Il verismo è la traduzione italiana di quel fenomeno artistico culturale e letterario che si stava
espandendo in Francia sotto il nome di Naturalismo, nella seconda metà dell’800.
Il primo aspetto dell’atteggiamento verista è: l’eclissi dell’autore, rappresentato dal verista Luigi
Capuana (la storia deve sembrare essersi fatta da sé).
Il secondo è: l’impersonalità, in cui il narratore nel registrare i fatti si colloca in una dimensione
superiore. Il narratore non è l’autore, la storia sembra infatti raccontata da un personaggio indefinito
di cui non emerge il nome, una sorta di vox populi che assume lo stesso punto di vista dei
personaggi.
il terzo è la regressione, in cui il narratore regredisce dando vita ad un punto di vista altro dal
proprio, che è quello dei personaggi.
il quarto è lo straniamento, in cui il poeta si aliena dal sistema di valori di cui è intriso, portando
avanti un sistema di valori estraneo al proprio modus vivendi.
E l’ultimo è il linguaggio mimetico, dove l’autore scende nel nucleo sociale nel quale si ambienta
la vicenda, vestendo la pelle dei personaggi.
Il verismo si distacca completamente dal romanticismo e dalla letteratura classica ed è rappresentato
da Giovanni Verga, Federico de Roberti e Luigi Capuana.
Con il Naturalismo condivide la scelta tematica di rappresentare nelle loro opere la condizione di
tutte le classi sociali, anche quelle misere e degradate degli strati più bassi, e accolsero dai francesi
anche l’innovazione stilistica della narrazione impersonale e dell’invisibilità dell’autore.
Tuttavia rifiutano sia l’ottimistica fiducia nella scienza, sia l’idea che la letteratura possa essere
non soltanto uno strumento di osservazione, ma anche un’occasione di intervento attivo sulla
realtà allo scopo di migliorarla.
GIOVANNI VERGA:
Giovanni Verga nasce a Catania da una famiglia di origini nobiliari e dopo aver ricevuto una
formazione piuttosto sommaria da parte di maestri privati, si iscrive alla facoltà di giurisprudenza,
che abbandonerà appena tre anni dopo per dedicarsi all’attività letteraria.
Verga inizia l’attività di scrittore con storie romantiche e di ambientazione mondana che
presentano il tradizionale narratore esterno onnisciente, ma l’incontro con la letteratura di Emile
Zola determinerà un cambiamento radicale nel suo modo di scrivere, che a partire dal 1878 si
ispirerà al verismo. Secondo Verga lo scrittore deve adottare un metodo scientifico, documentando
il vero senza giudicarlo: deve cioè eclissarsi assumendo il punto di vista dei personaggi e
dell’ambiente rappresentati.
I protagonisti delle sue opere sono spesso individui eccezionali, dalle caratteristiche anomale che li
rendono disprezzati ed emarginati dalla comunità, ricordiamo Nedda o Rossomalpelo.
La voce narrante non esprime alcuna pietà nei loro confronti ma ciò non impedisce il
coinvolgimento emotivo del lettore.
A fornire maggiore ispirazione allo scrittore è proprio la sua terra natale: la Sicilia.
Verga ha una visione pessimistica sia dell’uomo che della società, è infatti convinto che il motore
di ogni rapporto umano si trovi nel concetto di utilità, e che il progresso non arrechi alcun beneficio
all’umanità.
Per realizzare compiutamente l’obiettivo dell’impersonalità proprio dello stile verista, Verga riduce
sensibilmente le descrizioni dell’ambiente, non introduce quasi per niente i personaggi lasciandoli
entrare in scena direttamente e utilizza una lingua adeguata all’ambiente e ai personaggi
rappresentati.
ROSSO MALPELO:
Rosso Malpelo è un ragazzo che lavora in una miniera. È disprezzato da tutti, anche dalla madre e
dalla sorella, che si disinteressano di lui a causa del suo colore di capelli attribuito al demonio.
Il padre, mastro Misciu, muore nella miniera per un crollo, il Ranocchio, un ragazzo che lavora
con Malpelo, morirà di una malattia respiratoria.
Rimasto completamente solo, Malpelo non si oppone quando il padrone lo manda a esplorare un
cunicolo sconosciuto, vi si perde e non fa più ritorno.
Nella novella l’autore ha scelto di rimanere invisibile e di lasciare la parola a un narratore
popolare costituito da coloro che conoscono Malpelo ed esprimono su di lui un giudizio negativo,
che per il corso di tutta la novella non cambierà mai.
Malpelo vive in una condizione di sfruttamento e abbandono: lavora tutta la settimana in miniera
e torna a casa soltanto il sabato; la madre e la sorella credono che rubi il denaro della paga e per
questo lo picchiano, benché il loro sospetto si riveli infondato; alla miniera malpelo mangia un pane
rinsecchito e sta da solo perché i compagni lo deridono e lo maltrattano.
Questo basta al lettore per prendere le distanze dal giudizio avverso della voce narrante e osservare
con benevolenza il destino del ragazzo. Dunque Verga, senza mai esprimere apertamente pietà, la
fa vedere e sentire dall’interno.
Nonostante i numerosi soprusi Malpelo non si ribella, e si adegua all’immagine negativa che tutti
gli restituiscono, identificandosi con il destino del “grigio” l’asino della miniera che pur essendo
sfruttato fino allo stremo e bastonato ripetutamente non si rivolta mai. Quando l’asino morirà
Malpelo andrà spesso ad osservare il suo corpo mangiato dai cani, che viene da lui visto come la
fine di ogni male patito sulla terra e ne ricava la consolazione che prima o poi questa cessazione del
dolore toccherà anche a lui.
Nei confronti di Ranocchio Malpelo sembra violento, ma si capisce che il suo scopo è protettivo:
convinto che nella vita sopravviva soltanto il più forte, egli lo picchia perché impari a difendersi.
per aiutarlo a guarire è disposto a privarsi dei soldi della paga e a cedergli addirittura i calzoni di
suo padre morto a cui tanto era affezionato.
Malpelo è talmente estraneo all’affetto familiare che quando Ranocchio è in punto di morte gli
chiede come mai sua madre pianga per lui, visto che “da due mesi ei non guadagnava nemmeno
quel che si mangiava”.
Abituato a vivere nel sottosuolo, Malpelo percepisce se stesso come una creatura della terra e
del buio. Egli è certo di non poter aspirare a una vita alla luce del sole perché nessuno può sfuggire
alla condizione in cui nasce. A Malpelo non è concesso alcun riscatto, nemmeno dopo la morte.
La conclusione della novella conferma anzi la sua immutata esclusione, generata ora dal timore che
egli possa riemergere dalle profondità della terra a cui è sempre appartenuto.
Nel testo troviamo anche un uso ironico del linguaggio ed uno allegorico dell’animale: Il bambino è
una bestia, un cane rognoso.
LA LUPA:
La lupa è ambientata in un piccolo paese in Sicilia. La protagonista è Gnà Pina, che viene
soprannominata dalla comunità “la Lupa” a causa del suo comportamento e del suo fisico molto
sensuale. Le altre donne del paese osservano la lupa con un misto di invidia e paura tanto che,
quando la vedono camminare da sola, arrivano a farsi il segno della croce.
La figlia della Lupa, Maricchia, ha invece un carattere dolce e sensibile e soffre di solitudine
poiché, a causa del comportamento della madre, è anche lei un'esclusa.
Un giorno la Lupa si imbatte in un giovane appena tornato dal servizio militare, Nanni.
Il ragazzo lavora come bracciante nei campi vicino alla sua abitazione ed è interessato alla figlia
della Lupa. Gnà Pina, follemente invaghita del giovane, decide di dargli in sposa la figlia a una
condizione: i ragazzi, dopo il matrimonio, si sarebbero dovuti trasferire a vivere a casa della Lupa.
Una volta trasferitasi a casa di Gnà Pina, questa proverà in tutti i modi, e con successo, a sedurre
il marito della figlia. Maricchia che alla fine si era molto affezionata al ragazzo denuncia la
madre alle forze dell'ordine che chiamano Nanni per interrogarlo: il ragazzo confessa l'adulterio e
si giustifica dicendo che la donna era per lui come una tentazione dell'inferno.
Le forze dell'ordine chiedono alla Lupa di lasciare la casa che condivide con la figlia Maricchia e
Nanni ma questa non vuol sentire ragioni. Durante il lavoro Nanni viene ferito da un mulo e
rischia la morte. Il prete, chiamato a dare l'estrema unzione al ragazzo, si rifiuta di farlo poiché
Gnà Pina è ancora all'interno dell'abitazione. La Lupa decide così di allontanarsi per un periodo
ma, al suo ritorno a casa, continua a provare a sedurre Nanni che, disperato, la uccide con la scure
in un gesto brutale ed estremo che chiude rapidamente la novella.
la Lupa è completamente aliena alla legge della “roba”, ed anzi non esita a trasgredirla e a
violarla, sacrificando la figlia, la sua dote e anche i propri averi per ottenere ciò che desidera.
LE NOVELLE RUSTICANE:
Le novelle rusticane sono una raccolta di 12 novelle ispirate alla poetica verista, di cui fanno parte
“la roba“ e “libertà“. Rappresentano la vita quotidiana più ordinaria e ripetitiva, in cui le vicende
appaiono prive di coloriture sentimentali in cui raramente si distinguono figure individuali (tranne
in pochi casi: il protagonista della roba, Mazzaró, assume infatti una statura da eroe seppur
negativo). Anche la morte viene ridotta a un fatto qualunque, di cui contano le conseguenze
economiche più che quelle affettive.
Le novelle rusticane, che si collocano proprio in mezzo ai due romanzi della serie dei vinti, ne
condividono la visione pessimistica della vita e la sfiducia nel progresso. Per garantire
l’obiettività della rappresentazione Verga si propone di applicare la tecnica dell’impersonalità,
cioè di rinunciare allo sguardo esterno del narratore per adottare un punto di vista e un linguaggio
interni all’ambiente raffigurato.
LA LIBERTÀ:
Al grido di “viva la libertà“ e armata di falce di scuri, la folla si sparge nelle strade del paese
ammazzando i possidenti che l’hanno ridotta alla servitù e alla fame.
Il giorno dopo i ribelli si ritrovano smarriti e inerti, e nessuno reagisce quando il generale arriva al
paese per riportare l’ordine. Alcuni sono immediatamente fucilati, altri vengono condotti in
prigione. Alla conclusione del processo i prigionieri sono rinchiusi definitivamente in carcere.
L’inizio della novella ci porta immediatamente dentro la scena della rivolta. Senza spiegazioni
preliminari, senza precisare il tempo e il luogo o presentare i protagonisti, Verga comincia il
racconto dal momento in cui la folla inizia ad ammazzare.
Tra la folla si distinguono poche figure, come il taglialegna, il carbonaio e il gruppo delle donne,
ma in realtà non c’è nessuno alla guida della rivolta e tutti sono trascinati da tutti.
Questa mancanza di organizzazione e di consapevolezza emerge con evidenza alla fine della rivolta.
I ribelli si ritirano vergognosi nelle loro case, cominciano a sospettare l’uno dell’altro e calcolano di
appropriarsi della terra a scapito dei compagni disonesti.
Dopo l’ebrezza del massacro ritorna l’antica rassegnazione e l’arrivo dei soldati viene osservato
con inerzia. Tutto è tornato come prima, nella prospettiva ideologica di Verga la rivoluzione non è
altro che un inutile carneficina perché nulla può mai veramente cambiare nella natura umana e
nella storia.
Il meccanismo della narrazione impedisce fin dall’inizio al lettore di identificarsi con la ferocia
della folla: l’insistenza sui particolari del massacro e l’uso di espressioni esplicite e brutali come
“sbrandellavano”, “sgozza”, “sventra”, “sfracellata” eccetera spingono chi legge a prendere le
distanze da un comportamento tanto animalesco e selvaggio. Presto però appare evidente che la
collera dei ribelli deriva da una sopraffazione secolare, più civile e mascherata, ma non meno
inumana. La gente del popolo in primo luogo ha fame. La voce che racconta il massacro, una voce
interna agli eventi che non si schiera apertamente con gli insorti ma nemmeno li condanna, insiste
molto su questo aspetto. È un istinto quasi cannibalesco quello che guida la folla contro la
baronessa, ben nutrita come tutti i padroni. La voce narrante mostra dunque il comportamento
bestiale dei popolani, ma intanto, indirettamente rivela l’ingiustizia dei possidenti.
Un esempio evidente di questo procedimento narrativo, per cui una verità affiora in modo indiretto
dalla sua apparente negazione, è il commento che segue l’uccisione del figlio del notaio. Mentre
sottolinea la momentanea ferocia del popolo, che infuria contro il sangue innocente di un ragazzo,
la voce narrante elenca le colpe ripetute e persistenti dei padroni. Alla fine della lettura si ricava
dunque l’impressione che la rivolta sia stata sì un’esplosione di collera disorganizzata e generata
unicamente dalla spinta materiale del bisogno, ma che l’ordine costituito contro cui il popolo ha
preso le armi sia gravemente colpevole, per l’ingiustizia e la sopraffazione secolare su cui è
fondato.
LA ROBA:
Quella di Mazzarò è la storia di un’ascesa sociale: un povero che diventa ricco, un misero
bracciante che si trasforma in grande proprietario terriero. Tuttavia il successo economico non si
traduce in benessere: Mazzarò vive male, logorato dall’ossessione di accumulare beni, incapace
di godere di qualsiasi piacere della vita (il cibo o i vestiti), indifferente agli affetti e
completamente solo. Spende ogni istante della sua esistenza per procurarsi la roba e quando, alla
fine della vita, Mazzaró comprende di dover lasciare tutto, non è capace di accettarlo e si dispera
inveendo come un pazzo con il bastone contro i suoi animali.
Ne deriva che il progresso non migliora la società, anzi spesso aggrava lo sfruttamento di coloro
che restano indietro e non riescono ad approfittare dei cambiamenti. Alla fine della novella si ha
l’impressione che tutti i personaggi siano infelici, Mazzarò per la sua vita di affanni, il barone
depredato da lui e i braccianti sfruttati.
Verga affida la narrazione a diverse voci e diversi punti di vista che esprimono giudizi diversi.
La rappresentazione dell’enorme ricchezza di Mazzarò è realizzata nella novella attraverso due
principali espedienti retorici: l’accumulazione e l’iperbole. La figura dell’accumulazione è
costituita da lunghi elenchi che restituiscono l’idea della quantità e dell’accumulo dei beni.
L’iperbole si ritrova invece nelle affermazioni esagerate con cui la fantasia popolare attribuisce ai
beni di Mazzarò dimensioni favolose. Due vocaboli in particolare esercitano una signoria indiscussa
nella novella, ritornando di riga riga e di pagina In pagina, si tratta della parola: roba, e del nome
Mazzarò.
I MALAVOGLIA:
Quella dei Malavoglia è una famiglia patriarcale improntata sui principi del mos maiorum. Padron
N’toni, il nonno, paragonava la famiglia alle dita di una mano di cui lui era il dito grosso che
comandava le dita piccole che non potevano far altro che obbedire.
La vicenda, ambientata in un paese siciliano subito dopo l’unità d’Italia, riguarda una famiglia di
pescatori, I Malavoglia, che va incontro alla rovina economica per aver cercato fortuna con il
commercio e aver perso un carico di merci durante una tempesta.
L’intenzione di Verga, dichiarata nella prefazione del romanzo, è quella di raffigurare in modo
veritiero gli effetti tragici che i mutamenti sociali e le ambizioni individuali generano in una
comunità di popolani. Il progresso, secondo Verga, sparge rovina come un fiume in piena.
La prima idea dei malavoglia nasce in verga subito dopo il successo della novella Nedda.
La stesura della novella procede però a rilento perché l’autore non è soddisfatto: cerca infatti una
forma stilistica più sobria e indiretta di quella di Nedda, in cui la vicenda era ancora racconta e
giudicata da una voce narrante esterna. Dopo la lettura dell’Assomoir di Zola Verga elabora la
poetica verista e decide di trasformare I Malavoglia in un romanzo.
Sul modello della serie di romanzi di Emile Zola Verga pensa a un progetto in cinque episodi e
scrivendo all’amico Salvatore Paola verdura gli preannuncia di voler rappresentare la lotta per la
vita all’interno delle diverse classi sociali attraverso cinque romanzi. Si tratta del ciclo dei vinti.
Il romanzo si rivela però un fallimento, la critica e il pubblico, infatti, rimangono delusi dalla
novità della forma narrativa e dalla lingua antiletteraria del romanzo. Tant’è che si diceva che
“l’autore non sapesse scrivere l’italiano”.
Il romanzo si apre con la presentazione della famiglia dei Malavoglia, che di padre in figlio si
tramandano il mestiere di pescatori e vivono ad Aci Trezzi , nella casa del nespolo.
Il capo famiglia e padron N’toni, che incarna i valori della tradizione. Suo figlio, Bastianazzo, ha
sposato Maruzza e dalla loro unione sono nati cinque figli: N’toni, che prende il nome del nonno e
incarna però la modernità, Mena, Luca, Alessi, che sarà depositario dei principi del nonno, e Lia.
La situazione di equilibrio iniziale viene modificata da due eventi importanti: la partenza del
giovane N’toni per la leva di mare, (quando l’uomo come un’ostrica si stacca dal proprio scoglio
va in preda ai pesci voraci. Sarà il destino di ‘Ntoni che smarrirà la retta via impartita dai famigliari)
e il naufragio della barca dei Malavoglia, la provvidenza, con la morte di Bastianazzo e la perdita
del carico di lupini.
Questo evento segnerà l’inizio della rovina della famiglia Malavoglia, che per restituire il denaro
all’usuraio del paese, lo zio crocifisso, è costretta a cedere la casa del nespolo, e via via che si andrà
avanti con il romanzo la famiglia diventerà sempre più povera ed emarginata dal paese.
Il giovane N’toni verrà addirittura condotto in carcere, e la sorella più piccola (Lia) finirà a fare la
prostituta in città.
Intorno ai malavoglia si muovono moltissimi altri personaggi, che rappresentano i principali
mestieri e ruoli sociali del paese. Ciascuno è identificato da un nomignolo che ne fissa
ironicamente una caratteristica principale, per somiglianza o per opposizione. Maruzza, la moglie di
bastianazzo, ad esempio è detta “la Longa” perché è piccola di statura.
L’ambiente del paese è ristretto e il giudizio popolare è talmente importante da condizionare i
destini individuali, Mena ad esempio deve rinunciare a sposarsi a causa del disonore gettato sulla
famiglia della condotta della sorella Lia.
Il desiderio di cambiamento e di miglioramento appare quindi nel romanzo la causa principale della
rovina dei protagonisti.
I fatti raccontati nel romanzo occupano circa 15 anni, e a quelli interni della famiglia, si affiancano
quelli esterni della politica e della storia. Come ad esempio la leva militare obbligatoria del
nuovo Stato unitario, l’epidemia di colera durante la quale morì la madre di N’toni, la costruzione
della ferrovia dove andrà a lavorare Alessi eccetera.
La storia e la modernità entrano tuttavia nel tempo del paese soltanto marginalmente e sono
percepiti come un qualcosa di lontano minaccioso ed estraneo.
Per ottenere il forte effetto di verità proprio del romanzo, Verga si avvale di due stratagemmi
principali: la modalità narrativa dal basso e la lingua mimetica, che riproduce il parlato e le
cadenze dialettali siciliane. La voce narrante dei Malavoglia è anonima e parla dall’interno come
se appartenesse a una persona del villaggio e fosse rivolta ad ascoltatori che vivono nella stessa
comunità. Questa voce esprime spesso simpatia nei confronti dei Malavoglia, ma ad essa si
mescola e si sovrappone quella dei paesani, che è maligna e pettegola ed è il lettore a doversi
districare tra la molteplicità e la contraddittorietà dei giudizi espressi, perché le voci sono collocate
tutte sullo stesso piano e nessuna risulta privilegiata.
Nel romanzo Verga attribuisce grande importanza ai proverbi che hanno la funzione di
rappresentare il modo di pensare semplice della gente del popolo, che si affida passivamente a una
saggezza tramandata e inconsapevole. A servirsene è soprattutto padron N’toni.
Gesualdo che ha già avuto due figli da una ragazza povera e senza famiglia, ha in mente di usare il
matrimonio come strumento di ascesa sociale e decide perciò di sposare Bianca Trao, una
giovane aristocratica impoverita la cui relazione con un cugino più ricco è appena stata scoperta dei
familiari.
Bianca dà alla luce Isabella, che da varie allusioni disseminate nel romanzo si comprende essere la
figlia del cugino e non di Gesualdo, che nonostante nutra dei sospetti la considera sua figlia.
Anche la ragazza come sua madre, si fa sorprendere in un amore illegittimo con un cugino e viene
costretta dal padre a un matrimonio riparatore con il duca di Leyra.
Verso la fine del romanzo Gesualdo si ammala di cancro allo stomaco e la figlia e il genero, per
controllare che prima di morire non modifichi il testamento a loro svantaggio, decidono di portarlo
a Palermo nel loro palazzo. Lí Gesualdo viene accolto in un appartamento separato, da cui può
vedere come vengono sperperati i suoi denari. Gesualdo infine muore da solo, assistito con
indifferenza da un servitore (Don Leopoldo), senza aver potuto parlare un’ultima volta con la
figlia.
I capitoli del romanzo si suddividono in quattro parti, che corrispondono sommariamente
all’ascesa di Gesualdo (prime due) e al suo declino (ultime due).
In tutto il romanzo non è presente alcuna evoluzione interiore del protagonista.
Lo stesso appellativo di Gesualdo, quel “mastro-Don” anteposto al suo nome, è la prova del
fallimento della sua ascesa sociale: egli merita il titolo onorifico di “don” poiché è divenuto un
signore, tuttavia il ricordo delle sue origine resta impresso nel epiteto “mastro”, proprio di chi
svolge un umile mestiere. Gesualdo non si evolve, cambia classe sociale ma resta sempre quello che
è. Lo spazio è quello di un paese della provincia siciliana e appare come un paesaggio duro e ostile.
Dopo aver dedicato l’intera esistenza al lavoro e all’azione, Gesualdo è costretto a sottomettersi
alla passività della malattia e a consegnare le sue ricchezze allo sperpero improduttivo della
figlia e del genero.
La narrazione di mastro Don Gesualdo è condotta attraverso la tecnica dell’impersonalità: i
personaggi esprimono punti di vista e visioni del mondo differenti senza che un commento esterno
orienti l’interpretazione del lettore. La voce narrante è anonima ma interna al racconto.
La lingua è un italiano non letterario in cui si riconoscono qua e là cadenze del dialetto siciliano.
vi è una gestualità marcata e una grande frequenza di battute di dialogo.
LA MORTE DI GESUALDO:
Gesualdo è gravemente malato e sentendosi sul punto di morire chiede al servitore Don Leopoldo
di andargli a chiamare la figlia. Tuttavia il domestico trascura la richiesta e lascia che egli muoia
da solo. Poi rimette in ordine la stanza e si intrattiene con gli altri domestici, che prima di dare
notizia al resto della famiglia si scambiano commenti e pettegolezzi.
Alla fine della sua vita Gesualdo ha costruito un enorme impero economico, ma non può contare
su alcun legame affettivo. Al momento della morte gli è accanto soltanto un domestico, distratto,
pigro, indifferente per il quale il malato è un peso insopportabile. Quando muore, Gesualdo diventa
preda dei pettegolezzi maligni dei domestici, che disprezzano la sua estraneità al sangue nobile dei
signori del palazzo: essi deridono soprattutto le sue mani grandi e callose che rivelano come un
marchio di infamia le sue origini plebee. La pagina finale del romanzo è costruita secondo la tecnica
verista dello straniamento: la scelta di presentare la drammatica morte del protagonista attraverso
il punto di vista freddo e ostile dei domestici priva la scena di ogni tono patetico, pur senza
diminuirne il valore tragico. Gesualdo che ha trattato tutto ciò che ha incontrato sul suo cammino
secondo la legge della roba, subisce ora un crudele contrappasso, e sotto lo sguardo cinico e
impietoso dei domestici si trasforma egli stesso in roba ormai di ben poco valore.
Verga nella novella adotta il principio dell’impersonalità scegliendo di narrare i fatti in modo
oggettivo, senza reinterpretazioni o giudizi personali.
Il narratore è esterno e attraverso l’utilizzo del discorso indiretto libero lascia trapelare la visione di
punti di vista differenti. Se nella raccolta “Vita dei campi” i personaggi erano quasi tutti individui
con caratteristiche e comportamenti anomali, nelle “Novelle Rusticane” raramente si distinguono
figure individuali, in questo senso però, “la Roba” si configura come un’eccezione. Mazzaró, infatti,
assume una posizione di assoluta supremazia nel testo e adotta una connotazione da eroe, seppur
negativo. La novella si apre proprio con le osservazioni di un viandante, che in un misto di stupore e
ammirazione comprende che tutto ciò che lo circonda appartiene a Mazzarò. L’ammirazione, però,
nel lettighiere si trasforma in invidia celata e da lui veniamo a conoscenza della sua storia, del suo
aspetto fisico e delle sue abitudini. Mazzarò si configura come un “omiciattolo minuto che di grasso
non aveva altro che la pancia”, dai comportamenti ossessivi dettati da continue privazioni, e dal
carattere disonesto, avaro e inumano. È indifferente alle lamentele dei suoi lavoratori, non si fa
scrupoli quando si tratta di mentire o truffare gli altri, ad esempio affittando terre improduttive, ed è
sospettoso nei confronti di chiunque. È insofferente, paranoico e rabbioso, del tutto incatenato alla
legge dell’utile, ogni suo gesto ha come fine un tornaconto personale, e la sua incredibile
determinazione, unita al duro lavoro e alla spiccata furbizia, gli ha permesso di compiere quella
tanto agognata scalata sociale, trasformandosi in un ricco possidente, da misero bracciante qual’era.
Qual è la situazione affettiva ed emotiva di Mazzarò.
Mazzarò è completamente indifferente agli affetti e l’unica cosa con cui abbia stabilito un legame
emotivo è proprio la sua roba. Non prenderà moglie e non avrà figli, non ha nipoti né parenti, è e
rimarrà completamente solo. L’unico legame che aveva era rappresentato dalla madre che però
ricorda alla stregua di un peso. Difatti appare molto più addolorato per il denaro speso per
seppellirla che per la sua effettiva morte. “Egli non aveva altro che la sua roba”.
Quale valore assume la roba per Mazzarò? l’accumulo delle proprietà risponde solamente a
un’esigenza economica o agiscono altri fattori?
Nel corso della sua vita Mazzarò sviluppa una vera e propria ossessione nei confronti della roba,
tant’è che arriva ad identificarsi in essa, rendendola la sua unica ragione di vita. Il fattore
economico conta ben poco, e neanche i titoli provocano in lui interesse, l’unica cosa di cui gli
importi davvero è accumulare quanta più roba possibile e appena “metteva insieme una certa
somma comprava subito un pezzo di terra” così da poterlo unire agli altri ed arrivare a possederne
addirittura più del re.
Mazzarò afferma di “esser stato fatto apposta per la roba” e viene talmente logorato da questa idea
che anche quando i suoi possedimenti raggiungeranno un limite invisibile all’occhio umano, non
riuscirà a godere di nessuno dei piaceri della vita, non berrà vino, non avrà donne, non fumerà
tabacco, non mangerà altro che pane e cipolla, continuerà a lavorare incessantemente nei campi e
preferirà vestirsi in feltro anziché in seta pur di risparmiare.
Vivrà una vita fatta di sofferenze e privazioni, e nonostante tutto, non raggiungerà mai la felicità.
A sottolineare il legame morboso che unisce il protagonista ai suoi beni è il continuo ripetersi
all’interno del testo del nome “Mazzarò” e del sostantivo “roba” che ricompaiono ossessivamente di
riga in riga e di pagina in pagina.
Quale valore simbolico possiamo assegnare al paesaggio? Rifletti sulla natura assolata e
soffocante dei luoghi descritti.
Dalla novella è possibile evincere come la natura assuma il valore simbolico della fatica. Il lavoro
nei campi viene descritto come una realtà atroce e insostenibile, scandita solamente dagli assurdi ed
insani turni di lavoro, dove i braccianti, a prescindere dalle eventuali condizioni climatiche avverse
e vestiti di niente, erano costretti a lavorare incessantemente con la schiena ricurva. Totalmente
asserviti ai propri padroni, pagavano con il corpo ogni singola inadempienza.
Tutta questa fatica resta però infruttuosa e neanche Mazzarò, che da bracciante è riuscito a diventare
padrone, vedrà mai la felicità. La natura è per lui l’unico vero ostacolo, perché la sola avversità che
non può ingannare con la sua furbizia è proprio la morte. Ne consegue che in un modo o nell’altro
l’uomo è sempre vittima del destino, e il tentativo di modificarlo non porta che ad altra sofferenza.
Attraverso il suo lavoro Mazzarò compie una vera scalata sociale: riassumi le tappe
principali.
La storia di Mazzarò è quella di un’ascesa sociale. Egli nasce povero, e per pietà, viene accolto a
lavorare nei campi di un barone. Lavorerà incessantemente conoscendo lo sfruttamento, la fatica e
l’umiliazione. A poco a poco, però, mettendo in gioco la sua astuzia e lavorando sempre più
duramente e in ogni condizione, comincerà ad impossessarsi di tutta la roba del barone, dall’uliveto,
alle vigne, ai pascoli, alle fattorie finanche al suo stesso palazzo ma rifiuta di acquistarne il titolo,
che non essendo “roba” non ha per lui alcun tipo di valore. Da lì comincerà ad incrementare i propri
affari, prestando denaro ai galantuomini del paese, truffando i più sciocchi, e cominciando ad
assumere personale. Il denaro guadagnato lo risparmia diligentemente, e quando risulta essere
abbastanza, lo rinveste nell’acquisto di nuove terre allargando così il suo dominio.
Quale giudizio viene espresso nei confronti degli aristocratici latifondisti, rappresentati dalla
figura del barone?
Gli aristocratici latifondisti vengono apostrofati da Mazzarò con il termine “minchioni”, a suo detto
sono infatti degli sciocchi, che con la loro ingenuità e la loro superbia non hanno dato la giusta
attenzione all’imminente ascesa di Mazzarò, permettendogli così di raggirarli, lasciandoli privi di
ogni forma di potere ad eccezione di un ormai sterile titolo. Il barone non era minimamente in grado
di gestire le terre, al contrario di Mazzarò amava essere servito e riverito alla stregua del re, vivendo
nel lusso, e questa sua predilezione per lo sfarzo, assieme alla mancanza di ingegno, avevano
portato lui e tutta la sua classe sociale alla rovina.
Analizza la conclusione della novella e valuta con riferimenti al testo se il gesto finale di
Mazzarò è tragico o comico.
Il gesto che Mazzarò compie alla fine del testo assume subito una connotazione tragica. In un misto
di disperazione e follia Mazzarò giunge finalmente a comprendere che gli affanni di una vita siano
stati per lui inutili poiché giunto a questo punto, tutta la roba che ha accumulato ha ben poco valore,
e nel più crudele dei paradossi la sua esistenza si rivela solo estremamente vuota.
Mazzarò si rifiuta di accettare questa prospettiva e perde del tutto la testa, inveisce invidioso contro
i giovani lavoratori che non hanno niente se non ciò che più lui desidera, la vita, e si scaglia contro i
propri averi invitandoli a morire con lui poiché incapace di separarsene.