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Anche Hollywood comincia a realizzare i primi film tratti da opere letterarie, I Dieci
Comandamenti (1923) di DeMille.
Il cinema narrativo, in pochi anni, definisce la nuova frontiera del racconto cinematografico in una
più vasta prospettiva sociale e culturale del narrato, spesso curato nei tratti psico-antropologici in
grado di riflettere le competenze diegetiche e mimetiche del mezzo stesso ed è per questo che si
afferma come “moderno medium della comunicazione culturale”.
Il film infatti smette di essere semplice riproduzione di immagini in movimento per diventare
narrazione di fatti, azioni, pensieri e ideologie.
Compreso questo aspetto, i film cominciano a riflettere la realtà dei tempi e il conseguente pensiero
ideologico-filosofico-politico: basti solo pensare alla modernità di Charlie Chaplin sin dai suoi
primi film fino ad arrivare a Tempi Moderni (Modern Times) (1936).
D’altro canto, cresce l’attenzione verso l’estetica filmica. Nascono così due macro-modi di fare
film:
1. Il cinema americano fondato sulla struttura narrativa;
2. Il cinema europeo fondato sull’estetica filmica e la fotogenia.
Sul finire dei primi anni Dieci, in Europa, partendo dai diversi modi in cui si può raccontare,
Riciotto Canudo scrive il Manifeste de la Septiéme Art (1911) con il quale definisce il cinema
come la settima arte, mentre Delluc individua nella fotogenia l’espressione tipica delle immagini
filmiche, una maggiorazione estetica che distanzia l’immagine filmica da quella reale e definendo i
potenziali espressivi di un cinema puro, atto a riprodurre soggetti che una volta impressi sulla
pellicola hanno una nuova vita cinematografica.
La fotogenia è una qualità del visivo che oltrepassa la forma e i contenuti delle immagini,
mostrandone gli aspetti più intimi e nascosti. Queste impressioni arrivano da un uso non
naturalistico e non narrativo delle immagini, ma riguardano la luce impressa sulla pellicola.
Per ottenere gli effetti visivi e i contrasti ritmati di immagini e contenuti diventa centrale l’uso del
montaggio e di tecniche innovative rivolte a scopi sperimentali.
Gli americani danno forza alla narrazione, ricercano i generi narrativi nell’arte filmica; l’Europa
invece riflette sul concetto di fotogenia, un’arte che ruba dalla letteratura ma non lo è, prende da
diversi altri generi, ma è tutt’altro. In questo senso, l’Europa è moderna rispetto all’America; una
modernità sia nella scrittura che nella sceneggiatura.
Fotogenia è il modo in cui è costruita un’immagine e che crea una certa estetica. Sia con Chaplin
che con la Corazzata si tratta di film politici, ma con contenuti diversi.
La stessa cosa vale per la comicità. Per Bergson, infatti, ci sono due tipi di “riso”:
Il primo, secondo cui, per creare l’arte comica ci deve essere distacco tra realtà e narrazione,
ma allo stesso tempo dev’esserci anche drammaticità.
Il secondo è il riso vero e proprio: “banana a terra e si cade”.
Due esempi di fotogenia sono i film di Delluc: Febbre (1921) e La donna di nessun posto (1922).
A seguito di Méliès e Lumière, sulla scia delle nuove teorie delle immagini filmiche come forma
d’arte, si sviluppano le Avanguardie (1914-15) in modo speculare ai fenomeni letterari. Sono nuovi
stili e modi di racconto che rispecchiano le società e le ideologie che le hanno prodotte. Queste
Avanguardie si fondano sulla capacità della psiche di rappresentare sia ciò che appartiene all’autore
(simboli mentali e culturali), sia simboli riferiti agli uomini e al sociale in generale, mostrando
aspetti inconsci che, prima di allora, non erano mai apparsi in primo piano in un film. L’idea di
fondo, dunque, è di far sì che il cinema esprima il pensiero, il simbolico e l’onirico, dell’autore di
un film. Il fine di questa nuova concezione del “fare film” è rappresentare la crisi dell’uomo
moderno a causa dei cambiamenti, del progresso, dell’industrializzazione, e allo stesso tempo,
mettere in risalto – con accezione negativa – la mercificazione culturale frutto dell’avvento delle
macchine.
Il cinema crea l’immaginario collettivo del Novecento ed è per questo che le avanguardie si
applicano anche a esso.
Abbiamo vari movimenti:
Futurismo italiano
La prima avanguardia cinematografica, dal settembre 1916. I film futuristi ebbero una produzione
molto limitata. I più famosi furono “Vita futurista” (1916) di Arnoldo Ginna e “Thaïs” (1917) di
Anton Giulio Bragaglia.
Impressionismo francese
Si fonda sulla fotogenia teorizzata da Delluc: il visivo che evoca emozioni transitorie, proprio come
accadeva nei quadri, il cui scopo era di creare delle IMPRESSIONI del reale e non il reale in sé. Gli
autori avevano, infatti, il compito di far vedere l’esperienza del mondo e della vita dell’uomo da un
punto di vista soggettivo, come nel film “Feu Mathias Pascal” (1925) di L’Herbier: un viaggio
nella mente e nella percezione del mondo dello stesso protagonista, che si allontana dal personaggio
pirandelliano per arrivare a una nuova identità impressionista che rompe con la continuità narrativa
per mettere in evidenza aspetti visivi. Nel film prevalgono gli aspetti scenografici e paesaggistici,
cosicché il film risulta curato in ogni dettaglio.
Espressionismo tedesco
Si basa sui principi derivanti dall’analisi filosofica e socio-economica del tempo. Si prediligeva una
rappresentazione simbolica di tutte le trasformazioni a cavallo tra le due guerre. La
rappresentazione filmica rompe con il passato: lo stile è gotico, oppressivo, esprime angoscia e
spaesamento in un mondo governato da “gente mostruosa”, riproducendo la società del tempo in
preda a quella psicologia che porterà, poi, all’avvento del Nazismo. L’opera divenuta simbolo di
questo movimento è:
Il gabinetto del dottor Caligari (1919)
di Robert Weine
https://www.youtube.com/watch?v=Jg5p8hhxJ6I
Attraverso il cinema si esprime ciò che di malvagio succede dietro le quinte della politica che
porterà al Nazismo. A partire dall’essenza narrativa puramente introspettiva, il film evidenzia una
serie di aspetti metaforici del narrato che definiscono un immaginario sociale malsano e deformato,
un mondo che porta alla disfatta dell’uomo.
Il trucco è marcato, gli occhi cerchiati, è una comunicazione simbolica che fa capire che si deve
utilizzare un punto di vista simbolico e non oggettivo e immediato nell’analisi delle cose.
L’ambiente non è accogliente, le immagini sono antinaturalistiche e nessuno vuole sentirsi partecipe
del film. Sembra che si sia finiti in una caverna. Tutto quello che riguarda la narrazione diventa
maschera di qualcosa che sembra essere sopravvissuto alla morte: i personaggi sembrano fantasmi,
le case, gli spazi e il paesaggio stesso sono presagio di dissoluzione e morte e, data l’ambientazione
gotica, la città sembra più un teatro, perché la cosa importante è l’arrivo di Caligari. L’avvento del
male è il fantoccio, che sembra leggere il futuro, ma alla fine si scopre che è un assassino. C’è un
mago, cioè un uomo di cultura che non crede a niente e, per questo, va a vedere lo spettacolo del
fantoccio, con lo scopo di smentirlo, ma poi gli viene detto qualcosa all’orecchio ed è lui stesso a
cambiare. L’immagine è angosciante. La scenografia è finta, tutta sbieca e irrealistica, proprio per
giustificare l’ipotesi freudiana di una visione simbolica del mondo.
C’è un collegamento con Freud perché il cinema è la macchina dei sogni e Freud ci dice cosa sono i
sogni. Pittorialismo all’interno dell’arte filmica: le case nel film sono impilate sullo sfondo. La
politica è tutta una farsa, per questo è rappresentata con il circo, ma a lungo andare, questa finzione
finirà per uccidere tutti.
Tutto il primo atto presenta il contesto.
Il secondo atto coincide con l’inizio degli omicidi.
È un teatro di posa e non ci sentiamo in una sola stanza. Le didascalie non sono scritte in modo
normale, ma sembrano opere d’arte. La scena si apre laterale e poi l’ottica si allarga. La macchina è
fissa come in Méliès, mentre il fantoccio disegnato sembra Munch.
Scena dell’uscita del fantoccio: prima di vedere il fantoccio, si crea la suspense e, dopo, il dottore
invita il pubblico a fare domande al fantoccio.
Formalismo russo
Nasce come diretta conseguenza della Rivoluzione d’ottobre, dato che il governo dei Soviet trova
nell’industria cinematografica il terreno più fertile per la comunicazione politico-culturale. Queste
opere filmiche esprimono la dinamicità, la modernità e la trasformazione dei tempi, e hanno la
finalità di stimolare e creare una coscienza più autonoma del popolo sovietico. Per ottenere questo
risultato, la nuova forma cinematografica prende spunto dalle teorie costruttiviste, per cui questo
nuovo cinema deve svelare il reale attraverso il linguaggio cinematografico, grazie ai potenziali
espressivi dati dall’uso costruttivista del montaggio.
I principali autori, del cosiddetto Formalismo cinematografico, sono: Ejzenštejn, Kulesov,
Pudovkin, Vertov e tutti quanti hanno creato una rappresentazione critica della loro società, dando
ampio spazio al disagio delle classi povere. Tali condizioni sono state evocate grazie
all’assemblaggio di immagini con forte carica simbolica, che avevano l’intento di stimolare il
pensiero critico e autoriflessivo del popolo sovietico. Questo è ciò che viene definito come
“montaggio intellettuale”.
Questa teoria parte da teatro e letteratura. I film dei formalisti russi si caratterizzano per avere una
sceneggiatura di ferro (ideata da Pudovkin), ovvero una sceneggiatura dove niente può essere
cambiato, tutto è talmente dettagliato che dev’essere girato così com’è stato scritto.
Secondo il montaggio intellettuale, il cinema ha molto più potenziale rispetto alla parola scritta
perché se scrivo la parola “casa” so in generale di cosa si sta parlando, ma solo con l’immagine
filmica si riescono a vedere anche i dettagli.
A differenza della letteratura, il cinema è collettivo, per questo Kubrick seguiva i doppiaggi.
Nel montaggio intellettuale, la sceneggiatura non è lineare. Per esempio: si prendono gli scenari di
New York, Parigi, Hong Kong e si fa passare qualcuno davanti. Questa scena ha il compito di far
riflettere lo spettatore. Ejzenštejn, infatti, dice che l’unione di un’immagine A e di una B non deve
dare un’immagine C, ma stimolare l’intelletto per creare un’immagine a cui lo spettatore non aveva
ancora pensato.
Uno dei film più importanti di questo movimento è “La Corazzata Potëmkin” del 1925.
il ritmo di montaggio è molto veloce.
Essendo un film formalista, rappresenta la politica del tempo.
Si parte con una nave da guerra, dove le inquadrature vanno dall’alto verso il basso per far vedere i
marinai schiacciati, metafora del governo che opprime il suo stesso popolo, ma dopo aver
inquadrato il cibo marcio e le pessime condizioni dei marinai, questi ultimi si ribellano e scoppia
una sommossa a cui se ne associa un’altra, questa volta civile, per il malcontento.
Le inquadrature sono specialistiche con primi piani stretti.
La Corazzata è un’immagine simbolica, è metafora dell’abuso di potere. Mentre a Odessa, i pochi
ricchi che ci sono, hanno molto potere, il popolo, la massa, è povero.
Gli attori vengono presi dalla strada per un motivo ben preciso: per riuscire a interpretare al meglio
la loro parte devono aver vissuto le stesse disgrazie, emozioni. Tipash: uomo vero.
I soldati non sono altro che l’espressione del volere e del potere di chi governa e per questo motivo
sparano sulla folla, uccidendo donne, bambini e tutti gli altri civili impotenti. La visione di queste
immagini crude porta, infatti, lo spettatore a quello che Ejzenštejn chiama “shock”.
Dai primissimi piani si passa a piani larghissimi per far capire allo spettatore dove ci si trova e cosa
sta succedendo.
All’arrivo della corazzata sono tutti in fermento, anche se la guerra civile è alle porte.
Ha inizio il primo massacro civile della storia del cinema. Dall’alto della scalinata di Odessa si
vedono i corazzieri e, con loro, arriva anche la paura. Tutti cominciano a correre, si torna
all’inquadratura dall’alto.
I civili, però, non sanno che i soldati arrivano sulla scalinata per la sommossa della corazzata. Qui,
l’intera colpa è dei militari che sparano sulla folla disarmata e il messaggio che si vuole far arrivare
al popolo stesso è quello del sopruso del potere da parte dei militari e quindi del governo.
C’è una donna che va verso i militari per parlare e farsi ascoltare, ma ovviamente non glielo
permettono e le sparano. Un’altra donna viene colpita al ventre, lì dove nasce la vita, e come
conseguenza spinge la carrozzina con dentro suo figlio. Così facendo, lo Stato uccide il suo stesso
futuro. In un altro punto della scalinata una donna anziana viene colpita in un occhio mentre un
uomo ne attacca un altro, ma noi non sappiamo (e non dobbiamo sapere) se si tratta di un tipash o
del governo.
Questa tipologia di film viene definita “cinemazione” cioè il cinema caratterizzato da azione e
reazione, ma anche cinepugno, per la carica simbolica e l’impatto che ha sul pubblico.
Con tutte queste innovazioni, il cinema ricerca una nuova frontiera della narrazione, rivolta anche a
potenziare l’espressività dei contenuti che si distanziano dalla classica dialettica
naturalismo/antinaturalismo tipica del cinema delle attrazioni per avvicinarsi a una rappresentazione
che vada a riprodurre forme di pensiero, alcune simboliche e altre completamente astratte. Così si
va a metaforizzare un tipo di espressione che risulta essere provocatoria e che usa un linguaggio
proprio, indipendente dalle arti a cui si ispira.
Tra queste correnti troviamo Dadaismo, Surrealismo e Cubismo che si basano sulla pura
espressione soggettiva con un linguaggio visivo che porta ad una comunicazione “visionaria”,
scollegata dalla realtà oggettiva. In questa nuova concezione del film, non c’è più il film inteso
come racconto di storie, ma è solo un’unione di contrappunti visivi ispirati all’arte figurativa.
Dadaismo
Segue il principio secondo cui “dada” va contro l’arte se intesa come unione di regole formali. Per
loro l’arte non è prestabilita, ma è espressione creativa di qualcosa di astratto.
Il primo film dadaista è “Entr’acte” del 1924 di René Clair, al quale collabora anche Picabia: il
film presenta una serie di immagini scomposte e lo stesso Picabia insieme a Duchamp e Man Ray
appaiono come attori. In queste scene, il nonsense visivo e narrativo viene presentato come una
serie di trucchi visivi e le immagini si susseguono come in un balletto.
Surrealismo
Si fonda sulla dimensione onirica da cui si generano immagini simboliche che devono essere
interpretate come indipendenti una dall’altra e che portano sulla scena gli aspetti dell’inconscio.
Le opere più conosciute sono “Un chien andalou” del 1929 e “L’âge d’or” del 1930, entrambe di
Buñuel.
Cubismo
Trova la sua migliore espressione nel “Ballet mécanique” di Léger del 1924. In questo film, quello
che viene inquadrato risulta essere una serie di frammenti di corpi, oggetti che poi vengono
composti o ricomposti per dar vita a nuove forme geometriche, come se fosse un quadro cubista e,
quindi, inserendo varie tecniche di rappresentazione filmica: sovrimpressioni, tagli di montaggio,
contrasti figurati e immagini animate che danno vita all’oggetto riprodotto. L’intento è di mostrare
la plasticità e dinamicità delle immagini attraverso il complesso principio del montaggio “a
contrappunto visivo”.
Tutti i film di questi movimenti si distinguono per innovazioni estetico-figurative, riguardanti una
nuova costruzione del visivo.
Film come “La corazzata Potëmkin” o “Il carretto fantasma” esprimono la loro essenza già
dall’elaborazione formale del profilmico (profilmico= prima del film, ciò che non è ancora film).
Ciò accade, specialmente, in “La passione di Giovanna d’Arco” del danese Dreyer del 1928. Si
tratta di un film muto su un soggetto in cui la parola sarebbe non necessaria, ma indispensabile,
visto che l’argomento centrale è il processo a cui viene sottoposta Giovanna. È un processo che,
dunque, si basa sulla carta scritta e come per la Passione di Cristo, anche qui vengono fatti vedere
gli ultimi attimi di agonia della protagonista.
Per quanto riguarda l’inquadratura, si predilige
1. l’inquadratura dal basso verso l’alto per i magistrati e tutti quelli che fanno parte del
processo;
2. l’inquadratura dall’alto verso il basso per Giovanna, schiacciata dal potere dei giudici.
Si tratta, per lo più, di primi piani perché fanno capire allo spettatore l’anima del personaggio e
della storia stessa (bah -.-).
Con questo film nasce l’angolo di Dreyer – perché è stato l’unico a saper fare un film muto su un
argomento del genere – che si caratterizza per una leggera disinquadratura, cioè il personaggio non
è al centro dell’inquadratura, ma messo un po’ a lato. È un modo diverso di narrare usando i primi
piani. La novità è, quindi, l’uso di questa prospettiva mai vista prima e che si distanza dalle
immagini equilibrate che lo spettatore era abituato a vedere.
Il modo di fare film delle Avanguardie si allontana da quello di Hollywood proprio perché vuole
stimolare lo spettatore, incitarlo a pensare e riflettere, per questo è un modo di fare cinema che
viene definito “intellettuale”.
Alla fine degli anni Venti nasce il cinema sonoro unito a una nuova concezione del narrato che
verte sull’essenza audiovisiva. Molti tra attori e registi sono contrari all’introduzione del sonoro – lo
stesso Chaplin, per esempio, che lo reputava innecessario – ma la novità è che il sonoro cambia il
modo di rappresentare degli attori, che devono passare dall’esprimere emozioni e sentimenti con i
gesti al doverli ridimensionare in favore dell’utilizzo delle parole, cioè si dà più importanza alle
parole e meno alla gestualità.
Con il sonoro si abbandona l’innaturalistico, e tipicamente teatrale, modo di recitare e ci si avvicina
al naturalismo tipico della “parola parlata”.
Ejzenštejn sostiene, invece, che il sonoro ha una sua utilità se NON usato didascalicamente, ovvero
la parola deve dare un significato in più, non deve essere retorica: quando lo sommo all’immagine
filmica non si deve dire ciò ch’è già chiaro, ma dev’essere quel surplus che il cinema con le
immagini e basta non sa dare. Nasce così il montaggio verticale (ancora intellettuale, ma anche
verticale).
Il sonoro tramuta il cinema in quello che conosciamo noi oggi e, infatti, senza il sonoro non si
potrebbe avere una percezione reale dei fatti.
Il corpo del doppiatore incide non solo sul film, ma anche sulla nostra percezione di esso. Noi non
lo vediamo, ma incide: timbro, corde, fisicità…
(Se devo fare i sottotitoli di Fellini vado prima a guardare chi è, la sua drammaturgia, cerco di
capire lui e la sua opera.)
Due sono i fattori importanti in questo periodo.
1. Ejzenštejn e Avanguardia europea: montaggio al centro dell’arte filmica. Tra i formalisti
russi c’era chi diceva che il montaggio fosse epico, da epos = narrazione. Tutto il mondo
guarda queste opere e impara. Questo tipo di montaggio non va bene per Ejzenštejn.
Per i formalisti, l’atto narrativo è l’unione di più narrazioni in una sola. Tenendo in
considerazione questo principio, ben si comprende il cosiddetto effetto Kulesov
(https://www.youtube.com/watch?v=so042Lk-i90 ): si chiede a un uomo di stare davanti
alla telecamera e in fase di montaggio vengono aggiunte altre immagini, che poi vengono
proiettate senza dire che si tratta di un esperimento, ma, nonostante ciò, tutti vedono la forza
espressiva dell’attore. Lo spettatore riesce a leggere un significato emotivo nonostante il
volto sia inespressivo, perché è tutto frutto del cervello di chi guarda le immagini. Ciò non
vuol dire che sia falso, ma se si vedono in sequenza un volto e poi, subito dopo, una
bambina morta, la mente di chi guarda è portata a pensare che sul volto (inespressivo)
dell’attore ci sia un’espressione di dolore.
Nasce il montaggio intellettuale perché deve fare ciò che la parola non può dire.
2. Nel frattempo l’America fa il cinema classico. In tutta Europa ognuno fà la storia del suo
cinema, siamo alle porte dell’avvento del Nazismo. Nasce il “divismo” (PAG 21)
Negli anni Trenta, in Francia, nasce una nuova corrente che si ispira ai moderni metodi di
narrazione, ma si distanzia dalle Avanguardie: il realismo poetico, che punta a raccontare di
situazioni e personaggi reali, nella loro difficile quotidianità. Sono personaggi che arrivano dai
bassifondi e che si trovano a vivere una vita drammatica che privilegia solo chi è ricco.
Vari sono i testimoni di questa corrente, come per esempio, Jean Renoir e la sua “Règle du jeu” del
1939, con il quale si dà il via a importanti sviluppi sia estetici che narrativi nell’uso delle tecniche
cinematografiche. Il risultato è che il film verrà definito come appartenente al “fronte popolare
socialista”, poiché condannava l’aristocrazia e vedeva nelle classi politiche al potere la principale
causa di difficoltà delle classi basse.
Questo film può essere considerato come la prima opera cinematografica moderna, un film in cui
il linguaggio serviva anche a diffondere e divulgare le ideologie, un film basato sulla continuità
narrativa, sia temporale che spaziale.
Renoir ci presenta la condotta immorale della borghesia francese e la presenta in tutti i suoi aspetti
più cupi e viziosi, a partire dagli ambienti in cui vivono. È un racconto che vuole smascherare
l’irresponsabilità dei borghesi, i loro comportamenti lascivi e costumi malsani, tutti simbolo del
pensiero socio-politico del tempo. È proprio per questo motivo che viene censurato, perché svela la
verità.
Nella scena della rappresentazione teatrale, all’interno di uno dei palazzi borghesi della città, la
macchina da presa si muove e tutto appare a fuoco, anche ciò che appare sullo sfondo cosicché lo
spettatore riesca a cogliere ogni dettaglio e particolare del palazzo.
Grazie ai progressi fatti, la macchina da presa riesce a muoversi con più destrezza e fluidità,
seguendo i movimenti degli attori da punti di vista più intimi. Con questi movimenti innovativi, si
riesce a mettere in scena la crisi identitaria dell’uomo contemporaneo.
Di contro, l’America potenzia la filiera industriale (UNGHIE SULLA LAVAGNA) con un nuovo
modo di narrare storie. Mentre gli europei caratterizzano le loro opere come strumento di lotta al
sistema, l’America vuol mostrare e far credere che ci sia una sorta di identità nazionale, che in
realtà non esiste. Secondo gli americani, infatti, il cinema è narrazione e lo spettatore riesce a capire
quello che succede già identificando l’opera come appartenente ad un genere specifico. Hollywood
fonda il suo successo sull’avvento dei generi.
A seguito del 1929 con il crollo di Wall Street e l’inizio della Grande Depressione, gli anni Venti si
chiudono con una crisi che colpisce il modo di vivere e l’idea di progresso che c’era stata fino a
quel momento. Si dovrà aspettare il 1933 con Roosevelt e la sua politica del New Deal per avere
una ripresa e, per farlo, si serve anche del cinema. Il cinema viene visto come un mezzo di recupero
emotivo del popolo e come mezzo di ripresa e ricrescita dell’America stessa, col fine di creare una
nuova identità culturale.
L’idea di Roosevelt era di utilizzare la distribuzione (TETTINE ACIDE) cinematografica per
mostrare la ripresa e promuovere il “grande sogno americano” che mirava a far divulgare sentimenti
di speranza nel futuro della Nazione. La ripresa comincia con uno sviluppo estetico e narrativo
prodotto dall’avvento dello studio system, basato sulla forza delle grandi major e sullo star system,
il divismo hollywoodiano. Da questo momento i divi diventano il fulcro della produzione, della
storia narrata. Tutto ruota intorno alla star e al ruolo che egli incarna. Nasce un collegamento forte
tra moda e cinema, perché le donne vogliono vestirsi come le dive e, infatti, in molti negozi
vengono vendute delle copie di abiti che si vedono al cinema e ci si comincia a vestire in modo
standardizzato. Questo ci fa capire che il cinema crea un complesso linguaggio culturale
audiovisivo che parla alle masse a livello internazionale.
Lo studio system e lo star system si fondono, dunque, in quelle strutture narrative in cui si possono
riconoscere non solo gli americani, ma tutto il resto del mondo. Da queste aspettative nasce il
grande successo del mercato cinematografico americano.
Si passa, così, dalla Grande Depressione all’ “epoca d’oro” del cinema americano.
Il cinema, sempre più visto come specchio del sociale, comincia ad avvicinarsi a situazioni in cui
l’americano medio può riconoscersi, quindi problemi di vita quotidiana, in una visione meno
favolistica rispetto a prima, ma che comunque finisce con un happy ending, in cui gli spettatori
amano immedesimarsi da sempre.
Gli americani guardano anche al Formalismo russo, ma aggiungono dei cambiamenti nei personaggi
perché se non succede niente, la storia non regge, alla fine. Cambia la riproduzione del mondo
americano soprattutto con la commedia, che narra i personaggi da un punto di vista anche
psicologico, difatti i personaggi diventano meno egocentrici e più riflessivi. Ma i nuovi divi
diventano anche il simbolo della bellezza e della perfezione e cominciano ad interpretare ruoli meno
romantici e più realistici, come per esempio quello della femme fatale da cui il divismo stesso
prende vita.
Il cinema hollywoodiano si basa, da un lato, sullo star system e studio system e dall’altra nella
divisione dei film in generi narrativi. Tra questi troviamo:
Commedia, che permette di riflettere sul mondo e sui costumi sociali sorridendo alla vita e
guardando con ironia a sentimenti e debolezze umane. Si afferma da subito come il genere
di maggior successo. Dipinge la società americana nella sua quotidianità, alle prese con la
difficile missione di costruire e mantenere intatta la sacra unione familiare.
Western, si rifà alla storia passata, mitizzandone la storia e l’immaginario dal punto di vista
antropologico. Il western è metafora di un mondo politico ben determinato.
Gangster-movie riflette il presente. Diventa lo specchio cinematografico dell’ascesa illegale
al potere di povera gente associata a gruppi malavitosi. Film rappresentativi sono:
“Underworld” di Sternberg del 1927, “Little Caesar” del 1931 di LeRoy o “Scarface” del
1931 di Hawks.
Musical che è direttamente collegato con l’avvento del sonoro, le cui storie rappresentano
un mondo da sogno in cui i personaggi sono delle star dello spettacolo.
Nonostante Hollywood basi il suo successo su questa serie di elementi, alcuni registi continuano a
fare film seguendo ideologie, narrative ed estetiche lontano dagli schemi hollywoodiani, ma più
vicine a quello che potremmo definire cinema d’autore.
In questa schiera troviamo Orson Welles e il suo “Quarto potere”, un film al confine tra il cinema
classico americano e la modernità.
“Rosebud” (Rosabella in italiano) è l’ultima parola che Kane dice prima di morire. Nessuno sa cosa
voglia significare quella parola e, proprio per questo, la cronaca locale prepara un servizio
cinematografico, cioè il cinegiornale che si vede nelle scene iniziali, con il quale ci svela tutta la sua
vita e anche le cose che non potevano essere dette mentre era in vita, tramite documenti, ricordi e
racconti. [parola più famosa del cinema.] Un giornalista viene incaricato di indagare su questa
famosa parola, ma senza alcun risultato. È solo alla fine del film che, nel momento in cui vengono
bruciati alcuni oggetti appartenenti a Kane, si inquadra uno slittino con su scritto “Rosebud”.
Se il film seguisse la struttura classica e lineare dei film hollywoodiani, potrebbe finire qui, ma non
è così, perché è un tentativo di stravolgere i generi: non è solo un film sulla stampa, ma la usa come
strumento di narrazione del film stesso.
Dal cartello iniziale si cambia scena e Xanadu è il simbolo degli studi cinematografici americani.
Dopo la scritta “the end” si apre la scena in cui ci sono due fasci di luce e una zona d’ombra: è un
cinema. Perché il cinema è immagine. Non lo si può immaginare più bello, è così come è: i giochi
di luci e ombre corrispondono all’ambiguità di Kane. E, all’interno del cinema, in quel gioco di luci
e ombre, ci fanno vedere come si crea la storia reale della vita di qualcuno. I personaggi non hanno
volti, sono solo sagome. I giornali non riportano la realtà vera, ma solo quella che vogliono far
sapere per creare l’opinione pubblica.
Da espressionismo a surrealismo (bolla con la neve) a noir (scena delle sagome).
Nella scena in cui si vede Susan Alexander Kane, la macchina da presa entra nell’abitazione dal
tetto, la presenta dall’alto. La diva di Hollywood è vista nella sua debolezza, è una critica al sistema
cinematografico. Lei è alcolizzata, ma Hollywood non lo fa vedere per mantenere intatto
quell’ideale di perfezione che si creava nell’immaginario comune, americano e non solo.
In questa scena, in primo piano abbiamo un personaggio in ombra, ma ci sono altri piani narrativi
ben visibili:
in terzo piano lei che beve;
in secondo piano l’uomo davanti alla porta (inquadratura nell’inquadratura grazie alla forma
della porta).
Secondo e primo piano si intrecciano e parlano di nuovo tra loro.
Il giornalista va alla ricerca dei segreti di Kane per far luce su cosa sia Rosabella.
SCENA DELL’INFANZIA Dalla lettera passa al flashback. Primo piano sequenza senza stacco
tra l’esterno e l’interno.
Si parte dal teatro di posa, si vede che è finto nonostante a Hollywood non doveva farsi vedere la
finzione, ma a Welles non interessa se si capisce, anzi vuole che sia così. I personaggi sono
volontariamente messi di quinta per far vedere cosa accade fuori dalla finestra e la voce del
bambino non è ovattata, come in realtà dovrebbe essere, perché il piano narrativo del bambino è più
importante di quello che succede in primo piano.
Rosabella indica la rottura di un’esistenza emotivamente sana; mentre la madre è inespressiva,
sembra una vedova vestita a lutto. Il futuro del figlio è scuro così come lo è lei. Da un’inquadratura
dal basso a destra si vede la mancanza di espressività della madre, che prevarica su tutti gli altri. È
chiaro che sta male, ma capisce razionalmente qual è il meglio per il figlio.
I primi piani della scena all’aperto molto espressivi.
Dobbiamo ricordare quello che viene detto nel cinegiornale perché sono tutti indizi per capire come
nasce il personaggio di Kane.
È lo stesso Orson Welles a vestire i panni di Kane, la cui storia si ispira a quella del magnate di
stampa e radio, Randolph Hearst.
L’opera attesta il suo successo per due motivi stilistico-narrativi:
1. L’utilizzo del panfocus, o grandangolo, cioè la profondità di campo, tutta la scena è a fuoco:
il primo piano, a metà, lo sfondo perché tutti i livelli sono importanti e pieni di dettagli.
Welles ha, quindi, la possibilità di contenere la drammaturgia dei fatti in una sola
inquadratura, costruendo assi narrativi che assumono valore proprio grazie alla capacità di
riprodurre lo spazio in profondità e mettendo in luce i personaggi che si muovono su
differenti piani dell’inquadratura.
2. L’utilizzo dei flashback, il cinegiornale e tutto il montaggio che consente a Welles di creare
una trama narrativa che si allontana dalla linearità del cinema classico e che tramite salti
indietro e avanti, partendo dal cinegiornale e poi seguendo l’ordine dell’indagine
cronachistica. Questi strumenti servono allo spettatore per capire cosa sia Rosebud. Solo alla
fine si capisce che Rosebud è il simbolo dell’infanzia rubata. Kane conduce una vita di
successo, solo apparentemente, in realtà vive da solo e muore da solo, da solo con la sua
bolla di neve che contiene la casa di infanzia, ossia un ritorno a Rosebud. La storia insegna
che sarebbe stato meglio vivere con un padre amorevole che esser cresciuto e istruito da una
banca, perché lui non sa amare.
Grazie al panfocus, la narrazione filmica risulta più fluida e naturale, spingendo verso una sorta di
realismo. Welles sperimenta un cinema con competenze “multi-prospettiche”, includendo anche
quegli aspetti tipici del “senso” del narrato, elementi della trama che vengono comunicati allo
spettatore dal punto di vista del regista stesso.
Nello stesso periodo, Hollywood realizza i primi grandi colossal a colori, grazie al technicolor.
Infatti, la possibilità di proporre immagini più fedeli al mondo reale spinge sempre più al verismo,
anche nel caso di film in costume, come in “Gone with the wind” di Victor Fleming del 1939, che
diviene l’emblema storico del film a colori.
Nel 1937 viene realizzato il primo lungometraggio animato della storia completamente a colori: si
tratta di “Biancaneve e i sette nani” diretto da Hand e prodotto da Walt Disney. Il film è tratto
dall’omonima favola dei fratelli Grimm, ma rappresenta un’opera spartiacque nella storia dei film
animati perché fino a quel momento le immagini venivano colorate a mano frame by frame.
Per il film dal vero, invece, i primi film a colori sono “Via col vento” e “Il mago di Oz” entrambi
di Fleming e entrambi del 1939.
Tra gli anni Trenta e Quaranta la percezione dell’immagine cinematografica diventa sempre più
limpida, nitida e vicina all’immagine reale degli uomini, dei tempi. Una narrazione che preannuncia
i principi cardini del Neorealismo e della Nuovelle Vague.
Dagli Trenta, e fino a tutti gli anni Cinquanta, il cinema hollywoodiano vive il suo periodo d’oro,
promuovendo lo stile dell’american way of life che riflette i valori della famiglia e della Nazione.
Nello stesso periodo, in Europa si affermano le cinematografie di regime, nazista in Germania e
fascista in Italia: un tipo di narrazione completamente pilotata dai principi politici totalitari con il
fine, così come era successo in America con il New Deal, di dare agli altri l’impressione di una
Nazione forte, fondata da uomini di potere, uomini “puri” (nel caso della Germania). Dal cinema
classico, dunque, Mussolini prende l’idea di divulgare un immaginario dell’Italia diverso da quello
che in realtà era, promuovendo l’immagine del perfetto fascista sin da bambino.
Queste cinematografie di regime vengono scardinate, nel periodo finale della Seconda Guerra
Mondiale, da un nuovo ritorno al realismo cinematografico, che porta novità anche nell’uso del
linguaggio.
Il Neorealismo dà vita a una nuova idea di “cinema moderno” e si caratterizza per la cruda realtà
delle storie rappresentate e per la ripresa in ambienti dal vero. Come conseguenza della distruzione
del Paese e della mancanza di soldi, i registi devo ingegnarsi per risparmiare sulle spese che
richiede un film e, anche per questo, si rivolgono ad attori presi dalla strada, girano in luoghi aperti.
Queste scelte, però, non sono legate a mere necessità economiche. Il Neorealismo nasce come
reazione a quel cinema fatto di sole apparenze, un cinema in cui c’è sempre l’happy ending, un
cinema che di verità e realismo ha poco o nulla, cioè il cinema classico hollywoodiano e ciò che da
lui è, poi, derivato. Allontanandosi dal cinema classico, il Neorealismo dà inizio a un più libero uso
del linguaggio cinematografico che permette sia l’espressione politica che artistica dell’autore:
modernità cinematografica.
Lo star system, infatti, viene messo in crisi solo dall’arrivo del Neorealismo.
Il Neorealismo destrutturerà tutto ciò: ora vi facciamo vedere come siamo realmente Ladri di
biciclette
“Roma città aperta” del 1945 di Rossellini diviene il film manifesto di questa nuova corrente e il
suo regista è quasi un maestro per tutti gli altri che vogliono fare film di questo genere. In lui e nelle
sue opere vedono delle spettacolari capacità di riscrittura della realtà del linguaggio filmico e, da
questo insegnamento, nasce la teoria del pedinamento di Zavattini, secondo cui, la vera anima dei
film neorealisti si coglie solo “pedinando” la realtà e la gente comune per le strade, alla ricerca di
immagini di vera vita vissuta dalla gente comune.
Tra i film neorealisti possiamo citare:
“Ossessione” del 1943 di Visconti, nonostante la data ufficiale si faccia coincidere con
“Roma città aperta”.
“Il Gattopardo” di Visconti del 1963: in piena epoca neorealista, Visconti sceglie di fare un
film in costume. Lo fa perché viene considerato il padre del Neorealismo, ma lui non vuole
questa etichetta.
È un film che parla di grandi trasformazioni, che vengono portate da Garibaldi e i suoi
Mille. Il principe di Salina capisce che per far restare tutto com’è (ovvero che i nobili
continuino ad avere potere e controllo delle terre), questo tutto deve cambiare e, quindi, è
necessaria un’alleanza con la nuova borghesia, perché i borghesi sono il futuro.
Nella scena iniziale si vede della gente dire il rosario, mentre da fuori arrivano delle urla,
dapprima quasi impercettibili, ma non sono casuali, si tratta delle voci dei garibaldini
appena sbarcati sull’isola. L’arrivo di Garibaldi interrompe questo momento e le voci
cominciano a sentirsi sempre di più, penetrando in parte il rito. Quello che si vede è un
vento di rinnovamento, simbolo del cambio dei tempi, da quell’epoca al Risorgimento e
Visconti lo fa capire allo spettatore attraverso l’uso del vento e della macchina da presa che
dall’esterno entra quasi senza farsi vedere.
Il conflitto tra il principe e i garibaldini può essere visto come lo scontro tra la modernità e
una classe al tramonto, ma la borghesia farà molto peggio della nobiltà: “Noi fummo i
gattopardi, i leoni, quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene”, cioè un nuovo
classicismo. È il principe di Salina a dire questa frase. Il ruolo venne affidato a Burt
Lancaster, il quale, non essendo italiano, non poteva parlare siciliano; per mantenere una
sorta di fedeltà antropologica ai regionalismi, il personaggio viene doppiato da Corrado
Gaipa.
“Ladri di biciclette” di Vittorio De Sica del 1948. Viene girato in bianco e nero, nonostante
il colore esista già. La città in cui si svolge l’azione è Roma, più precisamente la periferia. Il
dramma principale è quello del lavoro, è il tipico lavoro alla giornata” proprio come
succedeva ai tempi. Questi film si caratterizzano proprio per l’assenza di finzione, di
divismo: gli attori non sono veramente tali, non si tratta di un teatro di posa e la
sceneggiatura è quasi assente; è un antropomorfismo che arriva direttamente dai film perché
la realtà parla da sola.
Un altro aspetto del Neorealismo è rappresentato dai bambini: prima di allora non avevano
mai avuto un ruolo. Si dà voce a tutta la gente che fino a quel momento non aveva avuto
modo di esprimersi perché non era né eroe, né antagonista: i poveri, i deboli, i disgraziati.
Ci sono molti movimenti di macchina perché è lo spettatore che deve pedinare l’attore che
recita. Sono film pieni di suspense perché raccontano le cose vere e infatti, anche qui, il
furto viene anticipato dalla suspense.
Un elemento molto importante nelle scene finali è lo sguardo del bambino, che piange
perché ha visto il padre rubare la bicicletta e venire assalito da chi l’ha preso per ladro ed è
proprio il pianto del bambino che fa sì che il proprietario della bicicletta non porti il padre
dalla polizia. Dall’altro lato, troviamo lo sguardo del padre, uno sguardo da uomo umiliato.
Sulla scia del Neorealismo, nascono dei veri e propri movimenti di pensiero riferiti all’uso moderno
del film, come, per esempio, nella Nouvelle Vague e la sua camerà stylo, che intende il film come
spazio di riflessione e testimonianza di esperienze di vita che non vogliono dare illusioni, ma
svelare ideologie e punti di vista dei singoli autori.
Per riprodurre la realtà così com’è, si serve di riprese dal vivo, prendendo completamente le
distanze dal cinema artificioso. Questi film hanno l’aspetto di documentari perché si svolgono per
strada, con luce naturale o, addirittura, nelle stesse case degli autori o attori, proprio per sottolineare
la distanza dal cinema finto.
Poiché si tratta di un movimento idealista, diventa anche espressione del pensiero politico e
culturale del gruppo di riferimento, che divulga la nuova teoria avanguardista tramite i Cahiers du
cinéma, un periodico fondato nel 1951 che rispecchia il pensiero critico di un gruppo di cinefili che
arrivano dalla Cinémathèque Française con l’intenzione di liberare il cinema dal testo letterario e di
utilizzare il mezzo cinematografico in maniera più introspettiva, cioè quella che viene definita come
la politica degli autori di Godard, Truffaut , Rivette e altri.
Il cinema moderno riflette le problematiche sociali ed esistenziali degli uomini di quel dato
momento storico, proprio come accade in Italia con la commedia e il western all’italiana, che
derivano sempre dal Neorealismo, ma reinventano i generi già esistenti per adattarli alla
contemporaneità, alla cultura del momento, al pensiero polito, usi e costumi…
Nel dopoguerra, nascono la commedia all’italiana e il cinema politico, divenendo specchio della
vita sociale del Paese. Si sceglie la via della commedia e della satira.
Sono film in cui si riflettono le trasformazioni dell’Italia, nell’era della modernità e del capitalismo.
È l’epoca in cui aumenta il divario economico e culturale tra Nord e Sud, del potere della mafia e
della malavita in generale, situazioni che porteranno al terrorismo e agli “anni di piombo”.
Con “Divorzio all’italiana” del 1961 di Germi, si definisce l’idea di commedia all’italiana che
narra la storia di uomini comuni e, se da un lato, si allontana dal Neorealismo, dall’altro ne è una
continuazione perché tratta gli stessi argomenti, ma lo fa in chiave più “comica”, sotto forma di
“storie possibili” di “italiani possibili” nel nuovo contesto di ripresa economica avviata dal Piano
Marshall.
Il western all’italiana o spaghetti western, invece, riscrive il genere popolare della cultura storica e
letteraria americana in chiava italiana, appunto. La trasposizione, infatti, consiste nel rapportare al
contesto sociale del dopoguerra i personaggi appartenenti al modello americano e riutilizzarli come
canovaccio per nuove storie. La scelta di riadattamento dipende dalla capacità di saper
rappresentare la complessa relazione tra politica, società e uomo. L’autore simbolo di questo genere
è Sergio Leone.
In questa nuova prospettiva narrativa, assume un ruolo fondamentale anche la politica, che viene
metaforizzata e costantemente inserita nei film: nasce così il cinema politico che riflette i fatti
storici degli “anni di piombo” della Prima Repubblica.
Dopo il ’68, con il cinema politico si esprimono le ideologie di un gruppo di registi che vogliono
rappresentare il loro pensiero politico o cercare di svelare le responsabilità pubbliche dei mali
sociali, puntando il dito contro i responsabili del cattivo sistema nella Prima Repubblica. Sono i
film dell’impegno ideologico e militante, manifestazione dell’abuso del potere da parte dello Stato e
dominati dall’allegoria ideologica che si stacca dalla realtà per evolversi sul piano della
simulazione simbolica.
Il nuovo cinema italiano ha effetti anche oltreoceano, in cui il fittizio lascia il posto al reale. La
modernità del Neorealismo arriva anche in America, perché insegna che si può fare cinema anche
senza rifarsi alle tragedie antiche. Nell’arte filmica si dà importanza al fatto che si possono narrare
più cose allo stesso tempo e anche più tempi e spazi passati, presenti e futuri.
Nasce la Nuova Hollywood negli anni ’70 e i principali registi sono: Woody Allen, Brian de Palma,
Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Robert Altman, Stanley Kubrick e altri, tutti impegnati sul
fronte sociale americano (la guerra in Vietnam, diritti delle donne, degli uomini di colore, lotta alla
mafia…).
Nella New Hollywood si inseriscono personaggi lontani dai divi e che fanno vedere i problemi che
hanno senza vergogna, è una specie di Neorealismo italiano.
A partire dagli anni ’90, nell’era del cinema della post-modernità, il cinema si fonda con
tecnologie inter-mediali, riscritture di generi e intertestualità, come ben mostra Tarantino nei suoi
film, per esempio “Pulp Fiction” prima “Kill Bill” poi.
L’unione di più tecnologie, dalla fine degli anni ’90, viene definita transmedia storytelling o
racconti transmediali, sono cioè storie che migrano da un medium all’altro. Il fenomeno che ne
decreta il successo è Matrix, anche se va precisato che il suo antesignano per eccellenza è Guerre
Stellari.
Le cose si complicano nel momento in cui un prodotto deve migrare su varie piattaforme (cinema,
tv, teatro) “la galassia Lumière” di Francesco Casetti. Tra le 7 parole chiave si parla di
metodologia, come il cinema si ri-loca in luoghi differenti dalle sale. Il cinema non è morto perché
ancora si vanno a vedere i film in sala, ma altre cose prescindono l’evento in sala. La percezione,
qualsiasi sia il modo di locare il prodotto, è uno degli aspetti principali dell’AUDIO-VISIVO, cioè
ciò che si vede e si sente. In base al Paese in cui viene adattata l’opera, si lavora in base a ciò che
può essere detto e non, il labiale, etc etc.
Questi prodotti sono legati a opere che prevedono di narrare storie che si sviluppano esclusivamente
in SAGHE o in più episodi che consentono di creare un business plane che possa coprire un arco
temporale di produzione, distribuzione e vendita molto ampio, poiché il successo si basa sulla
fidelizzazione e le emozioni degli spettatori.
Tra questi ricordiamo: Matrix, I Pirati dei Caraibi, Il Signore degli Anelli, Spiderman, Star Trek,
Harry Potter. Tra i film animati ricordiamo Toy Story, Madagascar, Shrek.
Alla fine del primo decennio del Duemila arriva anche l’animazione in 3D, come dimostrano
“Avatar” (2009) di James Cameron e “Inception” (2010) di Cristopher Nolan:
Avatar è ambientato nel 2154 e narra della capacità del popolo Na’vi, abitanti del pianeta
Pandora, di difendersi dalla sopraffazione degli umani, che vogliono le risorse del loro
pianeta e che, per sopravvivere alla tossicità di Pandora, si infiltrano sotto forma di avatar.
Inception narra di un gruppo di persone che, attraverso il “sogno condiviso”, entrano nella
mente degli altri per rubare o innestare idee.
Entrambe rappresentano il trionfo dell’animazione digitale incrociata con l’immagine
cinematografica dal vero, dando vita a mondi narrativi paralleli in cui reale e virtuale si incontrano.
Invitano, anche, lo spettatore a riflettere sull’abuso di potere prodotto dalla tecnologia stessa se
usato su popoli “primitivi” (Avatar) o affronta il tema degli abusi mentali consci o inconsci,
sull’impossibilità di scindere la dimensione reale dal sogno (Inception).
L’avvento del digitale al cinema, apre una nuova via alle major americane che puntano tutto il
successo sull’impatto visivo, dunque, sulla grandiosità delle immagini che lo spettatore vede.
Immagini che possono essere digitali o simulate al computer, come location e ambienti, personaggi
e oggetti, che possono essere ritoccati solo in parte o subire dei veri e propri restyling.
Le origini dei film di animazione: evoluzione di un’arte in continuo “movimento”
I film di animazione non sono un vero e proprio genere, classicamente inteso, ma una tipologia di
cinema con un linguaggio autonomo, che nasce da quelle stesse tecniche sviluppate per la
riproduzione dei film con immagini dal vero. Questo è un tipo di cinema che ha trovato la sua
espressione nella creazione e non nella riproduzione.
Le storie dei film di animazione nascono esattamente come quelle dei film dal vero, ma è la loro
realizzazione a differenziarli perché le immagini non esistono già, ma vengono create ad hoc: ci
sono operatori del settore che si occupano dei personaggi (i character designer), ci sviluppa i
layout della storia, chi disegna le storyboard e i singoli frame per poi fare il montaggio finale o,
come succede per il cinema animato digitale, chi si occupa della grafica, il compositing, la
computer animation vera e propria, etc etc.
Va detto che, oggi, con l’avvento del digitale, il lavoro dell’animatore cinematografico è cambiato
perché si basa completamente su competenze legate alla conoscenza di software atti all’animazione
e non al disegno manuale, come accadeva in passato. Inizialmente, la creazione del movimento
avviene “frame by frame”, è riprodotto cioè in moviola o con proiezione vera e propria del film;
recentemente, invece, la simulazione al computer rende possibile la visione del movimento già in
fase di realizzazione, 2D o 3D che sia.
Vista la differenza delle immagini tra i film dal vero e quelli animati, risulta difficile accomunarne
il percorso e lo sviluppo storico. La differenza tra queste due arti, invece, si evince fino agli anni
’30 perché il cinema dal vero mira realizzare immagini realistiche, mentre quello animato punta
all’irreale e al fantastico. Con l’avvento del sonoro e del colore e i mezzi di ripresa che diventano
più leggeri, i due mercati si avvicinano: i due mondi cominciano ad avvicinarsi e a contaminarsi.
Molti film dal vero, infatti, in post-produzione si servono di tecniche di animazione per intervenire,
per svariati casi, sulle immagini dal vero.
È un settore del cinema in continuo sviluppo e, difatti, ogni nuovo film può presentare novità
creative, date da tecniche che incrociano immagini dal vero con quelle digitali. Si deve, però,
precisare che l’unione di immagini animate al profilmico dal vero risale ai primi film di animazione
e continua ancora adesso: si pensi a “Mary Poppins” (1964), frutto della sperimentazione sulle
tecniche di animazione.
Diverso è il caso del 3D, un modo di fare film che si basa tanto sull’animazione che su riprese dal
vero, per dare vita a opere ibride che non rientrano né nella prima tipologia né nella seconda; nasce
così il film di finzione, un esempio è la saga di Harry Potter.
Sono state le evoluzioni tecnologiche del cinema a potenziare capacità simulative, psico-
antropologiche del rappresentato, immagini e significati, cosicché animazioni e immagini dal vero
potessero assumere un effetto di “credibilità” che sospendesse l’incredulità del narrato.
Animazione, nel cinema, significa dare anima e vita a immagini che prima erano ferme, secondo
lo stesso principio che diede vita al cinema: riprese dal vero di immagini in movimento di soggetti
catturati nella realtà o appartenenti al teatro di posa, grazie alle quali nascono il cinema
documentario e il cinema narrativo. Il concetto di animazione, come lo intendiamo noi, è collegato
al cinema narrativo e si distingue dal documentario e da quello di finzione proprio per la sua
capacità di dare vita alle immagini.
Le varie forma di cinema dal vero e il cinema animato si differenziano a partire dalla produzione
del profilmico:
1. Nel cinema dal vero, il profilmico è già materia in movimento e la sua riproduzione non è
altro che ripresa di immagini che hanno vita, il film finito è riproduzione del movimento.
2. Nel film animato, il profilmico non ha vita di per sé, ma avviene attraverso gli artifici tecnici
e l’inventiva degli autori. il film finito è creazione di movimento.
Narrazione e film: espressioni della mente e linguaggi della cultura
I potenziali espressivo-narrativo dei film mutano anche quelli psico-pedagogici del messaggio
filmico che ha sempre voluto stimolare il pensiero e la percezione dei fatti narrati.
Nel processo di ideazione e rappresentazione è basilare il legame tra narrazione cinematografica e
pensiero e cultura degli autori perché, trattandosi di un’opera audiovisiva, deve partire da una storia
scritta precedentemente in una sceneggiatura e deve svilupparsi secondo le principali regole
drammaturgiche applicate al linguaggio audiovisivo.
Anche se nasce come storia collettiva, il senso finale del narrato è frutto della narrazione del singolo
regista.
Per capire come nasce una storia al cinema, bisogna partire dai processi mentali alla base di quelli
di significazione che vogliono costruire gli autori, ma dobbiamo comunque dire che tutto quello che
gli uomini narrano dipende da quanto hanno appreso nella loro vita, grazie alle storie raccontate
dagli altri.
Il meccanismo fondamentale della nostra esistenza è il potere narrativo. Bruner ha scoperto che noi
apprendiamo il mondo attraverso un processo cognitivo legato al nostro cervello: un bambino
quando nasce non ha conoscenza del mondo, ma quando dà input all’esterno (ha caldo/freddo…),
cioè da segnali per dire quello che prova, se ha sete, per esempio, sta imparando qualcosa del
mondo e acquisisce una conoscenza empatica, emozionale.
Il bambino come riceve feedback dall’esterno dei suoi input? Se non ci sono informazioni nuove, il
bambino non impara e quindi, queste informazioni non hanno tanta importanza.
Il cervello del bambino categorizza l’esperienza attraverso quello che arriva dall’esterno, si tratta
sempre di scrivere nel cervello gli script mentali (l’esperienza).
Sappiamo, infatti, che il cervello è diviso in due: l’area narrativa e quella razionale. L’esperienza,
poi, forgia il carattere del bambino, che racconta quello che impara dagli script mentali. Quando il
bambino scrive le frasi è guidato dal pensiero narrativo nel raccontare ciò che arriva dai suoi script
mentali.
Tutto dipende dal senso che si vuole dare a quello che si dice, ma lo stesso concetto può essere detto
diversamente da due persone e anche se viene letto, la prosodia intonazione e intenzione cambiano
da persona a persona.
La cultura narrativa degli uomini dipende dalla loro capacità di tradurre in nuove forme e contenuti,
adattandoli ai vari periodi storici e alle varie situazioni, le conoscenze già in loro possesso, ma nel
momento stesso in cui queste si acquisiscono, diventano routine.
In sintesi, ogni film parte da un’idea narrativa che, poi, si sviluppa in un adattamento
cinematografico, secondo delle tecniche di scritture diverse e autonome dagli altri linguaggi del
racconto, perché la vera essenza del cinema sta sia nella rappresentazione visiva o audiovisiva – a
seconda che si parli di cinema muto o sonoro – ma anche in quegli aspetti psico-socio-antropologici
che rendono il film un’esperienza virtuale molto complessa perché realtà e fantasia si confondono
per creare quella soggettività che rende il narrato affascinante e che lo fa sembrare una storia vera,
comunicando al cervello dei significati che vengono “mentalizzati”.
Questo potenziale psichico rende il film un forte mezzo di comunicazione in grado di parlare alla
mente, ma anche di instaurare un canale privilegiato tra realtà vera e quella percepita dagli uomini, i
quali sono coscienti dell’inganno, ma amano i suoi effetti catartici: le emozioni date dai film
parlano alla mente e alla cultura degli spettatori.
Il processo cognitivo-emozionale legato alla visione di un film è un filo diretto tra il pensiero
narrativo degli autori e gli spettatori.
Quando si comincia a scrivere un film, si deve tenere bene a mente che questo appartiene all’autore
solo all’inizio, ma quando già viene esternata l’idea narrativa, diviene un’opera rivolta a tutti.
La reciproca interdipendenza tra narrazioni ed emozioni
nella formazione della sfera culturale
L’uomo conosce il mondo attraverso l’esperienza propria e quella appresa dagli altri attraverso la
comunicazione/narrazione grazie al fenomeno di transfer. Per comprendere l’uomo attraverso la
narrazione bisogna tener conto dell’interdipendenza delle relazioni intercorrenti tra la percezione,
l’emozione suscitata dal percepito e il più vasto contesto culturale della narrazione. Queste relazioni
sono alla base della narrazione, che può essere definita in termini analitici e mediatici come frutto
degli scambi tra uomo e cultura.
Le emozioni sono il mezzo in grado di attivare il transfer che porta a percepire come propria la
materia del narrato. Narrazione ed emozioni sono strettamente collegati, in quanto la costruzione
del senso veicolato dalla narrazione è un atto mentale cognitivo affettivo ed emozionale.
L’emozione è un processo che si genera nella mente di un individuo a seguito della percezione di
uno stimolo, data inizialmente da una reazione di carattere fisico connaturata alla struttura e
all’apparato cognitivo della mente umana; solo in seguito avvengono la decodifica e la risposta allo
stimolo, acquisiti sotto forma di “apprendimento”. Le principali strutture del sistema nervoso (quali
il sistema limbico, l’amigdala e i neuroni mirror) devono essere allenate al processo
dell’apprendimento emozionale per essere in grado di governare e controllare ciò che accade nella
vita di ogni giorno (es. il controllo del pianto). Questa educazione alle emozioni, che affina il
potenziale di contenere e emulare stati emozionali a piacere, è alla base della intelligenza emotiva
(considerata da Goleman come la capacità di pensare efficacemente se stessi e gli altri a partire
dalla comprensione dei sentimenti propri e altrui).
Fonagy definisce la capacità di riflettere sugli stati emotivi propri e degli altri come funzione
riflessiva, considerata causa delle rappresentazioni mentali delle emozioni e di altre risposte a
stimoli percettivi o esperienziali che generano la teoria della mente (la crescita mentale del bambino
e delle sue facoltà di comprensione del mondo).
Goleman inoltre, nell’ambito della intelligenza emotiva considerata come strumento di
categorizzazione del mondo filtrato attraverso le emozioni, distingue le competenze personali da
quelle sociali rispettivamente per la capacità di comprendere sé stessi e gli altri. Quindi, a partire
dalla consapevolezza di sé (intelligenza emotiva personale), si mentalizzano dei significati basilari
che guidano la creazione del senso della vita e del rapporto con gli atri. Questo porta allo sviluppo
della intelligenza emotiva sociale.
In sintesi:
L’intelligenza emotiva è alla base della capacità di costruire una rappresentazione emotiva forte ed
efficace, sapendola interpretare e gestire quando serve comunicare agli altri: la narrazione riguarda
proprio la comunicazione di sé stessi agli altri.
Nella narrazione filmica l’intelligenza emotiva ha un duplice ruolo: da una parte riguardante la
attività creativa degli autori/narratori: dall’altra riferito al piacere emozionale dato agli spettatori
dalla percezione audiovisiva. Grazie alle immagini ed ai suoni, i film trasportano lo spettatore in un
viaggio emozionale, ogni volta unico, che è capace di stimolare un impatto emotivo rispetto alla
narrazione classica.
La comunicazione audiovisiva stimola alcune zone del cervello che portano il fruitore dentro la
storia, facendogli vivere delle emozioni che non gli appartengono, ma che per il tempo della
proiezione vengono vissute in prima persona. I meccanismi cognitivi responsabili di questo
processo sono i neuroni mirror. Questo stato virtuale è tanto più potente quanto più la situazione è
ricca di dati visivi e sonori in grado di comunicare input ai neuroni specchio. Ecco perché è più
emozionante di un quadro o di un’opera d’arte visiva muta e statica.
Le emozioni, oltre alle funzioni cognitive, svolgono anche un'altra funzione: hanno il ruolo di
garante del rapporto dialogico tra uomo e cultura. L’emozione della narrazione è la condizione e
allo stesso tempo l’obiettivo per cui si attua l’uso del pensiero narrativo sotto forma di racconto.
In sintesi:
La dialettica tra i processi cognitivi e i processi culturali, sintetizzata nella creazione delle storie,
costituisce un sistema di esteriorizzazione dell’attività mentale basato sull’aspetto simbolico
(archetipo) della mente. In ogni ambiente, naturale e sociale, l’esperienza umana tende a
uniformarsi a modelli originari innati nell’uomo, matrici archetipiche universali di comportamento
verso il mondo e la cultura.
Il narratore prende ciò che narra dall’esperienza della propria vita e della vita degli altri e la
trasforma in esperienza per i fruitori (Walter Benjamin). L’attività del narratore è quella di
percepire dati, ricomporli e riproporli sotto una nuova forma. L’atto di mettere in scena il mondo e
la vita umana sotto forma di narrazione, si costruisce sulla capacità di evocare immagini
archetipiche, tipologie di personaggi e rapporti umanizzanti contenuti nel patrimonio conoscitivo
genetico, tramandato attraverso l’inconscio collettivo.
Le sequenze filmiche hanno uno stretto rapporto sia con le immagini mentali dell’autore che con
l’immaginario collettivo della società in cui viene prodotto. Il film, in quanto narrazione di una
possibile vita umana, è un luogo di frontiera tra le esperienze virtuali e ciò che ancora non è
diventato simbolo, una zona franca in cui elaborare concetti e teorie ottenuti attraverso nuove
configurazioni mentali. Quindi, attraverso il dialogo che si crea tra il prodotto e il pensiero e le
emozioni, la percezione filmica causa delle reazioni emotive nella mente dello spettatore e apre la
strada alla riflessione e allo stivaggio dei significati. Si attiva inoltre il “sentire filmico”, in grado di
integrare lo spettatore alle tematiche trattate e ai mondi costruiti.
La materia intellettuale/cognitiva prodotta durante la percezione filmica spinge il fruitore a rivedere
se stesso alla luce di quanto appena vissuto virtualmente; si può dire quindi che la percezione
filmica è una risorsa pedagogizzante che consente di avviare una riflessione interna e stimolare la
creatività di nuovi significati. Il cinema è un luogo di frontiera nel quale si scontrano pensieri e
mondi: quelli del film e quelli creati nello spettatore dalla visione del film.
Analizzando la storia del cinema e l’evoluzione delle tecniche e del linguaggio cinematografico, si
può notare come i film hanno sempre tentato di riprodurre il reale. La percezione del vissuto filmico
è resa possibile dal meccanismo della “sospensione dell’incredulità”, che consente allo spettatore di
entrare nella storia narrata.
Per comprendere i meccanismi della narrazione filmica bisogna tener conto di due prospettive di
analisi: la prima tiene conto dei contenuti narrati dalle immagini come nascono dalla mente
dell’autore, facendone una lettura profonda; la seconda riguarda il film finito come testo da
interpretare a partire dalla sua cultura di appartenenza e dal modo di intendere il linguaggio.
Va precisato che in entrambi i momenti di analisi appena citati si interscambiano tanto la realtà
quanto le dinamiche psichiche dei singoli e del sociale che formano l’immaginario, il pensiero e la
conoscenza sia dell’autore dell’opera che dello spettatore.
L’uomo, attraverso il transfer introdotto dal mezzo audiovisivo, vive altre vite, che possono anche
essere drammatiche ma che vengono narrate per scongiurare la stessa drammaticità delle situazioni
della vita quotidiana. L’uomo impara a vivere grazie all’ascolto dei racconti, e attraverso il racconto
agli altri. I film riescono a trasportare in mondi “altri” e si differenziano dalle altre forme di
racconto in quanto essenzialmente “viventi”. Inoltre, il dialogo che si crea tra la mente dello
spettatore e il film può generare tanti altri mondi possibili, vissuti sia durante la visione che in un
secondo momento, quando si ripensa al film visto. Questi mondi sono creati e interpretati a partire
dal bagaglio culturale dei singoli uomini.
Christian Metz spiega la percezione filmica come un processo interiore capace di avviare un
discorso tra l’Io di chi riceve il messaggio e il messaggio stesso. Il film è considerato come uno
spazio interattivo tra il testo e l’uomo che attua una comunicazione diretta al più profondo senso
archetipico della mente di ognuno. Questi stati archetipi portano a uno stadio psichico regressivo,
pre-razionale e pre-logico, come accade nei sogni, e e creano uno stato di vita virtuale del narrato
che vive nello schermo e nella mente percettiva dello spettatore.
In sintesi:
I film creano stati d’animo che stimolano e arricchiscono la conoscenza del mondo e degli altri e delle
potenzialità dell’intelligenza emotiva, e per definire la percezione bisogna partire dallo studio del racconto
filmico, tenendo in conto che è sempre oggetto dell’esperienza della vita elaborata in forme archetipiche e
simboliche;
Il cinema ricrea e ripropone forme di mondi possibili che riflettono la cultura e intendono comunicare una
lezione di vita.
Il racconto: dalla fiaba al film, strutture originarie e
nuovi strumenti della narrazione culturale
L’attività ludica associata alla costruzione di racconti è da sempre considerata uno strumento cognitivo in
grado di educare attraverso la comunicazione di contenuti e di schemi archetipici. Attraverso l’analisi delle
prime strutture narrative create dall’uomo (fiabe e miti) diversi studiosi sono arrivati a un comune punto di
partenza: la narrazione è un’espressione dell’uomo attraverso la quale egli si riflette e riflette gli altri in
rappresentazioni, con lo scopo di congelare nelle azioni narrate emozioni e sentimenti significativi
dell’esperienza del singolo narratore nel più vasto contesto culturale di riferimento.
Il racconto fiabesco (una delle più elementari forme di narrazione orale), date le sue caratteristiche
fantastiche e irreali, è il manifesto della capacità delle storie di assumere il reale a simbolo archetipo, ed è il
simulacro della simbologia del fantasticare umano, elaborato per esorcizzare le paure dell’uomo.
Le fiabe, inoltre, hanno la capacità di catturare l’attenzione di spettatori di ogni età e di ogni estrazione
culturale, dovuta sia al linguaggio utilizzato che ai contenuti della storia (e ai conseguenti significati
prodotti).
Le azioni narrate dalle fiabe non rispondono all’esigenza di riproduzione della realtà, ma rappresentano
immagini contenenti metafore, e sono territorio specifico di rappresentazioni emozionali.
Le fiabe non simulano azioni o personaggi fini a loro stessi, ma costituiscono proiezioni delle emozioni che
questi simboleggiano attraverso immagini archetipiche che ogni uomo porta dentro di sé. Esse scoprono le
paure recondite dell’uomo e allo stesso tempo suggeriscono il modo di affrontarle con successo. Infatti la
fiaba provoca un piacere catartico e ha il ruolo di allentare la tensione creata dalle problematiche narrate.
Differente è il mito, che pone in primo piano stati emotivi di difficoltà e difesa, e che prevedono come
conseguenza delle azioni anche punizioni molto efferate, che hanno lo scopo di dimostrare le pene legate a
certe azioni sbagliate. Così, mentre nella fiaba (grazie a magie e sortilegi) le azioni degli uomini sono
reversibili e lo stato iniziale delle cose è quasi sempre ripristinato, nel mito le disgrazie cambiano in modo
definitivo sia gli uomini che le situazioni in cui essi si trovano, e la storia raramente si risolve in modo felice
e viene affrontata tramite il sacrificio e la sofferenza.
Il mito costituisce un linguaggio simbolico complesso, dai significati forti, e il sentimento di sconfitta narrato
consente al fruitore di mettere in discussione le proprie certezze, promuovendo una riflessione critica sul
narrato.
Bruner spiega che i contenuti della mitologia ammoniscono e servono a creare distanza tra gli uomini e le
azioni; al contrario le fiabe insegnano lezioni di vita che connettono l’uomo al mondo. Anche i film in
generale costituiscono delle espressioni simboliche di conoscenze ed esperienze mentalizzate dagli autori e
successivamente rielaborate in schemi narrativi per essere comunicati ad altri. I film sono eredi delle
narrazioni originarie e, insieme ad altre forme di racconto destinati ai più piccoli, i film per l’infanzia si
rifanno proprio alle strutture narrative fiabesche e con intenzioni pedagogiche.
La stretta correlazione tra film e fiaba è dimostrata anche dalla capacità comune di diventare agente
socializzante a partire dalla capacità di attrarre e portare il fruitore nel mondo narrato. Questo potenziale
determina la magia di questo tipo di racconti, le cui radici affondano nell’inconscio umano e
nell’immaginario archetipico di ogni singola cultura. Cosicché nei film, sia quando sono tratti da opere
letterarie sia che siano originali, sono sottointese delle strutture narrative che riportano sempre alla fiaba (o al
mito, o alla commedia, o alla tragedia ecc. – in generale alle forme elementari di narrazione).
La narratologia strutturalista è un tipo di studio che accomuna la struttura del linguaggio e le strutture dei
testi letterari sotto la forma espressiva della comunicazione umana. Essa propone una sintassi della
narrazione che è possibile riscontare anche nella narrazione filmica. Il primo a costruire una teoria strutturale
della narrazione è stato Aristotele. Nella Poetica egli tratta le storie come frutto della poiesis (fare poetico),
prodotto dalla mente come riproduzione “verosimile” della natura e dell’uomo: le forme mimetiche
(mimesis) o diegetiche (diegesis) simulano l’esistenza umana nell’agire quotidiano secondo le tre unità di
tempo, luogo e azione che determinano la nascita di ogni storia possibile. Aristotele suddivide le narrazioni
in tre parti fondanti della storia narrata (inizio, centro e fine) e descrive le strutture della commedia e della
tragedia come forme narrative tra loro opposte. Dobbiamo ad Aristotele la definizione di catarsi, intesa come
capacità riparatrice di ogni dramma narrato di risolversi in modo da lasciar esplodere un sentimento
riparatore, che libera da ogni tensione accumulata. Ancora oggi la teoria aristotelica è alla base della
drammaturgia.
Uno studio che ha influenzato le teorie della narratologia filmica e l’opera Morfologia delle fiabe di Vladimir
Propp. Partendo dalla struttura delle fiabe russe, l’autore spiega come l’assemblaggio diverso delle strutture
portanti della narrazione porta alla creazione di nuove storie. L’opera mette un punto fermo sull’idea delle
funzioni narrative svolte dalle storie in base alle loro strutture.
A partire da quest’opera, Greimas rielabora la teoria di Propp allargando l’analisi delle funzioni narrative
oltre il genere della fiaba. Egli rintraccia nella letteratura una grammatica della narrazione universale,
fondata su categorie binarie (ex. Soggetto/Oggetto) alle quali corrispondono azioni e situazioni nella storia.
Todorov invece, parte dalla distinzione tra sequenza delle proposizioni (che in gruppi di 5 costituiscono un
senso che è rovesciato in un altro gruppo) e il testo finale o insieme di proposizioni che compongono la
storia. In tal prospettiva Genette ha redatto la terminologia tuttora adottata, e distingue la storia o fabula (i
fatti in ordine cronologico) dal plot o intreccio (i fatti nell’ordine in cui sono raccontati). Suddivide inoltre
l’esposizione su tre livelli: la storia (ordine dei fatti), il discorso (tipo e modo di racconto) e la narrazione
(chi racconta la storia).
L’antropologo strutturale Lévi-Strauss guarda all’importanza linguistica del mito in quanto espressione della
cultura di un popolo. Anche Barthes precisa l’importanza storica dell’atto narrare all’interno di una cultura
tramite i differenti linguaggi che l’uomo ha sviluppato; e in quanto l’atto narrativo è presente in ogni società
e tempo della storia, ne definisce i principali valori intrinseci: ogni narrazione è internazionale, trans-storica
e trans-culturale. Egli sottolinea il valore semantico del narrare e spiega che i racconti sono modi narrativi
basati sulla messa in atto del linguaggio; attraverso il linguaggio l’uomo sceglie dalla realtà ciò che gli serve
per esprimere al meglio se stesso, ed è uno strumento che allo stesso tempo nasconde e rivela la persona che
attua il linguaggio.
Eco, invece, spiega la narrazione come la descrizione di azioni messe in forma dall’agente narrante in
funzione di determinate intenzioni. Anche Eco, riconosce nel mito la funzione di dar forma al disordine
tipico delle esperienze umane.
Dal Sé agli Altri attraverso il cinema:
intercultura e dialogo interetnico nello spazio del racconto filmico
Viviamo in una società “visuale”, nella quale la comunicazione audiovisiva svolge un ruolo dominante su
tutte le forme di diffusione della cultura. In questa società i film si affermano come meccanismi narrativi in
grado di produrre significati, di fronte ai quali bisogna essere degli interpreti attenti al linguaggio e ai
contenuti per essere grado di decodificare i significati della cultura narrata. La narrazione filmica rende il
prodotto finale una materia sempre più complessa, che cambia a pari passo con l’evoluzione delle tecnologie.
Un film, diversamente dalla fiaba che è basata su archetipi simbolici delle diverse culture ed è più facilmente
decodificata, può dare luogo a una moltitudine di interpretazioni, a volte anche molto diverse tra loro. Alcuni
film particolarmente complessi non vengono compresi a una prima visione, in quanto necessitano la
conoscenza o l’analisi e lo studio di elementi culturali che si rifanno a tematiche precise. Un esempio di
questo è il film 2001 Odissea nello Spazio, ancora oggi studiato per trovare una lettura univoca dei significati
simbolici (ex. il monolite). L’assunto di fondo dello studio del media filmico, è l’assunzione di una visione
“ossimora”, che veicola significati che a volte insegnano a vivere, altre suggeriscono comportamenti
scorretti.
Il film finito, a causa di questa impostazione, non è sempre adatto alla visione di tutti i tipi di pubblico (a
partire dal genere narrativo stesso, che può escludere tutta una serie di spettatori ex. horror). L’opera è
subordinata alla verifica dei contenuti da parte di una commissione d’esame che fa capo al Ministero dello
Spettacolo, che ne stabilisce il target finale.
Attraverso la narrazione si crea un dialogo con la cultura di appartenenza e con altre culture, al punto che
alcune storie diventano parte integrante della cultura dello spettatore. Le storie possono diventare parte
intima dell’uomo e della sua “intelligenza emotiva”. La conoscenza del mondo acquisita in tale modo è data
dalla dimensione comunicativa del mezzo, dalle dinamiche psico-cognitive dei messaggi e dal tipo di
linguaggio utilizzato dalla narrazione, e va analizzata nel giusto modo per evitare di incorrere in
comportamenti sbagliati.
Le storie narrano matrici culturali già acquisite, e allo stesso tempo ne fondano nuove, diverse dalle
precedenti, grazie anche all’influenza delle evoluzioni culturali, ed è possibile notare l’interazione dei
comunicanti su diversi livelli. La rete internet si può considerare lo spazio sociale più ibrido, in grado di
connettere culture differenti attraverso narrazioni espresse in prima persona (ex. blog) e tramite parole,
immagini e suoni creati con l’intento di definire un proprio ruolo sociale.
Striano spiega che la narrazione è a sua volta un processo di interpretazione del mondo e degli altri. Il
narrante recupera ciò che ha acquisito in passato sotto forma di esperienza e lo riorganizza in funzione del
contesto attuale e del ricevente del racconto. Nel voler narrare fatti in una data prospettiva il comunicante
interagisce con l’altro scambiando dati e informazioni nuovi, influenzandosi a vicenda e ponendosi dalla
parte dell’altro per comprenderne il punto di vista.
Tale scambio di significati tra il narratore e il fruitore porta a rivedere le proprie idee sul mondo alla luce
delle nuove conoscenze acquisite. Le narrazioni comunicano significati universalmente interpretabili in
termini di percezione empatica ed emozionale, mentre la comprensione del senso finale è un procedimento
cognitivo che può portare all’assunzione o meno del messaggio, che verrà decodificato in base alla propria
esperienza.
Sin dagli inizi della storia del cinema i film hanno veicolato storie tipiche delle culture che le hanno prodotto,
comunicando immagini e immaginari tipiche dei contesti culturali. Il valore del primo cinema è visto come
forma “documentaristica”, proprio per la capacità di riprendere situazioni reali così come avvenivano e
mostrarle in diversi luoghi del mondo, diffondendo alle masse il valore della cultura visiva, che fino agli inizi
dell’800 era riservata ai dotti.
Il cinema è diventato lo strumento della comunicazione multiculturale per eccellenza. La stessa idea di
documentario ha un valore dialogico interculturale, in quanto si tratta di riprodurre un punto di vista adottato
per narrare attraverso le immagini le culture definite “altre”. Simile ruolo può avere una coproduzione tra più
paesi, in quanto narra fatti secondo più punti di vista.
I film diventano strumenti in grado di narrare modelli di relazioni interetniche, e sono anche spazi virtuali in
grado di aprire un dialogo con diversi modelli culturali.
I film sono considerati un modo efficace per creare possibilità di dialogo perché sono la sintesi visuale più
vicina all’uomo, che attraverso le rappresentazioni narra le motivazioni dei suoi comportamenti e delle sue
scelte. Il punto di partenza e di arrivo della narrazione è sempre la cultura e la riproduzione cinematografica
costituisce un vero e proprio specchio delle relazioni sociali e i possibili contatti tra le differenti culture.
Ogni film, per lo spettatore, costituisce un’esercitazione ai rapporti umani e alle emozioni rappresentate nello
spazio virtuale.
Le storie non sono tappe di percorsi cognitivi atti a dare significato al mondo in modo autonomo, al contrario
tale percorso è dato dal valore di scambio culturale che avviene all’interno di contesti definiti.
Il cinema si attesta come strumento privilegiato di empowerment culturale, e se è vero, come afferma Taylor,
che gli uomini sono frutto di quanto vissuto virtualmente e appresi attraverso la narrazione, ogni uomo della
società moderna ha una formazione culturale inconscia fin dalla primissima infanzia. Inoltre, per poter
instaurare un corretto dialogo interculturale, bisogna riconoscere come unico collante delle relazioni
“paritetiche” (rispettose dei diritti di tutti gli uomini) proprio questi nuovi valori di condivisione della
cultura.
Ogni narrazione filmica si contraddistingue a partire dalla riproduzione di canoni specifici di un modello
culturale, che vengono spesso riprodotti dal vero e non vengono lasciati alla capacità immaginativa del
fruitore (come accade per es. con la narrazione orale o scritta).
Le caratteristiche audiovisive rendono quindi il film in grado di costruire un modello di conoscenza più
simile alla realtà rispetto ad altri modi di narrazione. Comunicare le differenze culturali attraverso i film è
un’operazione narrativa dovuta al potenziale espressivo e ludico del mezzo, che cattura la totale attenzione
dello spettatore e rende il prodotto finito adatto ad educare (come accade nei film di animazione nel caso dei
bambini).
Il dialogo interiore prodotto dalla narrazione porta spesso a rivisitare i propri valori di tipo nazionalistico, e
mettersi in discussione su territori difficili da affrontare nella realtà ma considerati come “meno pericolosi”
nella virtualità dello spazio filmico.
I film possono essere considerati come una zona “neutra” di contatto tra mondi e culture diverse, un modo di
comunicare a livello internazionale e mondiale, un modo di rappresentarsi e proporsi.
Ogni riflessione pedagogica riguardante il cinema che lo elegge a strumento di studio dell’uomo, deve
intendere il film e le differenti cinematografie nazionali come prodotti della cultura che creano altra cultura,
e come tali possono essere inseriti progetti pedagogici.