Sei sulla pagina 1di 9

Formazione teologica per chi?

settimananews.it/teologia/formazione-teologica-per-chi/

7 settembre 2023

di: Paolo M. Cattorini

Formuliamo in questo articolo alcune proposte per ripensare i cosiddetti corsi di teologia per
laici e, più in genere, per chiarire il ruolo che la ricerca e la didattica teologica possono
svolgere nel cammino sinodale della Chiesa.

Saremmo lieti se il presente scritto accendesse un dibattito serrato on line inducendo gli
attori interpellati a esprimere il loro eventuale disaccordo attraverso obiezioni puntuali e
dirette oppure suggerendo vie originali di superamento degli ostacoli di volta in volta
denunciati.

Adotteremo a tal fine un linguaggio comprensibile e una forma espositiva non gravata da
pesanti rimandi bibliografici. Il riferimento a esempi reali o ipotetici offrirà al lettore una forma
narrativa adatta – speriamo – per attuare un adeguato discernimento.

Diversificare i docenti: l’interdisciplinarità


La figura tipica del docente di teologia “per laici” in Italia corrisponde attualmente, per quanto
ci consta (ricordiamo che stiamo generalizzando) al titolare di insegnamento in un
Seminario, un Istituto di scienze religiose, un Ente pontificio o una Facoltà teologica. Con
sintetica ironia, i suoi tratti specifici, se si volesse istituire un parallelo con gli WASP del
potere USA (bianchi, anglo-sassoni protestanti), potrebbero dirsi i seguenti: bianco, maschio,
italofono, cattolico, prete, celibe. Data questa sua estrazione, il docente è solitamente
avvezzo a esporre le sue tesi a un uditorio già ideologicamente selezionato.

Si dà il caso, però, che le tematiche più rilevanti, da cui prendere spunto per l’aggiornamento
teologico, richiedano competenze diversificate (del pluralismo diremo tra un attimo).

Esemplare è in tal senso l’interdisciplinarità della bioetica: senza una conoscenza biomedica
aggiornata e addestrata in Istituti di ricovero e cura, senza una preparazione filosofica, senza
una finesse psicologica atta a cogliere la specificità umana di un caso clinico, la sola
conoscenza storica delle scuole di teologia morale e l’informazione sui pronunciamenti
magisteriali in merito non bastano, dato che la bioetica è la giustificazione razionale (ratio è
intesa qui nel senso allargato proprio della teologia) delle valutazioni morali in ambito
biomedico.

Altro esempio. Sono state respinte alcune proposte, formulate a presidi di Facoltà teologica,
di istituire corsi in teologia del cinema. Sono sorti in tutto il mondo dipartimenti in Film
Studies and Religion e almeno in Italia sono uscite alcune importanti pubblicazioni in

1/9
materia. Il film è assai apprezzato come “strumento” formativo in parrocchie, associazioni
culturali, convegni umanistici, persino nei seminari vescovili.

Ma tant’è, i presidi replicano che il curriculum studiorum è già troppo congesto per inserire
un’altra teologia-di. E poi mancherebbero docenti strutturati, che siano adeguatamente
competenti in una materia letteraria embricata come questa. La replica dei presidi non ci
convince, ma accusa giustamente il colpo: il cinema e il suo linguaggio vanno conosciuti, per
poterne fare una teologia, senza prendere abbagli, come già è capitato.

Noi restiamo comunque fermi sul punto. O la docenza si connota di caratteri interdisciplinari
(naturalistici, come nel caso della bioetica; umanistici, come nel caso del cinema), oppure il
discente laico riceverà un’introduzione teorica alquanto astratta rispetto alla sua vita
personale e spirituale.

Evitare l’autoreferenzialità istituzionale


Quando si tratta di indicare chi debba svolgere il ruolo di docente nei cosiddetti corsi “per
laici”, si dovrebbero evitare i rischi di attribuire pregiudizialmente tale ruolo solo a chi sia
semplicemente già titolare di insegnamenti teologici in altre scuole. Infatti, il “buon” teologo
non coincide con il professore di teologia in enti religiosi.

Così come è capitato che autorevoli scienziati di fisica nucleare fossero stati bocciati, da
studenti, in tale materia, così la storia della teologia (soprattutto di quella riformata) ha
riconosciuto il contributo provenuto da soggetti (laici e laiche, parroci, religiosi e religiose,
filosofi, uomini di cultura, artisti e artiste) privi di ufficiale abilitazione didattica e che, ciò
nonostante, grazie alle loro intuizioni, furono rapidamente invitati a tenere lezioni per
contratto nelle sedi ufficiali.

Le istituzioni, si sa, una volta costituite, sono lente, vischiose, refrattarie ai cambiamenti.
Eppure, sono proprio i cambiamenti che risultano interessanti per chi si iscrivere a corsi di
formazione “sul territorio” e non ha per obiettivo quello di fare carriera accademica in scuole
pontificie, ma di seminare nella vita quotidiana (familiare e professionale) i contenuti di verità
appresi nell’incontro con testimoni sensibili ai “segni dei tempi”. Perché lì si rivela l’evangelo
e lì si gioca la missione al mondo.

La riduttiva autoreferenzialità, di cui stiamo parlando, si manifesta anche nel modo in cui un
nuovo volume è accolto. Ferisce il fatto che un testo venga snobbato senza commenti
oppure che esso, pur riconosciuto carico di significativi apporti culturali, sia tout court
dichiarato non di teologia, senza precisare in dettaglio quale teologia sia privilegiata dal
recensore (liberale? dialettica? rahneriana? esistenziale? neo-scolastica?).

Il che rafforza il sospetto di autoreferenzialità: dato che le nuove “teologie-di” pretendono di


delineare una nuova cifra per parlare del Dio di Gesù Cristo, il conservatore non entra nel
merito della proposta, ma la denuncia semplicemente come extra-territoriale rispetto al modo

2/9
in cui la sua agenzia culturale tradizionale intende il lavoro teologico, promuovendo a docenti
solo coloro che militano in tale orientamento.

La teologia del cinema, per tornare all’esempio, è una forma di teologia narrativa in cui Dio (il
Dio di Gesù Cristo, narratore-narrato) è pensato come il “principio” del narrare-per-immagini,
cioè come la verità di senso che i racconti, anche non d’argomento religioso, desiderano
portare a rappresentazione. Dio si lascia narrare, anzi è interessato a venir narrato per
simboli e icone visive legate da una trama unitaria d’interesse umano. Perché questa non sia
teologia, lo deve dire e argomentare il critico recensore. Se non lo fa, si mette dalla parte del
torto, automaticamente.

Allargare i soggetti decisori e “personalizzare” la proposta


Chi decide perché, come e quando organizzare i corsi introduttivi alla teologia? I teologi,
ovviamente, verrebbe da rispondere considerando quel che accade. Ma ci si sbaglierebbe! Il
fruitore ecclesiale ha il diritto/dovere non solo di esprimere un parere e dare il consenso
finale in merito all’iniziativa, ma di ideare e contribuire a delineare un ciclo d’insegnamenti
teologici adatti alla propria comunità.

Penso in particolare al ruolo dei consigli pastorali ai loro diversi livelli, nei quali è
rappresentato il laicato, a cui i corsi vorrebbero indirizzarsi prevalentemente. Penso anche
alle redazione dei bollettini parrocchiali, luoghi delicati di riflessione e discussione
intraecclesiale.

Un esempio. Un insegnante in pensione apprende dagli avvisi parrocchiali che sono previste
serate e giornate “teologiche” che si snodano lungo alcuni anni. Essendo interessato alla
cosa, esprime al parroco la propria disponibilità a concorrervi con le sue competenze, se
ritenute utili.

Egli aveva infatti pubblicato alcuni scritti sulla nozione di Rivelazione in Jean-Luc Marion. Il
parroco prende atto ma risponde a malincuore – testualmente – di “non aver voce in
capitolo”, poiché della cosa si occupa un teologo accademico, molto “bravo”, residente in
Seminario. L’uso del gergo di diritto canonico (“in capitolo”) mostra già il vistoso
fraintendimento istituzionale: il pastore raccomanda la frequenza a lezioni programmate
altrove, quasi a scatola chiusa, prendere o lasciare.

Le conseguenze di non avere o di non voler aver voce “in capitolo” si fanno naturalmente
sentire a livello di forma e contenuti, risultandone corsi depersonalizzati, astorici e astratti
dalla vita di comunità. Una deriva illuministica affligge le buone intenzioni educative. Le
attese, i desideri, le frustrazioni, gli impasse, le speranze concrete legate alle vicende di una
determinata parrocchia o decanato vengono disattese o neglette.

Peggio ancora, le voci originali di una storia di fede non vengono neppure sollecitate a farsi
sentire. Il format (cito testualmente da una conversazione: ormai il linguaggio televisivo
spadroneggia) prefissato motu proprio dagli organi accademici con ampio anticipo temporale

3/9
ostacola la possibilità di cogliere le novità storico-culturali sopraggiunte nel frattempo, anche
quando esse siano teologicamente rilevanti (i primi casi di suicidio assistito in Italia, la guerra
in Ucraina, un’esortazione apostolica, un caso di enigmatica “bocciatura” di un teologo come
quella di Martin M. Lintner allo Studio teologico di Bressanone).

Altrettanto bizzarra e idealistica è la riproduzione del medesimo impianto formativo in


parrocchie e decanati così distanti geograficamente tra loro, così diversi per vicissitudini,
così difformi per composizione, censo, abitudini, etnie rappresentate, eccetera, da rendere
implausibile una ricaduta positiva e pertinente sul piano della vita ecclesiale.

I responsabili della pastorale non dovrebbero abdicare preventivamente e sistematicamente


dalla possibilità di delineare obiettivi e metodi di un corso di formazione, poiché senza una
loro preliminare istruzione delle questioni aperte, non si saprebbero come indicare le piste
specifiche di un successivo approfondimento teorico, che volesse rispondere in modo idoneo
alle domande provenienti dalle singole coscienze credenti e dalle comunità nel loro insieme.

Come si sa, Dio educa non tanto dalle cattedre scolastiche, quanto a partire dalla vita dei
singoli, dalla storia dei gruppi, dagli incontri/scontri tra/con credenti e non credenti. In effetti,
ciò che stupisce, soprattutto in materie calde e concrete, come quelle di etica sessuale, è il
silenzio dei pastori, stretti tra a) una malintesa obbedienza passiva alle indicazioni generali
del Magistero, b) un tacito uso del “buon senso” casistico e c) un’inspiegabile delega ai
teologi, i quali non riescono di fatto a dire molto di rilevante se le altre fonti vitali dello spirito
ecclesiale si chiudono, più o meno a malincuore, la bocca.

In realtà è nella vita quotidiana di chiese, oratori, gruppi che emergono i tratti fenomenologici
decisivi per descrivere il vissuto di chi, davanti a un dilemma decisionale, chiede che gli
vengano forniti gli strumenti e le condizioni di un approfondimento teologico. Il teologo “di
mestiere” impara dalle forme sorgive dell’esperienza di fede.

Ampliare l’uditorio

Suggeriremmo la sostituzione del termine corsi di formazione teologica per “laici” con quello
di corsi di “introduzione” alla teologia e auspichiamo il corrispondente ampliamento
dell’uditorio a tutti quanti, laici e non, vogliano giovarsene.

L’espressione “per laici” è infelice sia perché induce a pensare a corsi “di serie B” o riservati
a classi “problematiche” (un tempo si sarebbe detto “differenziali”) i cui obiettivi formativi
andrebbero (ahimè) ridimensionati, sia perché sono finiti i tempi in cui poteva essere
teorizzata sul piano ecclesiologico una separazione tra laici e chierici in funzione di una
subordinazione di uno dei poli all’altro invece che a un reciproco servizio.

“Di principio” non ci sono ragioni per cui lo stato di consacrazione speciale debba
rappresentare una condizione necessaria per raggiungere verità teologiche più alte e
profonde. “Di fatto” poi il livello della competenza teologica di sacerdoti e religiosi/e è a
macchie di leopardo, esattamente come quella dei laici nella Chiesa odierna.

4/9
Si va da esemplari figure di studiosi, in grado di dialogare anche in seno alle accademie
(filosofiche e teologiche), a situazioni di approssimazione conoscitiva, che sono alquanto
deludenti. Mi ricordo un’espressione del card. Tettamanzi, vescovo di Milano, che espresse
la sua irritazione per il carattere “bolso” (fiacco, noioso) di omelie mal preparate. I fedeli si
accorgono perfettamente quando un vetusto clericalismo paternalistico (tipo: ego ipse dixi)
prende il posto del dialogo argomentato, dell’esegesi accorta, del riferimento ad autorevoli
pensatori cristiani.

I sacerdoti e i/le religiosi/e dovrebbero riservarsi un tempo stabile e continuativo per


l’aggiornamento teologico in setting adeguati! Conosciamo lo stress di presbiteri schiacciati
da incombenze burocratiche e manageriali. La supervisione attenta e comunitaria della loro
iniziale formazione e dei loro primi passi nel ministero durano solo per pochi anni dopo
l’ordinazione, cosicché i singoli sacerdoti sono poi, per così dire, lasciati a sè nel decidere
che cosa e come studiare e in che modo affrontare sul piano psicologico e spirituale le alte
difficoltà relazionali e sociali cui essi sono esposti.

Conseguenze? Molti fedeli lamentano non solo la difficoltà materiale di reperire confessori
disponibili, ma soprattutto che le funzioni di management impediscano ai religiosi una
coltivazione costante della prima iniziazione morale, col rischio che i pastori si trasformano in
operatori freddi sul piano affettivo, che cercano di colmare i vuoti emotivi con qualche
mirabolante iniziativa edile o organizzativa, trattando i laici come il loro braccio operativo.

Non disponiamo di dati statistici adeguati per documentare quanto stiamo dicendo, ma
crediamo che, in via preventiva, potrebbe forse essere utile in certi casi instaurare un
sistema di formazione permanente, come accade per i medici (ECM è l’educazione continua
in Medicina), conferendo dei “crediti” per ogni evento formativo cui un soggetto, laico o
religioso, abbia partecipato superando un test finale.

Se qualcuno ha proposte migliori, lo ripetiamo, si faccia avanti e le formuli pubblicamente, in


modo da sanare l’insopportabile iato comunicativo esistente fra teologi e pastori, tra Facoltà
e Parrocchie, tra ricerca scientifica in ambito religioso e vita di fede individuale o associativa.

È possibile che i pastori sentano il bisogno e avvertano il desiderio di momenti regolari (tipo:
una giornata alla settimana) per una formazione permanente in teologia, scienze bibliche e
scienze umane. Analogamente, alcuni di loro apprezzerebbero la possibilità di fruire
annualmente di un breve ciclo di psicoterapia individuale a indirizzo psicoanalitico. Perché
non aiutarli?

Addestrare al pluralismo
La carenza di contraddittorio usura progressivamente le capacità argomentative. Un corso
introduttivo alla teologia potrebbe vantaggiosamente acuire il confronto prospettico, la
disamina dei pro e dei contro e l’innesco di un dibattito costruttivo tra posizioni diverse dentro
e fuori la Chiesa.

5/9
Un aneddoto. Ci è stato riferito che un apprezzato sacerdote sia stato pubblicamente
interrotto, durante l’omelia di una messa festiva (il vangelo era la pericope dell’adultera da
lapidare), da una parrocchiana interessata alla teologia “femminile”, che fece notare: “né lei
né l’evangelista fate menzione dell’uomo, adultero, che trasgredisce la legge. È una
presentazione tutta al maschile”. Tra il mormorio dei presenti, pare che il celebrante abbia
gentilmente risposto riconoscendo la verità della critica e invitato chi avesse dubbi a
incontrarlo in sedi più riservate, per non interrompere il rito.

Comunque la si pensi, questi episodi si diffonderanno, poiché il cittadino abituato a discutere


temi etico-politici in contesti pluralistici, non tollera la carenza di un dibattito paritario, uno
stile, del resto, che san Tommaso amava intensamente (sed contra, respondeo).

Una volta stavo anch’io per alzarmi durante la predica di un energico sacerdote che, senza
preparazione adeguata e improvvisando frasi a effetto con tono stentoreo, sosteneva tesi
pro-life estremistiche a proposito del caso Welby. Quello che penso in materia l’ho scritto nel
volume Estetica nell’etica, Bologna, EDB, 2010, parte seconda “Welby, l’etica e Dio”: aiutare
qualcuno nel morire (interrompendo trattamenti divenuti sproporzionati per eccesso) non
significa farlo morire, cioè causarne colpevolmente la morte.

Torniamo al racconto. Uscito sul sagrato, chiesi a uno sconosciuto, un gentile, magro signore
in giacca e cravatta, che cosa pensasse della predica. Mi guardò con tenerezza e allargò le
braccia sussurrando: “lui la pensa così”. Ci riflettei. Non raggiungerò mai una tale umiltà
nell’esprimere il dissenso.

La Chiesa non è abituata al contraddittorio e nemmeno lo è la teologia. Ci si aspetterebbe


che nei Seminari e nelle Facoltà teologiche (e anche nelle università d’ispirazione religiosa)
ci si allenasse sistematicamente (discenti e docenti) a una vera disputatio. Ma le cose non
vanno così, come se una sottile pavidità paralizzasse la dialettica del confronto pubblico,
aperto, trasparente. Mi è sempre piaciuta l’espressione che ho imparato da un amico teologo
morale: si deve rispetto (meglio, prossimità) alle persone, non alle loro idee, se queste ultime
sono (se si ritengono cioè) idee sbagliate: in questo caso “rispettarle” impone di contestarle,
esibirne le contraddizioni interne, proporre una prospettiva antinomica.

Osserviamo, invece, certe collane teologiche: a un articolo introduttivo (che apre un libro
collettivo) seguono contributi che reciprocamente si ignorano e in cui ciascun autore esibisce
il proprio punto di vista, glissando su ogni contestazione che si sarebbe potuta formulare o
ricevere tra colleghi.

Ci domandiamo, c’era bisogno di un convegno e di un libro, per collezionare articoli che


ciascun autore, solitariamente, avrebbe potuto inviare al curatore dal proprio studiolo? A loro
volta, alcuni editori cattolici sembrano presi dalla smania dell’unanimismo e si guardano

6/9
bene dal “lavare i panni sporchi in piazza” (come una volta mi suggerì un redattore). Forse si
lega a questa reticenza la modalità frequentemente silenziosa con cui un manoscritto viene
respinto dalla casa di pubblicazione: all’autore non si chiariscono le ragioni del rifiuto.

Il filosofo Alasdair MacIntyre pensava in tutt’altro modo all’accademia e pretendeva che essa
costituisse un luogo di dissenso forzato, di obbligata partecipazione al conflitto, di
educazione al confronto argomentato e, se occorre, al cimento tra linee di ricerca diverse, tra
scuole di pensiero rivali, anche se unite da un’unica fede. MacIntyre aggiungeva che si
doveva garantire, sul piano istituzionale, un’effettiva libertà di espressione anche a
minoranze di pensiero che rischiano di venire schiacciate dal main stream del pensiero
religioso.

Bizzarrie? No! MacIntyre non faceva che attualizzare l’università del XIII secolo, in cui
agostiniani e aristotelici portavano avanti, con fierezza di discussione, le rispettive linee di
ricerca (A. MacIntyre, Enciclopedia, genealogia, tradizione, Milano, Massimo, 1993, p. 322).

Un linguaggio comprensibile

Quella che pare un’avvertenza ovvia si scontra con l’evidenza solare che purtroppo anche
alcuni teologi di indiscusso peso accademico adottino un lessico gergale, esoterico,
incomprensibile ai più. Un laureato in filosofia con interessi religiosi capisce ben poco, anche
a una seconda lettura, di ciò che viene affermato.

Tali autori, ospitati con troppa facilità da importanti collane teologiche, senza che un lavoro
redazionale conferisca una forma giustificativa rigorosa e verificabile alle tesi sostenute in
volumi inutilmente ponderosi, si mostrano spesso, paradossalmente e fortunosamente,
arguti conferenzieri, come se l’oralità restituisse loro l’alito idoneo per emettere suoni non
cacofonici.

Questa dissociazione riflette bene la schizofrenia interna all’ecclèsia: un teologo che parla
solo a sé, un vescovo che tollera tale vezzo, i pastori che sussurrano riservatamente le loro
insoddisfazioni, il popolo di Dio che interrompe la lettura (di testi consigliati dall’alto) dopo i
primi vani sforzi.

Un corso di formazione teologica dovrebbe prendere distanza da questo tipo di sortite, che
non solo penalizzano la disciplina in sé, ma non svolgono il dovere di aiutare la comunità a
pensare la propria fede.

Prendiamo ancora il caso della bioetica. Ho sempre apprezzato l’atteggiamento di quei


teologi che mostrano di sentire rivolte a sé le domande casistiche più delicate e che cercano
di rispondervi con lealtà e coraggio. Sei contrario all’agevolazione del “suicidio”? Sempre?
Perché? Sei favorevole alla maternità sostitutiva “altruistica”. Sì, no, non so, raccontami la
vicenda: non ci sono altre chances.

7/9
Occorre, certo, ripensare nel frattempo il linguaggio argomentativo, ma non possiamo
attendere secoli futuri in cui si parlerà un’altra lingua teologica. Il caso è serio adesso! La
bioetica salvò la vita di una filosofia meta-linguistica esasperata e sta salvando quella di una
teologia che si arrampica senza successo sui vetri, evitando, per ragioni extra-scientifiche, di
prendere posizione. Sei favorevole a conservare i gameti di giovani coppie che hanno
un’intenzione procreativa ma di cui un partner dovrà subire un’invalidante chemioterapia?

Per quali motivi pensi che ci siano due sessi soltanto e come li identifichi e distingui?
Questioni simili andrebbero discusse in sedi scientifiche e formative anche quando
impattano con la politica: è giusto o ingiusto che un cattolico, la cui patria è invasa da un
ingiusto aggressore, che si è macchiato di crimini di guerra, reclami un presunto diritto
morale di non prendere le armi (per obiezione di coscienza), dicendosi contrario sempre e
comunque a ledere la vita altrui? E perché?

L’obiettivo di un’introduzione alla teologia per chierici, religiosi e laici (dato che tutti ne hanno
un bisogno impellente) non è quello di trasmettere un sapere, ma di aiutare la comunità
discente ad approfondire il suo punto di vista, esprimerlo e difenderlo nelle istituzioni
ecclesiali e in quelle civili, dovendo noi cristiani essere sempre pronti a rispondere e offrire le
ragioni della speranza che è in noi (1Pt 3,15).

Ad esempio, se un lettore trova in un ponderoso testo manualistico l’affermazione teologica


che la morte è condizione «costitutiva dell’uomo» e che quindi non è la «morte temporale»
quella che è «entrata nel mondo» per l’«invidia del diavolo» (affermazione diligentemente,
ma – secondo noi – erroneamente basata sui testi di Genesi e Sapienza), tale lettore, che
milita invece (supponiamo) in una prospettiva “immortalistica” ha il diritto di replicare (al suo
avversario “mortalista”) che Dio non ha creato la morte e ha fatto l’uomo a-mortale.

Ciò che col peccato è andato perduto è (tra l’altro) proprio l’impossibilità di cibarsi dell’albero
della vita, grazie al quale il progenitore riceveva forza di sussistenza. Il Catechismo della
Chiesa cattolica parla di una natura umana «indebolita» nelle sue forze e sottoposta alla
sofferenza e al «potere della morte», e non solo di una natura divenuta incline al peccato. Il
pensatore immortalista anti-dualistico rifiuta appunto di scindere i due aspetti: l’uomo perde a
causa del peccato sia la virtù dello spirito, sia la robustezza corporea.

Ciò che sarà escatologicamente redento (lo diciamo con qualche semplificazione) è l’intero
corpo vissuto, che “all’origine” spontaneamente godeva di una condizione sana e felice.
Lottare per combattere le patologie e per superare la tendenza usurante che ci fa
invecchiare e ci conduce alla morte, non è la folle presunzione di qualche peccaminoso
trans-umanesimo, ma parte del compito di “ri-creazione” che Dio ogni giorno consegna alle
mani dell’uomo.

8/9
Esponendo questa tesi in conferenze e seminari, è capitato che l’uditorio si dividesse. Niente
di più fecondo. Questa è appunto l’utilità di una teologia che aiuti a pensare la propria fede.
Qualcuno potrà offendersi se io definisco “dolorista” chi presume di dar senso a ogni
patimento (anche allo straziante dolore da cancro) considerandolo come una benefica
“prova” come furono i 40 anni passati dal popolo eletto nel deserto.

Io giudico fallimentare sul piano cristiano questo tipo di giustificazione del negativo. Il male è
assurdo. Punto. Va combattuto. I teologi e i fratelli nella fede, che mi contestano, hanno
perfettamente il diritto di contestarmi, ma non quello di ironizzare, insultare o bypassare il
problema con qualche formula criptica, umiliante o beffarda di auto-rassicurazione clericale.

Concludiamo: teologia per teologi


La teologia fa bene a tutti, se fatta bene, anzitutto ai teologi. Dunque a tutti, teologi compresi,
andrebbero rivolti corsi di aggiornamento teologico condotti, come abbiamo auspicato, con
spirito interdisciplinare, laico, pluralistico. Della teologia infatti non si può fare a meno, poiché
chi cerca di prescinderne – anche se è un vescovo santo, un prevosto attivista,
un’integerrima badessa, un laico oblativo – fa una cattiva teologia.

Il sacerdote che registra in video on line il proprio commento al lezionario festivo, dovrebbe
rendersi conto che, per quanto egli si prepari su testi esegetici autorevoli, il suo modo di
interpretare e di esporre risente di una precomprensione teorica, di una cifra teologica
magari inconsapevole, che influenza la performance mediatica.

Purtroppo, capita talora che biblisti dotti sul piano storico-critico siano pericolosamente
deboli su quello filosofico; così come sfortunatamente viene a volte promosso un ideale di
“discernimento” (altra parola inflazionata) che si basa su un grande impegno empatico,
invece che analizzare i presupposti teologici (le nozioni di giustizia cristiana, le immagini di
speranza evangelica, il tipo di fede del Dio di Gesù Cristo) delle forme e dei contenuti
dell’ascolto, della comprensione, dell’interpretazione di storie di discepolato.

Di conseguenza, viene purtroppo raccomandato un paradigma di sequela cristiana operosa


ma superficiale, incapace di rispondere alle domande dell’uomo d’oggi e carica di nostalgia
per un tempo antico (in realtà mai esistito) in cui il cristianesimo pareva governare in modo
univoco e trionfale la vita di popoli e individui.

9/9

Potrebbero piacerti anche