Sei sulla pagina 1di 23

La galassia Lumière di

Francesco Casetti
Storia Del Cinema
Università di Torino
22 pag.

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: maria_pina-27 (mariaforadada@gmail.com)
Storia ed estetica del cinema
Docente: Simonigh Chiara
Anno 2017/18

Riassunto “La Galassia Lumière” ediz. 2015


Introduzione
Il titolo del libro riecheggia volutamente il titolo di un famoso volume di Marshall
McLuhan, La Galassia Gutenberg. Dopo l’invenzione della stampa, l’invenzione del
cinema costituisce un’ulteriore rivoluzione nel campo della scrittura. L’idea di
galassia ci offre un’immagine perfetta di ciò che un’esperienza priva di un unico
baricentro, pronta a realizzarsi in diverse forme. Il cinema è stato una stella
luminosissima. Per noi, abitanti di un nuovo secolo, il cinema è proprio questo: La
galassia Lumière.
1.Rilocazione
Nell’Ottobre 2011, l’artista inglese Tacita Dean presenta alla Tate Modern di Londra
una sua opera intitolata “Film”; un cortometraggio in pellicola, in uno spazio buio
dotato di una lunga panca per sedersi. Film sembra anche invocare la preservazione di
un medium-dispositivo: nella Tate ritroviamo anche un proiettore, uno schermo
riflettente, una sala buia; tutte cose a cui le nuove forme di consumo delle immagini
sui laptop o sui tablet sembrano rinunciare. Tacita Dean prova a restituirci tutti gli
elementi essenziali del cinema. Ma oggi il cinema possiamo incontrarlo in situazioni
diverse: dalle serie televisive, ai documentari, alle pubblicità; lo incontriamo magari
in altra veste, nelle sale d’aspetto, nei negozi, nelle strade. L’enorme diffusione degli
schemi della nostra vita quotidiana porta con sé una presenza del cinema sempre
maggiore. Gli consente nuove modalità di distribuzione, gli permette di continuare a
vivere, pur adattandosi ad un nuovo paesaggio. Siamo dunque davanti a un piccolo
paradosso: da una parte abbiamo un’artista che difende una base tecnologica,
dall’altra un’evidente tendenza che coinvolge diversi settori industriali e
commerciali, paradosso che ci consente di cominciare a ragionare sul cinema attuale.
Un medium non è solo un supporto, è anche una forma culturale, e lo definisce la
maniera in cui esso ci mette in relazione con il mondo e gli altri. Il cinema, fin dalle
sue origini, ha ruotato attorno al fatto di offrirci delle immagini attraverso cui
riconfigurare il nostro rapporto con la realtà. Le due facce del medium (la sua natura
di supporto e di dispositivo, e la sua natura di forma culturale) sono, di solito,
strettamente intrecciate. Tuttavia i due aspetti sono anche distinti ed è utile usare due
nomi diversi. Una cosa infatti è la base materiale di un medium, un’altra la maniera in
cui esso organizza i nostri vissuti. Questa distinzione diventa particolarmente
importante oggi, in un momento in cui il tipo di esperienza che caratterizza un
medium sembra potersi riattivare anche senza la presenza completa della sua
tradizionale base materiale. L’esperienza cinematografica può rinascere anche al di
fuori della tradizionale sala buia. Un nuovo contesto comporta comunque delle
trasformazioni e riconoscere un medium in un ambiente che non è più il suo è
comunque un’operazione complessa. Ma è anche così che il cinema può
sopravvivere. Il cinema, fin da subito è considerato come una peculiare forma di
esperienza, si tratta anche di un dispositivo tecnico: esso nasce da una serie di
brevetti. In Europa, nei primi tre decenni del ‘900, uno degli appellativi più comuni

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: maria_pina-27 (mariaforadada@gmail.com)
del cinema era quello di “arte meccanica”. Tuttavia la macchina conta non per quello
che è, ma per quello che fa e sa fare. L’esaltazione della vista è indubbiamente legata
al fatto che il cinema lavora su immagini proiettate su uno schermo, e per di più le
presenta in una sala buia, ad aumentare la nostra concentrazione. Le immagini
filmiche ci mettono in contatto con la realtà, con la vita. In una delle prime
presentazioni dell’invenzione dei Lumière, André Gay collega direttamente
“l’impressionante sensazione del movimento reale e della vita” al funzionamento del
dispositivo. Il cinema registra la realtà e la vita per andare incontro al bisogno
dell’uomo di celebrare “il suo trionfo sull’effimero e sulla morte”. Il cinema è il
regno dello stupore, non si tratta solo di un prodigio della tecnica: la sorpresa nasce
anche da una capacità di reagire e di partecipare a quanto si vede. Il cinema fa appello
anche alla nostra immaginazione, ed essa trova via libera perché il cinema ha messo
a punto un linguaggio capace di valorizzare la fantasia. Il cinema ci offre anche una
conoscenza del mondo. Lo fa perché il suo occhio meccanico è capace di cogliere la
sottile logica che anima la realtà come nessun essere umano saprebbe fare. Il cinema
ci fa sentire membri di una collettività e questo senso di appartenenza è anche legato
al desiderio ancestrale di creare uno stato di comunione grazie a cui spartire
sentimenti e valori. Dunque non è semplicemente una macchina, è soprattutto una
forma di esperienza in cui entrano in gioco fattori sociali, culturali, estetici; è uno dei
dispositivi che tra ‘800 e ‘900 hanno cambiato il nostro modo di percepire il mondo,
si collega direttamente ai bisogni antropologici, a una tradizione espressiva, alle
tendenze del tempo, sa persino rimetterci in contatto con un mondo immacolato. La
teoria del cinema nei primi due decenni del secolo scorso porta avanti con costanza
questo approccio “esperienziale”, gli elementi messi in luce da questo approccio
variano nel corso dei decenni, mentre a metà del secolo ciò che viene evidenziato
sono piuttosto alcune implicazioni antropologiche. Emerge una sorta di nucleo
centrale: al cinema noi fronteggiamo immagini in movimento su uno schermo che ci
rimettono in contatto con la realtà vivente. Questi tratti non sono esclusivi del
cinema, ma caratterizzano un fenomeno. Se il cinema è esperienza, questa è la forma
che essa prende.
Un tratto peculiare di questa esperienza, è che una volta provata dentro la sala buia,
emerge anche altrove. Lo si denota negli scritti di Pirandello e di Jean-Paul Sartre
che ricorda l’intrecciarsi della sua infanzia con il cinema, e confessa di ritrovare
l’atmosfera di quei primi cinematografi anche nelle occasioni più impreviste:
“eravamo, io e il cinema, della stessa età mentale: io avevo sette anni e sapevo
leggere, lui ne aveva dodici e non sapeva parlare”. L’obiettivo della macchina da
presa è un occhio dotato di capacità analitiche inumane. È un occhio privo di
pregiudizi, di morale, esente da influenze e vede nei volti e nei movimenti umani dei
tratti che noi non riusciamo più a vedere. Dunque l’esperienza di cinema è
contagiosa: essa si riproduce anche lontano dalla sala buia. Il risultato sarà un sistema
che consentirà di riattivare tutti i possibili tipi di esperienza a comando. Dunque le
particolarità dei media in quanto mezzi di comunicazione è di poter spostare le
esperienze liberamente. Il cinema, con la sua vocazione a riproporsi anche in altri
contesti, ha tutte le premesse per seguire questa stessa strada. È ben vero che il
cinema opera quasi subito anche negli spazi domestici, nelle scuole grazie a proiettori

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: maria_pina-27 (mariaforadada@gmail.com)
portatili, il cinema è pronto ad andare oltre i propri confini, ma non ha ancora il modo
di farlo pienamente. Questo arriverà più tardi, momento che coinciderà con l’arrivo
della televisione, dei DVD, dei tablet. Oggi ci troviamo a viverne il punto forse
culminante.
È la crescente presenza del cinema, con i suoi nuovi devices a offrire immagini in
movimento da cui trarre un’eccitazione percettiva, il senso di una vicinanza reale,
un’apertura alla fantasia, un’adesione a quanto rappresenta. Grazie a un nuovo canale
un tipo di esperienza rinasce altrove. La rimediazione è quel processo attraverso cui
“un medium è incorporato e rappresentato all’interno di un altro me-dium. Si tratta di
una strategia portata avanti in particolare dai media elettronici e può condurre sia a
un riassorbimento senza apparenti alterazioni del medium precedente nel nuovo, sia
al rimodellamento del vecchio medium. Ciò che conta nella rimediazione è dunque,
un dispositivo e la sua raffigurazione. La rilocazione mette invece in gioco altri
aspetti, evidenzia soprattutto il ruolo dell’esperienza. Un medium è definito dal tipo
di sguardo, di ascolto, di attenzione, di sensibilità che lo accompagna, e dunque non
è il permanere nei dei suoi tratti fisici, ma il permanere del suo modo di percepire le
cose e di rielaborare questa percezione che ne assicura la continuità. La rilocazione
evidenzia il ruolo dell’ambiente. Un medium è definito anche dalla situazione in cui
opera e che crea. Ciò che caratterizza il nostro tempo è la presenza di una serie di
movimenti che ridisegnano profondamente il paesaggio circostante: merci, denaro,
persone, idee. Il concetto di rilocazione vuole sottolineare l’analogia tra le
trasformazioni del cinema e i processi di circolazione che caratterizzano il mondo
attuale: gli spostamenti del cinema sui nuovi devices e in nuovi ambienti avvengono
sullo sfondo di processi di migrazione ben più ampi.
La rilocazione fa sì che un’esperienza rinasca quasi come la stessa. Nella sua
migrazione esso incontra nuovi tipi di schemi, che offrono condizioni di visione assai
differenti rispetto allo schermo della sala. I modi di visione ne risentono, come ci
suggeriscono direttamente o indirettamente alcune ricerche empiriche, lo spettatore
che vede un film sui nuovi schermi tende in quanto media user ad attivare
un’attenzione multifocalizzata che lo porta a seguire più cose allo stesso tempo,
mescola rappresentazioni del reale con informazioni più astratte e infine cerca di
districarsi tra diverse e contrastanti situazioni. Questo stesso spettatore riesce però ad
isolarsi nell’ambiente, a recuperare la magnificenza delle immagini, a concentrarsi su
una storia, a godere della realtà vivente che si riaffaccia sullo schermo, arriva a farlo
perché la situazione da un lato è flessibile e dall’altro perché presenta una serie di
caratteristiche tipiche su cui ci si può appoggiare. Di qui la possibilità di sfumare
quello che appare come difforme. Il cinema ritorna allora ad essere cinema. La
configurazione emerge letteralmente dalla situazione quale essa è, con tutte le sue
imperfezioni. Perché ogni situazione è imperfetta, è deformata, dal momento che si
realizza sulla base di condizioni contingenti particolari.
Riconoscere qualcosa e qualcuno vuol dire associare ciò che abbiamo di fronte a
qualcosa che abbiamo già incontrato e ammettere l’esistenza e la legittimità di ciò
con cui non si ha a che fare: accettiamo una realtà e in qualche modo le diamo uno
statuto. Il riconoscimento è tutte e due queste cose, grazie a cui qualcosa va
individuato, entrambe queste operazioni ruotano attorno al fatto di avere un’idea di

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: maria_pina-27 (mariaforadada@gmail.com)
quello con cui si ha a che fare, nel primo caso si tratta di un’idea che viene richiamata
per poter effettuare un’identificazione corretta; nel secondo viene costituita per così
dire, a posteriori, come risultato di una accettazione. Ritornando al cinema rilocato
non si tratta solo di una scelta a livello mentale, ci sono elementi contestuali forti che
dicono verso dove andare. C’è ad esempio, la pressione di mercato, il desiderio di
continuare ad essere spettatori. Ma anche c’è la presenza di dispositivi tecnologici
sempre nuovi, che presumibilmente spingono in direzione contraria, c’è
“un’immagine sociale” di cinema che circola nei discorsi, che costituisce un punto di
riferimento. C’è la nostra memoria di spettatori. Ci ricordiamo cosa il cinema è stato,
e usiamo l’idea che ci siamo fatti per testare l’esperienza che stiamo vivendo che non
è detto non scompaia nel futuro. Ma per ora essa è un elemento in gioco. Infine c’è
anche un lavoro d’immaginazione. Essa è anche uno strumento costitutivo, ci fa
interpretare la nostra esperienza come cinematografica, e dunque la fa essere quella
che è. Non dobbiamo però pensare a un modello unico e fisso. L’idea di cinema ha
cominciato a delinearsi ne momento in cui il cinema è apparso, costituisce una
componente essenziale dell’esperienza. Essa ci dice che stiamo vivendo qualcosa e
dunque permette alla nostra esperienza di acquistare, riflessivamente, coscienza di sé.
Ogni esperienza, per essere veramente tale, deve allineare stupore e consapevolezza.
È esperienza non solo perché ci sorprende e ci prende, ma anche perché ci fa capire di
essere esperienza e di che tipo è. L’inesperienza è sempre in agguato, soprattutto
nelle situazioni più intense. La presenza di un’idea riscatta questa situazione,
ricongiunge una ricchezza sensoriale con un percorso di rielaborazione.
Riconoscere la presenza del cinema in nuove situazioni è più facile quando esistono
passaggi intermedi. Ci sono gruppi di spettatori che organizzano visioni collettive, in
cui ciascuno vede il film scelto a casa sua, ma tutti nello stesso momento. L’idea di
essere parte di un pubblico aiuta a sentirsi al cinema come una volta, anche se ora si
è soli. In queste situazioni borderline, noi evochiamo una certa idea di cinema che ci
proviene dall’abitudine, dalla memoria e anche dall’immaginazione.
Il fatto di riconoscere la presenza di qualcosa di cinematografico in situazioni
borderline significa innanzitutto accettare l’imperfezione. Il cinema rilocato non è
mai cinema al cento per cento. Ma sono proprio le sue mancanze che si rivelano
positive, ci spingono a interrogarci, ci offrono la possibilità di portare alla luce una
configurazione che nonostante tutto continua ad essere cinematografica. Riconoscere
la presenza del cinema anche là dove le circostanze sembrano contrarie comporta una
lettura tendenziosa; può essere opportuno distinguere tra un gesto essenzialmente
retrospettivo e un gesto invece proiettivo. L’idea di cinema è cambiata nel corso degli
anni, e scavare nel passato ci può aiutare a capire che cosa di esso oggi si è perduto,
riconoscendone la presenza nelle nuove situazioni. Lavoro difficile, ma solo
attraverso esso si può arrivare a vedere come questa presenza abbia una sua profonda
autenticità.
Il film di Tacita non è quindi un omaggio a un medium che muore attraverso una sua
piena restaurazione, è piuttosto la constatazione di quanto sia difficile far rivivere un
medium senza cambiare la faccia. Questa installazione non è cinema, ma ci costringe
a pensare alla sua storia. Film è la messa in scena della sua inevitabile deformazione.

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: maria_pina-27 (mariaforadada@gmail.com)
È proprio questa difficoltà di riconoscimento che rende l’installazione interessante. È
nel non trovare immediatamente il cinema che capiamo cosa il cinema significhi.
2. Reliquie e icone
In Nuovo Cinema Paradiso, di Giuseppe Tornatore. Film zeppo di simboli, ci offre
almeno tre grandi metafore: la prima riguarda il desiderio del cinema di uscire dal suo
luogo tradizionale per trovare nuovi ambienti in cui far vivere le proprie immagini e i
propri suoni; la seconda riguarda il rischio di morte che il cinema corre nel lasciare la
sala; la terza è quella che adombra una possibile rinascita del cinema. Infatti il cinema
continuerà a vivere: dopo l’incendio e al posto del Cinema Paradiso, verrà costruito il
Nuovo Cinema Paradiso.
L’effetto è che il cinema è ovunque, magari mascherato in altre vesti, o mescolato ad
altre genti. Esso invade il nostro orizzonte e ne riempie gli interstizi. È importante
tener conto che le sale cinematografiche esistono ancora, e anzi sono in crescita. Nel
2002 infatti, il numero degli schermi ha avuto un aumento del 5%.
Il cinema però è largamente consumato anche fuori dalla sala, gli spettatori scelgono
più luoghi dove vedere un film: non si legano solo a uno, e soprattutto non si legano
più alla sala. In questo quadro, la visione di un film in televisione appare un settore di
grande rilievo. Ma è lo streaming la forma più in crescita di accesso a un film. A
favore del video on demand gioca il fatto che esso sia disponibile in un’ampia serie di
piattaforme. I dispositivi mobili collegati a Internet liberano la visione dall’obbligo di
avvenire in un luogo preciso, e la rendono possibile ovunque. A proposito di
streaming va ricordato infine che il cinema si può anche piratare. La rilocazione del
cinema dai suoi vecchi confini sembra seguire due strade maestre: la prima
rappresentata dal film, l’oggetto della visione al centro; mentre la seconda è
esattamente l’opposto: l’esperienza del cinema si riattiva lontano dai suoi luoghi
canonici non tanto perché c’è la disponibilità di un oggetto, quanto perché c’è un
ambiente adatto ad essa. Qui, quel che conta, è il fatto di ritrovarsi davanti a uno
schermo ampio, i fruire al meglio le immagini e i suoni, di essere circondati da pareti
che isolano dall’esterno.
Il cinema si riloca perché rende disponibile altrove ciò che voglio vedere. Nel primo
caso ho a che fare con un oggetto della visione che mi viene consegnato dove mi
trovo; nel secondo con un ambiente della visione che viene riallestito dove è
possibile. Quindi da una parte interviene un trasporto, un delivery; dall’altra una
riorganizzazione dello spazio, un setting.
Ciascuna di queste due strade ha in qualche modo una storia alle spalle. I processi di
delivery cominciano già negli anni ’60 con la possibilità di vedere film sul piccolo
schermo. Si tratta anche del primo passo di una migrazione del cinema verso un
nuovo ambiente. Questa migrazione si rafforza a metà degli anni ’70 con l’avvento
della televisione via cavo e con i suoi canali dedicati. La prima compagnia a operare
è l’HBO. Il 1975 è l’anno del VRC, con i due standard: il VHS della JVC e il
Betamax della Sony. Il VRC era nato per registrare su nastro le trasmissioni televisive
in modo da conservarle per una visione futura, ma si rivela ben presto un ottimo
strumento per riprodurre opere pre-registrate, di qui un largo commercio su
videocassetta. Il DVD a partire dagli anni ’90 e soprattutto la possibilità di scaricare

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: maria_pina-27 (mariaforadada@gmail.com)
film dalla rete, nel primo decennio del nuovo millennio completeranno questa
traiettoria.
Anche la predisposizione di ambienti che richiamano il cinema ha una storia alle
spalle. Uno sguardo all’indietro scopre facilmente come sia le operazioni di delivery,
sia quelle di setting hanno accompagnato il cinema in una buona parte della sua vita
più recente, ma è con il nuovo millennio che le due strade alla base della rilocazione
del cinema, oltre a farsi più larghe, diventano anche ben visibili. Si tratta di media
estremamente flessibili, pronti ad adattarsi alle esigenze di chi li usa; abbiamo però
anche una serie di dispositivi che lavorano in qualche modo all’opposto, più che
trasportare contenuti, essi allestiscono ambienti in cui l’utente può entrare (es.
videogiochi), offrono un luogo e consentono letteralmente di viverlo.
Questa doppia opzione consente al cinema di conquistare una più ampia fetta di
territorio. Essa può far arrivare i film in qualunque luogo, e insieme riproporre anche
altrove il modo tipico di fruirli. La rilocazione può procedere a trecentosessanta gradi,
non si tratta solo delle trasformazioni a cui l’esperienza del cinema va
inevitabilmente incontro, si tratta di qualcosa di più radicale: con la rilocazione,
un’esperienza tradizionalmente unitaria si spacca in due. Il cinema è stato a lungo sia
qualcosa da vedere sia un modo di vederlo. L’oggetto e le modalità dell’esperienza
filmica sono entrati in tensione anche nel passato, quando negli anni ’20 fioriscono i
movie palaces all’insegna del lusso e della decorazione, e quando negli stessi anni
diventano di moda gli atmospheric theatres con un grande cielo dipinto sul soffitto e
spesso paesaggi raffigurati sulle pareti. Che cosa è il cinema ce lo dice innanzitutto
un ambiente. Iris Barry è consapevole che la modalità con cui i film vengono
presentati conta, per lei il cinema è soprattutto una collezione di opere che hanno il
loro valore intrinseco nel modo in cui sono girate, raccontate, recitate. Questo valore
si afferma quale sia la maniera e il luogo in cui le opere sono fruite: di qui la
decisione ad esempio di presentare anche solo piccoli frammenti e soprattutto la sua
scelta di presentare i film in un museo d’arte. Dunque anche nel suo periodo classico,
il cinema s’identifica ora in modalità di visione. Due poli. E tuttavia non si dubita mai
che l’uno possa esistere senza l’altro. La rilocazione spezza questa unità.
L’identificazione del cinema ora con qualcosa da vedere, ora con una qualità della
visione, legata soprattutto al luogo, tende a diventare esclusiva.
Ormai c’è il senso di una spaccatura: il cinema o è un oggetto o è una modalità.
L’esperienza del cinema va incontro ad una inevitabile biforcazione. Sarà esperienza
filmica se porta sul cosa, o esperienza cinematografica se porta sul come. Questa non
è l’unica spaccatura che colpisce il cinema nel momento in cui si riloca altrove.
Pensiamo alla migrazione del cinema rispettivamente verso i piccoli schermi dei
dispositivi portatili. Spesso la scissione avviene anche all’interno di un’unica
situazione. Prendiamo ad esempio, gli schermi urbani. Il passante ha una doppia
possibilità: fermarsi e isolarsi dall’ambiente circostante, o passare dritto e non
prestare attenzione, così non sarà spettatore ma semplice osservatore. Prendiamo
anche in esempio gli smartphone o i laptop, schermi e strumenti di controllo, attivo e
passivo. Questa serie di scissioni segnala una profonda trasformazione
dell’esperienza di cinema. Nei processi all’insegna del delivery si ha a che fare in
qualche modo, con un frammento di cinema. Il film è una componente di un

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: maria_pina-27 (mariaforadada@gmail.com)
complesso più vasto, dove si trovano anche altri stimoli: un pubblico, un’atmosfera.
In concreto l’esperienza al cinema sarà tanto più intensa e completa quanto più il film
farà rivivere i piaceri provati guardandolo. Ecco perché anche un film in DVD è
avvantaggiato dal fatto di aver avuto una vita nel circuito del cinema: in questo modo
è un frammento che sa testimoniare meglio la totalità a cui appartiene. Un frammento
o un sostituto, non si tratta solo di due strategie diverse attraverso cui rilocare
l’esperienza filmica, ma anche due modi diversi di riferirsi al cinema, di richiamare i
tratti essenziali. Nei processi di delivery si recupera l’esperienza canonica del cinema.
Il film sul DVD può anche essere considerato un residuo rispetto a quel corpus e a
quella situazione, ma è capace di rimettere in contatto con il cinema. Nel caso invece
dei processi di setting, l’ambiente di visione mi riporta all’esperienza canonica del
cinema grazie a una somiglianza, più che grazie a un contatto. L’home theater è una
copia della sala; ed esso funziona proprio perché condivide molti tratti del suo
modello. La copia e il prototipo continueranno a essere legati intrinsecamente, non
più perché condividono la stessa sostanza ma perché condividono la stessa forma. I
processi di riallestimento di un luogo di visione sembrano seguire questa stessa
strada. Non si tratta solo di nostalgia per un certo modo di vedere i film, si tratta
anche di riconoscere un modello e di far sì che esso possa trovarsi nella copia.
Parlare di reliquia e icona ci aiuta a ricordare che il cinema è stato spesso considerato
un oggetto di culto, la teoria dei primi decenni del ‘900 ha evidenziato volentieri gli
aspetti quasi religiosi dell’andare al cinema. Oggi assistiamo a un ritorno della
cinefilia, come se le trasformazioni del cinema imponessero da un lato una più grande
ammirazione per ciò che rischia di scomparire, dall’altro una più grande apertura per
ciò che si sta imponendo. Nel 2011 Mubi.com ha lanciato un ampio progetto intitolato
New Cinephilia. Il progetto ha visto una raccolta di testi classici sul tema, una serie di
saggi sulle nuove forme di cinefilia, essa si sviluppa soprattutto attraverso il culto
delle reliquie e nel culto delle icone. Quanto alle reliquie pensiamo ad esempio, alla
passione che circonda le proiezioni dei film restaurati. L’immagine fotografica
conserva in sé la presenza del mondo grazie al fatto di aver avuto un contatto
esistenziale con esso, ripropone la realtà fino a farla rivivere in sé, grazie alla sua
somiglianza.
Nel 1915 Vachel Lindsay, nel suo libro L’arte del film, dà grande attenzione al cinema
come nuova forma di scrittura geroglifica, capace di riportarci alla forza primogenita
delle cose che solo alcune vecchie civiltà sapevano raggiungere. Per lui, in
quest’ottica, il cinema era un’arte egiziana. Oggi la rilocazione trasforma il cinema in
una reliquia di un corpo santo e in un’icona di prototipo.
3. Assemblage
In Masculin Femenin, di Jean-Luc Godard, si nota un’aperta riflessione su cosa è il
cinema. Seguiamo una coppia che, assieme a due amiche, entra in una sala non
semplicemente per vedere un film, ma anche per viverlo e assistiamo a tutte le
difficoltà che si frappongono a questo desiderio. La proiezione ha un formato
sbagliato, la vicenda rappresentata non è soddisfacente, non tanto perché mette in
imbarazzo Paul quanto perché non corrisponde alle attese dei due spettatori. Paul e
Madeline vorrebbero avere un’esperienza di cinema, ma le condizioni in cui si
trovano le impediscono. La sala, oggi, non è più l’unico posto in cui vedere un film.

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: maria_pina-27 (mariaforadada@gmail.com)
Il film in senso tradizionale non è più l’unico oggetto della visione e i modi di visione
sembrano assumere caratteristiche sempre più personali e contingenti. Molti
considerano il cinema come un complesso di elementi estremamente compatto
formato da componenti uniche e precise. Le nuove condizioni di esistenza del cinema
portano a correggere questa concezione un po’ rigida e oggi la tecnologia appare
come un elemento diffuso, così come i nostri modi di vita. Il cinema è qualcosa che si
configura di volta in volta, sulla spinta della situazione, di un bisogno, di un ricordo.
E l’esperienza di cinema approfitta di tutte le possibili occasioni per rivivere, non è
più la macchina a determinare l’esperienza, ma è l’esperienza a determinare la
macchina.
Apparentemente, la visione individuale e in mobilità è l’esatto contrario della visione
collettiva e immobile che il cinema ha adottato fin dalla sua nascita. L’avvento del
cinema ha disegnato un fronte netto: da un lato gli spettacoli basati su immagini fisse,
dall’altro gli spettacoli basati su immagini mobili, come nel teatro e nella lanterna
magica. Il cinema occupando il secondo fronte, ha inevitabilmente caratterizzato
come non cinematografico il primo. Tuttavia, oggi, sembrano emergere almeno tre
possibilità che rendono questa contrapposizione meno radicale: 1lo spazio in cui lo
spettatore è collocato; 2lo statuto dello spettatore, la bolla in cui si rifugia può essere
condivisa; 3 l’oggetto della visione. Se è ben vero che i nuovi contesti di visione sono
lontani dall’esperienza classica di cinema, è anche vero che possiamo “riparare” la
situazione, persino la visione in mobilità può riavvicinarsi al modello canonico, le
differenze rimangono e pesano, l’ambiente aperto accentua le possibilità di
distrazione. Ma il cinema incontra nuovi ambienti e si confronta con nuove
condizioni: ma non ci abbandona. Semplicemente, grazie a noi, si riloca.
Tendiamo a pensare che le nostre esperienze dipendano dalle condizioni in cui ci
troviamo. Una forma di esperienza consolidata come quella cinematografica sarebbe
in grado di agire sulle circostanze, fino a potersi affermare anche se queste ultime non
sono tutte favorevoli. Il determinismo tecnologico lascia il posto ad una dinamica a
più vie. Negli anni ’60 si è venuta facendo strada questa idea di dispositivo più duttile
e più aperta. A ciò ha contribuito sia un ripensamento teorico sia una trasformazione
nei modi d’essere della macchina cinematografica.
Ritornando all’idea di dispositivo come apparato riprendiamo in mano due testi che
negli anni ’70 hanno inaugurato questa linea di pensiero: Cinéma e le Dispositif,
entrambi di Jean-Louis Baudry. Per Baudry da un lato la cinepresa e il proiettore,
dall’altro il proiettore, la sala buia e lo schermo, formano un meccanismo
caratterizzato soprattutto dal fatto di creare una serie di “effetti ideologici”, la
cinepresa trascrive il reale, traduce questi stessi fotogrammi in un’immagine che ha
sullo schermo lo stesso aspetto del reale, lo spettatore non è reso consapevole di
questa doppia trasformazione, semplicemente gode della restituzione del mondo. La
cinepresa suppone la presenza di un osservatore, appare come disincantata, pronta a
muoversi dappertutto, e dunque dà a questo osservatore un senso di onnipotenza,
carica immediatamente di significato quanto inquadra, e dunque fa dell’osservatore
anche un interprete, una regressione verso stadi anteriori, lo spettatore è immobile e
nello stesso tempo tutt’occhi in un percorso di conoscenza mediata del mondo che si
pretende immediata. Il dispositivo può diventare anche un luogo di confronti e di

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: maria_pina-27 (mariaforadada@gmail.com)
riaggiustamenti. Quanto alle correzioni tra i molti spunti ricordiamo Jonathan Crary,
in Techniques of the Observer nota come la macchina cinematografica sia un punto
verso cui convergono non solo scoperte scientifiche, ma anche discorsi e pratiche
sociali, il cinema pur imparentato con la camera obscura, abbia a che fare con la
visione stereoscopica, e dimostra come la tecnologia non sia valutabile in sé, ma
dipenda dal contesto in cui opera. La seconda voce, a fine degli anni ’90, Rosalind
Krauss in L’arte nell’era postmediale evidenzia come a differenza della pittura alla
base del cinema non ci sia un semplice supporto ma una macchina complessa, aperta
a diversi equilibri. Dunque Crary e Krauss non abbandonano l’idea di apparato, ma
danno a quest’idea una piegatura diversa. La rigidità e l’unidirezionalità lasciano il
posto ad una maggior complessità e flessibilità.
Un concetto come quello di assemblage può restituire al dispositivo i suoi contorni
più propri. Due testi di impianto filosofico possono aiutarci in questo cammino. Il
primo è un saggio di Giorgio Agamben, “Che cos’è un dispositivo?”, dispositio è la
traduzione latina del greco, nella riflessione teologica tra il II e il VI secolo sta ad
indicare la maniera in cui “Dio” amministra il mondo nel disegno della salvezza.
Tutti i dispositivi conducono sempre alla costruzione di una soggettività nella quale
un individuo si cala, e a partire dalla quale si muove. I dispositivi contemporanei
accentuano questa direzione, essi diventano sempre più numerosi. Ma si
caratterizzano anche per un’operazione inversa: ciò che li definisce è il fatto che essi
agiscono su dei processi che possiamo chiamare desoggettivizzazione, chi li utilizza
perde il suo io. Agamben propone di lavorare sulla profanazione, profanare significa
restituire le cose all’uso comune. Questo senso di apertura emerge anche da
un’intervista di Gilles Deleuze, scritto anni prima, il dispositivo è dunque un
complesso formato da elementi assai diversi tra loro, la cui carriera è quella d’essere
in continua trasformazione e in continui divenire. Se dunque è vero che una
soggettività è un costrutto, è anche vero che essa è sempre aperta al mutamento.
Tuttavia Deleuze aggiunge un secondo elemento: se è vero che un dispositivo è
formato da un complesso di elementi assai eterogenei è anche vero che esso è sempre
in grado di tenere insieme tutte le diverse linee in un disegno unitario. La nozione di
concatenamento è essenziale a questo proposito, essa indica appunto il fatto che i
diversi elementi si ricompongono tra di loro. L’assemblage è un’entità coerente e
consistente, senza però essere compatta e determina le sue componenti senza però
essere una trappola da cui non si può sfuggire. È una macchina, ma anche un punto
d’incontro in cui diversi elementi trovano un arrangiamento.
Un film si caratterizza per parecchi aspetti, ma soprattutto rinvia ad almeno tre realtà:
è composto da un insieme di prodotti che costituisce il corpo grosso (la storia); un
insieme di regole di costruzione dei prodotti sul piano narrativo, stilistico o
grammaticale; attività produttiva che segue e sfida le regole del film. Un altro
elemento è costituito dalle pratiche di consumo dei film, abbiamo a che fare con
attività sul piano percettivo, cognitivo, operativo, relazionale e ciò che queste
mettono in gioco è il nostro corpo, la nostra mente, i rapporti con gli altri e con la
realtà. Altro elemento è costituito dagli ambienti. La nostra esperienza oltre che
embodied (connessa ad un corpo) ed embedded (connessa ad una cultura) è anche
sempre grounded, cioè si svolge in ambiti fisici precisi. Infine ci sono una serie di

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: maria_pina-27 (mariaforadada@gmail.com)
grandi bisogni simbolici, i quali si collocano su un piano in qualche modo opposto
rispetto agli elementi precedenti. Gli uni costituiscono la mia quotidianità, gli altri
definiscono un’antropologia. Il cinema come direbbe André Bazin è innanzitutto il
bisogno di ritrovare il reale attraverso le sue apparenze, ma anche come direbbe
Edgar Morin è il bisogno di dare una veste reale alla nostra immaginazione. Il cinema
è una macchina basata sull’adattamento, alimenta la fantasia attraverso immagini che
riproducono il reale; nel film le immagini si adattano al suono, e viceversa. Quindi la
negoziazione opera a tutti i livelli, l’accordo tra i diversi livelli è spesso sancito da un
particolare che diventa così l’elemento di sutura. Lo schermo cerca di mantenere
questo ruolo di elemento suturante ancora oggi, più controverso è invece il ruolo del
buio della sala.
La ricorsività oltre che una stabilità, porta con sé un certo automatismo, anche lo
spettatore ha a che fare con un certo automatismo. I media attivano una serie di
processi percettivi largamente fissi, organizzando un sensorio che funziona
automaticamente.
La migrazione del cinema suscita sempre di più, due posizioni opposte: Raymond
Bellour afferma che solo l’esperienza nella sala buia merita di essere chiamata
cinema; mentre altri come Philippe Dobois affermano che il cinema è una realtà
dinamica, sempre sul punto di oltrepassare i suoi confini, sempre pronta a ribadire i
suoi caratteri di base. Possiamo cogliere questo gioco di rotture e riaggiustamenti in
cui l’identità del cinema sembra perdersi per poi ricostruirsi, nelle cosiddette pratiche
grassroots, le quali così come quelle di profanazione riposano spesso su un
comportamento ludico, quel comportamento che simula una situazione facendola
tuttavia funzionare a vuoto e dunque neutralizzandone gli effetti. Uno spettatore può
approfittare della mascherata che si apre davanti sperimentando le molte identità che
i media gli offrono. È quel che succede con i retakes e i mash-ups: spettatori
ultracompetenti diventano autori di nuovi prodotti, identificandosi come registri, ma
anche spesso postando i loro prodotti su You Tube con differenti nickname. Qui è il
processo produttivo che viene messo in discussione. Sul versante apparentemente
opposto alla profanazione troviamo anche operazioni di fondazione o rifondazione
del dispositivo. È in questo orizzonte che si collocano quelle che abbiamo chiamato
strategie di riparazione. Il cinefilo che organizza il proprio home theater con tutti i
dispositivi avanzati, combinandoli e rendendoli ancora più performanti. Profanazione
e risacralizzazione sono due facce della stessa medaglia, ed è quest’ultima che in
qualche modo muove le strategie di riparazione. Esse mirano a restaurare il cinema:
a ridargli la forza che si merita, e a restituirne il profilo.
Del resto il cinema è sempre stato un medium che ha provato ad esplorare nuove
strade, questo gesto lo ha talvolta portato fuori del suo terreno, ma in generale è
anche servito a capire meglio la sua natura e a rafforzarne i profili.
Il cinema è sempre stato una macchina assai flessibile, aperta alle innovazioni e
insieme attenta ai propri equilibri. Se si vuole, tutta la sua storia è piena di tentativi di
profanazione e di ricorrenti santificazioni. Se è vero che il cinema oggi si trova di
fronte ad una sfida decisiva, è anche vero che è come se esso stesso fosse preparato
da tempo. Il cinema ha sempre potuto essere qualcosa d’altro ma ha sempre voluto
essere lo stesso. Non ha negato le trasformazioni, ma le ha vissute come continuità.

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: maria_pina-27 (mariaforadada@gmail.com)
È alla luce di questa sua storia che oggi il cinema, paradossalmente, sa essere se
stesso anche nel cambiamento.
Nella Whitney Museum Biennal del 2012, Werner Herzog presenta una sua
istallazione dal titolo Hearsay of the Soul. L’installazione consiste in cinque schemi,
sui quali talvolta in perfetta sincronia, talvolta alternate, scorrono due tipi di
immagini: le incisioni seicentesche del pittore fiammingo Hercules Segers e un
gruppo musicale che suona una composizione del musicista contemporaneo Ernst
Reijseger. Hearsay of the Soul richiede una proiezione al buio. L’opera di Herzog è
l’unica installazione che possiamo dire cinema.
4. Luke Skywalker
Nel 2010 comincia a circolare nella rete un’opera intitolata Star Wars Uncut, non si
tratta dell’originale celebre film ma di un remake basato su frammentazione
dell’opera precedente. L’episodio IV è stato suddiviso in segmenti da 15 secondi, ora
con attori in carne ed ossa, ora come cartone animato o film a pupazzi, ora come
parodia. I nuovi segmenti sono stati poi rimontati nello stesso ordine e per la stessa
durata del film originale. L’effetto è un’opera apparentemente bizzarra in cui
coesistono stili, registri espressivi e intenzioni estetiche del tutto differenti. Il
promotore dell’impresa è Casey Pugh, un developer di prodotti audiovisivi che lavora
soprattutto per il web. Tutti questi elementi fanno di Star Wars Uncut qualcosa di più
di un film molto divertente, ma lo rendono anche un film sintomatico, testimonia
come oggi sotto l’etichetta di cinema si raccolga una larga messe di materiali
eterogenei, testimonia la tentazione del cinema contemporaneo di andare al di là delle
immagini fotografiche che hanno tradizionalmente caratterizzato il medium, una
narrazione che riprende e si allinea con altre narrazioni.
La vocazione espansionistica del cinema non è un fatto nuovo, fin dal suo debutto il
cinema ha guardato alle foto di famiglia, alle cartoline illustrate, al teatro, cercando di
avere scambi con loro e di annetterli. È nel 1970 che lo studioso americano Gene
Youngblood pubblica un libro di largo successo dal titolo Expanded Cinema. Il suo
punto di partenza è l’idea che si stia realizzando una trasformazione epocale:
l’umanità sta entrando in una nuova era, l’età paleocibernetica. A questa
trasformazione contribuisce soprattutto il fatto che viviamo in un ambiente ormai
profondamente mediatizzato. La conseguenza è una spinta a rinnovare radicalmente i
propri strumenti espressivi per allargare decisamente il proprio raggio d’azione.
Youngblood evidenzia alcune grandi tendenze che portano il cinema oltre i suoi
tradizionali confini. La prima tendenza è legata al medium in quanto tale. Il cinema
sta acquisendo una crescente consapevolezza dei propri mezzi, egli parla apertamente
di una fusione tra sensibilità estetica e innovazione tecnologica, lavorando ad un
synaesthetic cinema che è capace di coinvolgere tutti i nostri sensi, e in profondità.
La seconda tendenza è legata all’emergere di una creatività diffusa; essa è resa
possibile dalla presenza di tecnologie facilmente accessibili. La terza tendenza è
connessa alla possibilità di creare un feedback tra film e spettatori. La quarta
tendenza è legata alla crescente interconnessione del cinema con altri media: la
televisione, il teatro e il computer. L’espansione è un processo inevitabile: essa
risponde all’espansione della nostra mente, che consente all’uomo di entrare in una
nuova era.

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: maria_pina-27 (mariaforadada@gmail.com)
Il libro di Youngblood conserva molta della sua freschezza, intuisce l’importanza
delle nascenti tecnologie elettroniche e suggerisce che il cinema potrà conservare la
sua identità solo se saprà trovare nuove strade su cui incamminarsi. La capacità del
cinema di uscire dai propri confini tradizionali permettendogli di diventare sempre
più evidente, e si espanderà in modo ben più consistente di quanto si poteva
prevedere. Negli ultimi anni il cinema si è arricchito d nuove tecnologie, sia sul piano
del sonoro, sia sul piano visivo. Queste nuove tecnologie mirano a intensificare il
livello dell’esperienza cinematografica attraverso una maggior coinvolgimento dei
nostri sensi. Il secondo numero di espansione è legato alla crescente presenza di una
popolazione dal basso, alla quale è stata dedicata molta attenzione; il terzo nucleo di
espansione è legata al numero crescente di adattamenti, è come se il cinema
contemporaneo lavorasse sempre sul raddoppiamento; il quarto nucleo richiama le
osservazioni sul feedback, oggi la risposta alle audience si è fatta massiccia. È dagli
anni ’20 che i film sono sistematicamente accompagnati da una serie di discorsi
sociali li riprendono, li commentano, li valorizzano. Christian Metz riferendosi alla
critica e alla teoria, parla di una terza macchina, la funzione di questa è di fare del
cinema un oggetto accettabile e accettato dalla società; il quinto nucleo è
strettamente legato alla presenza dei computer.
Il cinema continua a essere se stesso anche quando adotta il digitale, naturalmente
esiste anche un’espansione spaziale. Il cinema oggi è un’esperienza visiva che prova
a coinvolgere anche altri sensi, il cinema non ha mai occupato un ambito omogeneo,
esso ha visto convivere differenti pratiche di produzione e consumo: oltre al cinema
mainstream, abbiamo avuto quello d’avanguardia, quello didattico, quello di famiglia.
Ai film si sono affiancati i trailer, la cronaca cinematografica, le recensioni critiche. Il
cinema può sviluppare le proprie potenzialità interne, può includere in sé altre realtà
e può allargarsi verso nuovi territori, ma questo movimento comporta anche pericoli,
l’espansione può anche voler dire un cambio di natura. In questo quadro si capisce la
difficoltà oggi di usare aggettivi come cinematografico o filmico. Ciò che lo qualifica
è un tratto del tutto generale: la semplice presenza di immagini in movimento che
prendono posto su uno schermo. Sotto questo aspetto gli unici aggettivi che
potremmo usare sono proprio cinetico o schermico, il cinema non appare più come
una realtà data per scontata, è qualcosa che deve dimostrare d’esserci. L’importanza
del cinema è sempre stata una costante, ma la stessa industria cinematografica sta
vivendo un drammatico cambiamento. Le tecnologie digitali stanno rapidamente
diventando uno standard, insieme a nuove abilità e tecniche. Finché il cinema e lo
storytelling dureranno e prospereranno, documentare e custodire le arti, le professioni
e la scienza del cinema è ora più importante che mai; un ruolo cruciale viene svolto
anche da alcuni siti web che seguono la produzione corrente. Il più noto e insieme il
più indicativo di questi siti è indubbiamente IMDb, contiene un database aggiornato
di tutti i film prodotti, e insieme ne fornisce un continuo aggiornamento. Ci sono
anche strategie di autoaffermazione del cinema che riguardano direttamente i film, il
modo in cui sono pensati e le forme che assumono. Sono hot quei media che
investono i propri destinatari con una tale ricchezza percettiva da non richiedere
alcuna forma di integrazione, mentre sono cool quei media che propongono ai propri
destinatari messaggi a bassa definizione che devono essere in qualche modo

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: maria_pina-27 (mariaforadada@gmail.com)
interpretati. Il cinema è un media decisamente caldo, un film è in grado di
coinvolgere l’intero corpo, riesce ad associare alla riproduzione meccanica della
realtà la capacità di produrre sogni. La conseguenza è che lo spettatore si sente preso
e quasi sovrastato dalle immagini e dai suoni fino a cadere in una sorta di sonno
ipnotico. Una tale caratterizzante del cinema ha dietro di sé una lunga tradizione, da
sempre il cinema trova nel calore la sua specificità. Una delle strade con cui il cinema
oggi cerca di restare o di diventare cinema consiste proprio nel farsi campione
dell’alta definizione. È interessante notare, come nello scambio continuo con gli altri
media il cinema spesso riservi per sé il contenuto più spettacolare e aggressivo.
Tocca al cinema presentare le scene più coinvolgenti di una storia. A questa
dimensione semantica se ne aggiunge spesso una sintattica: il cinema presenta
narrazioni più cogenti. Le storie offrono una trama coerente e compatta. La prima
esplosione del 3D, intorno agli anni 1952-1954, venne vissuta e propagandata proprio
in chiave di “alta definizione”, il 3D prometteva un’immagine dotata di un’intensità
percettiva inusuale: la realtà sembrava materializzarsi in tutto il suo spessore. Il
rilancio del 3D in versione digitale riafferma con Avatar (2009) di James Cameron la
vocazione del cinema a lavorare sulla alta definizione. La visione stereoscopica
continua ad apparire come un tratto qualificante del cinema. Per un verso il nuovo
cinema in 3D non nasconde più le sue affinità con vecchi dispositivi della visione, il
cinema non vuole perdersi nell’indistinzione, ma non rinuncia a essere espanso.
Il cinema non si muove solo nella direzione dell’alta definizione ma anche, e sempre
più, con immagini di bassa definizione, strada proseguita da film che utilizzano
riprese con webcam, telefonini. La distinzione tra hot e cool serve a McLuhan anche
a distinguere diverse epoche. In particolare, egli sottolinea il passaggio dalla
freddezza dell’oralità originaria al calore della scrittura alfabetica. La prima ragione
che porta il cinema verso le immagini povere è il fatto che esso opera in un’epoca
fredda, ma anche la presenza di immagini povere consente di aprire un diverso spazio
di manovra. Le immagini povere oggi sono spesso associate all’autenticità, alla
sincerità, alla verità. La presenza di un contrasto di temperatura evidenzia questo
legame tra invisibilità e verità ma ci aiuta anche a relativizzarlo. L’adozione della
bassa definizione se per un verso porta il cinema lontano da quella che sembra essere
la sua vocazione principale, per un altro verso continua a farlo restare nel suo spazi
elettivo. Le immagini povere costringono il cinema a rinunciare ad una alta
definizione sul piano percettivo, ma gliene fanno guadagnare una sul piano cognitivo:
i sensi si raffreddano, ma si scalda il pensiero. Il cinema allarga il suo raggio
d’azione, implementa le sue possibilità interne; questa espansione porta con sé il
rischio di una perdita di identità. Il cinema cerca di esorcizzare questo pericolo
riallacciandosi a una tradizione che lo vede lavorare su un forte coinvolgimento dei
sensi. I tre cinema viaggiano paralleli, si fanno cenni reciproci ma stanno ciascuno sul
suo, oggi è proprio la sua triplice dimensione che fa emergere le dialettiche che gli
consentono di cercare di restare o di ridiventare cinema.
La presenza di tre cinema: quello della dispersione, quello dell’adesione e quello
della consapevolezza rivela una geografia sociale e politica coi cui il cinema si
confronta. Il filosofo francese Jacques Rancière definisce il modo in cui una
determinata società rende accessibile ai sensi ciò che è presente al suo interno, la

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: maria_pina-27 (mariaforadada@gmail.com)
maniera in cui una parola viene offerta all’ascolto o un’immagine alla vista. Le arti
sono luoghi per eccellenza in cui si realizza questa distribuzione del sensibile,
indicativa anche dei modi di partecipazione alla vita sociale. Il cinema fin dalla sua
nascita esemplifica un regime estetico caratterizzato da una distribuzione egualitaria
dei sensi. Rancière nota che la “grande paratassi” comporta due rischi: da un lato
confina con la grande esplosione schizofrenica in cui la fase si inabissa nel grido,
dall’altro confina con il consenso alla grande eguaglianza del mercato e della
linguistica. Nel suo tentativo di evitare la pura e semplice dispersione, il cinema
espanso pare seguire proprio queste due piste: chiama lo spettatore o a ritornare
membro di una comunità di sognatori o a riacquistare coscienza del mondo nella
speranza di riprenderlo in mano.
Nella Valle di Elah, (2007) Paul Haggis racconta il drammatico viaggio di un padre,
ex poliziotto militare, alla ricerca delle ragioni che hanno condotto il figlio, appena
rientrato da servizio militare in Iraq, a morire assassinato. Il padre analizza
continuamente le immagini riprese con il cellulare che il figlio gli aveva inviato dal
fronte, immagini di pessima qualità che fanno intravedere una realtà di violenza e
sopraffazione da parte dei soldati. Ciò che dunque abbiamo è la conversione di una
bassa definizione in alta definizione, sia sul piano sensoriale, sia sul piano critico.
Quarantatré anni prima un altro film aveva raccontato i traumi di guerra e la violenza
sui prigionieri, e lo aveva fatto anch’esso ospitando al proprio interno immagini
amatoriali: Muriel, il tempo di un ritorno di Alain Resnais. Nel 1963 all’inizio del
processo di espansione, con un pubblico fortemente omogeneo, il cinema è sicuro di
sé a tal punto che può impadronirsi di altre immagini. Nel 2007, in piena espansione,
esso invece deve dimostrare la propria forza, e riconquistare la propria identità, anche
per un pubblico che sta perdendo il senso di che cosa il cinema sia.
5. Ipertropia
Il 19 dicembre 2007, in Piazza Duomo, a Milano, viene inaugurato un grande
schermo, lanciato come la “mediafacciata più grande d’Europa”, su cui scorrono in
continuità spot, documentari. L’allestimento del megaschermo risponde al bisogno
pratico di nascondere i lavori in corso per il nuovo Museo del Novecento. La sua
grande superficie offre un nuovo e forte punto di attenzione; esso, infatti, ingombra
una delle strade d’accesso e inoltre offre un intrattenimento che è il contrario della
visita colta di Palazzo Reale, è in contrasto con la statua equestre di Vittorio
Emanuele II e con la grande galleria Vittorio Emanuele II. Questo esempio ci insegna
che lo spazio conta, che è un punto di contrapposizione, che in questi nuovi spazi il
cinema non rappresenta più una presenza fissa e scontata come era dentro la sala
buia, e che il cinema ha sempre ospitato questo movimento centripeto.
È bene ricordare che lo spazio in cui viviamo è il risultato di una serie di azioni
fisiche o mentali che noi applichiamo su di esso. Lo schermo non occupa
semplicemente uno spazio, ma lo costituisce, ciò è vero soprattutto per i nuovi
ambienti in cui esso interviene. La presenza dello schermo definisce e ridefinisce il
contesto, l’ambiente si apre in una nuova funzione, acquista un nuovo senso. La
presenza di uno schermo riarticola lo spazio, la configurazione dell’ambiente cambia
e si definisce un nuovo specifico impianto, introduce anche una serie di istruzioni di

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: maria_pina-27 (mariaforadada@gmail.com)
comportamento. Si potrebbe dire, quindi, che lo schermo detta il suo linguaggio a ciò
che lo circonda.
La presenza del cinema nei nuovi spazi di visione sembra contrassegnata da una certa
ambiguità. Se per un lato sembra portarli sul proprio terreno, dall’altro crea anche
situazioni più difficili da decifrare. L’home theater può funzionare da vero e proprio
sostituto della sala cinematografica, in cui un elemento importante sono apparecchi
come l’Edison Home Projecting Kinetoscope, introdotto nel 1912; o il Pathé Baby,
un proiettore per il formato 9.5 mm, immesso nel mercato nel 1922. Le tecnologie
digitali non faranno che rafforzare un incrocio in qualche modo già avvenuto. Nel
caso invece della rilocazione del cinema dentro luoghi d’esposizione, l’imitazione
della sala buia può produrre effetti assai più sfumati. La presenza del cinema nei
nuovi luoghi di visione è contrassegnata da una sorta di biforcazione. Essa sembra
costringere lo spazio ad assumere, in certi casi, alcune caratteristiche. L’attuale
varietà e diffusione degli schermi favorisce il processo di “gulliverizzazione”, ci
confrontiamo sempre più spesso con qualcuno o qualcosa che è estremamente più
piccolo o estremamente più grande di noi. L’irruzione del cinema in un ambiente
domestico porta ad una sorta di estetizzazione della casa, i dispositivi tecnologici
sono esibiti, non solo per vanto, ma anche per il fascino che un oggetto di design
suscita. Sul versante opposto abbiamo quello che si potrebbe chiamare una
domesticità delle sale cinematografiche, in nome della comodità, esse spesso
adottano poltrone che sono veri e propri divani, lasciano più spazio attorno, lo fanno
insomma sentire come se fosse a casa sua; ma abbiamo anche forme di
sovrapposizione negli spazi pubblici: la visione del film su un aereo porta a una forte
privatizzazione di uno spazio collettivo. Questo spazio cinematografico
contrassegnato da una pluralità di accenti dà luogo inevitabilmente a nuove forme di
spettatorialità. Prendiamo ad esempio, i megaschermi negli ambienti urbani, essi
presentano materiale con un buon grado di interesse, ma che non sempre riesce ad
attrarre un’attenzione stabile. Sul versante opposto, invece, c’è una generale tendenza
a far lievitare le forme di consumo individuali e gli schermi di dimensioni contenute
lavorano con particolare forza in questa direzione. Un DVD introduce una
temporalità assai diversa rispetto alla fruizione continua tipica della sala, ciò significa
che il DVD non abolisce completamente la continuità della visione, semmai la
complica, grazie a passi che sembrano frammentarla e sospenderla. Il risultato è un
regime che si potrebbe anche chiamare semicontinuità. Lo spettatore, grazie al tablet
o allo smartphone, riacquista una dimensione attiva, e si riallinea a quanto sta
guardando. Egli vive il mondo in trasformazione, non si limita a contemplarlo.
I nuovi spazi della visione non sono, né possono essere più, spazi dedicati. Essi si
aprono al cinema, ma di volta in volta, e mai proprio del tutto. Dipende dalle
circostanze e dagli equilibri momentanei. Il cinema allarga il suo spazio d’azione, ma
sembra spesso anche muoversi su un terreno non suo. Guadagna spazio, ma perde il
suo ambiente. Negli spazi pubblici e privati in cui il cinema si riloca, è come se esso
si presentasse al suo spettatore, è come se lo sorprendesse e gli si consegnasse. Lo
spettatore non va più al cinema, semmai lo trova sul suo cammino.
Considérations sur la situation du spectateur au cinéma di Erich Feldmann,
pubblicato nel 1956, è un’accurata e intelligente descrizione di che cosa significa

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: maria_pina-27 (mariaforadada@gmail.com)
andare al cinema. Egli suggerisce l’esistenza di tre fasi nell’esperienza filmica: la
prima è quella in cui lo spettatore paga un biglietto e si avvia verso la strada: un
consumatore vero e proprio; la seconda è quella in cui lo spettatore entra in sala e vi
prende posto: la scelta della poltrona non è banale; la terza ha avvio quando le luci si
abbassano e comincia la proiezione: abbiamo un taglio netto con la realtà quotidiana.
Lo spettatore entra nella realtà rappresentata. Questo ingresso nel mondo raffigurato
sullo schermo non si realizza però mai del tutto. Egli la riconduce a un percorso che
porta una persona ad abbandonare la quotidianità. Andare al cinema significa dunque
soprattutto lasciare un territorio consueto e affacciarsi su un mondo altro.
Il termine eterotopia si riferisce all’esistenza di spazi che mettono in comunicazione
il mondo in cui viviamo con situazioni che eccedono la normalità quotidiana
(ospedale, cimitero, treno…), sono anche luoghi che in qualche modo sospendono il
fluire del tempo quotidiano. Il cinema rilocato lascia il terreno dell’eterotopia, e
adotta questa nuova struttura spaziale: l’Ipertropia. Tornando al cinema non c’è
dubbio che esso incarni un’idea tradizionale di accesso: lo spettatore entra in un
luogo, la sala, da cui può affacciarsi verso un mondo pronto ad accoglierlo. La
visione di un film scaricato dalla rete illustra bene questo mutamento di direzione. Lo
spettatore non si muove dalla sue sedia. Questo estendersi degli oggetti verso di noi
cambia il senso dell’intero dispositivo. Il 3D presuppone un osservatore concreto,
capace di vedere tridimensionale. Poi esso evidenzia lo spazio della sala, il film non
è più qualcosa per cui ci si muove, è qualcosa che si acquisisce, si incrocia. Anche il
cinema sta diventando un’arte dell’ipertopia. Questo estendersi degli oggetti verso di
noi cambia il senso dell’intero dispositivo. Il 3D presuppone un osservatore concreto,
capace di vedere tridimensionalmente. Poi esso evidenzia lo spazio della sala. Il film
non è più qualcosa per cui ci si muove, è qualcosa che si acquisisce. Anche il cinema
sta diventando un’arte dell’ipertopia. Colui che si raccogli davanti all’opera d’arte vi
si sprofonda, penetra nell’opera. La massa distratta, al contrario, fa sprofondare
l’opera dentro di sé. Del resto questo arrivare dell’opera nelle mani del consumatore
soddisfa il desiderio delle masse di impadronirsi delle cose, di farle proprie. L’idea
che il cinema non solo rapisca e porti lontano, ma anche si faccia dappresso,
invadendo lo spazio in cui ci troviamo, ritorna anche in un paio di racconti. Lo
spettatore non è richiamato altrove, è inondato da stimoli là dove egli si trova. Non
c’è dubbio che nella sua epoca classica il cinema abbia costituito un eccellente
esempio di eterotopia, l’esperienza di cinema è stata in larga parte esperienza di un
luogo in cui affacciarsi su un altrove. Tuttavia esso ha anche esplorato il modello
inverso. Dunque l’ipertopia non porta necessariamente ad un’assolutizzazione del
qui.
In La natura non indifferente, Sergej Ejzenstejn torna a parlare di La corazzata
Potemkin, girato vent’anni prima, nel 1925. E rivela che per la prima proiezione del
film aveva immaginato un finale del tutto particolare: nel momento stesso in cui la
nave si dirige verso la libertà, i reduci degli eventi del 1905 in carne ed ossa entrano
nella sala. Scena stupenda, ma i marinai che entrano in sala sanciscono anche la fine
del cinema: lo schermo si squarcia, la proiezione si interrompe, la realtà è lì e non
servono immagini. In piena cultura della rete, ricordarsi di Ejzenstejn può essere

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: maria_pina-27 (mariaforadada@gmail.com)
utile, e forse anche necessario: rende più problematico quel clic del mouse o quel
tocco con il dito con cui scarichiamo tutte le informazioni del mondo.
6. Display
Timecode (2000) di Mike Figgis racconta novantatré minuti della vita di un gruppo di
persone che abitano a Los Angeles. La durata del film e quella degli avvenimenti
coincidono: la storia è raccontata senza intervalli e senza tagli. Ma l’elemento più
sorprendente è la possibilità di seguire più situazioni nello stesso tempo: il film è
girato con quattro diverse cineprese digitali, in azione nello stesso momento. Le
vicende dei diversi personaggi qualche volta si incrociano in modo più casuale, e in
questo caso la cinepresa che segue l’uno può anche passare ad un altro, qualche volta
le linee narrative si intrecciano, altre volte procedono in modo parallelo. Non è la
prima volta che il cinema sperimenta lo split screen, questo schermo diviso in quattro
ci rimanda ai nuovi tipi di schermo che all’inizio del nuovo millennio cominciano a
costituire una presenza consueta. L’idea è che gli schermi non siano più superfici su
cui rivive la realtà, sono semmai punti di transito di immagini che circolano nel
nostro spazio sociale. Questa trasformazione dello schermo è in verità il sintomo di
un cambiamento più generale, il termine schermo ha una storia interessante. Nel XIV
secolo la parola italiana indica qualcosa che ripara da agenti esterni, e che quindi
impedisce di vedere direttamente. Ma screen indica anche dispositivi più piccoli, con
cui ci si nasconde dagli sguardi altrui. All’inizio del XIX secolo, il termine comincia
a coinvolgere l’universo dell’intrattenimento e lo schermo è quella superficie
semitrasparente su cui vengono proiettate dal retro una serie di immagini e dunque ci
apre la vista su qualcosa di nascosto. Il percorso compiuto dalla parola ci mostra una
sovrapposizione di significati: all’idea di una superficie che protegge, copre e
nasconde si aggiunge quella di una superficie che fa intravedere ciò che sta dietro, le
grandi metafore usate per lo schermo dalle teorie classiche del cinema ripercorrono
tutte questa storia. La prima metafora è quella della finestra: lo schermo è
un’apertura nella barriera che ci tiene separati dalla realtà; la seconda è quella del
quadro, lo schermo è una superficie su cui prendono posto figure capaci di ritrarre il
o un mondo; la terza è quella dello specchio: lo schermo è un dispositivo che ci
restituisce un riflesso delle cose, compreso un riflesso di noi stessi. Lo schermo
televisivo è diverso da quello cinematografico: è piccolo, è di vetro, è fluorescente.
Tuttavia, nei suoi primi decenni, esso richiama le stesse metafore viste in precedenza
alle quali però possiamo aggiungerne un’altra: quella di un caminetto di fronte al
quale si riunisce la famiglia. Un maggiore senso di novità è portato dagli anni ’60, dal
fiorire delle installazioni multischermo. Con l’installazione multischermo, lo schermo
ci dice apertamente di sentirsi stretto nei suoi tradizionali confini. Questa esplosione
degli schermi non è solo un fatto tecnologico, ma piuttosto una trasformazione
concettuale: è l’idea stessa di schermo che cambia. Proviamo a fare una ricognizione
terminologica: il primo termine è indubbiamente monitor, oggi lo schermo serve ad
ispezionare sempre più quanto ci circonda; secondo termine è bacheca, sulla
superficie degli schermi odierni incontriamo sempre meno rappresentazioni capaci di
restituirci il tessuto del mondo e sempre più frequentemente le figure funzionano
come promemoria, come segnali e soprattutto come istruzioni di comportamento;
terza parola chiave è album o wall su cui appendere i ritagli.

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: maria_pina-27 (mariaforadada@gmail.com)
Il flusso di dati, notizie, citazioni è quasi più importante della rappresentazione di una
soggettività. In social network tipici del web 2.0 come Tumblr, questa condizione si
riaffaccia in modo ancor più radicale grazie alla presenza di feed reader, la pagina si
carica di contenuto prelevato altrove, fino a formare una sorta di giornale che
contiene ciò che l’utente legge. Nella sua dashboard appaiono in ordine cronologico
i post degli altri blogger, a cui l’utente talvolta aggiunge un commento o una
correzione, in questi social network abbiamo, dunque, una presentazione di sé che si
basa su un monitoraggio di materiali, spesso presi in prestito da altri. Questo nuovo
schermo è collegato ad un continuo flusso di dati, ma non più né a uno sguardo
attento alle cose, né a un mondo che chiede di essere testimoniato. Il concetto di
display può forse dar meglio l’idea di questo nuovo schermo. Il display mostra, rende
accessibile. Trova la sua più completa realizzazione nel touch screen. Qui l’occhio si
collega alle dita, il tocco sollecita l’arrivo delle immagini, guida il loro flusso, è la
mano a chiamare le immagini, ad afferrarle; lo schermo-display rende presenti queste
immagini. I media sono apparsi come meccanismi di mediazione tra noi e il mondo,
ma l’accento è messo rispettivamente sulla capacità dei media di estendere i nostri
sensi e sulla nostra capacità di coprodurre veri e propri modelli culturali. Oggi però
entriamo in una nuova dimensione, si tratta di devices che servono soprattutto per
accedere a informazioni e servizi. Questa caratteristica può essere facilmente
riconosciuta in tutti i media contemporanei, con questo non siamo più nell’ambito di
uno scambio comunicativo, ma c’è una circolazione di informazioni su cui si deve
innestare e i media sono appunto componenti essenziali di questa circolazione. Se è
vero che il destino di queste immagini è di essere perennemente in transito, è anche
essenziale dove esse atterrano. La loro forza, il loro senso e persino la loro valenza
politica nascono in buona parte dalla loro localizzazione. Non è più uno scambio, ma
una circolazione.
Il cinema rappresenta indubbiamente un punto di resistenza per almeno tre buone
ragioni: esso è legato alla tradizione che lo vede come l’arte o il medium più
prossimo alla realtà; il cinema porta con sé il sogno di un’organicità, i racconti che
esso ci offre mirano a costruire mondi strutturati, coerenti, densi; il cinema è ancora
basato su un sistema broadcasting: un film viene distribuito attraverso percorsi
prefissati e arriva in punti prefissati. Questa sua caratteristica non lo confina ai
margini della grande trasformazione in corso nel mondo dei media, ma può essere
utile a mostrare alcune contraddizioni del panorama contemporaneo. È sintomatico
che per quanto non si creda più alle immagini come una volta, continui a manifestarsi
un bisogno di verità. Lo si denota dal persistente successo dei film tratti da “storie
vere”, e ancor più la crescente rilevanza del documentario. Il cinema con la sua
durevole vocazione a fungere da narratore, testimonia bene questa resistenza contro la
morte del racconto. Ma se è vero che il cinema rilancia e rinforza le contraddizioni
che attraversano l’epoca delle immagini tecniche, è anche vero che esso non può
esimersi dal partecipare al suo tempo. Anch’esso è attraversato ormai dalla logica del
display: un turbinio di dati, in continuo e spesso incerto cammino. Qui non troviamo
alcuna pretesa di canalizzare le immagini. Il cinema si limita a localizzarle e questa
capacità di fornire un punto di sosta alle immagini dà al cinema un nuovo e più forte
ruolo rispetto ai luoghi della visione.

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: maria_pina-27 (mariaforadada@gmail.com)
Goodbye, Dragon Inn è un film taiwanese diretto nel 2003 da Tsai Minglian.
Racconta l’ultima proiezione in una sala prima che essa chiuda definitivamente. Il
film è un classico in costume degli anni ’60. Gli spettatori sono ormai pochi, e due
vecchi si parlano, con le lacrime agli occhi: sono stati attori di Dragon Inn. La
proiezione termina. Il film si interroga su cosa capita quando un media non abita più
tra di noi. Come saremo senza schermi, le immagini continueranno ad esistere ma in
un gigantesco archivio senza alcun terminale, l’universo delle immagini rotolerà su se
stesso. Anche per questo abbiamo ancora bisogno del cinema.
7. Performance
Artaud Double Bill di Aton Egoyan è un film che in tre minuti crea un incredibile
gioco di incastri. Abbiamo tre spettatrici dei giorni nostri: Anna e Nicole, che siedono
in due sale separate ma che partecipano l’una alla visione dell’altra. Abbiamo due
film, che per quanto diversi hanno entrambi delle protagoniste che vanno al cinema,
gli avvenimenti sui diversi schermi si inseguono e si completano l’un l’altro. Nana
vede il film e insieme manda e legge i messaggi sul proprio cellulare con Nicole: è
spettatrice e lettrice insieme. Anna ha invece un atteggiamento più articolato: segue il
film, ma nel frattempo si preoccupa di capire dov’è l’amica. Guardano il film come si
può guardare uno dei tanti oggetti che si incontrano nella vita quotidiana, ora da
prendere, ora da lasciare. Mentre Nana vi si immerge. Anna resta alla superficie di
quanto vede, afferra i particolari che le interessano, li isola dal resto, e li spedisce
alla sua amica. Mentre Nana cerca nel cinema una sorta di rifugio, Anna è entrata
nella sala per passare del tempo con l’amica.
Siamo alla fine di un modello che ha dominato a lungo, quello per cui uno spettatore
assisteva a un film. Assistere significa porsi di fronte a qualcosa che non dipende
necessariamente da noi, ma di cui ci troviamo ad essere testimoni. Con i nuovi
devices lo spettatore può anche modulare i tempi e i luoghi della propria visione. Se
lo spettatore tradizionale si faceva modellare dal film, ora è lui che lo modifica o lo
rimodella. Tra le pratiche oggi chiamate in causa dalla visione di un film, alcune
possono apparire tradizionali, se non fossero esse stesse declinate in un modo nuovo,
nel caso dell’episodio di un franchise, lo spettatore spesso comincia una sorta di
riassunto mentale degli elementi cardinali della storia, se la visione è su un DVD
player, lo spettatore spesso cerca di identificare le scene che più gli piacciono,
pensando di potersele vedere in seguito isolandole. Il cinema è quindi caratterizzato
da una forza di attrazione maggiore che altri media. In altri casi la performance
allarga il raggio d’azione delle pratiche tradizionali, più che trasformarle. Si
costruisce un gruppo con coi spartire la propria esperienza, attraverso un sistema si
contatti o un messaggio su Twitter. La performance però coinvolge e crea soprattutto
nuovi livelli di fare: c’è un fare tecnologico; un fare espressivo, accompagnato da un
mettersi in maschera; un fare testuale, determinato dal fatto che lo spettatore ha la
possibilità di manipolare il film; e c’è la mobilitazione di nuove dimensioni
sensoriali, lo spettatore non attiva più solo vista o udito ma anche altri sensi. Il touch
screen ha rappresentato ancora un passo in più, esso incorpora letteralmente la
tastiera nello schermo.
La presenza di questo ampio spettro di pratiche fa dello spettatore un vero e proprio
performer, è anche un bricoleur: qualcuno che si costruisce ciò di cui ha bisogno

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: maria_pina-27 (mariaforadada@gmail.com)
sfruttando una serie di opportunità o di materiali. Vi sono delle pagine che Lévi-
Strauss ha dedicato proprio a questa figura: “il bricoleur è capace di eseguire un gran
numero di compiti differenziati, ma diversamente dall’ingegnere, egli non li
subordina al possesso di materie prime e arnesi”, il bricoleur non aspetta di avere
tutto ciò che gli serve, tira fuori le sue risorse da ciò che trova. Il nuovo spettatore è
altrettanto occasionale, creativo e personale. Vedere un film non è più un’attività
localizzata, e non è più solo un’attività scopica. È un fare che scatta al di là della
presenza di un grande schermo, e che va oltre la semplice apertura degli occhi. Ora è
interessante che gli aspetti più innovativi della nuova spettatorialità sembrano nascere
proprio da pratiche che si sviluppano fuori dalla sala e fuori dagli stretti confini della
visione. Prendiamo l’attività esplorativa, quella che risponde ad un bisogno di
orientarsi più che di capire; anche l’attività accumulativa, quella che porta a
selezionare e mettere in riserva porzioni di film di particolare interesse; quanto alla
capacità di scegliere ciò che si vuole vedere, essa ci rimanda, alla crescente abilità del
pubblico di muoversi tatticamente online, alla ricerca di contenuti e informazioni
salienti; quanto all’attività di manipolazione, che vede lo spettatore intervenire sui
mezzi della propria visione; o l’attività relazionale che vede lo spettatore costruirsi un
proprio gruppo di appartenenza, nasce dal progressivo peso dei social network. Stessi
social network alimentano anche l’attività “espressiva”, quella che porta a costruire
ed esporre un sé. Uno dei tratti fondamentali che caratterizzano l’esperienza di
cinema è il fatto che la visione sia continua e completa. Un film è qualcosa da vedere
tutto intero e di seguito. È ben chiaro che quest’oscillazione tra il rischio di non
essere più spettatore e l’inevitabilità d’esserlo ancora dipende dal fatto che il cinema
oggi è profondamente mescolato con altri media, il nuovo spettatore filmico ha un
raggio di azione assai più ampio che nel passato, oggi lo spettatore può scegliere con
quale strumento e in quale modo guardare un film. In questo senso lo spettatore è
prima di tutto un media user, capace di muoversi con disinvoltura tra i diversi devices
e pronto anche a sfidarne il funzionamento normale alla ricerca di nuove possibilità di
azione.
Le pratiche extrasala e ed extrafilm che stanno emergendo si mescolano con le
pratiche tradizionali dentro la sala e le ridisegnano o le riorientano. Re-rilocazione
significa un doppio movimento, la fuoriuscita della sala alla ricerca di un nuovo
territorio e il ritorno nella sala ricchi di un nuovo patrimonio accumulato nel
frattempo. Questo doppio movimento mette in luce l’emergere di uno scacchiere
complesso. Ci sono sale che non solo accolgono nuove pratiche di visione, ma
addirittura le favoriscono. Abbiamo però anche sale tradizionali che vogliono
rimanere tali, e che rifiutano l’introduzione di modi di visione, abbiamo ambienti in
cui il cinema si trasferisce, ma che finiscono con l’imporsi su di esso e che lo fanno
smettere di essere cinema. Alla base della re-rilocazione, ci sono almeno quattro
buone ragioni, che rispondono tutte ad esigenze di fondo. La prima riguarda un
bisogno di territorialità, vedere un film è sempre stata una questione di luogo; la
seconda ragione riguarda un bisogno di domesticazione; la terza riguarda il ritorno
alla madrepatria che mette in luce un bisogno di istituzione, quando operiamo con i
nostri devices o in nuovi ambienti, la visione si trova a convivere con altre attività

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: maria_pina-27 (mariaforadada@gmail.com)
ospitate da questi medesimi dispositivi o da questi medesimi spazi; in quarto luogo, il
ritorno alla madrepatria mette in luce un bisogno di esperienza.
In Il seme della follia, 1995 di John Carpenter racconta di un investigatore privato,
John Trent, che viene ingaggiato per ritrovare uno scrittore di successo
apparentemente scomparso, viene internato in un ospedale psichiatrico. Trent evade
dall’ospedale psichiatrico e si aggira in una città spettrale. Entra in un cinema e vede
proiettato sullo schermo la storia che egli sta vivendo, con esso come protagonista. La
risata finale di Trent può essere di liberazione, ma anche il suggello della sua follia.
Perché la realtà che refluisce dentro la sala buia può rilevarsi più vera del vero.
8. La persistenza del cinema in un’epoca postcinematografica
Iniziazione alle delizie del cinema è uno straordinario testo di Antonello Gerbi del
1926. L’esperienza cinematografica è descritta in tutti i suoi aspetti, con molti
richiami colti e insieme con grande ironia. Tra gli elementi che entrano in gioco, c’è il
buio, uno stato che caratterizza positivamente la sala; è la qualità propria di un
ambiente che si oppone, nero contro bianco, all’universo in cui solitamente viviamo.
L’oscurità crea una condizione di sospensione, ed è proprio questa sospensione che
permette agli spettatori di far corpo tra loro, fino a creare una piccola comunità. Il
mondo è evocato da Gerbi a proposito del mondo che prende vita sullo schermo. Il
buio appare come un elemento essenziale dell’esperienza del cinema, fa intimamente
parte del cinema; la perdita del buio evidenzia la progressiva rinuncia del cinema alle
sue caratteristiche proprie. E tuttavia, il cinema continua a vivere; non solo ci sono
ancora sale oscure, c’è un’esperienza di cinema che si ricrea. Il cinema sopravvive
anche in piena luce. Ci sono però due altri fattori che consentono al cinema di
continuare ad essere se stesso dentro. Entrambi fanno esplicito riferimento alla storia
del cinema, costruendo un ponte tra passato e presente, rispettivamente:
l’assottigliarsi del mezzo e il paradosso del riconoscimento. Con la parola medium
Benjamin non ci si riferisce a un dispositivo tecnico, ma piuttosto alle modalità con
cui un’opera, un linguaggio, o una tecnologia attuano la loro mediazione. Quello che
esso sembra indicare è il fatto che l’atmosfera che si crea attorno a un’opera ne
condiziona la ricezione perde gradualmente di spessore e di compattezza con il
passare del tempo. In questa fase storica, il cinema si assottiglia, diventa più leggero,
l’atmosfera che lo circonda cambia: il contatto con il film non è più contrassegnato da
un insieme di norme, di vincoli ma diventa più facile e diretto, penetra nelle pieghe
del nostro mondo quotidiano, e noi ce lo troviamo a portata di mano. Il secondo
elemento che sostiene la persistenza del cinema ci riporta a strategie di
riconoscimento, esso può essere sia un’agnizione, sia un accreditamento. Esso è
allora ciò che fa essere una cosa quella che è. L’apparizione di una tecnologia apre
semplicemente la strada a una serie di possibilità. A questa apparizione deve
succedere una fase di stabilizzazione. Ciò prepara ad una terza fase: il riconoscimento
della personalità che il cinema ha assunto. Il cinema acquista una sua identità
percepita collettivamente, e si trasforma in un’istituzione. Oggi, il cinema, è toccato
da una serie di cambiamenti, chiede una conferma, muoviamo da una certa idea di
cinema che fa parte del nostro patrimonio culturale e riconosciamo come
cinematografiche esperienze quali vedere un film a casa. Restiamo attaccati ad un
modello che abbiamo in testa, e manipoliamo un po’ quel che abbiamo davanti per

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: maria_pina-27 (mariaforadada@gmail.com)
renderlo compatibile. Ma in nome della compatibilità, manipoliamo anche un po’
l’idea da cui partiamo. Lo facciamo rispetto al presente, ma anche rispetto al passato.
Non solo infatti attribuiamo al cinema caratteristiche che in realtà stanno emergendo
ora, ma proiettano queste caratteristiche all’indietro. Negli ultimi anni la storia del
cinema è apparsa sempre più come un problema. Molti tendono ormai a considerarla
una sorta di parentesi dentro una storia più vasta. L’assottigliarsi del mezzo e il
riconoscimento paradossale disegnano un quadro interessante. Nel primo caso
abbiamo una verità del cinema che può emergere dallo ieri, ma solo se interrogati a
partire dall’oggi. In entrambi i casi abbiamo un passato e un presente che si
costruiscono ciascuno in rapporto all’altro. Il passato si consegna alla coscienza del
presidente. Per un altro verso il cinema ridefinisce la propria identità, ci chiede di
accettare le trasformazioni cui è andato incontro, e anzi proiettarle all’indietro. Oggi
il cinema è stesso che si sta rilocando su nuovi dispositivi e in nuovi ambienti sociali,
e che dunque cerca di uscire da una propria strettoia. È lui che è messo in discussione,
e che deve cercare un nuovo terreno su cui far valere la propria lezione. Del resto, che
il cinema sia una situazione di pericolo è un sentimento diffuso. E a ben guardare è
proprio per far fronte a questo pericolo che noi richiamiamo l’idea di cinema e la
usiamo per attribuire una cinematograficità a situazioni borderline, anche a costo di
una rilettura tendenziosa della storia, quel che ci muove è quindi la possibilità. Ma se
è vero che la situazione è permeata di un senso di morte, è anche vero che essa
contiene un altrettanto forte senso di vita. Possiamo qui dedurre due conclusioni: da
un lato la sua continua rilocazione in altri dispositivi e in altri ambienti è comunque
all’ombra di un decesso; dall’altro lato invece, il cinema si riloca per poter scoprire
tutta la sua identità. Il cinema è un oggetto tutto ancora da scoprire.

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: maria_pina-27 (mariaforadada@gmail.com)

Potrebbero piacerti anche