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«Come ad amici»
Lo stile dialogico del Vaticano II
«Un concilio che non sia recepito è un concilio che rimane senza
effetto». Questa lapidaria affermazione di Y. Congar fa intuire il carat-
tere strategico di un’adeguata riflessione sulla ricezione del Concilio
Vaticano II a 50 anni dalla sua celebrazione. È quanto propone in
queste pagine il prof. Gilles Routhier, docente alla facoltà di teolo-
gia dell’Università Laval, Québec, fondando le sue considerazioni su
un metodo che privilegia l’attenzione alle pratiche, e considerando
come gli insegnamenti del Concilio hanno trasformato le relazioni:
anzitutto all’interno delle diverse componenti della Chiesa, quindi
tra cattolici e non-cattolici (credenti di altre religioni, non credenti
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ed atei), infine tra Chiesa, ‘mondo’ e Stato. Non appare infatti suffi-
ciente riferirsi ai discorsi, e nemmeno alle istituzioni create per dar
seguito ai principi affermati e creare nuove pratiche: «Le istituzioni e
le pratiche da sole non sono garanti di una vera conversione che si
esprima anche attraverso attitudini di ascolto, di rispetto dei diversi
punti di vista, ecc. Insomma, essa si esprime anche attraverso uno
stile che testimonia una mentalità convertita o un novus habitus men-
tis». Prestare attenzione allo stile relazionale promosso dal Concilio,
fondato sull’agire di Dio nei confronti dell’umanità, «che si rivolge
agli uomini come ad amici e che conversa con loro», offre un mo-
dello all’azione della Chiesa; anche le conversioni di atteggiamenti, di
pratiche e di mentalità richieste dal Concilio Vaticano II dovrebbero
avere un tale radicamento e basarsi su fondamenti spirituali solidi,
pena una ricezione insufficiente perché solo formale.
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sono stati rigenerati con le acque del battesimo, i presbiteri sono fratelli (cfr.
Mt 23,8) membra dello stesso e unico corpo di Cristo, la cui edificazione è
compito di tutti (cfr. Ef 4,7 e 16).
Perciò i presbiteri nello svolgimento della propria funzione di presiedere la
comunità devono agire in modo tale che, non mirando ai propri interessi ma
solo al servizio di Gesù Cristo (cfr. Fil 2,21) uniscano i loro sforzi a quelli dei
fedeli laici, comportandosi in mezzo a loro come il Maestro il quale fra gli
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uomini «non venne ad essere servito, ma a servire e a dar la propria vita per
la redenzione della moltitudine» (Mt 20,28). I presbiteri devono riconoscere
e promuovere sinceramente la dignità dei laici, nonché il loro ruolo specifico
nell’ambito della missione della Chiesa.
Abbiano inoltre il massimo rispetto per la giusta libertà che spetta a tutti
nella città terrestre. Siano pronti ad ascoltare il parere dei laici, tenendo
conto con interesse fraterno delle loro aspirazioni e giovandosi della loro
esperienza e competenza nei diversi campi dell’attività umana, in modo da
poter assieme riconoscere i segni dei tempi. Provando gli spiriti per sapere se
sono da Dio (cfr. 1Gv 4,1), essi devono scoprire con senso di fede i carismi,
sia umili che eccelsi, che sotto molteplici forme sono concessi ai laici,
devono riconoscerli con gioia e fomentarli con diligenza […]. Allo stesso
modo, non esitino ad affidare ai laici degli incarichi al servizio della Chiesa,
lasciando loro libertà d’azione e un conveniente margine di autonomia, anzi
invitandoli opportunamente a intraprendere con piena libertà anche delle
iniziative per proprio conto (cfr. LG 37) […].
I fedeli, dal canto loro, abbiano coscienza del debito che hanno nei confronti
dei presbiteri, e li trattino perciò con amore filiale, come loro pastori e padri;
condividendo le loro preoccupazioni, si sforzino, per quanto è possibile, di
essere loro di aiuto con la preghiera e con l’azione, in modo che essi possano
superare più agevolmente le eventuali difficoltà e assolvere con maggiore
efficacia i propri compiti (cfr. LG 37).
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Si potrebbe dire che si erano formati tre cerchi di domande che ora,
durante il Vaticano II, attendevano una risposta. Anzitutto occorreva
definire in modo nuovo la relazione tra fede e scienze moderne […]. In
secondo luogo, era da definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato
moderno, che concedeva spazio a cittadini di varie religioni e ideologie,
comportandosi verso queste religioni in modo imparziale e assumendo
semplicemente la responsabilità per una convivenza ordinata e tollerante
tra i cittadini e per la loro libertà di esercitare la propria religione. Con
ciò, in terzo luogo, era collegato in modo più generale il problema della
tolleranza religiosa – una questione che richiedeva una nuova definizione
del rapporto tra fede cristiana e religioni del mondo. In particolare, di
fronte ai recenti crimini del regime nazionalsocialista e, in genere, in uno
sguardo retrospettivo su una lunga storia difficile, bisognava valutare e
definire in modo nuovo il rapporto tra la Chiesa e la fede di Israele.
Come vediamo, nel passo del suo indirizzo dove il papa riassume in
un certo senso i grandi assi dell’insegnamento del Vaticano II, tutto
ruota intorno alla definizione di nuovi rapporti tra la Chiesa e i suoi
interlocutori. Nel caso che ci interessa, si tratta di nuovi rapporti tra la
Chiesa e i non-cattolici. Tali nuovi rapporti si esprimono in particolare
sul piano del vocabolario usato per parlare degli altri e per descrivere
le relazioni che s’intrattengono con essi. È così che esso ci ha inse-
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Preghiamo anche per gli eretici e Preghiamo per tutti i fratelli che
gli scismatici affinché Dio nostro credono in Cristo; il Signore Dio
Signore li sottragga a tutti i loro nostro conceda loro di vivere la
errori e si degni di ricondurli al seno verità e li raduni e li custodisca
della nostra santa madre, la Chiesa nell’unità della sua Chiesa.
cattolica e apostolica. - Dio onnipotente ed eterno, che
- Dio onnipotente ed eterno che salvi riunisci i dispersi e li custodisci
tutti gli uomini, e che non vuoi che nell’unità, guarda benigno al
alcuno perisca, getta uno sguardo su gregge del tuo Figlio, perché
queste anime, sedotte dalle astuzie coloro che sono stati consacrati da
del demonio, fai che esse rinuncino un solo battesimo formino una sola
alla perversione dell’eresia, che i loro famiglia nel vincolo dell’amore e
cuori smarriti si pentano e tornino a della vera fede. Per…
volgersi all’unità della tua verità.
La preghiera del messale del 1962 (rimesso in uso) rivolge uno sguar-
do spregiativo sugli altri cristiani. Niente in questa preghiera che fac-
cia allusione alla comunione – benché imperfetta – conservata con i
fratelli cristiani (ritroviamo di nuovo il linguaggio della fraternità), e
niente neppure sui beni spirituali conservati al di fuori dei limiti visi-
bili della Chiesa cattolica: la parola di Dio scritta, la vita della grazia,
la fede, la speranza e la carità, altri doni interiori dello Spirito santo e
altri elementi visibili, come insegna il concilio. Mentre una volta si in-
sisteva su ciò che separava e opponeva, ormai si insiste su ciò che si ha
in comune e su ciò che ci unisce, la fede in Cristo e l’unico battesimo.
Anche in questo caso, l’unità ha un fondamento sacramentale.
Anche qui, il lessico del Vaticano II si distingue da quello che ritro-
Gilles Routhier
viamo negli Atti degli altri concili e la differenza non è solo semantica.
Anche qui, si ritrovano i termini caratteristici che abbiamo incontrato
sopra: dialogo, collaborazione11, cooperazione, ecc. In effetti, questo
nuovo sguardo ha interessato non solo la liturgia ma anche la cateche-
si e la predicazione, come ci indica il Decreto Unitatis redintegratio12,
la Dichiarazione Nostra aetate13 e la Costituzione Lumen Gentium14.
Essa interessa anche la vita dell’intera Chiesa in ragione del lavoro
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non solo che essi si svolgano con chiarezza di linguaggio, con umiltà e con
mitezza, ma anche che in essi a una doverosa prudenza si accompagni una
vicendevole fiducia; perché tale fiducia, favorendo l’amicizia, è destinata a
unire gli animi (Ecclesiam suam, AAS 56, 1964, pp. 644-645). (CD 13)
Il dialogo costituisce dunque non solo una categoria del discorso che
segna i rapporti tra cattolici e non cattolici, ma una categoria che ha
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concilio, come precisa ancora una volta papa Ratzinger, aprendo così
la via a una ridefinizione di questi rapporti con il Vaticano II.
Nel frattempo, tuttavia, anche l’età moderna aveva conosciuto degli sviluppi.
Ci si rendeva conto che la rivoluzione americana aveva offerto un modello di
Stato moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali emerse nella
seconda fase della rivoluzione francese. Le scienze naturali cominciavano, in
modo sempre più chiaro, a riflettere sul proprio limite, imposto dallo stesso
loro metodo che, pur realizzando cose grandiose, tuttavia non era in grado di
comprendere la globalità della realtà. Così, tutte e due le parti cominciavano
progressivamente ad aprirsi l’una all’altra. Nel periodo tra le due guerre
mondiali e ancora di più dopo la seconda guerra mondiale, uomini di Stato
cattolici avevano dimostrato che può esistere uno Stato moderno laico,
che tuttavia non è neutro riguardo ai valori, ma vive attingendo alle grandi
fonti etiche aperte dal cristianesimo. La dottrina sociale cattolica, via via
sviluppatasi, era diventata un modello importante tra il liberalismo radicale e
la teoria marxista dello Stato. Le scienze naturali, che come tali lavorano con
un metodo limitato all’aspetto fenomenico della realtà, si rendevano conto
sempre più chiaramente che questo metodo non comprendeva la totalità della
realtà e aprivano quindi nuovamente le porte a Dio, sapendo che la realtà è
più grande del metodo naturalistico e di ciò che esso può abbracciare.
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L’aspetto più sublime della dignità dell’uomo consiste nella sua vocazione
alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l’uomo è invitato al dialogo
con Dio. Se l’uomo esiste, infatti, è perché Dio lo ha creato per amore e, per
amore, non cessa di dargli l’esistenza; e l’uomo non vive pienamente secondo
verità se non riconosce liberamente quell’amore e se non si abbandona al suo
Creatore. Molti nostri contemporanei, tuttavia, non percepiscono affatto o
esplicitamente rigettano questo intimo e vitale legame con Dio (GS 19).
Come Cristo stesso penetrò nel cuore degli uomini per portarli attraverso
un contatto veramente umano alla luce divina, così i suoi discepoli, animati
intimamente dallo Spirito di Cristo, debbono conoscere gli uomini in mezzo
ai quali vivono ed improntare le relazioni con essi a un dialogo sincero e
comprensivo, affinché questi apprendano quali ricchezze Dio nella sua
munificenza ha dato ai popoli; e insieme devono tentare di illuminare queste
ricchezze alla luce del Vangelo, di liberarle e di ricondurle sotto l’autorità di
Dio salvatore (AG 11).
1
Y. Congar, La réception comme réalité ecclésiologique, RSPT, 56 (1972), p. 374.
2
H. Müller, Rezeption und Konsens in der Kirche. Eine Anfrage an die Kanonistik,
«Österreichisches Archiv für Kirchenrecht», 27 (1976), p. 15. Egli riprende di recente
quest’idea in Realizzazione della cattolicità nella Chiesa locale, in J. Manzanarès - H.
Legrand - A. Garcia Y Garcia, Chiesa locale e cattolicità: Atti del colloquio internazionale
di Salamanca, EDB, Bologna 1994.
3
G. Alberigo, La ‘réception’ du Concile de Trente par l’église catholique romaine,
«Irénikon», 58/3 (1985), pp. 311-337.
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4
Si veda G. Routhier, Vaticano II, ricezione, movimento ecumenico: tentativo di
articolazione, in G. Routhier, Il Concilio Vaticano II. Ricezione ed ermeneutica, Vita e
Pensiero, Milano 2006, pp. 72-74.
5
Sulla ricezione dell’enciclica Ecclesiam suam da parte del Vaticano II, si veda G.
Turbanti, La ricezione comparata delle Encicliche Pacem in Terris e Ecclesiam suam, in
Giovanni XXIII e Paolo VI: due Papi del Concilio, Atti del convegno internazionale di
studi (Roma, 9-11 ottobre 2002), Coll. Centro Vaticano II, 4, 2004.
6
In questo caso si tratta di un’espressione di Paolo VI, espressione da lui utilizzata in
diverse occasioni. Sul senso di tale espressione, si veda L. Örsy, Novus habitus mentis:
New Attitude of Mind, «The Jurist», 45 (1985), pp. 251-258 e The Meaning of Novus
habitus mentis: The Search for New Horizons, «The Jurist», 48 (1988), pp. 429-447. Si
veda anche D.E. Eintschel, A New Way of Thinking, «The Jurist», 44 (1984), pp. 41-47.
7
Si consulti il Thesaurus conciliorum oecumenicorum et generalium Ecclesiae catholicae,
Series A - Formae, Brepols, Turnhout 1996.
8
Il termine ricorre frequentemente per descrivere le relazioni fra il vescovo e i sacerdoti;
si dirà che i sacerdoti sono i «saggi collaboratori dell’ordine Episcopale»; che «il vescovo,
[…], consideri i sacerdoti, i suoi cooperatori, come figli…», LG 28; che i sacerdoti
sono «provvidenziali cooperatori dell’ordine episcopale», CD 28; e CD 27 li designa
per primi «tra i cooperatori del vescovo nel governo della diocesi». Lo stesso termine,
«cooperazione», definisce anche i legami tra i sacerdoti stessi e la partecipazione dei
laici all’apostolato dei pastori (LG 33).
9
Sottolineo le diverse occorrenze del termine: «Per questa comune partecipazione nel
medesimo sacerdozio e ministero, i vescovi considerino dunque i presbiteri come fratelli e
amici» (n. 7). Ciò contrasta con quanto si legge in Lumen Gentium 28 (testo precedente) che
dichiarava che i vescovi dovevano considerare i sacerdoti come «figli e amici» e considerarsi
come il loro Padre. Le stesse espressioni sono riprese all’articolo 16 di Christus Dominus.
Presbyterorum Ordinis va oltre: un emendamento introdotto all’epoca dell’ultima redazione
sostituì il termine «padre» con quello di «fratello» che non si trovava nelle versioni
precedenti, che ritessevano allora i legami con le relazioni fondamentali proposte dal Nuovo
Testamento, il che indica la maturazione delle idee all’interno stesso del processo conciliare.
Il n. 8 è saturo del linguaggio della fraternità: «Tutti i presbiteri, costituiti nell’ordine
del presbiterato mediante l’ordinazione, sono uniti tra di loro da un’intima fraternità
sacramentale»; «ciascuno è unito agli altri membri di questo presbiterio da particolari
vincoli di carità apostolica, di ministero e di fraternità»; «Per tali motivi, i più anziani devono
veramente trattare come fratelli i più giovani». «Animati da spirito fraterno, i presbiteri non
trascurino l’ospitalità»; vanno incoraggiate le «associazioni che […] fomentano – grazie
ad un modo di vita convenientemente ordinato e approvato e all’aiuto fraterno – la santità
dei sacerdoti nell’esercizio del loro ministero»; «E per quanto riguarda coloro che fossero
caduti in qualche mancanza, li trattino sempre con carità fraterna e comprensione, preghino
per loro incessantemente e si mostrino in ogni occasione veri fratelli e amici».
10
Con la nozione di assemblea per designare la Chiesa, quella di fratelli è una delle
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più presenti nel Nuovo Testamento per designare il rapporto tra i cristiani. Si veda At
1,15; 11,1; 12,17; 14,2; 21,17-18, ecc. Sulla designazione della Chiesa come fraternità,
si veda Michel Dujarier, L’Église-Fraternité 1. Les Origines de l’expression ‘adelphotes-
fraternitas’ aux trois première siècles du Christianisme, Cerf, Parigi 1991.
11
Si ritrova il termine in AA 27; UR 4,12 (collaborazione con gli altri cristiani e i fratelli
separati); AA 27, NA 2 (con i non cristiani).
12
«Se dunque alcune cose, sia nei costumi che nella disciplina ecclesiastica ed anche
nel modo di enunziare la dottrina – che bisogna distinguere con cura dal deposito
vero e proprio della fede – sono state osservate meno accuratamente, a seguito delle
circostanze, siano opportunamente rimesse nel giusto e debito ordine» (UR 6).
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«Curino pertanto tutti che nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio
non si insegni alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello Spirito di
Cristo» (NA 4).
14
Si veda il capitolo VIII sulla Vergine Maria: «Con lo studio della Sacra Scrittura,
dei santi Padri, dei dottori e delle liturgie della Chiesa, condotto sotto la guida del
magistero, illustrino rettamente gli uffici e i privilegi della beata Vergine, i quali sempre
sono orientati verso il Cristo, origine della verità totale, della santità e della pietà. Sia
nelle parole che nei fatti evitino diligentemente ogni cosa che possa indurre in errore i
fratelli separati o qualunque altra persona, circa la vera dottrina della Chiesa» (LG 67).
15
Sulla collaborazione tra cattolici e cristiani non cattolici, si veda UR 4 («Inoltre
quelle comunioni vengono a collaborare più largamente in qualsiasi dovere richiesto
da ogni coscienza cristiana per il bene comune») e 12, poiché tutto il numero è
dedicato alla collaborazione, in particolare nel campo sociale, con i fratelli separati:
«Tutti i cristiani professino davanti a tutti i popoli la fede in Dio uno e trino, […] e
con comune sforzo nella mutua stima rendano testimonianza della speranza nostra,
che non inganna. Siccome in questi tempi si stabilisce su vasta scala la cooperazione
nel campo sociale, tutti gli uomini sono chiamati a questa comune opera, ma a
maggior ragione quelli che credono in Dio e, in primissimo luogo, tutti i cristiani,
a causa del nome di Cristo di cui sono insigniti. La cooperazione di tutti i cristiani
esprime vivamente l’unione già esistente tra di loro, e pone in più piena luce il volto
di Cristo servo. Questa cooperazione, già attuata in non poche nazioni, va ogni
giorno più perfezionata – specialmente nelle nazioni dove è in atto una evoluzione
sociale o tecnica – sia facendo stimare rettamente la dignità della persona umana, sia
lavorando a promuovere il bene della pace, sia applicando socialmente il Vangelo, sia
facendo progredire con spirito cristiano le scienze e le arti, come pure usando rimedi
d’ogni genere per venire incontro alle miserie del nostro tempo, quali sono la fame
e le calamità, l’analfabetismo e l’indigenza, la mancanza di abitazioni e l’ineguale
distribuzione della ricchezza. Da questa cooperazione i credenti in Cristo possono
facilmente imparare come ci si possa meglio conoscere e maggiormente stimare gli
uni e gli altri, e come si appiani la via verso l’unità dei cristiani».
16
Si veda in particolare, nella seconda parte di Gaudium et Spes, il capitolo IV sulla vita
della comunità politica e il capitolo V sulla salvaguardia della pace e la costruzione della
comunità delle nazioni.
17
Si veda anche il n. 3.
18
Si vedano in particolare i numeri 1 e 3.
19
Cfr. Pio XII, Enciclica Sertum laetitiae, 1° novembre 1939, AAS 31 (1939), pp.
635-644; cfr. Id., allocuzione ai ‘laureati’ dell’Azione cattolica italiana, 24 maggio
1953.
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