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La formazione teologica /3

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29 settembre 2023

di: Giuseppe Guglielmi

Un giorno, nell’ora di ricevimento, uno studente mi espone alcune idee in merito alla sua tesi
di licenza (laurea magistrale, per capirci). Il suo interesse verteva su questioni legate al
turismo, un ambito questo difficilmente intercettato dalla prassi pastorale ordinaria.

La discussione si fa interessante: opportunità, problemi, prospettive… Ad un certo punto, lo


studente formula la “classica” domanda che mi capita di ascoltare anche in altre occasioni:
“professore, vorrei sapere quale fondamento teologico dare al lavoro”. Io provo a rigirare la
domanda: “tutto quanto hai appena evidenziato, cosa può suggerire alla teologia o, più in
generale, alla catechesi e alla prassi pastorale?”

“Fondare”: un passato teologico che non passa…


La domanda dello studente è rivelatrice di un’impostazione teologica che stenta a lasciare le
nostre aule di teologia (e non solo, come dirò appena dopo). Essa affonda le radici nella
teologia scolastica: qui la citazione di un’autorità (Scrittura, padri della Chiesa, filosofi greci)
serviva a corroborare il proprio discorso. Ma questa impostazione della quaestio,
comprensibile nei secoli prima dell’avvento della ragione storica, ha continuato a pervadere
la teologia anche in seguito, prima in quella controversistica e poi, a partire dall’Ottocento,
nella teologia manualistica (i trattati teologici).

Era la cosiddetta teologia dei dicta probantia che si strutturava grosso modo nei seguenti
passaggi: enunciazione della tesi, explicatio terminorum, argomento della tesi, diverse
posizioni sulla questione trattata, eventuale qualifica o “nota teologica”, possibili obiezioni e
corollari conclusivi. La tesi esprimeva direttamente l’insegnamento del magistero, cosicché il
riferimento alla Scrittura e alla tradizione risultava semplicemente funzionale a provare la
verità dell’enunciato insegnato dal magistero.

Se il rinnovamento conciliare ha dato un nuovo impulso allo studio critico delle fonti, non
sembra che tutto ciò abbia inciso nella precomprensione teologica, o almeno in quel “modo
di fare” (Certeau) o “sapere implicito” (Foucault) che fa funzionare, almeno in parte, i discorsi
teologici ed ecclesiali.

Detto più francamente, a tutt’oggi questo pregiudizio, che per comodità chiamo
deduttivistico, è ancora visibile nelle modalità con cui i nostri studenti di teologia organizzano
i lavori scritti (elaborati o tesi). Sovente si nota un certo utilizzo disinvolto della Scrittura,
adoperata per “fondare” l’argomentazione teologica. Questo uso “non problematico”

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dell’esegesi biblica nella riflessione teologica rivela come spesso gli studenti diano per
assodato che l’esegesi faccia da supporto e possa inserirsi armoniosamente nel tema che ci
si prefigge di sviluppare[1].

E così si cade nell’ingenuità di trasporre in un contesto sistematico idee e posizioni che


rispondono in primis a vicende ecclesiali e storico-culturali in cui sono sorte, dando per
scontato che sia possibile dipanare le differenze che sussistono tra le stesse tradizioni
teologiche. Tra l’altro, su quest’ultimo punto la pubblicistica teologica dei decenni passati ha
ampiamente sguazzato. Si vedano, solo per fare due esempi, slogan del tipo: “la teologia e
le teologie”, oppure le critiche (molto di moda fino a non molto tempo fa) alle cosiddette
“teologie del genitivo”.

Questa impostazione è sintomo di una teologia che fatica a interagire realmente con le
istanze del tempo presente: tanto in riferimento al vissuto della gente, quanto alle
provocazioni e ai confronti con le scienze umane. Naturalmente, non è possibile qui
approfondire la questione, ma mi piace solo ricordare come, proprio in merito al confronto
con le scienze storico-sociali, già nel 1971 Michel de Certeau constatava che la teologia era
ancora «elaborata fuori dalle razionalità critiche» o al massimo si accontentava «di ripeterne
e volgarizzarne i prodotti al servizio di convinzioni immutate»[2].

“Applicare”: quando l’attività pastorale non si percepisce come generatrice di un sapere


Dieri che un certo deduttivismo persiste anche fuori dagli ambienti accademici. Qui
ovviamente gli slogan sono diversi, ma la sostanza è molto simile. Ne ricordo solo alcuni: “La
dottrina non cambia, ma occorre tenere presente le situazioni”; “Quali sono le ricadute
pastorali di quanto ascoltato o elaborato sul piano teorico”; “Come applicare tale o tal altra
riflessione/teoria alla vita di tutti i giorni” ecc.

Sovente tali slogan sono formulati proprio da chi non ha grandi simpatie per il sapere
teologico. Generalmente, infatti, i detrattori della teologia contrappongono ad essa la
concretezza della vita e dell’attività pastorale. Sarebbe questa, secondo costoro, il vero
metro di misura di ogni manovra ecclesiale[3].

Peccato però che, ad un certo punto, i nodi vengano al pettine. Di fronte a novità, stili di vita,
sfide che provengono dal nostro mondo (e a cui magari non si è dedicato tempo, lettura,
desiderio di formarsi), i tuttofare concreti cominciano a traballare: con tutto il loro fare … non
sanno cosa pensare!

E, allora, s’incomincia a invocare il sapere (della teologia o del magistero). Nasce l’esigenza
di sapere “come stanno le cose” (in campo morale o dogmatico) al fine di “applicare” (gergo
orribile ma ancora in uso) questo sapere (norme, idee) nel concreto. Si chiamano gli esperti
(teologi, scienziati ecc.) percepiti come onniscienti: loro studiano i meccanismi del mondo,
sapranno quale cura prescrivere!

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E così, quella che dovrebbe considerarsi una delle fonti centrali della conoscenza teologica,
ovvero l’esperienza (che è già “sapere”), va a farsi benedire, dal momento che i primi che
non ritengono davvero centrale l’esperienza/concretezza della vita sono proprio coloro che
nelle parole considerano la prassi pastorale più importante del sapere teologico.

Cosa può insegnarci il deduttivismo?


Il cortocircuito qui sommariamente descritto è rivelatore di un’atavica giustapposizione fra
teoria e pratica, dove la prima (la teoria come campo vergine non contaminato da prassi,
istituzioni e costumi) sarebbe la detentrice di una verità, mentre la seconda (la pratica come
pura vitalità che può avere senso solo se addomesticata dall’eteronomia di un pensiero)
sarebbe lo svolgimento concreto di essa.

Pertanto, anche fuori dagli ambienti accademici (ma sarebbe meglio dire “scolastici”) aleggia
questa precomprensione (agere sequitur esse?): il sapere è immaginato come quell’insieme
di teorie astratte di carattere normativo tese a dare forma ad una prassi, la quale, se non
vuole restare nel campo di pura vitalità indeterminata, non deve far altro che conformarsi a
tale sapere.

Anche qui è il caso di rigirare la domanda: cosa ci suggerisce l’esperienza di incontro con la
gente? L’ascolto empatico di situazioni più disparate? Che valore attribuire a dubbi e
speranze? Cosa suggerisce l’indifferenza di alcuni? Cos’altro, invece, le gioie di altri?

Quali atteggiamenti scatenano in noi le esperienze inattese? Sono queste, credo, alcune
delle domande con cui possiamo ricalibrare la nostra vita spirituale di cristiani che abitano e
che sono abitati da questa storia contemporanea[4]. Direi che siamo in buona compagnia,
dato che su questi sentieri ci hanno preceduto già i mistici e, in genere, le scuole di
spiritualità: «piuttosto che elaborare una teoria», essi hanno voluto «mostrare come si possa
vivere dell’Assoluto nelle condizioni reali fissate da una situazione culturale»[5].

Paolo M. Cattorini, La formazione teologica /1

Roberto Maier, La formazione teologica /2

[1] Questo andare a caccia del cosiddetto “fondamento biblico” (o di altra fonte) dovrebbe
però interrogare gli stessi docenti: ci si deve chiedere se si è stati in grado di trasmettere agli
studenti un approccio epistemologico più critico e una maggiore accortezza storiografica,
onde evitare indebite estrapolazioni e/o ingenue scorribande in altri registri.

[2] La debolezza del credere. Fratture e transiti del cristianesimo, Vita e Pensiero, Milano
2020, 174.

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[3] E non sarei onesto se non aggiungessi alla nutrita schiera dei detrattori tutti quei preti che
considerano la teologia una seccatura a cui si sono dovuti sottomettere durante la
formazione seminaristica.

[4] Mi sembrano essere queste alcune tra le domande che ritroviamo anche nel magistero di
papa Francesco.

[5] M. de Certeau, La debolezza del credere, 40.

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