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Politica e teologia in Hobbes.
Guerre di religione e forme non
politiche di neutralizzazione del
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conflitto
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Dimitri D’Andrea
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Materiali
Premessa
L’oggetto di questo lavoro è una ricognizione delle sezioni III e IV
Materiali per
del Leviatano (III e IV) nell’intento di trovare un filo rosso capace di
l'Europa
giustificare il dato altrimenti paradossale di un’attenzione alla
6 maggio ‐ tematica religiosa e teologica che sostanzialmente eguaglia quella
programma riservata alle tematiche strettamente antropologiche e politiche. Che
cosa spinge un sostenitore del principio cuius regio eius religio ad
argomentare per circa trecento pagine intorno alla tipologia del regno
di Dio o intorno a ciò che è necessario per “essere accolti nel regno
dei Cieli”? Se la coercizione sovrana fosse capace di per sé di
risolvere il conflitto religioso, la decisione politica sulla confessione,
suil culto e sulla dottrina che i cittadini di uno Stato sono obbligati a
professare dovrebbe costituire la soluzione definitiva alla diversità
delle opinioni in materia religiosa e non il punto di partenza di una
MATERIALI discussione che nel Leviatano occupa circa metà del testo.
L’intento dell’argomentazione teologica e religiosa di Hobbes è
PER costituito esplicitamente dalla contestazione della legittimità di
L'EUROPA qualsiasi pretesa ecclesiastica all’esercizio di un autonomo potere di
TESTI: tipo politico sui cittadini. Tuttavia, l’ampiezza e la complessità
Roberto Castaldi dell’impianto argomentativo messo in campo da Hobbes sembrano
Mario Dogliani
Javier De Lucas indicare la presenza di problemi ulteriori e di questioni politicamente
Paola Giordano più drammatiche. La mia tesi è che il problema cruciale a cui le
Gianluigi pagine teologiche del Leviatano cercano di trovare una risposta sia
Palombella costituito dall’individuazione delle condizioni “impolitiche” – legate
Luigi Pannarale cioè all’affermarsi di opinioni, credenze e convinzioni che non sono
Enrico Scoditti nel potere di disposizione della coercizione politica – necessarie alla
Mario Telò
Neil Walker neutralizzazione di un tipo di conflitto nei confronti del quale la
sovranità risulta impotente: il conflitto religioso. L’efficienza della
sovranità come meccanismo di produzione dell’ordine non è né
assoluta, né illimitata. La coercizione politica è incapace di
neutralizzare un conflitto organizzato intorno a rappresentazioni e
aspettative di beni e di mali che eccedono di gran lunga quelli che la
sovranità è in grado di dispensare. L’argomentare teologico e
religioso del Leviatano è il tentativo di rispondere all’inefficacia del
potere sovrano proprio di fronte a quel conflitto in cui moltissimi
interpreti hanno voluto vedere la ragione ultima ‐ la preoccupazione
principale ‐ che ispira la riflessione politica hobbesiana. Lungi dal
costituire l’oggetto che in filigrana ispira la costruzione dell’artificio
politico, la guerra di religione costituisce un problema insolubile con i
mezzi della coercizione statuale, rappresenta il punto cieco in cui il
meccanismo sovrano deve rimandare all’intervento di altri strumenti.
Quando la conflittualità violenta non ha più a fondamento le passioni
per i beni mondani, ma la rappresentazione di beni ultraterreni, la
sovranità incontra il proprio limite. L’efficacia della sovranità inizia
dove finisce quella forma estrema di conflitto che oggi definiremmo
ideologico. Laddove il conflitto sui beni lascia il posto al conflitto
ideologico radicale, la sovranità è costretta a postulare il
funzionamento di meccanismi di neutralizzazione non politica.
1. Naturalità della guerra e utopia dell’ordine senza
presupposti
Una delle principali novità della riflessione politica hobbesiana è
costituita dalla trasformazione profonda introdotta nella semantica e
nel profilo concettuale della guerra. Con Hobbes il concetto di guerra
non si riferisce più esclusivamente ‐ o in primo luogo ‐ al conflitto
armato fra entità politiche o gruppi più o meno rigidamente
organizzati, ma assume come referente principale la conflittualità
violenta fra individui. La guerra a cui la riflessione hobbesiana tenta
di trovare una risposta è essenzialmente il fenomeno sociale
originario del conflitto generalizzato, quella condizione di natura a
cui l’uomo risulta spontaneamente destinato:
«[D]urante il tempo in cui gli uomini vivono senza un potere
comune che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella
condizione che è chiamata guerra e tale guerra è quella di ogni uomo
contro ogni altro uomo. La GUERRA, infatti, non consiste solo nella
battaglia o nell’atto del combattere, ma in un tratto di tempo, in cui
è sufficientemente conosciuta la volontà di contendere in battaglia»
(Hobbes 1651, 120).
La guerra per Hobbes è essenzialmente il fenomeno originario
della socialità pre‐politica. Questa trasformazione del ruolo e della
concezione della guerra è collegata ad un mutamento di paradigma
più complessivo. La guerra come forma della socialità naturale ‐ il
conflitto violento fra individui piuttosto che lo scontro armato fra
gruppi sociali e politici organizzati ‐ è la conseguenza diretta del
paradigma moderno che proprio con Hobbes fa il suo debutto. La
rivoluzione nominalista approda in Hobbes alle sue conseguenze
radicali sul piano sociale e politico[1]: se pensata con coerenza la
società degli individui non può che essere – per natura e in prima
istanza – una società della guerra. Il pensiero coerente dell’individuo
in quanto entità della differenza e della diversità, al di fuori di
qualsiasi comunità, non può che essere il pensiero coerente della
conflittualità, della guerra come forma naturale‐spontanea di socialità.
La dissoluzione del cosmo ordinato provvidenzialisticamente lascia il
posto ad una individualità illimitatamente autoaffermativa[2], ma
anche intrinsecamente conflittuale, alla guerra come conflitto
violento fra individui.
La stessa uguaglianza naturale degli individui – concepita come
uguale potere di uccidere ‐ si dispone interamente sotto il segno della
diversità. L’uguaglianza hobbesiana è uguale possibilità di sopraffare,
assenza di una gerarchia naturale e, quindi, episodicità e instabilità –
in una parola: contingenza ‐ di quella particolare forma di superiorità
di potere che mette un individuo in condizione di ucciderne un
altro[3]. Si tratta, dunque, di una uguale capacità di sopraffare che
non accomuna – non costituisce comunità – e che, in quanto sancisce il
carattere contingente della superiorità, rende concettualmente
impercorribile la produzione spontanea dell’ordine.
L’esempio tipico di una guerra così concepita non può, dunque,
essere la guerra civile, non può essere il conflitto violento fra gruppi
in qualche modo accomunati da idee, convinzioni, credenze, ma la
lotta violenta di tutti contro tutti[4]: la dispersione atomistica e
generalizzata della violenza in una conflittualità che può anche
svolgersi occasionalmente per alleanze o coalizioni, ma in cui tali
aggregazioni non possono essere stabilizzate da niente che ecceda il
mutevole interesse momentaneo e il precario e contingente darsi di
una gerarchia.
Il conflitto violento generalizzato con cui viene a coincidere la
socialità di individui diversi ma ugualmente capaci di uccidersi –
privi, in prima istanza, di un interesse comune e al tempo stesso
sprovvisti di qualsiasi gerarchia; diversi in tutto, ma ugualmente e
contingentemente capaci di sopraffarsi – è il prodotto di una triplice
inclinazione all’aggressione: «Cosicché nella natura umana troviamo
tre cause principali di contesa: in primo luogo, la competizione, in
secondo luogo, la diffidenza, in terzo luogo, la gloria. La prima fa sì
che gli uomini si aggrediscano per guadagno, la seconda per sicurezza
e la terza per reputazione. Nel primo caso gli uomini usano violenza
per rendersi padroni delle persone di altri uomini, delle loro donne,
dei loro figli, del loro bestiame; nel secondo caso, per difenderli; nel
terzo caso per delle inezie, come una parola, un sorriso, un’opinione
differente, e qualunque altro segno di scarsa valutazione» (Hobbes
1651, 119).
Riproponendo un topos tucidideo tutt’altro che estraneo alla
riflessione di un altro autore “hobbesiano” come Agostino, Hobbes
riassume le cause della naturalità della guerra nelle tre motivazioni
fondamentali dell’agire umano: la ricerca dell’utile (piacere del
senso), la ricerca della gloria (piacere della mente) e nella ricerca
della sicurezza (paura della morte). Ciascuno di questi tipi di
motivazioni – che esauriscono l’intera gamma delle passioni umane –
intrattiene un rapporto privilegiato con il ricorso all’uso della forza.
Indipendentemente dalla motivazione concreta che lo ispira, l’agire
individuale tende ‐ in una condizione di assenza di un potere comune
– a ricorrere in modo privilegiato a mezzi violenti.
È spesso sfuggito, tuttavia, come le tre motivazioni siano disposte
su di un piano logico e assiologico completamente diverso. Tutte e tre
vengono indicate da Hobbes come motivazioni all’aggressione, ma la
loro collocazione nella catena argomentativa e la loro valenza morale
appaiono nettamente distinte. La ricerca dei piaceri deli sensoi e
quella dei piaceri della mente sono nel Leviatano paritariamente
responsabili della inclinazione generalizzata degli uomini
all’aggressione[5]: sia che ricerchi l’utile, sia che ricerchi la gloria, la
generalità degli individui è portata a privilegiare la violenza come
mezzo per procurarsi ciò che soddisfa i propri appetiti[6]. Nel
Leviatano viene, dunque, definitivamente superato il rapporto
preferenziale che legava negli Elements ‐ e ancora nel De cive ‐ la
condizione di natura come conflittualità generalizzata di tutti contro
tutti al predominio di una passione specifica (la gloria)Queste due
motivazioni – ricerca dei piaceri del senso e ricerca dei piaceri della
mente ‐ sono responsabili del prodursi del carattere endemicamente
violento della condizione di natura.
Di carattere completamente diverso è la motivazione della
ricerca della sicurezza. La “diffidenza”, come Hobbes la denomina nel
Leviatano, è in realtà la legittima risposta ad una condizione di
pericolo. Le espressioni «è generalmente concesso» e «deve essergli
concesso» (Hobbes 1651, 118‐9) ‐ che accompagnano nel XIII capitolo
del Leviatano la descrizione dell’aggressione motivata dalla paura ‐
segnalano l’introduzione di una dimensione valutativa e morale che
eccede il piano della semplice descrizione. La ricerca della sicurezza
è sì un motivo di aggressione, ma possiede anche due caratteristiche
che la rendono inassimilabile alla violenza al servizio di un piacere sia
esso del senso o della mente: un carattere reattivo – non ci sarebbe
esigenza di sicurezza se gli individui non sperimentassero una
disposizione altrui all’aggressione che possiede un fondamento
diverso – e soprattutto una diversa qualità morale. L’aggressione
motivata dalla paura – a differenza di quella al servizio dei piaceri
sensuali o di quelli della mente – rientra nell’ambito del diritto di
natura. O meglio: la paura è appunto il criterio che definisce il diritto
naturale, il fondamento in base al quale discriminare un’aggressione
moralmente legittima da una che invece non possiede alcuna
giustificazione, pur essendo comprensibile sulla base della
ricostruzione hobbesiana della natura umana. Nella condizione di
natura non ogni aggressione è, dunque, moralmente giustificata, ma
soltanto quella autenticamente motivata dalla paura della morte.
Il punto decisivo dell’argomentazione hobbesiana è il diritto naturale: la
perimetrazione di un ambito di agire moralmente giustificato è incapace di sanare
gli esiti della conflittualità indotta da comportamenti moralmente illeciti, ma
generalmente diffusi. Le motivazioni generali dell’agire umano descrivono così un
quadro sconfortante: alle due motivazioni di aggressione che non possiedono
giustificazione – ricerca dei piaceri sensuali e di quelli della mente – si sovrappone
l’incapacità di produrre ordine e stabilità anche della motivazione che pure
possiede una diversa qualificazione morale. Il diritto di natura non è in grado di
raggiungere il fine che lo legittima: la differenza che esso esprime è una differenza
tutta interiore – relativa alla motivazione – che non produce una limitazione delle
azioni e dei comportamenti violenti, ma che al contrario finisce per perpetuarli.
Nella sua fisionomia immediata di passione spontaneamente reattiva, neppure la
paura appare in grado di mediare un superamento della condizione naturale.
Bibliografia
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[1] Sul ruolo del nominalismo nella genesi della modernità cfr. BLUMENBERG 1992,
199‐215.
[2] Sull’illimitatezza dell’individuo hobbesiano cfr. PULCINI 1996, 134‐7.
[3] Sulla uguaglianza degli individui hobbesiani come contingenza della superiorità cfr.
D’ANDREA 1997, 151‐58 e BRILLANTE 2003, 70‐73.
[4] L’indicazione della guerra civile come modello della conflittualità hobbesiana è
viceversa un topos della letteratura critica. Tra gli altri cfr. KOSELLECK 1972: 17‐40;
GALLI 1991: 101; VITALE 1993: 60; VITALE 1994: 116‐25.
[5] Per una interpretazione che invece attribuisce alla gloria la responsabilità
prevalente nella genesi della condizione di natura cfr. REALE 1991.
[6] Sul dualismo piaceri del senso ‐ piaceri della mente in Hobbes cfr. PULCINI 2001:
51‐60.
[7] Sul ruolo della paura in Hobbes cfr. tra gli altri CERUTTI 1984: 69‐72; PULCINI
2001: 57‐59
[8] Per questa caratterizzazione del meccanismo coercitivo statuale cfr. D’ANDREA
1997: 197‐202.
[9] Sull’autocoercizione come paradigma di una razionalità imperfetta cfr. ELSTER
1983: 85‐88.
[10] Sulla diversità fra l’anarchia nella condizione naturale e quella interstatale cfr.
BRILLANTE 2003, 72‐73 e BOTTICI 2001: 170‐176.
[11] Analoga affermazione poco prima: «è legittimo, ora, per il
sovrano, punire chiunque opporrà il suo spirito privato alle leggi,
poiché egli ha, nello Stato, il medesimo posto che ha Abramo nella
sua famiglia» (Hobbes 1651, 465).
[12] Cfr. Hobbes 1651, 458‐9.
[13] Cfr. Hobbes 1651, 131.
[14] Sulla cifra teologico‐politica della contrapposizione insegnamento‐comando cfr.
ACCARINO 1989: 103‐108.
[15] «[N]on è stato lasciato loro [ai ministri di Cristo] dal nostro
Salvatore alcun potere coercitivo; ma solo un potere di proclamare il
regno di Cristo e di persuadere gli uomini a sottomettersi ad esso e di
insegnare con precetti e buoni consigli, a quelli che si sono
sottomessi, che cosa debbono fare per poter essere ricevuti nel regno
di Dio, quando verrà; […] gli apostoli e gli altri ministri del Vangelo
sono i nostri maestri di scuola e non i nostri comandanti e […] i loro
precetti non sono leggi, ma consigli salutari» (Hobbes 1651, 490).
[16] «[T]utta l’obbedienza richiesta per la salvazione consiste nella
volontà di obbedire alla legge di Dio; vale a dire, nel pentimento, e
[…] tutta la fede richiesta per la medesima cosa è compresa nella
credenza in questo articolo, Gesù è il Cristo» (Hobbes 1651, 590).
[17] Sulla neutralizzazione del conflitto religioso in Hobbes attraverso una strategia di
privatizzazione della religione cfr. GALLI 1991: 101‐106 e LANZILLO 2001: 63.
[18] Cfr. Hobbes 1651, 493‐4.
[19] Cfr. Hobbes 1651, 593.
[20] Sulla funzione del passo paolino (Romani X, 17) sull’origine della fede
nell’argomentazione teologica hobbesiana cfr. ACCARINO 1995: 81.