La sociologia visuale è una disciplina i cui ambiti di studio si prefiggono di valutare i processi
di visualizzazione e le pratiche della vita quotidiana. I processi di visualizzazione tendono ad
analizzare le immagini che ci vengono proposte per decostruirne i diversi strati di significato,
individuarne il contesto di produzione e le ideologie diffuse. Le pratiche della vita quotidiana
sono oggetto privilegiato di studio della sociologia visuale, il che significa osservare i modi
con i quali gli individui nella vita quotidiana usano immagini come canale privilegiato di
comunicazione. Con le nuove tecnologie di visione e visualizzazione si stanno aprendo nuovi
scenari che vanno a modificare le relazioni sociali e i processi di costruzione del senso e
dell’identità. Le immagini vengono usate per affermare appartenenze ed esclusioni, per dare
un senso al quotidiano e per comunicare con gli altri. A fronte del rifiuto della sociologia
classica di concepire la dimensione visuale nei suoi studi, la sociologia visuale è, come
afferma John Grady, la proposta di una sociologia più "visuale", che lavora con e sulle
immagini, considerandole veri e propri dati, allo stesso modo delle parole e dei numeri.
Douglas Harper definisce la sociologia visuale come la registrazione, l’analisi e la
comunicazione della vita sociale attraverso fotografie, film e video. Questa definizione
focalizza l’attenzione su alcuni aspetti fondamentali della sociologia visuale, come lo scopo
analitico e il tipo di conoscenza che il ricercatore cerca di portare alla luce e l’importanza del
mezzo di registrazione. Da una parte i progetti nei quali i ricercatori scattano fotografie per
studiare i mondi sociali, mentre dall’altra i ricercatori che studiano immagini prodotte dalla
cultura. Fare ricerca visuale sulle immagini significa selezionare quei lavori che risultano utili
agli scopi dell’indagine rendendo utili una centinaia di foto su un archivio di decine di
migliaia. La ricerca sulle immagini comprende l’interpretazione e la spiegazione. La prima
parla dell'identificazione dei significati simbolici delle immagini che sono state prodotte nel
corso di un'attività sociale, come ad esempio tutte le dimensioni del mondo visibile e della
cultura materiale, mentre la seconda analizza un processo di identificazione e analisi dei
significati simbolici/culturali/storici di immagini che sono state prodotte allo scopo di
raccontare una storia. Bisogna quindi differenziare la possibilità di ottenere informazioni con
le immagini e quella di ottenerle dalle immagini; di conseguenza possiamo affermare che
l’immagine è entrata nel campo della sociologia sia come oggetto di studio che come possibile
strumento di ricerca. La ricerca con le immagini e sulle immagini non si escludono
reciprocamente, ma vengono utilizzate entrambe. Il contesto delle possibilità muta insieme ai
cambiamenti sociali e tecnologici, così che noi non possiamo comprendere le opere del
passato allo stesso modo in cui le vedevano i contemporanei. Ad esempio i fratelli Lumiere
quando proiettarono il film "L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat" non potevano
immaginare che gli spettatori scappassero dalla sala supponendo che il treno li avrebbe potuti
investire. Un altro esempio può essere ricondotto alla decifrazione della Stele di Rosetta
grazie al francese Champollion: egli riuscì a trovare la chiave di lettura dei geroglifici e, da
quel momento, la civiltà egizia ha avuto per noi un significato logico e ben diverso dalle teorie
precedenti agli studi applicati. Per questo motivo i cambiamenti tecnologici hanno sempre
bisogno di un’alfabetizzazione visuale. Per quanto riguarda la sociologia con le immagini
l'esempio, credo, più lineare si possa avere prendendo spunto da "Good Company", un libro
redatto nel 1982 da parte del precedentemente menzionato Douglas Harper. Harper
approfondisce la ricerca sul campo, metodo per la definizione della ricerca visuale con le
immagini, in una realtà marginale della società: analizza i tramps, i cosiddetti barboni. Vi è
un'osservazione partecipante da parte di Harper che segue ritmi, abitudini e quotidianità di
questi senzatetto. Il calarsi personalmente in una realtà stabilisce un rapporto biunivoco tra
l'osservatore e l'osservato "imparando a vedere con gli occhi dell'altro", come sostiene Harper.
Il climax di eventi vissuti durante la ricerca portano da un iniziale distacco tra Harper ed un
senzatetto di nome Carl ad un rapporto stretto che culmina con l'inversione dei ruoli: Carl
funge da maestro nei confronti di Douglas, il quale sarà emotivamente preso nelle lezioni di
vita che il tramp in questione gli insegnerà. L'identificazione è frutto di un coinvolgimento di
immagini di vita reale, sia per Harper (in prima persona) che per il lettore del libro Good
Company.
Il cinema è sempre stato, fin da subito, lo specchio della realtà con cui si poteva catturare del
reale non solo l’apparenza, ma la sostanza stessa (l’anima), aggiungendo il movimento alla
fotografia. Tra il 1919 e il 1930 l’industria cinematografica si espande fino a diventare parte
della vita sociale e culturale di molti popoli. Vertov, fu uno dei più noti documentaristi che
voleva creare un modo nuovo di fare cinema, un cinema che cercasse di trascendere e
approfondire l’usuale modo di vedere. Nel 1919 pubblicò il Manifesto della rivoluzione dei
Cine-Occhi; il cine-occhio era un mezzo per rendere visibile l’invisibile, chiaro l’oscuro,
ovvio ciò che è nascosto; un cinema come sistema di rappresentazione attraverso cui poter
sperimentare e capire i rapporti sociali. Un modo per vedere le cose come non l’abbiamo mai
viste. Nel 1923 venne fondato a Francoforte l’Istituto per la ricerca sociale che propose un
approccio interdisciplinare attingendo da discipline come la sociologia, la filosofia, la storia,
la psicologia e la psicanalisi. Questi contributi vennero utilizzati per applicare alla società
contemporanea l’impianto teorico di Karl Marx che voleva comprendere un sistema sociale
sta stava cambiando nel quale i media occupavano un posto sempre più importante.
L’attenzione verso i mass-media rispecchiava l’esigenza di comprendere il funzionamento
del sistema sociale anche attraverso i processi di comunicazione di massa. La Scuola di
Francoforte elaborò una teoria critica e definì i mass media un’industria culturale i cui prodotti
non nascono dal basso, ma sono pianificati dall’alto, sono prodotti standardizzati e omologati
alla necessità di un consumo culturale di massa. I destinatari sono concepiti come
consumatori, spettatori sempre più passivi, in cui il solo ruolo attivo è assoggettato alla
circolazione del valore nel cerchio del consumo. Il cinema in passato ha rappresentato anche
un mezzo importante, anzi fondamentale soprattutto nel periodo della prima guerra mondiale
per mostrare come fosse possibile utilizzare i media per fare propaganda. Nel ‘900 lo
sfruttamento dei media a scopi politici è diventato normale, tanto più efficace quando è più
sottile, indiretta e dunque invisibile. Il cinema diventa sempre di più una fonte vera e proprio
di informazione, essenziale per capire la società e per comprendere le trasformazioni sociali,
usi e costumi. Per esempio attraverso alcune opere cinematografiche si possono comprendere
i cambiamenti della società italiana. Nel 1931 venne istituita la Direzione Generale per la
Cinematografia con lo scopo di rilanciare la produzione italiana, in quanto il regime era
preoccupato della massiccia importazione dei film stranieri e temeva il crollo dell’attività
italiana. Nel 1934 furono addirittura costituite la corporazione dello spettacolo e fu creata la
Federazione Nazionale Fascista degli industriali e dei lavoratori dello spettacolo. Il regime
fascista individuò nel cinegiornale il mezzo privilegiato per la propaganda: attraverso i
cinegiornali Luce vennero enfatizzate le imprese di Mussolini, il quale si serviva del cinema
per parlare al mondo e mostrando gli obiettivi raggiunti. Il cinema straniero che promuoveva
tematiche pacifiste ovviamente veniva censurato, mentre il film di finzione aveva una certa
libertà. Presero piede poi i film piccolo-borghese con storie d’amore che rispecchiavano i
valori del regime e quelli cattolici. Nell’Italia del dopo guerra la situazione non era delle
migliori. La gente era affamata e impoverita e così si decise di iniziare a raccontare storie
popolari per descrivere la situazione dell’Italia con un certo realismo, ovvero mettere in scena
la difficoltà di vivere, raccontare le storie dei personaggi umili con attori presi dalla strada,
riprendere il paesaggio segnato dalla guerra. Questo però non è visto di buon occhio dal partito
democristiano, in quanto loro pensavano che questi film mettevano in cattiva luce l’Italia
mostrando la miseria del dopoguerra. Dopo il 1948, il cinema subì alcuni danni perché si
iniziò a negare finanziamenti ai film scomodi e premiando invece pellicole meno politicizzate.
All’inizio degli anni 50 grazie al boom economico, i film italiani aumentano. Prende corpo la
corrente detta neorealismo rosa dove venivano messe in scena protagonisti non che
raggiungevano i loro bisogni primari ma bensì il raggiungimento di uno status sociale
migliore. In questo periodo si iniziano a delineare i vizi e le virtù dell’italiano medio (Totò).
Il cinema ebbe sempre di più successo tanto da creare una legge (Legge Corona) che aiutava
l’industria cinematografica, istituendo un fondo speciale da attribuire a particolari film con
scopi artistici. Alcuni autori come Michelangelo Antonioni riusciva a comunicare la
psicologia dei personaggi; rispecchiare la società dell’epoca. Un altro esempio è la commedia
all’italiana che riesce a raccontare in maniera concreta i cambiamenti in corso nella società
degli anni ‘60, spesso riflettendo sulle contraddizioni del boom economico La commedia
all’italiana spinge alla risata liberatoria, ma graffia e lascia il segno, raccontando la rincorsa
al successo e al benessere consumistico, la disgregazione della famiglia, affrontando col
sorriso argomenti scomodi come il fascismo. In contemporanea alla commedia all’italiana
emerge anche in Italia un tipo di cinema che cerca di impegnarsi nei confronti della realtà
sociale e politica. Sono registi accomunati dalla militanza politica nelle fila della sinistra che
svolgono un’opera di denuncia dei meccanismi della società lavorativa, delle logiche di
dominio dello Stato e dell’economia, del potere occulto delle organizzazioni criminali nel sud
d’Italia. In conclusione possiamo dire che il cinema, la tv e i mass media hanno un l’obiettivo
di manipolarci facendoci consumare sempre di più ad una forma di società le cui relazioni si
strutturano sempre più secondo reti mediali sostituendo la comunicazione faccia a faccia. È
la tv che sceglie per noi, impone la sua scelta trasmettendo. La tv costruisce l’attualità. Sono
cambiati i tempi dell’informazione dove risulta importante l’istantaneità, il tempo reale, la
diretta, che solo radio e tv possono dare e questo fa invecchiare la stampa che rimane in
ritardo. Cambia anche il concetto di veridicità dell’informazione: un fatto è vero non perché
lo è, ma perché anche altri media lo confermano. I media non distinguono più il vero dal falso.
Il primo esempio che mi salta in mente, che possa prevalentemente indagare sui mutamenti
sociali che avvengono o sono avvenuti in Italia, riguarda il film “I Cento Passi”. Un film volto
alla condanna dell’omertà, in un territorio che vedeva muovere i primi passi della mafia
siciliana. Il film ambientato a Cinisi, piccolo paese della Trinacria, racconta la vita di Peppino
Impastato, giovane idealista ribellatosi al padre mafioso e alla “cultura” del silenzio. Marco
Tullio Giordana ha realizzato uno splendido omaggio al sacrificio del giovane Impastato,
raccontando con sensibilità la sua scelta coraggiosa. Nella prima parte del film è narrata
l'infanzia di Peppino, trascorsa nella famiglia collusa con la mafia e in una società
completamente indifferente ai cambiamenti sociali e politici italiani. Poi arriva l'adolescenza,
di lotta sociale manifestata con il rosso delle bandiere. Peppino capisce che l'unico modo di
ribaltare lo stato di paura e tensione in cui il paese vive, è urlare e rendere pubblica la propria
contestazione. La persona contro cui Peppino si scaglia è Tano Badalamenti, Zu’ Tano ovvero
lo zio. I cento passi citati nel titolo separano le loro case, ma metaforicamente sono quelli che
separano la cultura del silenzio e dell’omertà da quella del coraggio e della ribellione; ed è
proprio Peppino che, con orgoglio e rabbia, percorre quei cento passi, e con passione e forza
urla tutta la sua indignazione verso i servi dei potenti. La denuncia di Peppino non ha ostacoli
e non scende a compromessi, passa per circoli culturali, comizi politici e Radio Aut, la radio
locale da lui fondata. La sua diretta e scomoda ironia è l'arma più forte, l'esplosivo più potente
contro il controllo "dell'onorevole" don Tano. Ogni sopruso, ogni imbroglio, ogni ingiustizia
viene smascherata dalle sarcastiche parole del ragazzo. I cento passi è un ottimo film che
rende omaggio a Peppino, al suo coraggio ed a quello di tutti coloro che si sono schierati e si
schierano contro la mafia. L’insegnamento offertoci è che l’animo umano si innalza quando
trova la forza di rompere gli schemi, in ogni difficoltà. Giuseppe Impastato rappresenta una
voce che ha cantato fuori dal coro e sfidato persone più grandi e potenti di lui. Non è stata
solo l'incoscienza dell'età a guidarlo, ma il desiderio di essere libero, di cercare la verità.
Weber, un sociologo tedesco, ritiene che un elemento centrale del mutamento sociale è la
figura carismatica: per sua natura rivoluzionaria e innovatrice, l'autorità carismatica
rappresenta un motore storico fondamentale dei cambiamenti sociali. Ed è la figura di
Peppino, esempio tuttora contemporaneo per la lotta contro le organizzazioni criminali che
tendono a soggiogare le persone. La concezione del termine mafia è cambiata con l’avvento
della sua protesta, delle sue continue rivendicazioni contro una realtà che fino a quel momento
veniva ignorata per paura e per naturale sottomissione (le baronie del sud Italia).