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settimananews.it/teologia/formazione-teologica-6/
5 dicembre 2023
All’articolo di Paolo Cattorini, proposto da ormai più di due mesi, ha fatto seguito un buon
numero di ulteriori prese di posizione, manifestazione di un interesse significativo. Quel
contributo si concentrava esplicitamente sulle «scuole di teologia per laici» e sulla particolare
figura di docente che se ne dovrebbe fare carico, ma lasciava che emergessero temi
esuberanti rispetto all’organizzazione pastorale della formazione di base dei credenti; la
ricchezza di quelle questioni autorizza a ritornare sul tema anche a distanza di tempo,
concentrandosi su alcuni aspetti contigui a quanto le varie riflessioni hanno già messo in
luce.
L’unitarietà della teologia, previa alla sua declinazione funzionale, richiama l’attenzione
anche su altri nessi, nei confronti dei quali talvolta l’insistenza sulla dialettica piuttosto che
sulla sintonia non è sempre salutare, perché rischia di impoverire la dignità propria al sapere
teologico.
In particolare, ci si può riferire alla differenza tra università laiche e facoltà teologiche, ma
anche alla distanza, che spesso è denunciata propendendo univocamente per la prima delle
due forme, tra un sapere che trova la sua ragione nella destinazione pastorale (al più
didattica) e un’altra che invece sarebbe infeconda perché pare avere la sua stessa
produzione come unico scopo.
Infine, non è secondaria l’insistenza che si produce attorno alla rivendicazione del ruolo
prioritario che la pratica e la vita dovrebbero avere rispetto all’elaborazione teorica, pratica e
vita sono cioè intese come origine e giustificazione della ricerca, sino a rischiare di intendere
questa come suo semplice e in fondo ultimamente trascurabile strumento.
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Una incomprensione che ritiene che nell’obbedienza al vangelo intercorra una seria
alternativa tra la realizzazione operosa della carità e la dispersione nella teoria o
nell’estetica, giudicate inconcludenti e inadatte a incidere e trasformare la realtà – un
fraintendimento che talora è purtroppo rafforzato da alcune espressioni di Papa Francesco,
estemporanee ma di forte impatto.
Accade infatti di frequente che, al fine di restituire vigore a un’istituzione che manifesta
segnali di fatica o decadenza, si tenti di rafforzare ciò che resta a partire da interventi esterni,
non sempre efficaci per garantire un consolidamento permanente. Oppure, capita che si
corrobori quanto esiste trasformandone la natura, sforzandosi di rispondere a vari bisogni,
ma guidati dal principio economico della domanda e dell’offerta, estraneo alla logica e alla
missione che hanno fondato l’origine della teologia e consentito la sua posizione, tanto tra i
ministeri che nutrono la chiesa, quanto tra le scienze che rendono appetibile la ricerca
umana.
Le varie modalità attraverso le quali è sviluppato il sapere teologico in Italia sono certo frutto
di una particolare storia, nella quale l’organizzazione ecclesiastica e la regolamentazione
civile si intrecciano con i fondamenti epistemologici che consentono l’esistenza e la
distinzione di una disciplina tra le altre, ma solo l’intima consapevolezza del fatto che la
ricerca teologica, in sé e per sé, corrisponda a un servizio al mondo e alla Chiesa – nella loro
reciproca implicazione – garantisce e autorizza il suo stabile permanere, dunque la perenne
revisione delle maniere attraverso le quali tale sapere possa esprimere la sua fecondità.
La ricerca imprescindibile
Le difficoltà patite dalla teologia non sono certo esclusiva degli ultimi anni, né indivisibili dalle
trasformazioni e dalle fatiche che toccano anche la didattica e la ricerca svolte nelle
università civili. Al contempo, è forse condizione peculiare – occasione specifica – di
quest’età segnata da mutamenti tanto rapidi da rendere disperante la decifrazione della loro
direzione e impossibile la consistenza di un’ampia progettazione, la possibilità di insistere
ulteriormente, osando ribadire la necessità di scelte radicali che possano manifestare
orizzonti audaci.
Le evidenze numeriche, relative al sempre più esiguo numero di studenti, alla progressiva
mancanza di risorse economiche e umane, al diverso peso che il cattolicesimo ha nella
società italiana, consegnano l’esigenza di decisioni che possono anche corrispondere al
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coraggio della purificazione e della rinuncia, alla proposta di forme organizzative realmente
capaci di mirare all’ufficio primario della teologia, dal quale la ricerca non è disgiungibile e
dal quale le altre applicazioni possono discendere.
Rafforzare la tipicità della ricerca teologica, insistere sulla sua differenza piuttosto che
adattarla previamente, svilendone i contorni per farne una risorsa a buon mercato per una
generale e immediata formazione, potrebbe essere una condizione per realizzare la
possibilità di condividere la vita di tutti e la capacità di abitare territori nuovi; in fondo, in tutta
semplicità, una delle modalità per vivere il vangelo nella civiltà umana, che con le altre
intesse un nesso vicendevole e necessario.
In particolare, la marginalità che connota la teologia in virtù del suo situarsi a latere rispetto
allo svolgersi delle esistenze e, proprio grazie ciò, dell’essere loro forza critica, la innesta
senza ulteriore mediazione tra le forme autentiche della risposta al vangelo. Una risposta
tanto personale quanto comunitaria, suscitata esclusivamente dalla rivelazione divina nella
storia di Gesù, che si consegna irrimediabilmente all’accoglienza umana, affidandosi alle
peculiarità – anche speculative – attraverso le quali l’umano esprime la sua presenza nel
mondo e insieme suscitando il desiderio della loro permanente conversione, affinché siano
capaci di onorare la logica evangelica, rendendole ragione.
Inoperosità
Prima ancora di considerarne lo statuto epistemologico, è allora possibile domandarsi in
cosa consista lo specifico dell’attività teologica. Ciò comporta il riconoscimento della
comunanza con le altre forme nelle quali il pensiero umano si costituisce, ma anche
l’evidenza della sua specifica sintonia con la radicalità cristiana; mette dunque in luce una
collocazione che rende la teologia irrinunciabile per la comunità ecclesiale e porta a
denunciare come illecito, per quanto spesso ammantato di benevolenza, ogni tentativo di
riduzione del sapere teologico a una funzione immediatamente conveniente, che offuschi
dunque la sua qualità critica.
Sembra fruttuoso fare riferimento – nella speranza di non rasentare la banalità della
didascalia – a quanto la filosofia contemporanea descrive attraverso la categoria di
«inoperosità»: è propria e qualificante dell’essere umano la possibilità di un agire che non si
esaurisce né trova la propria ragion d’essere nella realizzazione di un’opera, un fare che non
si riduca alla logica del compimento che si conclude nello scopo.
Questa categoria (dalla quale la fede cristiana non è certo distante, basti pensare al ruolo
centrale della liturgia, che Romano Guardini ha sintetizzato come opera «fine a sé») non ha
solo carattere ontologico ed estetico, dal momento che quelle due dimensioni racchiudono
una imprescindibile caratterizzazione politica: l’individuazione della possibilità inoperosa apre
a un’interpretazione della realtà che fuoriesce dal canone funzionalistico, ultimamente
orientato a logiche di mercato e di potere disumanizzanti.
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L’interruzione della centralità della produzione non corrisponde certo alla rinuncia
dell’impegno, né all’abdicazione dal coinvolgimento in proprio in favore del mero
spontaneismo, ma alla necessaria presa di distanza rispetto alla realizzazione, qualora
questa corrisponda al semplice raggiungimento di uno scopo finito, ottenendo piuttosto la
ridefinizione del legame comunitario che ne consegue.
Le qualità appena indicate possono applicarsi senza sforzo allo specifico della ricerca
teologica, fungono anzi da criterio di verifica della sua autenticità. Insistere sulla forma
inoperosa della teologia, conseguente alla sua preservazione come disciplina irriducibile a
una tecnica, corrisponde già ad attribuirle legittimità in ordine all’edificazione della Chiesa, in
quanto è istanza che si comprende come alternativa rispetto alla realizzazione mondana e
che rifiuta la mera consolazione del risultato.
Risulta altrettanto evidente il motivo per il quale sia opportuno vigilare costantemente per
evitare una riduzione funzionalistica dell’impresa teologica, che la interpreti solo a partire
dall’effetto di cui può favorire il conseguimento. Il rischio che lì si annida si fa esplicito nella
definizione snaturante di un sapere che si potrebbe particolareggiare a partire da coloro che
vi si possano dedicare e delle mansioni loro riservate (pastorali, didattiche, di ricerca), come
fosse possibile identificare aprioristicamente a chi competa la sua realizzazione, decretando
di fatto la quasi esclusione di molti e molte, secondo logiche del tutto estranee a un autentico
mandato ecclesiale e a un competente discernimento intellettuale[2].
Responsabilità
Ciò non significa vagheggiare un’attività solitaria, disancorata dalla concretezza, il cui nucleo
gratuito avvallerebbe la mancanza di organizzazione e la trascuratezza in ordine ai mezzi
per sostenerla. È anzi la consapevolezza della vulnerabilità di quel sapere a richiedere una
cura ulteriore in ordine alla sua tutela e alla sua configurazione[3].
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Inoltre, l’ormai guadagnata coscienza della benefica interazione con i vari saperi con i quali
la teologia si confronta può sfociare anche in una verifica del livello dell’insegnamento che
viene offerto e delle reali possibilità che le istituzioni teologiche garantiscano spazio per la
ricerca, senza relegarlo alla libera iniziativa e alla buona volontà dei singoli.
I frutti del confronto con altre discipline non possono infatti limitarsi alla condivisione di
contenuti, ma implicano anche una sincera presa di coscienza circa le metodologie
didattiche e docimologiche[4], così come dell’importanza attribuita alla produzione innovativa
e alla definizione di una comunità accademica ben organizzata.
Il rigore implicato dalla teologia non è alternativo alla passione e al fascino che essa suscita,
né il servizio che essa rende alla fede della Chiesa può venire impoverito affrontandone le
attuali difficoltà con strumenti accidentali, timorosi del mutamento di prospettiva che essa
implicherebbe. Il patrimonio con il quale i credenti contemporanei si possono ancora
confrontare suscita al contrario il desiderio per una trasmissione del sapere incapace di
accettare la mediocrità.
[1] G. Agamben, Idea dello studio, in Id., Idea della prosa, Quodlibet, Macerata 20132, pp.
43-46.
[2] Per una efficace sintesi, che in particolare considera la stortura implicata dal «doppio
binario» degli studi teologici, cfr. M. Mariani, Verso dove? Lo studio della teologia in Italia, «Il
Regno. Attualità» 10 (2018), pp. 305-315.
[3] Come è già stato notato con un riferimento – tutto fuorché estemporaneo – alla
condizione femminile, la mancanza di struttura e lo spontaneismo, lungi dal consentire un
consolidamento creativo dell’istituzione e una partecipazione plurale più consistente, non
fanno altro che rafforzare l’esclusione di chi già manca di coinvolgimento: cfr. Jo Freeman,
The Tyranny of Structureleness, «The Second Wave» II-1 (1972), pp. 20-33.
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