All’inizio del secolo XX i paesi capitalisti si scontrarono per la prima volta con il limite
intrinseco del modo di produzione capitalista che Marx aveva indicato: la sovrapproduzione
assoluta di capitale. Il capitale accumulato era oramai talmente grande che se, nelle condizioni
sociali esistenti, i capitalisti avessero impiegato nella produzione tutto il capitale che venivano
accumulando, la massa del profitto sarebbe diminuita. Solo una parte del capitale accumulato
poteva quindi essere impiegato come capitale produttivo1.
Così esplose allora la prima crisi generale del capitalismo (1900-1945). Tutta la vita di tutte le
classi ne venne sconvolta. Solo a prezzo di difficoltà crescenti, di un crescente abbrutimento morale
e intellettuale degli individui e di ricorrenti cataclismi sociali, il processo di produzione e
riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza dell’umanità poteva continuare a svolgersi nel
capitalismo. Ciò in netto contrasto con il grande progresso scientifico e tecnico e con la potenza
delle forze produttive allora all’opera. La crisi nasceva dall’economia, ma la crisi economica non
trovava soluzione in campo economico, come invece ancora accadeva per le crisi cicliche del secolo
XIX. Essa si trasformava necessariamente in crisi politica e culturale. Questa prima crisi generale
durò vari decenni ed ebbe fine solo grazie alle distruzioni delle forze produttive e agli
sconvolgimenti degli ordinamenti, delle istituzioni e della cultura culminati nella Seconda Guerra
Mondiale.
All’inizio della prima crisi generale il mondo era stato già tutto diviso tra i gruppi imperialisti e i
loro Stati. La borghesia imperialista difendeva ferocemente, in ogni paese e a livello internazionale,
gli ordinamenti esistenti (il sistema coloniale, il sistema monetario aureo mondiale, gli ordinamenti
giuridici e legislativi, ecc.) come forme del proprio potere. Ma d’altra parte il capitale aveva oramai
occupato tutti gli spazi di espansione che gli erano possibili nell’ambito di quegli ordinamenti e non
poteva più espandersi senza sovvertirli. Ogni singolo gruppo imperialista quindi poteva allargare i
suoi affari e aumentare i suoi profitti solo occupando lo spazio di un altro gruppo imperialista. Le
difficoltà incontrate dall’accumulazione del capitale sconvolgevano l’intero processo di produzione
e riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza dell’intera società, tutta la struttura
economica della società e la sua sovrastruttura politica e culturale. I rapporti tra borghesia
imperialista e masse popolari dispiegarono tutto il loro antagonismo. La classe dominante non
poteva più regolare i rapporti tra i gruppi che la componevano né tenere a bada le masse popolari
1
Sovrapproduzione di capitale significa sovrapproduzione di tutte le cose in cui il capitale si materializza:
sovrapproduzione di mezzi di produzione, sovrabbondanza di materie prime, sovrapproduzione di beni di consumo,
sovrabbondanza di forza-lavoro (disoccupazione cronica, esuberi), sovrabbondanza di denaro.
1
con i vecchi sistemi, né le masse potevano accettare la disgregazione e le sofferenze cui la crisi
generale le portava e di cui la Prima Guerra Mondiale fu la manifestazione concentrata.
Iniziò allora una situazione rivoluzionaria in sviluppo.2 Il mondo doveva cambiare. Interessi
acquisiti e consolidati dovevano essere eliminati. La rete di relazioni commerciali e finanziarie
doveva essere dissolta. Un nuovo ordine doveva essere instaurato. Nessun individuo, gruppo, partito
o singola classe era in grado di far uscire la società dalla crisi in cui lo sviluppo oggettivo del
capitalismo l’aveva condotta. Solo una mobilitazione generale delle ampie masse poteva eliminare
rapporti, abitudini e prassi consolidate e stabilirne di nuovi, creare un nuovo ordinamento sociale.
Due vie erano possibili. La borghesia trasforma le contraddizioni tra sé e le masse popolari in
contraddizioni tra parti delle masse popolari: mobilitazione reazionaria delle masse popolari. La
classe operaia mobilita le masse popolari contro la borghesia imperialista e su questa base le
organizza e unisce: mobilitazione rivoluzionaria delle masse popolari. In gioco e oggetto della
lotta politica tra classi, partiti e individui era quale via seguire.
Dapprima prevalse la mobilitazione reazionaria. La borghesia imperialista aveva dovunque già in
mano il potere e nella II internazionale la sinistra non era riuscita a contrastare con successo
l’azione dei revisionisti perché non aveva raggiunto una comprensione abbastanza avanzata delle
condizioni, dei risultati e delle forme in cui oramai si svolgeva la lotta di classe. La II Internazionale
non aveva quindi accumulato forze rivoluzionarie della qualità necessaria perché la classe operaia e
i suoi partiti comunisti fossero in grado di affrontare con successo la guerra civile a cui la borghesia
li sfidava. La borghesia precipitò tutti i popoli in un periodo di sconvolgimenti, di distruzioni, di
sofferenze e di massacri di dimensioni fino allora inaudite che durarono più di trenta anni.
La mobilitazione reazionaria delle masse popolari assunse, e non poteva che assumere la forma
della guerra tra Stati e della guerra civile. La borghesia imperialista mobilitò grandi masse, su scala
mai vista prima, contro altre masse, straniere o dello stesso paese e la guerra riassunse il carattere
più primitivo di guerra di sterminio di massa, condotto però con le risorse e i mezzi più moderni e
nello stesso tempo in contrasto con la cultura e i sentimenti più avanzati che l’umanità aveva oramai
prodotto.
2
Lenin descrive la situazione rivoluzionaria con i seguenti caratteri: “1. l’impossibilità per le classi dominanti di
conservare il loro dominio senza modificarne le forme (…); 2. un aggravamento, maggiore del solito, dell’angustia e
della miseria delle classi oppresse; 3. in forza delle cause suddette, un rilevante aumento dell’attività delle masse, le
quali in un periodo ‘pacifico’ si lasciano depredare tranquillamente, ma in tempi burrascosi sono spinte, sia da tutto
l’insieme della crisi che dagli stessi ‘strati superiori’, ad un’azione storica indipendente” (Lenin – Il fallimento della II
Internazionale)
2
I primi anni della crisi generale furono dedicati alla preparazione politica, militare, economica e
psicologica della guerra. Poi la borghesia lanciò le masse nella Prima Guerra Mondiale.
3
ve e demografiche dell’Intesa sono destinate a una progressiva mobilitazione, che alla distanza
risulterà decisiva.
Intanto, però, la sorpresa e la perfetta efficienza permettono all’esercito tedesco di penetrare
profondamente nel territorio nemico, e privano la Francia delle regioni nord-orientali densamente
industrializzate, donde essa ricavava gran parte del suo carbone e quasi tutti i minerali ferrosi: la
stessa Parigi è in pericolo, tanto che, mentre le armate francesi, comandate dal generale Joffre, si
attestano sulla Marna, il governo ritiene necessario trasferirsi a Bordeaux.
Segue la «corsa al mare» per il
controllo delle coste della Manica, e
gli Anglo-francesi riescono a
conservare i porti di Calais e di
Dunkerque, preziosi per i reciproci
collegamenti. Al termine della
campagna il fronte si stabilizza su
una linea estendentesi da nord-ovest
a sud-est che, fino al 1918, non
subirà più escursioni maggiori di 15
km. La guerra di movimento, sulla
quale puntava lo stato maggiore
stedesco, si è dunque trasformata
in guerra di posizione e di trincea, con grande vantaggio per gli Alleati, che potranno ormai
disporre del tempo necessario per la mobilitazione delle proprie risorse.
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dirette verso le potenze occidentali. In questo campo un episodio clamoroso, abilmente sfruttato
dalla propaganda alleata, fu l’affondamento del transatlantico inglese Lusitania (7 maggio
1915), che provocò la morte di più di mille passeggeri, fra i quali più di cento Americani.
Sul fronte orientale, intanto, i Tedeschi, guidati dallo Hindenburg, costringono i Russi a sgomberare
l’intera Polonia. I Franco-inglesi hanno così il tempo di riprendersi, e si impegnano in una serie di
battaglie che peraltro, senza riuscire a intaccare significativamente le linee nemiche, costano loro
circa 400000 morti complessivi, contro i 170 000 dei Tedeschi. La ritirata dei Russi concede
all’Austria-Ungheria una maggiore libertà di movimento e le consente di attaccare a fondo la
Serbia, contro la quale le campagne del 1914 hanno avuto esito alterno. È in questa situazione che
l’Italia decide il proprio intervento a fianco dell’Intesa (24 maggio 1915).
La Bulgaria, invece, interviene a fianco degli Imperi Centrali rendendo insostenibile la situazione
della Serbia, attaccata, oltre che da nord, anche dal suo fianco orientale. Invasa dal soverchiante
nemico, la Serbia riesce solo a salvare una parte dell’esercito, che viene trasportato a Corfù da navi
italiane e inglesi. Gli Imperi Centrali controllano ora un imponente blocco di territori, che si estende
senza soluzione di continuità dalle coste del Mare del Nord e dal Mar Baltico sino alla Turchia: un
enorme diaframma separa dunque le potenze occidentali dalla Russia.
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Ma, accanto a questi, sono pure per l’intervento i nazionalisti, che esaltano ideali imperialistici di
“sacro egoismo” e di potenza; essi credono nel valore taumaturgico della guerra e la considerano un
bene in sé stessa. Tant’è vero che, dopo aver inclinato in un primo tempo per l’intervento accanto ai
nostri alleati della Triplice, passano con estrema disinvoltura a farsi entusiasti sostenitori
dell’intervento accanto all’Intesa.
Ultima recluta del più acceso interventismo è anche Benito Mussolini, che ancora nel settembre
1914, come direttore dell’Avanti! ed esponente dell’ala rivoluzionaria del Partito socialista, ha
confermato la sua irriducibile avversione alla guerra, “forma estrema, perché coatta, della
collaborazione di classe, annientamento dell’autonomia individuale e della libertà di pensiero”; ma
che già nel novembre dello stesso anno, facendosi espellere dal Partito socialista, prende a
pubblicare II Popolo d’Italia e si fa promotore e divulgatore di miti giovanilistici e nazional-
rivoluzionari: per lui la guerra è l’evento tragico dal quale si potrà derivare una rivoluzione. Tesi
interventiste “rivoluzionarie” sostengono anche gli anarco-sindacalisti, guidati da Arturo
Labriola, già ardente sostenitore della campagna libica.
Non meno composito è lo schieramento dei neutralisti. Per i socialisti il neutralismo è una
questione di principio; mentre, come abbiamo visto, gli altri partiti socialisti della Seconda
Internazionale venivano meno ai loro solenni impegni e appoggiavano i rispettivi governi
partecipando alle “unioni sacre”, i socialisti italiani tenevano fede alla propria ostilità alla guerra,
considerata come un affare esclusivamente borghese e capitalistico. Una volta dichiarata la guerra,
essi si ridussero però ad adottare il motto “né aderire, né sabotare” che, per un verso, risultava
impraticabile data la perentorietà dell’alternativa reale, per l’altro li esponeva all’accusa d’essere
estranei e indifferenti agli interessi della nazione. Altro fautore del neutralismo fu Giolitti che
aveva ancora un’importante autorevolezza malgrado non fosse più primo ministro.
Mentre si svolgono queste polemiche fra gli opposti schieramenti, il governo Salandra, nel quale il
ministero degli esteri è occupato da Sidney Sonnino, tentate inutilmente le trattative con l’Austria,
si risolve (marzo 1915) a prendere contatti con l’Intesa, e il 26 aprile conclude con gli Alleati il
patto segreto di Londra, che impegna l’Italia ad intervenire entro un mese contro gli Imperi
Centrali dietro la promessa del Trentino e del Sud-Tirolo, dell’Istria, esclusa Fiume, e della
Dalmazia. Il patto prevede anche l’annessione definitiva del Dodecaneso ed eventuali compensi in
Adalia (Turchia meridionale) “in caso di spartizione totale o parziale della Turchia”, nonché
“qualche equo compenso coloniale nel caso che la Francia e la Gran Bretagna aumentassero i loro
domini coloniali d’Africa a spese della Germania”.
Col patto di Londra, ispirato a una concezione nazionalistica che non lasciava alcun spazio alle
esigenze dell’interventismo democratico, l’ingresso dell’Italia nella guerra era praticamente deciso,
cosicché la lotta finale fra interventisti e neutralisti, svoltasi nel maggio seguente, era già
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pregiudicata in favore dei primi e doveva solo servire a dar veste “popolare” al fatto compiuto. Essa
fu connotata da una vasta attività di piazza, mobilitazione reazionaria delle masse popolari.
Ben diversa rimaneva l’opinione prevalente dei parlamentari, che in gran numero espressero la loro
solidarietà al leader liberale del neutralismo, Giolitti. Il Salandra, sentendosi virtualmente battuto,
rassegnò allora le sue dimissioni, che il re peraltro respinse, mentre Giolitti – convintosi che le
decisioni fossero già state prese – abbandonava la lotta e si ritirava nella sua residenza di Cavour.
Stroncate così anche le ultime speranze dei neutralisti, nella seduta del 20 maggio la Camera, dopo
essere stata informata delle nostre vane trattative con l’Austria, si rassegnò a votare per l’intervento,
con l’unica eccezione dei socialisti.
Troppe volte è stato detto che la maggioranza parlamentare neutralistica non interpretava le
esigenze più profonde della nazione, le quali si sarebbero invece espresse nelle dimostrazioni
interventistiche del radioso maggio del 1915; in realtà il clima nel quale avvenne le deliberazione
dell’intervento e le modalità con cui fu stipulato il patto di Londra (rimasto segreto fino al 1918)
furono una prima lacerazione delle istituzioni liberal-democratiche borghesi, perché il Parlamento
dovette ratificare – sotto la pressione della piazza – una decisione già presa dal governo e dal re.
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sfondare in tal punto e di far così retrocedere tutti il nostro fronte, avanzato ad oriente fino
all’Isonzo. Il piano non consegue peraltro i previsti risultati strategici, e la stessa avanzata austriaca
sull’altopiano di Asiago viene neutralizzata da una nostra controffensiva che permette il recupero di
quei territori.
Per la Strafexpedition l’Austria ha dovuto distrarre delle truppe dal fronte orientale, il che facilita
ora una vittoriosa offensiva russa, condotta dal generale Brusilov, che sfonda nella Polonia
meridionale e rientra in Bucovina e Galizia. Anche sul fronte occidentale gli Alleati, dopo
l’offensiva tedesca di Verdun, passano alla controffensiva con la battaglia della Somme (luglio),
nella quale vengono impiegati per la prima volta i carri armati. Ma essa fallisce, com’era fallita
quella del nemico, e le perdite sono anche più gravi: circa 700000 caduti fra gli Alleati, circa
500000 fra i Tedeschi.
Nel corso del 1916 si combatte anche l’unica vera e propria battaglia navale di tutta la guerra: la
battaglia dello Jütland (31 maggio). La flotta tedesca d’alto mare incontra e attacca una squadra di
incrociatori inglesi presso lo Skagerrak, a occidente della penisola di Jütland, e infligge a gli
avversari perdite assai maggiori di quelle subite, ma deve ritirarsi quando sopravviene il grosso
della flotta inglese. Paradossalmente questo episodio, che in sostanza fu una vittoria tedesca, si
risolse in un durevole e decisivo successo della flotta britannica, dato che in seguito i tedeschi non
osarono più contestarle il pieno e incontrastato dominio dei mari.
In Italia intanto entrò in crisi nel giugno il ministero Salandra, considerato corresponsabile dei
pericoli corsi dal nostro fronte durante la Strafexpedition e accusato di aver dato al nostro intervento
un significato troppo angusto e restrittivo (basti pensare che la guerra era stata dichiarata alla sola
Austria). Al Salandra succedette il Boselli che, conservando agli esteri il Sonnino, formò un
ministero più ampiamente rappresentativo dell’unità nazionale, si preoccupò di realizzare più
cordiali e coordinati rapporti con gli Alleati e, per togliere ogni motivo di riserva e di diffidenza nei
nostri confronti, dichiarò formalmente la guerra anche alla Germania (28 agosto).
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costrette al razionamento dei generi di prima necessità e scarseggianti di alcune materie prime
indispensabili alla produzione bellica, come il rame e il caucciù. Il blocco economico, tanto più
dopo l’incidente del Lusitania, agisce a senso unico in loro sfavore e fa sentire i suoi progressivi
effetti di soffocamento.
In queste condizioni, già nel dicembre del 1916 le potenze centrali, chiedendo la mediazione del
presidente degli Stati Uniti, Wilson, avanzano generiche proposte di pace. Nel gennaio del 1917,
comunque, l’“offensiva di pace”, che gli Austro-tedeschi conducono senza o offrire alla controparte
neppure lo sgombero del Belgio e dei territori francesi occupati, viene nettamente respinta.
Lo stato maggiore tedesco, che è ora comandato dallo Hindenburg, prende all’inizio dell’anno la
decisione gravissima di rilanciare la guerra sottomarina senza limitazioni, con la speranza di
ridurre alla fame l’Inghilterra nel giro di sei mesi. Le potenze neutrali vengono pertanto avvertite
(31 gennaio 1917) che le navi mercantili di qualunque nazionalità, sorprese nelle zone di guerra,
saranno immediatamente affondate senza preavviso. Com’era da prevedere, la risposta degli Stati
Uniti, sempre più interessati alla vittoria dell’Intesa cui avevano concesso ingentissimi prestiti, fu
immediata: già il 3 febbraio essi ruppero le relazioni diplomatiche con la Germania, invitando
anche gli altri stati neutrali a seguire il loro esempio, e il 5 aprile dichiararono la guerra. Così il
bilancio dell’operazione, malgrado l’enorme incremento del naviglio affondato dai sommergibili
tedeschi, diventava disastroso: contro il risultato di costringere l’Inghilterra ad un contenimento dei
consumi, gli Imperi Centrali si caricavano dell’insostenibile peso degli Stati Uniti. Questi, se per il
momento non potevano incidere sulle sorti della guerra nello scacchiere europeo, rendevano
immediatamente impensabile una vittoria finale degli Austro-tedeschi.
Particolarmente drammatiche sono in questa fase della guerra anche le vicende italiane. Il
proletariato industriale torinese alimenta una sommossa (22 – 25 agosto) che nata dallo stato di
disagio determinato dal calo dei salari reali e dalla temporanea chiusura delle fornerie per mancanza
dei rifornimenti di farina, assume immediatamente il carattere di protesta contro la prosecuzione
della guerra. L’insurrezione viene sedata dall’intervento di reparti dell’esercito e costa ai ribelli
parecchie decine di morti e centinaia di arresti.
Sull’alto Isonzo – dopo che il nostro esercito fra l’agosto e il settembre è riuscito a caro prezzo ad
occupare l’altopiano della Bainsizza – gli Austro-tedeschi sferrarono una massiccia offensiva,
riescono a sfondare le nostre linee a Caporetto (24 - 27 ottobre) e, minacciando di isolare le
truppe scaglionate sul fronte
giuliano, costringono il nostro
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esercito ad una precipitosa ritirata che si trasforma in una vera e propria rotta e determina lo
sbandamento di interi reparti. Tuttavia sotto la protezione di validi reparti di retroguardia, l’esercito
riuscì a schierarsi dietro il medio e il basso Piave e sul massiccio del Grappa fra Piave e Brenta.
In conseguenza del gravissimo rischio superato, che fu sul punto di tramutarsi in un completo
disastro, il governo Boselli entrò in crisi e fu sostituito da un nuovo governo di unità nazionale,
presieduto da Vittorio Emanuele Orlando, nel quale ancora una volta il ministero degli esteri
rimase affidato al Sonnino. Il Cadorna — che per il suo eccessivo autoritarismo e per la sua
incapacità di ridurre al minimo le perdite e di tener conto del morale della truppa era considerato fra
i maggiori responsabili della rotta di Caporetto — fu destituito e dovette cedere il comando
supremo a generale Armando Diaz.
Mentre in Francia e in ligia si manifestavano pericolosi sintomi di crisi e di sbandamento, in Russia
il regime autocratico dello zar andava incontro a completa rovina, attraverso vicende cui per ora
accenniamo solo in riferimento alla guerra riservandoci di trattarne diffusamente più avanti (vedi
capitolo 11. La rivoluzione di ottobre).
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Sotto la pressione esterna va intanto crescendo la ribellione contro l’Impero austro-ungarico delle
nazionalità oppresse, che reclamano ormai la propria completa indipendenza. Lo sfacelo
dell’Austria viene accelerato dalla vittoriosa offensiva italiana di Vittorio Veneto (22 ottobre-3
novembre), che dissolve l’esercito nemico. Il 4 novembre l’Austria firma l’armistizio di Villa
Giusti; ma è chiaro che tale armistizio non segna solo la fine delle operazioni militari, quando
piuttosto l’atto di morte dell’Impero asburgico, che si dissolve nelle singole nazioni fino allora in
esso incorporate.
Anche in Germania la crisi socio-politica è evidente: l’esercito, pur retrocedendo, continua a
resistere, ma la flotta è in rivolta; Brema, Amburgo e Lubecca sono nelle mani dei marinai e
degli operai; in Baviera viene proclamata la repubblica; una frazione dei socialisti,
organizzata da Karl Liebknecht e da Rosa Luxemburg nella Spartakusbund (Lega di
Spartaco, significativamente intitolata al nome del condottiero della più grande rivolta servile
contro Roma), ‘si muove nella stessa direzione dei bolscevichi russi e tenta di derivare dal
fallimento della vecchia classe dirigente una rivoluzione proletaria.
Il 30 settembre il Kaiser Guglielmo II promette al popolo ampie riforme democratiche e chiede pace
al presidente degli Stati Uniti. Ma è ormai troppo tardi perché la monarchia possa separare le
proprie responsabilità e perché la guerra possa concludersi con una pace contrattata. Il regime viene
travolto nella sconfitta e, quando il 9 novembre Guglielmo II abdica e si rifugia in Olanda, non fa
che prendere atto di una trasformazione già consumata. La Germania è ormai una repubblica, e
saranno i suoi delegati che l’11 novembre, presso Compiègne, firmeranno l’armistizio con i
rappresentanti dell’Intesa, ponendo termine al più che quadriennale conflitto.
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Per tener alto il morale delle truppe si è spesso promesso ai soldati che, finita la guerra, si sarebbe
proceduto ad un’energica azione di riforma in favore delle classi popolari (in Italia, per esempio,
dopo Caporetto si è parlato di “partecipazione degli operai agli utili delle società per azioni” e di
distribuzione di terre ai contadini). E queste promesse — difficili da mantenere nella situazione
postbellica e comunque fatte per pura demagogia — hanno creato aspettative atte ad alimentare
il conflitto di classe. Tanto più che la guerra ha trascinato nella vita politica anche masse popolari
che, per le loro condizioni economiche, ne erano rimaste fino allora ai margini.
La chiamata alle armi di intere classi ha costretto ad impiegare personale femminile anche in
funzioni tradizionalmente riservate agli uomini, sicché le donne, pur nella peggiore delle
circostanze, vanno acquisendo più chiara consapevolezza del proprio valore e compiono un
passo avanti sulla via della propria emancipazione (in Inghilterra, per esempio, conquistano il diritto
di voto nel gennaio del 1918).
In tutti i paesi gli interventi delle autorità statali nella vita civile, politica ed economica si sono fatti
più pressanti. Durante la guerra la stampa è stata assoggettata a censura preventiva, e spesso la lotta
contro il disfattismo è diventata pretesto per soffocare ogni libertà di critica. Persino in Inghilterra
l’aumento dello sforzo bellico ha portato «a un deciso risveglio dell’attività governativa, cosicché
verso la fine del 1917 pochi erano i settori della vita pubblica, e perfino privata, non ancora
interessati da provvedimenti legislativi. Le ferrovie, l’industria del carbone e i cantieri navali, per
esempio, passarono sotto il controllo diretto dello stato, più di 200 fabbriche vennero nazionalizzate
e 9/10 delle merci di importazione furono acquistate direttamente dallo stato... Il neologismo "fronte
interno" ben suggerisce la portata della partecipazione civile alla guerra... Le necessità della guerra
influenzarono quasi ogni atto della vita civile: l’ora legale e la limitazione dell’orario d’apertura
degli esercizi pubblici sono da catalogare tra i lasciti della guerra. Le tendenze generali più signifi-
cative agirono nel senso del rafforzamento dell’organismo statale centrale, dell’allargamento
dell’attività governativa tramite la creazione di nuovi ministeri, e dell’imposizione di controlli
pubblici che sarebbero stati inammissibili prima del 1914» (Brian Bond, Storia del mondo moderno,
vol. XII, Garzanti).
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interessi capitalistici, sia dalla borghesia che riteneva eccessive le possibilità legali garantite dalla
democrazia al nemico di classe.
Fin dal gennaio del 1918 il presidente americano Woodrow Wilson aveva fissato in quattordici
punti le finalità che gli Stati Uniti intendevano raggiungere con la loro partecipazione alla
guerra. Sostanzialmente egli proponeva di abolire la diplomazia segreta, di rendere libera in pace
come in guerra la navigazione sui mari, di eliminare e barriere doganali, di ridurre al minimo gli
armamenti, di risistemare (ma non di abolire) le colonie tenendo conto anche degli interessi dei
popoli assoggettati, di evacuare tutti i territori occupati durante la guerra, di consentire
l’autodeterminazione dei popoli, di ridefinire i confini d’Europa secondo le linee di divisione delle
varie nazionalità, di costituire infine una Società delle Nazioni, “fondata su convenzioni precise,
capaci di fornire garanzie reciproche di indipendenza politica ai piccoli come ai grandi stati”.
L’impostazione del Wilson era legata agli interessi di un grande paese capitalistico che non aveva
nulla da temere dalla liberalizzazione degli scambi. Come era inevitabile rimase soltanto sulla carta,
come semplice dichiarazione di buone intenzioni e propaganda.
Alla conferenza di pace apertasi a Parigi nel gennaio del 1919 furono ammessi i rappresentanti
di 27 paesi, ma in realtà, poiché le riunioni plenarie contarono assai poco, le decisioni fondamentali
furono prese dai «quattro grandi», ossia da Wilson, Lloyd George, Clemenceau e Orlando (che
peraltro si trovava in posizione subalterna). Per l’assenza della Russia bolscevica e dei
rappresentanti dei paesi sconfitti, i lavori procedettero speditamente e si conclusero in pochi mesi
con l’elaborazione del trattato di Versailles, imposto alla Germania e contemporaneamente anche
lo statuto della Società delle Nazioni (giugno 1919 – aprile 1946), del trattato di Saint-Germain,
stipulato con l’Austria (settembre 1919), del trattato di Neuilly con la Bulgaria (novembre 1919),
del trattato del Trianon con l’Ungheria (giugno 1920), del trattato di Sèvres con la Turchia (agosto
1920).
Il trattato di Versailles, dai Tedeschi giustamente ribattezzato Diktat, imponeva alla Germania: 1)
di restituire l’Alsazia e la Lorena alla Francia e di concederle per quindici anni lo sfruttamento del
bacino minerario della Saar (che allo scadere del periodo avrebbe deciso la propria sorte mediante
un plebiscito), 2) di evacuare il Belgio, 3) di cedere alla costituenda repubblica polacca e terre
abitate da popolazioni polacche o da popolazioni miste tedesco-polacche, come la Posnania, 4) di
rinunciare a tutto il suo impero coloniale, del quale si impadronivano — in Asia e nel Pacifico —
principalmente il Giappone, — in Africa —principalmente l’Inghilterra e, in misura minore, la
Francia, il Belgio e il Portogallo.
Alla Germania venne altresì imposta la riduzione delle forze armate e venne costretta a dichiararsi
unica responsabile della guerra e a impegnarsi pertanto al risarcimento di tutti i danni
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provocati dal conflitto. Questa clausola era anche praticamente ineseguibile per l’enormità delle
riparazioni (definite più tardi da una speciale commissione).
Con i trattati di Saint-Germain e del Trianon si prendeva atto della dissoluzione dell’Impero
asburgico, sulle cui rovine nascevano a Repubblica austriaca, cui si faceva divieto di unirsi alla
Germania, la Repubblica cecoslovacca, che includeva più di tre milioni di Tedeschi dei Sudeti, il
Regno di Ungheria (che non ebbe mai un re), il Regno di Iugoslavia, che riuniva ai territori della
Serbia, il Montenegro e le regioni slave già appartenenti all’Austria. Dello sfacelo asburgico si
avvantaggiava anche l’Italia, che otteneva il Trentino e l’Alto Adige, Trieste e l’Istria. Rimaneva
invece in sospeso la questione della Dalmazia, che il Patto di Londra assegnava all’Italia ma che ora
era rivendicata dalla Iugoslavia.
Nell’Europa orientale, sulle terre restituite dalla Germania, dall’Impero asburgico e dalla Russia,
nasceva la Repubblica polacca, che includeva anche l’Alta Slesia tedesca, ricca di miniere, e
otteneva uno sbocco sul Mar Baltico mediante un “corridoio” facente capo a Danzica, eretta a città
libera. Questo passaggio si insinuava però nel corpo della Germania separando dal restante territorio
tedesco la Prussia Orientale. Più a nord, sui territori che la pace di Brest-Litovsk aveva strappati alla
Russia e posti sotto il protettorato tedesco, sorgevano le repubbliche di Lituania, Lettonia, Estonia e
Finlandia.
Nella penisola balcanica, la Romania si annetteva la Transilvania; la Iugoslavia e la Grecia si
spartivano la Macedonia; la Bulgaria veniva privata di ogni sbocco sul Mar Egeo dal trattato di
Neuilly; la Turchia conservava, al di qua degli Stretti che venivano posti sotto il controllo
internazionale, la sola Costantinopoli.
Del resto il trattato di Sèvres sanciva lo smembramento all’Impero ottomano, sulle cui rovine
sorgevano i nuovi stati della Siria, della Palestina, della Transgiordania e dell’Irak. Non si trattava
però di stati indipendenti, perché la Società delle Nazioni affidò la Siria come mandato alla Francia
e gli altri paesi all’Inghilterra; e il “mandato” era una finzione giuridica, escogitata per l’occasione e
applicata anche alle colonie ex-tedesche, che comportava un rapporto di reale subordinazione.
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L'Europa dopo la Prima guerra mondiale (1919)
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