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La formazione teologica /4

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14 novembre 2023

di: Giovanni Salmeri

Malgrado sia passato del tempo dalla proposta di Paolo Cattorini di ripensare i «corsi di
teologia per laici» e dai due interventi di Robero Maier e Giuseppe Guglielmi, il momento è
propizio per proseguire la discussione. In questi due mesi sono infatti avvenuti eventi
rilevanti nella Chiesa cattolica, che hanno ancor di più, mi pare, sottolineato l’urgenza del
tema.

Due eventi
Anzitutto si è svolta la prima sessione del Sinodo sulla sinodalità: benché le informazioni al
riguardo siano state decisamente minori di quanto molti desideravano e ogni commento sia
quindi necessariamente sfocato, mi pare che sia stata comune la valutazione secondo cui
ora bisognerebbe mettere in cantiere un lavoro teologico serio che né nella preparazione
né nello svolgimento è stato sufficiente. Ma in un’impresa in cui il laicato cattolico è stato,
con maggiore o minore successo, coinvolto fin dall’inizio, non significa questo porre
implicitamente il problema di una consapevolezza culturale da parte, appunto, anche dei
laici?

Il termine «laico» ha ancora in diverse lingue il vecchio significato accessorio di «profano,


ignorante» (Laie, layman): ma non è forse oggi vero che è viceversa il mondo ecclesiastico
che si trova in affanno sotto il diffuso sospetto di essere «profano, ignorante» almeno nei
confronti del mondo, e dunque verso quell’enorme sistema di linguaggi, sensibilità, valori con
cui ogni discorso teologico deve fare i conti e intrecciarsi? E inoltre: forse i laici hanno una
complessione cerebrale che impedisce loro di far direttamente teologia? (Si veda l’elenco dei
destinatari del premio Ratzinger, a cominciare dal primo, Manlio Simonetti!).

In secondo luogo, vi è stato il motu proprio del 1º novembre Ad theologiam promovendam


con cui Francesco ha approvato i nuovi Statuti della Pontificia Accademia di Teologia (Statuti
però a tutt’oggi [7 novembre] non pubblici, se non erro), contemporaneamente indicando i
contorni della sua futura attività.

Sicuramente sono giornalisticamente esagerati i commenti che hanno descritto questo testo
come la messa in opera di una rivoluzione della teologia oggi: sia perché le idee ivi proposte
sono state sostanzialmente già altre volte presentate (si veda per esempio il discorso alla
Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, centrato sui principi dell’accoglienza e del
dialogo), sia perché la Pontificia Accademia di Teologia ha la tipica configurazione di

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un’accademia scientifica, non certo quella di un organismo che indirizza le linee di riflessione
della teologia cattolica. Ciononostante, si tratta di un testo che indubbiamente invita a
pensare.

Tra teologia e pastorale


I due episodi, da versanti diversi, offrono l’occasione per qualche considerazione su una
questione che credo possa contribuire al problema dei corsi di teologia per laici e anche
della posizione della teologia nell’odierna scena culturale. Nei termini più generici possibili la
domanda è: che rapporto vi è, o vi deve essere, tra teologia e «pastorale»?

Questi termini così vaghi rischiano in realtà di essere poco utili. Questa domanda potrebbe
infatti chiedere in che misura la teologia dev’essere pensata come finalizzata, o finalizzabile,
all’azione pratica della Chiesa (dal punto di vista della predicazione, o dal punto di vista della
carità, o dal punto di vista dell’inserimento nell’ordine secolare: ulteriori sfumature diverse!).

Potrebbe però chiedere anche una cosa diversa: in che misura cioè essa assuma come
materiale di riflessione gli eventi del mondo (e magari anche l’evoluzione della cultura, delle
sensibilità, dei costumi). Potrebbe chiedere anche una cosa più pragmatica, ma non per
questo meno ricca di conseguenze: in che misura cioè il discorso teologico debba essere
guidato dalla sensibilità, dall’orientamento intellettuale e dalle scelte di priorità pratica dei
vescovi e del papa di volta in volta in carica.

Questi significati (a cui sicuramente se ne potrebbero aggiungere altri) hanno ovviamente dei
nessi, ma sono anche differenti. Forse, non sono sempre distinti con sufficiente cura. Per ora
notiamo, invece, che è privo di dubbio che all’indomani del Concilio Vaticano II una certa
svolta «pastorale» della teologia venne percepita come necessaria. Tuttavia (questa è la
prima considerazione importante che vorremmo fare) non si trattò di una svolta ovvia e priva
di contraccolpi dialettici.

Con una primissima approssimazione possiamo collocare questa svolta all’interno di quel
ressourcement che in vari campi aveva spinto a tornare alle fonti patristiche scavalcando la
penombra medievale: i Padri della Chiesa erano pastori, non studiosi «a tavolino» come i
maestri medievali. E però in questo modo viene anche scavalcato (o almeno un po’
sottostimato) esattamente quel riconoscimento – anzi: quella promozione! – dell’autonomia
della cultura che proprio il Medioevo aveva sancito.

Libertà accademica
L’Università è ovviamente l’istituzione in cui questa evoluzione è esemplare: ivi l’idea della
libertà accademica non fu una conquista della modernità contro il potere ecclesiastico, ma, al
contrario, il marchio di origine impresso dallo spirito cristiano.

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Se cerchiamo un punto di inizio simbolico e anche reale, esso viene offerto ottimamente
dalla bolla Parens scientiarum di Gregorio IX, che nel 1231 sancisce i privilegi della giovane
Università di Parigi dopo un clamoroso sciopero che ne aveva paralizzato l’attività per due
anni. I privilegi sono qui l’indipendenza nel campo dell’insegnamento, della ricerca,
dell’amministrazione interna. Anche i poteri del Cancelliere, il vescovo di Parigi, vengono
drasticamente ridotti e l’esito finale è quasi una piccola repubblica autonoma. Qualche
decennio più tardi, Alessandro di Roes riassumerà la situazione affermando che, come Dio è
in tre persone, così sulla terra vi sono tre poteri: il sacerdotium, con sede a Roma,
l’imperium, con sede in Germania, e lo studium, con sede a Parigi. Nessuna persona della
Trinità comanda sull’altra, nessuno dei poteri terrestri è superiore all’altro.

Questa formulazione tipicamente medievale non nasce però dal nulla. Essa rielabora infatti,
a modo suo, una tradizione antica quanto il cristianesimo stesso: quella che lo interpreta
come un conoscere, che certo non si identifica piattamente con l’intellettualismo, ma tuttavia
ne riprende il meglio. È un’idea questa presentissima sia nel cristianesimo di lingua greca,
sia in quello di lingua siriaca.

La straordinaria influenza dei teologi alessandrini (Origene soprattutto) e la loro idea di una
«gnosi cristiana» non ha neppure bisogno di essere ricordata; meno nota è l’influenza che,
per esempio, la scuola siriaca di Nisibi ebbe, con la mediazione di Cassiodoro, sull’idea di
cultura in Occidente. Nel VI secolo Mar Barhadbešabba scrive una folgorante Causa della
fondazione delle scuole in cui tutta la storia del mondo, dalla creazione in poi, è interpretata
come un atto di insegnamento divino, Cristo come il rinnovatore della «scuola antica di suo
Padre», e le scuole attuali come le prosecutrici nel tempo presente.

Nel Medioevo questa sensibilità si istituzionalizza, articolando in sé un’ulteriore libertà


parimenti decisiva: che la nuova forma di insegnamento si chiami Università «degli Studi» (al
plurale) significa che essa è la corporazione di differenti scuole, in cui stili e idee diverse
vengono portati avanti, a volte in maniera anche molto conflittuale. Ma se, come Tommaso
d’Aquino afferma, perfino gli angeli lottano tra di loro nell’ignoranza della verità totale che
solo Dio conosce, tanto più (lo dedusse effettivamente, per esempio, il domenicano
Giordano da Rivalto) possono farlo i maestri dell’Università.

«Dio, signore delle scienze»


Questa sensibilità genera una teologia «a tavolino», senza significato «pastorale»? Mille
anni di storia non possono essere riassunti in poche righe, tanto più che essa ha lasciato
albergare grandi differenze al suo interno. Quello che è certo è che lo spirito teologico
medievale (o neomedievale) negli anni Sessanta appare a molti arcaico, troppo
intellettualista, per essere contemporaneamente interprete autorevole del Vangelo nei tempi
presenti.

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Un modo facile per vedere i cambiamenti occorsi è osservare l’evoluzione delle costituzioni
papali che hanno riordinato le istituzioni accademiche e quindi, in buona parte, integrato una
certa idea di teologia. La prima in ordine di tempo è curiosamente recente ma egualmente
molto utile per i nostri scopi: si tratta della costituzione Deus scientiarum dominus, emanata
da Pio XI nel 1931. Essa sorprende, infatti, per quanto è ancora vicina all’atmosfera
intellettuale che prima abbiamo abbozzato.

«Dio, signore delle scienze», ha dato alla Chiesa il comandamento di istruire tutte le genti:
dunque la Chiesa è patrona (non padrona) e sostenitrice di tutta la cultura umana. Il lungo
proemio ricostruisce a grandi linee il modo in cui questa funzione è stata svolta lungo i
secoli. Per un documento papale scritto all’inizio degli anni Trenta c’è da restare sbigottiti del
modo in cui con disinvoltura vengano omaggiati «eretici» come Origene e Teodoro di
Mopsuestia, o di come venga rivendicato il grande merito della Chiesa nella salvezza della
cultura pagana nella aetas obscurissima. Certo, oggi ci sono gli errori che «si truccano da
sapienza», ma questi possono essere combattuti solo con un aumento di cultura, non
fuggendo da essa. E anche se ormai le Università ecclesiastiche sono di fatto limitate alle
scienze sacre e a quelle connesse, viene ben precisato che nessuno vi possa neppure
entrare se non abbia prima studiato le lettere classiche, quelle del suo paese, e poi storia
naturale, matematica, fisica, chimica, geografia, storia civile. Dio è padrone di tutte le
scienze!

Riorientamento

All’indomani del Concilio Vaticano II, e su mandato di questo, la costituzione del 1931
subisce un vasto rifacimento, presentato nel 1968 sotto forma di integrazioni e rettifiche con
il titolo poco ispirante Normae quaedam ad Constitutionem Apostolicam Deus scientiarum
Dominus de studiis academicis ecclesiasticis recognoscendam (il testo è purtroppo assente
dal sito della Santa Sede). Tali norme introducono numerose varianti, avendo davanti agli
occhi soprattutto alcuni princìpi desunti dal Concilio: per esempio, l’aggiornamento, lo spirito
ecumenico e il dialogo con i non cristiani e i non credenti, la libertà nell’insegnamento.

Cominciano inoltre (questo è l’aspetto che ci interessa di più) a comparire le finalità pastorali,
ma con una direzione inversa rispetto a quella che potrebbe essere immaginata: nel tempo
attuale – si argomenta in una lunga nota – una pastorale empirica non basta più, ma è
necessario che essa sia aiutata da una seria conoscenza scientifica.

Una nuova costituzione complessiva viene preparata durante il papato di Paolo VI, ma
firmata da Giovanni Paolo II nel 1979 con il titolo Sapientia christiana. Essa, anche se rende
omaggio a Deus scientiarium dominus con ampie citazioni, cambia decisamente la
prospettiva: ora il problema è permeare di Vangelo la cultura umana, e questo appunto è uno
degli scopi fondamentali dell’evangelizzazione. Le Università ecclesiastiche sono dunque
quelle più strettamente legate alla missione evangelizzatrice, soprattutto in quanto esse
devono trovare le risposte ai problemi posti dalle «nuove scienze», ora pensate come foriere

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appunto di difficoltà. In effetti, esse non hanno «una particolare connessione con la
Rivelazione cristiana», viene detto altrove, e però possono «giovare molto all’opera
dell’evangelizzazione»: ma non viene detto nel dettaglio perché.

Nel 2017 Veritatis gaudium, benché mantenga praticamente immutato l’impianto normativo,
nella parte introduttiva rompe le esitazioni: la verità di cui si parla è tutta personale. La
missione della Chiesa è «testimonianza della gioia che scaturisce dall’incontro con Gesù e
dall’annuncio del suo Vangelo». Il dettato del Vaticano II va dunque messo in opera più
coerentemente, in particolare quando esso stabiliva che «la preoccupazione pastorale deve
permeare l’intera formazione degli alunni».

L’unità del sapere viene sì fortemente affermata, sotto la forma di «transdisciplinarità»: ma


questo solo dopo che l’intero edificio del sapere è stato subordinato alle esigenze
dell’evangelizzazione. Il primo scopo delle Università ecclesiastiche è, in effetti, promuovere
le discipline teologiche e quelle «che servono in un modo diretto alla missione della Chiesa»:
un verbo, questo, mai prima adoperato. Il resto è cronaca.

Effetti collaterali

È questa una delle situazioni che, in inglese, si direbbe suscitare mixed feelings. Che questo
itinerario sia stato compiuto sotto la spinta del Concilio Vaticano II e del suo orientamento al
mondo è fuori di dubbio. È verissimo che prenderne sul serio l’«indole pastorale» significa
anche ripensare il modo dello studio, il suo significato profondo. Ma è altrettanto vero che in
questo modo la teologia viene subordinata a una finalità pastorale, quella che prima o veniva
pensata come effetto collaterale, oppure, audacemente, veniva presentata come coincidente
con la diffusione di tutta la cultura.

Da questo punto di vista non stupisce neppure che il richiamo al vincolante magistero dei
pastori diventi sempre più pressante: inesistente in Deus scientiarium dominus, introdotto
nelle Normae quaedam per bilanciare la libertà d’insegnamento, più forte e autonomo in
Sapientia christiana, ripetuto identico in Veritatis gaudium, ma ora appunto amplificato dalla
subordinazione pastorale. (Tommaso d’Aquino, che in tutta la sua monumentale Summa cita
un’unica volta un papa contemporaneo, si sentirebbe oggi spaesato.) Era difficile aspettarsi
ripercussioni diverse da un Concilio tanto moderno e coraggioso da esaltare la libertà della
cultura e il dialogo con il mondo, ma tanto anti-medievale da avversare quel «divorzio tra
teologia e pastorale» che (per quanto suoni male) aveva proprio permesso la nascita
dell’Università e l’idea di uno studio libero.

Col senno di poi, bisogna chiedersi se, in tutto ciò, non ci sia qualcosa che non ha funzionato
né poteva funzionare, malgrado le migliori intenzioni. Le domande da porsi sono almeno
due. La prima è se questo riorientamento pastorale non abbia di fatto indotto una strisciante
(o a volte anche esplicita) disistima del lavoro intellettuale: giudicato freddo, arido, staccato
dalla realtà, creatore di problemi, inutile o addirittura velenoso per la fede. Non è solo negli
ambienti cristiani che oggi il serio lavoro intellettuale viene sottostimato: ma certe coloriture

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sono però purtroppo specifiche e in questo modo si può sospettare che venga creato un
circolo vizioso: più la teologia viene accusata di essere lontana dalla vita (diciamo così per
semplificare), meno viene cercata, più rimane isolata.

Dall’altra parte, si ha un bel dire che l’orientamento pastorale richiede anch’esso conoscenza
e rigore, anzi che ne richiede ancor più (il che è ovviamente vero): ma ci si può chiedere se
la teologia cattolica abbia più raggiunto il livello intellettuale di Balthasar, Bouyer, Colombo,
Congar, Feiner, Le Guillou, Lonergan, de Lubac, Rahner, Ratzinger, Schnackenburg,
Vagaggini: teologi che hanno dato un contributo enorme al rinnovamento del linguaggio
cristiano, e che ovviamente si sono formati nella temperie ecclesiale (per farla breve) di
Deus scientiarium Dominus. Per i curiosi, ho composto l’elenco precedente piluccando alcuni
dei componenti del primo quinquennio della Commissione Teologica Internazionale, nominati
da Paolo VI il 1º maggio 1969.

In secondo luogo, ci si può chiedere se questo riorientamento pastorale non abbia ottenuto,
per un’eterogenesi dei fini, l’effetto di ripiegare il discorso teologico su sé stesso e renderlo,
per sempre meno persone, attraente e interessante. Chi al di fuori di coloro che sono
impegnati in compiti ecclesiali può sentirsi attirato da una teologia della quale
insistentemente si afferma che il suo spirito è tutto «pastorale»?

Aggiungiamo a ciò (fuggevolmente, perché richiederebbe un altro discorso ancora) la


frequente sottolineatura secondo cui la teologia è di per sé un’operazione credente, che può
nascere e svilupparsi solo all’interno della fede: comprensibili e sensati i motivi che spingono
a sottolineare quest’aspetto, ma difficile immaginare un modo migliore per far sentire un non
credente assolutamente fuori posto in qualsiasi studio serio della «visione cattolica del
mondo» e della sua articolazione pensata.

Teologia nello spazio pubblico


Tutto buio? Non mi pare, e su una nota positiva vorrei concludere queste considerazioni.
Malgrado tutto ciò che abbiamo detto, dall’altra parte, la teologia (penso alla situazione
italiana) entra nello spazio pubblico. Ma ad opera di chi? I primi nomi che mi vengono in
mente sono (in ordine alfabetico) Cacciari, Galimberti, Mancuso, Murgia, Recalcati, Vannini.
Cioè: o non credenti, o credenti per un motivo o per l’altro «marginali».

Mettendo tra parentesi qualsiasi altra considerazione, ciò mi pare che dimostri che un
interesse sociale esiste, e anche forte. Da parte mia so per esperienza (esperienza
periferica, ma pur sempre reale) che è assolutamente possibile in un’Università statale, nel
contesto di un corso di laurea in Filosofia, tenere un corso di «Storia del pensiero teologico»
cercando di raccontare in maniera fedele e critica come i cristiani hanno cercato di pensare e
capire la loro fede e la loro vita, per esempio (nomino due programmi a caso) raccontando le
parabole evangeliche e le vicende della loro interpretazione, o Paolo e le sue riletture nella
storia: e posso testimoniare come questo racconto in molti ragazzi e ragazze,

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indipendentemente da qualsiasi posizione di fede che rimane fuori dall’aula, susciti interesse
e passione. Origene o Barth possono perfino commuovere. Per chi insegna, è un’esperienza
intellettuale che ripaga il centuplo perfino le tristezze della burocrazia universitaria.

Non so se tutto ciò suggerisca qualcosa riguardo ai «corsi di teologia per laici» su cui Paolo
Cattorini avanza le sue proposte: ne so troppo poco per poterne dire qualcosa di preciso. Mi
pare però che le esigenze che egli mette in luce (e altre analoghe che potrebbero essere
aggiunte), discutibili nei dettagli ma condivisibili nell’orientamento generale, suggeriscano
qualcosa di diverso dalla riforma di una struttura formativa già esistente, che sicuramente ha
i suoi buoni motivi, i suoi destinatari, la sua funzione ecclesiale, la sua logica interna.

Avanzare nuove esigenze significa, mi pare, soprattutto incoraggiare l’esistenza di spazi


nuovi, in cui anzitutto si abbia a cuore la presenza del discorso teologico nella scena
pubblica, in forme rigorose, fedeli e creative. A volte il gesto decisivo non consiste nel
discutere progetti o orientamenti (quante riflessioni vi sono state negli ultimi anni sul
possibile futuro della teologia?): ma nel creare luoghi.

La Conferenza Episcopale Italiana in un’epocale lettera del 1968 scriveva: «la teologia non
ha confini; non è, di per sé, né dei chierici né dei laici; è semplicemente teologia!»: ma
queste parole appaiono a loro volta un po’ arcaiche, perché il sapere a cui la teologia dà
voce appare oggi reclamato in una forma particolare proprio al di fuori del confini della
Chiesa: il che rende appunto improvvisamente secondaria la discussione su una possibile
teologia «per laici».

Forse quella che oggi viene chiesta da molti è una teologia «minore», che, molto
modestamente, non pretenda di essere né esperienza di fede né strumento pastorale per
credenti, ma solo avventura intellettuale di persone che ipotizzano che conoscere
criticamente il cristianesimo e le forme in cui esso si è espresso e compreso possa ancora
svolgere un ruolo, se non in questo mondo almeno un po’ nella propria vita.

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