocato
lascia il terreno dell'eterotopia, e adotta questa nuova struttura spaziale. Viene lui raggiungendo il luogo
in cui ci si trova.

Accesso

Il passaggio dall'eterotopia all'ipertropia trova il suo riscontro forse più evidente nella mutazione della
parola accesso. Il termine implica il fatto che qualcuno si sposti, superi una soglia e si collochi in un
nuovo spazio, fino a condividerlo con chi già lo occupava. L'ingresso in una sala cinematografica
rappresenta bene una forma d'accesso: lo spettatore raggiunge un luogo, penetra al suo interno, e si
ritrova parte di un pubblico.
Il computer e la rete trasformano il significato della parola: accedere diventa sinonimo di acquisire e da
far proprio. L'elemento centra diventa possibile di consultare una serie di siti.
Non c'è dubbio che quando si naviga in rete, ci si mette in qualche modo in moto. Lev Manovich ha
riesumato due grandi metafore per caratterizzare il cibernauta: per un verso egli è come il flaneur di
Baudelaire, pronto ad attraversare con indifferenza tutta una serie di situazioni; dall'altra è come
l'esploratore dei romanzi di Twain, pronto a protendersi oltre il territorio conosciuto alla ricerca di un
mondo nuovo. In particolare i videogiochi sono costruiti sull'idea di un progressivo avanzamento da un
ambiente all'altro attraverso una serie di soglie. Ma questo movimento è appunto una metafora: in
realtà, lo spazio configurato dai programmatori non ha le caratteristiche di un luogo organico, in cui gli
oggetti sono strutturalmente incorporati; è piuttosto un insieme di elementi da afferrare singolarmente.
Come Manovich sottolinea, gli spazi virtuali non sono quasi mai degli spazi veri, ma piuttosto delle
collezioni di oggetti separati. Lo spazio del web è una raccolta di file, collegati da hyperlink ma privi di
una prospettiva generale in gradi di unificarli. Insomma, non c'è spazio nel cyberspazio.

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Del resto, l'obiettivo del cibernauta non è quello di trovare un nuovo mondo dove abitare, come era il
caso dello spettatore cinematografico classico. L'obbiettivo del cibernauta è recuperare quello di cui ha
bisogno. Non a caso l'attività con cui più spesso si misura è lo scaricare.
Non si tratta più di raggiungere un luogo ma si farsi raggiungere. E non si tratti più di entrare a far parte
di un territorio o di una comunità: semmai il problema è di prelevar dati e accumularli. L'accesso muta di
segno.
Tornando al cinema, non c'è dubbio che esso incarni un'idea tradizionale di accesso: lo spettatore entra
in un luogo, la sala, da cui può affacciarsi verso un mondo pronto ad accoglierlo. Ma il contesto in cui il
cinema oggi opera, e in particolare il fatto che la sua presenza obbedisca sempre più spesso
all'occasionalità, fanno sì che anche il cinema appaia più pronto a tendersi verso il pubblico più che a
chiedere a essi di spostarsi.
La visione di un film scaricato dalla rete illustra bene questo mutamento di direzione. Lo spettatore non
si muove dalla sua sedia. Quando nell'attraversare una piazza l'occhio cade su un display su cui sta
passando qualsiasi cosa connessa al mondo cinematografico in senso lato, ecco che quel qualcosa sembra
come pararsi davanti: conquista l'attenzione, e raggiunge. Infine ci si trova nella stessa situazione anche
quando si mette su un DVD: anzi, quel DVD è già qui, ha già raggiunto. Dunque non c'è più da andare
verso il cinema dello spettatore: c'è un venire del cinema verso di lui, quando il cinema non è già da lui.

Pantere e puma squarciano la superficie dello schermo

Questa situazione si rafforza ulteriormente se si pensa ai nuovi modi della rappresentazione filmica. Si
pensi in particolare al recente rilancio del 3D. Ebbene il 3D offre una rappresentazione che si sporge
letteralmente verso il pubblico quasi volesse invaderne lo spazio. L'universo diegetico cerca oramai di
raggiungere lo spettatore.
Questo estendersi degli oggetti verso il pubblico cambia il senso dell'intero dispositivo. La visione
prospettiva, cui il cinema classico ha pagato un lago tributo, offriva l'illusione di potersi immergere nel
mondo rappresentato. In particolare, essa costruiva un osservatore implicito, che si sovrapponeva e
cancellava l'osservatore reale, e che poteva venire inghiottito dalla rappresentazione stessa. Il 3D
rovescia questa impostazione. Innanzitutto il 3D presuppone un osservatore concreto capace di vedere
tridimensionalmente. Poi esso evidenzia lo spazio della sala. Ciò porta a costruire una relazione forte con
lo spettatore. La conseguenza è che la sottile linea di demarcazione tra lo spazio strutturato
dell'immagine e lo spazio variabile dell'osservatore si rompe. Il mondo sullo schermo non solo si sporge
verso lo spettatore: letteralmente ne invade l'ambiente.
Anche la recente adozione della stereoscopica da parte di un dispositivo come la televisione sottolinea
questa direzione.
Insomma, il film non e più qualcosa per cui ci si muove; è qualcosa che si acquisisce, si incrocia, o si
pesca tra ciò che è disponibile; ed è qualcosa che offre un mondo proto a estendersi ovunque. Anche il
cinema sta diventando un'arte dell'ipertropia.

Le radici dell'ipertropia

Ne L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, scritto negli anni 30, Walter Benjamin
contrapponendo alla fine del suo saggio il raccoglimento cui invita l'opera d'arte ancora legata all'aura, e
la distrazione che caratterizza l'atteggiamento delle masse propone una formulazione in cui ci sono due
direzioni: quella che porta il soggetto a immergersi nell'opera, e quello che porta l'opera a sporgersi fuori
di sé, e a consegnarsi nelle mani del soggetto. Quanto più si affievolisce il senso di un culto legato
all'pera, a favore di una sua vocazione a esporsi agli sguardi di chiunque, tanto più la prima direzione,
quella immersa, lascia il posto alla seconda, che da dell'opera letteralmente un proiettile. Del resto
questo arrivare dell'opera nelle mani del consumatore soddisfa il desiderio delle masse di impadronirsi
delle cose, di farle proprie. Così come esso è in perfetta sintonia con una percezione oramai dominata
dagli shock, dalla tattilità e dai test.
Ritornando al cinema, cui Benjamin nel suo saggio fa costante riferimento. L'idea che esso raggiunge lo
spettatore, oltre che chiamarlo a sé, emerge ben presto. Nel 1907 Giovanni Papini descrive il grande
successo che sta incontrando la nuova arte. Egli dice che il cinema appare come una realtà che sta
occupando la città e in cui è inevitabile imbattesi. Esso si fa in qualche modo incontro ai suoi spettatori,
fino a imporsi su di loro, per poi essere incluso nel loro mondo di vita. Qualcosa di inedito si radica in un
qui.

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L'idea di invasione si allarga dalla sala anche al mondo raffigurato. Una ventina di anni dopo Papini, un
altro studioso italiano, Antonello Gerbi, decanta le virtù dell'andare al cinema. La descrizione può
essere messa in parallelo con quella di Erich Feldmann, e corrisponde a un perfetto ritratto di un viaggio
verso l'altrove. Ma a un certo punto Gerbi apre uno scenario del tutto diverso: egli immagina che
l'operatore punti l'obbiettivo verso la sala. Quest'ipotesi che i personaggi dello schermo invadano la sala
è una terribile possibilità e collima con l'ipotesi che questi personaggi, liberatisi dal racconto in cui sono
costretti a vivere, possano venirci a trovare in ogni momento.
Quest'idea che il cinema non solo rapisca e porti lontano, ma anche si faccia dappresso, invadendo lo
spazio in cui ci troviamo, ritorna anche in un paio di racconti, coevi al testo di Gerbi, e anch'essi di
autori italiani. L'idea che il cinema non solo accolga lo spettatore, ma che persino s'imponga a esso e ne
invada gli spazi è ben diffusa nei primi tempi. Anzi, costituisce un sottofondo costante. Il cinema delle
origini è infatti essenzialmente un cinema delle attrazioni e cioè un cinema che esibisce la propria
visibilità, e che rompe il mondo autosufficiente della finzione per poter attrarre l'attenzione dello
spettatore. Il suo scopo è di offrire provocazioni sul piano percettivo e cognitivo, più che quello di
raccontare una storia nella quale identificarsi; così come il suo impegnava nella costruzione di un
destinatario diretto delle immagini, più che di un invisibile partecipante agli eventi. Sotto questo aspetto
il cinema delle attrazioni manifesta una logica non lontana da quella dell'ipertropia: le sue immagini non
invitano a entrare in un mondo altro, ma sorprendendo che sta seguendo il film, lo sovrastano con un
costante di più, ne riempiono i sensi e la mente. Lo spettatore non è richiamato altrove; è inondato di
stimoli là dove egli si trova.

Dappertutto qui

Se è vero che il cercare di raggiungere l'utente o lo spettatore è un gesto tipico dell'oggi, è anche vero
che esso ci accompagna da tempo. Forse non esprime più necessariamente i valori che Benjamin vi
riconosceva: lo shock è oramai scollegato dalla necessità di un training; l'appropriazione non ha più una
dimensione collettiva. Ma la direzione del movimento è la stessa. Anzi, questo gesto è come arrivato alla
sua maturazione: in un mondo oramai globalizzato, esso ci consente di pensare allo spazio in cui viviamo
come un qui in cui si affollano tutti i possibili altrove.
Nell'epoca classica del cinema egli ha costituito un eccellente esempio di eterotopia. Tuttavia, specie
alle sue origini, esso ha anche esplorato, magari sottotraccia, il modello inverso. Oltre alla possibilità di
vivere in un mondo altro, ci ha spinti ad afferrarlo e farlo nostro. Oltre a sollecitare tutti i meccanismi di
proiezione e di identificazione, ci ha provocato e invaso con le sue immagini. Ebbene, proprio questa sua
duplice storia gli consente non solo di vantare un precedente, ma anche di mettere in luce aspetti della
situazione attuale ch altrimenti andrebbero persi.
In particolare, il cinema ci ricorda che la tensione tra qui e altrove continua a essere attiva. Se perciò
oggi il qui si riempie di altrove si tratta di uno spazio che può far dialogare diversi lati del reale, e che
insieme conserva una componente di apertura al possibile. da un lato infatti l'affollarsi di altrove
trasforma il qui in una sorta di prima nel quale le diverse componenti del mondo in cui viviamo possono
fronteggiarsi e interagire. Dall'altro lato gli altrove che arrivano qui continuano a costituire una
sporgenza rispetto al luogo in cui mi trovo; portano con sé una differenza che non si può facilmente
ridurre.
L'ipertropia non porta necessariamente a un'assolutizzazione del qui. Anzi, ne può rilanciare la natura di
spazio che per quanto pieno, è nondimeno proto ad aprirsi, a trasformarsi, a rinnovarsi.
Il cinema è pronto ad assicurare questa dimensione di molteplicità e apertura. Proprio nel suo essere
ormai occorrenza esso offre di nuovo il sapore della sorpresa, della curiosità, della trasformazione. E nel
far questo esso rivela fino in fondo quanto lo spazio in cui ci si trova abbia una trama cangiante e
imprevedibile. Anche fuori dalla sala buia, il cinema rende il qui denso e promettente. È questo il frutto
del doppio legato che esso porta con sé.

6. DISPLAY

Gente comune

Timecode di Mike Figgis racconta 93 minuti della vita di un gruppo di persone che abitano a Los Angeles.
La durata del film e quella degli avvenimenti coincidono: la storia è raccontata senza intervalli e senza
tagli in un lungo piano sequenza. Ma il film è girato con quattro diverse cineprese digitali, in azione nello
stesso momento, e ciò che esse riprendono viene mostrato contemporaneamente, su uno schermo diviso
in quattro. Le vicende dei diversi personaggi qualche volta si incrociano in modo un po' casuale, e in
questo caso la cinepresa che segue l'uno può anche passare a un altro. Qualche volta le linee narrative

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confluiscono, e noi scopriamo retrospettivamente le correlazioni. Più spesso gli eventi procedono in
modo parallelo, senza che emerga un punto di contatto, ma senza che esso sia del tutto escluso. Noi
seguiamo le storie sui quattro riquadri accostati, saltando dall'uno all'altro, cercando di costruire
collegamenti, scegliendo quello che sembra il punto centrale, in qualche modo in balia del flusso di
immagini.
Questo schermo diviso in quattro ci rimanda ai nuovi tipi di schermo che all'inizio del nuovo millennio
cominciano a costituire una presenza consueta: esso richiama la struttura a mosaico dello schermo tv in
cui convivono molte informazioni nello stesso tempo; ma anche lo schermo del computer, con tutte le
applicazioni disponibili ben in vista; o i monitor impilati su cui arrivano le riprese delle telecamere di
controllo; e infine l'affollarsi di schermi nelle grandi media-facades di molte città. Timecode dice che lo
schermo del cinema non è più solo, e che anzi sotto l'influsso altrui esso sta cambiando natura. Non
possiamo più osservarlo come prima. Né possiamo aspettarci che esso ci offra lo stesso tipo di immagini.
L'idea che essi non siano più superfici su cui rivive la realtà. Sono semmai punti di transito di immagini
che circolano nel nostro spazio sociale. Servono per captare queste immagini, per renderle disponibili
per qualcuno in qualche luogo, magari anche per rilavorarle, prima che esse riprendano il loro percorso.
E dunque funzionano come snodi di un circuito complesso, costituito da numerosi e differenti punti.
Questa trasformazione dello schermo è in verità il sintomo di un cambiamento più generale. Fenomeni
come l'avvento del segnale digitale, la crescita della rete, la convergenza tra i dispositivi, ci fanno uscire
da un'epoca in cui i media operavano come strumenti per l'esplorazione del mondo e per il dialogo tra
persone. I media sono oramai dispositivi volti a intercettare l'informazione che satura lo spazio sociale e
virtuale. In questo contesto, anche il cinema si trova a interrogarsi sulla sua identità: scoprendo forse un
nuovo destino, ma anche una profonda continuità di azione.

Lo schermo cinematografico

Nel XIV secolo la parola italiana "schermo" indica qualcosa che ripara da agenti esterni, e che quindi
impedisce di vedere direttamente. In questa linea, essa indica anche qualcuno che viene usato per
mascherare il proprio interesse verso qualcun altro. Passando alla parola inglese, anch'essa nel XVI e XVII
secolo rimanda a superfici che proteggono in particolare dal fuoco o dall'aria. Ma screen o skren indicano
anche dispositivi più piccoli, con cui ci si nasconde dagli sguardi altrui, come i ventagli; oppure i
paraventi con una funzione soprattutto ornamentale. All'inizio del XIX secolo, il termine comincia a
coinvolgere l'universo dell'intrattenimento: nella fantasmagoria è quella superficie semitrasparente su
cui vengono proiettate dal retro una serie di immagini, e che dunque ci apre la vista su qualcosa di
nascosto. L'associazione con i dispositivi dello spettacolo si rafforza con il teatro delle ombre e
soprattutto con la lanterna magica. Contemporaneamente la parola, almeno in inglese assume anche un
altro significato: in epoca vittoriana essa rimanda a quelle superfici su cui si incollano figure e ritagli, a
costituire sia una collezione privata di immagini, sia una piccola esposizione pubblica. E' sulla base di
questo ricco retroterra che il termine nelle diverse lingue arriva a designare dalla fine del'800 in poi
tutte quelle superfici su cui si proiettano le immagini filmiche, trovando nella connessione con il cinema
il suo significato ufficiale. Il percorso della parola mostra una sovrapposizione di significati: ebbene, le
grandi metafore usate per lo schermo dalle teorie classiche del cinema ripercorrono tutte questa storia.
La prima metafora è quella della finestra: lo schermo è un'apertura nella barriera che ci tiene separati
dalla realtà; grazie ad essa, riacquistiamo un contatto con il mondo. L'ostacolo verso l'esterno è
rappresentato innanzitutto dai muri della sala cinematografica; ma per estensione si riferisce anche a
tutti i filtri che ci impediscono di vedere per davvero ciò che ci circonda. Tra questi le nostre abitudini e
i nostri pregiudizi, così come la presenza della scrittura che rende l'uomo leggibile ma non visibile. Lo
schermo è un vero e proprio squarcio che ci consente di ricongiungerci con la realtà e di vederla sia di
nuovo sia con una freschezza inedita. La metafora emerge in un intervento di Tullio Panteo del 1908.
Tuttavia troverà spazio più avanti nelle grandi teorie realistiche del cinema che si caratterizzano per la
voglia di riattivare uno sguardo diretto sulle cose, ma anche per la consapevolezza che per farlo si
debbano vincere resistenze, abbattere ostacoli, eliminare impedimenti. Il cinema consente di riscattare
il mondo da una sorta di prigionia nella quale è stato confinato.
La seconda metafora è quella del quadro: lo schermo è una superficie su cui prendono posto figure
capaci di ritrarre un mondo. Qui si ha a che fare con una rappresentazione delle cose. Il contenuto
dell'immagine appare come il prodotto di un lavoro di messa in scena. Tuttavia ogni volta che una
rappresentazione cerca di capire e di applicare le leggi della natura, ecco che arriva anche a mettere in
luce le linee di forza e le dinamiche interne di quanto è ritratto. La metafora è stata proposta
soprattutto dalle teorie formaliste del cinema. Ma soprattutto la si ritrova ogni volta che emerge la
consapevolezza che l'immagine filmica è basata su una strutturazione di elementi visivi, e insieme l'idea
che questa strutturazione sia in grado di ridarci appieno il senso del mondo in cui viviamo.
La terza grande metafora è quella dello specchio: lo schermo è un dispositivo che ci restituisce un
riflesso delle cose, compreso un riflesso di noi stessi. Anche questa metafora è già presente nelle teorie
delle origini. Tuttavia essa troverà il suo pieno sviluppo nell'approccio psicanalitico al cinema:

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quest'ultimo suggerisce che lo spettatore può identificarsi sia nei personaggi di un film sia nello sguardo
che li coglie e li segue sulla scena. Chi vede un film vede un mondo cui aderisce, ma anche un punto di
vista su questo mondo a cui può associarsi. In questo senso egli si vede vedere. Lo specchio riunisce ciò
che le due metafore precedenti tenevano separato: la prima sottolineava la possibilità di percepire
direttamente le cose; la seconda la necessità di passare attraverso la loro rappresentazione; questa
terza parla di un riflesso che fa vedere le cose così come sono, e che insieme ne offre alla fin fine solo
un'immagine.
Queste tre grandi metafore non sono le uniche. Anche se in mood assai più occasionale, quest'ultimo è
visto anche come una porta da cui si entra e si esce; esso è anche associato alla pelle. Ma lo schermo è
anche considerato un semplice supporto. Le tre metafore oltre che le più diffuse, sono quelle che meglio
indirizzano al cuore del problema. Esse individuano nello schermo il luogo in cui la realtà prende corpo e
si offre allo spettatore. Al cinema, abbiamo di nuovo accesso al mondo; attraverso la sua
rappresentazione, ne cogliamo anche la struttura e le possibilità.
Non è un caso che le prime teorie del cinema parlino spesso di epifania: sullo schermo le prime teorie
del cinema parlano spesso di epifania: sullo schermo la realtà si rivela in tutta la sua densità, e si rivela
a qualcuno che è capace di accoglierla. Questo richiamo all'epifania porta talvolta le teorie a pensare al
cinema in termini quasi religiosi: lo schermo assume allora un ruolo ancor più essenziale, in quanto
elemento al centro di un rito. Se è vero che i media sono il sistema nervoso di una società, lo schermo
filmico è a tutti gli effetti sia una terminazione cui raccogliamo dati dall'esterno, sia un organo con cui li
rielaboriamo, sia infine un dispositivo di autoregolazione e auto riconoscimento.

Oltre il cinema

Lo schermo televisivo è diverso da quello cinematografico. Tuttavia, nei suoi primi decenni di vita esso
richiama le stesse metafore: si presenta come una finestra, per quanto le pareti su cui si apre siano
quelle di una casa; è un quadro, per quanto i suoi contenuti trovino nuove forme di ricomposizione; ed è
uno specchio, per quanto rifletta più una società che un individuo. Dunque la prima televisione non
cambia un sistema di concetti che sembra ben consolidato.
C'è però una metafora che si aggiunge alle altre, e che in qualche modo segnala una nuova direzione. La
televisione è anche un caminetto di fronte a cui si riunisce la famiglia. La metafora non serve solo a
sottolineare come il medium di adatti alla abitudini consolidate. Essa indica anche come questo schermo
porti il mondo esterno in casa, irradiandolo come la luce dal fuoco, e dandogli la continuità di un calore
che permane. Dunque l'epifania diventa quotidiana.
Un maggior senso di novità è portato negli anni 60 dal fiorire delle installazioni multi schermo. Una prima
forma d'installazione consiste nella proiezione di un film su più superfici contemporaneamente. La World
Fair di NY nel 1964-65 presenta più di un esempio in questo senso: in particolare uno spettacolo di
Charles e Ray Eames con 14 proiettori e 9 schermi. Andy Warhol reinterpreta questa struttura in chiave
sperimentale: usa proiezioni multi schermo in occasione dei concerti-spettacolo del suo Exploing Plastic
Inevitable del 1966. La seconda forma di installazione è quella ottenuta impilando tutta una serie di
apparecchi video. Anche il videowall fa i suoi primi passi negli anni 70; anch'esso ha lo scopo di dare allo
spettatore l'impressione di essere immerso nelle immagini; e anch'esso trova una reinterpretazione
nell'opera TV Cello di Nam June Paik, una serie di tv accatastati a formare la sagoma di un violoncello.
Con l'installazione multi schermo, lo schermo dice apertamente di sentirsi stretto nei suoi tradizionali
confini. È negli anni 70,80 e 90 che una serie di estensioni diventano stabili, e soprattutto lo schermo
comincia a diventare una componente essenziale di media del tutto nuovo. Quanto alle estensioni, si
pensi alle connessioni del televisore con il VCR e la console per videogiochi. Quanto ai media nuovi, si
pensi al pc e ai cellulari che in questa stagione cominciano a diventare oggetti d'uso comune. Ma si pensi
anche al DVD player, che consente un consumo personale di video fuori le mura domestiche; o agli
electronic organizers che cominciano a sostituire le agende cartacee. E infine si pensi allo sviluppo delle
media facades. I media diventano media-schermo.
Questa esplosione degli schermi, che proseguirà con maggior impeto anche nel decennio successivo,
porta a un vero e proprio punto di svolta. Non si tratta solo di un fatto tecnologico. Si tratta piuttosto di
una trasformazione concettuale: è l'idea stessa di schermo che cambia. Tre elementi sono cruciali.
Innanzitutto la grande diffusione degli schermi consente a un contenuto mediale di moltiplicare le
occasioni e i modi in cui presentarsi. Ancora: il ftto che questi schermi siano il più delle volte collegati in
rete consente di far rimbalzare un contenuto da un punto all'altro, e dunque di diffonderlo su larga
scala, ma anche spesso di trasformarlo. Infine, e più radicalmente: la penetrazione di questi schermi
permette di vivere o rivivere le esperienze mediali in nuovi ambienti e su nuovi devices. Si ha dunque
una spalmabilità dei contenuti su più devices; un'interconnssione dei punti di ricezione tra di loro; e una
riattivazione delle esperienza in più ambienti.
Questa nuova situazione porta lo schermo ad assumere un nuovo statuto. Collegato ai nuovi devices, esso
non appare più esclusivamente come il luogo di un'epifania del reale; tende semmai a essere una
superficie su cui transitano le immagini che circolano nello spazio sociale. Sullo schermo si addensa

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l'informazione da cui siamo circondati: essa si arresta per un attimo, interagisce con l'ambiente
circostante, si ricompone talvolta in una nuova forma, per poi ripartire per altri punti, in una sorta di
movimento continuo.

Nuove metafore per lo schermo

Non c'è dubbio che le vecchie metafore non funzionino più: si tratta di vedere da quali altri vocaboli
sono state sostituite.
Il primo termine è indubbiamente monitor. Oggi lo schermo serve sempre più spesso a ispezionare quanto
ci circonda, ad analizzarlo, a verificarlo. La finestra diventa uno spioncino attraverso cui scandagliare la
realtà, nell'eventualità più che probabile che essa nasconda pericoli nei nostri confronti.
Lo schermo come monitor è innanzitutto quello che troviamo nei grandi centri di sorveglianza o nelle
portinerie dei grandi complessi abitativi o commerciali. Una serie di visori a formare una sorta di muro.
In molti casi, davanti agli schermi ci sono membri della security. Ma in molti circuiti chiusi le immagini
raccolte dalle telecamere vengono semplicemente registrate: non c'è nessuno che le guardi.
Qui tutto è sorvegliato, ma non ci sono più sorveglianti: nessuno guarda, poiché la finalità non è
osservare ma semplicemente raccogliere dati, da richiamare in caso di bisogno. Questa situazione è
indubbiamente sintomatica del passaggio da una società disciplinare a una società del controllo, qual è
quella in cui viviamo. Ciò tuttavia non toglie importanza al fatto che il monitor implichi uno sguardo, ma
non necessariamente un osservatore.
Ritroviamo questa stessa contraddizione, in una forma ancora più paradossale: il GPS. Anche il GPS è uno
strumento per tenere sottocontrollo il territorio, al fine di evitare inconvenienti e insieme di
approfittare di alcune opportunità. Ora nel GPS si ha apparentemente un ritorno dell'osservatore. Ma lo
sguardo richiesto dal GPS è ben diverso da quello tradizionalmente legato a uno schermo: è uno sguardo
intermittente, che scatta solo o soprattutto nei momenti di bisogno; ed è uno sguardo con più fuochi
d'attenzione. È uno sguardo che si è reso ormai largamente indipendente e autonomo. Sotto questo
aspetto, il GPS conferma che i monitor, mentre hanno bisogno continuamente di alimentarsi di nuove
informazioni, non sempre hanno bisogno di un occhio che li scruti e li osservi. La seconda parola chiave
che sembra definire gli schermi attuali (a sostituire la metafora del quadro) è bacheca o anche lavagna.
Sulla superficie degli schermi odierni incontriamo sempre meno rappresentazioni capaci di restituirci il
tessuto del mondo, e sempre più frequente figure che funzionano come promemoria, come segnali, e
soprattutto come istruzioni di comportamento.
Gli schermi che si trovano nelle sale d'aspetto, nelle stazioni, o su mezzi di trasporto. Su di essi passano i
brani più diversi. Lo scopo di questi brani è semmai quello di aiutare a passare il tempo e insieme di
prepararci a mosse future. Più che frammenti di mondo, abbiamo appunto istruzioni di comportamento.
La stessa cosa si può dire dei video che all'interno dei negozi, raffigurano le merci esposte sui banchi. Ciò
che veramente conta sono le informazioni che essi portano con sé. È sulla base di queste informazioni,
spesso evocative ed emozionali, che noi moduleremo il nostro comportamento. La loro presenza però
avrà fatto da velo rispetto al reale: noi abbiamo cessato di guardare alle cose attraverso la loro
rappresentazione: abbiamo piuttosto guardato a un insieme di direttive che ci sono state indirizzate.
Moltissime home page di siti istituzionali non funzionano troppo diversamente. Si pensi alla home page di
molte scuole o di molte università. Esse raccontano la vita accademica con una profusione di foto
accattivanti: apparentemente c'è tutto un mondo che si dischiude. Ma questa illustrazione fa da ponte
verso box o link che offrono informazioni dettagliate per diversi utenti del sito. Una possibile esperienza
di vita si trasforma in una serie di annunci.
Sono forse i videogiochi a offrirci l'esempio più chiaro di schermo come bacheca o come lavagna.
'immagine che essi presentano è sostanzialmente costituita da un gruppo di figure dal valore variabile su
cui il giocatore deve intervenite. Questo valore è per lo più definito da un punteggio; in base ad esso, il
giocatore decide la propria mossa; la sua mossa determina spesso una variazione dei valori e questo a su
volta determinerà nuove mosse. L'attenzione è soprattutto rivolta a un insieme di valori e a un menù di
possibili linee d'azione. Per un giocatore dunque non si tratta di godere di una rappresentazione, ma di
muoversi in una selva di istruzioni. In molti di questi giochi l'essenza dell'azione consiste nel distruggere
quello che si presenta davanti al giocatore. Ciò significa che non solo il mondo raffigurato, per quanto
possa essere reso in modo realistico, ha una valenza del tutto astratta; ma anche che questo mondo
raffigurato è essenzialmente destinato alla decomposizione.
Questo flusso di informazioni può poi costituire a suo modo una realtà. Ma si tratterà non tanto di una
realtà in senso empirico, quanto di una realtà che nasce dal sovrapporsi di stati di fatto, azioni possibili,
commenti, valori, ecc.
Il terzo modo di descrivere gli schermi attuali, al posto della metafora dello specchio, è quello di
pensarli come album o come pareti su cui appendere ritagli. Lo spettatore contemporaneo infatti fa
oramai fatica a riflettersi in un personaggio o in una storia; preferisce costruire un'immagine di sé in
prima persona, assemblando foto, testi e commenti spesso prelevati altrove, e affidando questi materiali

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eterogenei a un blog o mettendoli in circolo in un social network. Dunque più che identificarsi in
qualcosa o in qualcuno, egli ritaglia, incolla, compone una pagina, e la spedisce.
L'home page personale è il primo esempio di uno schermo come scrap book. Abbiamo letteralmente un
mosaico di testi e di figure che si accumulano giorno dopo giorno a raccontare la vita del blogger. I
materiali utilizzati sono solo in parte autoprodotti; molto spesso sono recuperati altrove; e una volta in
rete, sono destinati a essere utilizzati per raccontare anche altre vite. Dunque il ritratto è vero; ma
scomposto e ricomposto, esso potrebbe applicarsi a chiunque. Ciò significa che il flusso di dati, notizie e
citazioni è quasi più importante della rappresentazione di una soggettività.
In social network tipici del web 2.0 come Tumblr, questa condizione si riaffaccia in modo ancora più
radicale. Grazie alla presenza di un feed reader, la pagina si carica di contenuto prelevato altrove, fino a
formare una sorta di giornale che contiene ciò che l'utente legge a cui è interessato. Nella sua dashboard
appaiono in ordine cronologico i post degli altri blogger, a cui l'utente talvolta aggiunge un commento o
una correzione. L'effetto è quello di un grandissimo accumulo di citazioni, richiami, fonti, con una
relativa scarsità di interventi propri. Certo, la personalità dell'utente continua a manifestarsi dentro
questo accumulo: ma lo fa grazie al tipo di link a cui egli si connette, assai più che per quello che egli
direttamente dice. La sua voce dunque alla fin fine appare null'altro che un montaggio di voci altrui.
Ma anche quando questa voce si fa diretta, le cose non cambiano troppo. Ad esempio, su Twitter e
Facebook c'è più spazio per uno scambio di opinioni. Tuttavia l'intervento personale è canalizzato su
poche possibilità. Inoltre questo intervento è limitato nello spazio e quindi spesso poco significativo. Esso
dipende dal materiale che viene man mano postato. E infine esso riflette pensieri e opinino strettamente
dipendenti dal tema toccato dalla discussione.
In questi social network abbiamo una presentazione di sé che si basa su un montaggio di materiali spesso
presi in prestito da altri, e fortemente legai alla contingenza. Lo stesso insieme di materiali può anche
essere combinato a rappresentare diverse personalità. E se esso evolve, può seguire un percorso di
trasformazione personale; ma più spesso segue semplicemente il succedersi delle circostanze. Queste
caratteristiche mettono ben in luce i limiti di queste presentazioni di sé: esse valgono per come sono
montate, più che per quello che veramente dicono; e valgono per un individuo, ma non solo per lui e non
per sempre. Ciò potrebbe spingerci a dire che il partecipante al social network, nell'attimo stesso in cui
presenta un proprio autoritratto, apre le porte alla sua dissoluzioni. In realtà, ciò che si perde è il
tradizionale processo di proiezione-identificazione, studiato dalla psicologia e per il cinema ben
analizzato da Edgar Morin: il partecipante al social network non trova più storie fatte e finite in cui
immedesimasi completamente; egli vive in mezzo a un continuo flusso di dati, disponibili per ogni
evenienza; raccoglie il materiale che gli sembra più significativo e più vicino; ricompone questo
materiale in un insieme sempre variabile; e fa della propria vita un bricolage.

Dallo schermo al display

Le nuove parole chiave indicano assai bene quanto il nuovo schermo sia ormai distante dal vecchio. Se è
vero che continuiamo a confrontarci con una superficie rettangolare su cui appaiono figure in
movimento, è anche vero che questa superficie non implica più direttamente una realtà, una visione, un
osservatore. Questo nuovo schermo è collegato a un continuo flusso di dati ma non più né a uno sguardo
attento alle cose, né a un mondo che chiede di essere testimoniato, né infine a un soggetto che si
riflette in quanto vede. Dunque una connessione e una disconnessione: abbiamo una massa di figure
sempre disponibili ma non necessariamente indirizzate a qualcuno, e non necessariamente destinate e
restituirci il nostro mondo.
Il concetto di display può forse dar meglio l'idea di questo nuovo schermo. Il display mostra, ma solo nel
senso che mette a disposizione, che rende accessibile. Un display semplicemente rende presenti le
immagini. Lo schermo-display trova infatti la sua più completa realizzazione nel touch screen. Qui
l'occhio si collega alle dita, e sono queste che segnalano se l'osservatore ritorna a prestare attenzione, e
quale attenzione egli presta. Il tocco sollecita l'arrivo delle immagini, ma ancor più guida il loro flusso.
Se l'occhio sovraintende alle operazioni, è la mano che le guida.
Ora è semmai lo spettatore che sorprende e prende le immagini che scorrono davanti a lui. Immagini non
necessariamente capaci di restituire la realtà in quanto tale. Neppure direttamente destinate a
qualcuno, è il loro scorrere l'elemento che conta. E infine legate forse più a una mano che a un occhio.
Lo schermo display rende appunto presenti queste immagini. È lì che esse escono dal flusso e si
arrestano. È lì che esse diventano disponibili, ma anche rimaneggiabili.
Non tutti gli schermi che ci circondano rientrano pienamente nella categoria dei dispay. Continuano a
esserci momenti in cui la realtà che ci circonda si ripresenta a un osservatore interessato e coinvolto. Ciò
può accadere sugli stessi devices che di solito sembrano negare la possibilità di un'epifania. Del resto il
pc o il cellulare sono ancora largamente usati per la diffusione di filmati d'inchiesta, per alimentare
discussioni pubbliche, o per costituire comunità effettive. C'è ancora spazio per testimonianze dirette
che riallacciano a un'esplorazione e a un dialogo.

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Ma per quanto il paesaggio attuale si a assai articolato, le tendenze in atto portano verso lo schermo-
display. Una superficie in cui troviamo una realtà che va oltre i dati empirici, dal momento che mescola
prelievi, informazioni, ed elementi possibili. E sui si esercita uno sguardo che va oltre i tradizionali poli
della contemplazione o dell'analisi, dal momento che è accompagnato da una manipolazione di ciò che si
guarda.
L'epoca della finestra, della cornice e dello specchio sta tramontando.

Un nuovo scenario?

Questa trasformazione dello schermo p sintomatica di un mutamento più vasto che investe i media nella
loro globalità. Questi ultimi sono apparsi a lungo come meccanismi di mediazione tra noi e il mondo e tra
noi e gli altri: servivano a fornire informazioni e a spartirle tra più soggetti. In questo senso si
presentavano come strumenti di trasmissione e di dialogo.
Oggi entriamo in una nuova dimensione: si tratta di devces che servono soprattutto per accedere a
informazioni e servizi. Grazie a essi noi recuperiamo una serie di dati, magari in modo casuale, ma in
ogni momenti e in ogni luogo. O meglio ancora, intercettiamo elementi che sono presenti nello spazio
sociale e in quello virtuale, li utilizziamo nella situazione in ci troviamo, per poi lasciarli per così dire in
riserva. Insomma, captiamo, adattiamo e poi rilasciamo.
Questa caratteristica, può essere facilmente riconosciuta in tutti i media contemporanei. Ciò che essi ci
invitano a fare, è catturare qualcosa che è a disposizione. Con questo c'è una circolazione di
informazione su cui ci si deve innestare. I media sono appunto componenti essenziali di questa
circolazione. Funzionano come sondi di circuiti interconnessi. Trattengono i dati perché li possiamo
afferrare. Ne consentono l'adattamento alla situazione in cui ci troviamo, e ci aiutano a costruire con
essi nuove situazioni. Ci permettono di rielaborare quello che abbiamo trovato. E infine rilanciano questi
stessi dati, dopo che sono stati utilizzati e rielaborati, dentro diversi circuiti. Insomma, i media sono
luoghi in cui informazioni in continuo movimento si scaricano e si ricaricano per perseguire le loro
traiettorie.
Un tale orientamento trova una conferma nel crescente successo di applicazioni come i feed readers:
programmi volti sia a fornire agli utenti dati sempre freschi, sia ad aggregare questi dati tra di loro. Così
come esso trova una riprova in pratiche come la mietitura nel web: una ricerca nella selva dei dati che
arrivano o possono arrivare, al fine di setacciarli, di tenerli in vista ed eventualmente di immagazzinarli.
In un caso o nell'altro, l'obiettivo è acquisire, montare e archiviare le informazioni che circolano.
Non abbiamo più prioritariamente a che fare con un rinvio mirato di messaggi e con un confronto tra
persone. C'è ancora spazio per l'annuncio e per il dialogo: ma c'è soprattutto un'enorme massa di dati che
gira e che occasionalmente si arresta per poi ripartire. I media sono lo strumento per un rallentamento e
insieme per un'accelerazione di questo moto perpetuo. Grazie ad essi ci poniamo in un punto di transito.
La cosa vale anche per i media visivi. L'immagine oggi nasce da un amalgama di elementi che si
concretizzano secondo le circostanze. E anche quanto è frutto di una presa diretta, essa è parte di un
flusso informativo che la rende disponibile per nuove combinazioni e per nuove circostanze. L'immagine
è un aggregato di dati provvisori e in movimento. Importa che essa circoli, e che possa fermarsi da
qualche parte e poi ripartire.
Vilém Flusser ha offerto un efficace ritratto di questa situazione. Il suo punto di partenza è la
constatazione che la realtà attorno a noi è andata in frantumi. Ciò non impedisce di avere un'immagine
di questo mondo: solo che essa non può più basarsi su una visione capace di ripercorrere i contorni delle
cose, ma deve emergere da un calcolato montaggio dei diversi frammenti, da un lavoro di
uniformazione. È quello che fanno i media: essi bloccano l turbini dei dati e li ricompongono in nuove
figure. Lo fanno meccanicamente, seguendo automatismi prefissati da cui è difficile evadere. E lo fanno
un po' alla cieca, offrendo diverse combinazioni, alcune delle quali del tutto imprevedibili. Anche per
questo le immagini che forniscono non costituiscono più una testimonianza in senso stretto. E nondimeno
quel che i media rendono presente continua ad avere a che fare con la realtà: solo che è un mondo che
si viene formando e contiene soprattutto elementi possibili. Sotto questo aspetto, le immagini tecniche
ci riavvicinano comunque alle cose. Ci fanno uscire dall'astrazione in cui il mondo è precipitato; ci
riconsegnano qualche senso; si prestano a qualche progetto.
L'efficacia di queste immagini dipende molto dal come e dal dove si uniformano. Soprattutto la
situazione in cui prendono corpo, è del tutto decisiva. Se è vero che il destino di queste immagini è di
essere perennemente in transito, è anche essenziale dove esse atterrano. La loro forza, il loro senso e
persino la loro valenza politica nascono in buona parte dalla loro rilocazione. Non è più uno scambio, ma
circolazione; non è più una realtà meramente fattuale, ma una realtà che nasce dalla ricombinazione di
pacchetti di informazione; un turbinio di dati che talvolta si arrestano e si ricompongono, per poi
ripartire in accelerazione; ma anche presenze che prendono corpo davanti a noi, e che sulla base di
questa circostanza riescono ancora a parlarci delle cose.

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Il cinema: un elemento in controtendenza

Per un verso il cinema rappresenta un punto di resistenza rispetto al processo descritto sopra per almeno
tre buone ragione, legate soprattutto alla sua storia. Innanzitutto, esso ancora largamente prigioniero di
una tradizione che lo verde come l'arte o il medium il più prossimo alla realtà. Il cinema continua a
essere un calco del mondo; le sue immagini continuano a possedere una larga valenza documentaria. In
secondo luogo il cinema porta ancora con sé il sogno di un'organicità. I racconti che esso ci offre mirano
a costruire mondi strutturati, coerenti, densi: quello che ci mostra rivela sempre una forte consistenza.
In terzo luogo il cinema è ancora basato su un sistema di broadcasting. Un film viene distribuito
attraverso percorsi prefissasti e arriva in punti prestabiliti. Dunque il peso di una tradizione realista, la
forza di una narrazione, la certezza di una distribuzione: il cinema sembra canalizzare le immagini e
condurle verso una referenza, verso un testo e verso un destinatario ben definiti.
Questa caratteristica del cinema non lo confina tuttavia ai margini dei media. Al contrario mostra alcune
contraddizioni del panorama contemporaneo. È sintomatico che per quanto non si creda più alle
immagini come una volta, continui a manifestarsi un bisogno di verità. lo si vede nei molti filmati su
Youtube che vogliono documentare fedelmente un evento, ma anche dalla presenza di un sito come
Photoshopdisaster.com, animato dalla volontà di denunciare gli inganni perpetrati con Photoshop. Il
persistente successo di film tratti da storie vere e ancor più la crescente rilevanza del documentario
testimonia come il cinema entri direttamente in uno degli snodi problematici dei media contemporanei.
La stessa cosa si potrebbe dire per la narrazione. Pr quanto oggi trionfino forme brevi il bisogno di storie
non sembra affatto morire. Lo si vede dal fiorire di metopiche sul modello di Tolkien o su quello dei
supereroi; m alo vediamo anche nel gusto dell'avventura che anima molti videogames, tanto quelli a
vocazione fantastica, quanto quelli di ispirazione storica. Il cinema, con la sua durevole vocazione a
fungere da narratore, testimonia bene questa resistenza contro la morte del racconto.
Infine, è sintomatico che per quanto si lascino i circuiti il più possibile aperti, il bisogno di una ricezione
effettiva, concreta, continui a essere presente. Lo si coglie nel piacere di sentirsi implicati in ciò che si
guarda. Ma anche nel conto dei contatti e nello spazio lasciato ai commenti. Di nuovo il cinema,
attraverso la richiesta di una forte attenzione per le immagini e i suoni, e insieme attraverso la
permanenza di specifici luoghi di consumo, testimonia questo bisogno di concretezza.

Il tempio e il portale

Ma se è vero che il cinema rilancia e rinforza le contraddizioni che attraversano l'epoca delle immagini
tecniche, è anche vero che esso non può esimersi dal partecipare al suo tempo. Anch'esso è attraversato
ormai dalla logica del display. Non è un caso ch ei mondi rappresentati sullo schermo siano sempre più
spesso fluidi, che le storie siano sempre meno consequenziali, che gli ambienti siano spesso instabili e
che le scene siano sempre più basate su collage e mosaici. Né è un caso che il cinema peschi ormai
regolarmente storie e figure da altri media, e insieme offra ad altri media le proprie storie e le proprie
figure, in una sorta di continuo scambio. E infine non è un caso che il cinema stesso cerchi
continuamente nuoci ambienti e nuovi devices sui cui spostarsi. Ciò con cui abbiamo a che fare sono
forme e situazioni instabili, provvisorie e contingenti che si riconfigurano per un attimo per poi ripartire
lungo nuovi tragitti.
Il cinema si limita a localizzare le immagini e dà loro un come e un dove definiti ma non definitivi: un
come e un dove che delineano la situazione entro cui le immagini possono operare, ma che permettono
loro di conservare anche tutta la loro mobilità e tutta la loro potenzialità. Del resto la localizzazione
serve proprio ad arrestare per un attimo le immagini in circolazione; a farle interloquire con il contesto
che esse stesse, arrestandosi, creano attorno a sé; a renderle grazie a questa interlocuzione dotate di
senso; ma senza per questo spegnere le loro ulteriori possibilità.
Questa capacità dà al cinema un nuovo e più forte ruolo rispetto ai luoghi della visione. Per un verso, in
una fase in cui la fruizione è soprattutto individuale, spesso casuale, e tendenzialmente in uno spazio-
temp neutro, il cinema ci ricorda che le immagini possono atterrare anche in ambienti concreti, davanti
a un pubblico, in una circostanza precisa. Per un altro verso, però, il cinema conferma che le immagini si
fanno ormai difficilmente ingabbiare: il loro arresto è necessario ma è anche sempre provvisorio. Ne
deriva che il luogo della fruizione va oramai pensato come un ambiente variabile, caratterizzato da
incontri accidentali e da una fuggevolezza di quanto appare. Ciò vale per gli spazi cinematografici, ma
per estensione può essere detto anche di tutti gli spazi in cui la presenza di uno schermo porta al
formarsi di una comunità di spettatori.
Abbiamo ancora bisogno di spazi pubblici in cui accogliere e vivere le immagini. Ma essi non possono
essere più templi di un rito prefissato. Né possono essere più ambienti per un pubblico docile, pronto ad
abbandonarsi a quanto vede, come la teoria successiva li ha spesso descritti. Possono essere solo punti di
incontro tra immagini e spettatori entrambi in transito.
Il cinema continua a funzionare da emblema, vanno notati tre grandi titoli di successo che hanno
marcato il primo decennio del 2000: la trilogia di Matrix dei fratelli Wachowski, Minority Report di

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Steven Spielberg e Inception di Christopher Nolan. Tutti questi film mettono in scena il tentativo di
intercettare immagini, di cercare di capire in rapporto alla situazione, e di definire a chi esse si
rivolgono. Questi film mostrano con grande efficacia in che cosa consiste oggi il fatto di localizzare
immagini in transito per spettatori in transito. Sono del resto essi stessi in transito, pronti a trasferirsi su
schermi tv o del pc, a diventare videogiochi, e farsi immaginario sociale. Emblemi di cosa vuol dire
vedere, oggi, in un'epoca di display. In questo senso, ritratti dell'attuale condizione dei media. E ritratti
di cosa il cinema, in questo contesto, può ancora dire o può ancora insegnare.

7. PERFORMANCE

Anna, Nana, Nicole

Anna e Nicole si sono date appuntamento al cinema, ma sono finite in due sale diverse: la prima a
vedere Vivre sa vie di Godard, l'altra a vedere The Adjuster di Atom Egoyan. Anna si mette in contatto
con Nicole con un sms a cui Nicole risponde. Nel film di Anna, Nana, la protagonista, è entrata in una
sala di cinema in cui stanno proiettando La passion de Jeanne d'Arc di Dreyer. Uno spettatore si siede
accanto a Nana, interessato a lei e non al film; nello stesso momento, anche nel film di Nicole la
protagonista, Hera, è al cinema ed è accostata da un uomo. Nana continua a vedere La passion de
Jeanne d'Arc: un frate, interpretato da Antonin Artauf, incalza Jeanne, che gli risponde; Nana si
commuove alle lacrime. Anna invece, che vede queste stesse immagini nel film di Godard, è colpita dalla
bellezza dell'attore che fa il frate. Sempre con il cellulare, riprende la scena e la invia a Nicole che si
ritrova a seguire così un secondo film. Nel momento in cui tra le immagini che le arrivano sul cellulare
viene pronunciata la parola "morte", ecco che sullo schermo davanti a lei passa una sequenza con un
grande rogo.
Artaud Double Bill di Atom Egoyan è un film che in tre minuti crea un incredibile gioco di incastri. Ci
sono due spettatrici, Anna e Nicole, che siedono in due sale separate ma che partecipano l'uno alla
visione dell'altra. Ci sono poi due film che per quanto diversi, hanno però entrambi a loro volte delle
protagoniste che vanno al cinema. Il brano tratto da La passion de Jeanne d'Arc incluso in Vivre sa vie è
visto sia da Nana, protagonista del film di Godard, che da Anna, che lo segue attraverso gli occhi di
Nana, ma reagendo quasi all'opposto. Gli avvenimenti sui diversi schermi si inseguono e si completano
l'un l'altro: in The Adjuster ritroviamo sia l'aggressione sessuale accennata in Vivre sa vie che il rogo
preannunciato in Le passion de Jeanne d'Arc. In più c'è lo schermo di un cellulare che catturando e
trasmettendo le immagini prolunga lo schermo cinematografico; e abbiamo parole che descrivono quello
che le due amiche stanno vedendo. Il gioco degli incastri crea un piccolo capogiro, ma nell'infilata delle
situazioni si rispecchiano reciprocamente, emergono comunque precise indicazioni su che cosa può
significare oggi vedere un film in una sala cinematografica.

Vedere un film

Anna e Nana, sono spettatrici dello stesso film, ma su piani e in epoche diverse; mentre Anna e Nicole
sono spettatrici di film diversi ma ansiose di trovare sintonie.
Il primo tratto che colpisce è che se Nana nel film di Godard guarda il film di Dreyer e basta, Anna, nel
film di Egoyan, si trova davanti a un oggetto più complesso. Innanzitutto vede il film di Godard e dentro
quello, vede il film di Dreyer: è spettatrice di una doppia serie di immagini. Poi vede La Passion de
Jeanne d'Arc di Dreyer e Nana che vede le stesse immagini: è spettatrice di una visione. Ancora, vede nel
film di Godard qualcosa che ha luogo anche nel film visto dalla sua amica, e forse alla sua amica stessa:
è spettatrice di una storia che ha un ulteriore sviluppo. Infine vede un film e insieme manda e legge
messaggi sul proprio cellulare: è spettatrice e insieme lettrice. Nicole, la sua alterego, si trova in una
situazione del tutto analoga: anche lei vede il suo film e il brano di Dreyer che le invia la sua amica;
anche le vede cose viste da altri; anche le vede cose che completano altre; anche lei vede e legge.
Il fatto è che Nana da un lato, e Anna e Nicole dall'altro, si misurano con due oggetti diversi. La parola
film per Nana indica un'opera singola e ben definita. Per Anna e Nicole invece è un discorso che ospita
altri discorsi, che si affianca ad altri discorsi e infine che genera altri discorsi. Se Nana spettatrice
tradizionale, si confronta ancora con un testo, le due spettatrici moderne si confrontano con un
ipertesto, con le sue diverse componenti, i suoi link, le sue possibili espansioni. O anche con una rete di
discorsi sociali, capace di allineare e insieme di incastrare occorrenze, generi, regimi e livelli discorsivi
diversi, entro cui il film, in senso stretto può giocare un ruolo rilevante ma non certo esclusivo.
Il secondo tratto investe le modalità della visione. Nana indirizza completamente il suo interesse verso il
film che sta guardando. Anna invece segue il film, ma nel frattempo si preoccupa di capire dov'è finita la
sua amica, le scrive ciò che prova, isola un dettaglio del film, lo cattura con cellulare , fa emergere le
sua passioni cinefile, ecc. Mentre Nana si concentra, Anna si decentra.
Questo decentramento ha qualcosa della percezione distratta che Benjamin attribuiva al cinema, e che
dopo Benjamin è stata attribuita alla tv. Siamo agli antipodi della contemplazione che la vecchia opera

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d’arte sembrava pretendere, e prossimi a un'apprensione più occasionale, meno coinvolgente, quale i
media chiedono di sviluppare. Anna e Nicole non riservano al film uno sguardo in senso proprio, ma delle
occhiate, non si impegnano in una osservazione ma passano in rassegna quanto incontrato. Nel fare ciò
però le due donne rinunciano all'attenzione: piuttosto la indirizzano su una pluralità di oggetti e di
pratiche. Dunque esse non si distraggono: semplicemente passano di fronte all'altro; moltiplicano i loro
obiettivi; modulano il loro sguardo. Attivano un'attenzione decentrata, e cioè senza un centro obbligato,
ma con molti bersagli e molti scopi; un'attenzione multitasking. Nel far questo, esse si impediscono di
risacralizzare il film che hanno di fronte.
Di qui un terzo tratto. Nana non solo si concentra sul film che sta vedendo: vi si immerge. Attraverso un
esplicito gioco di identificazioni e proiezioni, la protagonista di Vivre sa vie si cala nella vicenda
raccontata da Dreyer fino a sentirsene parte. La conseguenza è lo scattare della catarsi. Nel destino di
Jeanne d'Arc, Nana vede il proprio destino. Anna, al contrario, resta alla superficie di quanto vede:
afferra i particolari che le interessano, li isola dal resto e li spedisce alla sua amica. Più che tuffarsi nel
film, ci scivola sopra. Ciò impedisce la realizzazione di una qualsiasi catarsi: Anna non si identifica e non
si proietta né in Jeanne né in Nana; rimane se stessa, distante e distinta rispetto ai personaggi che ha
davanti. Semmai ha una reazione di tipo estetico. Ma si tratta di una reazione epidermica, nel senso che
mobilita una sensazione, non certo dei significati; e che tiene lontano da una vera adesione a ciò che si
mostra. Anna guarda, ma ciò che vede non la riguarda.
Anna è uno spettatore che non riesce ad incollarsi allo schermo. Essa non entra nel mondo diegetico; al
massimo lo attraversa non prende parte ala storia; al massimo ne prende una parte. Del resto le
circostanze non l’aiutano: l'assenza dell'amica le pesa; il bisogno di contattarla la distrae. Questa
preoccupazione peraltro aliena Anna anche dall'ambiente in cui si trova: resta distaccata anche da chi
sta seguendo il film con lei. Anna né si incolla allo schermo né decolla da esso. La conseguenza è una
caduta della ritualità della visione: quest'ultima evidenzia la sua natura occasionale, provvisoria,
irregolare. Vedere un film diventa un'avventura senza basi d'appoggio.
Il quarto tratto riguarda la sala. Nana cerca nel cinema una sorta di rifugio: entra per isolarsi dal mondo
esterno, per fuggire dalle proprio vicende quotidiane. Vedendo il film di Dreyer scoprirà che anche lei è
destinata alla morte. Ma questa illuminazione le è consentita proprio perché si è allontanata dal suo
universo; solo un personaggio del tutto altro qual è la Pulzella le può far capire che cosa l'aspetta. Anna
al contrario è entrata nella sala per passare del tempo con l'amica: considera il cinema non
un'alternativa, ma una prosecuzione del suo mondo quotidiano. Perciò nel momento in cui accorge che
l'amica non l'ha raggiunta, si mette subito in contatto con lei: proprio perché in continuità con il su
mondo esterno, la sala è anche una postazione in cui si può restare collegati agli altri. Non stupisce
allora che quanto appare sullo schermo possa migrare altrove. Tuttavia nessuno di questi elementi che
migrano risulta decisivo. Mentre la condanna di Jeanne rivela a Nana il senso della sua vita, questi
richiami appaiono ad Anna e Nicole come semplici spunti su cui confrontarsi. Schegge di immaginario a
disposizione di tutti, legate tra loro da una catena più casuale che misteriosa.
La sala di Nana è un luogo marcato da una separazione rispetto all'universo in cui viviamo; in essa
incontriamo una realtà che apparentemente va oltre quella usuale; si rivela essere una versione
esemplare di quella in cui siamo immersi. La sala di Anna e Nicole invece opera diversamente: gli
elementi con cui ci confrontiamo rappresentano semplicemente eventi possibili, non chiavi di lettura di
quanto ci sta capitando; e questi elementi sono accessibili anche a molti altri spettatori, quale sia il film
che stanno vedendo. Mentre la sala di Nana circoscrive un pubblico che riscopre sullo schermo l'essenza
della propria vita, grazie a una rappresentazione che pur sembra lontana dalla realtà, la sala di Anna e
Nicole tiene insieme un pubblico disperso, più simile all'audience televisiva o ai partecipanti a un social
network.
Triangolando tra Nana, Anna e Nicole ci viene ricordato che cosa è stata la visione del film nel passato e
che cosa è diventata nel nostro presente.

Dall'assistere al fare

Siamo alla fine di un modello che ha dominato a lungo, quello per cui uno spettatore assisteva a un film.
Assistere significa porsi di fronte a qualcosa di cui ci si trova ad essere testimoni. Si tratta dunque di
essere presenti a un evento, e insieme di aprire gli occhi s di esso, si a per poterlo accogliere, sia per
poterlo acquisire. Oggi la visione di un film comporta sempre più sesso una serie di atti preparatori, di
azioni di sostegno, di scelte tra differenti alternative, di mosse parallele. Lo spettatore si trova a poter
intervenire sia sull'oggetto della sua visione, sia sull'ambiente circostante, sia infine su se stesso.
Se nel caso della proiezione in sala egli segue una visione relativamente passiva, nel caso della visione di
un film su mezzi alternativi egli deve intervenire di continuo e manualmente sul device, regolando il
flusso del film in rapporto a quello che vuol vedere. Un film può servire a soddisfare un desiderio di
spettacolo, ma anche a riempire il tempo morto di un viaggio o a soddisfare la curiosità di un navigatori
su internet. Specie nei due ultimi casi, la visione è profondamente condizionata da quello che succede
attorno, ed essa può prendere diverse pieghe secondo le circostanze. Infine, un film può essere oggetto

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di visione, anche oggetto di collezione, di culto, di manipolazione o di scambio grazie a programmi di file
sarin. Queste possibilità mobilitano ulteriori forme di azione.
Se lo spettatore tradizionale si faceva modellare dal film, ora è lui che lo modello o lo rimodella, grazie
a un insieme di pratiche puntuali e mirate. L'effetto è quello di diventare protagonista, pur restando
sempre una pedina del gioco. Lo spettatore è qualcuno che agisce perché la sua stessa visione abbia
luogo: l'attendance lascia il posto alla performance.

Pratiche della visione

Tra le pratiche oggi chiamate in causa dalla visione di un film, alcune possono apparire tradizionali, se
non fossero declinate in un modo nuovo; altre sono più nuove, anche se stavolta ci riportano a
comportamenti collegati con il cinema delle origini, o con il precinema.
Tra le pratiche tradizionali, ad esempio, continuiamo ad attivare un fare cognitivo, grazie a cui
interpretiamo quanto stiamo vedendo; tuttavia questa interpretazione non segue più passo a passo il
film, ma segue strade proprie. Da un lato si mette in un atteggiamento più esplorativo in cui cerca di
capire cosa ha di fronte o, dall'altro lato, utilizza un atteggiamento selettivo mettendo alla prova quello
che incontra. Questa interpretazione nella forma di un testo si può estendere anche all'ambiente o alla
situazione.
Stessa cosa anche per il fare patetico. Da sempre il film tocca il suo spettatore. Oggi tuttavia le
componenti emozionali e passionali connesse alla visione sembrano acquisire un peso abnorme. Il cinema
è caratterizzato da una forza di attrazione maggiore che altri media. Quando poi un film è fruito su altri
devices, spesso sembra assorbire alcune passioni di cui questi devices sono portatori.
In altri casi la performance allarga il raggio d'azione delle pratiche tradizionali, più che trasformarle. Si
prenda ad esempio il fare relazionale: lo spettatore da sempre è un essere sociale che interagisce con gli
altri spettatori. Oggi, lo spettatore è portato a spingere più in là questa sua azione relazionale: ecco
allora che si costituisce ex post un gruppo con cui spartire la propria esperienza, attraverso un sistema
di contatti che accompagna o segue le fruizione.
La performance però coinvolge anche e soprattutto nuovi livelli del fare. Ad esempio c'è un fare
tecnologico là dove l'accesso al film non è diretto ma mediato dal device o da un canale o da un'app si
richiedono tutta una serie di operazioni sull'apparecchiatura per le quali ci vuole una specifica
competenza.
C'è un rilevante fare espressivo: oggi l'esibizione di sé si celebra anche attraverso un posto che lo
spettatore mette su un blog o in qualche social network, in cui racconta le proprie personali reazioni a
quanto sta vedendo o ha visto.
C'è un fare testuale, determinato dal fatto che lo spettatore ha sempre la possibilità di manipolare il
film ch fruisce, non solo nel senso di aggiustarlo alla propria visione,ma anche nel senso di intervenirci
sopra espressamente.
Infine c'è la mobilitazione di nuove dimensioni sensoriali. Lo spettatore non attiva più solo la vista o
l'udito, ma anche altri sensi e in particolare il tatto: se il film è visto su qualche device, lo spettatore
deve intervenire con la propria mano. La tattilità che pure il cinema non ha mai mancato di evocare, e
che riporta direttamente al precinema, quando lo spettatore doveva muovere il prassinoscopio o
sfogliare il flip book per avere un'immagine in movimento, qui trova la sua piena affermazione.

Performer e bricoleur

La presenza di questo ampio spettro di pratiche da dello spettatore un vero e proprio performer: egli è
qualcuno che si costruisce le proprie condizioni di visione, mettendosi in gioco. Il tradizionale modello
dell'attendance includeva già uno spettatore attivo. Il nuovo modello che avanza richiede però qualcosa
di più: un'attività mirata a costituire la possibilità stessa dell'esperienza cinematografica. Quest'ultima
nasce in contesti assai differenti tra di loro che chiedono un intervento per essere messi di volta in volta
a punto. Lo spettatore è colui che compie questo intervento. Egli si deve creare l'esperienza che vuole
avere.
In questo suo intervento, oltre a mobilitare le sue competenze, lo spettatore deve far conto anche delle
risorse che ha a disposizione. Se allo spettatore tradizionale bastava recarsi in una sala per trovare tutto
quello di cui aveva bisogno, oggi lo spettatore nell'organizzare la sua visione deve letteralmente
incastrare tra loro tante componenti diverse. In questo senso egli non è solo un performer, è anche un
bricoleur: qualcuno che si costruisce ciò di cui ha bisogno sfruttando una serie di opportunità o di
materiali, combinandoli tra di loro, e trovando una loro adeguata disposizione.
La metafora del bricoleur è già stata usata nella media theory negli anni 80, sostituita poi nei primi anni
del nuovo millennio da concetti come quelli di Pro-Am e di produsage. Il bricoleur non aspetta di avere
tutto ciò che gli serve; tira fuori le sue risorse dalla situazione in cui si trova. In questo senso egli è
sempre, per così dire, un soggetto occasionale. Ma anche un soggetto creativo.

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Il bricoleur non ha soluzioni precostituite: se le inventa secondo il momento. Infine la sua azione è segno
diretto della sua personalità.
Il nuovo spettatore è altrettanto occasionale, creativo e personale. Anche lui mette insieme i pezzi che
la situazione gli offre, cerca di individuare una soluzione a partire da quanto ha a disposizione, e insieme
sviluppa un comportamento che può considerare suo. Egli è un bricoleur alla Lévi-Strauss.
Naturalmente assai spesso la libertà e la creatività dello spettatore contemporaneo sono più apparenti
che reali. L'industria è prontissima a fornirgli nel modo più facile possibile le risorse di cui ha via via
bisogno, così come è pronta a standardizzare i percorsi anche più sperimentali che egli compie. Inoltre
spesso i prodotti che egli acquisiste prevedono già il suo intervento. Infine all'attivismo di pochi
corrisponde una gran massa di spettatori che ancora amano vedere un film nel modo più semplice e
rilassato possibile. Il bricoleur talvolta è solo l'avanguardia di un consumo di massa.

Lo spettatore mediatizzato

Vedere un film non è più un'attività localizzata. È un fare che scatta al di là della presenza di un grande
schermo, e che va oltre la semplice apertura degli occhi. Ora è interessante notare che gli aspetti più
innovativi della sua spettatorialità sembrano nascere proprio da pratiche che si sviluppano fuori della
sala e fuori degli stretti confini della visione, a ridosso magari di altri media, e in altri quadri di azione:
in particolare a ridosso dei nuovi schermi con cui sempre più ci troviamo a confrontarci.
L'attività esplorativa che risponde a un bisogno di orientarsi più che di capire: non c'è dubbio che sorga
dal contatto con la tv con i suoi numerosissimi canali che noi perlustriamo con il telecomando alla
ricerca di quel che più ci aggrada. L'attività cumulativa che porta a selezionare e a mettere in riserva
porzioni di film di particolare interesse: esso trova indubbiamente la propria origine in pratiche come
quelle messe in opera dai fan, che grazie a strumenti di cattura delle immagini come i videoregistratori
costruiscono e si scambiano album di immagini altamente personalizzati. La visione patemizzata, che
ruota attorno a una forte intensificazione del sentire trova il proprio background soprattutto nella
presenza di un'enorme quantità di stimoli nel mondo mediatico e anche in quello urbano.
Quanto alla capacità di scegliere ciò che si vuole vedere, essa ci rimanda, alla crescente abilità del
pubblico di muoversi tatticamente online, alla ricerca di contenuti e informazioni per lui salienti; mentre
la capacità di sganciarsi dagli obblighi della programmazione è certo aiutata dalla diffusione di
piattaforme mobili, che consentono visioni everywhere e everytime. Quanto all'attività di manipolazione,
che vede lo spettatore intervenire sui mezzi della propria visione, essa nasce apertamente dall'uso di
dispositivi come l'home thater, che richiedono una continua regolazione e manutenzione. L'attività
relazionale, che vede lo spettatore costruirsi un proprio gruppo di appartenenza, nasce invece dal
progressivo peso dei social network che alimentano anche l'attività espressiva, quella che porta a
costruire ed esporre un sé. Infine il fare testuale è indubbiamente alimentato dalle possibilità di
catturare cià che si vede e insieme di rimontarlo sul proprio computer grazi a programmi a basso costo.
Lo spettatore filmi d'oggi è lontano dal cinema e dai suoi luoghi canonici che sembra arrivare a formarsi.

Lo spettatore: non essere più ed essere ancora

Si tratta pur sempre di uno spettatore filmico.


Laura Maulvey ha dedicato una bella analisi alle forme di visione legate al DVD video. Il punto è molto
delicato: come sostiene Jacques Aumont, uno dei tratti fondamenti che caratterizzano l'esperienza di
cinema è il fatto che la visione sia continua e completa. Un film è qualcosa da vedere tutto intero e di
seguito. Mulvey dà una risposta diversa: di fronte a una possibilità come quella offerta dal DVD, lo
spettatore tende ad assmere nuovi profili, ma continua pure a essere debitore di un modello classico.
Quanto ai nuovi profili, Mulvey identifica due modelli emergenti. Il primo è quello di uno spettatore
possessivo che attraverso la manipolazione del video ha l'illusione di dominare meglio il film che sta
guardando. Il secondo modello è quello che, sulla scorta di Bellour, Mulvey chiama lo spettatore pensivo.
La perturbazione del flusso del film qui provoca una sorta di movimento autoriflessivo, che consente allo
spettatore di cogliere meglio la natura del film e il modo in cui esso incrocia lo sguardo della cinepresa,
quello dei personaggi e quello del suo destinatario
Questi due modelli rappresentano uno scarto rispetto alla visione tradizionale: quando essi si attivano, la
narrazione tende a saltare in aria. E tuttavia i nuovi motivi di fascinazione offerti dal film sono ben
radicati in quelli precedenti. Anzi, le nuove modalità di esperienza spettatoriale sembrano addirittura
aiutare il film a far emergere i suoi significati. Insomma queste nuove operazioni mettono in luce i
meccanismi che da sempre sono all'opera al cinema e, sia pur in modo un po'perverso, ne rivelano tutta
la natura. In questo senso, il nuovo spettatore non è contro il cinema, ma semmai lavora per farne
proseguire la storia.
L'oscillazione tra il rischio di non essere più spettatore e l'inevitabilità di esserlo ancora dipende dal fatto
che il cinema oggi è profondamente mescolato con altri media. Come abbiamo visto, il nuovo spettatore

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filmico ha un raggio di azione assai più ampio che nel passato, quando l'istituzione cinematografica
predisponeva largamente contenuti, luoghi e modi della visione: oggi lo spettatore è prima di tutto un
media user, capace di muoversi con disinvoltura tra diversi devices, e pronto anche a sfidarne il
funzionamento normale alla ricerca di nuove possibilità di azione. Come i media users, anche il nuovo
spettatore cinematografico, può avere l'illusione di una totale libertà di manovra. Ma per quanto
debitore dei nuovi modi d'essere del media user, il nuovo spettatore continua anche a essere spettatore
di cinema. Ciò avviene non solo perché l'oggetto della sua esperienza rimane il film; il fatto è che gli
elementi trainanti della sua esperienza sono ancora in larga parte debitori di quelli tradizionali. Per
quanto trasformato e mescolato con altri bisogni,, troviamo ancora il piacere di incontrare la realtà di
seguire un racconto, di dar concretezza a una fantasia, di poter trasformare un'esperienza individuale in
un'esperienza collettiva.
Anna è una media user: non solo perché utilizza con disinvoltura il suo telefonino, ma anche perché
quello è l'ambiente in cui lei si muove. Ma è anche una spettatrice filmica, per quanto diversa da Nana.
Non ha tutta a competenza e la passione.

Rilocazione e re-rilocazione

Atom Egoyan racconta di due spettatrici odierne, che guardano un film in modo apparentemente
anomalo, mescolando alla loro visione comportamenti più vicini a quelli indotti da altri media, ma che
guardano questo film in una sala. Ciò che dunque Artaud Double Bill celebra è anche una sorta di
ritorno alla madrepatria.
Se è vero che il cinema non dipende più in maniera univoca dalla sala buia, è anche verso che le sale
cinematografiche continuano a esistere, e anzi, fioriscono. Le nuove pratiche di visione sono a loro volta
pronte a rifluire dentro la sala cinematografica e a contaminare le forme tradizionali dell'esperienza
filmica.
Le pratiche extrasala ed extrafilm che stanno emergendo si mescolano con le pratiche tradizionali dentro
la sala e le ridisegnano e le riorientano. Con la conseguenza che anche nel tempio dell'attendance il
vedere un film diventa performance.
Questo rientro nella madrepatria di un cinema che era emigrato in nuovi ambienti e su nuovi dispositivi e
che ora ritorna sui propri passi è chiamato re-rilocaizone. Uscendo dalla sala, il cinema aveva dato
all'esperienza filmica la possibilità di continuare a vivere, sia pur con nuove inflessioni; ritornando anella
sala, il cinema contamina il vecchio modello di esperienza filmica con i nuoci tratti che nel frattempo ha
acquisito. Re-rilocazione significa appunto un doppio movimento, la fuoriuscita della sala alla ricerca di
un nuovo territorio e il ritorno nella sala ricchi di un nuovo patrimonio accumulato nel mentre. Questo
doppio movimento mette in luce l'emergere di uno scacchiere complesso. Ci sono infatti sale che non
solo accolgono nuove pratiche di visione, ma che addirittura le favoriscono. È il caso dei cinema che
offrono anche altri tipi di intrattenimento. La presenza di questi due tipi di offerte fa della sala
cinematografica una sorta di piattaforma tramite cui si accede a contenuti che richiedono rituali di
consumo diversificati. La sala cinematografica diventa un po' meno cinematografica di prima. Abbiamo
però anche sale tradizionali che vogliono rimanere tali e che rifiutano l'introduzione di nuovi modi di
visione, in nome di un rito che non va cambiato. È quel che avviene soprattutto in situazioni cerimoniali
come un festival, una prima, o una rassegna, in cui si chiede allo spettatore di continuare ad assistere a
un film e nient'altro. Parallelamente ci sono nuovi ambienti verso cui il cinema converge, per poter
continuare la propria storia, ance se in modo diverso e più variato. Per quanto diversi dalla sala questi
ambienti talvolta cercano di assomigliarle. Infine abbiamo ambienti in cui il cinema si trasferisce, ma
che finiscono con l'imporsi su di esso e che lo fanno smettere d'essere cinema: sono i luoghi in mano ai
media users che non riescono più ad essere spettatori filmici.
Il ritorno alla madrepatria mette in luce una topografia del cinema piuttosto ricca e interessante. I
quattro punti cardinali sono il cinema rilocato, che colonizza nuovi spazi; il cinema re-rilocato, che
ritorna nel suo ambiente più proprio, in parte contaminandolo con nuovi modi di visione; il cinema non-
riloccato, che rimane caparbiamente attaccato alla sala; e il cinema per così dire de localizzato, che
uscendo dal suo ambiente si perde nel gran mare dei media. La nostra esperienza di cinema si situa oggi
dentro questo quadrante, scegliendosi ogni volta la collocazione più adatta.

Ritorno alla madrepatria

Alla base della re-rilocazione ci sono almeno quattro buone ragioni che rispondono tutte a esigenze di
fondo.
La prima riguarda un bisogno di territorialità. Vedere un film è sempre stata, e continua a essere, un
questione di luogo. Ora i nuovi modi di fruizione offrono allo spettatore solo una bolla esistenziale in cui
rintanarsi; una bolla fragile, precaria, che basta un nulla per rompere. Per contro, la sala costituisce un
territorio più solido, più definito, più protetto. In particolare, essa continua ad associarsi all'idea di
abitare, sia in quanto spazio in cui si sosta assieme ad altri, sia in quanto spazio in cui ci si trova immersi

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in un immaginario comune. Luogo fisico e insieme simbolico, la sala è quella dimora che il cinema e il
suo spettatore continuano a cercare.
La seconda ragione riguarda invece un bisogno di domesticazione. La rilocazione introduce
indubbiamente alcuni cambiamenti rispetto all'esperienza in sala. Sia in un caso che nell'altro ne deriva
comunque una sfida ai modi tradizionali. La re-rilocazione, il ritorno in sala, serve allora a far sì che le
novità, o almeno una parte di esse vengano letteralmente incorporate in un'esperienza che mantiene
esplicitamente vive le sue radici. In questo modo la visione come performance riceve un pieno
riconoscimento, nel senso doppio del termine: viene accolta quale modalità appropriata di vedere un
film e insieme viene esibita quale esempio a cui chiunque può riferirsi. Louis Delluc, nel recensire una
serie di sale, oltre che di film, mette in luce come diversi strati di popolazione reagiscono e
intervengono secondo diversi stili mostrando sempre un'attitudine attiva. Vedere un film in sala è sempre
stata un'attività intensa che il luogo sapeva disciplinare. Anche per questo il cinema rilocato, rientrando
nella sua madrepatria, riesce ad addomesticare l'attivismo connesso con la performance.
In terzo luogo il ritorno alla madrepatria mette in luce un bisogno di istituzione. Quando noi operiamo
con i nuovi devices o in nuovi ambienti, la nostra visione si trova a convivere e a sovrapporsi, con altre
attività ospitate da questi medesimi dispositivi o da questi medesimi spazi. Allo stesso modo, anche i film
che noi vogliamo vedere si trovano a convivere, e spesso a sovrapporsi, ad altri prodotti ospitati in quei
dispotivi e in quei luoghi. Scivoliamo inevitabilmente dal terreno del cinema a quello dei media in
generale, e dal territorio del film a quello dei prodotti audiovisivi in generale. Questo doppio passaggio è
il riflesso della convergenza che marca la nostra epoca: i vecchi apparati si dissolvono a favore di
piattaforme multifunzionali; e i vecchi prodotti legati al singolo medium si dissolvono a favore di una
ricca gamma di prodotti multipiattaforma, crossover, ecc. In epoca di convergenza, tener fermo il
recinto del cinema e il profilo del cinema può sembrare un'impresa disperata. Ebbene la re-rilocazione
serve ad assicurarci che un medium cui siamo stati a lungo affezionati continua ad avere un suo spazio e
una sua identità. Non solo essa restituisce alla maggior parte dei film il luogo e la forma per cui sono
stati creati; essa ci dice anche che qualunque cosa possa succede, il cinema continua a esistere e a
esistere come cinema.
In quarto luogo, il ritorno alla madrepatria mette in luce il bisogno di esperienza. Il punto è il più
declinato, ma anche il più decisivo. La migrazione verso nuovi ambienti e verso nuovi devices presenta
un doppio rischio: da un lato scioglie l'esperienza filmi in una più generica esperienza mediale; dall'altro
costringe questa esperienza dentro binari obbligati.
Nel primo caso la visione filmica perde la sua peculiarità, e con essa la sua forza; nel secondo perde la
sua imprevedibilità, e dunque la sa libertà. La re-rilocazione pone un rimedio a questa situazione. Offre
condizioni ambientali che ridanno forza alla visione: il grande schermo, sovrastando lo spettatore lo
interroga anziché obbedirgli docilmente come da il display di un cellulare o di un pc. E richiede un
atteggiamento che ridà libertà alla visione. L'esperienza filmica riacquista un senso preciso e personale.
Un po' di attendante può sostanziare un'esperienza che la performance spesso promette ma non realizza.
Una visione che si intreccia con un fare sembra mettere lo spettatore al centro del gioco, ma questa
centralità rischia anche di apparire illusoria. Per un verso questo fare riposta alle pratiche quotidiane, e
dunque tende a colorarsi di indifferenza. Per un altro verso questo fare lo assorbe a tal punto, che non
ha più spazio per affrontare quello che gli si presenta e cioè per vedere davvero ciò che incontra.
Nell'attendance lo spettatore si misura va ancora con un mondo capace di interrogare e insieme di
fornire risposte. Di qui il senso di un incontro non più soltanto, e nello stesso tempo la possibilità di
impadronirsi di ciò che si incontrava. Sui nuovi devices lo stupore lascia il posto all'autocompiacimento e
il riconoscimento all'abilità. C'è piacere di sé e virtuosismo. Lo spettatore opera, ma il suo opere appare
spesso fine a se stesso. Il ritorno alla madrepatria sembra riconsegnarme le condizione per cui lo stupore
e il riconoscimento possono riprendere quota. In una sala, il film continua ad apparire come un evento
con cui mi trovo a dovermi, e a partire dal quale posso riscoprire quanto mi circonda. Il film è un evento
e in questo seno un piccolo enigma che provoca, e che insieme può restituire una coscienza di se stessi e
di quanto ci circonda. Il risultato è che per quanto la visione sia intessuta di un fare essa possa
recuperare il senso di un'esperienza. Qualcosa torna a sorprendere e a prendere; e si torna a far spazio
alla propria consapevolezza. In questo senso si può dire che grazie alla re-rilocazione l'attendance
consegna un lascito che colma i buchi della performance. La re-rilocazione, sovrapponendo attendante e
performance, intrecciando tradizione e novità, si apre meglio di qualunque altro gesto a una dimensione
esperienziale. È questa dimensione di esperienza la vera posta in gioco. È questo dimensione ciò che vale
la pena.

8. LA PERSISTENZA DEL CINEMA IN UN'EPOCA POSTCINEMATOGRAFICA

La scomparsa del buio

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Iniziazione alle delicie del cinema, è uno straordinario testo di Antonello Gerbi del 1926. L'esperienza
cinematografica è descritta in tutti i suoi aspetti, con molti richiami colori e insieme con grande ironia.
Tra gli elementi che entrano in gioco, c'è il buio. Lo incontriamo già nelle prime righe del saggio, quando
Gerbi segue lo spettatore che paga il biglietto, attraversa il foyer e si avvicina alla portiera di velluto per
entrare in sala. Dunque il sacro buio non è una cancellazione del giorno non è una privazione della luce
naturale. Al contrario, è uno stato che caratterizza positivamente la sala; è la qualità propria di un
ambiente che si oppone all'universo in cui solitamente viviamo.
Il buio ritorna poco più avanti quando Gerbi descrive il pubblico raccolto davanti allo schermo. L'oscurità
crea una condizione si sospensione: l'ambiente perde di spessore, e diventa un contenitore indistinto; gli
individui perdono coscienza di sé, ed entrano in una sorta di stato ipnotico. Ma è proprio questa
sospensione che permette agli spettatori di far corpo tra di loro, fino a creare una piccola comunità, e
insieme di far corpo con quanto stanno vedendo, immergendosi nelle vicende raccontate sullo schermo.
Infine il buio è evocato da Gerbi a proposito del mondo che prende vita sullo schermo. Questo mondo
possiede una luminosità che sembra provenire dall'ambiente stesso della proiezione. C'è dunque una
sorta di circolarità tra sala e schermo: se la prima è buia, è perché letteralmente regala quel poco di
chiarore che possiede al secondo; in cambio esso consente a una nuova realtà di sfociare in tutto il suo
splendore .
Si ritrova del tema del buio anche in altri numerosi contributi sul cinema, fin dai primi tempi. È lungo
questa linea che Roland Barthes, in un testo scritto in una fase in cui il cinema già comincia ad
affrontare le radicali trasformazioni che oggi lo caratterizzano, ci potrà parlare della qualità erotica del
buio della sala, della particolare atmosfera che esso crea, del piacere di immergervisi.
Il buio insomma appare come un elemento essenziale dell'esperienza del cinema. È ben vero che si cerca
talvolta di attenuarlo. Il buio però fa intimamente parte del cinema, è ciò che sottolinea la separatezza
e insieme il totale fascino del luogo di proiezione; è ciò che consente a chi vede un film di diventare
spettatore e insieme di farsi pubblico; ed è ciò che alimenta la possibilità che l'immagine proiettata
diventi un vero e proprio mondo, di cui possiamo farci complici.
Se c'è un elemento che colpisce nella rilocazione del cinema verso nuovi ambienti e nuovi dispositivi, è la
crescente assenza del buio. La visione avviene sempre più spesso in piena luce.
Non si tratta di un dettaglio, ma semmai di un sintomo. La perdita del buio infatti evidenzia la
progressiva rinuncia del cinema alle sue caratteristiche proprie, tra cui rientrano i tre aspetti
menzionati. Non siamo più vincolati a un ambiente chiuso, al contrario, i luoghi della visione sono spesso
aperti, esposti e senza soglia. Le immagini filmiche non pretendono più di costruire un mondo: al
contrario, ciò che arriva sui nostri schermi è un materiale spesso incerto, composito, di diversa natura e
dotato di finalità differenti. Infine, non è più scontato trovare un pubblico immerso in una visione; al
contrario, seguir e un film è un atto sempre più solitario e superficiale.

L'assottigliarsi del cinema

Il cinema sopravvive anche in piena luce, o meglio, in regimi di luminosità diversi dai suoi.
I cambiamenti che caratterizzano l'universo dei media tendono a disegnare un terreno alternativo verso
cui noi inevitabilmente andiamo; tuttavia essi sembrano anche offrire spesso nuove opportunità a un
modello di esperienza di cinema che ha le sue radici nel passato, e che incorporando il nuovo può
continuare a mantenere la propria identità. È dunque vero che siamo tendenzialmente di fronte a un
non-più-cinema; ma è anche verso che nel mutamento spesso vediamo emergere un ancora-cinema e un
di-nuovo-cinema.
Ci sono due fattori che consentono al cinema di continuare ad essere se stesso dentro, e a partire dalle
differenze. Entrambi fanno riferimento alla storia del cinema, costruendo un ponte tra passato e
presente; e tuttavia entrambi non pensano il presente come al semplice ritorno del medesimo, ma come
a una presa di distanza che però, proprio in quanto tale, unisce. Essi sono l'assottigliarsi del mezzo e il
paradosso del riconoscimento.
Il un frammento del 1920 con la parola medium Benjamin si riferisce alle modalità con cui un'opera, un
linguaggio, una tecnologia attuano la loro mediazione. In questo senso il termine indica precisamente
l'ambiente e insieme le condizioni di una percezione. Quello che sembra indicare è il fatto che
l'atmosfera che si crea attorno a un'opera e ne condiziona la ricezione perde gradualmente di spessore e
di compattezza con il passare del tempo. Non è che l'opera cambi in sé: solo cambiano i modi della sua
accessibilità. Essa perde i vincoli e le necessità che ne avevano contrassegnato la nascita. L'opera
acquista una maggiore leggerezza. La si può avvicinare più facilmente, anche al di fuori del contesto in
cui era nata. E si può entrare direttamente in dialogo con essa, senza più incontrare le resistenze iniziali
e senza passare per vie traversie. L'opera non solo diventa una presenza più familiare, ma arriva a
mostrare i suoi veri tratti. Ciò che un'atmosfera fin troppo densa nascondeva, ora può apparire con
chiarezza. L'opera finalmente ci parla di sé.

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In questa fase storica, il cinema si assottiglia, diventa più leggero. Rispetto al periodo classico
l'atmosfera che lo circonda cambia: il contatto con il film non è più contrassegnato da un insieme di
norme, di vincoli, d'intenzionalità ben organizzate, ma diventa più facile e più diretto. Per un verso,
possiamo accostare il cinema in differenti circostanze. Esso è libero di rilocarsi in nuovi ambienti e su
nuovi devices. Penetra nelle pieghe del mondo quotidiano, e noi ce lo troviamo a portata di mano. Per un
altro verso possiamo cogliere per davvero quello che è stato e in qualche modo continua a essere. Il
diradarsi dell'atmosfera che lo circonda ne mette in luce la vera natura. Scopriamo sempre più che cosa
il cinema è, che cosa ha voluto essere, e che cosa avrebbe potuto essere. Non più protetto dallo spessore
di un'istituzione, esso ci parla pienamente di se.
Siamo ben lontani da ogni idea di decadenza. Il cinema rilocato rappresenta quel momento di
assottigliamento del medium che consente una disponibilità ma anche una penetrazione nell'oggetto
della nostra esperienza. Il cinema vive in mille diverse situazioni: attraverso le molte facce che assume,
ora possiamo finalmente capirlo.

I paradossi del riconoscimento

Il secondo elemento che sostiene la persistenza del cinema ci riporta alle strategie di riconoscimento. Il
riconoscimento può dunque essere sia un'agnizione, sia un accreditamento. Esso, combinando questi due
aspetto, è allora ciò che fa essere una cosa quella che è.
André Gaudrealt e Philippe Marion, ripercorrendo il processo che ha portato ala nascita del cinema,
attribuiscono il peso maggiore al momento in cui emerge un riconoscimento sociale di una tecnologia.
L'apparizione di una tecnologia apre la strada a una serie di possibilità. A questa apparizione deve
succedersi una fase di stabilizzazione delle procedure, in cui le possibilità sono incanalate, e diventano
pratiche ricorrenti. Ciò prepara una terza fase: in essa abbiamo il riconoscimento della personalità che il
cinema ha assunto, e insieme la consapevolezza delle facoltà che esso sa per davvero, e al meglio,
esprimere. È in questa fase finale che il cinema acquista un'identità percepita collettivamente, e si
trasforma in u'istituzione.
Oggi siamo a un tornate simile in cui il cinema, toccato da una serie di cambiamenti chiede una
conferma. Grosso modo, muoviamo da un'idea di cinema che fa parte del nostro patrimonio culturale, e
la confrontiamo con le situazioni in cui ci troviamo implicati, attenti sia a fare emergere i tratti tipici del
cinema, sia a sancire il fatto che ciò che abbiamo davanti è, quale sia la sua apparenza, cinema. È grazie
a questa doppia operazione che sciogliamo situazioni spurie come sono molte di quelle che la rilocazione
del cinema crea.
Per poter far rientrare queste situazioni nell'ambito della nostra idea di cinema noi dobbiamo operare
una forzatura. Prendiamo queste situazioni, e minimizziamo le difformità a favore di ciò che
consideriamo canonico. Restiamo attaccati a un modello che abbiamo in testa, e manipoliamo un po'quel
che abbiamo davanti per renderlo compatibile.
Ma in nome della compatibilità, manipoliamo anche un po' l'idea da cui partiamo. La sforziamo in
rapporto alla situazione in cui ci troviamo, per aiutare quest'ultima a non sembrare troppo difforme.
Ecco allora che sfumiamo certi tratti del nostro modello di riferimento, ne esaltiamo altri, ne
aggiungiamo di nuovi. E immaginiamo che il cinema debba essere quella cosa lì, che si riflette nella
realtà che abbiamo di fronte.
Lo facciamo rispetto al presente, ma anche rispetto al passato. Non solo attribuiamo al cinema
caratteristiche che stanno emergendo ora ma proiettiamo queste caratteristiche all'indietro in modo che
il nostro modello di riferimento possa sembrare storicamente fondato. In questo modo però creiamo un
senso di continuità che appare strumentale.
Troviamo registi che invocano antenati per agganciarsi a una tradizione. La produzione attuale ha molte
tangenze con la graphic novel, o con il videogioco, o con il parco tematico; ma se un film mostra le sue
radici nel passato, magari attraverso una figura paterna, ecco che questa produzione diventa cinema-
cinema.
Abbiamo critici che ricostruiscono remote influenze, e trasformano nuovi aspetti in sviluppo di intuizioni
vecchie. Abbiamo storici che ripercorrono il passato con gli occhi di oggi. E infine abbiamo storici delle
teorie che recuperano le ipotesi sul cinema che non si sono mai realizzate, o che si sono arenate, ma che
oggi sembrano risorgere. Il cinema contemporaneo trova allora le sue radici.
La rilocazione del cinema attiva una diffusa strategia discorsiva volta a rendere strumentalmente
compatibile il passato e il presente. Nel leggere le situazioni attuali alla luce di quello che il cinema è
stato, interpretiamo un po' forzosamente non solo quello che abbiamo di fronte, ma anche la nostra
stessa pietra di paragone. In questo modo sembriamo inventare una continuità.
In cambio però la persistenza del cinema trova una sua motivazione, e la trova in modo corretto.
Inventano una continuità, inevitabilmente accettiamo le diversità del cinema contemporaneo rispetto al
suo passato. Non pretendiamo che esso sia eguale e tuttavia allarghiamo il quadro dei riferimenti
includendo nuove possibilità e poi cercando se esse si sono già realizzate. In questo modo diamo al

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cinema un'identità che non si lega a un modello fisso, destinato a riproporsi per sempre, ma che ha la
sua base in una continua trasformazione. Riconosciamo un'identità basata sulla differenza. E in questo
modo consentiamo al cinema di continuare a vivere.

La storia del cinema vista dal dopo

Negli ultimi anni la storia del cinema è apparsa sempre più come un problema . Molti tendono oramai a
considerarla una sorta di parentesi dentro una storia più vasta, mentre altri tentano di riformulare la
genealogia del cinema a partire dalle sue nuove condizioni di esistenza.
Nel caso dell'assottigliarsi del mezzo abbiamo una verità del cinema che è destinata a realizzarsi solo
quando l'atmosfera attorno all'opera avrà perduto la sua densità. Nel caso del riconoscimento
paradossale abbiamo una verità del cinema che può emergere dallo ieri, ma solo se interrogato a partire
dall' oggi. In entrambi i casi abbiamo passato e un presente che si costruiscono ciascun in rapporto
all'altro.
In una straordinaria pagina di appendice a L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica
Benjamin dice che il passato ci offre esempi che gettano luce sul presente, ma essi possono essere messi
a fuoco solo dal presente, grazie a occasioni in qualche modo uniche. Solo il presente riesce a far
diventare questi casi profezie, visto che di per sé non offrono affermazioni chiare. Se questi casi
diventano profezie , e in questo antecedenti di quello che ora accade, è solo perché si creano condizioni
particolari che possono, retrospettivamente, imputare al passato una esemplarità.
Ciò che concretamente consente di riconsiderare il passato alla luce dell'oggi e vedere l'oggi alla luce del
passato , sono quelle che nel grande affresco dedicato ai passaggi parigini Benjamin chiama immagini
dialettiche. Si tratta di immagini balenanti che riescono a rendere leggibili sia lo ieri che l'oggi,
saldandoli tra loro al di fuori dei consueti parametri di consequenzialità. Grazie a queste immagini il
passato si consegna alla coscienza del presente. E insieme, grazie a queste immagini, oggi può rendersi
conoscibile a se stesso. Dunque le immagini dialettiche forniscono un punto da cui guardare
contemporaneamente all'indietro e attorno dando senso a quanto si vede. Sono punto di osservazione, e
insieme forniscono una prospettiva; consentono di considerare una storia tutta in corso, insieme di
raccontarla; sotto questo aspetto, possono essere assimilate, un luogo di enunciazione. Ma la mutua
illuminazione di passato e presente delle immagini dialettiche ci porta anche lontano dall'idea di uno
sviluppo consequenziale; lo ieri non determina l'oggi più di quanto non ne sia determinato. Piuttosto che
di una linea del tempo si dovrà parlare allora di costellazione. Profezie che possiamo riconoscere solo
retrospettivamente, un tempo di maturazione , elementi che assicurano una leggibilità sia al passato che
al presente, e un collegamento tra i due tempi non all'insegna della linearità cronologica, ma semmai
della costellazione. La lezione di Benjamin ci spiega bene a quale idea di storia del cinema ci ispiriamo
quando ci troviamo implicati nei processi di locazione. Quando una nuova situazione chiede di essere
riconosciuta come cinematografica, ecco che chiediamo al passato di illuminarla, ma
contemporaneamente leggiamo il passato alla luce di questa stessa situazione; vediamo in questa
situazione il maturare di condizioni precedenti, ma parallelamente costruiamo anche quelle che
dovrebbero essere le sue premesse; usiamo lo ieri per definire l'oggi e insieme creiamo uno ieri perché
l'oggi chiede di essere definito; e dunque rompiamo il senso di una cronologia e facciamo di ciascun
tempo la conseguenza dell'altro. Quel che dunque la rilocazione finisce con il creare sono casi che
funzionano come situazioni dialettiche in senso benjaminiano. Queste ci conducono a ripensare il cinema
e la sua storia in un loop che le aggroviglia. L'effetto è quello di essere presi in una temporalità in forma
di costellazione, in cui non vige più una logica progressive casuale, ma in cui invece emerge un gioco di
vai e vieni che ci spinge in ogni direzione e ci apre molti possibili sentieri . Un'idea di tempo più sottile
più produttiva che ci consente di catturare fino in fondo la dialettica che sostiene la costruzione di
un'identità.

Tra sopravvivenza e reinvenzione

Il cinema rimane tra di noi, rilocandosi fuori dalla sala buia. Per un verso esso acquista una sottigliezza
che gli permette di insinuarsi nelle pieghe del mondo sociale. Per un altro verso il cinema ridefinisce la
propria identità: ci chiede di accettare le trasformazioni cui è andato incontro, e anzi di proiettarle
all'indietro, sulla sua stessa storia; solo così possiamo stabilire un ponte tra passato e presente che
garantisca che si tratti ancora di cinema. La sua persistenza per un lato è basata su una maggiore
flessibilità, per un'altro lato su una sorta di reinvenzione continua di sé che ci è affidata e che ci
consente di riconoscere come cinema ciò che abbiamo davanti, pur con tutte le sue diversità.
Negli anni tra il 1946 e la sua morte, Sergei Ejzenstejn affronta un progetto ambizioso, quello di
scrivere appunto una storia del cinema. L'idea è quella di collocare quest'ultima nel quadro della storia
delle arti, ma non come loro esito finale, bensì al contrario, come agente in grado di far emergere in
esse ciò che da sole non sono capaci di mostrare. In questo progetto il cinema è visto come una forza

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dinamica che rompe un quadro consolidato e ne fa emergere aspetti nuovi. Esso è ciò che riloca le
vecchie arti, facendoli uscire da una strettoia nella quale rischierebbero di esaurirsi.
Oggi è il cinema stesso che si sta rilocando su nuovi dispositivi e in nuovi ambienti sociali, e che dunque
cerca di uscire da una propria strettoia. È lui che è messo in discussione, e che deve creare un nuovo
terreno su cui far valere la propria lezione. Non è più in grado di soccorrere le altre arti, ora è lui che ha
bisogno di aiuto.
Che il cinema sia in una situazione di pericolo è un sentimento diffuso. È proprio per far fronte a questo
pericolo che noi richiamiamo un'idea di cinema e la usiamo per attribuire una cinematograficità a
situazioni borderline anche a costo di una rilettura tendenziosa della storia . Nella convinzione che sia la
permanenza di questa idea a garantire al cinema la sua continuazione quel che ci muove è la possibilità
e persino l'imminenza di un decesso. Ciò dà alla nostra azione una piega in qualche modo tragica: l'idea
di cinema che evochiamo finisce con il funzionare soprattutto con una medicina o come un esorcismo.
Ma se è vero che la situazione è permeata di un senso di morte, è anche vero che essa contiene un
altrettanto forte sensibilità. Potremmo pensare che il cinema faccia oggi con se stesso quello che ha
fatto ieri con le altre arti; esso cercherebbe un nuovo terreno per potersi guardare dentro, e trovare così
nuove inespresse ragioni. In questo senso il suo spostamento metterebbe in gioco un vero rinnovamento
non solo la voglia di sopravvivere.
Ne nascono due conclusioni, perfettamente allineate. Da un lato, la sua continuare rilocazione in altri
dispositivi e in altri ambienti è comunque all'ombra di un decesso. La permanenza del cinema non è altro
che un estenuante differimento della fine. E la sua storia, che noi riscriviamo per poterne vedere una
continuazione, ha in realtà i sapori di un testamento. Il cinema è un oggetto postumo . Dall'altro lato,
invece, il cinema si riloca per poter finalmente scoprire tutta la sua identità. Diventa diverso, per poter
trovare meglio se stesso. Nel riconoscerne la presenta sotto nuove vesti noi ci avviciniamo alla sua
verità.

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