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Giuseppe Lorizio

Fides et ratio e la teologia fondamentale

[in A. LIVI – G. LORIZIO (edd.), Il desiderio di conoscere la verità. Teologia e filosofia a


cinque anni da Fides et ratio, Lateran University Press, Roma 2005, 259-303]

La riflessione sul rapporto fra l’enciclica Fides et ratio (d’ora innanzi FR), di cui celebriamo
i cinque anni dalla promulgazione, e la teologia fondamentale, qui proposta, si situa non a caso nel
quadro di un settore del nostro convegno dedicato al dialogo. È infatti profonda convinzione di chi
parla che l’ambito del sapere della fede che denominiamo “teologia fondamentale”, debba
caratterizzarsi per un profondo spirito dialogico, capace di ispirare non solo e direi non tanto i
contenuti, quanto il metodo proprio di quest’area disciplinare della teologia. Una tale indicazione
metodologica si rinviene nelle stesse radici neotestamentarie dell’apologetica, allorché il famoso
testo di 1Pt, spesso assunto a luogo generatore del nostro lavoro teologico, dopo aver indicato la
necessità di rendere ragione della speranza, aggiunge che questo compito deve essere svolto “con
dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi,
rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo” (1Pt 3, 16). Se
c’è un segno di debolezza delle convinzioni e di incertezza del credere, questo è nell’incapacità di
instaurare un autentico dialogo con le istanze culturali, religiose e filosofiche emergenti nel tempo e
nello spazio che si è chiamati ad abitare. Dal punto di vista del metodo apologetico-dialogico risulta
particolarmente significativo il modo adottato dalla FR, nel momento in cui introduce il riferimento
a Tommaso d’Aquino e alla “perenne novità” del suo pensiero: “Un posto tutto particolare in questo
lungo cammino spetta a san Tommaso, non solo per il contenuto della sua dottrina, ma anche per il
rapporto dialogico che egli seppe instaurare con il pensiero arabo ed ebreo del suo tempo. In
un'epoca in cui i pensatori cristiani riscoprivano i tesori della filosofia antica, e più direttamente
aristotelica, egli ebbe il grande merito di porre in primo piano l'armonia che intercorre tra la ragione
e la fede. La luce della ragione e quella della fede provengono entrambe da Dio, egli argomentava;
perciò non possono contraddirsi tra loro” (FR, 43). Tommaso, sembra suggerire l’autorevole
documento, va anzitutto assunto come maestro di metodo e di un metodo dialogico nei confronti
delle altre culture ed appartenenze religiose e nei confronti del pensiero pagano, infatti egli
“riconosce che la natura, oggetto proprio della filosofia, può contribuire alla comprensione della
rivelazione divina. La fede, dunque, non teme la ragione, ma la ricerca e in essa confida. Come la

1
grazia suppone la natura e la porta a compimento, così la fede suppone e perfeziona la ragione.
Quest'ultima, illuminata dalla fede, viene liberata dalle fragilità e dai limiti derivanti dalla
disobbedienza del peccato e trova la forza necessaria per elevarsi alla conoscenza del mistero di Dio
Uno e Trino” (FR, 43). La forza delle fondamenta risulta quindi proporzionale alla capacità di
dialogo che il credente, e quindi il teologo, riesce ad instaurare con altre appartenenze culturali e
religiose, con la ragione filosofica, con altri ambiti disciplinari. Chi teme il dialogo di fatto mostra
la fragilità del proprio radicamento, temendo appunto che possa facilmente essere compromesso
dall’incontro e dal confronto con l’altro.

Lascio alla ricognizione bibliografica di A. Sabetta il compito di dar conto delle letture e
interpretazioni, e quindi della recezione, dell’enciclica in campo teologico in genere e fondamentale
in specie, limitando il mio intervento all’indicazione di tre nuclei tematici, a mio avviso per nulla
marginali, al cui approfondimento proprio il teologo fondamentale si sente provocato e stimolato
dalla lettura di questo documento, delle cui indicazioni è chiamato a far tesoro. Si tratta piuttosto
che di dati acquisiti, di problemi aperti, affidati alla nostra riflessione e al nostro approfondimento.
Qualche premessa si rende necessaria perché il percorso venga adeguatamente inquadrato.

In primo luogo non dobbiamo dimenticare il carattere proprio dell’enciclica, che non è né
vuol essere un trattato, né un saggio,né di filosofia, né di teologia. In quanto documento del
Magistero, esso richiede un’adeguata mediazione, allorché lo si considera fra le fonti d’ispirazione
del lavoro teologico attuale, attraverso una lettura che mentre non può ignorare la continuità fra i
vari momenti in cui il Magistero cattolico si è espresso sull’argomento, così non può mancare di
sottolineare gli elementi di novità, senza i quali il pronunciamento risulterebbe vano. Inoltre,
proprio perché si tratta di un documento magisteriale, da esso non si può dedurre univocamente un
modello di teologia o di teologia fondamentale, escludendo dall’ortodossia i tentativi altrui, a meno
che non si intenda tornare ai tempi piuttosto oscuri della Denzingertheologie e alle espressioni più
intransigenti della neoscolastica. La tentazione opposta, naturalmente per il teologo, ma anche per il
filosofo cattolico (nel rispetto naturalmente delle diverse epistemologie e metodologie) sarebbe
quella di considerare questa enciclica (e gli altri pronunciamenti del Magistero ordinario) alla
stregua di opinioni teologiche (o filosofiche) fra le altre, senza tener conto dell’autorevolezza dei
documenti soprattutto in rapporto al sapere della fede.

In secondo luogo va tenuto presente che dall’enciclica riceviamo come teologi delle
importanti indicazioni, ma che resta oltremodo aperto lo spazio per la ricerca e l’approfondimento,

2
nonché la possibilità di strutturare secondo modalità e formulazioni differenziate la tematica
generale e i contenuti specifici che più da vicino ci riguardano. Non solo la Chiesa non sposa alcun
sistema filosofico (FR, 49), ma neppure assume le idee di una singola e ben caratterizzata scuola
teologica, promuovendole al livello dottrinale o addirittura del deposito della fede. Sappiamo bene
infatti come la differenziazione dei modelli teologici e teologico-fondamentali sia fortemente
dipendente dall’infrastruttura concettuale e filosofica assunta. Il che ovviamente non esclude che
nei diversi momenti della storia, i pronunciamenti del Magistero possano propendere per certe
formulazioni di scuola a scapito di altre, ma senza mai “canonizzare” una filosofia a scapito di altre.
“La ragione profonda di questa riservatezza sta nel fatto che la filosofia, anche quando entra in
rapporto con la teologia, deve procedere secondo i suoi metodi e le sue regole; non vi sarebbe
altrimenti garanzia che essa rimanga orientata verso la verità e ad essa tenda con un processo
razionalmente controllabile” (FR, 49). Dirò di più: questa enciclica in particolare costituisce uno
stimolo non indifferente per il lavoro della ricerca teologica, non solo per gli spazi che lascia aperti,
ossia per quanto non dice, ma proprio per quel che dice e afferma.

Infine, sempre a livello preliminare, dobbiamo tener conto del fatto che certamente
l’enciclica ha creato ed è destinata a creare un movimento verso la teologia e in particolare verso la
fondamentale, ispirandone il lavoro, ma che essa si pone anche come punto di arrivo di un lavoro
teologico e filosofico precedente. Questo duplice movimento (dalla FR alla teologia e dalla teologia
alla FR) consente di ritenere altrettanto plausibile sia il tentativo di chi cerca di ispirarsi
all’enciclica nell’impostazione della propria teologia, sia quello di coloro che in occasione della
promulgazione del documento hanno ritenuto di rinvenire in esso conferme e sostegni per le loro
precedenti formulazioni teologico-fondamentali, indicando nelle ulteriori edizioni dei loro testi, i
relativi riferimenti. Ovviamente dati i tempi relativamente brevi che ci separano dalla
promulgazione del documento, questa seconda modalità mi sembra largamente la più diffusa
all’interno della produzione teologico-fondamentale corrente.

Venendo ora all’itinerario che mi accingo a percorrere, ne indico tre tappe, individuando la
prima in rapporto all’istanza epistemologica (sia generale che speciale) caratterizzante la teologia
fondamentale, la seconda in rapporto all’istanza fondativa o fondazionale, la terza nel rapporto con
l’istanza contestuale, in cui si tenta di realizzare la valenza “apologetica” della disciplina. Occorrerà
tuttavia aggiungere che qui l’aggettivo fondamentale oltre che un ambito del sapere teologico,
ormai ben individuabile, sta ad indicare anche una dimensione di tutta la teologia, con la quale i
diversi trattati devono misurarsi e strutturarsi.

3
1. FR e l’istanza epistemologica della teologia fondamentale

Il compito dell’enciclica non è propriamente epistemologico e gnoseologico, quello di


teologi (fondamentali) e filosofi ahinoi sì! Dal punto di vista dell’epistemologia teologica generale
FR di fatto ripropone quanto acquisito e ci sembra pressoché universalmente ammesso e
sostanzialmente condiviso nell’ambito di quei corsi che generalmente rispondono alla titolazione di
“Introduzione alla teologia” e a mio avviso appartengono alla teologia fondamentale, di cui
costituiscono un settore. L’insegnamento di FR 64 e 65 si può compendiare in tre punti qualificanti,
il primo dei quali rimanda ad una concezione della teologia nel grembo della fede e quindi della
Parola di Dio, il secondo richiama coerentemente la necessità dell’auditus fidei, mentre il terzo fa
riferimento all’intellectus fidei, come elemento non secondario del metodo teologico. Una
peculiarità di questi testi sta nel mostrare la necessità del riferimento alla filosofia e quindi
dell’utilizzo del sapere filosofico in entrambi i momenti del metodo, così come del tutto pertinente
ci sembra la messa a punto del rapporto filosofia/teologia nei termini di un’ancillarità non servile,
né subordinante, ma in ultima analisi fondamentalmente liberante, nella linea della famosa
espressione blondeliana: non adjutrix, nisi libera; non libera nisi adjutrix philosophia1.

A proposito dell’epistemologia speciale, FR compie una vera e propria scelta di campo,


indicando nella tematica della Rivelazione e della sua credibilità e in quella dell’atto di fede e della
sua analisi il contenuto centrale della TF (FR, 67), che viene significativamente situata, nella
scaletta delle discipline teologiche, dopo la dogmatica, probabilmente per ribadirne il carattere
propriamente teologico, onde fugare ogni tentazione di riportare la disciplina nel limbo di un
indeciso ibridismo o a livello di una sorta di sapere pre-teologico indeterminato. Questa scelta
tuttavia, come avremo modo di constatare nelle riflessioni che seguiranno, non sembra affatto
precludere il carattere di frontiera, che da sempre caratterizza questo settore del sapere della fede,
sia in quanto dimensione e funzione dell’intero universo teologia, sia in quanto sua specifica

1
M. BLONDEL, L’Azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, ed. it. a cura di S. SORRENTINO,
San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, 499-500. Su questo autore e la possibilità di una lettura e utilizzaizone in chiave
teologico-fondamentale cf M. ANTONELLI, L’Eucaristia nell’”Action” (1893) di Blondel. La chiave di volta di
un’apologetica filosofica, Pubblicazione del Pontificio Seminario Lombardo, Roma 1993 cf anche ID.,“L’«apologetica
integrale» e la sua anticipazione ne L’Action”, in La Scuola cattolica 121 (1993) 833-874 [si tratta del numero
monografico che la rivista del Seminario Arcivescovile di Milano ha dedicato a Blondel nel centenario della sua opera
principale].

4
regione. A questo riguardo per ora ci limitiamo a segnalare quanto si afferma al n. 92 della FR: “In
quanto intelligenza della Rivelazione, la teologia nelle diverse epoche storiche si è sempre trovata a
dover recepire le istanze delle varie culture per poi mediare in esse, con una concettualizzazione
coerente, il contenuto della fede”. Come ovvio l’epistemologia generale risulta più sollecitata dalla
enciclica rispetto agli altri ambiti, in quanto il tema stesso dell’enciclica tocca innanzitutto la
gnoseologia teologica (e filosofica) e secondariamente le epistemologie regionali.

Pertanto i punti nevralgici e le questioni sulle quali a mio avviso la teologia fondamentale,
con un’adeguata attrezzatura filosofica, è chiamata a riflettere, riguardano alcuni elementi
caratterizzanti l’orizzonte gnoseologico, entro cui muovono i contenuti dell’enciclica. Rivolgeremo
la nostra attenzione a tre questioni decisive e a nostro avviso imprescindibili proprio per la TF: la
questione del duplex ordo, quella della verità e quella dell’orizzonte sapienziale della conoscenza
(filosofica e teologica), non dimenticando alcuni corollari strettamente connessi a tali questioni,
quali quello concernente l’autonomia della ragione, quello relativo all’analogia e quello
dell’orizzonte sapienziale.

Un nodo teoretico fondamentale mi sembra quello relativo al duplex ordo cognitionis, che la
Dei Filius2 indica come imprescindibile per un approccio cattolico al rapporto fede/ragione, la Dei
Verbum riprende al n. 6 e la FR di fatto adotterebbe come schema interpretativo fondamentale del
rapporto fede/ragione. È su questo punto che a mio avviso si gioca la continuità fra la Costituzione
dogmatica del Vaticano I e l’enciclica di Giovanni Paolo II (continuità messa magistralmente in
evidenza nella relazione di J. Pottmeyer). Al tempo stesso si tratta di uno dei temi più discussi, su cui
vale la pena soffermarsi a riflettere. La critica teologica ha ritenuto di dover rinvenire nel nostro
documento una sorta di discrepanza fra il livello dell’intenzione profonda che anima il testo e il
modulo concreto adottato per realizzare tale intenzione, ritenendo di dover individuare quest’ultimo
appunto nel quadro dottrinale del duplex ordo e quindi della sistematica neo-scolastica, del tutto
inadeguata a sostenere il compito di pensare il nesso fede-ragione, in tempi in cui si ritiene ormai
definitivamente liquidata tale sistematica teologica e filosofica. La tendenza poi (peraltro molto
diffusa) a privilegiare l’intenzione enunciativa eccedente sul modello attraverso cui verrebbe
veicolata3, sarebbe un modo elegante, ma sostanzialmente fuorviante di eludere alcune problematiche

2
Per il testo della Dei Filius e le citazioni che seguono cf DS, 3000-3045.
3
Il luogo in cui più chiaramente si esprime questa radicale perplessità nei confronti dell’enciclica è l’articolo di A.
BERTULETTI, “Fides et ratio. L’intenzione enunciativa dell’Enciclica e il suo modello concettuale”, in Teologia 24
(1999) 289-295.

5
di fondo, su cui invece intendiamo soffermarci ritenendole imprescindibili per la teologia
fondamentale.

La nostra ipotesi interpretativa legge FR certamente in continuità con Dei Filius e per molti
aspetti con Aeterni Patris, rispetto alla quale tuttavia si pone in rapporto anche di novità e di
superamento. Accogliere il dettato conciliare relativo al duplex ordo cognitionis non significa infatti
ipso facto adottare il modello neoscolastico e la sua struttura. Ci sembra in questa fase di poter
condividere due autorevoli giudizi espressi recentemente dalla critica intorno alla costituzione del
Vaticano I, nel quadro di una valutazione complessiva del documento stesso. Particolarmente
equilibrato e pertinente ci sembra, infatti, il giudizio di Pierangelo Sequeri: «il pronunciamento
conciliare, nonostante il surrettizio intento di esercitare una vigorosa censura nei confronti della
modernità filosofica, pone obiettivamente le premesse per una formale apertura al confronto con
essa. Precisamente in quanto esprime lo sforzo di designare l’ambito di una specifica e sistematica
riflessione critica sulla forma teorica dell’accesso al fondamento della fede. Vale a dire sulla
descrizione argomentabile di quella struttura originaria - e originale - della coscienza che è la
coscienza credente. E tanto esegue, pur senza poter condurre a compimento la coerenza di tale
disegno a motivo della inadeguata attrezzatura epistemologica, teologica e filosofica della scuola»4.
Per questo la requisizione apologetica (neoscolastica) della Dei Filius ha nuociuto alla
valorizzazione del testo e delle sue potenzialità storico-ermeneutiche e sistematiche, poiché la
“costrizione” del sobrio assetto dottrinale del testo nella inerte simbiosi dottrinale della filosofia e
della teologia, culturalmente obsolete, della tradizione di scuola, ha rinchiuso il testo nello schema
convenzionale della scissione fra teologia apologetica dei praeambula fidei e teologia dogmatica
della fides divina. Abituati come siamo a pensare la tematica della rivelazione secondo le
indicazioni del Vaticano II, saremmo portati a sottovalutare l’impianto e l’impostazione del tema
nella Dei Filius, che presenta comunque una sua attualità, così individuata ed espressa da uno dei
maggiori studiosi del Vaticano I: “A mio parere l’attualità di Dei Filius non è da riscontrare né nel
modello estrinsecistico della sua fondatezza, o in una prova miracolosa, né nel concetto di
rivelazione teoretico informativo, o in accentuazioni della costituzione legate al tempo. Io vedo
l’attualità di Dei Filius piuttosto nel convincimento, in essa espresso, secondo cui la fede cristiana è
caratterizzata dal logos e la pretesa di verità del cristianesimo può porsi con piena fiducia in questo
logos e nella sua conservazione, di fronte a qualsiasi richiesta della ragione teoretica e pratica” (H.
J. Pottmeyer)5.

! P. SEQUERI, Il Dio affidabile. Saggio di Teologia fondamentale, Queriniana, Brescia , 56.


5
H. J. POTTMEYER, “La costituzione Dei Filius”, in R. FISICHELLA (ed.), La teologia fondamentale. Convergenze per il
terzo millennio, Piemme, Casale Monferrato 1997, 37-38.

6
Ponendoci al di fuori della requisizione neoscolastica e cercando di valorizzare la sobrietà
del dettato conciliare ci sembra di dover svolgere le seguenti considerazioni in ordine alla tematica
del duplex ordo. In primo luogo va sottolineato il genitivo che segue: si tratta infatti di un duplex
ordo cognitionis: in particolare, si afferma la duplice differenza fra ragione e fede: differenza di
principio (quanto all’essere, cioè, strumenti di conoscenza) e di oggetto (perché i mysteria in Deo
abscondita sono del tutto irriducibili ad quae naturalis ratio pertingere potest). Questa distinzione
si evidenzia nel fatto che la ragione può pervenire ad una mysteriorum intelligentiam eamque
fructuosissimam, ma non può penetrare le verità di fede che oltrepassano omnino l’intelletto creato.
La distinzione non potrà mai significare una vera dissensio (divergenza) tra entrambi per la
comunanza dell’origine, Dio, appunto, che rivela i misteri e crea la ragione. La distinzione,
piuttosto, implica reciproco, necessario aiuto, nel più generale orizzonte dell’affermata superiorità
della fede sulla ragione.

In secondo luogo la dottrina del duplex ordo cognitionis ci sembra contribuire a chiarire la
specificità (il proprium) del modo cattolico di intendere la Rivelazione e di metterla in circolo con la
fede e la ragione (Hoc quocumque perpetuus Ecclesiae catholicae consensus tenuit et tenet, duplex
esse ordine cognitionis). Ma ciò sarà possibile a condizione che tale dottrina non venga interpretata in
senso dualistico ed estrinsecistico. Infatti sembra ormai pacificamente acquisito che non si debba
parlare di una duplice rivelazione (naturale e soprannaturale) e tuttavia la dottrina cattolica del duplex
ordo può contribuire a una elucidazione più adeguata dell’unica Rivelazione del Dio unitrino in Gesù
Cristo, interpretata ed esposta secondo una duplice dimensione: quella cosmico-antropologica e quella
storico-escatologica. Qui appunto la bidimensionalità non va intesa come separazione, ma neppure
come confusione degli ambiti, bensì come opportuna distinzione degli stessi. Questo ci sembra
sostanzialmente il modo in cui FR fa propria la dottrina della Dei Filius, senza adottare il modello in
cui tale dottrina si è in maniera privilegiata storicamente espresso. A suffragare tale interpretazione
dell’enciclica ci sembra possa essere sufficiente il richiamo della formulazione intorno alla creazione
come tappa o stadio (stadium) della Rivelazione presente al n. 19. Il richiamo a questo luogo del
documento consente a nostro avviso un triplice guadagno teoretico-epistemologico: a) contribuisce a
giustificare ed eventualmente suggerire l’interesse della teologia fondamentale per il tema della
creazione e il dialogo con le scienze della natura6; b) sostiene l’autonomia della ragione, da

6
Un quadro di questo rapporto in G. TANZELLA NITTI, Teologia e scienza. Le ragioni di un dialogo, Paoline, Milano
2003, mentre per una riflessione sulla dimensione trinitaria e rivelativa della creazione cf A. GANOCZY, Il creatore
trinitario. Teologia della Trinità e sinergia, Queriniana, Brescia 2003. Cf inoltre le incursioni di Wolfhart Pannenberg
su queste tematiche: W. PANNENBERG, “Dio come Spirito e le scienze naturali”, in Lateranum 68 (2002) 9-21), il
lavoro dell’area di ricerca SEFIR, a partire da P. CODA – R. PRESILLA (edd.), Interpretazioni del reale. Teologia,

7
interpretarsi nei termini dell’autonomia creaturale (un legame non soggiogante); c) rende plausibile
l’interesse della filosofia per la tematica della Rivelazione, in quanto non si tratta soltanto di poter
scegliere autonomamente il proprio oggetto d’indagine, bensì di muoversi in un orizzonte di forte
sinergia con qualcosa che le è in certo senso connaturale.

Inoltre, se si pensa all’importante riferimento di Dei Filius al fine soprannaturale dell’uomo,


atto a motivare la necessità della Rivelazione (quia Deus ex infinita bonitate sua ordinavit hominem ad
finem supernaturalem), si può facilmente cogliere la plausibilità della nostra interpretazione che
declina il duplex ordo cognitionis nella linea della duplice dimensione dell’unica Rivelazione. È
peraltro questa l’unica possibilità che ci sembra di intravedere, onde fugare il timore, più o meno
giustificato, dei critici del duplex ordo, che attraverso tale dottrina ritorni in teologia fondamentale
l’estrinsecismo proprio del modello teologico neo-scolastico e della sua manualistica. La dottrina,
infatti, può essere ulteriormente sviluppata nella direzione del rapporto necessariamente asimmetrico
fra la dimensione cosmico-antropologica e la dimensione storico-escatologica della Rivelazione. In
ogni caso il duplex ordo cognitionis, neppure nella peggiore neoscolastica, è stato è può essere
interpretato come duplex ordo veritatis. La FR, peraltro insiste sul tema dell’unità della verità, da
cogliersi nell’orizzonte sapienziale che la stessa Rivelazione ebraico-cristiana fa proprio.

La scelta di FR di porre al centro la rivelazione ci sembra oltremodo significativa e tale da


conferire al percorso un reale e decisivo orientamento, capace di interpellare il pensiero filosofico
della modernità compiuta e della postmodernità, che non di rado affronta con le proprie categorie e
le proprie metodologie proprio questa tematica fondamentale della teologia cristiana. E tuttavia
questa scelta non implica una vera e propria svolta, bensì include una posizione gnoseologica ben
nota in campo cattolico in ordine al problema della verità, secondo cui questa si definisce per la sua
capacità di adaequatio rei et intellectus. Ecco come si esprime il documento a questo proposito:
“Questo ruolo sapienziale non potrebbe, peraltro, essere svolto da una filosofia che non fosse essa
stessa un sapere autentico e vero, cioè rivolto non soltanto ad aspetti particolari e relativi — siano
essi funzionali, formali o utili — del reale, ma alla sua verità totale e definitiva, ossia all'essere
stesso dell'oggetto di conoscenza. Ecco, dunque, una seconda esigenza: appurare la capacità
dell'uomo di giungere alla conoscenza della verità; una conoscenza, peraltro, che attinga la verità
oggettiva, mediante quella adaequatio rei et intellectus a cui si riferiscono i Dottori della Scolastica.
Questa esigenza, propria della fede, è stata esplicitamente riaffermata dal Concilio Vaticano II:
«L'intelligenza, infatti, non si restringe all'ambito dei fenomeni soltanto, ma può conquistare la

filosofia e scienze in dialogo, PUL-Mursia, Roma 2000, e le riflessioni di J. MOLTMANN, Scienza e sapienza. Scienza e
Teologia in dialogo, Queriniana, Brescia 2003.

8
realtà intelligibile con vera certezza, anche se, per conseguenza del peccato, si trova in parte
oscurata e debilitata»” (FR, 82). L’orizzonte rivelativo lungi quindi dall’escludere quello
adeguativo lo include e lo potenzia, sicché la verità come revelatio comprende ed esige la verità
come adaequatio come sua condizione di possibilità e di capacità di attingere la cosa stessa e non
semplicemente il suo manifestarsi.

Pensare teologicamente l’autonomia della ragione significa quindi in primo luogo rapportare
l’esercizio della conoscenza razionale all’ambito creaturale, laddove da un lato è dato cogliere la
profonda alterità del mondo e dell’uomo rispetto a Dio (che nella creazione appunto con atto
intelligente e libero pone l’altro da sé e quindi fonda l’autonomia del mondo e dell’uomo), dall’altro il
legame del finito con l’Infinito e dunque la possibilità di cogliere nel contingente le tracce dell’Eterno.
La figura della ragione creata fa riferimento anche al limite che lo stato creaturale comporta ed
esprime. Un limite ulteriormente approfondito dal peccato, che rende inferma la creatura umana e
quindi anche la sua razionalità. FR rammenta questa realtà, anche in rapporto all’esercizio della
filosofia: “I filosofi per primi, d'altronde, comprendono l'esigenza dell'autocritica, della correzione
di eventuali errori e la necessità di oltrepassare i limiti troppo ristretti in cui la loro riflessione è
concepita. Si deve considerare, in modo particolare, che una è la verità, benché le sue espressioni
portino l'impronta della storia e, per di più, siano opera di una ragione umana ferita e indebolita dal
peccato” (FR, 51). La redenzione portata e realizzata da Cristo non può non riguardare anche
l’attività conoscitiva dell’uomo, sicché alle figure della ragione creata e della ragione inferma, si
accompagna quella della ragione redenta, che si esercita storicamente e teoreticamente nel sapere
teologico e nella filosofia cristiana. A questa figura risulta ispirata la suggestiva espressione di
Maurice Blondel secondo il quale “la filosofia autentica è la santità della ragione”7.

In questo orizzonte (creaturale e storico salvifico) si pone e ripropone il tema dell’analogia,


al quale l’enciclica dedica solo qualche cenno fugace (FR, 19, già citato, con il riferimento a Sap
13,5 e FR, 38, ma non in senso teoretico). Qui naturalmente lo spazio della ricerca e
dell’approfondimento teologico e filosofico risulta non solo oltremodo possibile, ma si rende a
nostro avviso particolarmente necessario, trattandosi di un punto cruciale e non eludibile in cui è
fortemente implicato il rapporto fede ragione. Del resto l’asimmetria del rapporto fra le due
dimensioni della Rivelazione mi pare possa adeguatamente trovare un punto di aggancio non debole
nella definizione dell’analogia che ha come sfondo il Lateranense IV e riceve sviluppi importanti in

7
M. BLONDEL, op. cit., 552.

9
Tommaso d’Aquino8: inter creatorem et creaturam non potest tanta similitudo notari, quin inter
eos maior sit dissimiloitudo notanda (DH, 806). Tale formulazione ci sembra riesca a fugare le
critiche contemporanee all’ontoteologia, non banalmente eludendole, ma costringendo la teologia
fondamentale a farsene carico. Nel “più bello di tutti i legami”9, infatti, la dottrina cattolica rinviene
una distanza maggiore della vicinanza, a salvaguardia della trascendenza del soprannaturale e del
carattere gratuito del suo irrompere nella storia.

Non va dimenticato che il pensiero cattolico del Novecento ha interpretato in maniera anche
originale e comunque non certamente razionalistica questa profonda acquisizione tomista. Il
dibattito teologico intorno all'analogia, sul quale a lungo ha pesato la famosa stroncatura barthiana,
relativa all’analogia entis, che sarebbe una “invenzione dell'Anticristo”, nella misura in cui
coltivasse la pretesa di conoscere Dio al di fuori della Rivelazione, sembra al momento potersi
sviluppare in forma più pacata ed in questo senso più produttiva in ordine ai possibili esiti teoretici
della questione stessa. Da un lato naturalmente va considerato il contesto in cui si esprime il rifiuto
barthiano, che intende prendere posizione intorno al dilemma “la Parola o l'esistenza” cui poteva
pervenire il lettore della prima edizione della Kirchliche Dogmatik, rifiutando l'antinomia ed
optando decisamente per il primo termine. All'unico possibile centro della fede che è Cristo Signore
non si può opporre l'esperienza umana, né intesa in senso metafisico, né interpretata in forma
esistenziale; in entrambi i casi essa diviene il luogo in cui si esprime l'Anticristo, ma lo stesso
tentativo di rappresentare la Rivelazione tramite un’ellisse a due fuochi correlati e contrapposti
(Parola ed esperienza umana) finirebbe col portare acqua al mulino dell'Anticristo. La teologia
cattolica rivendicherebbe “[...] il possesso di un principio sistematico, che non è Cristo Signore, ma
un principio astratto - appunto l’analogia entis - in base al quale, già nella precomprensione
filosofica (della teologia naturale) può essere conosciuto il rapporto fra Dio e creatura, di modo che,
in ultima analisi, la rivelazione di Dio in Gesù Cristo si presenta come il compimento di un senso e
di una scienza già esistenti prima, anche se forse non nel senso di una metafisica librantesi sopra la
fede e la coscienza. Ma il posto che Cristo assumerà nella sua funzione di compimento è visto già
“prima”: in un'ontologia che antecede l'ordine della rivelazione e non può essere infranta da essa.
L'immagine cattolica del mondo quindi presenta per principio due vertici: la rivelazione e la sua

8
Sul tema nel pensiero di San Tommaso cf Cf E. PRZYWARA, Analogia entis. Metaphisik. Ur-struktur und All-rhitmus,
Johannes, Einsiedeln 1962 (trad. it. di P. VOLONTÉ, Vita e Pensiero, Milano 1995, 168-198).
9
“Ma non è possibile che due cose sole si compongano bene senza una terza: bisogna che in mezzo vi sia un legame
che le congiunge entrambe. E il più bello dei legami è quello che faccia, per quant’è possibile, una cosa sola di sé e
delle cose legate: ora l'analogia compie questo in modo bellissimo” (Timeo, 31 ca). Cf a questo proposito V.
MELCHIORRE, La via analogica, Vita e pensiero, Milano 1996, in particolare il cap. VII: “Il più bello dei legami.
L’analogia dell’uno in Platone”, 231-239.

10
pretesa sono in essa relative”10. Ma - sempre a proposito del pensiero barthiano - non si può
dimenticare la sua interna evoluzione, che suggerisce a von Balthasar un passaggio decisivo della
sua opera su Barth, in cui esprime tale cambiamento di prospettiva a proposito dell'analogia in
termini di “conversione”. Paradossalmente, mentre il padre della teologia dialettica sembrerebbe
potersi in certo modo accordare con le posizioni di Gustav Söhngen11 e dello stesso von Balthasar12,
l'altro teologo protestante cui la riflessione sull'analogia deve molto Eberhard Jüngel13, che pure
assume come interlocutore il pensiero del cattolico Erich Przywara14, continuerebbe a sostenere una
radicale incompatibilità fra analogia entis e analogia fidei, in analogia con la contrapposizione
paolina fra giustizia della legge e giustizia della fede, e ciò in nome di un'assoluta fedeltà alle
originarie intenzioni di Barth sopra espresse. La profonda diffidenza espressa in ambito teologico
protestante, e codivisa da non pochi teologi cattolici, nei confronti dell’analogia entis, ma in
generale della stessa metafisica cristiana, rappresenta in qualche modo, sul versante teologico,
quello che la critica all'ontoteologia sostiene a livello filosofico, tant'è vero che di questa critica
spesso si nutre e su di essa talvolta si appoggia. La discussione potrebbe riguardare il rapporto
analogia fidei / analogia entis, e il tentativo di pensare un’analogia fidei che non intende
contrapporsi all’analogia entis, la quale, a sua volta, lungi dal volersi costituire come forma di
conoscenza autonoma e separata dalla Rivelazione, chiama in causa proprio la dimensione cosmico-
antropologica dell'automanifestazione di Dio e quindi poggia sulla creazione e si esprime nella
forma dell'esercizio della ragione creata15.

Questa prospettiva inclusiva e non contrappositiva della duplice analogia, consente una
“analoga” prospettiva riguardo ad un nucleo teoretico cui abbiamo già accennato e consente di aprire la
riflessione ad ulteriori approfondimenti, in quanto essa riaggancia il tema dell’istanza veritativa della
Rivelazione, dove appunto una concezione rivelativa del vero non andrebbe contrapposta, ma potrebbe

10
H. U. VON BALTHASAR, La teologia di Karl Barth, Jaca Book, Milano 1985, 53.
11
Cf G.SÖHNGEN, “Analogia fidei: Gottähnlichkeit allein aus den Glauben?”, in Catholica 3 (1934) 113-136 e IDEM,
“Analogia fidei: Die Einheit in der Glaubenwissenschaft”, in Catholica 4 (1934) 176-208.
12
Per un primo approccio al tema nel pensiero balthasariano rimando all’ultima sezione del vol V di Gloria. Nello
spazio della metafisica. L’età moderna, Jaca Book, Milano 1978 e in particolare ai capitoli: “Il miracolo dell’essere e la
quadruplice differenza”, 547-560 e “L’apporto cristiano alla metafisica”, 579-588. Sul tema dell’”analogia catalogica”
nel pensiero di von Balthasar cf. M. SAINT-PIERRE, “L’analogie catalogique. L’intégration christologique des
trascendentaux”, in IDEM, Beauté, bonté, vérité chez Hans Urs von Balthasar, Cerf, Paris, 1998, 322-330.
13
Cf E. JÜNGEL, Gott als Geheimnis der Welt. Zur Begründung der Theologie des Gekreuzigten im Streit zwischen
Theismus uns Atheismus, Mohr, Tübingen 19783 (trad. it. di F. CAMERA, Queriniana, Brescia 1982). Sul tema della
metafora cf. E. JÜNGEL, “Verità metaforica. Riflessioni sulla rilevanza teologica della metafora come contributo
all’ermeneutica di una teologia narrativa”, in P. RICOEUR – E. JÜNGEL, Dire Dio. Per un’ermeneutica del linguaggio
religioso, Queriniana, Brescia 1978, 109-180. Sul tema dell’analogia nel pensiero di Jüngel cf. la tesi di P. GAMBERINI,
Nei legami del Vangelo. L’analogia nel pensiero di Eberhard Jüngel, Gregoriana – Morcelliana, Roma – Brescia 1994.
14
Cf E. PRZYWARA, op. cit.
15
Particolarmente interessanti e suggestive le considerazioni svolte da Andrea Milano, intorno all’analogia Christi (cf
A. MILANO, “L’analogia Cristo. Dire Dio nella teologia cristiana”, in ID., Quale verità. Per una critica della ragione
teologica, EDB, Bologna 1999, 163-213).

11
includere una concezione adeguativa della stessa verità, in modo da recuperare all’interno di una
prospettiva consona al modello cattolico autentico, la grande lezione tomista circa il realismo
gnoseologico, imprescindibile anch’essa per un adeguato sviluppo del sapere credente sia in senso
teologico che filosofico. In questo senso il compito del pensiero cattolico sarà quello non del rifiuto
dell’istanza metafisica, ma di un suo profondo rinnovamento e di una sua convinta riproposta in
termini e modalità che consentano un incontro fecondo con la cultura e il pensiero filosofico attuale16.

Un’ulteriore annotazione, dal punto di vista gnoseologico, va dedicata alla tematica dei
praeambula fidei, che diversi settori dell’attuale teologia fondamentale tendono pregiudizialmente
ad escludere dai contenuti della disciplina. Il ruolo “previo” della ragione rispetto alla fede e della
filosofia rispetto alla teologia viene di fatto messo in discussione soprattutto da parte di teologi,
prevalentemente preoccupati di riservare alla fede un primato logico e storico, che impedisca e
osteggi ogni pelagianesimo epistemologico. Si intende così eliminare ogni equivoco o sospetto che
la fede cristiana possa fondarsi in qualche modo sulla ragione o sulla conoscenza filosofica (ovvero
su una razionalità extrateologica), affermando che essa si fonda sulla Rivelazione generando così
anche un nuovo modo di conoscere e intelligere il reale. Se intesa in tal senso la preoccupazione
risulta legittima e non può che essere condivisa. Tuttavia la dottrina cattolica dei praeambula fidei è
ben lungi dall’attribuire un ruolo fondativo alla ragione rispetto alla fede, piuttosto vede in essa una
sorta di praeparatio evangelii, conferendole una sorta di carattere di avvento rispetto all’evento che
salva e in tal senso la possibilità di un’adeguata elaborazione dei praeambula fidei sembra non solo
plausibile, ma necessaria, anche perché la teologia possa svolgere un ruolo dialogico e apologetico
nei confronti delle culture e delle filosofie presenti nel proprio areopago. Si tratta di un lavoro
speculativo che certamente trova il suo grembo nella fede, ma che tende ad integrare l’orizzonte
della creazione e quello della rivelazione, in modo che l’esercizio della “ragione creata” costituisca
l’ambito e la modalità privilegiata per il dialogo con culture e filosofie altre. La tematica dei
praeambula fidei e in particolare dell’esistenza di Dio, sulla scorta di Anselmo, Bonaventura e
Tommaso, non può non interpellare il teologo fondamentale, chiamato comunque a mostrare le vie
di accesso all’esistenza del Dio Unitrino, naturalmente con linguaggio e categorie proprie della sua
cultura e del suo tempo17.

16
Un modesto contributo in tal senso nel nostro saggio programmatico:“Crisi della metafisica e metamorfosi della
teologia”, in Lateranum 67 (2001) 203-258.
17
Cf a questo riguardo A. W. J. HOUTEPEN, Dio, una domanda aperta. Pensare Dio nell’era della dimenticanza di Dio,
Queriniana, Brescia 2001; cf inoltre G. MAZZILLO (ed.), Parlare di Dio. Possibilità, percorsi, fraintendimenti, San
Paolo, Cinisello Balsamo 2002. Il nostro tentativo di pensare i praeambula fidei e l’esistenza di Dio nel contesto della
cultura e della filosofia contemporanea in G. LORIZIO, Fede e ragione. Due ali verso il Vero, Paoline, Milano 2003.

12
Le riflessioni di ordine gnoseologico ed epistemologico che la FR ci ha suggerito non possono
non chiudersi senza il riferimento all’orizzonte sapienziale, che l’enciclica richiama e in un certo senso
rivendica sia per il sapere filosofico che per quello teologico. Volendo in qualche modo orientarci,
all’interno delle varie accezioni che il termine “sapienza” suggerisce ed evoca, ci sembra di poter
individuare e quindi richiamare almeno tre significati fondamentali connessi all’uso di questa parola
in relazione alla teologia. In primo luogo “sapienza” sarebbe la conoscenza della causa prima,
dotata di assolutezza e incondizionatezza spirituale; in secondo luogo il termine starebbe ad indicare
una conoscenza “saporita” del vero, una sapida scientia, in un rapporto amativo col vero che si
conosce, capace di coinvolgere quindi anche la sensibilità e l’affettività18. Mentre non sfugge il
carattere paradossale di questa prima duplice accezione, il terzo elemento costitutivo dell’idea di
sapienza rimanda all’orizzonte unitario, per cui è veramente sapiente chi riesce a cogliere ed
esercitare un sapere unitario, non lasciandosi irretire dal molteplice, né ammaliare dal suo fascino.
L’enciclica declina in momenti e passaggi diversi le tre dimensioni della sapienza indicate,
l’approfondimento delle quali richiederebbe un’apposita monografia. Qui ci limitiamo ad
aggiungere il dinamismo, espresso dalla metafora della maturazione, che FR suggerisce riguardo al
rapporto scienza / sapienza e l’orizzonte pneumatologico in cui esso è pensato: “Tra le grandi
intuizioni di san Tommaso vi è anche quella relativa al ruolo che lo Spirito Santo svolge nel far
maturare in sapienza la scienza umana. Fin dalle prime pagine della sua Summa Theologiae
l'Aquinate volle mostrare il primato di quella sapienza che è dono dello Spirito Santo ed introduce
alla conoscenza delle realtà divine. La sua teologia permette di comprendere la peculiarità della
sapienza nel suo stretto legame con la fede e la conoscenza divina. Essa conosce per connaturalità,
presuppone la fede e arriva a formulare il suo retto giudizio a partire dalla verità della fede stessa:
«La sapienza elencata tra i doni dello Spirito Santo è distinta da quella che è posta tra le virtù
intellettuali. Infatti quest'ultima si acquista con lo studio: quella invece “viene dall'alto”, come si
esprime san Giacomo. Così pure è distinta dalla fede. Poiché la fede accetta la verità divina così
com'è, invece è proprio del dono di sapienza giudicare secondo la verità divina». La priorità
riconosciuta a questa sapienza, tuttavia, non fa dimenticare al Dottore Angelico la presenza di altre
due complementari forme di sapienza: quella filosofica, che si fonda sulla capacità che l'intelletto
ha, entro i limiti che gli sono connaturali, di indagare la realtà; e quella teologica, che si fonda sulla
Rivelazione ed esamina i contenuti della fede, raggiungendo il mistero stesso di Dio. Intimamente
convinto che «omne verum a quocumque dicatur a Spiritu Sancto est», san Tommaso amò in
maniera disinteressata la verità. Egli la cercò dovunque essa si potesse manifestare, evidenziando al
massimo la sua universalità. In lui, il Magistero della Chiesa ha visto ed apprezzato la passione per

18
A proposito cf M. D. CHENU, La teologia come scienza nel XIII secolo, Jaca Book, Milano 19852, 133-134.

13
la verità; il suo pensiero, proprio perché si mantenne sempre nell'orizzonte della verità universale,
oggettiva e trascendente, raggiunse «vette che l'intelligenza umana non avrebbe mai potuto
pensare». Con ragione, quindi, egli può essere definito «apostolo della verità». Proprio perché alla
verità mirava senza riserve, nel suo realismo egli seppe riconoscerne l'oggettività. La sua è
veramente la filosofia dell'essere e non del semplice apparire” (FR, 44).

2. FR e il profilo fondativo della teologia fondamentale

La FR interpella, né può essere altrimenti, la prerogativa fondazionale della teologia


fondamentale. Senza il cogente richiamo al fondamento, l’armamentario gnoseologico ed
epistemico più sofisticato risulterebbe fallace e ciò riguarda sia il sapere teologico che quello
filosofico. In uno dei brani più citati e commentati dell’enciclica Giovanni Paolo II assume quasi un
tono profetico, nella consapevolezza di nuotare contro corrente, mentre richiama il pensiero al suo
compito più importante: “Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di
saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento. Non è
possibile fermarsi alla sola esperienza; anche quando questa esprime e rende manifesta l'interiorità
dell'uomo e la sua spiritualità, è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza
spirituale e il fondamento che la sorregge. Un pensiero filosofico che rifiutasse ogni apertura
metafisica, pertanto, sarebbe radicalmente inadeguato a svolgere una funzione mediatrice nella
comprensione della Rivelazione” (FR, 83).

Alcune considerazioni si rendono necessarie, onde il percorso (die Bahn), che qui viene
indicato non resti nella genericità del richiamo formale o omiletico. In primo luogo, ci sembra
doversi escludere un’interpretazione in chiave estrinsecista del cammino che ha come terminus a
quo il fenomeno e terminus ad quem il fondamento. L’evocazione dell’oracolo di Delfi con cui si
apre il primo capitolo dell’enciclica, ci sembra un chiaro invito a cercare il fondamento nel
fenomeno, non al di fuori di esso, sicché la via dell’interiorità resta fondamentale per l’itinerarium
mentis in Deum. Al tempo stesso, nel passaggio sopra riportato, FR mette in guardia da
un’interpretazione “immanentistica” della via dell’interiorità. Il cammino dal fenomeno al
fondamento non consiste in un movimento di autotrascendenza dell’uomo, sicché senza il
riferimento all’alterità della trascendenza e senza il movimento che irrompe dall’alto non sarebbe
possibile un’adeguata conoscenza del fondamento. Nella nostra prospettiva teologico-filosofica,
infatti, le vie dell’interiorità e dell’alterità devono integrarsi nell’orizzonte della terza via, quella

14
della gratuità, caratterizzante lo stesso rapporto fede / ragione in senso agapico. La stessa
interpretazione dell’oracolo ci sembra escludere l’autotrascendimento in quanto: “Sul preciso
significato che la scritta «conosci te stesso» comunicava a chi entrava nel tempio per avere rapporto
con Apollo, e con il suo Oracolo, gli studiosi hanno raggiunto un sostanziale accordo di fondo:
Apollo invitava l’uomo a riconoscere la propria limitatezza e finitezza, e, quindi, esortava a
mettersi in rapporto col Dio, appunto sulla base di questa precisa consapevolezza”19. La vicenda
storica dell’ontologismo (tematica che a nostro avviso merita una ripresa rigorosa e vigorosa sia in
campo teologico che filosofico) ci ha istruiti intorno alla possibilità di cogliere nella mente umana
non certamente il soprannaturale, ma la sua traccia, non certamente Dio, ma il divino, che, se siamo
adeguatamente attenti e docili ci indica la via da percorrere per incontrare il Dio vivente.

Una ulteriore serie di considerazioni riguarda l’istanza metafisica propria dell’enciclica. A


questo riguardo, mentre rimandiamo alla relazione di Enrico Berti, ci limitiamo a rilevare le tre
indicazioni di fondo, che promanano da FR. I compiti che la Fides et ratio assegna ai pensatori
credenti riguardano infatti:
1. le implicazioni metafisiche della teologia
[Mi preme concludere questa Lettera enciclica rivolgendo un ultimo pensiero anzitutto ai teologi, affinché
prestino particolare attenzione alle implicazioni filosofiche della parola di Dio e compiano una riflessione da
cui emerga lo spessore speculativo e pratico della scienza teologica. Desidero ringraziarli per il loro servizio
ecclesiale. Il legame intimo tra la sapienza teologica e il sapere filosofico è una delle ricchezze più originali
della tradizione cristiana nell’approfondimento della verità rivelata. Per questo, li esorto a recuperare ed
evidenziare al meglio la dimensione metafisica della verità per entrare così in un dialogo critico ed esigente
tanto con il pensiero filosofico contemporaneo quanto con tutta la tradizione filosofica, sia questa in sintonia o
invece in contrapposizione con la parola di Dio – FR, 105],

2. la necessità della metafisica e dell’ontologia per la teologia

[è necessaria [per la teologia] una filosofia di portata autenticamente metafisica, capace cioè di trascendere i
dati empirici per giungere, nella sua ricerca della verità, a qualcosa di assoluto, di ultimo, di fondante. È
un’esigenza, questa, implicita sia nella conoscenza a carattere sapienziale che in quella a carattere analitico; in
particolare, è un’esigenza propria della conoscenza del bene morale, il cui fondamento ultimo è il Bene
sommo, Dio stesso. Non intendo qui parlare della metafisica come di una scuola specifica o di una particolare
corrente storica. Desidero solo affermare che la realtà e la verità trascendono il fattuale e l’empirico, e voglio
rivendicare la capacità che l’uomo possiede di conoscere questa dimensione trascendente e metafisica in modo
vero e certo, benché imperfetto ed analogico. In questo senso, la metafisica non va vista in alternativa
all’antropologia, giacché è proprio la metafisica che consente di dare fondamento al concetto di dignità della
persona in forza della sua condizione spirituale. La persona, in particolare, costituisce un ambito privilegiato
per l’incontro con l’essere e, dunque, con la riflessione metafisica – FR, 83]

[Se compito importante della teologia è l’interpretazione delle fonti, impegno ulteriore e anche più delicato ed
esigente è la comprensione della verità rivelata, o l’elaborazione dell'intellectus fidei. Come già ho accennato,
l’intellectus fidei richiede l’apporto di una filosofia dell'essere, che consenta innanzitutto alla teologia
dogmatica di svolgere in modo adeguato le sue funzioni. Il pragmatismo dogmatico degli inizi di questo
secolo, secondo cui le verità di fede non sarebbero altro che regole di comportamento, è già stato rifiutato e
rigettato; ciò nonostante, rimane sempre la tentazione di comprendere queste verità in maniera puramente

19
G. REALE, «Presentazione», in P. COURCELLE, Conosci te stesso. Da Socrate a San Bernardo, Vita e pensiero, Milano
2001, 7.

15
funzionale. In questo caso, si cadrebbe in uno schema inadeguato, riduttivo, e sprovvisto dell’incisività
speculativa necessaria. Una cristologia, ad esempio, che procedesse unilateralmente «dal basso», come oggi si
suole dire, o una ecclesiologia, elaborata unicamente sul modello delle società civili, difficilmente potrebbero
evitare il pericolo di tale riduzionismo – FR, 97],

3. Il lavoro di scavo e di rinnovamento cui il sapere metafisico deve essere sottoposto, in


quanto non è più possibile ripetere schemi antiquati e pensare la fede con categorie obsolete

[La parola di Dio fa continui riferimenti a ciò che oltrepassa l'esperienza e persino il pensiero dell'uomo; ma
questo « mistero » non potrebbe essere rivelato, né la teologia potrebbe renderlo in qualche modo intelligibile,
se la conoscenza umana fosse rigorosamente limitata al mondo dell'esperienza sensibile. La metafisica,
pertanto, si pone come mediazione privilegiata nella ricerca teologica. Una teologia priva dell'orizzonte
metafisico non riuscirebbe ad approdare oltre l'analisi dell'esperienza religiosa e non permetterebbe
all'intellectus fidei di esprimere con coerenza il valore universale e trascendente della verità rivelata – FR, 83].

[Se l'intellectus fidei vuole integrare tutta la ricchezza della tradizione teologica, deve ricorrere alla filosofia
dell'essere. Questa dovrà essere in grado di riproporre il problema dell’essere secondo le esigenze e gli apporti
di tutta la tradizione filosofica, anche quella più recente, evitando di cadere in sterili ripetizioni di schemi
antiquati. La filosofia dell'essere, nel quadro della tradizione metafisica cristiana, è una filosofia dinamica che
vede la realtà nelle sue strutture ontologiche, causali e comunicative – FR, 97].

Una importante precisazione terminologica mi sembra implicare almeno una duplice


possibilità di interpretazione del termine “metafisica” e del sapere che la parola intende esprimere.
Mi riferisco alla necessità di ben distinguere “istanza metafisica” da “sistema metafisico”. Nel
primo caso si tratta di una componente del sapere filosofico e teologico, che può essere
semplicemente sottesa, operando in maniera criptica nelle diverse forme dell’umana conoscenza,
costituendone l’orizzonte di riferimento ultimo, caratterizzato dalla dialettica fra già e non-ancora,
fra le sue espressioni storiche e la sua tensione profonda. Nel secondo caso si tratta della metafisica
come sapere totalizzante e onnicomprensivo, esposto alla tentazione ideologica e all’utilizzo
strumentale, ma, in senso positivo, caratterizzato da quella unitotalità, cui il pensiero umano
comunque tende e che la mente continuamente ricerca.

Ma l’istanza metafisica può essere anche intesa come anelito e dimensione, che percorre le
diverse forme del sapere, e può o meno (pertanto va da essa tenuta distinta anche se non separata)
cristallizzarsi ed esprimersi in una disciplina a sé stante, con uno statuto epistemologico proprio e
una propria collocazione nei piani di studio e nei curricula accademici. Queste ultime annotazioni
ci portano a riflettere sul fatto che non sempre e non necessariamente risulterà esplicitamente
definita con una etichetta ben visibile la forma metafisica di correnti o autori che pure perseguono
un sapere in ultima istanza appunto metafisico. Il caso più eclatante può essere dato dal pensiero
platonico, la cui valenza metafisica nessuno si sente di escludere, pur nella constatazione che il
termine mai ricorre negli scritti del filosofo.

16
Se nel paragrafo dedicato alla teologia fondamentale (cf FR, 67) l’attenzione si concentra
sulla tematica in cui si esprime la valenza fondativa della disciplina, ovvero sulla Rivelazione e la
sua credibilità, colpisce in un punto nevralgico dell’enciclica l’utilizzo dell’espressione, che Franz
Rosenzweig ha adottato come Leitmotiv della propria riflessione e Giovanni Paolo II ha qui
incastonato:

“Si tratta del mio punto di Archimede in filosofia, che


cercavo da lungo tempo”.

“Rivelazione è orientamento. Dopo la rivelazione nella “La Rivelazione cristiana è la vera stella di
natura c'è un "alto" e un "basso", reale, non più orientamento per l'uomo che avanza tra i
relativizzabile: "cielo" e "terra" [...] e nel tempo c'è un condizionamenti della mentalità immanentistica e le
"prima" e un "dopo", reale, stabile. Quindi nello spazio strettoie di una logica tecnocratica; è l'ultima possibilità
naturale e nel tempo naturale il centro è sempre il punto in che viene offerta da Dio per ritrovare in pienezza il
cui io in quel momento sono [!"#$%&'() *+#$'") progetto originario di amore, iniziato con la creazione.
,&-"#%".; nello spazio-tempo-mondo rivelato il centro è All'uomo desideroso di conoscere il vero, se ancora è
invece un punto fisso inamovibilmente, un punto che non capace di guardare oltre se stesso e di innalzare lo sguardo
sposto se io stesso mi trasformo o mi allontano: la terra è il al di là dei propri progetti, è data la possibilità di
centro del mondo e la storia universale si estende prima e recuperare il genuino rapporto con la sua vita, seguendo la
dopo Cristo [/01()2,3)456'(),7#'8)*+#$'"),&-"#%".”20. strada della verità” (FR, 15).

Il messaggio, con tutta la sua carica profetica, tende a coinvolgere innanzitutto la persona (e
naturalmente il filosofo e il teologo), piuttosto che le discipline e i saperi, in quanto la verità di cui è
portatore non può prescindere dall’esercizio della libertà e quindi non può esprimersi se non in
termini storico-salvifici, invocando le nostre scelte fondamentali ed esigendo la nostra sequela. Il
nodo antropologico risulta qui ineludibile. Il nesso inscindibile tra persona e verità che il “pensiero
rivelativo” riconosce come costitutivo di un’autentica e liberante conoscenza è stato tematizzato dal
pensiero contemporaneo in alcune sue figure rappresentative ed efficacemente esposto nelle pagine
introduttive dell’importante volume di Luigi Pareyson intitolato, Verità e interpretazione: “quando
la libertà cessa di reggere il vincolo originario di libertà e persona, tutto si trasforma. La verità
dilegua, lasciando il pensiero vuoto e disancorato, e scompare anche la persona, ridotta a mera
situazione storica. L’armonia fra dire, rivelare ed esprimere, si rompe, e tutti i rapporti ne risultano
sconvolti e profondamente alterati. Rivelazione ed espressione si separano definitivamente: senza
verità, l’aspetto rivelativo della parola è puramente apparente e si riduce a una razionalità vuota e
priva di contenuto; non più riferita alla persona nella sua apertura rivelativa, ma alla situazione nella
sua mera temporalità, l’espressione diventa inconsapevole e occulta. La natura della parola

20
GS, III, 1984, 125-138: F. ROSENZWEIG, Cellula originaria della «Stella della redenzione» (= Urzelle) in ID., Il
nuovo pensiero, a cura di G. Bonola, l’Arsenale Venezia 1983, 19-20. Il riferimento cristologico non deve trarci in
inganno, esso è dovuto ad Eugen Rosenstock, l'interlocutore epistolare di Rosenzweig, al quale aveva rivolto la
domanda su cosa intendesse per "rivelazione". Il testo sopra riportato è praticamente la risposta dell'amico, convertito al
cristianesimo.

17
degenera e si sfalda: da un lato un discorso la cui vuota razionalità non si presta che a
un’utilizzazione tecnica e strumentale, e dall’altro, mascherato dal discorso esplicito, il vero
significato di esso, cioè l’espressione del tempo”21.

L’assunzione di una prospettiva rivelativa indica al pensiero teologico alcuni percorsi che
Pareyson indica con le seguenti formule: non il nulla, ma l’essere – non l’Abgrund, ma l’Urgrund,
non il misticismo dell’ineffabile, ma l’ontologia dell’inesauribile, dove si invoca una
“trasvalutazione della parola”22, che ci consente di spezzare una lancia contro il pensiero dominante
sia nella cultura diffusa che in quella accademica, che assume una concezione utilitaristica e
convenzionalistica del linguaggio, ponendolo nel dominio meramente antropologico, come mera
espressione di quel “pensiero calcolante”, corrispondente heideggeriano del “pensiero espressivo”,
che il “pensiero rivelativo” è chiamato a smascherare e oltrepassare. “Dipendenza senza
eteronomia” è la formula che Paul Ricoeur ha coniato per indicare il rapporto testimonianza-parola-
rivelazione, nel tentativo di superare sia lo scoglio del sacrificium intellectus, inammissibile in
rapporto all’idea di rivelazione, sia la pretesa filosofica della “trasparenza totale” della verità, dove
“la conquista di un nuovo concetto di verità come manifestazione – nel senso di rivelazione –
richiede il riconoscimento della vera dipendenza dell’uomo che non è sinonimo di eteronomia”23. In
questa prospettiva ricoeriana l’ermeneutica della testimonianza sarà una filosofia “per la quale la
questione dell’assoluto è una questione sensata” (e certo non in senso fondamentalistico), sarà una
filosofia “che chiede di congiungere all’idea dell’assoluto un’esperienza dell’assoluto” e infine una
filosofia “che non trova né nell’esempio né nel simbolo la densità di questa esperienza”24. La
plausibile alternativa alla dialettica simbolo-esempio è costituita a nostro avviso proprio dal
carattere “sacramentale” della rivelazione, determinante per individuarne la grammatica e la
sintassi. L’enciclica, riserva un passaggio paradossalmente suggestivo, con l’ardito accostamento di
San Tommaso a Pascal, a tale dimensione sacramentale, allorché scrive: “Si è rimandati, in qualche
modo, all'orizzonte sacramentale della Rivelazione e, in particolare, al segno eucaristico dove
l'unità inscindibile tra la realtà e il suo significato permette di cogliere la profondità del mistero.
Cristo nell'Eucaristia è veramente presente e vivo, opera con il suo Spirito, ma, come aveva ben
detto san Tommaso, «tu non vedi, non comprendi, ma la fede ti conferma, oltre la natura. E un
segno ciò che appare: nasconde nel mistero realtà sublimi».Gli fa eco il filosofo Pascal: «Come
Gesù Cristo è rimasto sconosciuto tra gli uomini, così la sua verità resta, tra le opinioni comuni,

21
L. PAREYSON, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 19823, 19.
22
Cf ib., 27-28.
23
P. RICOEUR, Testimonianza, parola e rivelazione, Dehoniane, Roma 1997, la cit. a p. 133.
24
Ib., 74-77.

18
senza differenza esteriore. Così resta l'Eucaristia tra il pane comune». La conoscenza di fede,
insomma, non annulla il mistero; solo lo rende più evidente e lo manifesta come fatto essenziale per
la vita dell'uomo: Cristo Signore « rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche
pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione», che è quella di partecipare al
mistero della vita trinitaria di Dio” (FR, 13).

In questo orizzonte e con ruolo di cerniera tra il momento dell’auditus e quello


dell’intellectus fidei, si pone la figura della ragione storica, come determinante per il sapere
teologico, in quanto e nella misura in cui assume il carattere di una “ermeneutica della
testimonianza”. Si tratta – se stiamo ad esempio alla proposta di Paul Ricoeur – di un lavoro teso a
produrre l’incontro fra l’esegesi storica e l’esegesi di se stessi, in una complessa dialettica fra
testimone, testimonianza e destinatario nella quale si attua una sorta di “criteriologia del divino”,
intesa nel senso del “più grande sforzo che può fare la coscienza per astrarre dalle condizioni che le
impediscono una completa soddisfazione, quando incomincia, all’interno stesso della sua finitudine,
a giustificarsi, a convertirsi verso una purezza radicale delle sue intenzioni”25. Si tratta di un’attività
di spoliazione, e se si vuole di kenosi, non meramente passiva e subita, ma che, in quanto attività,
pone delle azioni di carattere interpretativo e applicativo. Ricoeur così si esprime: “L’assoluto si
dichiara qui ed ora. C’è nella testimonianza un’immediatezza dell’assoluto senza la quale non ci
sarebbe niente da interpretare. Questa immediatezza opera come origine, come initium, al di là del
quale non si può risalire. A partire da qui, l’interpretazione sarà l’interminabile mediazione di
questa immediatezza. Ma senza di questa, l’interpretazione non sarà altro che interpretazione di
interpretazioni. C’è un momento in cui l’interpretazione è l’esegesi di una o più testimonianze. La
testimonianza è l’9"-62:) ;#<",=) dell’interpretazione. Un’ermeneutica senza testimonianza è
condannata alla regressione, in un prospettivismo senza inizio né fine”26. In questa dialettica il
testimone si distingue dal narratore, ma notiamo anche come il suo ruolo viene ad escludere ogni
deriva fondamentalista del credere: “il martire non è un argomento, ancor meno una prova. È una
verifica, una situazione limite. Un uomo diventa un martire perché prima di tutto è un testimone”27.
E a proposito del martirio la nostra enciclica si esprime in termini inequivocabili: “Il martire, in
effetti, è il più genuino testimone della verità sull'esistenza. Egli sa di avere trovato nell'incontro
con Gesù Cristo la verità sulla sua vita e niente e nessuno potrà mai strappargli questa certezza. Né
la sofferenza né la morte violenta lo potranno fare recedere dall'adesione alla verità che ha scoperto
nell'incontro con Cristo. Ecco perché fino ad oggi la testimonianza dei martiri affascina, genera

25
J. NABERT, Le désir de Dieu, Aubier-Montaigne, Paris 1966, 264.
26
P. RICOEUR, Testimonianza, parola e rivelazione, cit., 99.
27
Ib., 84.

19
consenso, trova ascolto e viene seguita. Questa è la ragione per cui ci si fida della loro parola: si
scopre in essi l'evidenza di un amore che non ha bisogno di lunghe argomentazioni per essere
convincente, dal momento che parla ad ognuno di ciò che egli nel profondo già percepisce come
vero e ricercato da tanto tempo. Il martire, insomma, provoca in noi una profonda fiducia, perché
dice ciò che noi già sentiamo e rende evidente ciò che anche noi vorremmo trovare la forza di
esprimere” (FR, 32).

La prospettiva del pensiero rivelativo suggerisce che l’ontologia e la metafisica, che vi si


dischiudono, possano essere intese e sviluppate nel senso di una ontologia della dedizione, di una
ontologia trinitaria e di una metafisica della carità. Questo quadro speculativo consente da un lato
un’adeguata integrazione dell’istanza fenomenologica, particolarmente adatta ad esprimere la figura
del pensiero rivelativo e a darle corpo anche in rapporto alle diverse esperienze religione e d’altra
parte un superamento della koiné ermeneutica28, quale appunto auspicato dalla Fides et ratio: “La
parola di Dio non si indirizza ad un solo popolo o a una sola epoca. Ugualmente, gli enunciati
dogmatici, pur risentendo a volte della cultura del periodo in cui vengono definiti, formulano una
verità stabile e definitiva. Sorge quindi la domanda di come si possa conciliare l'assolutezza e
l'universalità della verità con l'inevitabile condizionamento storico e culturale delle formule che la
esprimono. Come ho detto precedentemente, le tesi dello storicismo non sono difendibili.
L'applicazione di un'ermeneutica aperta all'istanza metafisica, invece, è in grado di mostrare come,
dalle circostanze storiche e contingenti in cui i testi sono maturati, si compia il passaggio alla verità

28
Il problema dell'utilizzazione del modello ermeneutico in teologia è decisamente complesso ed oggi molto dibattuto.
A proposito dell’ermeneutica in teologia, ci sembra molto significativo questo giudizio di Natoli: “Da molti anni in
discussioni private o pubbliche noto che l'ermeneutica è sempre di più applicata alla fede. Questa prassi è antica e ben
consolidata. Più arrischiato è invece quell'atteggiamento, non so quanto volontario o intenzionale che fa valere o tratta
la fede come un'ermeneutica. La mentalità ermeneutica mette in moto una circolarità infinita. Essa, creando un ambito
costante di rinvii, elude il punto fermo. Nel senso che il punto fermo non è più un principio, ma è una decisione, vuoi
della comunità, vuoi dei soggetti. In tale modalità si dissolve la fede. È sempre più difficile trovare il credente. Tutti i
credenti stanno diventando ermeneutici. Quando dicono a me che io sono credente comincio a capire che non sono
credenti loro. Sostanzialmente non c'è più un'origine che non sia la decisione dell'interpretazione” (S. NATOLI, I nuovi
pagani. Neopaganesimo: una nuova etica per forzare le inerzie del tempo, il Saggiatore, Milano 1995, 137). Per una
puntualizzazione del rapporto e dell’assunzione dell’ermeneutica in teologia cf tra l’altro: S. FAUSTI, Ermeneutica
teologica, cit.; C. GEFFRÉ, «La crise de l’herméneutique et ses conséquences pour la théologie», in Recherches de
Science Religieuse 52 (1978) 268-298; G. MURA, «Ermeneutica e teologia», in AA. VV., Studi di ermeneutica, Città
Nuova, Roma 1979, 77-125; P. CODA, «Ragione ermeneutica e teologia», in Filosofia e Teologia 7 (1993) 18-25; ID.,
Teo-logia. La Parola di Dio nelle parole dell’uomo, PUL-Mursia, Roma 1997, in particolare 160-169; G. FERRETTI,
«Filosofia e teologia: alla ricerca di un nuovo rapporto», in S. MURATORE (ed.), Teologia e filosofia. Alla ricerca di un
nuovo rapporto, Ave, Roma 1990, 15-55, le nostre obiezioni ib. 224-225; ID., «Ermeneutica filosofica ed ermeneutica
teologica», in Filosofia e Teologia 9 (1995) 3-8; I SANNA (ed.), Il sapere teologico e il suo metodo. Teologia,
ermeneutica e verità, EDB, Bologna 1993. Un esempio circa i guadagni che un’attenta e critica assunzione del modello
ermeneutico può produrre in teologia nel volume di A. MILANO, op. cit., in particolare cf 67-90. Un’adozione del
“modello ermeneutico” in teologia, che vada ben oltre l’utilizzo dell’ermeneutica come interpretazione dei testi e dei
contesti in cui si cristallizza e si trasmette la fede non può non tener conto della necessità che l’ermeneutica si apra ed
accolga l’istanza metafisica, secondo quanto autorevolmente insegna la FR. In questo senso la “circolarità” fra teologia
e filosofia che l’enciclica propone (FR, 73) non ci sembra possa essere intesa nel senso dell’ermeneutica filosofica
dominante.

20
da essi espressa, che va oltre questi condizionamenti. Con il suo linguaggio storico e circoscritto
l'uomo può esprimere verità che trascendono l'evento linguistico. La verità, infatti, non può mai
essere limitata al tempo e alla cultura; si conosce nella storia, ma supera la storia stessa” (FR, 95).

La dimensione trascendente (metafisica e metastorica) della verità qui richiamata fa sì che la


testimonianza e la sua ermeneutica chiamino in causa la riflessione sull’evento fondatore e la sua
dinamica. Il carattere dirompente della risurrezione del Signore sembra fuori discussione sia in
rapporto al contesto culturale e religioso ebraico sia a quello pagano. La struttura antinomica
(rilevabile dalla stessa analisi del testo neotestamentario più antico attestante tale evento 1Cor 15,1-
11) rinvia al carattere escatologico dell’evento stesso, inteso come evento metastorico con valenza
storica, ossia come evento strutturalmente escatologico. Ciò in primo luogo significa che nessuno
può testimoniare l’evento stesso della resurrezione, vissuto in prima persona solo dal crocifisso e
sepolto (carattere meta-storico dell’evento fondatore), in secondo luogo che i testimoni saranno
“testimoni del Risorto” piuttosto che della resurrezione nel suo compiersi e, in terzo luogo, che le
testimonianze riguardano i segni della resurrezione stessa, ossia le apparizioni e la tomba vuota.

Nella prospettiva testimoniale fondativa, la fede, come atto meta-storico, svincolato e libero
sia dagli artifizi della ragione speculativa come dalle erudizioni storiche e storiografiche, e solo
essa, consente la “contemporaneità” col paradosso che è Cristo stesso. L’unica via possibile per
tentare una risposta sensata alla domanda di Lessing (come possono fatti storici assurgere al ruolo
di verità necessarie?) risiede in questa antinomia dell’evento pasquale e della fede che lo accoglie.
Ma appunto in quanto soprannaturale e metastorico l’atto di fede richiede un vero e proprio salto,
un vero e proprio sacrificio dell’intelletto e della ragione. È proprio questa prospettiva teologico-
fondamentale a consentire l'unità del sapere e a far sì che lo storico non resti irretito nella
frammentarietà dei segmenti che indaga e che il suo apporto alla comprensione del fatto/fenomeno
religioso non si esaurisca nel momento - pur necessario - dell'erudizione e della documentazione. La
storia delle religioni - interpellata in questa prospettiva teologico-fondamentale - non può non
incrociare la teologia della storia. Se da un lato il nostro tempo risulta refrattario ad ogni tentativo di
elaborare una filosofia della storia, temendo il rischio di una deriva ideologica di tali meta-
narrazioni, il teologo (e - diremmo - lo studioso credente) non ci sembra possa esimersi dal compito
di pensare unitariamente la storia ed i suoi percorsi. D’altra parte l’orizzonte sacramentale rende

21
possibile quella “misteriosa contemporaneità” con Cristo29, che l’Ecclesia de Eucharistia, con felice
intuizione richiama.
La centralità della Rivelazione risulta plausibile e teologicamente pertinente in quanto
nasconde e svela il fondamento agapico della realtà cosmica, antropologica e storica: l’amore del
Dio Unitrino, origine, grembo e fine di tutte le cose. In questo senso la credibilità della Rivelazione
coinciderà con la credibilità dell’amore (secondo la felice espressione di von Balthasar30). Alla
teologia l’ulteriore approfondimento dell’orizzonte trinitario della Rivelazione, sia nella sua
dimensione cosmico-antropologica che in quella storico-escatologica. Si può, in questa prospettiva,
guadagnare una filosofia (anzi una metafisica) a partire dalla teologia31? Se siamo chiamati a
pensare l’istanza metafisica in termini non obsoleti e stantii, non siamo dalla stessa Rivelazione
provocati a pensare un’autentica metafisica dell’actus essendi, capace di declinarsi nei termini
dell’ontologia della dedizione, dell’ontologia trinitaria e della metafisica della carità? Ne
risulterebbe una “metafisica dinamica”, come quella auspicata e proposta nell’opera principale di
Blondel, in cui non solo la ragione, bensì anche la volontà libera e l’affettività giocano ruoli non
marginali: “Quello che c’è di vero, di originale e di efficace nella metafisica si compendia dunque
in queste tre proposizioni che sara necessario giustificare succintamente: 1) la metafisica ha un
fondamento sperimentale; essa si nutre di tutto il reale; 2) essa subordina i fatti attuali a fatti che
non sono affatto, nel senso positivo in cui i primi sono; essa prolunga il mondo della natura in un
mondo del pensiero che ne diventa la ragione e la legge; 3) essa afferma ciò che non è, e lo mette in
pratica perché sia; l’atto diventa così una naturalizzazione del possibile nel reale. La metafisica è
dunque un dinamismo. Essa parte dai fatti per ritornare ai fatti, ma fatti di un ordine superiore. Essa,
per forza di cose, induce l’uomo ad attingere il principio della propria condotta non nell’universo
ma altrove. Nel ritmo della vita, che va dall’azione all’azione, essa inserisce il pensiero, frutto e
germe di una volontà più perfetta. Cosi le idee che la metafisica organizza in sistemi sono al tempo
stesso - reali, perché esprimono a livello di coscienza le reazioni molteplici che lo sguardo non
arriva a cogliere fin nelle profondità della vita universale in noi; - ideali, perché, illuminando e

29
“«Mysterium fidei! - Mistero della fede!». Quando il sacerdote pronuncia o canta queste parole, i presenti acclamano:
« Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell'attesa della tua venuta ». In queste o simili
parole la Chiesa, mentre addita il Cristo nel mistero della sua Passione, rivela anche il suo proprio mistero: Ecclesia de
Eucharistia. Se con il dono dello Spirito Santo a Pentecoste la Chiesa viene alla luce e si incammina per le strade del
mondo, un momento decisivo della sua formazione è certamente l'istituzione dell'Eucaristia nel Cenacolo. Il suo
fondamento e la sua scaturigine è l'intero Triduum paschale, ma questo è come raccolto, anticipato, e «concentrato» per
sempre nel dono eucaristico. In questo dono Gesù Cristo consegnava alla Chiesa l’attualizzazione perenne del mistero
pasquale. Con esso istituiva una misteriosa «contemporaneità» tra quel Triduum e lo scorrere di tutti i secoli. Questo
pensiero ci porta a sentimenti di grande e grato stupore. C'è, nell'evento pasquale e nell'Eucaristia che lo attualizza nei
secoli, una « capienza » davvero enorme, nella quale l'intera storia è contenuta, come destinataria della grazia della
redenzione” (Ecclesia de Eucharistia, 5).
30
Cf H. U. VON BALTHASAR, Solo l’amore è credibile, Borla, Roma 1977.
31
H. U. VON BALTHASAR, «Regagner une philosophie à partir de la théologie», in AA. VV, Pour une philosophie
chrétienne. Philosophie et Théologie, Le Sycomore – Lethielleux, Paris – Namur 1983, 175-187.

22
oltrepassando l’esperienza attuale, preparano le decisioni prossime; - pratiche, perché hanno un
influsso incontrovertibile sull’orientamento degli atti volontari”32.

E, a proposito dell’affettività (così da riprendere una delle accezioni dell’idea di sapienza


sopra indicate) viene in mente la suggestiva espressine di Lucien Laberthonnière, secondo cui la
metafisica è anche uno “stato d’animo”. “Ebbene! una metafisica è anche uno stato d’animo. E una
vita morale che si elabora, che prende piena coscienza di se stessa e si fissa in determinate
concezioni. Ciò costituisce veramente una specie di poema; ma non un poema che racconta
avventure immaginarie, ma un poema messo in atto da chi lo compone, che esprime la sua anima e
il suo cuore, la realtà umana che egli è, con i suoi sforzi e le sue speranze, o anche con le sue viltà e
le sue disperazioni. Indubbiamente il solo fatto di rientrare in se stessi, per formularsi accuratamente
una concezione, per comporre il poema della propria vita, è già un atto di coraggio, un passo verso
la luce e verso l’ideale morale. E tutte le iniziative di questo genere sembrano almeno implicare una
buona disposizione iniziale. Non ne segue tuttavia che abbiano tutte il medesimo valore. Poiché le
concezioni metafisiche sono in un certo senso la fioritura dell’anima umana, lo sbocciare della
propria vita, si può ben dire, anzi si deve dire che esse sono opere di libertà; ma ciò non significa
affatto che siano lasciate al capriccio e che ciascuno possa sognare a suo modo. E vero che, in
quest’ordine di cose, ciascuno può agire e pensare come lo intende dal momento che ciascuno è
libero. Ma come c’è un solo modo buono di agire, così c’è un solo modo vero di pensare. E questo
che si deve seguire: non vi si è costretti, ma vi si è obbligati. A coloro che si lamentano di non
vedere, bisogna chiedere anzitutto di rientrare in se stessi per rendersi conto se veramente
desiderano vedere, se hanno veramente la buona volontà. Con la buona volontà ogni uomo giunge
in questo mondo a trovare il senso della vita”33. La tematica del desiderium, presente nel titolo del
nostro Convegno, potrebbe trovare in questa prospettiva occasione di adeguato approfondimento.

Dal quadro sopra disegnato dovrebbe risultare a questo punto oltremodo non pertinente la
distinzione-contrapposizione fra “metafisica dei primi principi” e “metafisica della coscienza”,
chiamata in causa per dire che FR escluderebbe questa seconda figura dell’istanza ontologico-
metafisica per indugiare in maniera univoca sulla prima34. Tale dialettica contrappositiva dimentica
di fatto l’attenzione al tempo, alla storia e alla coscienza che l’enciclica assume, stimolando
piuttosto l’elaborazione di una ontologia dell’essere storico adeguata ad assumere, inverandole,
alcune istanze fondamentali della modernità e della postmodernità.

32
M. BLONDEL, op. cit., 390.
33
L. LABERTHONNIÈRE, Saggi di filosofia religiosa, Las, Roma 1993, 81.
34
Cf A. BERTULETTI, art. cit., 295.

23
Insomma, nelle viscere della cristiana religione – come insegna Rosmini - si nasconde una
filosofia sfolgorante di evidenza e beante gli intelletti per la sua origine divina e perché conduce di
nuovo a Dio”35. L’esercizio della ragione creata e redenta, oltre che nel quadro del sapere teologico,
infatti, si applica e sviluppa nell’ambito della “filosofia cristiana”36, di cui FR offre un ventaglio
interpretativo e propositivo, tale da consentire una precisa e corretta interpretazione del sintagma e
giustamente senza operare opzioni tra le diverse figure o forme che la filosofia cristiana ha assunto
e di fatto assume nel panorama speculativo passato e presente37. Dopo aver dichiarato la legittimità
della formula, una volta superate le incomprensioni prodottesi nel corso della famosa querelle degli
anni ‘30 del ‘900, una prima distinzione riguarda l’aspetto soggettivo e quello oggettivo, che un
corretto uso del sintagma richiede. Il primo “consiste nella purificazione della ragione da parte della
fede. Come virtù teologale, essa libera la ragione dalla presunzione, tipica tentazione a cui i filosofi
sono facilmente soggetti. Già san Paolo e i Padri della Chiesa e, più vicino a noi, filosofi come
Pascal e Kierkegaard l'hanno stigmatizzata. Con l'umiltà, il filosofo acquista anche il coraggio di
affrontare alcune questioni che difficilmente potrebbe risolvere senza prendere in considerazione i
dati ricevuti dalla Rivelazione. Si pensi, ad esempio, ai problemi del male e della sofferenza,
all'identità personale di Dio e alla domanda sul senso della vita o, più direttamente, alla domanda
metafisica radicale: «Perché vi è qualcosa?»”. In tal senso si tratta dell’opera della grazie nei
confronti di tutto l’uomo e quindi anche della dimensione conoscitiva e del pensiero raziocinante.
Diremmo inoltre che in tal caso il riferimento principale è alla fides qua creditur, all’atto di fede che
produce la salvezza. L’aspetto oggettivo si rivolge invece ai contenuti, assumendo come riferimento
fondamentale la fides quae creditur: “la Rivelazione propone chiaramente alcune verità che, pur

35
A. ROSMINI, Epistolario completo, tip. Pane, Casale Monferrato 1887-1894, vol. III, 611 (1348) a M. Parma del 30
gennaio 1831.
36
Sulla “filosofia cristiana” ci siamo espressi in più occasioni, qui rimandiamo semplicemente ad alcune letture
sull'argomento: AA. VV., Pour une philosophie chrétienne, Le Sycomore - Lethielleux, Paris - Namur 1983; M. BLONDEL,
Le problème de la philosophie catholique, Blond & Gay, Paris 1932; L. FOUCHER, La philosophie catholique en France au
19ème siècle, Vrin, Paris 1955; E. GILSON, L'Esprit de la philosophie médiévale, Vrin, Paris 1932: («Le probleme de la
phil. Chrétienne», 1-20; «La notion de phil. Chrétienne», 21-44); ID., Christianisme et Philosophie, Vrin, Paris 1949; ID.,
Le philosophe et la théologie, Arthème Fayard, Paris 1960; L. LABERTHONNIERE, Essais de philosophie religieuse,
Lethiellieux, Paris 1903; ID., Le réalisme chrétien et l'idéalime grec, Lethielleux, Paris 1904; A. LEONARD, Pensèes des
hommes et foi en Jèsus-Christ. Pour un discernement spirituel chrétien, Lethielleux – Le Sycomore, Paris - Namur 1980; J.
MARITAIN, De la philosophie chrétienne, Desclée de Brouwer, Paris 1933; R. MEHL, La condition du philosophe chrétien,
Delachaux – Niestlè, Neuchatel 1947; M. NEDONCELLE, Existe-t-il une philosophie chrétienne?, Arthème Fayard, Paris
1956; A. RENARD, La querelle sur la possibilité de la philosophie chrétienne, École et collège, Paris 1941; P.THEVENAZ,
La condition de la raison philosophique, La Baconnière, Neuchatel 1960; C. TRESMONTANT, Les origines de la
philosophie chrétienne, Fayard, Paris 1962; R. VANCOURT, La phènomènologie et la foi, Desclée, Tournai 1953; ID.,
Pensèe moderne et philosophie chrétienne, Fayard, Paris 1957; H. DE LUBAC, « Pour une philosophie chrétienne »,
in Nouvelle Revue Théologique 63 (1936) 225-253. Cf inoltre la monumentale: E. CORETH - W. M. NEIDL - G.
PFLIGERSDORFFER (edd.), Christlische Philosophie im katholischen Denken des 19. und 20. Jahrunderts, Styria, Graz –
Wien - Köln 1987, Band 1: Neue Ansätze im 19. Jahrhundert; 1988, Band 2: Rückgriff auf scholastisches Erbe; 1990,
Band 3: Moderne Strömungen im 20. Jahrhundert (trad. it. Città Nuova, Roma 1993-1995).
37
Sul tema in Fr cf X. TILLIETTE, “Il problema della filosofia cristiana”, in Per la filosofia 45 (1999) 51-58.

24
non essendo naturalmente inaccessibili alla ragione, forse non sarebbero mai state da essa scoperte,
se fosse stata abbandonata a sé stessa. In questo orizzonte si situano questioni come il concetto di un
Dio personale, libero e creatore, che tanto rilievo ha avuto per lo sviluppo del pensiero filosofico e,
in particolare, per la filosofia dell'essere. A quest'ambito appartiene pure la realtà del peccato, così
com'essa appare alla luce della fede, la quale aiuta a impostare filosoficamente in modo adeguato il
problema del male. Anche la concezione della persona come essere spirituale è una peculiare
originalità della fede: l'annuncio cristiano della dignità, dell'uguaglianza e della libertà degli uomini
ha certamente influito sulla riflessione filosofica che i moderni hanno condotto. Più vicino a noi, si
può menzionare la scoperta dell'importanza che ha anche per la filosofia l'evento storico, centro
della Rivelazione cristiana. Non a caso, esso è diventato perno di una filosofia della storia, che si
presenta come un nuovo capitolo della ricerca umana della verità”. Interessante anche l’aggiunta:
“Tra gli elementi oggettivi della filosofia cristiana rientra anche la necessità di esplorare la
razionalità di alcune verità espresse dalla Sacra Scrittura, come la possibilità di una vocazione
soprannaturale dell'uomo ed anche lo stesso peccato originale. Sono compiti che provocano la
ragione a riconoscere che vi è del vero e del razionale ben oltre gli stretti confini entro i quali essa
sarebbe portata a rinchiudersi. Queste tematiche allargano di fatto l'ambito del razionale”38. Questa
annotazione ci sembra particolarmente interessante nell’areopago filosofico contemporaneo, dove si
verifica una crescente tendenza a catturare e riesprimere filosoficamente tematiche di carattere
religioso e teologico.

Questa filosofia fondamentalmente cristiana non sembra meno autonoma, né meno libera
delle filosofie prodotte da altre fedi o da altre appartenenze o da altre epoche o da altri contesti e
può mostrare la sua piena autonomia proprio nella sua capacità di rapportarsi e di dialogare con le
filosofie che comunque esprimono il “desiderio” dell’uomo di conoscere il Vero. Sul fondamento
agapico poggia infatti il principio kenotico proprio della logica della fede cristiana. Principio e
fondamento che FR richiama indicando uno dei compiti fondamentali del sapere teologico:
“Impegno primario della teologia, in questo orizzonte, diventa l'intelligenza della kenosi di Dio,
vero grande mistero per la mente umana, alla quale appare insostenibile che la sofferenza e la morte
possano esprimere l'amore che si dona senza nulla chiedere in cambio. In questa prospettiva si
impone come esigenza di fondo ed urgente una attenta analisi dei testi: in primo luogo, dei testi
scritturistici, poi di quelli in cui si esprime la viva Tradizione della Chiesa. A questo riguardo si
propongono oggi alcuni problemi, solo parzialmente nuovi, la cui coerente soluzione non potrà
essere trovata prescindendo dall'apporto della filosofia” (FR, 93).

38
FeR, 76.

25
È infatti il principio kenotico a far sì che, nell’orizzonte sacramentale della Rivelazione, la
Verità si nasconda fra le opinioni, come il pane eucaristico fra il pane comune. Questo con-fondersi
non significa affatto rinuncia o rassegnazione, ma è richiesto dalla stessa legge dell’incarnazione,
cui la teologia della Rivelazione cristiana non può non ispirarsi. Nel suo essere tra gli uomini ed
essere uomo Cristo non è meno Dio di quanto non lo sia nella sua forma di Verbo pre-esistente. Il
principio dell’incarnazione, come quello della redenzione realizzata nell’evento escatologico della
Pasqua illumina e ci consente di interpretare nella maniera più autentica (quella cristologica) la
legge del duplex ordo.

Anche in questo senso la teologia fondamentale si sente interpellata onde sviluppare


adeguatamente la propria costitutiva dimensione cristologica, che FR richiama nel titolo del I
capitolo, allorché la Rivelazione della sapienza di Dio viene colta nel suo compiersi definitivo in
Cristo, “rivelatore del Padre”, ossia del fondamento agapico nella forma del principio kenotico: “La
rivelazione di Dio, dunque, si inserisce nel tempo e nella storia. L'incarnazione di Gesù Cristo, anzi,
avviene nella « pienezza del tempo » (Gal 4, 4). A duemila anni di distanza da quell'evento, sento il
dovere di riaffermare con forza che « nel cristianesimo il tempo ha un’importanza fondamentale
».(9) In esso, infatti, viene alla luce l'intera opera della creazione e della salvezza e, soprattutto,
emerge il fatto che con l'incarnazione del Figlio di Dio noi viviamo e anticipiamo fin da ora ciò che
sarà il compimento del tempo (cfr Eb 1, 2). La verità che Dio ha consegnato all'uomo su se stesso e
sulla sua vita si inserisce, quindi, nel tempo e nella storia. Certo, essa è stata pronunciata una volta
per tutte nel mistero di Gesù di Nazareth” (FR 11)39. Si tratta in ultima analisi di mostrare la valenza
rivelativa dell’evento cristologico ed in questo senso la cristologia entra nella teologia fondamentale
e ne ispira i contenuti.

Né possiamo dimenticare la dimensione ecclesiologica della teologia fondamentale,


suggerita da FR nel senso del compito della Chiesa di custodire e servire la Verità che le è donata:
“La Chiesa non è estranea, né può esserlo, a questo cammino di ricerca. Da quando, nel Mistero
pasquale, ha ricevuto in dono la verità ultima sulla vita dell'uomo, essa s'è fatta pellegrina per le
strade del mondo per annunciare che Gesù Cristo è « la via, la verità e la vita » (Gv 14, 6). Tra i
diversi servizi che essa deve offrire all'umanità, uno ve n'è che la vede responsabile in modo del

39
Cf a questo riguardo R. FISICHELLA (ed.), Gesù rivelatore. Teologia fondamentale, Piemme, Casale Monferrato 1988;
B.SESBOÜÉ, Cristologia fondamentale, Piemme, Casale Monferrato 1997. Una recente teologia fondamentale tutta
impostata in chiave cristologica è quella di C. GRECO, La Rivelazione. Fenomenologia, dottrina e credibilità, San Paolo,
Cinisello Balsamo 2000.

26
tutto peculiare: è la diaconia alla verità. Questa missione, da una parte, rende la comunità credente
partecipe dello sforzo comune che l'umanità compie per raggiungere la verità; dall'altra, la obbliga a
farsi carico dell'annuncio delle certezze acquisite, pur nella consapevolezza che ogni verità
raggiunta è sempre solo una tappa verso quella piena verità che si manifesterà nella rivelazione
ultima di Dio: «Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo faccia a
faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente» (1 Cor 13, 12)” (FR,
2).

In questa prospettiva ecclesiologico-testimoniale, Antonio Rosmini ha elaborato e proposto


una dottrina della certezza della fede, basata sul dinamismo della testimonianza e della sua
trasmissione, nella quale troviamo elementi molto fecondi per l’ecclesiologia fondamentale. Ogni
mediazione della conoscenza di Dio – per il Roveretano - si fonda su una immediatezza di
comunicazione, sicché la fede fa riferimento a verità che si percepiscono e non solo si conoscono.
Vale la pena riportare il passaggio decisivo in cui questa dottrina della testimonianza viene esposta
nel contesto della logica: “E infatti la rivelazione divina da prima fu immediata. Tal è quella fatta a’
profeti e agli apostoli e altri discepoli, e questi preordinati a ricevere l’immediata comunicazione di
Dio non la ricevettero solamente come si riceve una testimonianza espressa in parole esterne, ma di
più come si riceve una percezione, ché essi percepirono internamente le cose divine; e la percezione
non ammette errore. Quelli poi che ricevono questa comunicazione mediante la testimonianza della
Chiesa, la ricevono anch’essi per un mezzo che Iddio rende infallibile; non solo perché la Chiesa
comunicante da parte sua è infallibile, ma di più perché anche in quelli che credono alla
testimonianza della Chiesa, è un lume interiore ed evidente che viene da Dio, e quindi un’interna
percezione, che dà loro la facoltà di giudicare quelle cose assolutamente vere e di prestare ad esse
una fede incondizionata ed assoluta. Tale è la teoria coerentissima della fede cristiana, tutta
conforme alla dottrina logica. Laonde quantunque le verità della fede sieno attestate da
innumerevoli testimonianze, consentanee tra loro e in tutti i secoli, quantunque e le profezie e i
miracoli e l’autorità d’uomini dottissimi, la costanza de’ martiri, la portentosa sua propagazione ed
altri argomenti interni e razionali accumulati d’ogni maniera ne confermino la verità in modo da
produrre la massima certezza normale e pratica ed anche apodittica; tuttavia la verità di questa
religione non si fonda soltanto sulla dimostrazione, ma di più sull’evidenza del lume interno, che
Iddio per grazia comunica, dando a chi crede una percezione di sè ed un criterio immediato della
verità. Il che è conforme a’ divini attributi, anche per questo che dipendendo dalla fede la salute di

27
tutti gli uomini, s’ella si fondasse puramente sopra una dimostrazione razionale, sarebbe per pochi;
perché per pochi è la verità dimostrativa, e Iddio non avrebbe ottenuto il suo fine”40.

Infine, nell’orizzonte del pensiero rivelativo e del rapporto rivelazione-storia, un’indicazione


germinale, ma a mio avviso decisiva e feconda di ulteriori sviluppi nella ricerca teologico-
fondamentale è quella che – a partire dalla struttura sacramentale della Rivelazione - propone la
complessa struttura evento (gesto)-parola non nei termini dell’accostamento e della
sovrapposizione, bensì in tutta la complessa pregnanza che questa polarità esprime, laddove si tratta
per il teologo fondamentale, con l’adeguato supporto del pensiero filosofico, di riflettere sul fatto
che l’evento parla e la parola accade, sicché le prospettive si intrecciano e si rincorrono in modo da
consentirci il superamento della contrapposizione tra scuole teologiche ispirantesi a una concezione
della rivelazione come storia (evento) e scuole esprimenti una identificazione della rivelazione con
la parola. Il testo della Dei Verbum e le osservazioni della FR esigono che la riflessione continui e
produca prospettive nuove e dotate di maggior aderenza al mistero. Coscienza storica e istanza
veritativa non potranno dunque risultare contrapposte e il loro reciproco rapportarsi nella luce del
Verbo incarnato e del Verbo preesistente ossia nella prospettiva cristocentrica e logologica, mentre
consente di riaffermare con forza l’unicità della salvezza cristologica impedisce al tempo stesso
ogni deriva fondamentalista, col conseguente carattere violento di un razionalismo teologico
neognostico tanto deprecabile quanto deleterio non solo per il sapere, ma per il vissuto del nostro
tempo.

La et che sta a congiungere, in un rapporto dialettico e fecondo, la fede e la ragione,


consentendo il superamento dell’inaccettabile fideismo razionalistico, espresso nella formula
dell’aut aut, se non vuol assumere la figura della riconciliazione hegelianamente intesa, dovrà
gratuitamente vestire le sembianze e profondamente declinarsi in senso agapico-comunionale,
consentendo così ai due termini non solo di collaborare occasionalmente o di impostare
atteggiamenti di non belligeranza, bensì di intrecciarsi ed armonizzarsi senza rinunziare, anzi
esaltando, la loro legittima autonomia e la specificità dei loro ruoli. La mediazione cristologica e il
richiamo ecclesiologico risultano fondamentali ed imprescindibili perché il salto dalla ragione alla
fede non si costituisca in termini fideistici e quello dalla fede alla ragione non dia adito al
razionalismo onnicomprensivo o alla deriva nihilistica. E se nell’esercizio della ragione creata e
nelle filosofie che precedono o si situano al di fuori dell’appartenenza cristiana sono presenti i semi
del Verbo, nel Verbo incarnato, che i cristiani adorano come vero Dio e vero uomo, paradosso

40
A. ROSMINI, Logica, a cura di V. Sala, Città Nuova – CISR, Roma – Stresa 1984, 365.

28
assoluto e reale, facendo professione appunto dei contrari, si trova realizzata la pienezza della
razionalità e quindi di ogni autentica conoscenza, secondo la famosa intuizione di Giustino: “tutto
ciò che di buono i filosofi e i legislatori hanno sempre scoperto e formulato, è dovuto all’esercizio
di una parte del Logos che è in loro, tramite la ricerca e la riflessione […] la nostra dottrina è
superiore ad ogni dottrina umana, poiché per noi la razionalità nella sua interezza [#1)4'6=21")#1)
>4'"] si è manifestata in Cristo in corpo, intelletto e anima”41.

3. FR e l’istanza apologetico-contestuale della teologia fondamentale

La metafora della stella applicata alla Rivelazione è particolarmente significativa, in quanto


suggerisce, anche in relazione all’imprescindibile rapporto col contesto filosofico, culturale e
religioso, che la credibilità va cercata a partire dallo stesso evento rivelatore: una stella infatti è tale
perché brilla di luce propria, altrimenti sarebbe un pianeta,o, peggio, un satellite. E tuttavia la stella
brilla per qualcuno, e va notato che nell’indicare questo qualcuno, FR non fa riferimento ad
un’antropologia filosofica o culturale elaborata accademicamente, ma parla dell’uomo, “che avanza
tra i condizionamenti della mentalità immanentistica e le strettoie di una logica tecnocratica” (FR,
15), indicando quindi un contesto concreto e ben determinato. Questo riferimento non può lasciare
indifferente il teologo fondamentale, la sua disciplina infatti si caratterizza, oltre che per il naturale
aspetto fondativo, per essere “disciplina di frontiera”, autorevolmente definita anche “sentinella
della teologia”42. L’individuazione del “destinatario” è uno dei compiti cui il teologo fondamentale
non può sottrarsi43, come non può eludere la lettura e l’interpretazione dei “segni dei tempi”44.
Particolarmente interessante d’altra parte risulta il fatto che oggi più che nel passato sembra, almeno
a livello di sintonia tematica, configurarsi l’interesse del pensiero filosofico verso il Cristianesimo e
le sue tematiche, in modo che la Rivelazione “diventa il punto di aggancio e di confronto tra il
pensare filosofico e quello teologico” (FR, 79)45.

41
GIUSTINO, Apologie, a cura di G. GIRGENTI, testo greco a fronte, Rusconi, Milano 1995, 199.
42
R. FISICHELLA, Introduzione alla teologia fondamentale, Piemme, Casale Monferrato 1992, 9.
43
Cf R. FISICHELLA, La Rivelazione: evento e credibilità. Saggio di teologia fondamentale EDB, Bologna 20028, 44-50.
44
Cf ib., 542-579, G. RUGGIERI, “La teologia dei «segni dei tempi»: acquisizione e compiti”, in G. CANOBBIO (ed.),
Teologia e storia: l'eredità del '900, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002, 33-77. e il volume di P. SCARAFONI, I segni
dei tempi. Segni dell’more, Paoline, Milano 2002.
45
Abbiamo riflettuto su questo “aggancio” in un saggio, precedente la pubblicazione dell’enciclica, al quale ci
permettiamo di rimandare per ulteriori approfondimenti cf G. LORIZIO, “La rivelazione fra teologia e filosofia in alcune
figure del pensiero postmoderno”, in Lateranum 61 (1995) 273-314 [si tratta del volume N. CIOLA (ed.), La “Dei
Verbum” trent'anni dopo. Miscellanea in onore di P. Umberto Betti OFM, Roma, Libreria editrice della Pontificia
Università Lateranense 1995, 7-48].

29
Una teologia fondamentale che ignorasse il contesto sociale, culturale, religioso e filosofico
del proprio tempo rischierebbe tuttavia l’autoreferenzialità e l’isolamento46, in quanto la speranza
cristiana chiede che le si renda ragione non in maniera asettica e disincarnata o in rapporto ad
un’antropologia astratta e deduttivistica, ma di volta in volta nei contesti umani, che le diverse
epoche o stagioni culturali e le diverse latitudini geografiche disegnano ed esprimono. Se è
certamente vero che la credibilità della Rivelazione cristiana proviene originariamente dal suo
Autore e su di Lui poggia (auctoritas Dei revelantis) risulta altresì necessario che essa si declini in
rapporto ai suoi destinatari / interlocutori, ossia agli uomini e alle culture cui appartengono. Riporto
alcune delle motivazioni che, a mio avviso, spingono il teologo fondamentale ad occuparsi del
contesto e delle sue caratteristiche, nonché dei suoi abitanti. Si tratta, infatti, innanzitutto di cogliere
lo splendor Veritatis nelle diverse espressioni della cultura, dell’arte, della religione, della filosofia,
in una parola dell’uomo, che si presentano nella storia, quindi di descrivere adeguatamente, per
poter discernere correttamente il desiderium Veritatis, che abita il cuore e la mente anche del
cittadino del villaggio globale, manifestandosi in forme magari diverse e per certi aspetti inedite
rispetto al passato.

In primo luogo in quanto si tratta di rivolgere lo “sguardo della fede” (e di una “fede adulta e
pensata”, nonché capace di istanza critico-profetica e compagnia simpatetica) sul contesto socio-
culturale in cui oggi i cristiani sono chiamati a vivere la loro fede. Gli “occhi della fede” (secondo
la felice espressione di Pierre Rousselot47) vanno rivolti soprattutto alla penetrazione dei misteri,
che la Rivelazione ci dona, ma anche, in maniera prospettica, al mondo e all’uomo, che il Cristo è
venuto a redimere. La lettura teologico-fondamentale del contesto sarà dunque propriamente
teologica, per la prospettiva che adotta e per gli strumenti che utilizza, ma anche per il tentativo di
esercitare un adeguato discernimento (intellettuale e culturale, ma soprattutto spirituale) del
presente, onde la fede cristiana possa incidere la cultura e in essa innestarsi. Se poi tentiamo di
concretizzare ulteriormente il discorso, rivolgendoci per esempio al contesto della globalizzazione,
rinveniamo altre due motivazioni non secondarie che giustificano il nostro impegno.

In primo luogo l’attuale contesto del villaggio globale interessa il teologo fondamentale in
quanto chiama in causa e mette in crisi la stessa identità cristiana, chiamata a vivere ed esprimersi
nella forma di sempre, ma anche nei linguaggi e nelle modalità dell’oggi. La città terrena che
l’esistenza “paradossale” dei credenti è chiamata oggi ad abitare, senza ad essa omologarsi, è il

46
“Se la teologia non avesse un destinatario sarebbe ridotta a solipsistica speculazione del teologo e servirebbe a ben
poco” (R. FISICHELLA, La Rivelaizone…, cit., 44.
47
Cf P. ROUSSELOT, Gli occhi della fede, Jaca Book, Milano 1977 (si tratta di due articoli del 1910).

30
villaggio globale, con le sue enormi potenzialità tecniche e comunicative, ma anche con i suoi
inquietanti rischi in ordine alla capacità di saper essere se stessi fino in fondo, senza nulla cedere di
quanto attiene alla nostra identità credente, ma anche con la capacità di instaurare un dialogo
autentico con appartenenze culturali diverse e differenziate. Una cultura della rete-ragnatela, che
esaspera il nesso, la connessione e la relativa relazionalità, rischia infatti di dimenticare il soggetto
(nel senso etimologico del termine) disperdendolo nella molteplicità delle relazioni virtuali o più o
meno reali che quotidianamente nascono e muoiono. E ciò vale anche per le appartenenze sociali,
etniche e religiose, che rischiano di diluirsi nel magma di un pluralismo, che relativizza ed
indebolisce i loro nuclei vitali. Non a caso i temi dell’appartenenza, dell’identità e della cittadinanza
tornano spesso nella letteratura sulla globalizzazione, segnalando le problematiche ed
evidenziandone i rischi.

Il secondo motivo che induce a pensare il contesto del villaggio globale da teologo
fondamentale è costituito dalla messa in gioco dei termini “Rivelazione” (all’interno dell’attuale
orizzonte comunicativo) e “Tradizione” (nel tentativo sempre più diffuso di “detradizionalizzare la
società”), laddove questa messa in gioco, ed anche in crisi, non riguarda soltanto la cosiddetta
“tradizione dell’Occidente” e il pericolo o l’ineluttabilità del suo dissolversi, bensì chiama in causa
da un lato il trasmettersi della fede nella forma della paradosis e dall’altro l’appartenenza credente,
dove assume un ruolo non secondario la forma cattolica dell’essere cristiani oggi e in rapporto col
nostro passato e col nostro futuro.

Questa istanza, che possiamo definire apologetico-contestuale, è chiaramente indicata


nell’enciclica FR, mentre rileviamo che non solo il termine bensì anche la tradizionale connotazione,
appunto apologetica, della teologia fondamentale trovano oggi nuova eco nei trattati e nelle espressioni
di questa disciplina. Sembrano, infatti, ormai lontani i tempi della esacerbata polemica postconciliare,
che cercava di mettere fuori gioco questa dimensione non solo costitutiva, bensì anche tradizionale di
questo settore del sapere della fede. A questo proposito il Papa ha indicato ai teologi fondamentali48 un
impegno rivolto ad intra ossia alla chiarificazione dell’identità propria dell’appartenenza cristiana e un
compito rivolto ad extra, perché se ne colga il carattere universale e di risposta alle domande di senso

48
Ai convenuti per il II Congresso dei teologi fondamentali, tenutosi a Lublino nel settembre 2001, il Papa ha inviato
un indirizzo di saluto in una lettera all’arcivescovo della città, gran cancelliere dell’Università che ha ospitato
l’incontro, mons. Josef Zycinski. Il testo della lettera è stato distribuito ai partecipanti in polacco e in tedesco. Due le
istanze fondamentali di carattere epistemologico che Giovanni Paolo II mostra di avere particolarmente a cuore per la
TF contemporanea. La prima riprende l’istanza veritativa del sapere della fede e quindi della rivelazione su cui tale
sapere si fonda. E tale istanza viene particolarmente ribadita nel contesto del dialogo interreligioso, con il richiamo ad
un testo della Dignitatis humanae, molto significativo al riguardo (Dignitatis humanae, 14), la seconda istanza
chiaramente indicata nella lettera del Pontefice è quella apologetica ed a questo proposito usa la distinzione ad intra e ad
extra.

31
che emergono nel contesto contemporaneo. Alla riflessione ulteriori dei cultori di questa disciplina il
compito di articolare ulteriormente queste istanze nella elaborazione di percorsi e nella delucidazione
dei temi propri della teologia fondamentale, che in tal senso si vede provocata e stimolata ad un lavoro
che sia insieme profondo ed attuale, radicato nella tradizione ed aperto all’accoglienza delle istanze
positive emergenti dalla cultura dell’oggi.

Se la teologia fondamentale come teologia delle fondamenta (Fundamentale Theologie)


mira a cogliere in maniera cognitiva e scientifica il logos cristiano dotato di senso e di ragione, essa
nel momento in cui accoglie l’istanza contestuale (dando corpo alla propria vocazione
“apologetica”) è impegnata a mediare sempre in maniera scientifica questo logos in seno ad altri
mondi e ambienti dotati a loro volta di verità e di valori e questo al fine di affermare la singolarità e
insieme l’universalità del cristianesimo. La teologia fondamentale nel momento contestuale media
la verità cristiana verso l’esterno cioè verso i diversi contesti culturali della storia. Le istanze di
questi mondi di senso costituiscono le “contestazioni”, parola che non deve far pensare tuttavia
all’immagine della cittadella assediata costretta a difendersi dai continui e violenti attacchi, ma che
deve essere presa nella suo significato etimologico, dal momento che “contestazione” può indicare
anche ciò che proviene da un contesto.

Per questo configurarsi specifico la teologia fondamentale si rivela disciplina di frontiera che
si colloca in una condizione quasi liminare. Qui è evidente come la filosofia sia l’interlocutore
privilegiato della teologia fondamentale perché in essa si manifesta quanto un tempo storico
considera come razionale. Se l’apologetica cercherà di compiere la mediazione del senso in tutti i
contesti culturale, le visioni del mondo (Weltanschauungen), le religioni, gli ambiti scientifici ecc.,
tuttavia la «pietra di paragone del carattere razionale della legittimazione della fede andrà sempre
cercata nel confronto e nel dialogo responsabile con la filosofia»49. E ciò vale anche per lo studio
dell’esperienza religiosa contemporanea e delle sue diverse forme e connotazioni, per cui risulterà
oltremodo fecondo per il teologo fondamentale uno stretto rapporto con la filosofia della religione,
ambito entro il quale situare la fenomenologia della religione) e in genere con le cosiddette “scienze
della religione”50.

49
M. SECKLER, «Teologia fondamentale: compiti e strutturazione, concetto e nomi», in W. KERN - H. J. POTTMEYER -
M. SECKLER (edd.), Corso di teologia fondamentale. Vol. IV: Trattato sulla gnoseologia teologica, trad. it. Queriniana,
Brescia 1990, 599.
50
Un quadro epistemologico riguardo a questo argomento l’abbiamo tracciato in G. LORIZIO, “Pluralità e unità del
sapere l’esperienza religiosa in prospettiva teologico-fondamentale”, in ATI (ed.), Religione e religioni. Metodologia e
prospettive ermeneutiche, Messaggero, Padova, 1998, 5-36, mentre per i singoli approcci rimandiamo ai rispettivi
capitoli dello stesso volume.

32
La teologia fondamentale nel suo momento contestuale istruisce quello che in diverse
occasioni abbiamo denominato auditus temporis poiché è «chiamata a riflettere sui rapporti della
teologia con le altre forme del sapere e a porsi in ascolto delle risultanze contenutistiche provenienti
dagli altri mondi epistemici, in particolare allorché essi si occupano di tematiche, che anche la
teologia affronta dal proprio punto di vista»51. Naturalmente l’auditus temporis e il dialogo con i
contesti, esclude l’idea di una neutralità del teologo e della teologia di fronte ai contesti stessi. Una
impossibile neutralità sia a livello contestuale - perché il teologo appartiene ad un contesto culturale
che lo precede e di cui è espressione (il momento della tradizione, direbbe H. G. Gadamer) - sia a
livello propriamente epistemologico, dal momento che la teologia fondamentale è chiamata a
situare i diversi approcci dei contesti entro la propria prospettiva epistemologica.

Da parte nostra, mentre ci limitiamo a segnalare come un’attenta lettura-interpretazione della


postmodernità venga auspicata dalla FR, non dimentichiamo di rilevare come qui non manchi la
coscienza della complessità della questione e della difficoltà che una corretta ermeneutica del nostro
tempo comporta: “La nostra epoca – scrive il Papa - è stata qualificata da certi pensatori come
l'epoca della «post-modernità». Questo termine, utilizzato non di rado in contesti tra loro molto
distanti, designa l'emergere di un insieme di fattori nuovi, che quanto ad estensione ed efficacia si
sono rivelati capaci di determinare cambiamenti significativi e durevoli. Così il termine è stato
dapprima impiegato a proposito di fenomeni d'ordine estetico, sociale, tecnologico.
Successivamente è stato trasferito in ambito filosofico, restando però segnato da una certa
ambiguità, sia perché il giudizio su ciò che è qualificato come «post-moderno» è a volte positivo ed
a volte negativo, sia perché non vi è consenso sul delicato problema della delimitazione delle varie
epoche storiche. Una cosa tuttavia è fuori dubbio: le correnti di pensiero che si richiamano alla post-
modernità meritano un’adeguata attenzione. Secondo alcune di esse, infatti, il tempo delle certezze
sarebbe irrimediabilmente passato, l'uomo dovrebbe ormai imparare a vivere in un orizzonte di
totale assenza di senso, all'insegna del provvisorio e del fuggevole. Parecchi autori, nella loro critica
demolitrice di ogni certezza, ignorando le necessarie distinzioni, contestano anche le certezze della
fede” (FR, 91).

Giustamente è stato notato che l’enciclica evita di adottare una precisa definizione del
postmoderno, in quanto non intende abbracciare alcuna ipotesi interpretativa che possa rivelarsi
passeggera e fugace, sebbene sproni come abbiamo detto allo studio delle correnti che lo
caratterizzano, sembra però che si possa condividere l’idea che il postmoderno venga qui
51
G. LORIZIO, «Pluralità e unità del sapere l’esperienza religiosa in prospettiva teologico-fondamentale», in ID. (ed.),
Religione e religioni. Metodologia e prospettive ermeneutiche, Messaggero, Padova, 1998, 12 (l’intero contributo 5-36).

33
sostanzialmente considerato come punto di “massimo degrado” nella “opposizione tra fede e
ragione”52. Del resto, in rapporto al post-moderno come prodotto dal grembo della modernità e suo
esito, la cultura cattolica e la teologia ci sembrano coltivare allo stadio attuale della riflessione un
atteggiamento di comprensibile distanza, che si manifesta: - come diffidenza nei confronti della
rassegnazione alla debolezza del pensiero; - come difesa dalla ricorrente tentazione gnostica, che
sembra accomunare espressioni delle filosofie e delle nuove religiosità; - come tendenza (espressa
in tentativi di impostazione e di matrice diversissima) allo oltrepassamento del nichilismo; - come
custodia gelosa dei misteri speculativi e della metafisica (anche qui in forme molto differenziate). Il
passaggio dalla modernità compiuta al cosiddetto post-moderno fa registrare una svolta di notevole
portata nel rapporto fra il pensiero credente e la cultura “laica”. Se, infatti, nella contrapposizione
radicale agli esiti razionalistici della modernità, la Chiesa, la teologia e la cultura cattolica hanno
dovuto custodire e difendere a denti stretti il senso del mistero e del soprannaturale, contenuti
precipui della rivelazione, ridimensionando le pretese di una ragione totalizzante e totalitaria, che si
è espressa nella forma delle ideologie egemoniche, ora - a giudicare dai termini con cui si conduce
in Italia il dibattito sulla religione - le posizioni sembrano invertirsi.

La Chiesa, la teologia e il pensiero credente si trovano nella paradossale situazione di dover


difendere la ragione e le sue possibilità in ordine alla conoscenza del Vero, in un sempre più serrato
confronto con atteggiamenti e teorie rinunciatarie e debolistiche, che la condannano al relativismo e
allo scetticismo, forme anch’esse meno forti di quel prospettivismo nichilistico che - secondo
Nietzsche - avrebbe caratterizzato quelli che per lui sarebbero stati i prossimi due secoli. Non si
tratta né di seguire le mode passeggere, né di andare contro corrente ad ogni costo. La ricerca della
verità, presente nelle diverse espressioni e formulazioni storiche, ma che pur sempre le trascende, fa
sì che la Chiesa e il pensiero che in essa si esprime, nonostante ritardi e incomprensioni, si ponga a
difesa dell’uomo e della sua dignità, sia allorché mette in guardia la ragione dalle sue stesse
prevaricazioni, sia allorché ne custodisce il valore e ne alimenta le possibilità. E da questo punto di
vista la cultura autenticamente generata dal Cristianesimo avrà sempre e comunque qualcosa da dire
nella storia all’uomo di ogni tempo e di ogni condizione.

La vicenda del rapporto fra Chiesa cattolica e filosofia moderna e contemporanea ha del
paradossale, ma si tratta del paradosso capace di destare stupore e suscitare attenzione in chi è
disposto a leggere e interpretare senza fuorvianti precomprensioni tale vicenda. Allorché infatti la
ragione esprime la propria presunzione di “conoscere il tutto” (F. Rosenzweig) e quindi assume un

52
G. COLOMBO, “Dalla Aeterni Patris (1879) alla Fides et ratio (1998)”, in Teologia, cit., 267.

34
atteggiamento di dominio sul reale e l’umano, il Magistero della Chiesa è lì a ricordarle i propri
creaturali limiti e a farle prendere coscienza della propria radicale infermità (un esempio fra tutti la
critica al razionalismo contenuta nella Dei Filius del Vaticano I), quando invece la ragione si
autoflagella ritenendosi incapace di conoscere alcunché ed assumendo un atteggiamento
rinunciatario di fronte alle grandi domande metafisiche, che comunque abitano la coscienza di ogni
essere pensante (“chi sono? da dove vengo e dove vado? perché la presenza del male? cosa ci sarà
dopo questa vita” – FR, 1), allora la Chiesa è lì a ricordarle che non può abdicare al proprio ruolo e
alle proprie prerogative e a spronarla perché osi l’avventura del sapere (basterà ricordare le critiche
al fideismo da parte del Magistero ecclesiale).

L’enciclica di Giovanni Paolo II muove piuttosto in questa direzione, senza naturalmente


dimenticare i rischi derivanti da assurde pretese razionalistiche, e quindi incoraggia il pensiero ad
esprimersi al meglio in questo momento di trapasso culturale, che l’enciclica non esita a chiamare di
postmodernità, indicandone limiti e potenzialità (cf FR, 91). Da questo punto di vista va certamente
salutato con interesse il fatto che, quando appunto si accinge ad offrire indicazioni relative al
postmoderno, l’enciclica adotti un approccio tale da dirimere l’annosa questione che vede
contrapporsi il fronte di coloro che leggono la formula (ed evidentemente anche il suo contenuto) in
senso meramente congiunturale, sostenendo quindi che il termine stia a designare un fenomeno
passeggero o una sorta di moda culturale, priva di prospettive di lungo respiro, e quanti al contrario
ritengono che il postmoderno sia invece il nome, se non di una nuova epoca, dato l’imbarazzo
stesso a trovare una parola adeguata per questo nostro tempo (“postmoderno” infatti indica
semplicemente un rapporto di contiguità cronologica e di superamento antitetico della modernità),
almeno di un momento di trapasso epocale, tale da incidere profondamente sulla cultura e sulle
coscienze dei nostri contemporanei.

Per concludere

Non ci sembra casuale il fatto che l’enciclica FR porti la data del 14 settembre 1998, giorno
in cui la liturgia cattolica celebra l’esaltazione della croce. Il rapporto fede / ragione, con le
implicanze gnoseologiche, metafisiche e contestuali, che abbiamo rilevato e con la sua
imprescindibile natura teologico-fondamentale, è una vera crux per teologi e filosofi. E la croce fa
riferimento alla sofferenza, alla fatica e alle difficoltà che tutti noi incontriamo allorché tentiamo di
pensare il nesso, la et che separa e al tempo stesso congiunge i due termini. Questa croce appartiene
al nostro stato di credenti, prima ancora che al nostro quotidiano lavoro di teologi e filosofi. Ma si

35
tratta di una croce che non lascia alla morte l’ultima parola, pur non essendo in grado nell’oggi della
storia di estirparne il pungiglione. Alla luce del fondamento agapico, infatti, questo stato kenotico
riceve un senso e un orientamento, in modo che il paradosso incontri il pensiero in una relazione
d’amore che non toglie la differenza, né attenta alcuna autonomia, ma esalta l’incontro e l’armonia
fra realtà o “universi vitali incomparabili” (cf le relazioni di Remo Bodei e Max Seckler), superando
un abisso di distanza che solo l’amore è capace di colmare. Nel soggetto abitato dall’amore la fede
si instaura come disposizione agapica verso la ragione, consapevole del fatto che la grazia non
distrugge la natura, ma la presuppone e la potenzia. E su tale convinzione poggia la possibilità del
rischio speculativo nell’esercizio della ragione creata come capacità di conoscenza della verità e
come supporto per il dialogo con quanti non hanno abbracciato la stessa fede. “Se il paradosso e
l’intelletto s’incontrano nella comune comprensione della loro diversità, l’incontro sarà felice come
l’intesa dell’amore: felice nella passione [...]. Se lo scontro non è di comune intesa, il rapporto è
infelice, e questo amore infelice – se posso dirlo – dell’intelligenza (il quale, bisognerebbe notarlo,
è come l’amore infelice che ha il suo fondamento in un egoismo frainteso: più in là l’analogia non
va, poiché la forza del caso qui non può nulla) noi possiamo chiamarlo con un termine più
specifico: scandalo”53.

Così all’idolo del concetto si contrappone l’icona della speculazione intrisa di fede e di
devozione, ma non per questo meno libera e autonoma. La possibilità di pensare Dio oltre l’essere,
ma non senza l’essere, viene qui declinata a partire dalla rivelazione neotestamentaria del nome del
Dio di Gesù Cristo, un nome non più impronunziabile ma disponibile e redentivo, come un volto
non più invisibile, ma accessibile nel chiaroscuro della icona. Così quando Bonaventura ha posto la
questione de divinis nominibus non ha voluto escludere la dimensione ontologica, ma ha indicato
l’essere appunto come primo nome del Dio della Rivelazione, in posizione subordinata rispetto al
nome che il Cristo ha rivelato come amore. Ma ciò risulta impossibile se non in una prospettiva
autenticamente agapica, dove l’orizzonte della metafisica della carità viene a nutrirsi di un’autentica
ontologia trinitaria, dove la prospettiva ermeneutica trova il suo punto di approdo e di approccio per
potersi compiere e al tempo stesso superare appunto metafisicamente. La metafora cherubica
additata dal dottore serafico, richiama in un certo senso quella delle ali, posta nell’incipit della FR, e

53
S. KIERKEGAARD, “Lo scandalo del paradosso (un’illusione acustica)”, in ID., Briciole di filosofia e postilla non
scientifica, a cura di C. FABRO, Zanichelli, Bologna 1962, vol. I, 137. Interessante è ancora la traduzione di S. Spera:
“Se il paradosso e la ragione si affrontano nella comprensione reciproca della loro diversità, il confronto è felice come
la comprensione dell’amore, felice nella passione […]. Se il confronto non avviene nella comprensione, il rapporto è
infelice e questo, se posso dirlo, amore infelice della ragione (che, si noti bene, si può paragonare solo a quell’amore
infelice che ha il suo fondamento in un malinteso egoismo, e più oltre l’analogia non tiene perché la forza del caso qui
non vale) potremmo chiamarlo, con più precisione: scandalo.” S. KIERKEGAARD, Briciole filosofiche, ed. it. a cura di S.
SPERA, in GdT 169, Queriniana, Brescia 1987, 107.

36
la necessità per il soggetto di assumere un atteggiamento contemplativo nei confronti del Vero
cercato con la ragione e ricevuto nella fede.

37

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