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Ovidio

Publio Ovidio Nasone nacque a Sulmona il 20 marzo del 43 a.C. Fu educato a Roma, ma non si
dedicò mai alla vita politica: si dedicò sempre all’attività letteraria. Qui si avvicinò alla cerchia di
Messalla Corvino e raggiunse già giovane grande notorietà grazie a una tragedia (Medea) e alle sue
elegie degli Amores. Successivamente pubblicò l’Ars amatoria con cui conquistò un’enorme fetta di
pubblico. Probabilmente Ovidio scelse di non assicurarsi la protezione dei potenti: nelle sue opere
giovanili sono infatti pochissimi i riferimenti alla famiglia imperiale. Al culmine del suo successo,
mentre scriveva le Metamorfosi e i Fasti, Augusto ordinò la sua relegazione (un esilio senza perdita
di beni e proprietà): fu costretto ad andare a Tomi, dove morì nel 17 o 18 d.C. (attuale Costanza in
Romania di cui si lamentò sempre per via della regione inospitale, delle guerre e del popolo che non
conosceva il latino).

Amores
È una raccolta di elegie; inizialmente in cinque libri, furono poi ridotti da Ovidio per facilitarne la
lettura. Ci restano rispettivamente 15, 19 e 15 componimenti di media lunghezza.
I motivi sono quelli tipici dell’elegia trattati con tono leggero e giocoso: il poeta innamorato che
racconta la sua relazione furtiva, l’amata, il desiderio, la gelosia, i ricordi, il paraklausithyron. Vengono
presentati personaggi e ambienti della vita quotidiana: la casa, il circo, il banchetto. La passione in
Ovidio sembra aver perso tono, essersi sfumata e fatta meno totalizzante. È l’ironia a costituire
l’elemento più tipico della sua raccolta. Egli scherza su tutte le vicende. La donna cantata è Corinna ed
è un personaggio evanescente, con un corpo incantevole ma di cui non spiccano tratti caratteriali
definiti. Anche la passione di Ovidio sembra leggera: è più un desiderio continuamente infiammato che
un sentimento drammatico. Anche l’amante poeta ha connotati meno drammatici: il poeta scherza con il
tema dell’amore e spesso rimprovera alle donne di apprezzare solo uomini ricchi e non poeti che
offrirebbero loro solo dei versi, ma con quei versi una fama duratura. Vengono rinnovate anche le
immagini dell’elegia: ad esempio la schiavitù d’amore è rappresentata tramite l’immagine della militia
amoris: il poeta elegiaco milita nelle schiere di Cupido. Ovidio gioca spesso su questa similitudine tra
soldato e poeta innamorato. Non esibisce nei suoi versi una passione autentica, ma gioca apertamente
con i meccanismi di una poesia che ha al centro l’amore e le donne. Con Ovidio non troviamo passioni,
piuttosto desiderio: egli ammette di amare il corpo di Corinna, più che i suoi sentimenti. Il patto tra gli
amanti è quindi ridotto a un semplice gioco. Ovidio sottolinea poi l’importanza degli ostacoli e dei
divieti: un amore facile ha poca attrattiva, per questo consiglia alle donne di tradire i propri mariti, di
negarsi e suscitare in loro gelosia. L’amore sensuale di Ovidio non è quello dei sentimenti costanti: una
relazione istituzionalizzata ha poche attrattive. La donna più desiderata è infatti quella di un altro:
l’adulterio è una delle condizioni ideali per fomentare il desiderio.

Ars amatoria
L’opera si articola in tre libri, dove Ovidio si assume il ruolo di magister d’erotismo, per impartire
insegnamenti sull’arte della seduzione, fondendo forma elegiaca e poesia didascalica. La struttura è
quella dell’esposizione precettistica: il mittente si rivolge in seconda persona a un destinatario
collettivo e tratta gli argomenti sistematicamente in modo da esaurirne tutti gli aspetti. Inoltre, la
tematica d’amore impone l’uso del distico elegiaco, a sfavore dell’esametro (metro della poesia
didascalica). Le situazioni-tipo non sono solo raccontate, ma elevate a oggetto di insegnamento
generale. I primi due libri sono rivolti agli uomini e trattano di come individuare e attirare nella
trappola la preda e di come praticare la relazione instaurata. Il libro III è rivolto alle donne, e
impartisce insegnamenti in parte analoghi ai primi due. Il modello tecnico che ricorre più
frequentemente è quello della caccia: gli innamorati tendono reti e trappole per catturare le prede.
L’innamorato si muove per la città come un cacciatore, cercando di individuare le prede e studiandone
le abitudini per colpire al momento giusto. L’oggetto di questa complessa operazione predatoria non è
l’amore come passione ma il sesso: l’allievo deve essere capace di farsi amare ma stando attento a non
lasciarsi coinvolgere in una relazione in cui entrino in gioco i sentimenti. L’amante ovidiano deve poter
tradire quanto vuole: il tradimento è un elemento base della società da lui descritta. Il suo mondo, spiega
non è adatto alle donne per bene ed è invece rivolto al mondo delle liberte, delle schiave e delle
cortigiane; è un mondo di amori vari, avventure furtive e adultèri. La posizione femminile nell’Ars
amatoria non è paritaria rispetto a quella dell’uomo. Le donne nei primi due libri sono viste come prede
animate dalle stesse passioni e desideri dell’uomo, soltanto che queste li tengono nascosti. Il ruolo
imposto alla donna è quello di desiderare il corteggiamento e le proposte dagli uomini. Le donne però
non sono solo vittime, ma anche predatrici e ingannatrici: al libro III infatti c’è un rovesciamento dei
ruoli, mantenendo sempre l’immagine della caccia.

Remedia amoris
Il poemetto dei Remedia amoris consta di poco più di 800 versi ed è strettamente legato all’Ars. Qui
tratta un tema poco trattato dall’elegia sempre con una finzione didascalica: se nell’Ars era stato maestro
d’amore, qui Ovidio assume il ruolo di medico che dona consigli su come guarire dalla passione
contratta: non ci si rivolge a colui che deve ingannare, ma a colui che è stato ingannato. È rivolto sia a
uomini che donne. Il poemetto è scritto sotto il segno di Apollo, protettore dei poeti e dei medici. Qui
bisogna fare tutto il contrario di ciò che si era fatto prima: bisogna allontanarsi dalla città e favorire un
ambiente tranquillo di campagna e darsi qui ad attività come la caccia e la pratica dell’amicizia. Bisogna
arrivare ad odiare chi si è amato: per farlo è necessario concentrarsi sui suoi difetti, o trasformare in
difetti quelli che erano pregi. Qui suggerisce ancora una volta la simulazione e la finzione: cominciando
a fingere di esser guariti, si guarirà davvero; qui è necessario ingannare sé stessi. A metà dell’opera sta
una difesa del carattere licenzioso della poesia elegiaca: Ovidio risponde alle accuse dei suoi detrattori
spiegando solo che si tratta di invidiosi, dato che con quel genere Ovidio aveva ottenuto grande fama;
spiega poi che, trattando temi erotici e leggeri, i suoi personaggi non possono essere quelli dell’epos.

Heroides
Si tratta di lettere inviate da donne del mito ai loro amanti. Le eroine lamentano la lontananza
dall’uomo amato: i sentimenti predominanti sono quelli dell’attesa e del timore e la richiesta è quella di
porre fine alla separazione. I motivi delle assenze sono però molto diversi: alcune restano lontane dai
loro compagni per motivi indipendenti dalla volontà di questi, altre invece sono state tradite e
abbandonate e lamentano il proprio destino. A parte la diversità delle situazioni, è comune lo spirito
con cui queste eroine si rivolgono ai loro destinatari, rivendicando i propri meriti di innamorate fedeli e
appassionate. Le eroine possono elencare una serie di meriti che le autorizzano ad attendersi una
risposta sentimentale: ma la reciprocità dell’amore è loro negata o dal destino o dalla colpa degli
uomini che voltano loro le spalle. Nonostante questo, solo in pochissimi brani l’amore ferito e la gelosia
si trasformano in risentimento e in maledizione: prevale la rievocazione del passato felice, il dolore
per il torto subito, la supplica e la speranza di superare la separazione. La forma epistolare dona un
contesto appropriato all’espressione di un lamento: le donne si rivolgono all’uomo in seconda persona
senza la necessità di una cornice narrativa. Tutti i personaggi appartengono al mito ad eccezione di
Saffo, la cui figura però presenta tratti leggendari. I motivi ricorrenti sono quelli tipici della produzione
elegiaca: fides e promesse d’amore.

Metamorfosi
Le Methamòrphoses sono l’opera più lunga di Ovidio, composta da 15 libri e introdotta da un proemio
di quattro versi. Si tratta di un poema epico, quindi in esametri, che racconta oltre 200 storie di
trasformazioni di personaggi del mito. Nel mito dice di voler narrare la storia dalle origini del mondo
fino all’età contemporanea: lo schema però è solo abbozzato, poiché tratta nel primo libro della
creazione dell’universo e delle prime fasi dell’umanità, e nell’ultimo le vicende dalla guerra di
Troia a Numa Pompilio, con un’ultima proiezione verso il presente in cui si tratta la divinizzazione
di Cesare da parte di Augusto.
A tenere questa enorme massa di racconti sembra restare quasi soltanto il particolare comune della
trasformazione subita dai protagonisti: è come trovarsi di fronte ad un mosaico di novelle che non
hanno struttura ma procedono tramite uno slancio narrativo che richiede una lettura continua. Questo è
percepibile anche nella suddivisione dei libri che non sono unità autonome, ma spesso l’ultima storia di
un libro si interrompe bruscamente per continuare subito in quello successivo. Questo dà l’idea di un
flusso continuo. Le storie si incastrano l’una nell’altra e il lettore si smarrisce in questo labirinto. I
passaggi da una storia all’altra sono spesso bruschi e talvolta forzati, ma quello che conta è la loro
continuità e i richiami, le anticipazioni e le corrispondenze che vi si trovano. Regolare il susseguirsi
delle storie non è un principio cronologico ma una varietà di espedienti retorici che associano le
varie vicende secondo diverse prospettive.
Nell’opera di Ovidio compare Pitagora: egli è una figura importante in virtù della sua teoria della
metempsicosi che prospetta un principio universale secondo cui ogni forma di vita non perisce, ma
rifluisce incessantemente in una forma nuova, mutando. Questo principio di persistenza lo si adotta
anche nella visione della sua stessa poesia nel finale. Il libro termina infatti con la parola vivam, cioè
“vivrò”. Questo poema si inserisce in maniera particolare nel genere epico. Riprende i toni dell’epica
tradizionale, la leggerezza dell’epillio, il virtuosismo della poesia didascalica e i toni patetici dell’elegia
d’amore. Autori che in precedenza avevano dato spazio al tema della metamorfosi sono Cinna
(Zmyrna), Calvo (Io), Cornificio (Glauco), Omero e Callimaco, Nicandro, Ennio, Lucrezio e Virgilio.
L’influenza di questi modelli si alterna nel testo creando un poema che sperimenta una poesia a metà
tra epica ed elegia e che, in alcuni dialoghi e monologhi, presenta anche un’espressività teatrale. Anche
nell’uso del mito Ovidio mostra aspetti di grande originalità: i personaggi sono quelli del mito classico,
ma si incontrano spesso anche personificazioni di concetti astratti. I principi che segue Ovidio nella
scelta dei miti sono innanzitutto l’individuazione di intrecci che prevedono una trasformazione, e poi
vicende con un’alta carica patetica. Grande rilievo hanno le storie di amori impossibili o infelici, tipici
temi elegiaci. Tuttavia non si può dire che nelle Metamorfosi prevalga la dimensione tragica della
sofferenza: spesso usa un tono distaccato, a volte addirittura ironico, tanto che i racconti si presentano a
volte come puri racconti fantastici che non commuovono, ma divertono e stupiscono. I risultati più
sorprendenti di Ovidio si trovano però nelle descrizioni delle metamorfosi, realizzata perfettamente
sia negli aspetti spettacolari della trasformazione, sia nei risvolti psicologici. Coglie perfettamente il
punto in cui natura umana e natura vegetale/animale iniziano a confondersi, e rappresenta vividamente il
momento in cui il protagonista inizia a percepire il mutamento, solitamente tramite l’impossibilità di
muoversi o comunicare. Ovidio è dotato di una straordinaria facilità di espressione; spesso gioca con la
ripetizione di una parola o di un concetto, di cui viene variato il significato o il valore sintattico.

Fasti
In quest’opera Ovidio torna alla poesia elegiaca, non più d’amore, ma eziologica. Qui parla infatti
del calendario romano e dell’origine di feste, riti, ricorrenze e sull’etimologia di nomi, mesi e
luoghi. Riprende così la tradizione di Callimaco. Questo approccio etimologico fa pensare
all’utilizzo di materiale documentario di fonti storiche (Livio) ed erudite (Varrone); si precisi che
l’opera non ha alcuno scopo erudito e che l’erudizione è voluta dal genere scelto. Dei Fasti ci sono
arrivati sei libri, uno per ogni mese (da gennaio a giugno), e Ovidio spiega che aveva scritto anche altri
libri ma che la condanna non gli aveva permesso di portare a termine il progetto. Dei libri VII XII non ci
resta niente. Nei libri rimasti ci sono alcuni riferimenti ad eventi dell’esilio che lasciano quindi
trasparire una rielaborazione dell’opera a Tomi.
Ovidio passa in rassegna le feste e in genere le ricorrenze mese per mese, raccontando non solo le
origini di queste ma anche l’avvicendarsi delle stagioni e il perché della fondazione dei riti e degli
edifici. La ricerca delle origini è inscenata in vari modi: alcune cose dice di averle lette lui stesso dagli
antichi fasti, altre dice di averle ricevute dalle Muse o durante un dialogo con qualche divinità che lo
istruisce a riguardo. Le scene riportano alle antiche leggende di Roma e all’età mitica di Dei ed eroi:
Giano, Enea, Giunone, Romolo e Remo, Ercole, Marte. Sono presenti delle lunghe digressioni che
rivelano il piacere della narrazione mitologica e dell’incastro di storie diverse, che ricorda molto le
Metamorfosi. Anche sul piano linguistico la ricerca delle cause viene svolta con un gusto ricercato e
ironico per le etimologie che favoriscono la creazione di racconti. Il calendario romano offre molte
occasioni narrative nuove rispetto a quelle consuete del mito: spesso racconta episodi a metà tra storia e
leggenda che spesso si trovano nei primi libri dell’opera dello storico Livio (un esempio è il racconto
sulla cerimonia del regifugium). Ruolo importante ha anche l’astronomia: il tempo è illustrato tramite le
costellazioni che si avvicendano nel cielo. Anche in questi casi vengono evocate situazioni del mito,
poiché nelle varie costellazioni si conserverebbe l’immagine della
trasformazione in astri di celebri personaggi mitologici.

Tristia
Nelle due raccolte di poesie scritte dall’esilio Ovidio utilizza la forma elegiaca con una funzione di
“poesia di lamento”: nostalgia, infelicità causata dalla sventura e la speranza di placare l’ira
dell’imperatore. La sua disgrazia più grande è infatti quella dell’episodio che ha suscitato la collera
di Augusto, paragonata all’ira di Giove; non ci spiega che cosa sia successo, ma anzi dice più volte
di non poterlo fare. Questo episodio inoltre non viene ritenuto da Ovidio una vera e propria colpa,
piuttosto una leggerezza. Risponde poi alle critiche fatte all’Ars amatoria e dice che probabilmente la
licenziosità che trapela da quell’opera (che però non appartiene all’autore) è tra le cause della sua
relegazione; tuttavia, nonostante i guai che questo gli ha procurato, non ripudia mai ciò che ha scritto.
La prima raccolta, i Tristia, è in cinque libri. Nel primo libro (11 elegie) racconta il lungo e pericoloso
viaggio per arrivare nel Ponto. Il secondo, composto da un solo componimento di 578 versi, giustifica la
scelta del genere elegiaco. Negli altri tre stanno elegie che appartengono ai primi tre anni di permanenza
a Tomi, in cui il numero di temi è limitato e in genere connessi alla condizione dell’esilio. È
particolarmente interessante la lunga elegia dedicata ad Augusto che costituisce il libro II, dove difende
le proprie scelte e invoca clemenza all’imperatore. Si difende rileggendo “in chiave di adulterio” la
poesia passata, non limitandosi però solo ad esempi della poesia d’amore, ma trovando esempi di
adulterio anche le opere dell’epica e della tragedia, ma soprattutto nella poesia augustea dell’Eneide.
Quindi la sua opera non aveva lo scopo di istigare al tradimento, ma era un puro divertimento leggero e
giocoso. Ovidio invita a distinguere la vita verecunda (rispettabile) dalla Musa iocosa (ispirazione
scherzosa). Spiega ancora nella sua difesa che la sua opera non era rivolta alle matrone, ma a liberte e
prostitute. Descrive poi il suo stato di infelicità come un cumulo di sventure: vive lontano dalla patria, in
un luogo ai confini dell’impero tra le genti di un popolo che non conosce la sua lingua e la sua civiltà;
ha nostalgia soprattutto della moglie ma anche degli amici. La scrittura diventa una forma mediata di
comunicazione con un mondo lontano; essa ha per Ovidio una funzione consolatoria: anche se non
promette alcuna forma di successo lo aiuta ad attutire il dolore per la disgrazia. Pervade tutta la poesia
dell’esilio il tema della morte, ma non tanto la morte reale, vista piuttosto come una forma di
liberazione, quanto la morte figurata dell’esilio, che costringe il suo ingenium ad aggirarsi tra i barbari
come tra le anime dell’oltretomba. Sono i versi, come vere e proprie imagines, possono conservare la
memoria di lui.

Epistulae ex ponto
Nei quattro libri delle Epistulae ex Ponto, scritte dal quarto anno di esilio in poi, gli spunti tematci
sono sempre più o meno come quelli dei Tristia. Nei Tristia erano regolarmente taciuti i nomi dei
destinatari mentre ora sono generalmente presenti e si tratta per lo più di personaggi con interessi
letterari se non addirittura poeti; Ovidio fa leva proprio su questa passione comune e dà loro
suggerimenti su come chiedere la grazia all’imperatore. Alla morte di Augusto sarà poi lodato
Germanico, principe con grandi interessi letterari. Sullo sfondo di questa poesia si nota una
sensazione di inerzia e impedimento: i primi due libri sono ripetitivi e le forme e i temi diventano
sempre più rigidi. Ovidio stesso dice che la sua scrittura è diventata sciatta e svogliata e questo è
dovuto al fatto che in una regione senza cultura è normale che l’ingenium deperisca. Cambia però
l’atteggiamento nei confronti del popolo che lo ospita: Ovidio limita l’inospitalità alla regione e
non all’intero popolo. Questa riconciliazione col popolo è anche il segno della perdita dell’identità
romana: nell’esilio a Tomi la sua poesia latina rischia di diventare inutile. Confesserà anche di
essere diventato un “poeta getico” (non sappiamo se questo sia vero) componendo versi in quella
lingua. In generale, questa immagine dell’”imbarbarimento” di Ovidio ferma efficacemente il
distacco dal proprio mondo e il proprio insopprimibile istinto alla comunicazione.

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