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GILLES ROUTHIER

«Come ad amici»
Lo stile dialogico del Vaticano II

«Un concilio che non sia recepito è un concilio che rimane senza
effetto». Questa lapidaria affermazione di Y. Congar fa intuire il carat-
tere strategico di un’adeguata riflessione sulla ricezione del Concilio
Vaticano II a 50 anni dalla sua celebrazione. È quanto propone in
queste pagine il prof. Gilles Routhier, docente alla facoltà di teolo-
gia dell’Università Laval, Québec, fondando le sue considerazioni su
un metodo che privilegia l’attenzione alle pratiche, e considerando
come gli insegnamenti del Concilio hanno trasformato le relazioni:
anzitutto all’interno delle diverse componenti della Chiesa, quindi
tra cattolici e non-cattolici (credenti di altre religioni, non credenti
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ed atei), infine tra Chiesa, ‘mondo’ e Stato. Non appare infatti suffi-
ciente riferirsi ai discorsi, e nemmeno alle istituzioni create per dar
seguito ai principi affermati e creare nuove pratiche: «Le istituzioni e
le pratiche da sole non sono garanti di una vera conversione che si
esprima anche attraverso attitudini di ascolto, di rispetto dei diversi
punti di vista, ecc. Insomma, essa si esprime anche attraverso uno
stile che testimonia una mentalità convertita o un novus habitus men-
tis». Prestare attenzione allo stile relazionale promosso dal Concilio,
fondato sull’agire di Dio nei confronti dell’umanità, «che si rivolge
agli uomini come ad amici e che conversa con loro», offre un mo-
dello all’azione della Chiesa; anche le conversioni di atteggiamenti, di
pratiche e di mentalità richieste dal Concilio Vaticano II dovrebbero
avere un tale radicamento e basarsi su fondamenti spirituali solidi,
pena una ricezione insufficiente perché solo formale.

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È solo attraverso la sua ricezione che un concilio è efficace, nel senso


che ha effetto sulla vita della Chiesa. Altrimenti, il suo insegnamento
rimane un testo inerte, per non dire lettera morta. Un concilio che
non sia recepito è un concilio che rimane senza effetto, osservava già
Yves Congar1. In seguito, l’idea è stata spesso ripresa e si conviene
generalmente che, se non è la ricezione a conferire la verità al suo in-
segnamento, è tuttavia essa a dargli tutta la sua efficacia. Nella stessa
prospettiva, H. Müller notava che «quanto non viene recepito non
diventa effettivo e così resta senza efficacia e di conseguenza fittizio,
come testimonia il decreto di unione del concilio di Firenze2». Così,
gli effetti di un concilio si osservano, alla fine, nelle pratiche più che
nei discorsi, o nelle legislazioni. Nel suo studio sulla posterità del con-
cilio di Trento, G. Alberigo notava che «l’efficacia del concilio si gioca
per intero in merito all’applicazione dei decreti disciplinari […]3».
È allora che si guarda a essi non come a un sapere teorico o a una
lettera morta, ma come a una ispirazione vivente per tutto il corpo
della Chiesa, che così acquisisce una vera autorità. È nel corso della
ricezione di un concilio che il suo insegnamento si fa carne nella vita
della Chiesa, si attualizza attraverso le sue pratiche. Dunque, è impor-
tante, cinquant’anni dopo il Vaticano II, chiederci se il Vaticano II
si è fatto carne nella vita della nostra Chiesa ed esaminare ciò che ha
trasformato, delle nostre attitudini, delle nostre teologie e dei nostri
discorsi, delle nostre pratiche, delle nostre istituzioni e delle nostre
mentalità. Dovremo anche esaminare quali siano le conversioni che
sono ancora da realizzare se vogliamo che l’interpellanza rivolta dal
concilio alla Chiesa sia intesa e tocchi, fino a trasformarla, la carne del
corpo ecclesiale.
Un tale approccio alla ricezione del concilio comporta però due
presupposti: anzitutto che si intenda, per ricezione di un concilio, l’ef-
fetto da esso prodotto, più il processo stesso per il quale un insegna-
«Come ad amici»

mento conciliare è fatto proprio, assimilato e trasformato dal soggetto


ricevente; in secondo luogo che si comprenda la ricezione come un
processo di trasformazione o di conversione del soggetto ricevente4 e
non semplicemente come la trasformazione del bene assimilato e of-
ferto alla ricezione. Non entro in questa discussione, avendo trattato
la questione altrove.
Sono stato tentato, per svolgere lo studio della ricezione nel modo

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più sistematico possibile, di partire da tre ambiti: il munus docendi, il


munus sanctificandi e il munus regendi all’interno del quale sarebbe
appropriato distinguere il governo ecclesiale e l’attività della Chiesa nel
mondo. Questa porta d’ingresso, che permette una comoda distribu-
zione dell’insegnamento del Vaticano II, è certo legittima e può basarsi
sull’insegnamento del concilio stesso che spesso ha fatto ricorso a que-
ste categorie, ma non è la sola possibile, ce ne rendiamo conto. Si tratta
di un’opzione fondata, ma altri approcci sono ugualmente possibili. Ho
finito per adottare un approccio definito a partire dalle relazioni che
sono in gioco nei diversi documenti del Vaticano II e per chiedermi in
che cosa l’insegnamento del Vaticano II abbia trasformato le relazioni
tra le persone nella Chiesa (tra sacerdoti e vescovi, sacerdoti e laici,
ecc.) o i rapporti tra i cattolici e i non-cattolici (cristiani non-cattolici,
credenti di altre religioni, non credenti ed atei) o quelli della Chiesa
con il ‘mondo’ e lo Stato, ecc. Dobbiamo anche, in tale prospettiva re-
lazionale, chiederci in cosa tale insegnamento trasformi il nostro modo
di pensare i nostri rapporti con Dio. E infine, restando all’interno della
stessa prospettiva, potremmo chiederci come il nostro modo di par-
lare e di comunicare sia stato toccato dall’insegnamento del concilio.
Questa sistematica in fin dei conti è abbastanza vicina all’enciclica di
Paolo VI Ecclesiam suam sul dialogo che privilegia la prospettiva rela-
zionale, prospettiva rispettata dal Concilio Vaticano II5.
Di passaggio, si sarà osservato che ho distinto diversi ambiti della
vita ecclesiale: quello dei discorsi (la teologia, la parola ecclesiale, la
catechesi), quello delle pratiche, quello delle istituzioni e, alla fine,
quello delle mentalità. Troppo frequentemente, gli studi sulla ricezio-
ne si fermano all’esame dei discorsi, il che limita considerevolmente
la portata di tali studi. Il Vangelo ce l’ha insegnato, e lo sappiamo per
esperienza, che non basta dire, perché la cosa più determinante è fare.
Lo studio dei discorsi può coprire e nascondere la nostra incapa-
cità di cambiare le nostre pratiche. La mediazione tra il dire e il fare
si dimostra spesso il diritto, che determina per larga parte le nostre
Gilles Routhier

istituzioni che emergono dai quadri all’interno dei quali s’iscrive il


nostro agire. Un esempio permetterà forse di cogliere meglio le inter-
relazioni, ma anche le distinzioni tra questi tre ambiti. Possiamo certo,
per esempio, tenere un bel discorso sulla sinodalità e il dialogo nella
Chiesa, senza mai sviluppare istituzioni che lo permettano o ne fa-
voriscano un’effettiva pratica. D’altronde, possiamo benissimo aver

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soddisfatto le prescrizioni canoniche, cioè aver stabilito un consiglio


di presbiterio, ma svuotare del suo contenuto questa istituzione non
sottoponendole le questioni più importanti che riguardano l’azione
pastorale di una diocesi. E si può, ancora, aver istituito un consiglio
del genere, ma senza mai avere sviluppato reali pratiche di dialogo, di
ascolto, di accoglienza dell’espressione dei diversi punti di vista, ecc.
La messa in atto delle istituzioni non viene in tal caso accompagnata
da pratiche omogenee che siano in grado di conferire a esse tutta la
loro fecondità. E infine, le istituzioni e le pratiche da sole non sono
garanti di una vera conversione che si esprima anche attraverso atti-
tudini di ascolto, di rispetto dei diversi punti di vista, ecc. Insomma,
essa si esprime anche attraverso uno stile che testimonia una mentalità
convertita o un novus habitus mentis6.
In definitiva, lo studio della ricezione ci obbliga a distinguere i pia-
ni e a non limitarci a uno studio dei discorsi programmatici (che sia
magistrale o teologico, o del discorso giuridico) o dell’esame formale
delle figure istituzionali messe in campo. È l’esame delle pratiche a
risultare l’aspetto più determinante.

I rapporti tra le persone nella Chiesa


I testi del Vaticano II sono saturi dei termini collaborazione, coopera-
zione, scambio, ascolto, dialogo, ecc. Il verbo collaborare o il sostanti-
vo collaboratio, di cui si trovano 25 occorrenze negli Atti del Vaticano
II, non si ritrovano in nessun altro testo dei venti concili precedenti7.
Quanto a esso, i termini cooperatio, cooperator, cooperor sono usati
rispettivamente 55, 29 e 55 volte contro solo 2, 5 e 10 volte negli Atti
di tutti gli altri concili. Potremmo proseguire così la dimostrazione e
sempre verremmo a concludere che in questo il Vaticano II si distin-
gue rispetto ai concili precedenti. Certo, questi termini non sono sem-
pre usati per descrivere le relazioni dei fedeli del Cristo tra loro, ma
«Come ad amici»

lo sono frequentemente nel quadro degli insegnamenti del concilio in


questo ambito. Così, i sacerdoti sono presentati come i cooperatori
dei vescovi (il termine è utilizzato in due riprese in Lumen Gentium
28, prima di essere ripreso nei Decreti Christus Dominus ai numeri 27,
28, 29, 30, 33, 34 – 6 occorrenze – e Presbyterorum ordinis – 3 occor-
renze)8. Dove in precedenza si trovavano rapporti d’ineguaglianza e
di subordinazione, più di frequente si trovano nei testi del Vaticano II

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rapporti più orizzontali. Si ritroverebbe lo stesso vocabolario quando


è in gioco la trattazione dei rapporti tra i laici e i sacerdoti o tra i reli-
giosi e gli altri membri della Chiesa.
Inoltre, uno studio più approfondito mostrerebbe che questi termi-
ni formano un campo semantico e che la presenza dell’uno richiama la
presenza degli altri. Per esempio il n. 7 di Presbyterorum ordinis, che
presenta le relazioni tra i vescovi e i sacerdoti e dove ritroviamo il ter-
mine cooperazione, fa parimenti appello ai termini consigliare, con-
siglio, ascolto, consultazione, dialogo, ecc. Inoltre, e ciò è ricorrente,
si pone l’accento su quello che le persone messe in relazione hanno
in comune: «Tutti i presbiteri, in unione con i vescovi, partecipano
del medesimo e unico sacerdozio e ministero di Cristo», la «comune
partecipazione nel medesimo sacerdozio e ministero» e l’unità di con-
sacrazione, cioè il fondamento sacramentale di quel rapporto che, di
fatto, si afferma esplicitamente nella celebrazione liturgica, mediante
la concelebrazione. Alla fine, si ritrova anche l’idea di partecipazione
e di comunione.
Per non lasciare l’impressione che questa prospettiva relazionale
tocchi solo i rapporti tra i sacerdoti e i vescovi, dirò qualche parola
sui rapporti tra sacerdoti e laici i quali sono anch’essi intesi a partire
dalle nozioni di dialogo, di scambio, ecc. Alla sezione II del capitolo
II di Presbyterorum ordinis, dedicata alle relazioni dei sacerdoti con
gli altri, dopo aver trattato le relazioni tra i vescovi e i sacerdoti (n. 7)
e l’unione fraterna e la cooperazione tra i sacerdoti (n. 8), si affronta
infine la questione dei rapporti tra i sacerdoti e i laici (n. 9). Cito co-
piosamente questo numero 9:

I sacerdoti del Nuovo Testamento, anche se in virtù del sacramento


dell’ordine svolgono la funzione eccelsa e insopprimibile di padre e di
maestro nel popolo di Dio e per il popolo di Dio, sono tuttavia discepoli
del Signore, come gli altri fedeli, chiamati alla partecipazione del suo regno
per la grazia di Dio (cfr. 1Tes 2,12; coll. 1,13). In mezzo a tutti coloro che
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sono stati rigenerati con le acque del battesimo, i presbiteri sono fratelli (cfr.
Mt 23,8) membra dello stesso e unico corpo di Cristo, la cui edificazione è
compito di tutti (cfr. Ef 4,7 e 16).
Perciò i presbiteri nello svolgimento della propria funzione di presiedere la
comunità devono agire in modo tale che, non mirando ai propri interessi ma
solo al servizio di Gesù Cristo (cfr. Fil 2,21) uniscano i loro sforzi a quelli dei
fedeli laici, comportandosi in mezzo a loro come il Maestro il quale fra gli

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uomini «non venne ad essere servito, ma a servire e a dar la propria vita per
la redenzione della moltitudine» (Mt 20,28). I presbiteri devono riconoscere
e promuovere sinceramente la dignità dei laici, nonché il loro ruolo specifico
nell’ambito della missione della Chiesa.
Abbiano inoltre il massimo rispetto per la giusta libertà che spetta a tutti
nella città terrestre. Siano pronti ad ascoltare il parere dei laici, tenendo
conto con interesse fraterno delle loro aspirazioni e giovandosi della loro
esperienza e competenza nei diversi campi dell’attività umana, in modo da
poter assieme riconoscere i segni dei tempi. Provando gli spiriti per sapere se
sono da Dio (cfr. 1Gv 4,1), essi devono scoprire con senso di fede i carismi,
sia umili che eccelsi, che sotto molteplici forme sono concessi ai laici,
devono riconoscerli con gioia e fomentarli con diligenza […]. Allo stesso
modo, non esitino ad affidare ai laici degli incarichi al servizio della Chiesa,
lasciando loro libertà d’azione e un conveniente margine di autonomia, anzi
invitandoli opportunamente a intraprendere con piena libertà anche delle
iniziative per proprio conto (cfr. LG 37) […].
I fedeli, dal canto loro, abbiano coscienza del debito che hanno nei confronti
dei presbiteri, e li trattino perciò con amore filiale, come loro pastori e padri;
condividendo le loro preoccupazioni, si sforzino, per quanto è possibile, di
essere loro di aiuto con la preghiera e con l’azione, in modo che essi possano
superare più agevolmente le eventuali difficoltà e assolvere con maggiore
efficacia i propri compiti (cfr. LG 37).

Come vediamo, il Decreto insiste qui anche sulla condizione comune


e condivisa dagli uni e dagli altri: i sacerdoti sono collocati «nel» po-
polo di Dio, «con tutti i cristiani», «fra tutti i battezzati» e «membri
dell’unico Corpo di Cristo». Sono «discepoli del Signore», «fratelli
tra i loro fratelli», partecipi degli stessi beni del Regno e «pronti a
unire i loro sforzi a quelli dei laici cristiani». Certo, vi è distinzione di
ministero, di funzione e di carisma, poiché essi sono «padri e dottori»
e «a capo della comunità». Tuttavia, la relazione fraterna che trovia-
mo ai numeri 7 e 89, è sempre quella maggiormente valorizzata qui,
«Come ad amici»

dato che il concilio riprende a questo capitolo il linguaggio del Nuovo


Testamento10.
Potrei, ripercorrendo l’insieme dei testi del Vaticano II, dare una
dimostrazione più esaustiva di questo ricorso alle Scritture con la va-
lorizzazione del rapporto di fraternità nell’insegnamento del Vaticano
II. Si tratta in tal caso, come ben comprendiamo, di ben altro che una
febbre egualitaria e una proposta di tipo ideologico, piuttosto qui ci

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si immerge in ciò che è tipicamente cristiano e questa relazione tipica


con gli altri è innanzitutto di natura spirituale. Il vocabolario impiega-
to dal Vaticano II per descrivere le relazioni tra i membri della Chiesa
cattolica è più egualitario e meno verticale. Certo, non si cancella il
carattere gerarchico della Chiesa, ma la relazione gerarchica è forte-
mente temperata da un vocabolario più orizzontale, senza contare che
non si presenta mai la Chiesa come una monarchia, ma come un po-
polo inserito nella «famiglia umana», altro esempio della predilezione
del concilio per un vocabolario più orizzontale.
A mio parere, il Vaticano II converte o cristianizza la virtù naturale
di obbedienza. Quest’ultima, trattata nel n. 7 di Presbyterorum ordinis
in quattro paragrafi, trova un quadro appropriato. Nei primi due pa-
ragrafi viene ricordato il dovere del vescovo di prendere consiglio, di
ascoltare, di consultare e di scambiare pareri con i sacerdoti della sua
diocesi, poi il testo richiama il dovere corrispondente dei sacerdoti
di rispettare e di obbedire al loro vescovo. L’obbedienza non viene
dunque mai da sola o non è mai presentata in modo assoluto, ma è
considerata nel contesto di una mutualità e di una reciprocità di rap-
porti tra fratelli, fondata sulla partecipazione a un unico sacramento.
È, come ricorda il testo, «pervasa dallo spirito di cooperazione» e ri-
spettosa delle funzioni che spettano a ognuno. Siamo dunque davanti
a un rapporto di inter-dipendenza più che dentro un sistema di asso-
luta dipendenza gerarchica.
Oggi potremmo chiederci come questo fermento evangelico e con-
ciliare vivifichi ancora il corpo ecclesiale e determini i rapporti fra
i cristiani nella Chiesa e a quale conversione siamo ancora chiamati
dall’insegnamento del Vaticano II sullo scambio, il dialogo, la consul-
tazione, la cooperazione e la collaborazione tra cristiani.

I rapporti tra cattolici e non cattolici


Gilles Routhier

Il Vaticano II ha innovato anche il capitolo delle relazioni tra i cattolici


e i non-cattolici (cristiani non-cattolici, credenti di altre religioni, non
credenti e atei). Ciò è stato osservato dai papi Giovanni Paolo II e
Benedetto XVI che, riflettendo sulle acquisizioni del Vaticano II, han-
no entrambi insistito su questo fatto. Nella sua lettera apostolica Tertio
millennio adveniente, nella quale Giovanni Paolo II ritorna in modo
approfondito sul Vaticano II, il papa enumera le grandi acquisizioni

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del concilio. Tra di esse, dopo averne enumerate alcune – la maggiore


attenzione alla Parola di Dio, la riforma della liturgia, la promozione
delle diverse vocazioni cristiane, la riscoperta della collegialità epi-
scopale – il papa segnala l’apertura ai cristiani delle altre confessioni
e ai membri delle altre religioni e a tutti gli uomini del nostro tempo.
Per quanto lo riguarda, nel suo indirizzo rivolto alla curia romana del
22 dicembre 2005, Benedetto XVI riconduce a tre grandi questioni il
programma del concilio:

Si potrebbe dire che si erano formati tre cerchi di domande che ora,
durante il Vaticano II, attendevano una risposta. Anzitutto occorreva
definire in modo nuovo la relazione tra fede e scienze moderne […]. In
secondo luogo, era da definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato
moderno, che concedeva spazio a cittadini di varie religioni e ideologie,
comportandosi verso queste religioni in modo imparziale e assumendo
semplicemente la responsabilità per una convivenza ordinata e tollerante
tra i cittadini e per la loro libertà di esercitare la propria religione. Con
ciò, in terzo luogo, era collegato in modo più generale il problema della
tolleranza religiosa – una questione che richiedeva una nuova definizione
del rapporto tra fede cristiana e religioni del mondo. In particolare, di
fronte ai recenti crimini del regime nazionalsocialista e, in genere, in uno
sguardo retrospettivo su una lunga storia difficile, bisognava valutare e
definire in modo nuovo il rapporto tra la Chiesa e la fede di Israele.

Come vediamo, nel passo del suo indirizzo dove il papa riassume in
un certo senso i grandi assi dell’insegnamento del Vaticano II, tutto
ruota intorno alla definizione di nuovi rapporti tra la Chiesa e i suoi
interlocutori. Nel caso che ci interessa, si tratta di nuovi rapporti tra la
Chiesa e i non-cattolici. Tali nuovi rapporti si esprimono in particolare
sul piano del vocabolario usato per parlare degli altri e per descrivere
le relazioni che s’intrattengono con essi. È così che esso ci ha inse-
«Come ad amici»

gnato a guardare e a designare gli altri in modo diverso. Innanzitutto,


ci ha condotti – fino nella liturgia – a chiamare fratelli separati colo-
ro a cui si affibbiava il nome di eretici e di scismatici, a considerare
come credenti coloro che si designavano in precedenza come pagani,
empi, popolo deicida o miscredenti, a vedere uomini di buona volontà
in quelle persone che, pur non aderendo al cattolicesimo, cercavano
anch’essi il bene comune e la riuscita del mondo.

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Fedele all’adagio di Prospero d’Aquitania, Lex orandi, lex credendi,


la liturgia riformata, fedele all’insegnamento del Concilio Vaticano II,
testimonia questo nuovo modo di rapportarci agli altri. Qui mi limiterò
a un esempio tratto dalla grande preghiera litanica del Venerdì Santo:

Preghiamo anche per gli eretici e Preghiamo per tutti i fratelli che
gli scismatici affinché Dio nostro credono in Cristo; il Signore Dio
Signore li sottragga a tutti i loro nostro conceda loro di vivere la
errori e si degni di ricondurli al seno verità e li raduni e li custodisca
della nostra santa madre, la Chiesa nell’unità della sua Chiesa.
cattolica e apostolica. - Dio onnipotente ed eterno, che
- Dio onnipotente ed eterno che salvi riunisci i dispersi e li custodisci
tutti gli uomini, e che non vuoi che nell’unità, guarda benigno al
alcuno perisca, getta uno sguardo su gregge del tuo Figlio, perché
queste anime, sedotte dalle astuzie coloro che sono stati consacrati da
del demonio, fai che esse rinuncino un solo battesimo formino una sola
alla perversione dell’eresia, che i loro famiglia nel vincolo dell’amore e
cuori smarriti si pentano e tornino a della vera fede. Per…
volgersi all’unità della tua verità.

La preghiera del messale del 1962 (rimesso in uso) rivolge uno sguar-
do spregiativo sugli altri cristiani. Niente in questa preghiera che fac-
cia allusione alla comunione – benché imperfetta – conservata con i
fratelli cristiani (ritroviamo di nuovo il linguaggio della fraternità), e
niente neppure sui beni spirituali conservati al di fuori dei limiti visi-
bili della Chiesa cattolica: la parola di Dio scritta, la vita della grazia,
la fede, la speranza e la carità, altri doni interiori dello Spirito santo e
altri elementi visibili, come insegna il concilio. Mentre una volta si in-
sisteva su ciò che separava e opponeva, ormai si insiste su ciò che si ha
in comune e su ciò che ci unisce, la fede in Cristo e l’unico battesimo.
Anche in questo caso, l’unità ha un fondamento sacramentale.
Anche qui, il lessico del Vaticano II si distingue da quello che ritro-
Gilles Routhier

viamo negli Atti degli altri concili e la differenza non è solo semantica.
Anche qui, si ritrovano i termini caratteristici che abbiamo incontrato
sopra: dialogo, collaborazione11, cooperazione, ecc. In effetti, questo
nuovo sguardo ha interessato non solo la liturgia ma anche la cateche-
si e la predicazione, come ci indica il Decreto Unitatis redintegratio12,
la Dichiarazione Nostra aetate13 e la Costituzione Lumen Gentium14.
Essa interessa anche la vita dell’intera Chiesa in ragione del lavoro

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in comune, delle iniziative molteplici e delle collaborazioni in diversi


ambiti tra cattolici e non-cattolici15, mentre si era privilegiato soprat-
tutto, fino ad allora, uno sviluppo parallelo, talora quasi in regime di
apartheid. Le diverse dimensioni del dialogo ecumenico e del dialogo
inter-religioso, dialogo di vita, dialogo delle opere, il dialogo spirituale
e il dialogo teologico indicano fino a che punto sono tutte le dimen-
sioni della vita cristiana a essere coinvolte. È dunque l’intero nostro
rapporto con gli altri – atteggiamento, linguaggio, lavoro e vita in co-
mune – a essere interessato da questo insegnamento.
Su questo capitolo non ci si è accontentati di bei discorsi. Si sono
sviluppate pratiche e si sono messe in campo delle istituzioni. I nuo-
vi organismi curiali creati nel corso del concilio o immediatamente
dopo e in dipendenza dal concilio ci orientano nella stessa direzione:
il Segretariato per l’Unità dei cristiani (1960), il Segretariato per i non-
credenti (1964), il Segretariato per le religioni non-cristiane.
Inoltre, le pratiche evangelizzatrici e missionarie o il modo di entra-
re in relazione con i non cristiani hanno conosciuto forti cambiamenti
nel corso dei decenni che sono seguiti al concilio. Non resta comunque
meno importante rivisitare l’insegnamento del Vaticano II su questo ca-
pitolo, in particolare quello presentato dal Decreto Christus Dominus e
che riguarda il modo di proporre la dottrina cristiana, questione che fa
direttamente eco al discorso inaugurale di Giovanni XXIII:

I vescovi devono esporre la dottrina cristiana in modo consono alle necessità


del tempo in cui viviamo: in un modo, cioè, che risponda alle difficoltà e ai
problemi, dai quali sono assillati ed angustiati gli uomini d’oggi […].
E poiché la Chiesa non può non stabilire un colloquio con l’umana società
(Ecclesiam suam, AAS 56, 1964, p. 639) in seno alla quale vive, incombe
in primo luogo ai vescovi il dovere di andare agli uomini e di sollecitare e
promuovere un dialogo con essi. Ma perché in questi dialoghi di salvezza la
verità vada sempre unita con la carità, e l’intelligenza con l’amore, è necessario
«Come ad amici»

non solo che essi si svolgano con chiarezza di linguaggio, con umiltà e con
mitezza, ma anche che in essi a una doverosa prudenza si accompagni una
vicendevole fiducia; perché tale fiducia, favorendo l’amicizia, è destinata a
unire gli animi (Ecclesiam suam, AAS 56, 1964, pp. 644-645). (CD 13)

Il dialogo costituisce dunque non solo una categoria del discorso che
segna i rapporti tra cattolici e non cattolici, ma una categoria che ha

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segnato della sua impronta profonda le istituzioni e le pratiche, fino


ai dialoghi (istituzioni e pratiche) del periodo post-conciliare. Non ci
si può rappresentare la Chiesa cattolica del dopo concilio ignorando
questa categoria che ne ha segnato la vita.

I rapporti della Chiesa con il mondo e con lo Stato


Come abbiamo visto sopra, per Benedetto XVI il Concilio Vaticano II
è stato chiamato a definire nuovi rapporti tra la Chiesa e la scienza mo-
derna e lo Stato moderno. Più globalmente, il papa segnalava che «il
concilio doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra la Chiesa
e l’epoca moderna». Anche in questo caso, a essere in gioco è il modo
di entrare in relazione. Questa relazione riguarda stavolta la Chiesa
e l’epoca moderna: la cultura, la società, lo Stato, insomma il mondo
moderno. Ancora una volta si tratta, come sottolinea il papa, di pensa-
re secondo nuovi termini il rapporto. Per valutare correttamente tale
novità, vale la pena, con Benedetto XVI, di ritornare sul rapporto, che
si era sviluppato durante gli anni precedenti il concilio, fra la Chiesa e
l’epoca moderna. Benedetto XVI lo caratterizza come segue:

Questo rapporto aveva avuto un inizio molto problematico con il processo


a Galileo. Si era poi spezzato totalmente, quando Kant definì la «religione
entro la sola ragione» e quando, nella fase radicale della rivoluzione francese,
venne diffusa un’immagine dello Stato e dell’uomo che alla Chiesa e alla
fede praticamente non voleva più concedere alcuno spazio. Lo scontro
della fede della Chiesa con un liberalismo radicale e anche con scienze
naturali che pretendevano di abbracciare con le loro conoscenze tutta la
realtà fino ai suoi confini, proponendosi caparbiamente di rendere superflua
l’‘ipotesi Dio’, aveva provocato nell’Ottocento, sotto Pio IX, da parte della
Chiesa aspre e radicali condanne di tale spirito dell’età moderna. Quindi,
apparentemente non c’era più nessun ambito aperto per un’intesa positiva
e fruttuosa, e drastici erano pure i rifiuti da parte di coloro che si sentivano
Gilles Routhier

i rappresentanti dell’età moderna.

Si trattava dunque, almeno nella sua fase iniziale, di un rapporto an-


tagonistico e di reciproca esclusione, caratterizzato dall’opposizione,
dal rifiuto dell’altro e dalla condanna. Poco a poco tuttavia, tale rap-
porto si era modificato, in particolare durante i decenni precedenti il

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concilio, come precisa ancora una volta papa Ratzinger, aprendo così
la via a una ridefinizione di questi rapporti con il Vaticano II.

Nel frattempo, tuttavia, anche l’età moderna aveva conosciuto degli sviluppi.
Ci si rendeva conto che la rivoluzione americana aveva offerto un modello di
Stato moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali emerse nella
seconda fase della rivoluzione francese. Le scienze naturali cominciavano, in
modo sempre più chiaro, a riflettere sul proprio limite, imposto dallo stesso
loro metodo che, pur realizzando cose grandiose, tuttavia non era in grado di
comprendere la globalità della realtà. Così, tutte e due le parti cominciavano
progressivamente ad aprirsi l’una all’altra. Nel periodo tra le due guerre
mondiali e ancora di più dopo la seconda guerra mondiale, uomini di Stato
cattolici avevano dimostrato che può esistere uno Stato moderno laico,
che tuttavia non è neutro riguardo ai valori, ma vive attingendo alle grandi
fonti etiche aperte dal cristianesimo. La dottrina sociale cattolica, via via
sviluppatasi, era diventata un modello importante tra il liberalismo radicale e
la teoria marxista dello Stato. Le scienze naturali, che come tali lavorano con
un metodo limitato all’aspetto fenomenico della realtà, si rendevano conto
sempre più chiaramente che questo metodo non comprendeva la totalità della
realtà e aprivano quindi nuovamente le porte a Dio, sapendo che la realtà è
più grande del metodo naturalistico e di ciò che esso può abbracciare.

La nuova definizione dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato moder-


no, tra la Chiesa e la società e la cultura si ritrova in particolare nel-
la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo di questo tempo, la
Dichiarazione sulla libertà religiosa e il Decreto sull’attività missionaria
della Chiesa. È in queste trattazioni che si ritrovano di nuovo i termini
collaborazione e cooperazione16. Così, il mutuo dialogo tra la Chiesa
e il mondo è preso in considerazione in Gaudium et Spes 4017 e si
stabilisce, in una felice reciprocità, che non solo la Chiesa può offrire
il suo aiuto alla società, ma che anch’essa riceve un aiuto dal mondo
d’oggi (GS 40-44). Insomma, è un rapporto di stretta solidarietà e di
«Come ad amici»

reciproco servizio a descrivere la nuova relazione, come lo definisce il


preambolo della Costituzione18.
Oltre a tale reciprocità nei rapporti, i termini utilizzati descrivono
qui anche un rapporto orizzontale tra la Chiesa e il mondo: i cristiani
sono membri della città, mentre la Chiesa cammina insieme all’uma-
nità e condivide la sorte terrena del mondo (GS 40). Essi fanno parte
della stessa famiglia umana, espressione che torna con frequenza.

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Anche in questo caso, si è passati dalla parola agli atti, promuoven-


do nuovi organismi che si facessero carico della cooperazione presa
in considerazione dal concilio. Penso in particolare al Segretariato
per i non credenti (1964), divenuto in seguito il Consiglio pontificio
per la cultura e la Commissione pontificale Giustizia e Pace (1967).
La creazione di tali nuovi organismi rivela l’orientamento scaturito
dall’insegnamento del concilio che si dedicava a ripensare la presenza
e l’azione della Chiesa cattolica in un mondo che cambiava o che, a
causa della dilatazione delle frontiere del mondo e del pluralismo reli-
gioso e delle convinzioni che lo segnava sempre di più, non poteva più
pensarsi in termini di cittadella cattolica o di cristianità.
Tuttavia, la creazione di nuovi organismi, per quanto essenziale
possa essere tale misura, non è di per sé sufficiente. Come segnalavo
prima, bisogna annodare insieme atteggiamenti, pratiche, istituzioni e
mentalità. Nuove pratiche e mentalità rinnovate (novus habitus men-
tis) si acquisiscono in particolare grazie alla formazione. A questo ca-
pitolo, il concilio offre due indicazioni. La prima si trova nel Decreto
Optatam totius ai nn. 15 e 19. Da un lato, dopo aver dato qualche indi-
cazione sulla formazione filosofica dei seminaristi, che deve in partico-
lare tener conto «delle ricerche filosofiche moderne, specialmente di
quelle che esercitano maggiore influsso nel loro paese, come pure del
progresso delle scienze moderne», il passo si conclude così: «Così i
seminaristi, provvisti di una adeguata conoscenza della mentalità mo-
derna, potranno opportunamente prepararsi al dialogo con gli uomini
del loro tempo (Ecclesiam suam, AAS, LVI, 1964, pp. 637 ss.)». Un
po’ più avanti, torna la stessa preoccupazione:

In generale si coltivino negli alunni quelle particolari attitudini che


contribuiscono moltissimo a stabilire un dialogo con gli uomini, quali sono
la capacità di ascoltare gli altri e di aprire l’animo in spirito di carità ai vari
aspetti dell’umana convivenza (Ecclesiam suam, AAS, LVI, 1964, passim,
soprattutto pp. 635 ss. e 640 ss.)» (OT 19).
Gilles Routhier

Il Decreto Apostolicam actuositatem affronterà anch’esso la questione


della formazione al dialogo nella sua sezione sull’adeguata formazione
dei laici [31], ricordando che, «quanto all’apostolato per l’evangeliz-
zazione e la santificazione degli uomini, i laici debbono essere parti-
colarmente formati a stabilire il dialogo con gli altri, credenti o non

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credenti, per annunziare a tutti il messaggio di Cristo»19. Vediamo su-


bito quale sfida rappresenti entrare in questa nuova mentalità e quale
conversione presupponga prendere sul serio il Vaticano II in materia
di relazioni con gli altri.

Il rapporto di Dio con l’umanità come fondamento


dell’azione della Chiesa
Come ho segnalato in precedenza, non bisogna considerare tali cam-
biamenti come nuovi orientamenti strategici più conformi allo spirito
del tempo, un modo più dolce del confronto per assicurarsi che la
voce della Chiesa venga sentita nel contesto attuale. L’ho rilevato, ciò
dipende più da un’opzione spirituale profonda e da un richiamarsi
al Vangelo che dall’azione strategica. Ancor più, il rapporto dialogi-
co tra le persone nella Chiesa, tra la Chiesa e i cristiani non cattoli-
ci, i credenti delle altre religioni e i non credenti prende a modello
la relazione stessa che si instaura tra Dio e l’umanità: «Con questa
Rivelazione infatti Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uo-
mini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli
alla comunione con sé» (Dei Verbum 2). Così, la Chiesa è chiamata
ad adottare i costumi di Dio, lui che si rivolge agli uomini come ad
amici e che conversa con loro. Se le pratiche della Chiesa non si radi-
cano a questa profondità e se dipendono solo da opzioni strategiche,
rischiano sempre di venire rimesse in discussione e abbandonate. E
anche le conversioni di atteggiamenti, di pratiche e di mentalità ri-
chieste dal Concilio Vaticano II devono radicarsi a tale profondità e
devono basarsi su fondamenti spirituali solidi. Altrimenti, esse avran-
no solo il carattere di mode passeggere, al più daranno l’impressione
di prescrizioni esteriori e non di legge interna che ispira l’azione dei
cristiani e della Chiesa.
«Come ad amici»

Questa dimensione fondamentalmente dialogale del rapporto tra


Dio e l’umanità è ripresa al n. 25 di Dei Verbum: esso insegna che «la
lettura della sacra Scrittura dev’essere accompagnata dalla preghiera,
affinché si stabilisca il dialogo tra Dio e l’uomo; poiché “quando pre-
ghiamo, parliamo con lui; lui ascoltiamo, quando leggiamo gli oracoli
divini” (Ambrogio, I doveri dei ministri, Libro I, 20, 88)». Nello stesso
senso, la Costituzione Gaudium et Spes preciserà che

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L’aspetto più sublime della dignità dell’uomo consiste nella sua vocazione
alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l’uomo è invitato al dialogo
con Dio. Se l’uomo esiste, infatti, è perché Dio lo ha creato per amore e, per
amore, non cessa di dargli l’esistenza; e l’uomo non vive pienamente secondo
verità se non riconosce liberamente quell’amore e se non si abbandona al suo
Creatore. Molti nostri contemporanei, tuttavia, non percepiscono affatto o
esplicitamente rigettano questo intimo e vitale legame con Dio (GS 19).

Questa forma relazionale strutturante per la persona umana e che co-


struisce il cristiano ha dunque un fondamento teologale.
Solo una volta che si è situato a tale profondità spirituale e teologa-
le l’invito al dialogo che attraversa tutto l’insegnamento conciliare si
può passare dal rapporto tra Dio e l’umanità al rapporto tra le persone
nella Chiesa e al rapporto tra la Chiesa e gli altri. È d’altronde questo
concatenamento logico che ci propone il Decreto Ad gentes:

Come Cristo stesso penetrò nel cuore degli uomini per portarli attraverso
un contatto veramente umano alla luce divina, così i suoi discepoli, animati
intimamente dallo Spirito di Cristo, debbono conoscere gli uomini in mezzo
ai quali vivono ed improntare le relazioni con essi a un dialogo sincero e
comprensivo, affinché questi apprendano quali ricchezze Dio nella sua
munificenza ha dato ai popoli; e insieme devono tentare di illuminare queste
ricchezze alla luce del Vangelo, di liberarle e di ricondurle sotto l’autorità di
Dio salvatore (AG 11).

Dall’azione di Cristo si passa a quella dei suoi discepoli e l’anello che


lega i due è un comparativo «dello stesso» («sicut ipse Christus… ita
eius discipuli»). È dunque l’atteggiamento e la pratica del Cristo a do-
vere in ultima istanza guidare e ispirare quelli dei discepoli del Cristo.
(Traduzione di Mario Porro)
Gilles Routhier

1
Y. Congar, La réception comme réalité ecclésiologique, RSPT, 56 (1972), p. 374.
2
H. Müller, Rezeption und Konsens in der Kirche. Eine Anfrage an die Kanonistik,
«Österreichisches Archiv für Kirchenrecht», 27 (1976), p. 15. Egli riprende di recente
quest’idea in Realizzazione della cattolicità nella Chiesa locale, in J. Manzanarès - H.
Legrand - A. Garcia Y Garcia, Chiesa locale e cattolicità: Atti del colloquio internazionale
di Salamanca, EDB, Bologna 1994.
3
G. Alberigo, La ‘réception’ du Concile de Trente par l’église catholique romaine,
«Irénikon», 58/3 (1985), pp. 311-337.

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4
Si veda G. Routhier, Vaticano II, ricezione, movimento ecumenico: tentativo di
articolazione, in G. Routhier, Il Concilio Vaticano II. Ricezione ed ermeneutica, Vita e
Pensiero, Milano 2006, pp. 72-74.
5
Sulla ricezione dell’enciclica Ecclesiam suam da parte del Vaticano II, si veda G.
Turbanti, La ricezione comparata delle Encicliche Pacem in Terris e Ecclesiam suam, in
Giovanni XXIII e Paolo VI: due Papi del Concilio, Atti del convegno internazionale di
studi (Roma, 9-11 ottobre 2002), Coll. Centro Vaticano II, 4, 2004.
6
In questo caso si tratta di un’espressione di Paolo VI, espressione da lui utilizzata in
diverse occasioni. Sul senso di tale espressione, si veda L. Örsy, Novus habitus mentis:
New Attitude of Mind, «The Jurist», 45 (1985), pp. 251-258 e The Meaning of Novus
habitus mentis: The Search for New Horizons, «The Jurist», 48 (1988), pp. 429-447. Si
veda anche D.E. Eintschel, A New Way of Thinking, «The Jurist», 44 (1984), pp. 41-47.
7
Si consulti il Thesaurus conciliorum oecumenicorum et generalium Ecclesiae catholicae,
Series A - Formae, Brepols, Turnhout 1996.
8
Il termine ricorre frequentemente per descrivere le relazioni fra il vescovo e i sacerdoti;
si dirà che i sacerdoti sono i «saggi collaboratori dell’ordine Episcopale»; che «il vescovo,
[…], consideri i sacerdoti, i suoi cooperatori, come figli…», LG 28; che i sacerdoti
sono «provvidenziali cooperatori dell’ordine episcopale», CD 28; e CD 27 li designa
per primi «tra i cooperatori del vescovo nel governo della diocesi». Lo stesso termine,
«cooperazione», definisce anche i legami tra i sacerdoti stessi e la partecipazione dei
laici all’apostolato dei pastori (LG 33).
9
Sottolineo le diverse occorrenze del termine: «Per questa comune partecipazione nel
medesimo sacerdozio e ministero, i vescovi considerino dunque i presbiteri come fratelli e
amici» (n. 7). Ciò contrasta con quanto si legge in Lumen Gentium 28 (testo precedente) che
dichiarava che i vescovi dovevano considerare i sacerdoti come «figli e amici» e considerarsi
come il loro Padre. Le stesse espressioni sono riprese all’articolo 16 di Christus Dominus.
Presbyterorum Ordinis va oltre: un emendamento introdotto all’epoca dell’ultima redazione
sostituì il termine «padre» con quello di «fratello» che non si trovava nelle versioni
precedenti, che ritessevano allora i legami con le relazioni fondamentali proposte dal Nuovo
Testamento, il che indica la maturazione delle idee all’interno stesso del processo conciliare.
Il n. 8 è saturo del linguaggio della fraternità: «Tutti i presbiteri, costituiti nell’ordine
del presbiterato mediante l’ordinazione, sono uniti tra di loro da un’intima fraternità
sacramentale»; «ciascuno è unito agli altri membri di questo presbiterio da particolari
vincoli di carità apostolica, di ministero e di fraternità»; «Per tali motivi, i più anziani devono
veramente trattare come fratelli i più giovani». «Animati da spirito fraterno, i presbiteri non
trascurino l’ospitalità»; vanno incoraggiate le «associazioni che […] fomentano – grazie
ad un modo di vita convenientemente ordinato e approvato e all’aiuto fraterno – la santità
dei sacerdoti nell’esercizio del loro ministero»; «E per quanto riguarda coloro che fossero
caduti in qualche mancanza, li trattino sempre con carità fraterna e comprensione, preghino
per loro incessantemente e si mostrino in ogni occasione veri fratelli e amici».
10
Con la nozione di assemblea per designare la Chiesa, quella di fratelli è una delle
«Come ad amici»

più presenti nel Nuovo Testamento per designare il rapporto tra i cristiani. Si veda At
1,15; 11,1; 12,17; 14,2; 21,17-18, ecc. Sulla designazione della Chiesa come fraternità,
si veda Michel Dujarier, L’Église-Fraternité 1. Les Origines de l’expression ‘adelphotes-
fraternitas’ aux trois première siècles du Christianisme, Cerf, Parigi 1991.
11
Si ritrova il termine in AA 27; UR 4,12 (collaborazione con gli altri cristiani e i fratelli
separati); AA 27, NA 2 (con i non cristiani).
12
«Se dunque alcune cose, sia nei costumi che nella disciplina ecclesiastica ed anche
nel modo di enunziare la dottrina – che bisogna distinguere con cura dal deposito
vero e proprio della fede – sono state osservate meno accuratamente, a seguito delle
circostanze, siano opportunamente rimesse nel giusto e debito ordine» (UR 6).

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13
«Curino pertanto tutti che nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio
non si insegni alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello Spirito di
Cristo» (NA 4).
14
Si veda il capitolo VIII sulla Vergine Maria: «Con lo studio della Sacra Scrittura,
dei santi Padri, dei dottori e delle liturgie della Chiesa, condotto sotto la guida del
magistero, illustrino rettamente gli uffici e i privilegi della beata Vergine, i quali sempre
sono orientati verso il Cristo, origine della verità totale, della santità e della pietà. Sia
nelle parole che nei fatti evitino diligentemente ogni cosa che possa indurre in errore i
fratelli separati o qualunque altra persona, circa la vera dottrina della Chiesa» (LG 67).
15
Sulla collaborazione tra cattolici e cristiani non cattolici, si veda UR 4 («Inoltre
quelle comunioni vengono a collaborare più largamente in qualsiasi dovere richiesto
da ogni coscienza cristiana per il bene comune») e 12, poiché tutto il numero è
dedicato alla collaborazione, in particolare nel campo sociale, con i fratelli separati:
«Tutti i cristiani professino davanti a tutti i popoli la fede in Dio uno e trino, […] e
con comune sforzo nella mutua stima rendano testimonianza della speranza nostra,
che non inganna. Siccome in questi tempi si stabilisce su vasta scala la cooperazione
nel campo sociale, tutti gli uomini sono chiamati a questa comune opera, ma a
maggior ragione quelli che credono in Dio e, in primissimo luogo, tutti i cristiani,
a causa del nome di Cristo di cui sono insigniti. La cooperazione di tutti i cristiani
esprime vivamente l’unione già esistente tra di loro, e pone in più piena luce il volto
di Cristo servo. Questa cooperazione, già attuata in non poche nazioni, va ogni
giorno più perfezionata – specialmente nelle nazioni dove è in atto una evoluzione
sociale o tecnica – sia facendo stimare rettamente la dignità della persona umana, sia
lavorando a promuovere il bene della pace, sia applicando socialmente il Vangelo, sia
facendo progredire con spirito cristiano le scienze e le arti, come pure usando rimedi
d’ogni genere per venire incontro alle miserie del nostro tempo, quali sono la fame
e le calamità, l’analfabetismo e l’indigenza, la mancanza di abitazioni e l’ineguale
distribuzione della ricchezza. Da questa cooperazione i credenti in Cristo possono
facilmente imparare come ci si possa meglio conoscere e maggiormente stimare gli
uni e gli altri, e come si appiani la via verso l’unità dei cristiani».
16
Si veda in particolare, nella seconda parte di Gaudium et Spes, il capitolo IV sulla vita
della comunità politica e il capitolo V sulla salvaguardia della pace e la costruzione della
comunità delle nazioni.
17
Si veda anche il n. 3.
18
Si vedano in particolare i numeri 1 e 3.
19
Cfr. Pio XII, Enciclica Sertum laetitiae, 1° novembre 1939, AAS 31 (1939), pp.
635-644; cfr. Id., allocuzione ai ‘laureati’ dell’Azione cattolica italiana, 24 maggio
1953.
Gilles Routhier

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