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Luca Panaro

Tre strade per la fotografia

Prefazione di Pier Francesco Frillici


con una nota di Alessandra Spranzi
Ia edizione settembre 2011
IIa edizione novembre 2012
IIIa edizione settembre 2013

ISBN 978-88-89109-67-0

© 2011 Luca Panaro


© 2012 Pier Francesco Frillici
© 2013 Alessandra Spranzi
© Fotografie: gli autori o gli aventi diritto

© APM Edizioni
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Grafica e impaginazione
Erika Giubertoni
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Nuovagrafica, Carpi (MO)
Gli uomini non trovano la verità:
essi la costruiscono come costruiscono la loro storia,
ambedue secondo la loro utilità.
Paul Veyne
INDICE

Prefazione di Pier Francesco Frillici 9


Nota di Alessandra Spranzi 15
Introduzione 17
1. L’archivio come forma simbolica 21
2. La realtà come spettacolo quotidiano 43
3. La finzione come futura verità 73
Nota ai testi 91
Bibliografia 93
Indice dei nomi 96
Prefazione

Tre strade per la fotografia, l’ultimo saggio uscito dalla


penna di Luca Panaro, è il libro che da tempo aspet-
tavo di leggere. È una scrittura fresca, scorrevole, do-
tata di lucidità invidiabile e di ottima immediatezza
comunicativa, che non ha rinunciato alle prerogative
del lessico tecnico, ma ha soltanto ritenuto più op-
portuno usarle con parsimonia e avvedutezza, perché
altrimenti avrebbe rischiato di compromettere il suo
proposito principale, la massima comprensibilità dei
temi e dei problemi affrontati.
Accanto a questo indiscutibile merito, ce n’è un al-
tro. Panaro, senza mai perdere di vista le potenzialità
didattiche della sua ricerca, ci dimostra di saper coniu-
gare le ragioni del critico con le strategie del curatore,
e proprio grazie a questa sinergia d’intenti non realiz-
za il solito saggio generico di critica fotografica, ma
una piccola fenomenologia dell’arte contemporanea.
E vorrei aggiungere, conformemente allo stile franco
e colloquiale dell’autore, in un formato pratico, leg-
gero, tascabile. Ci tengo a sottolinearlo, perché penso
che sia proprio tale caratteristica a rendere questo li-
bro così (felicemente) diverso rispetto ad altre pubbli-
cazioni di settore, costituite spesso in forma di enor-
10 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

mi pseudo-manuali storici, straripanti di nomi, titoli,


date, mescolati in sequenze estenuanti e dispersive.
Tre strade, invece, è uno studio essenziale e calibra-
to e per certi versi somiglia a un prontuario di viaggio,
con il suo corredo di mappe sintetiche ma ben ragio-
nate, con le sue raccolte di dati certi eppure costante-
mente aggiornati, tali da permettere anche al lettore
meno esperto di muoversi con agilità e disinvoltura
nei complicati territori della contemporaneità.
Tale agilità, appunto, è la sua carta vincente. Pa-
naro, in questo modo, evita di fare un errore assai
frequente nella critica d’arte: ricorrere a forme lingui-
stiche troppo dense, concettualmente involute, che
mettono a dura prova la resistenza del lettore. Certo
bisogna ammettere che l’universo dell’arte contem-
poranea è ipertrofico, nebuloso, di rara complessità,
però, se vogliamo fare chiarezza, è necessario disci-
plinare la moltitudine dei fatti adottando un metodo
rigoroso, efficiente, sintetico, altrimenti si rischia il
collasso. Se poi invece preferiamo servirci del sapere
non per descrivere le linee della ricerca estetica, non
per individuare nuove poetiche contemporanee, ma
per fini “decorativi”, di erudizione ostentata, la teo-
ria, allora, degenera in retorica o, nella peggiore delle
ipotesi, in pedanteria. Ecco, Panaro propone qualcosa
di diverso e, senza farci smettere di ragionare, ce lo
presenta in maniera piacevole, distensiva.
Ma ora veniamo al libro. Si presenta ripartito in
tre capitoli al cui interno sono rispettivamente raccolti
alcuni casi rappresentativi. Il primo riguarda il tema
dell’archivio. L’autore, sulla scia di Lev Manovich, a
PREFAZIONE 11

sua volta influenzato dal pensiero di Walter Benjamin,


lo intende come modello paradigmatico e ci spiega
come la sua logica imperniata sul principio dell’accu-
mulazione sistematica, una volta che è stata assorbita e
metabolizzata dalla fotografia, diventa una sorta di “a-
priori trascendentale” con cui è possibile ristrutturare
la percezione del tempo e dello spazio.
Dalle origini ottocentesche all’epoca di Facebook
la fotografia è sempre stata un replicante, una mac-
china produttrice di stereotipi, una fabbrica dell’inau-
tentico e del multiplo e tutti i suoi processi reiterativi
hanno esercitato sull’apparato sensoriale umano pres-
sioni subliminali talmente profonde da condizionare
in modo irreversibile il nostro agire sociale e le nostre
scelte culturali.
Tuttavia è con la rivoluzione duchampiana che
l’immagine del “ri-fatto”, conditio sine qua non della fo-
tografia stessa, si fa principio e fine non più soltanto
della vita ma anche dell’arte.
Se, pertanto, la citazione spiazza l’invenzione, tut-
to quanto potrà essere recuperato e riscattato. L’uni-
verso della fotografia potrà essere ripensato come un
gigantesco magazzino dell’immagine artificiale in cui
entrare, scegliere la merce e trasformarla a piacimento
per dar vita a nuove rappresentazioni, nuovi simboli,
nuove icone, sempre a loro volta rinnovabili, poiché
l’archivio, organismo in espansione costante, funzio-
na solo quando non s’interrompe il flusso energetico
degli scambi, dei trasferimenti, delle ricombinazioni.
La ricognizione di Panaro parte quindi dall’alba del
XX secolo (Picasso, Duchamp, De Chirico) e si esten-
12 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

de, di decennio in decennio, fino a raggiungere una


tappa fondamentale negli anni settanta con l’opera di
Franco Vaccari.
Ciononostante la pratica dell’archivio resta anche
in anni più recenti un’attività febbrile, inesauribile e
non tarda a fornirci nuove occasioni di rilancio e di
crescita. A tal proposito l’autore dedica molta atten-
zione alle ultime generazioni in seno alle arti visive,
tra cui si annoverano molti esponenti italiani (Chironi,
Di Bello, Nonino, Rossi, Spranzi, ecc.), ma al tempo
stesso non trascura le ramificazioni dell’esperienza
estetica fra le fitte maglie della Rete.
La parte successiva riguarda una specie di seconda
anima della fotografia. Infatti, se all’inizio l’indagine
si era soffermata sulla fotografia come dimostrazione
e continuazione del preesistente, del “già fatto”, ora
passa a mettere in rilievo le sua componente ottico-
speculare, i meccanismi di visione e di intrusione che
controllano la realtà davanti all’obiettivo.
Nella nostra epoca l’immagine penetra ovunque.
Tuttavia la sua ubiquità raggiunge livelli di esaspera-
zione così alti da mutare rapidamente in forme paros-
sistiche di voyeurismo e di sorveglianza: da fenomeno
perturbante e minaccioso per la psiche individuale
può, in un attimo, convertirsi in arma letale di massa.
Panaro, con responsabile prudenza, evita di affrontare
il tema delicato dei rapporti fra immagine e potere, fra
politica e visione. Il suo primo referente rimane pur
sempre l’arte, magari nelle sue declinazioni trasversali,
nelle sue innumerevoli possibilità di sconfinamento
nel cinema, nella moda, nella pubblicità. La figura-
PREFAZIONE 13

chiave, allora, per interpretare questa nuova dimen-


sione del fotografico non è tanto l’Orwell ideologico
di 1984, ma soprattutto l’Andy Warhol tanto amato
dagli artisti degli anni ottanta-novanta, ispiratore della
nozione di “reality show”, cardine dell’intero capitolo.
Secondo Panaro l’ “iconosfera fotografica” è traspa-
rente, è senza veli, proprio come “il bordello senza
muri” citato da McLuhan in cui il reale si mette a
nudo, o meglio diviene tutta apparenza, senza la quale
non potrebbe realizzarsi come mondo conoscibile.
Però a interessarlo non è tanto l’aspetto naturalisti-
co-originario di tale manifestazione quanto piuttosto
la sua veste artificiale, teatrale, narrativa, in cui i sog-
getti, consci del potere conferito loro dal medium fo-
tografico, mettono in scena svariati desideri di realtà.
L’ultimo capitolo, infine, può essere letto come un
corollario del precedente. Vero e falso, illusione e re-
altà, artificio e natura, se percepiti per via mediale, si
unificano sino a diventare indistinguibili. Questo acca-
de anche quando il cosiddetto “referente”, il partner
dell’immagine fotografica, viene dichiaratamente con-
traffatto, ricostruito da mano umana. Questo perché
è il mezzo stesso a produrre la simulazione, a indurre
l’osservatore a credere nella possibilità che l’apparenza
sia vera esistenza. Possono essere i modellini architet-
tonici in scala di James Casebere, le sculture di cartone
ritagliato di Thomas Demand, o il paese in miniatura
di Luigi Ghirri e tanto la loro palese finzione guada-
gna spessore e credibilità. Le loro manipolazioni per-
cettive acquisiscono una patente di autenticità fittizia
ma valida e senza scadenza. Nel gioco postmoderno
del “vedere per credere” l’immaginazione non ha più
limiti né spaziali né temporali, e se da una parte ci
sono quelli che alterano con arguzia tecnica l’attualità
presente, dall’altra alcuni sublimi giocolieri interven-
gono sui molteplici piani della temporalità, producen-
do illusioni mirabili, in bilico fra visioni preistoriche
(Tranchina) e para-fantascientifiche (Foncuberta) di
cui, del resto, non celano affatto il piacere del trucco
e dell’inganno.
In conclusione, le “tre strade” tracciate nel libro
sono precise ed efficaci e di certo faranno parlare an-
cora a lungo. Ma attenzione a non smarrire la “quarta
strada”, non menzionata ma sottesa a tutto il saggio.
Quella che dovrebbe seguire la critica, o, diciamo
meglio, un certo modo di fare critica. Se non vuole
squalificarsi in forme di scrittura verbose e velleita-
rie e, ahimè, un po’ snobistiche, dovrebbe costruirsi
come progetto ragionato, unitario e perseguire come
obiettivo prioritario la sintesi stilistica e culturale. In
altre parole, dovrebbe ritrovare una bussola, una me-
todologia di orientamento, o forse una visione. Luca
Panaro docet. Meditate gente, meditate.

PIER FRANCESCO FRILLICI


Cose che accadono

L’immagine di copertina, insieme a quelle utiliz-


zate nelle due edizioni precedenti di Tre strade per la
fotografia, fa parte di una serie di mie opere intitolate
Cose che accadono, un lavoro iniziato nel 2002 e anco-
ra in corso. L’immagine è stata scelta da Luca Panaro
perché, anche se mostra gesti e oggetti diversi rispetto
alle due che l’hanno preceduta, sta facilmente insieme
alle altre, formando cioè una specie di trilogia. Il bre-
ve testo che segue è stato scritto originariamente nel
2005 per il volume che raccoglie il progetto.

La nostra ricognizione del mondo si ferma spesso a un riconosci-


mento, a un ritrovare il mondo come e dove lo si era lasciato. Vedere e
riconoscere come automatismo dell’occhio e del pensiero, fra pigrizia e
desiderio: ma qualche volta, accadono cose che sospendono quell’auto-
matismo. Riconosciamo qualcosa, ma solo in parte, l’altra occupa gli
spazi della somiglianza a qualcosa che non si conosce, che non si vede.
Il mondo visibile è sempre frequentato dall’invisibile, da ciò che è stato
e non è più, da ciò che mai potrà essere e di cui solo si può immagina-
re. Intorno a noi, dentro di noi, accadono cose di cui non sappiamo,
impossibili, insensate, inutili: sono degli incidenti, noi siamo dei com-
plici o delle vittime, il Caso precipita dentro la realtà e la modifica.

ALESSANDRA SPRANZI
Introduzione

La fotografia negli ultimi tempi di strade ne ha


percorse tante, molte più delle tre che mi accingo a
raccontare. Il fascino di questo mezzo, infatti, risiede
proprio nei vari utilizzi e nella possibilità di avventu-
rarsi in direzioni molto differenti fra loro, partendo
sempre dalla stessa strumentazione tecnica. In que-
sto libro quindi non ho la pretesa di sviscerare tutto
quello che concerne gli argomenti trattati, rischierei
di fare soltanto lunghi elenchi di artisti, assimilabili
per opere e atteggiamenti fotografici. Il mio intento
è invece quello di portare l’attenzione su alcuni pic-
coli aspetti che ricorrono nella fotografia di ieri e di
oggi, che a volte non emergono dietro alle generiche
categorie di «archivio», «realtà» e «finzione», spesso
utilizzate per parlare dell’immagine contemporanea.
Dell’«archivio» mi affascina il suo essere “forma
simbolica” di un’epoca passata, ma che stiamo in par-
te ancora vivendo. Oggi migliaia di artisti in tutto il
mondo prelevano fotografie e video e le riutilizzano
per dare vita a nuove opere d’arte. Diventa interes-
sante allora scoprire quando ha avuto origine questo
fenomeno, quali artisti nel secolo scorso hanno intro-
dotto il prelievo di un oggetto oppure di un’immagi-
ne come atteggiamento artistico. In che modo questo
18 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

possa essere l’elemento che accomuna cento anni di


storia dell’arte, dalle avanguardie d’inizio Novecento
fino all’epoca attuale. Elencare tutti gli artisti che han-
no adottato questa modalità operativa sarebbe inutile
e noioso. Ho scelto quindi di parlare soltanto di alcuni
autori, scelti per l’anticipo sui tempi con cui hanno
affermato il loro interesse per l’archivio o per l’origi-
nalità della proposta artistica.
Parlare di «realtà» a proposito della fotografia può
sembrare banale, vista la specificità del mezzo a cui ci
riferiamo e la sua apparente vicinanza al vero, risul-
ta pertanto necessario individuare una sottocategoria
per proporre una discussione seria sull’argomento. In
questo caso il mio interesse è caduto sulla spettacola-
rizzazione della vita quotidiana che ormai da tempo
contraddistingue la nostra società, ma nello specifi-
co ho ritenuto giusto occuparmi di quegli artisti che
hanno rivolto l’obiettivo su loro stessi e sulla piccola
comunità d’individui a cui appartengono, complici
le relazioni fotografiche che si consumano all’inter-
no delle quattro mura domestiche. Non uno sguardo
esterno e invasivo, ma al contrario una visione interna
e condivisa, proprio perché messa in atto da coloro
che appartengono a quella stretta cerchia di amici-
zie. Una realtà però che da un momento all’altro può
trasformarsi in spettacolo, a prescindere dal grado di
consapevolezza dei partecipanti.
Infine la «finzione». La fotografia ha sempre men-
tito e sempre lo farà. Ancora oggi però ci stupiamo
quando questo accade, nonostante che l’affermar-
si delle tecnologie di matrice informatica lascerebbe
INTRODUZIONE 19

pensare il contrario. Ma in che modo l’immagine men-


te? Ci sono tante occasioni per fingere utilizzando la
fotografia. Nel libro ho volutamente evitato di parlare
di alcuni autori della cosiddetta staged photography, uno
dei generi più fortunati della scena artistica statuni-
tense degli ultimi decenni, in modo particolare non
mi sono occupato degli artisti che hanno raccontato
l’uomo strizzando l’occhio al linguaggio cinematogra-
fico. Ho trovato più interessante invece approfondire
la conoscenza di quegli autori che hanno rivolto una
particolare attenzione alla ricostruzione di ambienti
architettonici, piuttosto che soggetti scultorei o pae-
saggi sintetici. Situazioni che possiamo già considera-
re finzione prima ancora di essere trasformate in fo-
tografia, ma che necessitano di quest’ultimo passaggio
per mutare una momentanea bugia in futura verità.
Le strade per la fotografia che ho suggerito nei
tre saggi che seguono si possono estendere ad altre
espressioni artistiche, come indicato in alcune occa-
sioni nel testo a proposito di autori che si esprimo-
no con la video-arte, il cinema sperimentale oppure
servendosi dei cosiddetti new media. Come suggerisce
Raymond Bellour oggi non ha più senso fare distin-
zioni disciplinari, ormai viviamo fra le immagini, «quello
spazio ancora abbastanza nuovo da essere considera-
to come un enigma ma già strutturato quanto basta
per poter essere circoscritto».1

1
R. Bellour, Fra le immagini [2002], Bruno Mondadori, Milano 2007, p. 7.
1.
L’archivio come forma simbolica

Qualche anno fa, analizzando la ricerca artistica


di Franco Vaccari, 1 andavo scoprendo un modo di
fare arte basato sull’utilizzo d’immagini già fatte.
Di questo straordinario artista mi colpì in modo
particolare un suo racconto, nel quale ricordava di
avere osservato con la coda dell’occhio un abitua-
le frequentatore di un antiquario, mentre guardava
con una lente d’ingrandimento una stampa antica,
«parlava fra sé e, ogni tanto, si rivolgeva agli altri
senza distogliere lo sguardo dalla lente. A un certo
punto disse: Chissà cosa stava facendo questo tipo
dietro all’albero!».2 Vaccari rimase molto colpito
da quel modo di guardare, perché era indirizzato
a problematizzare la fotografia. Questo atteggia-
mento l’ho poi ritrovato in seguito in tutta l’opera
di Franco Vaccari e da quella volta probabilmente
anche il mio modo di “leggere” l’arte contempora-
nea è cambiato.
Estendendo gli studi notai come la scomparsa
dell’autore e l’impiego di materiali, fotografie e
1
L. Panaro, L’occultamento dell’autore, APM, Carpi 2007.
2
F. Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico [1979], Einaudi, Torino 2011,
p.86.
22 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

video preesistenti, fossero una caratteristica co-


stante di certa arte. Poi la lettura de Il linguaggio
dei nuovi media (2001) di Lev Manovich, 3 mi aprì
ulteriormente gli occhi, mi fece comprendere la
possibilità di vedere in questa pratica una “forma
simbolica” del nostro tempo. Seguendo la teoria
dello storico dell’arte Ervin Panofsky, 4 che bat-
tezzò la prospettiva lineare come forma simbolica
dell’era moderna, Manovich identifica nel data-
base la nuova forma simbolica dell’era dei com-
puter. Un nuovo modo di strutturare la nostra
esperienza che lo studioso russo ha indirizzato
in modo particolare all’analisi delle tecnologie di
matrice informatica.
Importando questa interessante teoria all’in-
terno dell’ambiente artistico contemporaneo, mi
sono accorto come questa interpretazione permet-
ta una differente lettura della storia dell’arte del
Novecento, che porta a considerare l’introduzione
dell’immagine riproducibile come l’avvento di un
nuovo modo di strutturare la nostra esperienza vi-
siva, capace di inserire anche in ambito pittorico o
scultoreo l’idea di un archivio al quale attingere og-
getti o immagini già pronte per essere riutilizzate.
L’atteggiamento che si viene a delineare, non è più
quindi assimilabile all’invenzione artistica classica,
quella che prevedeva la produzione di un manufat-
to ex novo, ma è piuttosto la combinazione di vari
3
L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media [2001], Olivares, Milano 2002.
4
E. Panofsky, La prospettiva come “forma simbolica” [1927], Feltrinelli,
Milano 1993.
L’ARCHIVIO COME FORMA SIMBOLICA 23

materiali a caratterizzare il nuovo spazio artistico


d’avanguardia.
Dopo la lettura di queste poche righe potrà sem-
brarvi un azzardo, ma seguendo questa strada di
ricerca credo si possa rileggere, almeno in parte, la
parabola artistica del XX secolo, partendo dai colla-
ge di Pablo Picasso e dai ready-made di Marcel Du-
champ, fino a giungere all’odierna società dell’im-
magine informatizzata, ordinata in motori di ricer-
ca e comunità virtuali. Il secolo scorso, nelle sue
mille sfaccettature e interpretazioni è stato capace
di creare una nuova “forma simbolica”, un unico e
radicale cambiamento estetico che vede nella pos-
sibilità di prelevare da un archivio d’immagini ciò
che occorre per produrre un’opera d’arte originale,
senza essere necessariamente nuova.

Picasso, Duchamp e De Chirico

Probabilmente tutto è nato con l’invenzione


della fotografia, quindi addirittura nell’Ottocento,
con l’avvento di un nuovo modo di strutturare la
nostra esperienza visiva. Dal giorno della sua in-
venzione, nel 1839, il mondo è divenuto una raccol-
ta infinita di immagini assimilabile ad un archivio. Si
è detto come Manovich ponga l’attenzione su una
delle forme chiave delle attuali tecnologie: il data-
base. Se la prospettiva è stata la “forma simbolica”
che ha caratterizzato la storia dell’arte dal Rinasci-
mento all’Impressionismo, l’archivio può essere
considerato un nuovo modo di concepire lo spazio,
24 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

una forma simbolica dell’era moderna, le cui origi-


ni possono essere rintracciate già nella prima metà
del Novecento, con grande anticipo rispetto all’era
digitale. Manovich sostiene come oggi il mondo sia
«una raccolta infinita e destrutturata d’immagini,
testi e altri record di dati, è perfettamente logico as-
similarlo ad un database», così come è possibile, an-
che se apparentemente azzardato, assimilare all’ar-
chivio, digitale o non, tutta una serie di esperienze
artistiche compiute nel primo Novecento.
Pablo Picasso inaugurò questa nuova “forma
simbolica” servendosi del collage, prendendo cioè
dalla vita di tutti i giorni ritagli di giornale, spartiti
musicali, carta da parati e quant’altro potesse incolla-
re sulla tela. Nel 1912 con l’inserimento di un pezzo
di materiale cerato a imitazione di un’impagliatura
(Natura morta con sedia di paglia), Picasso perfeziona la
nuova invenzione del collage, allontanandosi sempre
più dai canoni tradizionali della pittura. Il quadro,
con la sua cornice fatta di corda, presenta oggetti che
non sono più evocati attraverso la finzione della pit-
tura, ma ora esistono semplicemente sulla tela. Per
George Braque l’uso del papier collé diventa il modo
per ottenere nei suoi disegni degli effetti spaziali in
rapporto al soggetto stesso. I fogli di carta o di gior-
nale, incorporati nella superficie del dipinto, vengo-
no a formare altri piani che si intersecano al disegno
e al colore.
Che l’arte del Novecento abbia adottato concet-
tualmente la logica dell’archivio lo testimonia anche
l’altra grande intuizione artistica prodotta da questa
L’ARCHIVIO COME FORMA SIMBOLICA 25

prima metà del secolo: il ready-made. Scegliendo


prodotti industriali di uso comune, Marcel Du-
champ si limita a indicare come opera d’arte una se-
rie di oggetti già fatti: una ruota di bicicletta (Roue de
bicyclette, 1913), uno scolabottiglie (Egouttoir, 1914),
un badile da neve (In Advance of the Broken Arm,
1915), un orinatoio in porcellana (Fontaine, 1917) e
tanti altri. L’artista francese può essere visto come
una sorta di internauta ante litteram, alla continua
ricerca di oggetti di suo interesse, come oggi si fa
abitualmente rovistando fra le informazioni multi-
mediali ricercate su Google, YouTube e Facebook.
Un discorso analogo potrebbe essere fatto anche
per la pittura Metafisica di Giorgio De Chirico; l’arti-
sta è coinvolto attivamente in un viaggio temporale,
che lo porta a memorizzare tutti i dati del passato
e a riproporli in combinazioni inedite. Utilizzando
un’efficace formula di Renato Barilli, possiamo dire,
a proposito di De Chirico, che è come se l’artista
rivisitasse le stanze di un museo ideale, dedicate di
volta in volta al Quattrocento, al Cinquecento raffa-
ellesco o tizianesco, fino ad arrivare alla “corruzione
dei corpi” di cui si rese colpevole il Seicento, per poi
solcare le orme degli artisti del Settecento e Ottocen-
to.5 Vista in questa prospettiva la produzione di De
Chirico può essere letta come un viaggio all’interno
di un archivio storico-visivo dentro al quale navigare
senza un ordine prestabilito. Di questo grande artista
5
R. Barilli, Il ritorno alle origini in L’arte contemporanea, Feltrinelli, Milano
2005, pp. 213-14. Dello stesso autore si segnala De Chirico e il recupero del
museo in Tra presenza e assenza, Bompiani, Milano 1981.
26 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

mi ha sempre colpito in modo particolare il dipinto


Interiore metafisico con i biscotti (1916), una sorta di sca-
tola dove spezzando la concatenazione che unisce
le cose tra loro si creano nuovi legami spaziali, che
vedono convivere nello stesso ambiente, come fos-
se un archivio, opere differenti attribuibili anche allo
stesso De Chirico.

Da Lautréamont agli anni Settanta

«Bello come l’incontro casuale di una macchina


da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio».
Queste parole del Conte di Lautréamont, pseudo-
nimo del poeta francese Isidore Lucien Ducasse,
esprimono bene l’atteggiamento surrealista, una
nuova estetica nata dall’accostamento di oggetti
fra loro non omogenei. In sostanza, procedendo
per libera associazione di idee, i surrealisti univano
cose e spazi tra loro apparentemente estranei per
ricavarne una sensazione inedita. La bellezza na-
sce, allora, dal trovare in un grande e immaginario
archivio due oggetti reali, veri, esistenti (l’ombrel-
lo e la macchina da cucire), che non hanno nulla
in comune, costretti a vivere assieme in un luogo
ugualmente estraneo a entrambi. Tale situazione
genera un’inattesa visione che sorprende per la sua
assurdità e perché contraddice le nostre certezze.
Questo modo di procedere non corrisponde ad una
scelta estetica ma è il tentativo di aprire la porta
al concetto di “inconscio” teorizzato da Sigmund
Freud. L’animatore del surrealismo André Breton,
L’ARCHIVIO COME FORMA SIMBOLICA 27

infatti, fu fortemente influenzato dalla lettura de


L’interpretazione dei sogni (1899) scritta dal padre del-
la psicoanalisi.
In area tardo surrealista Joseph Cornell ben rap-
presenta la logica dell’archivio per quanto riguarda
la scultura ma soprattutto la filmografia sperimen-
tale. I celebri The Cornell Box sono scatole dentro le
quali l’artista assemblava riviste, frammenti di gio-
cattoli, solidi geometrici, stampe d’arte e altri mate-
riali di recupero. Ma l’opera pionieristica di Cornell
comprende anche la sperimentazione cinematogra-
fica dove, già con le immagini, e non più solo con
gli oggetti, compie gesti di appropriazione da un ar-
chivio infinito di dati. Nella più classica tradizione
del found footage (pratica che consiste nel realizzare
film riappropriandosi dei materiali trovati, prelevati,
spesso girati da un altro cineasta), Cornell rimonta il
film in 16mm East of Borneo (George Melford, 1931)
reintitolandolo Rose Hobart (1936).
In seguito sarà Andy Warhol a continuare quest’e-
splorazione all’interno di una vasta quantità d’infor-
mazioni visive preconfezionate. Mentre l’archivio di
Duchamp era composto di oggetti, quello di Warhol
lo sarà d’immagini. Negli anni Sessanta possiamo già
parlare di una società costruita intorno ad un grande
archivio mediale, che l’artista utilizza a suo piaci-
mento, ingrandendo, moltiplicando e trasformando
in opera d’arte dittatori (Mao Tse-Tung, 1972), dive
di Hollywood (Marilyn Monroe, 1967), pericolosi cri-
minali (Thirteen Most Wanted Men, 1964), bibite (Coca
Cola Bottles, 1962), cibo in scatola (Campbell’s Tomato
28 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

Soup, 1962), detersivi (Brillo Boxes, 1964), incidenti


stradali (Ambulance Disastrer Two Times, 1963), opere
d’arte (Botticelli’s Venus, 1984) e tante altre immagini
già esistenti e mitizzate.6
Quest’operazione di prelievo fotografico dai
mass-media è probabilmente la più seguita dalle ge-
nerazioni successive di artisti. Bruce Conner, paral-
lelamente ai suoi noti assemblage, realizzava fin dagli
anni Cinquanta dei film fatti di spezzoni trovati (A
Movie, 1958). In Report (1963-67), Conner ripete di-
verse volte alcune sequenze televisive dell’assassinio
di John Fitzgerald Kennedy con differenti colonne
sonore. Negli stessi anni anche Gianfranco Baru-
chello, con Alberto Grifi, realizza un’analoga ope-
razione nel film La verifica incerta (1964-65), cento-
cinquantamila metri di pellicola destinata al macero,
riguardante il cinema hollywoodiano degli anni Cin-
quanta, acquista una nuova vita mediante un mon-
taggio senza precedenti, servendosi della tabella dei
numeri casuali. Recentemente, l’artista statunitense
Christian Marclay ha realizzato un’opera per certi
aspetti simile, anche se con intenti differenti, intito-
lata The Clock (2010). Si tratta di un video composto
da parti di film di ogni epoca in cui gli attori inte-
ragiscono con un orologio, guardandolo, indicando-
lo, parlandone, ma la novità introdotta da Marclay
consiste nell’avere trasformato lo stesso video in un
6
Andy Warhol si servì di fotografie commerciali prodotte per altri
utilizzi. La celebre serigrafia con il volto di Marilyn Monroe fu realizzata
a partire da una fotografia di Gene Korman usata per la pubblicità del
film Niagara del 1953.
L’ARCHIVIO COME FORMA SIMBOLICA 29

vero e proprio orologio, facendolo durare 24 ore e


sincronizzandolo con l’ora reale dello spettatore. Da
questa e dalle precedenti opere il cinema ne esce ri-
vitalizzato, prendendo inoltre le distanze dalla logica
del racconto e dal legame con la letteratura che spes-
so ne limita le potenzialità.
L’idea di archivio la incontriamo anche nella ce-
lebre serie Atlas (1962) di Gerhard Richter, un enor-
me ricerca iniziata nei primi anni Sessanta che mette
a confronto fotografie di vicende private famigliari
con immagini della storia pubblica tedesca. Que-
sto progetto, nel corso degli anni, portò ai pannelli
su cui Richter raccolse fotografie da Buchenwald
e Bergen-Belsen. Anche tutta l’opera di Christian
Boltanski, dagli anni Settanta ad oggi, ruota intorno
alla fotografia come strumento di memoria e di ac-
cumulo d’immagini provenienti dal passato, spesso
quelle utilizzate per i necrologi. Nelle installazioni
dell’artista francese, gli archivi composti da ritratti
di persone scomparse fanno riflettere sulla dimen-
sione temporale, sul trascorrere del tempo e sulla
sua percezione. Nella recente installazione intitola-
ta Chance (2011), presentata nel padiglione francese
della Biennale di Venezia, la volontà aleatoria di un
computer sorteggia uno fra i tanti bambini appena
nati documentati nel tapis-roulant di fotografie d’ar-
chivio che scorrono incessantemente su una grande
impalcatura di acciaio. In seguito al suono di una si-
rena lo scorrere delle immagini si arresta sulla foto-
grafia di un fanciullo, il suo viso appare sul monitor,
è stato scelto: è nato!
30 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

L’indagine sul materiale visivo prodotto da altri


caratterizza anche il lavoro di Franco Vaccari, fin
dalla sua memorabile installazione alla Biennale di
Venezia del 1972 (Lascia su queste pareti una traccia
fotografica del tuo passaggio), riproposta nel 2010 alla
Biennale di Gwangju, in Corea, con risultati sor-
prendenti. Già nel 1970 l’artista aveva esplorato al-
cune fotografie dell’Ottocento compiendo una spe-
cie di reportage all’interno delle immagini (Modena
dentro le mura). Negli ultimi anni, invece, si è avvalso
dell’album di famiglia come banca dati visiva da ri-
significare. Ne L’album di Debora (2002) esplora le
immagini private di una fotomodella, dall’infanzia
agli anni più intensi della sua carriera artistica. In
Provvista di ricordi per il tempo dell’Alzheimer (2003),
mediante fotografie, frammenti di film, riprese tele-
visive e cortometraggi famigliari, è la vita dello stes-
so artista ad essere indagata e custodita in poco più
di venti minuti. Recentemente, invece, riprendendo
un metodo d’indagine già sperimentato nel 1977, ha
colto impensate analogie fra l’aura che circondava
l’artista Joseph Beuys e il culto della personalità che
veniva tributato al leader della Corea del Nord Kim
II Sung, paragonando immagini d’archivio dei due
personaggi (Meta-critic Art, 2011)
Anche Mario Cresci, negli anni Settanta, dirige i
suoi interessi artistici verso la rilettura dell’immagine
trovata, nel suo caso però non parliamo di prelie-
vo ma di ri-fotografia. Nella celebre serie intitolata
Ritratti reali (1970-72), l’artista fotografa circa trenta
gruppi familiari di alcuni piccoli paesi della Basilica-
L’ARCHIVIO COME FORMA SIMBOLICA 31

ta, avvicinandosi mediante tre scatti progressivi a ciò


che di più caro queste persone conservano: una o più
fotografie di famiglia. Cortocircuitandole con il pre-
sente, queste immagini acquistano una nuova vitalità,
arricchendosi di significati rimasti latenti fino al loro
affiorare dal passato. Questa rilettura dell’immagine,
ritorna nella ricerca artistica di Cresci anni dopo, in
modo particolare nella serie Memoria rivisitata (1983),
dove la fotografia è indagata in modo anticonven-
zionale come un esercizio didattico. Anche nei la-
vori più recenti, Cresci utilizza il mezzo fotografico
per esplorare un’immagine, questa volta non un’altra
fotografia ma bensì un quadro, una stampa o una
lastra, donando a queste un vigore inaspettato.
Sempre negli anni Settanta, anche Adriano Al-
tamira si muove intorno all’accumulo d’immagini
preesistenti, su cui l’artista ha compiuto una ricer-
ca sperimentale di critica visuale. Area di Coincidenza
(1972-80), infatti, consiste nell’associazione d’imma-
gini dalle forti analogie, intesa come indagine sulla
permanenza di certe costanti culturali. Frutto di un
accumulo di opere “trovate”, la ricerca di Altamira
evidenzia come «l’uso di uno stesso strumento, nel-
la rappresentazione di uno stesso soggetto, provoca
una selezione di ipotesi i cui risultati tendono a so-
vrapporsi». Questa riflessione sul mezzo fotografico
è dimostrata da sequenze che mettono a confronto
immagini prodotte da autori differenti, alcuni dei
quali anonimi, i cui lavori sono stati prelevati dai
media con l’ambizione di farli rivivere senza passare
attraverso la traduzione verbale dell’atto visivo.
32 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

Febbre d’archivio

Continuando su questa linea, negli ultimi decenni


del Novecento, si scatena quello che Hal Foster ha
definito «An Archival Impulse»7 e Okwui Enwezor
«Archive Fever».8 La fotografia, il cinema, la televi-
sione, vengono presi d’assalto dagli artisti contem-
poranei, in loro cresce l’esigenza di confrontarsi con
un archivio di esperienze storiche. Il video si presta
particolarmente a questo tipo di operazione, spesso
mettendo in atto la logica anti-narrativa tipica del
cinema d’avanguardia surrealista.
Stan Douglas realizza un’installazione mettendo
insieme materiale filmico della Edison Company
risalente alla fine dell’Ottocento (Ouverture, 1986).
Harun Farocki e Andrei Ujica rivisitano la rivolu-
zione rumena attraverso i filmati televisivi origina-
li girati tra il 21 e il 26 dicembre 1989, compreso
l’ultimo discorso di Nicolae Ceauşescu, dove il ra-
pido mutamento d’espressione del suo volto lascia
intravvedere l’imminente deposizione (Videograms
of a Revolution, 1993). Martin Arnold utilizza mate-
riale riguardante i vecchi film hollywoodiani, Paul
Pfeiffer rivolge la sua attenzione verso gli spettacoli
commerciali recenti, Douglas Gordon si appropria
del celebre film Psycho (1960) di Alfred Hitchcock
rallentandolo fino ad un ritmo ipnotico (24 Hour
Psycho, 1993), Johan Grimonprez raccoglie filmati

7
H. Foster, An Archival Impulse, «October» n. 110, New York 2004.
8
O. Enwezor, Archive Fever, ICP-Steidl, New York-Göttingen 2008.
L’ARCHIVIO COME FORMA SIMBOLICA 33

sui dirottamenti aerei come pretesto per riflettere


sui media (Dial H-I-S-T-O-R-Y, 1997) e Walid Raad
documenta la storia contemporanea del Libano
con film, videotape e fotografie storiche (The Atlas
Group Archive, 1989-2004). Quest’ultimo artista ha
ricevuto nel 2011 il prestigioso Premio Hasselblad
per avere prodotto idee originali sul rapporto tra la
fotografia documentaria, l’archivio e la storia.
A partire dagli anni Ottanta l’immagine viene
quindi rivista attraverso l’innegabile fascino della
sua obsolescenza, la posizione favorita degli artisti
sembra essere quella di guardare indietro per dare un
senso nuovo alle immagini, per “reinventare il me-
dium”, come sostiene Rosalind Krauss.9 Tacita Dean
fa riemergere dal passato persone realmente esistite,
anche se in qualche modo perdute nel tempo; con
sguardo etnografico raccoglie in sette anni di ricer-
che un centinaio di fotografie di varia epoca, area
geografica e soggetto (Floh, 2000). Hans-Peter Feld-
mann certifica la risposta dei media all’11 settembre
2001 attraverso una collezione di cento copertine di
quotidiani internazionali usciti il giorno successivo
alla caduta delle Twin Towers (9/12 Front Page, 2001).
Questo interesse diffuso per l’immagine trovata
è particolarmente evidente anche in Joachim Sch-
mid che nel 1989, in occasione del 150° anniversa-
rio della nascita della fotografia, dichiarò: «Nessuna
nuova fotografia finché le vecchie non siano state
utilizzate!». Il suo lavoro di non-fotografo consiste

9
R. Krauss, Reinventare il medium, Bruno Mondadori, Milano 2005.
34 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

infatti nel raccogliere, selezionare, assemblare e infi-


ne mostrare fotografie altrui. Con centinaia di ritrat-
ti provenienti dallo stesso laboratorio, tutti tagliati in
due parti per impedire il loro riutilizzo commerciale,
Schmid ottiene immagini frutto della combinazione
di due metà (Photogenetic Draft, 1991). «La conviven-
za nello stesso viso di giovane e anziano, maschile
e femminile, parla una lingua esistenziale, racconta
storie legate all’identità e al tempo».10
Il ready-made duchampiano viene portato all’e-
stremo, le immagini sono ormai facilmente prele-
vabili da un archivio collettivo per essere sempli-
cemente ri-significate, l’autore si occulta, perde il
classico ruolo di creatore, diviene un ricercatore di
“strutture di significazione”. Sulla violazione del
copyright è indicativa la ricerca di Richard Prince.
Uno dei lavori più noti dell’artista statunitense con-
siste nel rifotografare le pubblicità di Marlboro
Country, ingrandirle, incorniciarle ed esporle nelle
gallerie e nei musei (Untitled-Cowboy, 1989). Le im-
magine originarie della campagna pubblicitaria sono
del fotografo Sam Abell, che non ha molto gradito
il prelievo artistico del suo lavoro.
Nel rispetto dei diritti d’autore, ma pur sempre
decontestualizzate, sono invece le fotografie di cro-
naca utilizzate da Oliviero Toscani negli anni No-
vanta per alcune campagne pubblicitarie della Be-
netton; prelevate direttamente dai quotidiani, queste

10
S. Menegoi, I am not a photographer, «Mousse Magazine», n. 2, Milano
2007.
L’ARCHIVIO COME FORMA SIMBOLICA 35

immagini toccano tematiche scottanti e d’attualità


come l’Aids, la mafia, lo sbarco dei clandestini o
l’inquinamento. Nel 1991 Toscani fonda «Colors»,
un magazine globale con uscite monografiche di ta-
glio sociale, un vero e proprio archivio d’immagini
già fatte provenienti da ogni parte del mondo.
In Italia anche Paola Di Bello lavora sull’imma-
gine trovata, ottenendo, mediante l’ossidazione di
Polaroid esposte alla luce senza un adeguato fis-
saggio, un effetto di doratura della fotografia va-
riabile in base al tempo e al luogo di conservazio-
ne. L’artista inizia questa serie di sperimentazioni
servendosi di una fotografia di Eugène Atget fatta
alla nota serie di Claude Monet le Ninfee. Seguirà
un’analoga operazione verso i dipinti dello stesso
autore dedicati alla Cattedrale di Rouen, ripresa da un
fotografo anonimo (Series, 1991-92). Un altro lavo-
ro è intitolato Il circolo virtuoso (1992) dove il sogget-
to è una celebre sequenza fotografica di Eadweard
Muybridge: Annie G. al galoppo del 1887.
Sempre negli anni Novanta, l’utilizzo di materiale
d’archivio è al centro di buona parte della ricerca di
Alessandra Spranzi. Con grande coerenza il suo la-
voro prevede l’impiego di fotografie reperite di vol-
ta in volta da libri, riviste o cataloghi commerciali,
raffiguranti soggetti ambientati prevalentemente ne-
gli anni Cinquanta o Sessanta. Tornando a casa (1996-
97) è un esempio di questo modo d’intervenire sul
materiale d’archivio, l’artista compie sull’immagine
un piccolo gesto che altera la nostra percezione del-
le cose. La tranquillità domestica rappresentata da
36 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

una serie di fotografie d’interni è interrotta da vere


lingue di fuoco che, prima di bruciare la superficie
del supporto, vanno a far parte dell’immagine. La
nostra conoscenza delle cose muta, la fotografia è
riletta, il senso in essa depositato affiora lentamente
al nostro sguardo.
Anche Sara Rossi si serve spesso della fotografia
d’archivio nelle sue opere, oppure dei filmati ama-
toriali girati in Super 8. In occasione di una mostra
personale, Carosello (2005), utilizzando una lunga
collezione di cartoline postali rappresentanti pae-
saggi inanimati, l’artista, riesce a comporre una ve-
rosimile linea dell’orizzonte rendendo le immagini
comunicanti con un leggero ritocco. È impagabile
la magia offerta da questa serie, che permette di
vedere le cime innevate confinare con i faraglioni
sotto il sole d’agosto, oppure, osservare un affre-
sco di Giulio Romano combaciare con un celebre
sito archeologico. Nel video Aladino (2006), invece,
girato “a contatto” con le immagini e gli oggetti di
Giuseppe Panini, Rossi evoca la presenza del col-
lezionista, vivo nei ricordi di chi lo ha conosciuto,
come nelle immagini che ha lasciato; depositarie di
un significato che l’artista ha saputo riscoprire.
Con approccio performativo, anche Cristian
Chironi prosegue questa esplorazione all’interno
della fotografia d’archivio. Nel suo lavoro è parti-
colarmente manifesto l’utilizzo del proprio corpo
come veicolo per un viaggio nell’immagine. In Of-
fside (2007) l’artista si fa ritrarre fotograficamente
all’interno di alcune formazioni calcistiche d’epoca,
L’ARCHIVIO COME FORMA SIMBOLICA 37

nelle quali è volutamente in posizione periferica ri-


spetto all’immagine per evidenziare una relazione
di continuità tra passato e presente. Non a caso il
titolo fa riferimento ad un termine calcistico, come
metafora della vita e dell’arte. Si è costretti, infat-
ti, a correre sul filo del “fuorigioco” per portare a
termine l’azione. La finzione è volutamente svela-
ta, il piedistallo trasparente su cui poggia Chironi
non è nascosto, anzi, si mostra senza impedimenti.
Nel video Poster (2006), l’atto performativo fin qui
restituito dalla traduzione fotografica, prende vita,
si anima mediante il corpo dell’artista, nel sottile
passaggio dalla realtà all’immagine.
Francesco Nonino, invece, ha spesso indirizzato
i suoi interessi fotografici alla costruzione di archivi
tassonomicamente ordinati, come atlanti o erbari.
In un recente lavoro, Memento Memory (2008-2011),
è l’album dei ricordi l’oggetto della sua indagine.
A differenza dei precedenti progetti, questa volta
non è l’artista ad archiviare il visibile con l’apparec-
chio fotografico, così come ha fatto in Atmospheres
(1989-2003) e Hortus Pictus (2003-2005), ma trova le
immagini già fatte e ordinate nei personali album di
famiglia. Questi depositi di memoria sono sfogliati
provocando a poco a poco nella sua mente una so-
vrapposizione di fotografie, fino al raggiungimento
di una stratificazione illeggibile di vite ed eventi.
L’atto conclusivo di questo progetto, consiste pro-
prio nel fissare in un’unica immagine il processo
mentale svolto, riportandolo all’interno dello stesso
linguaggio fotografico che l’ha generato.
38 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

Database Logic

Sono quindi numerosi gli artisti che in qualche


opera o in maniera sistematica nella loro ricerca han-
no attinto a un archivio visivo accumulato nel tempo.
Con appropriazioni al limite della legalità, l’artista
Sherrie Levine, una delle esponenti di spicco della
Appropriation Art, rifotografa le immagini scattate
in Alabama da Walker Evans a una famiglia di mez-
zadri (After Walker Evans, 1980), mentre lo statuni-
tense Michael Mandiberg scannerizza dal catalogo di
Levine queste fotografie per caricarle sul web, invi-
tando i visitatori a stampare le immagini e venderle
con tanto di certificato d’autenticità e istruzioni d’in-
corniciatura: AfterSherrieLevine.com (2001). Un altro
esempio di prelievo, che attinge a un archivio digita-
lizzato d’immagini, cioè a un database, è quello com-
piuto dall’artista tedesco Thomas Ruff, che ha pre-
sentato alla Biennale di Venezia del 2004 una serie di
paesaggi ottenuti semplicemente scaricando dal web
alcuni file compressi, ingranditi e poi mostrati nella
bassa definizione che li caratterizza (Jpeg, 2004).
Dietro alla digitalizzazione dell’immagine però si
nasconde una rivoluzione che va ben oltre il facile
accesso ai dati, si cela la possibilità di vedere la foto-
grafia non più come un punto d’arrivo nella visione
del mondo, ma bensì come il punto di partenza per
una serie di relazioni che oltrepassano il visibile per
giungere alla logica. Un’arguta osservazione a questo
proposito la compie Pierre Sorlin quando dice che «i
computer lavorano su entità che l’occhio non perce-
L’ARCHIVIO COME FORMA SIMBOLICA 39

pirà mai e grazie ad essi il ragionamento logico pre-


vale sull’osservazione diretta».11 Il passaggio dall’a-
nalogico al digitale conferisce quindi all’immagine
una nuova linfa, perché la rende improvvisamente
condivisibile con altri, pur mantenendo intatta la sua
identità analogica. Se così non fosse sarebbe diffi-
cile spiegare il successo di molti social network, veri
e propri database d’immagini digitali o digitalizzate
che attraggono milioni di persone. Questi utenti non
guardano alla fotografia come finestra prospettica
sul mondo, nemmeno come oggetto, ma piuttosto
come informazione personalizzabile da condividere
con una rete capillare di contatti, che nei vari pas-
saggi muta di significato stimolando il gioco della
relazione.
Oggi nell’epoca del web 2.0 i contenuti offerti
dalla rete possono essere creati dai vari utenti, un
esempio è l’enciclopedia online Wikipedia, le cui
voci sono il frutto dell’interazione di una comunità
partecipata. Franco Vaccari con le sue Esposizioni in
tempo reale (1969-2010), ha intuito fin dall’inizio che
gli sarebbe bastato occultarsi come autore per ge-
nerare un capovolgimento dei normali ruoli legati
alla fruizione artistica, creando forme di relazione
inaspettate. Nel 1996 ha raccolto in un CD-ROM
una ricca documentazione di Atelier d’artista serven-
dosi di internet; l’opera ha preso forma grazie alla
collaborazione di volontari invitati ad intervenire a
distanza.

11
P. Sorlin, I figli di Nadar [1997], Einaudi, Torino 2001, p. 231.
40 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

Fra gli artisti che oggi si stanno muovendo in


questa direzione, il gruppo noto come Alterazioni
Video mette in discussione il confine convenzionale
tra uso legale ed illegale della tecnologia. Nel video
Last known address (2007), ha intrapreso un viaggio
virtuale attraverso il territorio americano all’interno
dell’applicazione Google Earth, seguendo gli ultimi
indirizzi conosciuti dei ricercati dalla DEA (Drug
Enforcement Administration); una comunità di pe-
ricolosi criminali sulla cui testa è stata messa una ta-
glia e i cui nomi sono pubblicati sul sito dell’agenzia
americana contro il narcotraffico. Il materiale trova-
to sul web viene così reinterpretato da Alterazioni
Video che, in qualità di nuovi autori, restituiscono
ai testi e alle immagini altri possibili significati. Con
analoghe modalità operative anche Naomi Vona in-
centra il suo lavoro sull’analisi di fenomeni mediati-
ci, che la spingono ad osservare il mondo attraverso
YouTube. È proprio qui che trova il trailer del tanto
discusso film Hungry Bitches, conosciuto dal popolo
di internet come “2 girl 1 cup”. Da questa visio-
ne nasce l’idea di realizzare un video correlato alle
emozioni comuni provate da tutte le persone che
volontariamente si sono riprese con la webcam du-
rante la visione del trailer, archiviandole attraverso
un montaggio incessante e rapido dei volti che cam-
biano repentinamente espressione. L’opera video di
Vona, intitolata Gli infedeli mediatici (2009), mostra
i volti prima imbarazzati, poi increduli e infine di-
sgustati di una comunità virtuale di utenti che non
ha resistito alla visione del film. La loro incredulità
L’ARCHIVIO COME FORMA SIMBOLICA 41

iniziale, che gli ha spinti a guardare nonostante fosse


chiara la natura dei contenuti, è stata smentita dalla
conferma visiva che quanto stava davanti ai loro oc-
chi era davvero reale.12
Da questa radiografia del Novecento, con qual-
che apertura sui primi undici anni del nuovo secolo,
si evince che l’idea di archivio può essere conside-
rata come una differente modalità di concepire lo
spazio, la “forma simbolica” che forse meglio rap-
presenta gli ultimi cento anni di espressione artisti-
ca, una nuova logica che soltanto oggi riusciamo a
mettere veramente a fuoco, complice l’avvento del
web e delle sue enormi potenzialità ancora tutte da
esplorare.

12
Sulla produzione artistica nell’epoca delle comunità virtuali si consulti
il volume Community, a cura di A. Fiz e L. Panaro, Electa-Mondadori,
Milano 2010.
2.
La realtà come spettacolo quotidiano

Louis-Jacques-Mandé Daguerre e William Henry


Fox Talbot, con l’invenzione della fotografia nel 1839,
hanno accentuato nell’uomo la pratica innata del vo-
yeurismo, permettendoci di fissare quella realtà che già
da qualche tempo si poteva “spiare” all’interno di una
camera oscura. Più di un secolo dopo, George Orwell
ha invece ipotizzato per quella pratica - fino a quel
momento vissuta con una certa leggerezza - un’ap-
plicazione tanto terribile quanto profetica; un mondo
interamente controllato da un Grande Fratello,1 capa-
ce di privare il singolo della libertà d’azione. «Sui soldi,
sui francobolli, sulle copertine dei libri, sulle bandiere,
sui cartelloni e sui pacchetti di sigarette… da per tutto.
Gli occhi avrebbero guardato sempre e la voce avreb-
be risuonato sempre. Da sveglio o mentre si dormiva,
mentre si mangiava o bevevo, dentro casa o fuori, nel
bagno, a letto… non c’era modo di sfuggire. Nulla
si possedeva di proprio se non pochi centimetri cubi
dentro il cranio».2 Il 1984 immaginato da Orwell è
quindi un mondo interamente controllato dai moderni

1
G. Orwell, 1984 [1950], Mondadori, Milano 2001.
2
Ivi, p. 30.
44 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

strumenti di video-sorveglianza, una realtà dove ogni


parete diventa trasparente per permettere al grande vo-
yeur di controllare ogni movimento di Winston e Julia,
i protagonisti del romanzo, che lottano disperatamen-
te per conservare un granello di umanità. Un’analoga
riflessione sulla società dei mass-media la incontria-
mo nel pensiero di Marshall McLuhan. Il sociologo
canadese ha infatti intuito come il mezzo fotografico
fosse lo strumento ideale per vedere la realtà come
«un bordello senza muri»,3 un luogo ormai completa-
mente privo di ogni segreto, dove tutti possono spiare
tutti. La concretizzazione di questa felice immagine
di McLuhan può essere ritrovata in un noto film di
Andy Warhol: The Chelsea Girls. Girato nel 1966 sui
clienti vissuti nel famoso albergo di New York, il film
mostra le stanze di un hotel come se queste fossero
state private dei muri che solitamente ne difendono la
privacy. La pellicola si presenta come una doppia pro-
iezione di due stanze d’albergo, con differenti perso-
naggi catturati dall’occhio indiscreto della telecamera.
La vita privata dei clienti del Chelsea Hotel, così come
quella di Winston e Julia, protagonisti del romanzo di
Orwell, è completamente annullata per diventare di
dominio pubblico.
Nella società trasparente,4 dove un ruolo decisivo
è esercitato dai mass-media, la stessa sorte subita da
Winston e Julia è riservata, seppure per altri motivi,
all’ignaro protagonista del film The Truman Show (Peter
3
M. McLuhan, La fotografia. Il bordello senza muri, in Gli strumenti del
comunicare [1964], EST, Milano 1999.
4
G. Vattimo, La società trasparente [1989], Garzanti, Milano 2000.
LA REALTÀ COME SPETTACOLO QUOTIDIANO 45

Weir, 1998), un uomo la cui vita è in diretta 24 ore su


24 in una popolare trasmissione televisiva. Film em-
blematico, anticipatore di molti Reality Show e spac-
cato quanto mai veritiero di una società che ha scelto
la strada dell’annullamento della propria privacy.5 «Non
si sa dove arrivi la vera vita, quella che Gore chiama
life or nonfiction e fin dove l’intricata giungla delle storie
immaginarie».6 In questo modo Italo Calvino, nel lon-
tano 1983, commentava Duluth di Gore Vidal, il ro-
manzo dello scrittore statunitense che mostra come la
vita reale cortocircuita con le immagini di una trasmis-
sione televisiva. Quel voyeurismo iniziato nell’Otto-
cento con l’invenzione di Daguerre e Talbot, quella
predisposizione all’abbattimento dei “muri” che la
fotografia pare abbia iscritta nel proprio DNA, trova,
infatti, all’inizio del nuovo millennio, un’applicazione
globalizzata nei Reality Show.7 Potremmo dire un’ap-
plicazione nuova, una mutazione dall’atto morboso
5
Il primo e più noto Reality Show televisivo è Big Brother (1999). Ideato
dall’autore olandese John de Mol, si ispira al progetto scientifico Biosphere
(1987-1991), un esperimento americano teso a ricreare in un ambiente
chiuso le condizioni di sopravvivenza di un gruppo umano. Ma già nel
1964, in Inghilterra, fu girato l’antenato dei reality, si chiamava Seven Up!
cioè “da sette anni in su”. I protagonisti erano quattordici bambini di
sette anni e di diverse classi sociali. Da allora il documentario è stato
girato ogni sette anni, con gli stessi bambini divenuti progressivamente
più vecchi.
6
I. Calvino, Vidal e il suo doppio in G. Vidal, Duluth [1983], Fazi Editore,
Roma 2007, p.7.
7
L’espressione Reality Show è un ossimoro, poiché fa convivere in
modo paradossale due termini contraddittori: lo Show non può essere
Reality. Nella nostra società, quella dei mass media, questo ossimoro si
è annullato, modificando così il rapporto fra i due termini: ora anche lo
spettacolo può essere realtà.
46 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

del singolo, dalla perversione del voyeur, alla norma-


lizzazione di questo comportamento, legittimato dai
mass-media e condiviso da milioni di telespettatori. I
Reality Show, infatti, presuppongono un consolidato
e determinante ruolo da parte dei mass-media nella
nostra vita, capaci non tanto di rendere la società più
“trasparente”, cioè più comprensibile, ma al contrario
di mostrarla per quello che è, vale a dire più caotica,
sfumata, vaga. Proprio questo caos, reso tangibile dalla
rappresentazione senza veli della realtà, diventa la ca-
ratteristica del nostro tempo. Gli scienziati ci vengono
in aiuto puntando le proprie ricerche su logiche mate-
matiche polivalenti che, già dagli anni Sessanta, hanno
rotto i ponti con la tradizionale logica binaria. Una di
queste è la Fuzzy Logic,8 in grado di valutare asserzio-
ni parzialmente vere o parzialmente false, superando
il sistema booleano 0-1, basato su enunciati del tipo
“vero o falso”. Senza entrare troppo nello specifico,
basti pensare alla logica fuzzy come ad una filosofia ca-
pace di costruire un’immagine del mondo più vicina al
reale di quella ricreata dalla scienza tradizionale. Una
logica in grado di ammettere che il mondo non è uno
ma plurimo. Queste molteplici realtà, allo stesso tem-
po vere e false, vengono oggi più che mai evidenziate
dalla diffusione di media come la fotografia, in grado
di mettere a nudo il mondo in cui viviamo, mostran-
docelo dunque “senza muri”, così come profetizzato
da McLuhan e mostrato nei Reality Show, non solo
quelli televisivi.

8
B. Kosko, Il fuzzy-pensiero [1993], Baldini & Castoldi, Milano 1999.
LA REALTÀ COME SPETTACOLO QUOTIDIANO 47

Reality Show fotografici

Intorno agli anni Settanta, in concomitanza con


il crescente interesse per il mezzo fotografico, alcuni
artisti produssero le prime opere che videro nell’espe-
diente del Reality Show una nuova strada di ricerca.
L’accorgimento di cui sto parlando consiste nell’utiliz-
zo della fotografia come strumento in grado di spet-
tacolarizzare la realtà, coinvolgendo aspiranti Grande
Fratello, curiosi di osservare 24 ore su 24 la vita altrui,
oppure di esporre la propria allo sguardo indiscreto
di sconosciuti. Una formula utilizzata con una certa
frequenza da alcuni artisti negli anni Settanta, ma che,
con l’avvicinarsi al nuovo millennio, trova un massic-
cio consenso ed una più esplicita applicazione. È bene
precisare che l’accorgimento del Reality Show in fo-
tografia è per i vari artisti di cui ora parlerò soltanto
un’idea, e quindi come tale va considerata, senza però
dimenticare l’importanza che questa assume per l’af-
fermazione di una tendenza ben precisa.
Osservando il panorama artistico internazionale
degli ultimi quarant’anni mi sembra di notare due dif-
ferenti regole di abbattimento di quei “muri” che la
fotografia è in grado di compiere. Nel primo caso si
può parlare di autentiche documentazioni della realtà,
di fotografi che puntano l’obiettivo sulla vita privata di
amici e parenti, fatta di ambienti domestici, trasgres-
sioni o semplici attimi di vita sociale. Il secondo at-
teggiamento, invece, consiste in vere e proprie azioni
performative, dove il soggetto delle immagini, spesso
lo stesso autore, si esibisce in comportamenti di una
48 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

banale quotidianità. In entrambi i casi questo ecces-


so di realtà parte dalla consapevolezza di indagare le
molteplici identità del reale, non esclusa la sua stessa
spettacolarizzazione.
Pioniere indiscusso del primo approccio alla spet-
tacolarizzazione del quotidiano è il fotografo statu-
nitense Larry Clark, regista di Kids (1995) e del più
recente film Ken Park (2002), caposcuola ideale di una
serie di autori che negli anni Novanta hanno utilizzato
la fotografia come una sorta di diario per immagini,
mostrando tutta la cruda e a volte imbarazzante realtà
delle scene rappresentate. Le fotografie della famo-
sa serie Tulsa, realizzate da Clark tra il 1963 e il 1971
nella cittadina dell’Oklahoma, teatro della sua giovi-
nezza, raccontano una storia di adolescenti alle prese
con droga, sesso e alcol; qui l’autore si muove senza
finzioni documentando una realtà che ben conosce e
che sembra non voler tradire. Queste immagini hanno
ispirato un’intera generazione di registi internazionali,
come Martin Scorsese e Francis Ford Coppola, che
a loro volta, hanno portato sugli schermi una nuova
cultura underground che forse partiva proprio da Tul-
sa. Clark, con l’autenticità del suo sguardo, ci mostra
fotografie molto intime e franche che indagano sul
mondo dei giovani con una particolare attenzione
al loro modo di affrontare il passaggio sociale all’età
adulta. Negli stessi anni, anche se con modalità diffe-
renti, hanno dimostrato un particolare interesse per
la documentazione fotografica di una stretta cerchia
famigliare o di conoscenze, importanti autori come lo
statunitense Robert Mapplethorpe, nella serie di Pola-
49

Franco Vaccari, Modena dentro le mura, 1970 (Courtesy dell’artista)


50

Paola Di Bello, Series: Cattedrale di Rouen, 1991-92 (Courtesy dell’artista)


51

Joachim Schmid, Photogenetic Drafts #8, 1991 (Courtesy dell’artista)


52

Alessandra Spranzi, Tornando a casa #25, 1997 (Courtesy dell’artista)

Sara Rossi, Carosello #1, dettaglio, 2005 (Courtesy dell’artista)


53

Cristian Chironi, Offside #5, 2007 (Courtesy dell’artista)

Francesco Nonino, Memento Memory, dettaglio, 2008 (Courtesy dell’artista)


54

Larry Clark, Untitled, 1963, dalla serie Tulsa


(Courtesy dell’artista e Luhring Augustine, New York)

Larry Clark, Untitled, 1968, dalla serie Teenage Lust


(Courtesy dell’artista e Luhring Augustine, New York)
55

Ed Templeton, Elissa, Laconia, New Hampshire, 1997


(Courtesy dell’artista e Roberts and Tilton Gallery, Culver City)
56

James Casebere, Fan as Eudaemonist, Relaxing after an Exhausting Day at the Beach, 1975
(Courtesy dell’artista e Sean Kelly Gallery NY - Galleria Marabini, Bologna)
57

Hiroshi Sugimoto, Hyena-Jackal-Vulture, 1976


(Courtesy dell’artista e Gallery Koyanagi, Tokio)

Luigi Ghirri, Salisburgo, 1977, dalla serie Il paese dei balocchi


(Courtesy Eredi di Luigi Ghirri)
58

Paolo Ventura, Winter Stories, 2007 (Courtesy dell’artista)


59

Olivo Barbieri, site specific_NEW YORK CITY 07, 2007 (Courtesy dell’artista)
60

Joan Fontcuberta, Orogenèsi: Friedrich, 2002


(Courtesy dell’artista)

Davide Tranchina, Paesaggio #1, 2011, dalla serie Luci, ombre e bugie,
(Courtesy dell’artista)
LA REALTÀ COME SPETTACOLO QUOTIDIANO 61

roid dei primissimi anni Settanta, oppure l’artista giap-


ponese Nobuyoshi Araki, nello splendido e toccante
progetto intitolato Sentimental Journey / Winter Journey
iniziato nel 1971 e terminato nel 1990 alla morte della
moglie.
La seconda modalità di spettacolarizzazione del
quotidiano è rappresentata dal lavoro di Sophie Calle.
Le opere dell’artista francese sono di natura autobio-
grafica, sfruttano la logica del diario, del pedinamento
fotografico, della partecipazione, della casualità e anti-
cipano le attuali problematiche relative alla violazione
del privato. Nel gennaio del 1980 Sophie Calle seguì
uno sconosciuto per le strade di Parigi, lo fotografò e
prese nota dei suoi spostamenti, lo perse fra la folla
per poi ritrovarlo all’improvviso, lo seguì a Venezia,
fino a quando il gioco s’interruppe (Suite vénitienne).
Nel febbraio del 1981 si fece assumere per tre setti-
mane in un albergo di Venezia. Durante le pulizie alle
dodici camere a lei assegnate, documentò con imma-
gini e testi le abitudini degli ospiti, violando così la
loro intimità (L’Hôtel). Sempre nel 1981, in aprile, cer-
tificò la propria giornata chiedendo alla madre di es-
sere pedinata da un investigatore privato incaricato di
portarle le prove fotografiche della propria esistenza
(La filature). Quest’opera permise all’artista di ottenere
due sguardi differenti sulla propria vita: quello “ester-
no”, dato dalle immagini riprese dal detective, e quello
“interno”, prodotto da un’auto-documentazione. Nel
primo caso l’immagine è “rubata”, nell’altro, invece, è
prelevata consapevolmente. Inoltre, ad un certo pun-
to dell’inseguimento, si venne a creare un affascinante
62 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

cortocircuito fra realtà e finzione; nel momento in cui


Sophie Calle si accorse di essere pedinata alterò il suo
normale comportamento in funzione dell’osservato-
re. Vent’anni dopo fu nuovamente spiata seguendo la
stessa regola, questa volta però ad ingaggiare il detec-
tive fu il suo gallerista Emmanuel Perrotin (Vingt ans
après).9 I meccanismi attivati da queste ed altre ope-
re di Sophie Calle ci rimandano al voyeurismo par-
tecipato tipico degli attuali Reality televisivi, dove si
espongono senza vergogna azioni o comportamenti
appartenenti alla sfera privata, a volte anche banali,
come anticipato dagli artisti inglesi Gilbert & George
nella nota serie Photo-Piece del 1971.

Prima e dopo il Duemila

Se negli anni Settanta e Ottanta si svilupparono


le prime ricerche fotografiche realizzate secondo l’e-
spediente del Reality Show, sarà solamente dagli anni

9
Nel romanzo di Paul Auster intitolato Leviatano, si riconoscono alcuni
aspetti della personalità e del lavoro di Sophie Calle, utilizzati dallo
scrittore per costruire il personaggio letterario di Maria: «Secondo
alcuni era una fotografa, secondo altri una concettualista, mentre altri
ancora la consideravano una scrittrice, ma nessuna di queste definizioni
era esatta, e alla fin fine non credo che si presti a essere etichettata
in alcuna maniera. Il suo modo di lavorare era troppo folle, troppo
stravagante, troppo personale per poter essere associato a qualsiasi
mezzo espressivo o disciplina. Le venivano in mente delle idee, lavorava
a dei progetti, e venivano fuori dei risultati concreti che potevano essere
esibiti nelle gallerie, ma quest’attività non nasceva tanto dal desiderio di
fare arte quanto da quello di assecondare le sue ossessioni, di vivere la
sua vita esattamente come voleva». P. Auster, Leviatano [1992], Einaudi,
Torino 2003, pp. 73-74.
LA REALTÀ COME SPETTACOLO QUOTIDIANO 63

Novanta (un decennio prima dell’effettiva esplosione


del fenomeno televisivo) che queste troveranno larga
applicazione nelle immagini di numerosi artisti con-
temporanei. Proprio all’inizio del decennio si colloca
infatti la ricerca della francese Orlan che, seguendo la
strada performativa, procede ad eliminare fotografi-
camente le pareti della sala operatoria rendendo così
pubblica l’alterazione chirurgica del proprio corpo. I
molteplici interventi di chirurgia plastica subiti, foto-
grafati e video-ripresi da Orlan, si pongono veramen-
te come opera anticipatrice degli odierni Reality Show,
poiché esposizioni di una realtà spettacolarizzata. Sarà
proprio una trasmissione televisiva italiana, Bisturi!
Nessuno è perfetto, che nel 2004 adotterà la formula vin-
cente utilizzata da Orlan, provocando feroci critiche
(ma anche un incremento dell’audience) per avere mo-
strato in diretta televisiva un intervento di chirurgia
estetica su di una paziente poco prosperosa.
A percorrere invece la strada indicata da Larry
Clark è la celebre fotografa statunitense Nan Gol-
din, già attiva sul finire degli anni Settanta e nei pri-
mi anni Ottanta, raggiunge il successo internazionale
soltanto negli anni Novanta, diventando un punto di
riferimento per gli artisti delle generazioni successive.
Le sue immagini mostrano gli eccessi dell’alcol, del-
la droga, dell’amore e del sesso, ma anche scene di
una disarmante domestica intimità. Le persone ritratte
dall’artista hanno una buona dose di controllo sulla
fotografia, soltanto così riescono ad essere più spon-
tanee, perché se le foto non fossero di loro gradimen-
to potrebbero impedirne la pubblicazione. È quindi
64 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

una relazione di fiducia quella che si instaura fra foto-


grafo e fotografato. Quest’ultimo non si sente vittima
dell’atto fotografico come accade in altre circostanze.
Si tratta di muse, amici, amanti, Goldin si riferisce a
loro come «la mia gente». Le emozioni e i sentimenti
provati dall’artista nei loro confronti emergono con
evidenza, ma anche queste persone si mostrano per
quello che sono, perché non vengono mai soggiogate
dalla fotografa. Sono addirittura coinvolte nell’editing
e soprattutto hanno il potere di dire “non usare questa
foto”, per questo motivo non sono indotte a celare la
loro personalità.
Sulla stessa lunghezza d’onda è la ricerca del te-
desco Wolfgang Tillmans, i cui soggetti sono ragazzi
colti nella quotidianità delle loro case, oppure foto-
grafati in effusioni erotiche, o ancora in ambienti di
vita collettiva: i locali notturni, le strade delle grandi
metropoli occidentali. Ancora una volta è la realtà a
trasformarsi in spettacolo, come accade in alcune fo-
tografie dell’inglese Richard Billingham, dell’olandese
Bertien van Manen e degli statunitensi Ed Templeton
e Ryan McGinley, che hanno basato una parte della
loro ricerca su questo approccio.
Per quanto rigurda Billingham possiamo parlare di
veri e propri Reality Show fotografici, mi riferisco alla
fortunata serie Rays a Laugh (1996). L’artista inglese,
usando sia il mezzo video che quello fotografico, ha
seguito per sette anni la difficile vita condotta dai suoi
genitori; i continui litigi durante la cena tra la madre,
con il corpo ricoperto di tatuaggi, e il padre, alcoliz-
zato, che sembra subire impassibile lo scorrere degli
LA REALTÀ COME SPETTACOLO QUOTIDIANO 65

eventi. Le sue immagini ci mostrano uno spettacolo


interpretato da una famiglia operaia, in cui Billingham
agisce tanto da spettatore estraneo (nel ruolo di ar-
tista) quanto da attore fortemente coinvolto (come
membro di quella stessa famiglia). Una realtà crudele,
che ci appare tragicomica nella sua mostruosa norma-
lità. Le fotografie dell’artista provocano molte con-
traddizioni, sono umane, ma allo stesso tempo crude
e sconcertanti, al limite tra realtà e finzione.
Un percorso analogo, sempre all’insegna di un’au-
tentica documentazione della vita privata, è quello in-
trapreso da van Manen. Nel 1995, l’Amsterdam Art
Fund, commissiona all’artista la serie Männen (Uomi-
ni), un lavoro fotografico molto personale incentrato
sugli uomini più importanti della sua vita. Suo padre,
il marito, il figlio e un amico vengono ripresi nella pro-
pria stanza mentre dormono, guardano la televisione,
si vestono o parlano al telefono. Sono dei Reality
Show sottili e sensibili, capaci di provocare nell’osser-
vatore un sentimento di partecipazione al mondo rap-
presentato nella fotografia, senza tuttavia permettere
quella sensazione di voyeurismo che darebbe al lavoro
un taglio reportagistico.
Più vicino alla musica punk, alla cultura grafica dei
murales, in altre parole a tutto ciò che può essere defi-
nito street life, è invece il californiano Templeton. L’ar-
tista indaga la situazione sociale in cui vivono giovani
skateboarder, le loro problematiche nelle relazioni
con le famiglie e con gli altri compagni. L’attenzione
di Templeton si focalizza sull’esistenza di chi come lui
pratica questo sport, avendo con i suoi giovani colle-
66 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

ghi un canale preferenziale di comunicazione, che gli


permette di carpire quello che nessun grande reporter
sarebbe in grado di estorcere con una “istantanea” in-
trusione.
Fra i giovani eredi di Larry Clark forse il più pro-
mettente è McGinley, nelle cui opere fotografiche mi
sembra di notare un passo in avanti rispetto alla ri-
cerca degli altri artisti della sua generazione. Mentre
le immagini dei suoi coetanei, che similmente rappre-
sentano giovani alla scoperta della vita, continuano
ad essere severe, poco luminose e a volte drammati-
che, come quelle realizzate da altri autori nei decenni
precedenti, le fotografie di McGinley testimoniano
invece una straordinaria vitalità. Allo stile on the road
affianca una lucida volontà di raccogliere la bizzarra
vita metropolitana, evidenziando quei particolari che
la rendono unica, quegli attimi che si vivono una vol-
ta sola e per questo sono degni di essere conservati.
Il suo scopo è di rappresentare la nostra epoca con
lo sguardo partecipe di chi l’ha vissuta in prima per-
sona e intensamente. Lo smarrimento dei suoi amici,
ripreso negli eccessi che caratterizzano una manciata
di vite disordinate, diviene a noi famigliare poiché rap-
presenta un’epoca che stiamo vivendo, dove la gioia di
gruppo rimane l’unico antidoto alla solitudine.
Nonostante il mondo sia ormai pieno di suoi se-
guaci più o meno dichiarati, la ricerca di Clark non
ha perso forza, anzi, continua a scandalizzare con le
immagini di una gioventù perduta, priva di qualsiasi
punto di riferimento. Si è chiusa nel 2011 al Musée
d’Art Moderne de la Ville de Paris una sua impor-
LA REALTÀ COME SPETTACOLO QUOTIDIANO 67

tante mostra retrospettiva, Kiss the past hello, la cui vi-


sione è stata vietata ai minori di diciotto anni. Come
hanno riportato i quotidiani francesi, si è ritenuto che
le immagini a sfondo sessuale e quelle che facevano
riferimento all’uso di droga, potessero turbare la quie-
te degli adolescenti. Quarant’anni dopo Tulsa, i tabù
della società contemporanea non sono cambiati, ora
però Larry Clark non è più solo, sono tanti gli artisti
ad avere seguito il suo insegnamento, esplorando ogni
giorno quei territori visivi che soltanto la fotografia
può trasformare in spettacolo.

Di moda

Ma ciò che più sorprende alle soglie del Duemila


è la diffusione di questa modalità operativa nel mon-
do della moda, come si può osservare dalle immagini
di molti fotografi di settore, fra i quali emergono per
fama e creatività Juergen Teller e Terry Richardson.
Come ha notato Claudio Marra: «con l’affermazio-
ne sulla scena internazionale di figure come quelle
dell’americana Nan Goldin e del tedesco Wolfgang
Tillmans, bisogna riconoscere che la moda è quanto
mai tempestiva a sintonizzarsi su questa lunghezza
d’onda».10
Il modo di lavorare di Teller si discosta decisamen-
te dai tradizionali canoni della fotografia di moda,
infatti, il suo stile è diretto e aperto, una sorta di dia-
10
C. Marra, Nelle ombre di un sogno, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 224.
Sul rapporto fotografia di moda e arte contemporanea si veda anche
F. Muzzarelli, L’immagine del desiderio, Bruno Mondadori, Milano 2009.
68 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

logo tra la modella e il fotografo. Nella serie Go-sees


(1999), l’autore tedesco raccoglie immagini uscite da
brevi sedute fotografiche con ragazze in cerca di un
futuro nel mondo della moda. Per realizzare questo
progetto Teller ha lavorato per un anno nel suo studio
di Londra fotografando le modelle così come si pre-
sentavano nel momento del casting. Ogni giorno una
giovane aspirante ha bussato alla porta del fotografo
in Ladbroke Grove, West London, nella speranza di
diventare una grande star; Teller invece fotografa ogni
ragazza sulla soglia della porta dello studio oppure
appena fuori sulla strada. Questa ricerca si concentra
non tanto sull’aspetto formale, quanto sull’oggetto
fotografato; le immagini ottenute, tutt’altro che pati-
nate, costituiscono una critica ai vezzi del mondo del-
la moda e ai suoi ideali di bellezza. Le immagini più
interessanti sono proprio quelle scattate alle ragazze
meno abituate a questo lavoro, che si mostrano al na-
turale, senza trucco, con i capelli in disordine, parteci-
pi quindi dello spettacolo ma senza discostarsi troppo
dalla realtà.
Altre “immagini che chiunque potrebbe realizza-
re” sono quelle riprese da Terry Richardson. Il foto-
grafo statunitense, celebre anche in Italia grazie alle
scandalose campagne pubblicitarie della maison veneta
Sisley, si è sempre dichiarato estimatore della foto-
grafia di Larry Clark e Nan Goldin, questo lo rende
vicino per propensione alla spettacolarizzazione del
quotidiano. Richardson fotografa gente comune sor-
presa a baciarsi, a praticare sesso, oppure ad aggirarsi
per locali di infima categoria, a fare le boccacce come
LA REALTÀ COME SPETTACOLO QUOTIDIANO 69

in una banale foto ricordo, a sollevarsi la maglietta per


mostrare un piercing, un tatuaggio o il seno rifatto. Le
sue immagini sono spesso realizzate su commissione
per testate come «i-D», «Vogue», «Harper’s Bazaar»,
oppure per le campagne pubblicitarie di Levi’s, Hugo
Boss e Anna Molinari. Ma l’esaltazione della poeti-
ca di Richardson, priva di quella maniera dopotutto
ammorbidita che adotta nelle fotografie su commis-
sione, si manifesta quando si mette in gioco in prima
persona, essendo spesso soggetto delle sue opere, in
un’estrema operazione di auto-rappresentazione con-
dita da una buona dose d’ironia, come accade in Kibo-
sh (2004), quello che lui stesso definisce come il più
importante libro della sua carriera.11

Possibili conclusioni

Prima di cinema, televisione e web la fotografia


ha introdotto la possibilità di realizzare uno spetta-
colo di fronte all’obiettivo e di tramandarlo ai posteri
come documento credibile e veritiero. Anche semplici

11
La stampa italiana, all’uscita di Kibosh (edito da Damiani, Bologna), ha
dimostrato di avere ancora preoccupanti tabù iconografici in merito
alle fotografie di Terry Richardson, rifiutandosi di pubblicare quelle
immagini ritenute troppo “scandalose” in quanto vicine all’immaginario
pornografico. A dimostrazione di come si fatichi ancora ad accettare
la trasposizione diretta del reale che la fotografia da sempre offre,
soprattutto nella rappresentazione sessuale. Ha ragione Terry
Richardson quando afferma: «chi studia le immagini criticamente, e sotto
il profilo della comunicazione, non deve certamente farsi condizionare
dalle regole dei benpensanti; deve cercare invece di guardare con occhio
lucido e attento qualsiasi articolazione della creatività umana».
70 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

immagini riprese fra amici possono essere interpre-


tate come una sorta di Reality Show fotografico: la
genuinità della scena rappresentata è innegabile, ma al
tempo stesso questa viene spettacolarizzata dai pro-
tagonisti stessi dell’evento che, nella consapevolez-
za di essere osservati (fra le pagine di un album di
famiglia così come nella casa del Grande Fratello),
trasformano la quotidianità in uno spettacolo. Negli
ultimi decenni questo atteggiamento sembra essere il
comune denominatore di molti autori internazionali,
il cui obiettivo spesso corrisponde alla quotidianità
del proprio mondo. Si è visto come quest’attitudine
a fissare con la fotografia la propria esperienza di vita
è particolarmente manifesta negli autori statunitensi,
trovando però consensi anche fra gli artisti europei.
Non sarà invece passata inosservata la completa as-
senza di un contributo italiano, questo non per mia
esterofilia, ma per la mancata predisposizione dei no-
stri connazionali a un’indagine fotografica così inti-
ma. Questa forma di pudicizia però è stata in qualche
modo superata con l’avvento dei social network; anche
nel nostro paese si sono moltiplicati spazi online per la
condivisione di fotografie e video della propria realtà
quotidiana, dove «l’immagine non può più immagina-
re il reale, poiché coincide con esso».12 Questo Reality
Show perpetuo per Jean Baudrillard ha un importante
antenato: «qualsiasi oggetto, individuo o situazione è
oggi un ready-made virtuale, nella misura in cui di essi

12
J. Baudrillard, Il delitto perfetto [1995], Raffaello Cortina, Milano 1996,
p. 8.
LA REALTÀ COME SPETTACOLO QUOTIDIANO 71

si può dire quanto Duchamp dice in fondo del porta-


bottiglie: esiste, l’ho incontrato».13 È così che ciascuno
è invitato a presentarsi tale e quale, a recitare la pro-
pria vita in diretta sullo schermo televisivo; così come
il ready-made recita la sua parte in diretta nella teca del
museo; allo stesso modo la fotografia, oggi veicolata
da internet, offre all’uomo la possibilità di mostrare se
stesso, senza filtri, trasformando in spettacolo ciò che
appartiene alla sfera privata. Come si nota osservando
le opere fotografiche prodotte da molti artisti degli
ultimi decenni, «lo spettacolo non è un insieme di im-
magini ma un rapporto sociale fra individui mediato
dalle immagini».14

13
Ivi, p. 34.
14
G. Debord, La società dello spettacolo [1967], Baldini&Castoldi, Milano
2008, p.54.
3.
La finzione come futura verità

Ho sempre pensato che la finzione fosse qual-


cosa di ambivalente, che rappresentasse contem-
poraneamente la menzogna e la verità. Molti artisti
che hanno lavorato con la fotografia si sono serviti
del mezzo per produrre inganni autentici, alcuni di
questi hanno concepito delle vere e proprie “scul-
ture fotografiche”. Sembra quasi che non ci sia
ragione di dubitare della sincerità di un’immagine,
anche quando al suo interno si scorgono partico-
lari che ne relativizzano la pertinenza.1 Quello che
accade in una finzione non può che essere conside-
rato vero, così come a fatica si mette in dubbio l’au-
tenticità di una scena tratta da un serial televisivo,
anche quando i personaggi muoiono in una puntata
e ricompaiono in un’altra. Dopotutto anche la ce-
lebre fotografia del miliziano spagnolo di Robert
Capa, The Falling Soldier (5 settembre 1936), non ha
mai perso la sua validità storica, anche se tra i cri-
1
Negli ultimi dieci anni non solo la fotografia ma tutta l’arte contempo-
ranea (pittura, scultura, video...) ha indagato questo fenomeno. Si legga
a questo proposito: L. Panaro, Realtà e finzione nell’arte contemporanea in
Aa.Vv., XXI Secolo - Gli spazi e le arti, vol. 4, Istituto della Enciclopedia
Italiana Treccani, Roma 2010, pp. 633-639.
74 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

tici vi è chi ha sostenuto che sia stata “costruita”.


Il ritrovamento delle valigie di Capa con i negativi
originali dovrebbe permettere di stabilire definiti-
vamente se la fotografia è autentica oppure no. In
ogni caso però «la fotografia del Miliziano, a questo
punto, ha già smesso di essere una fotografia-testi-
mone per diventare una icona-metafora. L’autenti-
cità, anzi, diventa persino nociva per il significato
poetico attribuito all’immagine, un fastidioso ten-
tativo di smitizzare che va respinto senza neppure
considerarne la fondatezza».2 Tutti ormai sappiamo
che molte immagini di guerra sono frutto di una
messinscena; come afferma Susan Sontag la cosa
più strana non è che lo siano ma che ogni volta ci
si sorprenda di scoprirlo, specie «quando si tratta di
fotografie che sembrano registrare il momento cul-
minante di una vicenda intima, soprattutto d’amore
o di morte».3
Secondo Marc Augé l’immagine diventa veramente
una rappresentazione al quadrato quando riprende
luoghi che sono a loro volta finzioni, come Disney-
land, dove circolano per le strade di una falsa città
personaggi dei disegni animati usciti a loro volta
dalle fiabe europee. La crescente indistinzione tra
realtà e finzione nel mondo d’oggi, o meglio della
straordinaria capacità della finzione di diventare re-
altà, emerge dall’opera fotografica e video di Olivo
Barbieri intitolata TWIY - The World Is Yours (2008),

2
M. Smargiassi, Un’autentica bugia, Contrasto, Roma 2009, p. 267.
3
S. Sontag, Davanti al dolore degli altri [2003], Mondadori, Milano 2006, p. 54.
LA FINZIONE COME FUTURA VERITÀ 75

ispirata alla notizia letta sul quotidiano britannico


Guardian, secondo la quale la villa di Walter Schia-
vone, fratello del boss della camorra Francesco, det-
to Sandokan, fu costruita copiando quella di Tony
Montana nel film Scarface. Anche Roberto Saviano,
in Gomorra, racconta come il boss consegnò diret-
tamente il VHS del film al suo architetto, poi, dopo
il sequestro della villa, lo stesso scrittore riuscì ad
entrare per apprezzarne la somiglianza: «l’entrata
era un delirio architettonico, due enormi scalinate
si arrampicavano come due ali di marmo al primo
piano che si affacciava a balconata sul salone sotto-
stante. L’atrio era identico a quello di Tony Monta-
na. C’era anche il ballatoio con un’entrata centrale
allo studio, lo stesso dove si conclude tra piogge di
proiettili Scarface».4 L’immaginario hollywoodiano
entra così nella vita di tutti i giorni; non è il cine-
ma a scrutare il mondo criminale per raccoglierne
i comportamenti più interessanti, ma accade esat-
tamente il contrario. L’articolo di un quotidiano, le
immagini pubblicate e gli ultimi tre minuti del film
di Brian De Palma, sono recuperati artisticamente
da Olivo Barbieri per essere riletti, in quanto depo-
sitari d’informazioni sulla nostra società.
A testimonianza di come oggi sia la realtà a guar-
dare con interesse la finzione, basti ricordare come
Matera, città nota in tutto il mondo per gli anti-
chi rioni scavati nella roccia, i famosi “Sassi”, ne-
gli ultimi anni attiri folle di turisti anche grazie alla

4
R. Saviano, Gomorra [2006], Mondadori, Milano 2008, p. 268.
76 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

presenza delle tre croci lignee utilizzate dal regista


Mel Gibson nel film The Passion (2004), come se in-
dicassero il reale luogo della crocefissione di Gesù.
Un altro fatto di cronaca riferisce invece come gli
architetti della Disney Corporation si siano aggiu-
dicati un concorso relativo alla risistemazione del
centro di New York (Times Square, Fifth Avenue,
Central Park). Commentando la notizia, Marc Augé
afferma che «da uno stato in cui le finzioni si nu-
trivano della trasformazione immaginaria del reale,
siamo passati a uno stato in cui il reale si sforza di
riprodurre la finzione».5 Un tempo l’uomo si limita-
va a credere alla finzione, oggi invece siamo passati
alla riproduzione vera e propria di mondi immagi-
nari. Dalla “credenza per procura” di cui parlano i
sociologi, quella basata sul passaparola, siamo pas-
sati alla credenza per constatazione; sono i nostri
occhi a non riuscire più a distinguere la realtà. La
situazione attuale si colloca a metà fra verità e men-
zogna, è un terzo stato, né vero né falso, come la
credenza dei miti nell’antichità.6 Alla luce di queste
considerazioni non dobbiamo stupirci se alcuni ar-
tisti contemporanei hanno deciso di ricostruire la
realtà prima di fotografarla, o altri, che non accon-
tentandosi della ripresa diretta da modello, l’anno
cercata già fatta (come un ready-made) in qualche
parco di divertimento.

5
M. Augé, Disneyland e altri non luoghi [1997], Bollati Boringhieri, Torino
1999, p. 113.
6
P. Veyne, I greci hanno creduto ai loro miti? [1983], il Mulino, Bologna 1984.
LA FINZIONE COME FUTURA VERITÀ 77

Sculture fotografiche

La prima fra queste due aree di ricerca, quel-


la relativa alla ricostruzione della realtà ad uso
fotografico, trova nello statunitense James Case-
bere il pioniere di un atteggiamento fotografico
molto imitato dalle generazioni successive. Dalla
fine degli anni Settanta l’artista costruisce nel pro-
prio studio edifici di dimensioni da tavolo, fatti
di materiali semplici e forme essenziali, per poi
trasformarli in realtà mediante l’ausilio del mezzo
fotografico. Dalla finzione alla realtà il lavoro di
Casebere esplora continuamente le mitologie dei
luoghi e i sistemi dominanti del nostro tempo.
L’importanza ricoperta da certe architetture isti-
tuzionali fa riflettere l’artista sulla loro funzione di
controllo sociale, offrendo livelli sempre più raf-
finati d’interpretazione. Le radici del suo lavoro
sono legate alla scultura, all’arte concettuale, alla
performance e alle installazioni degli anni Sessan-
ta e Settanta, al lavoro di artisti che usavano la
fotografia per documentare le loro tracce, azio-
ni, interventi ed eventi piuttosto che alla fotogra-
fia come disciplina distinta. Casebere elimina dal
tradizionale processo di ripresa il livello iniziale
dell’esperienza diretta con l’evento o la perfor-
mance e costruisce uno scenario esclusivamente
pensato per la fotografia.
Thomas Demand è probabilmente l’artista che
maggiormente ha goduto di questa modalità ope-
rativa introdotta da Casebere, colui che l’ha por-
78 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

tata all’attenzione internazionale, a volte anche


offuscando la ricerca del suo predecessore. Il suo
lavoro si concentra sugli spazi interni, le sculture
di carta sono fotografate simulando la ripresa dal
vero. A differenza di Casebere, Demand esegue le
sue composizioni in scala reale. Nel 2006 realizza
uno dei suoi lavori meglio riusciti, intitolato Grotto,
la fotografia di un sito sotterraneo ricavato da una
cartolina riproducente una grotta dell’isola di Ma-
jorca. Nel 2007, a fianco di Grotto, l’artista tedesco
espone per la prima volta la titanica ricostruzione
in 900.000 strati di cartone sagomato al computer
della grotta costruita inizialmente nel suo studio di
Berlino. Nasce così Processo Grottesco, esposizione
di cartoline, libri, guide turistiche, fotografie, illu-
strazioni tratte da cataloghi, che hanno consentito
a Demand di raccogliere informazioni sull’imma-
gine da realizzare. Per la prima volta l’artista non
distrugge la sua scultura dopo lo scatto fotografico,
in questa occasione è interessato a mostrare il “pro-
cesso” che lo ha condotto all’opera finita. In un al-
tro celebre lavoro, Yellowcake (2007), si nota un ele-
mento di novità rispetto alla produzione preceden-
te. Come sostiene Robert Storr «finora, Demand ha
usato queste tecniche per costruire ambientazioni
generiche: magazzini, uffici, spazi domestici, il pal-
co di un oratore, la rampa di un aeroporto e così
via. Tutto ciò suggeriva una narrazione, ma prima
non esisteva una specifica storia da raccontare. La
sua operazione più recente, invece, inserisce un ele-
mento di novità. Basandosi su fotografie scattate
LA FINZIONE COME FUTURA VERITÀ 79

personalmente all’ambasciata del Niger a Roma,


Demand ricrea la scena di un reato».
Anche un altro artista tedesco, Oliver Boberg, ne-
gli ultimi anni ha realizzato opere simili, scattando
inizialmente istantanee per le città che più gli inte-
ressavano, documentando uffici, strade, parcheggi
e giardini pubblici, elaborando poi una minuziosa
ricostruzione in studio di questi luoghi fino ad otte-
nere un modello tridimensionale. L’unico punto di
vista possibile di questi palcoscenici in miniatura è
quello della macchina fotografica dell’artista, capa-
ce di trasformare quell’illusione in realtà. A questo
punto viene da chiedersi a quale scopo ricostruire
ciò che già esiste, una risposta la possiamo trovare
nel cinema e negli studios hollywoodiani, oppure po-
tremmo guardare alla grafica 3D, dove, come nelle
opere di Boberg, la realtà da riprendere deve essere
costruita ex novo prima di venire ripresa da una mac-
china fotografica o telecamera.
In modo analogo le immagini dell’olandese Edwin
Zwakman giocano sull’illusione fotografica. Dietro
ai suoi spaccati di vita si nasconde sempre la finzio-
ne, le composizioni apparentemente casuali sono in
realtà diligentemente ricostruite. Lo spettatore ri-
mane disorientato di fronte a questo sovvertimento
della realtà. Nella serie Backyards (2004) l’attenzio-
ne di Zwakman si sofferma sui cortili di villette a
schiera, la cui falsità è fin da subito smascherata con
evidenza. Il giardino posteriore di queste abitazioni
è concepito come un’altra stanza della casa, un’e-
stensione del proprio spazio privato. Osservando
80 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

dall’alto come sono arredati questi luoghi, l’artista


raccoglie informazioni sui proprietari facendo una
vera e propria antropologia del quotidiano. Si dedu-
ce così il carattere degli abitanti di queste villette e
il loro orgoglio o la noncuranza nei confronti della
piccola area di libertà che si sono costruiti. Questi
inganni fotografici di Zwakman, volutamente gros-
solani, fanno inoltre riflettere sulla paura che spes-
so abbiamo nel condividere lo spazio privato con
quello dei vicini, per conservare la nostra individua-
lità siamo disposti, paradossalmente, a standardiz-
zare per forma e dimensioni il territorio.
Un esempio insolito di “scultura fotografica” -
che mi permetto di definire in questo modo anche
se in quest’opera di fotografico c’è soltanto l’idea
- riguarda un ambiente realizzato da Marcel Du-
champ: Etant donnés: 1. la chute d’eau, 2. le gaz d’éclai-
rage (1946-66). Si tratta di un diorama, «un appa-
recchio per sbirciare delle immagini», una vecchia
porta di legno molto consumata e senza maniglia,
circondata da una muratura di mattoni. Solo se il
visitatore si avvicina può notare due piccoli buchi
all’altezza degli occhi, dietro questa sorta di appa-
recchio fotografico senza lenti e pellicola, si pre-
senta una scultura, un’installazione che con grande
realismo illude lo spettatore: un corpo nudo di don-
na sdraiata a gambe aperte fra la vegetazione, con
lunghi capelli biondi che ne coprono il volto. L’as-
semblaggio di Marcel Duchamp è un manufatto
molto complesso e meticoloso, così come quelli co-
struiti da Casebere, Demand, Boberg e Zwakman.
LA FINZIONE COME FUTURA VERITÀ 81

L’opera non si mostra direttamente, ma soltanto


dopo essere mediata da una visione ottica, che sia
quella offerta dal foro sulla porta di Duchamp op-
pure quella dell’obiettivo della macchina fotografi-
ca degli autori contemporanei. In entrambi i casi la
realtà di primo grado è simulata in studio mediante
una finzione, per poi convertirsi in una nuova for-
ma di realtà grazie all’illusione ottica. Come nella
serie Winter stories (2007) di Paolo Ventura, dove si
apprezzano le peculiarità della ricerca dell’artista
italiano. Mediante accurati set fotografici, l’autore
restituisce un mondo immaginario fatto di figure
da lui stesso costruite, ogni singolo dettaglio dei
modelli è meticolosamente realizzato. Ventura ci
conduce in un carnevale di provincia, dove funam-
boli, mangiatori di fuoco, giocolieri e clown si esi-
biscono di fronte agli occhi attoniti degli spettatori.

Paesi dei balocchi

Se James Casebere ha anticipato la tendenza alla


ricostruzione in studio di architetture ad uso fo-
tografico, l’artista italiano Luigi Ghirri ha trovato
questi finti luoghi direttamente nella realtà, già fatti,
edificati per alimentare il divertimento del grande
pubblico. Mi riferisco alla celebre serie fotografi-
ca intitolata In scala (1977-78) realizzata all’Italia in
Miniatura di Rimini, parco di divertimento e atlante
tridimensionale. Dall’alto verso il basso i visitato-
ri possono osservare con un solo sguardo le bel-
lezze di un’Italia miniaturizzata, aggirandosi come
82 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

novelli Gulliver in un paesaggio artificiale fatto di


monumenti, montagne, ruderi, piazze, chiese e la-
ghi. In quest’ottica emerge un Ghirri che utilizza la
fotografia per riflettere sull’immagine, perché fare
una fotografia non significa solamente indicare un
metodo per vedere nuovi alfabeti visivi, ma soprat-
tutto uno stato di necessità.
Anche per il canadese Miles Coolidge, nella serie
Safetyville (1994-96), il problema della ricostruzio-
ne non si pone, poiché l’anonima cittadina da lui
documentata è già stata costruita, pur non essendo
reale. Osservando con maggiore attenzione i parti-
colari delle sue fotografie s’insinua il dubbio sulla
veridicità dei soggetti ripresi. L’edificio industriale,
la stazione di servizio o la centrale di polizia, sono
in realtà luoghi di una città in scala (1:3), costruita
in California negli anni Ottanta per educare i bam-
bini alla sicurezza pedonale. Per Coolidge, inoltre,
questa serie d’immagini è l’occasione per compiere
una critica nei confronti della società americana,
riflettendo sulla necessità di riprodurre i segni del
consumismo sugli edifici di questa città miniaturiz-
zata (McDonald’s, Procter and Gamble...), più simile a
un centro commerciale che a un luogo d’istruzio-
ne. Anche in queste opere un paesaggio falso viene
mostrato come se fosse vero.
Accade il contrario, invece, per alcune opere di
Olivo Barbieri realizzate sorvolando con l’elicotte-
ro reali metropoli, restituite dall’obiettivo come una
sorta di modellini sovradimensionati. Le immagini
ottenute dall’artista nella prima parte della serie site
LA FINZIONE COME FUTURA VERITÀ 83

specific_ (2003-2008) suggeriscono una sorta di Di-


sneyland al contrario: se nel parco di divertimenti
si visita ciò che non esiste ma sembra vero, nelle
opere di Barbieri la realtà dei luoghi è trasformata
in una sorta di finzione. Come Coolidge, Barbieri
non ricostruisce la realtà, la trova fatta, a differenza
del canadese però la realtà cui si riferisce è quella
di primo grado, non una scultura in scala. Eppure
l’effetto che si ottiene è similare, quello di un mon-
do in cui è sempre più difficile distinguere tra fatti e
finzione, reale e artificiale, vero e virtuale.
La fotografia ci insegna che vero e falso sono due
facce della stessa medaglia, sono compresenti
nell’immagine, fin dalle origini del mezzo. Addirit-
tura, come sostiene David Levi Strauss «Vedere è
credere. È così da sempre, da molto tempo prima
che i signori Niépce e Daguerre cambiassero la tec-
nologia della visione inventando la fotografia. Ma la
fotografia ha materializzato la visione in un modo
nuovo e ha cambiato notevolmente la relazione tra
vedere e credere».7 Certo, il mondo odierno ha por-
tato all’estremo questa caratteristica, ma la storia
della cultura ci insegna che l’uomo si è sempre rap-
portato alla menzogna con la consapevolezza che
questa è portatrice sana di verità.
Luigi Ghirri, oltre all’opera citata precedentemente,
ha giocato sull’ambiguità della finzione nella serie
Il paese dei balocchi (1972-1979), dove, anni prima

7
D. Levi Strauss, La politica della fotografia [2003], Postmedia Books,
Milano 2007, p. 77.
84 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

dell’artista giapponese Hiroshi Sugimoto (Portraits,


1999), fotografa le statue di cera presenti nei musei
Madame Tussauds di Londra e Amsterdam. Entrambi
gli artisti mettono in discussione le nostre certezze
e la visione del mondo, restituendoci come reale la
copia in cera di un’immagine estratta da un dipinto,
a sua volta ripresa dalla realtà. Tre livelli di sepa-
razione dal dato oggettivo che fanno riflettere sul
concetto di immagine e sulla sua natura sfuggente.
L’inganno in cui può cadere lo spettatore delle fo-
tografie di Ghirri e Sugimoto è frutto dell’abilità
del fotografo, ma soprattutto del potere del mezzo
utilizzato, capace di rendere reale tutto ciò che pas-
sa davanti all’obiettivo.
Nell’opera dei due artisti possiamo rintracciare an-
che un altro punto di contatto, che li vede ancora
una volta a confronto su soggetti fotografici ana-
loghi, ma con la differenza che in questa occasio-
ne gli anni in cui gli autori operano sono quasi gli
stessi. Sempre contenute ne Il paese dei balocchi sono
le fotografie di Ghirri dedicate all’esposizione degli
animali nei diorama, nello stesso periodo Sugimoto
realizza la serie Dioramas (1975- ), poi sviluppata
dall’artista nei decenni successivi. Ritraendo specie
animali e ambienti preistorici ormai scomparsi, gli
autori fanno rivivere i diorama presenti nei musei di
storia naturale, invitandoci a ripensare al tradizio-
nale concetto di realtà. Ghirri e Sugimoto, nel foto-
grafare gli animali impagliati nei musei naturalistici,
così come i personaggi storici al museo delle cere,
preferiscono che lo spettatore rimanga sospeso nel
LA FINZIONE COME FUTURA VERITÀ 85

dubbio, nulla acquisisce un significato definitivo,


offrendo in questo modo una loro interpretazione
del mondo contemporaneo.

Falsi d’autore

Come sostiene Zygmunt Bauman, «questo nostro


mondo è fatto dall’uomo e dunque può, in teoria,
essere rifatto dall’uomo».8 In nessun altro momento
della storia moderna tale affermazione appare vera
quanto oggi. L’artista spagnolo Joan Fontcuber-
ta indaga il rapporto tra fotografia e verità fin da-
gli anni Ottanta, celebre è la serie intitolata Fauna
che documenta un certo numero di animali insoliti,
per esempio il Cercophitecus icarocornu (1985) che as-
somiglia a una scimmia con un unicorno, oppure il
Solenoglypha polipodida (1985), un serpente con dodici
piedi. Ancora più sottile e ironica è l’opera fotografi-
ca intitolata Sputnik (1997), dove Fontcuberta veste i
panni del colonnello Ivan Istochnikov, pilota imma-
ginario della navicella russa “Soyuz 2”, scomparso
dopo una passeggiata spaziale di routine assieme al
suo compagno canino Kloka. Per dare credibilità alla
storia Fontcuberta prima cancella l’immagine del co-
smonauta da ogni fotografia in circolazione, come
se il regime avesse voluto negare la sua esistenza per
nascondere l’insuccesso della missione, poi, invece,
recupera le immagini personali di Istochnikov, per

8
Z. Bauman, La società sotto assedio [2002], Laterza, Roma-Bari 2006, p.
XXXI.
86 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

dimostrare la verità della storia. Il pilota russo e la


sua avventura spaziale non sono mai esistiti, ma
dopo il cortocircuito creato dall’artista, «ammettia-
molo, siamo frastornati. Se quel che ci sembra vero
può essere falso, vale anche il viceversa? Dobbiamo
anche dubitare delle bugie svelate?».9
Partendo da immagini provenienti da un mondo
originario, anche DavideTranchina propone un ci-
clo di opere (Luci, ombre e bugie, 2011) concepite per
compiere un viaggio alla ricerca di mondi ancestra-
li, dove fotografia e video sono utilizzati come una
sorta di macchina del tempo capace di trasportare
l’uomo dal passato al futuro e dall’infinito all’origine.
Spettri fotografici, silhouette di paesaggi originari e di
animali antichi. Ma anche immagini spaziali, pianeti
misteriosi che si rivelano al nostro sguardo nel mo-
mento in cui sono colpiti dai raggi luminosi. Realtà
che esistono solo nell’attimo in cui appaiono di fron-
te alla magica lente dell’obiettivo. Non importa che
questi mondi siano veramente esistiti, ciò che conta
è la narrazione fantastica che l’artista compie senza
mai uscire dallo spazio fisico del suo studio. Tutto
questo è possibile mediante l’utilizzo di oggetti quo-
tidiani e all’illusione generata dalla proiezione della
loro ombra sulla parete di una stanza. Come nel mito
della caverna di Platone, raccontato all’inizio del set-
timo libro de La Repubblica, le ombre che vediamo
nelle immagini fotografiche di Tranchina sono bugie
credibili, a tal punto che, nonostante l’artista riveli il

9
M. Smargiassi, op. cit., p. 172.
LA FINZIONE COME FUTURA VERITÀ 87

“trucco”, dopo averle viste, saremmo derisi qualora


provassimo a mettere in discussione ciò che abbia-
mo appreso in fotografia. Perché «parte della natura
contraddittoria della fotografia sta nel modo in cui la
foto preserva la sua forza in quanto presunta docu-
mentatrice dello spazio sociale».10
Fra le opere più recenti di Fontcuberta, trovo par-
ticolarmente interessante la serie Orogènesi (2002-
2006), nota anche come Paesaggi senza memoria. In
questo progetto l’artista rende plausibili una serie
di spettacolari paesaggi ottenuti con il software Ter-
ragen, originariamente creato per usi militari, capace
di trasformare in immagini mappe tridimensionali
del terreno. Invece di utilizzare scansioni geogra-
fiche, Fontcuberta utilizza dipinti di William Tur-
ner e Henri Rousseau oppure fotografie di Eugène
Atget e Alfred Stieglitz. Il risultato ottenuto con-
siste in immagini sintetiche che funzionano come
se fossero fotografie, ma che sono prive di quella
“memoria” che normalmente contraddistingue gli
strumenti ottici. Ancora una volta l’artista mette
in discussione i confini della rappresentazione. In
modo analogo anche Diego Zuelli è interessato a
questo tipo di indagine. L’artista lavora esclusiva-
mente in computergrafica, coinvolgendo nelle sue
opere la storia dell’arte, il cinema e la fotografia.
Le infinite possibilità combinatorie offerte dall’im-
magine sintetica diventano un mezzo per indagare
l’esistente, come nel video Tappezzeria (2011) dove

10
G. Clarke, La fotografia [1997], Einaudi, Torino 2009, p. 187.
88 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

l’immagine è realizzata al computer, non è quindi


una fotografia, anche se alcuni particolari fanno va-
cillare le nostre certezze.
A conclusione di quest’ultimo capitolo mi riallac-
cio a quanto detto in quello iniziale sull’archivio,
parlando del lavoro della statunitense Zoe Leo-
nard, in particolare della serie The Fae Richards Pho-
to Archive (1993-96), prodotta in collaborazione
con la regista Cheryl Dunye. Si tratta della docu-
mentazione fotografica della vita dell’afro-ame-
ricana Fae Richards, dall’infanzia al successo nel
mondo del cinema, dal sabotaggio della carriera a
causa del razzismo ai momenti felici con la fami-
glia, fino alla vecchiaia. Una storia avvincente, uno
spaccato del Novecento, peccato che questa attri-
ce non sia mai esistita, la sua vita è stata allestita
da Zoe Leonard in modo realistico per la mac-
china fotografica, scandendo il passare del tempo
con abiti alla moda e scegliendo di volta in volta le
tecniche di stampa fotografica in modo credibile
e aggiornato agli anni della posa. Chiunque veda
queste immagini non può che credere ciecamen-
te all’esistenza di Fae Richards, anche dopo avere
scoperto la “trappola” tesa dall’artista. «Come si
può credere a metà o credere a cose contradditto-
rie? I bambini credono, nello stesso tempo, che sia
Babbo Natale, attraverso il camino, a portare loro
i giocattoli e che questi giocattoli siano stati messi
sotto l’albero dai loro genitori». 11

11
P. Veyne, op. cit., p. 5.
LA FINZIONE COME FUTURA VERITÀ 89

Ma allora i bambini credono veramente a Babbo


Natale?
Certo che ci credono!
Come noi crediamo alle fotografie.
Nota ai testi

Ciascuno dei capitoli di questo libro è stato redatto accor-


pando e rielaborando una serie di saggi, articoli e interviste da
me pubblicati negli ultimi anni. Alcuni sono stati completamente
ristrutturati, altri hanno subito soltanto piccole modifiche o ag-
giornamenti. Le versioni originarie hanno visto la luce sulle pagine
di riviste e cataloghi d’arte che qui di seguito elenco:

1.
Immagini a contatto ‘06, catalogo mostra, RFM, Modena 2006.
L’opera senza autore come anticipazione degli spazi virtuali collettivi, cata-
logo mostra Franco Vaccari fotografie 1955-1975, Baldini Castoldi
Dalai, Milano 2007.
Considerazioni sui media, «Art Key», n. 4, Torino 2008.
Database Logic, «Around Photography International», n. 14, Bolo-
gna 2008-2009.
Rileggere l’immagine. La fotografia come deposito di senso, catalogo mo-
stra, APM, Carpi 2009.
Dall’archivio al database. La logica che governa la fotografia, «Boȋte»,
n. 2, Milano 2010.
L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo, «Op. cit.», n. 140,
Napoli 2011.

2.
Reality Photo Show #1, «Around Photography», n. 6, Bologna 2005.
Reality Photo Show #2, «Around Photography», n. 7, Bologna 2005.
92 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

Ed Templeton, «Around Photography», n. 11, Bologna 2007.


Sophie Calle, «Around Photography International», n. 12, Bologna
2007-2008.
Ryan McGinley, «Around Photography International», n. 13, Bo-
logna 2008.
Di Larry Clark e dei suoi seguaci, «Arskey», n. 2, Torino 2011.
Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano, «Op. cit.», n. 141, Na-
poli 2011.
Nan Goldin. Senza posa, Flash Art n. 307, Milano 2012.”

3.
L’ambiguità della finzione, «Art Key», n. 3, Torino 2008.
Luigi Ghirri e l’arte contemporanea, «Art Key», n. 11, Torino 2009.
Olivo Barbieri. Reali finzioni, «Flash Art» n. 286, Milano 2010.
Davide Tranchina. Luci, ombre e bugie, folder mostra Galleria Betta
Frigieri, Modena 2011.
Antropologia dello sguardo, catalogo rassegna Centrale Fotografia,
Fano 2011.
James Casebere. Scultura per immagini, «Flash Art» n. 295, Milano
2011.
Bibliografia

Mi limito a riportare alcuni riferimenti bibliografici riordinan-


do i testi effettivamente utilizzati nella costruzione del libro, quelli
direttamente citati nei capitoli e altri dei quali ho comunque tenu-
to conto. Per limiti di spazio mancano invece i cataloghi di mostre,
le monografie e le opere a carattere generale che ho consultato
durante la stesura dei tre saggi.

A. Altamira, La vera storia della fotografia concettuale, Area Imaging,


Milano 2007.
M. Augé, Disneyland e altri non luoghi [1997], Bollati Boringhieri,
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R. Barilli, Tra presenza e assenza, Bompiani, Milano 1981.
J. Baudrillard, Il delitto perfetto [1995], Raffaello Cortina, Milano
2006.
Z. Bauman, La società sotto assedio [2002], Laterza, Roma-Bari 2006.
R. Bellour, Fra le immagini [2002], Bruno Mondadori, Milano 2007.
I. Calvino, Vidal e il suo doppio in G. Vidal, Duluth [1983], Fazi
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G. Clarke, La fotografia [1997], Einaudi, Torino 2009.
C. Cotton, La fotografia come arte contemporanea [2004], Einaudi,
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G. Debord, La società dello spettacolo [1967], Baldini&Castoldi,
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94 TRE STRADE PER LA FOTOGRAFIA

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Indice dei nomi

Abell, Sam, 34 Capa, Robert, 73, 74


Altamira, Adriano, 31 Casebere, James, 12, 77, 78,
Alterazioni Video, 40 80, 81
Araki, Nobuyoshi, 61 Ceauşescu, Nicolae, 32
Arnold, Martin, 32 Chironi, Cristian, 11, 36, 37
Atget, Eugène, 35, 67 Clarke, Graham, 87n
Augé, Marc, 74, 76, 76n Clark, Larry, 48, 63, 66, 67, 68
Auster, Paul, 62n Conner, Bruce, 28
Coolidge, Miles, 82, 83
Barbieri, Olivo, 74, 75, 82, 83 Coppola, Francis Ford, 48
Barilli, Renato, 25, 25n Cornell, Joseph, 27
Baruchello, Gianfranco, 28 Cresci, Mario, 30, 31
Baudrillard, Jean, 70, 70n
Bauman, Zygmunt, 85, 85n Daguerre, Louis-Jacques-
Bellour, Raymond, 19, 19n Mandé, 43, 45, 83
Beuys, Joseph, 30 Dean, Tacita, 33
Billingham, Richard, 64, 65 Debord, Guy, 71n
Boberg, Oliver, 79, 80 De Chirico, Giorgio, 10, 25,
Boltanski, Christian, 29 25n, 26
Boss, Hugo, 69 Demand, Thomas, 12, 77, 78,
Braque, George, 24 79, 80
Breton, André, 26 De Palma, Brian, 75
Di Bello, Paola, 11, 35
Calle, Sophie, 61, 62, 62n Douglas, Stan, 32
Calvino, Italo, 45, 45n Duchamp, Marcel, 10, 23, 25,
27, 71, 80, 81 Lucien Ducasse), 26
Dunye, Cheryl, 88 Leonard, Zoe, 88
Levine, Sherrie, 38
Enwezor, Okwui, 32, 32n Levi Strauss, David, 83, 83n
Evans, Walker, 38
Mandiberg, Michael, 38
Farocki, Harun, 32 Manen, Bertien van, 64
Feldmann, Hans-Peter, 33 Manovich, Lev, 10, 22, 22n,
Fiz, Alberto, 41n 23, 24
Fontcuberta, Joan, 85, 87 Mapplethorpe, Robert, 48
Foster, Hal, 32, 32n Marclay, Christian, 28
Freud, Sigmund, 26 Marra, Claudio, 67, 67n
McGinley, Ryan, 64, 66
Ghirri, Luigi, 12, 81, 82, 83, McLuhan, Marshall, 11, 44,
84 44n, 46
Gibson, Mel, 76 Melford, George, 27
Gilbert & George, 62 Menegoi, Simone, 34n
Goldin, Nan, 63, 64, 67, 68 Mol, John de, 45n
Gordon, Douglas, 32 Molinari, Anna, 69
Grifi, Alberto, 28 Monet, Claude, 35
Grimonprez, Johan, 32 Monroe, Marilyn, 28n
Muybridge, Eadweard, 35
Hitchcock, Alfred, 32 Muzzarelli, Federica, 67n

Kennedy, John Fitzgerald, 28 Niépce, Joseph Nicéphore, 83


Kim II Sung, 30 Nonino, Francesco, 11, 37
Korman, Gene, 28n
Kosko, Bart, 46n Orlan, 63
Krauss, Rosalind, 33, 33n Orwell, George, 11, 43, 43n, 44

Lautréamont, Conte di, Panaro, Luca, 10, 11, 21n, 41n,


(pseudonimo di Isidore 73n
Panini, Giuseppe, 36 Teller, Juergen, 67, 68
Panofsky, Ervin, 22, 22n Templeton, Ed, 64, 65
Perrotin, Emmanuel, 62 Tillmans, Wolfgang, 64, 67
Pfeiffer, Paul, 32 Toscani, Oliviero, 34, 35
Picasso, Pablo, 10, 23, 24 Tranchina, Davide, 12, 86
Platone, 86 Turner, William, 87
Prince, Richard, 34
Ujica, Andrei, 32
Raad, Walid, 33
Richter, Gerhard, 29 Vaccari, Franco, 10, 21, 21n,
Richardson, Terry, 67, 68, 69, 30, 39
69n Vattimo, Gianni, 44n
Romano, Giulio, 36 Ventura, Paolo, 81
Rossi, Sara, 11, 36 Veyne, Paul, 76n, 88n
Rousseau, Henri, 87 Vidal, Gore, 45, 45n
Ruff, Thomas, 38 Vona, Naomi, 40

Saviano, Roberto, 75, 75n Warhol, Andy, 27, 28n, 44


Schiavone, Francesco, 75 Weir, Peter, 45
Schiavone, Walter, 75
Schmid, Joachim, 33, 34 Zuelli, Diego, 87
Scorsese, Martin, 48 Zwakman, Edwin, 79, 80
Smargiassi, Michele, 74n, 86n
Sontag, Susan, 74, 74n
Sorlin, Pierre, 38, 39n
Spranzi, Alessandra, 11, 15, 35
Stieglitz, Alfred, 87
Storr, Robert, 78
Sugimoto, Hiroshi, 84

Talbot, William Henry Fox,


43, 45
Nella stessa collana

Luca Panaro
L’occultamento dell’autore. La ricerca artistica di Franco Vaccari
Olivo Barbieri
site specific_NEW YORK CITY 07
Gianfranco Baruchello, Anna Valeria Borsari,
Emilio Fantin, Franco Vaccari, Marco Vaglieri
Nel segno di Giotto. Cinque percorsi artistici
Miroslava Hajek, Luca Panaro (a cura di)
Fantasia esatta. I colori della luce di Bruno Munari
Luca Panaro (a cura di)
Rileggere l’immagine. La fotografia come deposito di senso
Gilberto Caleffi, Claudia D’Alonzo
Marco Mancuso, Lev Manovich
Direct Digital. Il canto del corpo elettronico
Antonio Riello
Community Face
Olivo Barbieri
selected works 1978-2010
Fabio Bonetti
22 Trionfi
Mario Cresci
Dentro le cose
Franco Vaccari
In palmo di mano
Finito di stampare
nel mese di settembre 2013
da Nuovagrafica, Carpi (MO)

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