Quando nel 1917 uno sconosciuto artista dallo pseudonimo R. Mutt espose una scultura che
ironicamente altro non era che un orinatoio rovesciato, sembrò chiaro che, dopo la pioggia di
critiche e polemiche che ne seguirono, il concetto di opera d’arte stava cambiando radicalmente
dopo secoli, o addirittura millenni, di storia.
Per comprendere l’origine del fenomeno che portò il francese Marcel Duchamp a prendere una
decisione tanto ardita è necessario tornare indietro nel tempo e analizzare la svolta storica,
filosofica e artistica che ebbe inizio nell’800 e troverà l’apice del suo sviluppo nel ‘900. Dopo la
Rivoluzione francese, che da molti storici è considerata l’atto di inizio dell’800, la società mutò
radicalmente in nome degli ideali di uguaglianza, libertà e fratellanza che riecheggiavano tra le
barricate erette a Parigi. L’aristocrazia subì un duro colpo da cui non si sarebbe mai più ripresa
e la crisi della Chiesa, già iniziata a partire dalla riforma protestante di Lutero, finì per
accentuarsi.
Con la crisi dei principali committenti, il ruolo sociale dell’opera d’arte finì per mutare
radicalmente, avendo perso il tradizionale compito encomiastico e celebrativo che aveva avuto
fino al ‘700.
All’aristocrazia, ormai in inarrestabile decadenza, finì per subentrare la borghesia e i suoi valori
imprenditoriali tutti dediti al guadagno, all’accumulo sfrenato di ricchezze e capitali da
investire in un ciclo senza fine. Secondo le parole di Karl Marx, gli ideali originari della
Rivoluzione francese erano stati traditi e all’aristocrazia era subentrata una classe sociale ben
più spietata e opportunista, che non aveva alcun rispetto della dignità e del valore umano nelle
fabbriche dove si produceva a ritmi martellanti con il solo scopo di generare un capitale sempre
maggiore.
Nel clima di fermento ed esaltazione della Belle époque, le contraddizioni della società erano
molteplici e difficilmente trascurabili. La produzione in serie aveva finito per svilire il valore
artistico dell’opera d’arte in sé, che per giunta era frutto di un lavoro massacrante che
paralizzava completamente la libertà creativa di ogni individuo. Inoltre, anche il concetto di
unicità dell’arte iniziò a essere messo in discussione: gli oggetti di uso quotidiano prodotti nelle
industrie erano necessariamente tutti identici e anonimi, perché frutto del lavoro di più
persone.
Quando l’inglese William Morris fondò la Arts and Crafts Exhibition Society nel 1888, egli aveva
certamente in mente il profondo studio condotto da Karl Marx per quanto riguarda la società
borghese e le sue leggi. L’opera d’arte non poteva dare una soddisfazione intima all’individuo
che la produceva perché era frutto di un processo di alienazione, ovvero l’estraniazione che
avverte il lavoratore nei confronti di ciò che crea, del prossimo e persino della sua stessa
essenza. L’obiettivo di Morris era quello di ridare valore alla produzione industriale, con una
dichiarazione di intenti che certamente teneva presenti gli ideali socialisti del valore umano di
ogni lavoratore e dell’importanza della sua felicità.
La ditta di arredamenti che egli creò aveva inoltre l’obiettivo di rendere le opere d’arte fruibili
per il numero più grande possibile di persone, producendo oggetti dal prezzo contenuto ma di
grande valore artistico. Certamente i risultati concreti furono scarsi, ma l’idea di Morris è quella
che sta alla base di quel processo di democratizzazione dell’arte e della nascita del design che
troverà pieno sviluppo nel ‘900.
Il ‘900 si apre con la tragica esperienza della Prima guerra mondiale, che seppellirà nelle trincee
tutto l’ottimismo e la spinta verso il progresso che aveva caratterizzato la Belle époque. In
ambito artistico, la tendenza a voler rompere con un passato da dimenticare portò
all’affermazione dell’architettura razionalista, che traeva le sue origini dalle istanze dell’Art
Nouveau, ma se ne differenziava in quanto aboliva quasi del tutto il decorativismo e l’impiego
di motivi sinuosi e floreali che erano propri della prima. Ogni elemento architettonico finisce
per assumere una funzione strutturale ben precisa e le architetture diventano standardizzate,
cioè vengono impiegati elementi architettonici prodotti in serie e tutti uguali tra di loro.
Tuttavia, c’è un importante differenza tra questi due movimenti: mentre le portate
rivoluzionarie dell’Art Nouveau erano state parecchio limitate, il Bauhaus ebbe un grande
influsso in quel processo di progressiva perdita dell’unicità dell’opera d’arte. Rifacendosi
all’antica idea medievale di techné, gli artisti del Bauhaus vivevano e lavoravano insieme, in un
continuo e proficuo scambio di idee. I campi di interesse di questa scuola furono molteplici:
dalla pittura alla scultura, dall’architettura al design e alla produzione di oggetti di uso
quotidiano.
Tuttavia, le idee democratiche e socialiste del Bauhaus sarebbero morte nello scontro con il
modello totalitario e liberticida del nazismo di Adolf Hitler che, appena preso il potere nel 1933,
bollerà la scuola come “arte degenerata” insieme a tutte le Avanguardie europee e la chiuderà,
costringendo i suoi principali allievi e docenti ad espatriare negli Stati Uniti.
Nel Nuovo Continente, le idee europee circa la tecnicizzazione dell’arte si diffondono a macchia
d’olio, ma allo stesso tempo vengono distorte dal capitalismo imperante nella società. Dopo il
Secondo Conflitto mondiale, l’Europa è lacerata ed è drammaticamente divisa in due blocchi
ideologici contrapposti. Il Vecchio Continente ha perso il ruolo centrale che aveva avuto nel
passato dal punto di vista filosofico e artistico e, mentre l’Europa occidentale ha finito per
assorbire quasi del tutto lo stile e il modo di pensare americano, i paesi dell’Europa orientale
sono controllati dalle dittature comuniste che hanno ben poco di democratico e libertario.
Nel clima di tensione e diffidenza che caratterizza i lunghissimi anni della Guerra fredda (1945-
1989), il governo degli Stati Uniti tende a radicalizzare e a imporre ai paesi alleati il suo modello
capitalista e consumista, in netta opposizione a quello comunista di stampo collettivista. L’arte
viene democratizzata sempre di più e sempre più persone hanno accesso ad opere d’arte non
più uniche e irripetibili. Tuttavia, gli antichi ideali socialisti dell’Art Nouveau e del Bauhaus
vengono traditi: secondo alcuni filosofi, l’arte diventa uno strumento di controllo delle masse
nelle mani del governo e di propaganda degli ideali e del modo di vivere americano.
La Scuola neomarxista di Francoforte si è interessata, negli anni ’50-’60, del nuovo ruolo sociale
dell’arte nella società occidentale.
Secondo uno dei suoi principali teorici, Theodor Adorno, la società contemporanea può essere
definita dalla locuzione ‘industria culturale’. L’alienazione dell’individuo nella società
capitalista americana è persino più subdola di quella subita nelle fabbriche ottocentesche: il
consumatore, nelle sue scelte, crede di essere libero, ma egli non è altro che l’oggetto di un
sistema, un’industria di cui non riesce a intuirne l’esistenza. L’arte moderna, asservita al
capitalismo, omologa e appiattisce i consumatori ed è ridotta a una pura merce che condiziona
i gesti e le scelte degli individui e li addomestica. Adorno ritiene che l’arte abbia perduto la sua
originaria carica spirituale e pertanto ritiene che si debba ritornare a un’arte elitaria, difficile e
che possa essere capita da un gruppo ristretto di persone. Tale arte deve essere individuale,
anticonformista e in grado di disvelare le contraddizioni più profonde del capitalismo. A tale
proposito egli vede nella musica, specialmente quella cacofonica e straniante, lo strumento più
importante di cui dispongono gli uomini per esprimere loro stessi.
Un parere simile è quello di Herbert Marcuse, che analizza gli strumenti repressivi della società
capitalista e intuisce come alla base di una società ordinata vi sia un processo di repressione
degli istinti e delle pulsioni più intime dell’uomo. L’arte è in grado di risvegliare la creatività
non alienata dell’individuo in questo tipo di società dove vige il ‘principio di prestazione’, che
impone a ognuno di impiegare tutte le sue energie per scopi lavorativi e produttivi.
Invece, Walter Benjamin ritiene che la mercificazione dell’Arte sia un processo inevitabile e
che possa avere un impatto positivo sulla società. Nel saggio ‘L’opera d’arte nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica’ egli afferma come l’arte contemporanea abbia perso la sua ‘auraticità’,
cioè non sia più unica, ma aperta anche alle masse dopo aver perso la sua aureola. Tale processo,
iniziato con la diffusione popolare della fotografia e del cinema, può essere sfruttato per fini
educativi: un’arte politicizzata può aiutare le masse ad assumere un gusto artistico e migliorare
dunque la società capitalista senza ricorrere a rivoluzioni violente.
Più concretamente, le idee della Scuola di Francoforte (i cui membri emigrarono a New York)
trovano piena realizzazione nella Pop-Art (cioè Popular-Art), che nasce in Inghilterra ma trova
pieno sviluppo negli anni ’50-’60 in America. Il suo iniziatore, Andy Warhol, celebra il
progresso e il benessere diffuso nella società americana rappresentando i principali oggetti di
consumo popolare, dalla Coca-cola alla minestra Campbell, in forme e modi diversi, spesso
distorcendoli e rappresentandoli in serie, quasi a imitare lo stile ossessivo delle pubblicità.
Minestra in scatola Campbell's
L’analisi di Warhol mira anche a mettere in evidenza la superficialità dei consumatori, che
acquistano smodatamente un oggetto non per vera necessità, ma perché sono attratti dalle
pubblicità e dal mero aspetto esteriore di ciò che comprano.
Nel caso del Ritratto di Marilyn Monroe, per esempio, Warhol rappresenta il volto della
giovane e bellissima attrice americana con colori e sfondi sempre diversi, tanto che il
personaggio stesso tende a scomparire di fronte alla meccanica ripetizione della sua immagine.
Ciò sta a significare che, martellati dalla pubblicità della televisione, i consumatori finiscono per
non sapere nemmeno più cosa stanno acquistando e la loro identità finisce per smarrirsi in una
massa informe e generica.
Marylin Monroe