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ATENEO PONTIFICIO REGINA APOSTOLORUM

Facoltà di Filosofia

Homo religiosus
Complementarietà dell'approccio esistenziale (Giussani)
e storico-antropologico (Ries)

Professore: Carmelo Pandolfi


Studente: Bernardo Ghielmi, LC
Numero di matricola: 012957
FILE 1001 Elaboratum per il primo ciclo
Roma, 6 aprile 2019
2

I) INTRODUZIONE

Plutarco (46-127 d.C.) fece questa interessante affermazione:


Se tu andassi in giro per il mondo, potresti trovare città prive di mura, che ignorano
la scrittura, non hanno re, non fanno uso di monete, non conoscono teatri e palestre;
ma nessuno vide né vedrà mai una città senza templi e senza divinità (Contro
Colote, 31)1.

Se lo studioso greco facesse oggi un giro per le strade di una moderna


metropoli occidentale potrebbe forse ricredersi e cambiare di opinione. La nostra
società post-moderna del XXI secolo sembra aver messo da parte la questione
religiosa, accantonandola tra i relitti del passato senza nessun valore nel mondo
digitale e consumista. Al contempo, proprio mentre si dichiara la morte di Dio e il
disinteresse verso l’Assoluto, assistiamo anche ad un diffondersi di vaghe
spiritualità intimiste e sentimentali, completamente slegate dalla razionalità. Nelle
poche sacche di società ancora tradizionalmente cristiane (e l’Italia, nel panorama
occidentale, è nel complesso una di queste sacche), l’essere credenti in Dio viene
spesso associato al difendere una determinata etica o scala di valori. La religione,
quindi, sia per chi crede sia per chi non crede, sembra consistere principalmente in
determinati comportamenti morali.

Di fronte a questo panorama così anomalo e attraversato da tendenze


contradditorie, mi sembra urgente recuperare una corretta visione del fenomeno
religioso. È vero che l’uomo è naturalmente aperto verso Dio? Cosa è il senso
religioso? Spesso chi opera in ambito pastorale si rende conto che, nei confronti di
tali basilari domande, regna una grande confusione che impedisce alle persone di
recepire correttamente il discorso su Dio. All’interno della mia formazione in
preparazione al ministero sacerdotale, mi è sembrato quindi opportuno porre bene
le fondamenta, partendo dalle basi. Il Catechismo della Chiesa Cattolica si apre con
la osservazione che
Nel corso della loro storia, e fino ai giorni nostri, gli uomini in molteplici modi
hanno espresso la loro ricerca di Dio attraverso le loro credenze ed i loro
comportamenti religiosi (preghiere, sacrifici, culti, meditazioni, ecc). Malgrado le

1
Guida pratica allo studio delle religioni, Passerino Editore 2016, 49.
3

ambiguità che possono presentare, tali forme d'espressione sono così universali che
l'uomo può essere definito un essere religioso2.

Alla base di tutto l’edificio della fede, il Catechismo pone l’affermazione


dell’uomo come essere religioso. Se l’uomo non fosse religioso, infatti, non si
potrebbe parlare neanche di una Rivelazione. Questo lavoro, dunque, nasce da un
interesse personale per chiarire i termini di tale affermazione del Catechismo e
verificarne la portata e la validità per l’uomo di oggi. Ha ancora senso parlare di
homo religiosus quando si tratta dell’uomo post-moderno?

Nella mia ricerca ho preso in considerazione due autori che propongono


cammini diversi ma integrabili e, tra loro, profondamente complementari. Si
analizzerà innanzitutto la proposta di don Luigi Giussani, sacerdote milanese
fondatore del movimento di Comunione e Liberazione, a partire da uno dei suoi
libri più importanti, Il senso religioso. In secondo luogo verrà presentato un
riassunto dei capisaldi del pensiero di Julien Ries, sacerdote belga, considerato il
padre della antropologia religiosa, autore di una ingente quantità di studi
sull’argomento. Dall’integrazione dei due differenti approcci risulta, a mio parere,
una grande forza argomentativa.

2
Catechismo della Chiesa cattolica, Piemme, Roma 1993, 28.
4

II) LUIGI GIUSSANI


1. Ragioni di un percorso: riallacciarsi all’uomo

Il senso religioso è il volume iniziale del PerCorso, una raccolta di libri


nella quale don Luigi Giussani (1922-2005) riassume il suo pensiero e la sua lunga
esperienza di educatore. Per inquadrare correttamente la proposta di Giussani e per
comprendere il suo metodo “fenomenologico-esistenziale”, è necessario ricordare
la particolare traiettoria di vita del sacerdote milanese. L’impianto generale della
sua opera, infatti, è fortemente legato al momento culturale italiano in cui si trovò
a vivere e operare. Don Giussani iniziò il suo ministero sacerdotale nell’Italia degli
anni ’50, ancora in apparenza profondamente cattolica. Egli, però, con grande
anticipo e lucidità si rese conto che l’adesione alle verità del cristianesimo era,
soprattutto da parte dei giovani, puramente formale e senza nessuna incidenza nella
vita. Giussani avvertì che la fede correva il rischio di trasformarsi in un qualcosa di
“non più realmente interessante per l’uomo, non più incidente sulla realtà” e che,
perciò, la fede “sarebbe stata subordinata ai valori della mentalità dominante della
società” 3 . È lo stesso autore che racconta l’episodio che lo spinse a lasciare il
“Paradiso” della docenza di Teologia in Seminario per dedicarsi a tempo pieno al
“Purgatorio” dell’insegnamento nei licei, per poter stare a contatto con i ragazzi:

Una volta viaggiando verso Rimini mi capitò di trovarmi con un gruppo di studenti
liceali e mi intrattenni con loro in una discussione. Mi sorprese subito la loro enorme,
cosmica e spaventosa ignoranza. Trovai altri quattro o cinque studenti liceali andando
una seconda volta verso Ancona e, avendo portato appositamente il discorso sugli
argomenti del primo incontro, dovetti concludere con una identica notazione (…). Dissi
allora in cuor mio: bisogna che al Paradiso della Teologia venga premesso il Purgatorio
del lavoro in questa vita. Sentii ciò veramente come un dovere. Come si poteva
rimanere fermi a contemplare l’essere e l’essenza, cose stupendamente belle quando la
gente fosse tranquilla, se i miei fratelli cristiani continuavano a restare nell’ignoranza
e nell’indifferenza?4
Il PerCorso (composto dalla trilogia Il senso religioso, All'origine della pretesa
cristiana e Perché la Chiesa) nacque proprio in quegli anni come testo di supporto
per le lezioni nel liceo Berchet di Milano ed, in seguito, venne rielaborato per
l’insegnamento di Introduzione alla Teologia all’Università Cattolica. Il titolo del

3
L. GIUSSANI, Il senso religioso. Volume primo del PerCorso, BUR, Milano 2003,
Prefazione di J. F. Stafford, VI.
4
A. SAVORANA, Vita di don Giussani, Rizzoli, Milano 2013, 146.
5

primo volume, Il senso religioso, si riallaccia al titolo della lettera pastorale per la
Quaresima nel 1957 dell’allora card. Montini. Il futuro Papa spiegava che il senso
religioso

è l’inclinazione dell’uomo verso il suo principio e verso il suo ultimo destino;


l’avvertenza indistinta, balenata intuitivamente alla sua coscienza, del proprio
essere dipendente e responsabile; il pronunciamento informe e naturale dell’anima
circa il proprio arcano rapporto verso l’Essere supremo; il nativo gesto della natura
umana in atteggiamento di adorazione e di supplica; l’esigenza dello spirito verso
un Infinito personale, come dell’occhio verso la luce, del fiore verso il sole5.

Questa lettera divenne uno spunto di riflessione basilare per Giussani che,
nello stesso anno, pubblicò la prima versione del suo omonimo libro. In una società
che, in preda al boom economico del dopo-guerra, si avviava ad una rapida
secolarizzazione, i pastori e gli educatori si univano nello sforzo di riallacciare il
discorso religioso al cuore dell’uomo. Giussani propose ai ragazzi che lo seguivano
(ed al lettore d’oggi) un approccio riflessivo, a partire dalla propria esperienza
umana, indirizzato a scoprire nella propria interiorità le grandi domande sul senso
della vita. Giussani identifica il senso religioso con le grandi domande che hanno
sempre abitato nel cuore dell’uomo, a cui il fatto cristiano si propone come risposta.
Citando il teologo protestante Niebuhr, lo stesso Giussani spiega: “non esiste niente
di più incomprensibile della risposta a una domanda che non si pone”6. Se l’uomo
non è cosciente della propria domanda, ogni risposta che si offrirà darà la nausea:
il Cristianesimo si può trasformare facilmente in un moralismo o in un vago
sentimento destinato a scomparire. Come ha detto il card. Bergoglio, presentando
proprio il libro di Giussani,

Per un uomo che abbia dimenticato o censurato i suoi “perché” fondamentali e


l’anelito del suo cuore, il fatto di parlargli di Dio risulta un discorso astratto,
esoterico o una spinta a una devozione senza nessuna incidenza sulla vita. Non si
può iniziare un discorso su Dio, se prima non vengono soffiate via le ceneri che
soffocano la brace ardente dei “perché” fondamentali. Il primo passo è creare il

5
«Sul senso religioso», Chiesa di Milano, in
https://www.chiesadimilano.it/cms/documenti-del-vescovo/g-b-montini/gbm-lettere-
pastorali/sul-senso-religioso-13536.html [26-4-2019].
6
Cfr. R. Niebuhr, Il destino e la storia. Antologia degli scritti, BUR, Milano 1999, p. 66
6

senso di tali domande che sono nascoste, sotterrate, forse sofferenti, ma che
esistono7.

Tali domande sono comuni a tutti gli uomini, di tutte le epoche e di tutte le
latitudini, e sono state espresse in maniera più limpida dai poeti e dagli artisti,
uomini che hanno ricevuto il particolare dono di rendere in maniera chiara e bella
ciò che è più autenticamente umano. Giussani nel corso del suo lavoro di insegnante
e di educatore si appoggerà sempre alla esperienza dei grandi della letteratura, ai
filosofi, ai musicisti, agli artisti, visti come modelli di umanità vibrante.

L’approccio di Giussani resta validissimo e contemporaneo per l’uomo di oggi.


Ci troviamo infatti non di fronte ad una crisi di Dio, ma ad una vera e propria crisi
antropologica, ove l’uomo ha smarrito sé stesso, la sua identità e la sua vera statura.

Oso dire che oggi la questione che dobbiamo maggiormente affrontare non è tanto il
problema di Dio, l’esistenza di Dio, la conoscenza di Dio, ma il problema dell’uomo,
la conoscenza dell’uomo e il trovare nell’uomo stesso l’impronta che Dio vi ha lasciato
per incontrarsi con lui8.

2. Natura del senso religioso


Cosa si intende per “senso religioso”? A che livello dell’umano si colloca
l’esperienza religiosa? Giussani propone di rispondere a tali domande a partire da
una riflessione su di sé, per non correre il rischio di assumere un’ideologia di un
determinato filosofo senza prima vagliarla. L’esperienza religiosa è appunto
esperienza del soggetto, non è qualcosa che si possa imparare dai manuali. La
riflessione deve prendere in considerazione l’io-in-azione, ovvero il soggetto
mentre vive in pienezza la propria vita. L’uomo scoprirà in sé un nucleo di domande
forti e di esigenze ineludibili, legate al significato globale della vita. “Il fattore
religioso rappresenta la natura del nostro io in quanto si esprime in certe domande:
«Qual è il significato ultimo dell'esistenza?», «Perché c'è il dolore, la morte, perché
in fondo vale la pena vivere?» 9 ”. Giussani parte, per descrivere il tema delle

7
«Quando Bergoglio presentò «Il senso religioso» di Giussani.», 2013, Tempi, in
https://www.tempi.it/quando-bergoglio-presento-il-senso-religioso-di-giussani-lunica-
risposta-e-lincontro/ [26-4-2019].
8
Ibid.
9
L. GIUSSANI, Il senso religioso. Volume primo del PerCorso, 59.
7

domande ultime, da una poesia a lui carissima, Il canto notturno di un pastore


errante dell’Asia di G. Leopardi (che è, insieme a Shakespeare, l’autore più citato
nel testo).

E quando miro in cielo arder le stelle;


Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?10
Queste domande costituiscono la stoffa di cui è fatto l’uomo, e proprio per
questo lo definiscono: l’uomo è queste domande.

Un semplice sguardo alla storia antica, d'altronde, mostra con chiarezza come in
diverse parti della terra, segnate da culture differenti, sorgano nello stesso tempo le
domande di fondo che caratterizzano il percorso dell'esistenza umana: chi sono? da
dove vengo e dove vado? perché la presenza del male? cosa ci sarà dopo questa
vita? Questi interrogativi sono presenti negli scritti sacri di Israele, ma compaiono
anche nei Veda non meno che negli Avesta; li troviamo negli scritti di Confucio e Lao-
Tze come pure nella predicazione dei Tirthankara e di Buddha; sono ancora essi ad
affiorare nei poemi di Omero e nelle tragedie di Euripide e Sofocle come pure nei
trattati filosofici di Platone e Aristotele. Sono domande che hanno la loro comune
scaturigine nella richiesta di senso che da sempre urge nel cuore dell'uomo11.

Tali interrogativi, profondamente umani, hanno una particolarità: esigono una


risposta che sia totale, definitiva. Ciò che li accomuna è l’uso di aggettivi e avverbi
come “ultimo”, “in fondo”, “veramente”: quale è il senso ultimo della vita? Per che
cosa vale veramente la pena vivere, studiare, lavorare, amare? Già Socrate aveva
notato, nella sua Apologia, che la vita intera dell’uomo consiste nella ricerca e nel
tentativo di dare risposta a tali domande, dal momento che “una vita senza ricerca
non è degna di essere vissuta”12.

La condizione umana, però, si presenta come estremamente problematica, dal


momento che l’uomo è abitato da un desiderio infinito e la realtà si presenta sempre
come finita. Nulla può bastare al cuore umano, nulla può saziarlo fino in fondo!
L'uomo scopre una “sproporzione strutturale” alla risposta totale alle sue domande
più vere. Tanto più ci si avvicina alla risposta, tanto più l'orizzonte,

10
G. LEOPARDI, Cara beltà..., BUR, Milano 2011, 68–69.
11
GIOVANNI PAOLO II, Fides et ratio, Piemme 1998, 1.
12
PLATONE, Apologia di Socrate, Bompiani, Milano 2000, 18A.
8

il quid significato ultimo dell'esistenza, pare allontanarsi: è la noia di cui parla


Leopardi.

Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, della terra intera;
considerare l'ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei
mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell'animo proprio;
immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l'universo infinito, e sentire che l'animo e
il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare
le cose d'insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vòto, e però noia, pare a me
il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana13.

L’uomo è, dunque, una creatura paradossale. Su questa verità d’esperienza


Blaise Pascal ha costruito la sua raccolta di Pensieri: “Conosci, dunque, superbo,
quel paradosso che sei tu stesso” 14 . L’ uomo è una “canna-pensante”, un “Re-
decaduto”, “né angelo né bestia”, “cerca la felicità eppure incontra solo miseria e
morte”, “desidera la verità ma non trova che incertezza”. L’oggetto che l’uomo
ricerca è un infinito inarrivabile. In vari modi l’uomo pensa di identificare tale
infinito con cose alla sua portata, come ad esempio faceva il positivismo
dell’Ottocento con il mito del progresso scientifico ma, fa notare acutamente
Giussani, se all’epoca di Leopardi forse ci si poteva illudere in tale senso, oggi

l'uomo «erra come tuono di giogo in giogo» con i suoi jets, e «novera le stelle ad una
ad una», coi suoi satelliti. Ma si può dire che nel frattempo l'uomo sia diventato un
briciolo solo più felice? No, certamente. Si tratta di qualcosa che è per natura sua «al
di là» d'ogni movenza umana15.

L’esistenza umana è, dunque, definita da questa condizione che ha trovato


espressione nella tensione artistica di ogni tempo e, in maniera particolare, nell’arte
romantica. Il romanticismo assume come concetto chiave della propria estetica il
concetto di Sehnsucht, reso in italiano per lo più con il termine “struggimento”, che
indica un desiderio interiore fortissimo verso un qualcosa che si sa di non poter
raggiungere ma che, ciò nonostante, si continua a desiderare (si pensi, per esempio,
ai quadri di Friedrich o alla musica di Beethoven o di Brahms).

13
G. LEOPARDI, Poesie e prose, Mondadori, Milano 1992, 321.
14
B. PASCAL, Pensieri, Rusconi Libri, Milano 2014, 104.
15
L. GIUSSANI, Il senso religioso. Volume primo del PerCorso, 65.
9

Questo struggimento, questa tristezza costituiva dell’esistenza (intesa,


seguendo la definizione di San Tommaso, come “desiderio di un bene assente”16),
non è però un sentimento che rinchiude in se stessi, bensì è l’occasione per l’uomo
per aprirsi alla trascendenza, ad un Oltre misterioso. L’uomo, infatti, trascorre la
sua vita in attesa, come aspettando il compimento di una promessa ricevuta:
“strutturalmente l'uomo attende; strutturalmente è mendicante: strutturalmente la
vita è promessa”17. Commentando il racconto “Piscina feriale” di Cesare Pavese, in
cui si tematizza proprio l’attesa, D’Avenia fa notare che

Nessuno ci ha promesso niente eppure siamo sempre lì ad aspettare qualcosa che ci


salvi; e per quanto le cose belle di questo mondo possano riempire per un po’ il nostro
orizzonte visivo e il nostro cuore, poi inevitabilmente, la vita ci delude. Ed è bene che
ci deluda, e ci delude perché ciò che abbiamo raggiunto non è ciò che attendevamo,
anche se ci eravamo illusi fosse così18.

L’esperienza della tristezza (o malinconia) dunque confina con l’Assoluto,


come scrive Guardini:

Le cose sono finite. Tutto ciò che è finito, è difettoso. E il difetto costituisce una
delusione per il cuore, che anela all'assoluto. La delusione si allarga, diviene il
sentimento di un gran vuoto… Non c'è nulla, per cui valga la pena di esistere. Non c'è
nulla, che sia degno che noi ce ne occupiamo. (…) La malinconia è espressione del
fatto che noi siamo creature limitate, ma viviamo a porta a porta con… ebbene sì,
abbandoniamo alla fine il termine troppo prudenziale e astratto, di cui ci siamo serviti
sinora: il termine di “assoluto”; scriviamo, al suo posto, quello che solo si addice:
viviamo a porta a porta con Dio. Siamo chiamati da Dio, eletti ad accoglierlo nella
nostra esistenza. La malinconia è il prezzo della nascita dell'eterno nell'uomo” 19 .

L’ipotesi di un Assoluto, di un quid infinito che sazi l’attesa del senso religioso
dell’uomo corrisponde alla struttura originaria dell’uomo. Il senso religioso è una
domanda di totalità costitutiva della nostra ragione: la ragione infatti cerca il senso
ultimo per il solo fatto di esserci. Chiunque vive afferma, implicitamente o
esplicitamente, un quid ultimo per cui valga la pena vivere: è il meccanismo

16
Cfr SAN TOMMASO, In Dionysii de divinis nominibus, 4, 9; Summa Theologiae, I, q. 20,
art. 1.
17
L. GIUSSANI, Il senso religioso. Volume primo del PerCorso, 71.
18
A. D’AVENIA, «Il Sabato Santo. Solitudine e attesa», 2011, in
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/editoriale-davenia-solitudine-
attesa_201104230625142530000 [26-4-2019].
19
R. GUARDINI, Ritratto della malinconia, Morcelliana, Brescia 1993, 47.
10

inevitabile della ragione umana. Se vivo è perché ho qualcosa per cui vale la pena
vivere: la ragazza, i soldi, la politica, il fare del bene, l’essere amato...

Come l'occhio spalancandosi scopre forme e colori, così la ragione per ciò stesso che
si mette in moto afferma un «ultimo», una realtà ultima di cui tutto consiste; un destino
ultimo, senso di tutto. Perciò a quelle domande costitutive noi diamo risposta:
coscientemente ed esplicitamente; o praticamente e incoscientemente20.

Solo l'ipotesi dell'esistenza di Dio, del mistero, come una realtà che eccede la
nostra capacità di comprensione e che tuttavia colma il cuore con la sua assenza, è
la risposta alle domande del cuore e al senso religioso. Il filosofo francese F.
Hadjadj ha mostrato come in realtà l’ateismo sia un’opzione molto difficile per
l’uomo, al limite dell’impossibile, dato che la ragione è costituita per affermare un
senso ultimo.

Essere atei richiede di non divinizzare nulla, e soprattutto di non divinizzare l'ateismo.
Perché se faccio dell'ateismo una sorta di nuova religione, sono in contraddizione. Non
devo divinizzare il mio ateismo, non devo nemmeno divinizzare il mio giudizio, non
devo divinizzare me stesso, né il denaro, né il piacere, né la letteratura... se sono ateo
per davvero, devo accettare di non disporre dell'ultima parola, di non avere l'ultima
parola. (…) Se io affermo drasticamente: “Ecco, la questione è chiusa, è risolta”, allora
c'è qualcosa di falso nel mio ateismo. Dire: “Io non ho l'ultima parola”, non significa
soltanto: “non abbiamo che parole penultime”. Perché se dici: “non esistono che parole
penultime, non c'è parola ultima”, in quel momento la tua parola penultima diventa la
parola ultima. Perciò bisogna dire: “Io non ho l'ultima parola, ma ci dev'essere una
parola ultima, riconosco che c'è una parola ultima”. L'ateismo, quando è sincero, vuol
distruggere tutti gli idoli, ma una volta distrutti tutti gli idoli, deve distruggere l'idolo
dell'ateismo, e in quel momento deve accettare, deve confessare una certa disponibilità,
una certa apertura al mistero. In fondo, si potrebbe dire che l'ateismo, quando è in
buona fede, non può giungere al suo compimento senza accogliere la trascendenza del
mistero. Qualcosa non prodotto da noi, ma che viene a noi21.

3. Stupore e mistero

Uno dei capitoli più importanti de Il senso religioso, che Giussani definiva
“il capitolo sul mio segreto educativo”, è il capitolo decimo. Giussani presenta,
tramite l’analisi della reazione dell’uomo di fronte alla realtà, come nascano in noi
le domande ultime. È un percorso allo stesso tempo esistenziale e storico, in quanto

20
L. GIUSSANI, Il senso religioso. Volume primo del PerCorso, 76.
21
La domanda di Dio oggi, Libreria Edictrice Vaticana, Città del Vaticano 2012, 171.
11

si può riscontrare nelle tappe del risveglio della coscienza religiosa dell’uomo
primitivo. Giussani propone una specie di esperimento mentale:

Supponete di nascere, di uscire dal ventre di vostra madre all'età che avete in questo
momento, nel senso di sviluppo e di coscienza così come vi è possibile averli
adesso. Quale sarebbe il primo, l'assolutamente primo sentimento, cioè il primo
fattore della reazione di fronte al reale? Se io spalancassi per la prima volta gli
occhi in questo istante uscendo dal seno di mia madre, io sarei dominato dalla
meraviglia e dallo stupore delle cose come di una «presenza»22.

Lo stupore, la meraviglia di fronte alla realtà, alla presenza delle cose,


invaderebbe tutto il nostro io. Giussani identifica in questo momento la nascita della
religiosità: l’essere, infatti, è dato, è indipendente da me, non l’ho fatto io. La realtà,
inoltre, è κόσμος, ovvero è ordinata, armonica, bella e, per questo, attrattiva.
Platone aveva immaginato che la parola “bello” (καλός) derivasse dal verbo
“chiamare” (καλέω). Si tratta, quasi sicuramente, di una falsa etimologia, ma
l'intuizione che ne è alla base è vera: chi di fronte ad un cielo stellato non sente il
potente richiamo attrattivo della bellezza?

La realtà cosmica, inoltre, è provvidenziale, ovvero si muove secondo un


disegno che può essermi favorevole: i ritmi delle stagioni, l’alternarsi del giorno e
della notte, le piogge e il calore sono parte di un procedere ordinato che può giovare
all’uomo. Tutte le religioni primitive sono legate a questa provvidenzialità inscritta
nella natura: i riti si svolgono per propiziare la fecondità della terra, l’arrivo delle
piogge, la fecondità della donna.

Ma l’incontro con il reale comporta un passaggio ulteriore, ovvero la


scoperta che io stesso non mi faccio da me, io sono dato a me stesso. Io ho ricevuto
me stesso: al principio della mia esistenza Qualcuno ha dato me a me stesso. Questa
è l’intuizione più grande che l’uomo abbia mai avuto. Io sono “Tu-che-mi-fai”, ove
questo “Tu-che-mi-fai”, dal quale provengo, è ciò che da sempre è chiamato Dio,
ovvero il Mistero. La stessa cosa esprimeva Romano Guardini:

Al principio della mia esistenza - intendendo il «principio» non solo in senso


temporale, bensì anche essenziale, quale radice e ragione di essa - non sta una
decisione d'essere presa da me stesso (…). Al principio della mia esistenza sta

22
L. GIUSSANI, Il senso religioso. Volume primo del PerCorso, 140.
12

un'iniziativa, un Qualcuno, che ha dato me a me stesso. In ogni caso sono stato dato,
e dato come quest'individuo determinato. Non semplicemente come uomo, ma
come questo uomo: appartenente a questo popolo, a questo tempo, di questo tipo e
con queste attitudini. Fino a quelle ultime determinazioni, che semplicemente
esistono una volta soltanto e cioè in me; a quella peculiarità ultima che fa sì che in
tutto quanto faccio io riconosca me stesso, e la quale s'esprime nel mio nome23.

L’uomo, inoltre, si rende conto che nel profondo del suo cuore abita una
voce che indica ciò che è bene e ciò che è male e che muove all’azione, ovvero una
voce che ha connotazione morale. Giussani sembra parafrasare ciò che scriveva il
beato J.H. Newman, uno dei suoi autori preferiti:

la coscienza non è confinata in sé stessa ma, in modo vago, è protesa verso qualcosa
che la sorpassa e discerne confusamente una sanzione alle sue decisioni che emana
da una fonte più alta (…). Per questo usiamo parlare della coscienza come d’una
voce (…). Una voce, aggiungerò io, o l’eco d’una voce, imperiosa e tassativa come
non lo è alcun altro imperio della nostra esperienza24.

Nell’uomo è inestirpabile la legge morale, la “legge scritta nei cuori” (Rm


2, 15), gli ἄγραπτα νόμιμα della quale parlano le grandi tragedie greche di Sofocle,
come per esempio l’Antigone25.

Le domande ultime, dunque, si risvegliano e si destano “vivendo


intensamente il reale”, ovvero prendendo sul serio la vita in tutti i suoi aspetti. Le
grandi domande non sorgeranno da una riflessione filosofica astratta o da una
ricerca condotta dall’immobilità, le grandi domande non nascono dal dubbio
cartesiano che tutto questiona. Le grandi domande iniziano dallo stupore che
l’uomo prova nell’incontro con il reale. Scrive Aristotele che:

gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della
meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più̀
semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre
maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole
e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi
prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo
che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è
costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicché́ , se gli uomini
hanno filosofato per liberarsi dell’ignoranza, è evidente che ricercarono il
conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità̀ pratica26.

23
R. GUARDINI, Accettare se stessi, Morcelliana, Brescia 1992, 28.
24
J. H. N. NEWMAN, Grammatica dell’assenso, Jaca Book, Milano 2005, 118.
25
cf. SOFOCLE, Antigone, Einaudi, Torino 2007 vv. 453-457.
26
ARISTOTELE, Metafisica, Bompiani, Milano 2000, A 2, 982 b 11-21.
13

Le grandi domande, ovvero il senso religioso dell’uomo, non nascono


dunque dalla paura ma dallo stupore. Si sbagliava dunque Feuerbach nel sostenere
che l’uomo ha creato la religione a causa della paura della morte: la paura non è il
sentimento originario dell’uomo di fronte alla realtà, ma arriva in un secondo
momento a causa del pericolo di perdere la realtà. La religiosità sorge dallo stupore
per il mondo, che è cosmos.

Innanzitutto è l'attaccamento all'essere, alla vita, è lo stupore di fronte all'evidenza:


come possibilità posteriore, si teme che quella evidenza scompaia, che quell'essere
non sia tuo, che l'attrattiva non sia adempiuta. Tu non hai paura che vengano meno
cose che non ti interessano, hai paura che vengano meno cose che prima ti devono
interessare27.

Lo stupore provoca nell’uomo il sorgere delle domande ultime: “Cosa è


questo? Perché esiste l’essere e non il nulla?”. Queste domande “vanno oltre”: la
realtà, dunque, è ana-logia, ossia una parola che rinvia più in alto. Giussani, a questo
punto, analizza il concetto di “segno”: esso è costituito da un’esperienza reale che
rimanda ad altro ed è il modo normale dei rapporti umani. Il bacio è un segno
d’amore, un regalo è un segno d’affetto, il pianto è segno di tristezza, il sorriso è
segno di contentezza. La realtà tutta nella sua interezza ed in ogni suo particolare è
segno che rimanda ad altro. S. Agostino nelle sue Confessioni racconta:

Interrogai sul mio Dio la mole dell'universo, e mi rispose: “Non sono io, ma è lui che
mi fece”. Interrogai la terra, e mi rispose: “Non sono io”; la medesima confessione
fecero tutte le cose che si trovano in essa. Interrogai il mare, i suoi abissi e i rettili con
anime vive; e mi risposero: “Non siamo noi il tuo Dio; cerca sopra di noi”. Interrogai
i soffi dell'aria, e tutto il mondo aereo con i suoi abitanti mi rispose: “Erra Anassimene,
io non sono Dio”. Interrogai il cielo, il sole, la luna, le stelle: “Neppure noi siamo il
Dio che cerchi”, rispondono. E dissi a tutti gli esseri che circondano le porte del mio
corpo: “Parlatemi del mio Dio; se non lo siete voi, ditemi qualcosa di lui”; ed essi
esclamarono a gran voce: “È lui che ci fece”28.

L’uomo stesso è anch’egli un segno, a causa del carattere esigenziale della sua
natura. L’uomo, infatti, si presenta come un complesso di esigenze, che definiscono
ciò che Giussani chiama “esperienza elementare”, e che la tradizione biblica
denomina “cuore”. Il cuore dell’uomo è esigenza di verità, di giustizia, di felicità e
di amore, ma tali esigenze rimandano ad altro, sono segno di qualcosa di oltre.
Giussani fa l’esempio di un bimbo piccolo a cui capitasse di fare naufragio su di

27
L. GIUSSANI, Il senso religioso. Volume primo del PerCorso, 157.
28
AGOSTINO, Le confessioni, Mondadori 2016, X, 6, 9.
14

un’isola deserta. All’età della pubertà sentirebbe risvegliarsi nel suo corpo delle
pulsioni, l’esigenza di un qualcosa che non conosce e che, tuttavia, deve esistere:
“C’è qualcosa nell’universo che corrisponde a questa esigenza e non so cosa è”.
Tramite l’esigenza di una donna, il ragazzino avvertirebbe sé stesso come segno di
qualcosa d’altro, qualcosa di sconosciuto e che però è conosciuto come oggetto
terminale dell’esigenza. L’io si presenta come rimando a Dio, ad un Tu che mi
compie e che tuttavia non conosco e che sembra sempre essere “oltre”. La morte
sembra erigersi come una barriera, il “no definito” alla possibilità di raggiungere
risposta, la negazione assoluta a raggiungere la risposta. Tuttavia il fatto di non
poterla raggiungere non comporta che tale risposta non esista.

L’uomo ha bisogno di una risposta totale che comprenda e salvi tutto l’orizzonte del
suo “io” e della sua esistenza. Dentro di sé egli possiede un anelito di infinito, una
tristezza infinita, una nostalgia – il nostos algos di Odisco – che si appaga solo con
una risposta ugualmente infinita. Il cuore dell’uomo risulta essere segno di un Mistero,
cioè di qualcosa o di qualcuno che sia una risposta infinita. Al di fuori del Mistero le
esigenze di felicità, di amore, di giustizia non incontrano mai una risposta che soddisfi
fino al fondo il cuore dell’uomo. La vita sarebbe un desiderio assurdo, se questa
risposta non esistesse29.
L’atteggiamento più ragionevole per l’uomo sarà dunque affermare che oltre
l’orizzonte della nostra vita c’è una risposta esauriente di cui la realtà e l’io stesso
sono segno ineludibile. Il vertice della ragione è dunque l’affermazione del mistero:
c’è una risposta, ma non so cosa è. Saint Exupery scrisse giustamente che “il mistero
non è un muro, ma un orizzonte. Il mistero non è una mortificazione
dell’intelligenza, ma uno spazio immenso, che Dio offre alla nostra sete di verità”.
Come recita la Divina Commedia: “Ciascun confusamente un bene apprende / nel
qual si quieti l'animo, e disira; / per che di giunger lui ciascun contende”30. Essere
fedeli alla ragione è ammettere l’esistenza di un incomprensibile, di un infinito, di
un immenso che nel momento stesso in cui lo presentiamo ci sfugge: tale Mistero
viene chiamato Dio.

È innegabile: c’è un ignoto (…). Tutti lo sentono. Tutti l’hanno sempre sentito. In tutti
i tempi gli uomini l’hanno così sentito che l’hanno anche immaginato. In tutti i tempi
gli uomini hanno cercato, attraverso le loro elucubrazioni o le loro fantasie, di
immaginare, di fissare il volto di questo ignoto. Tacito, nella Germania, descriveva

29
«Quando Bergoglio presentò «Il senso religioso» di Giussani».
30
D. ALIGHIERI, La Divina Commedia. Purgatorio, Mondadori, Milano 2016, XVII, vv.
127–129.
15

così il sentimento religioso che qualificava gli antichi teutoni: «Secretum illud quod
sola reverentia vident, hoc deum appellant» (quella cosa misteriosa che essi intuivano
in timore e tremore, questo chiamavano Dio, questo chiamano Dio). Tutti gli uomini
di tutti i tempi, qualunque sia l’immagine che se ne sono fatta, hoc deum appellant,
chiamano Dio questo ignoto31.

4. Libertà, educazione, comunità

Tale processo di risveglio delle domande ultime non avviene però nella
maniera così limpida che è stata appena descritta. L’uomo, infatti, non agisce in
maniera deterministica ed automatica e, seppur la ragione sia come un occhio che
“vede” le cose, con la sua libertà egli può sempre negare di vedere o interpretare in
maniera erronea ciò che ha visto. Ogni segno, infatti, richiede una interpretazione.
Così la realtà, come segno del Mistero, richiede una corretta interpretazione che
non è un problema di più o meno scienza ed erudizione, ma di opzione profonda
nei confronti del reale. Riprova di ciò è che uomini di eguale scienza (scienziati,
filosofi, letterati…) giungono, in materia di religione, a conclusioni diametralmente
opposte: se il loro ateismo o la loro credenza fosse determinata solo dal loro sapere,
tale discordanza rimarrebbe senza spiegazione. Questa differenza si spiega tramite
l’uso della libertà, che consiste nella maniera di porsi di fronte al reale. Infatti uno
può approcciarsi alle cose in maniera aperta, spalancata, oppure può guardare il
mondo sulla difensiva, pieno di pregiudizi.

La ragione non è, come pensavano i razionalisti e gli illuministi, una facoltà


isolata o separabile dalla persona, ma costituisce un’unità profonda con tutto
l’essere umano. Riprova ne è il fatto che se ho mal di testa farò fatica a scrivere
questa tesina, ovvero sarò impedito o fortemente condizionato nel mio esercizio
razionale. La ragione è soprattutto legata al sentimento che si definisce come la
reazione che una cosa provoca in noi in base al valore che vediamo in essa. Una
cartaccia non ha nessun valore per me e non mi provoca nessun sentimento. Ma
nelle questioni che toccano direttamente il significato della vita, come l’amore, la
politica, l’esistenza di Dio, il sentimento è fortissimo e funziona come una lente di
ingrandimento sul problema. Tanto più una cosa mi interessa, tanto più la mia

31
L. GIUSSANI, Il tempo e il tempio. Dio e l’uomo, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, Milano
1995, 41.
16

conoscenza sarà aiutata. Il problema è che tale sentimento può essere “non a fuoco”,
ovvero può essere quello sbagliato. Giussani fa l’esempio dei docenti della Sorbona
che negarono le scoperte di Pasteur:

Gli ultimi a riconoscere la validità scientifica degli esperimenti di Pasteur sono stati i
docenti della Sorbona che facevano parte della Accademia delle Scienze a Parigi. Per
questi professori ammettere quello che sosteneva Pasteur significava il giorno dopo
salire in cattedra e riconoscere di dover cambiare molto. Ne andava di mezzo orgoglio,
fama, denaro. Il problema della funzione dei microbi, che è un problema obiettivo,
scientifico, era per loro un problema vitale. Che cosa avrebbero dovuto fare quei
professori per essere abilitati a percepire il valore di quelle esperienze inconfutabili
anche per profani? Sarebbe occorsa in loro una lealtà, una dignità morale, una passione
per l'obiettivo vero, che non potevano inventarsi da un giorno all'altro, non fosse stato
il termine di una lunga educazione, appunto, morale32.

Si capisce dunque che il cuore del problema conoscitivo non è avere o no


un particolare acume ma è una questione di moralità, ovvero l’assunzione di un
atteggiamento adeguato, ragionevole nei confronti della realtà. È dunque necessaria
una ascesi, un lavoro su sé stessi per arrivare alla “moralità del conoscere”, ovvero
per essere pronti ad amare la verità dell’oggetto più di quanto si sia attaccati alle
opinioni che ci siamo già fatti su di esso.

La libertà dell’uomo va, quindi, educata e Giussani decise di dedicare tutta


la sua vita di sacerdote al compito dell’educazione. Egli definiva l’educazione come
“introduzione alla realtà nella totalità dei suoi fattori”33, riuscendo ad andare oltre
ai pregiudizi sulle cose. L’atteggiamento di un uomo veramente libero è dunque
l’umiltà, la domanda, la curiosità di chi non ha posizioni preconcette da difendere,
che nulla ha a che vedere con il dubbio di stampo cartesiano. Questa posizione di
curiosità nei confronti del reale è, secondo Giussani, la “povertà di spirito” del
Vangelo. “La povertà di spirito suprema è quella di fronte alla verità, è quella che
desidera la verità e basta, al di là di tutto l'attaccamento che vive, prova, sente ed
esperimenta alle immagini che già si è fatte sulle cose”34.

Ma perché è così difficile ammettere l’esistenza del Mistero? Perché l’uomo


tentenna tanto nel giocare la sua libertà nell’interpretazione corretta del segno della
realtà? Giussani spiega questa titubanza dell’uomo tramite l’esperienza del rischio.

32
L. GIUSSANI, Il senso religioso. Volume primo del PerCorso, 39.
33
Cf. L. GIUSSANI, Il rischio educativo, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, Milano 2016.
34
L. GIUSSANI, Il senso religioso. Volume primo del PerCorso, 43.
17

Il rischio è una spaccatura tra la ragione e la volontà: la ragione vede le ragioni, ma


la volontà non riesce ad aderirvi. È come se le ragioni rimanessero astratte, estranee
e la volontà non riuscisse ad affermarle. Quanto più le cose interessano la vita ed il
suo significato, tanto più avvertiamo la paura di affermarle. Giussani fa un esempio
autobiografico della sua infanzia, durante una gita in montagna:

Davanti c’era la guida, poi venivo io, poi due uomini. Avevamo superato la metà
del cammino; a un determinato momento vidi la guida fare un piccolo salto. Io che
stavo a tre o quattro metri di distanza, brandendo la corda con mano nervosa, mi
sento dire dalla guida: “Forza! Salta!”. Mi trovo al limitare di una cengia e a un
metro circa cominciava un’altra cengia, e sotto vi era un profondo burrone. Io mi
sono voltato di scatto, mi sono abbracciato a uno spuntone di roccia e tre uomini
non mi hanno smosso. E ricordo le voci che mi ripetevano: “Non aver paura, ci
siamo noi!” e io dicevo a me stesso: “Sei stupido, ti portano loro”; e lo dicevo a me
stesso, ma non riuscivo a staccarmi dal mio improvvisato sostegno. (…) Non fu
l’assenza di ragioni a bloccarmi; ma le ragioni erano come scritte nell’aria, non mi
toccavano. È analogo a quando le persone dicono: “Lei ha ragione, ma io non sono
persuaso”. È uno iato, un abisso, un vuoto tra l’intuizione del vero, dell’essere, data
dalla ragione, e la volontà: una dissociazione tra la ragione, percezione dell’essere,
e la volontà che è affettività, cioè energia di adesione35.
Superare questo abisso tra la volontà e la ragione sarebbe possibile solo con
una volontà così ferrea da risultare quasi introvabile. “Il vero dramma del rapporto
fra l'uomo e Dio, attraverso il segno del cosmo, attraverso il segno dell'esperienza,
non sta nella fragilità delle ragioni”, perché tutto il mondo è un segno, “ma sta nella
volontà che deve aderire a questa immensa evidenza”36. La natura ha, però, fornito
l’uomo di un metodo per affrontare il rischio: il metodo comunitario. Così il bimbo
riesce ad attraversare la stanza buia, vincendo la sua paura, quando la mamma gli
prende la mano. Per questa ragione trovarsi in una comunità dove l’atteggiamento
verso la realtà è positivo, aperto, pieno di stupore, aiuta l’uomo a superare
l’esperienza del rischio.

L’unico metodo adeguato per arrivare ad una vera conoscenza è vivere e convivere,
una compagnia vivace che, attraverso esperienze multiple e molteplici segni,
permette di arrivare a quello che Giussani chiama «la certezza morale» o, ancor più
bello, «la certezza esistenziale». (…) La fede è, precisamente, una applicazione
particolare del metodo della certezza morale o esistenziale, un caso particolare di
fiducia nell’altro, nei segni, negli indizi, nelle convergenze, nella testimonianza di
altri. Nonostante ciò, la fede non è contraria alla ragione. Come tutti gli atti

35
Ibid., 180.
36
Ibid., 183.
18

tipicamente umani, la fede è ragionevole, cosa che non implica che possa ridursi a
un mero raziocinio37.
L’alternativa è cadere in atteggiamenti irragionevoli, non adeguati alla
ragione dell’uomo, che consistono nello svuotamento delle domande o nella
riduzione delle stesse. Tali atteggiamenti nascono da una erronea postura nei
confronti della vita e portano all’irragionevolezza, ovvero a non prendere in
considerazione tutti i fattori della realtà. Giussani elenca sei posture possibili: la
negazione teoretica delle domande (che sono definite “senza senso”), la sostituzione
volontaristica, la negazione pratica (“non pensarci!”), il sentimentalismo estetico,
la negazione disperata, e l'eliminazione dell'“io” nell’alienazione ideologica.

Interessante la posizione di coloro che non si arrovellano in complicate


negazioni teoriche, ma si limitano a vivere in maniera tale che esse non vengano
mai a galla. Pascal chiamava questa maniera di vivere il divertissement, il
“divertirsi”, nell’accezione etimologica di “distogliere lo sguardo da ciò che non si
vuole guardare”. “Gli uomini non avendo potuto liberarsi dalla morte, dalla miseria,
dall’ignoranza, hanno deciso per essere felici, di non pensarci”38. “L’uomo vuole
essere felice e non vuole che essere felice e non può non volerlo; ma come potrà
riuscirvi? Bisognerebbe per riuscire che egli si rendesse immortale; ma non
potendolo, ha deciso di astenersi dal pensarci”39. Ma l’efficacia del divertimento è
precaria e transitoria, dato che esso è solamente un rifugio contro la disperazione,
che ha come esito finale una vita vuota e sprecata, vissuta nell’attimo. “Non
pensarci”, “buttati nell’alcol e nella droga”, “non importano le grandi domande”,
“tu pensa a stare bene qui!”: sono tutte sirene che la cultura dominante suona nelle
orecchie dell’uomo contemporaneo. Ma tali atteggiamenti non sono ragionevoli,
perché appunto dimenticano, tralasciano un aspetto del reale: il fatto che l’uomo sia
costituito da tali domande.

37
«Quando Bergoglio presentò «Il senso religioso» di Giussani».
38
B. PASCAL, Pensieri, 35.
39
Ibid., 37.
19

5. Idolo e Rivelazione

La posizione ragionevole risulta per l’uomo vertiginosa e difficile da


mantenere. La ragione, infatti, che intravede il mistero, vuole comprenderlo
nonostante esso ecceda i suoi limiti naturali. È l’esperienza dell’Ulisse dantesco che
varca le colonne d’Ercole alla ricerca del senso ultimo della vita. L’unica maniera
di rimanere aperti al Mistero sarebbe quella di obbedire alle circostanze,
all’occasione. L’uomo, però, fatica ad essere sospeso ad una volontà che non
conosce e che gli si rivela in modo misterioso istante per istante. Egli vorrebbe
comprendere, capire, definire. È qui che l’uomo pecca, per amore proprio,
provocando una caduta della ragione. La ragione da occhio sul reale diventa misura
del reale e definisce il mistero: “il mistero è questo.”. Così facendo l’uomo esalta
un aspetto della realtà, quello a lui più comprensibile e lo prende come totalità,
rinnegando il resto della realtà. È questo il peccato originale dell’uomo, il voler
essere come Dio, essere “misura” delle cose. Nasce così l’idolo, qualcosa che
sembra Dio eppure non lo è. Le ideologie del secolo scorso, con l’esaltazione
divinizzante della razza o della classe sociale, ben esemplificano questa caduta
dell’uomo. Sembra, dunque, che l’uomo sia costretto in un vicolo cieco:

Il mondo è un segno. La realtà richiama a un'Altra. La ragione, per essere fedele alla
natura sua e di tale richiamo, è costretta ad ammettere l'esistenza di qualcosa d'altro
che sottende tutto, e che lo spiega. Ma se, per natura, l'uomo intuisce l'Oltre, per una
condizione esistenziale, non ci sta, cade. (…) La realtà è segno e desta il senso
religioso. Ma è un suggerimento male interpretato; esistenzialmente l'uomo è spinto a
interpretarlo male: male, cioè prematuramente, impazientemente. L'intuizione del
rapporto col mistero si corrompe in presunzione40.

Per tale ragione l’uomo avverte che è necessario che qualcuno venga a liberarlo
da questa prigionia per insegnargli la corretta strada verso il Mistero. È ciò che
esprime Platone nel suo Fedone:

Pare a me, o Socrate, e forse anche a te, che la verità sicura in queste cose nella vita
presente non si possa raggiungere in alcun modo, o per lo meno con grandissime
difficoltà. (…) Perché in queste cose, una delle due: o venire a capo di conoscere come
stanno; o, se a questo non si riesce, appigliarsi al migliore e al più sicuro tra gli
argomenti umani e con questo, come sopra una barca, tentare la traversata del pelago.
A meno che non si possa con maggiore agio e minore pericolo fare il passaggio con
qualche più solido trasporto, con l'aiuto cioè della rivelata parola di un dio41.

40
L. GIUSSANI, Il senso religioso. Volume primo del PerCorso, 195–196.
41
PLATONE, Fedone, Rusconi Libri, Santarcangelo di Romagna 2008, XXXV.
20

L’ultimo passo ragionevole del senso religioso, connaturale all’uomo, è


l’apertura piena di anelito ad una Rivelazione che salvi dagli idoli. L’uomo
ragionevole è aperto ed è positivamente alla ricerca delle tracce del Mistero. Il fatto

che Dio, in qualche modo, entri nella storia dell'uomo come un fattore interno alla
storia, non come una ultima sponda al di là delle apparenze che l'uomo deve trapassare,
ma una presenza dentro la storia, che parla come parla un amico, un padre, una madre,
questa è la rivelazione cui aspirava il Fedone di Platone. Questa è l'ipotesi eccezionale,
questa è la rivelazione in senso stretto: lo svelarsi del mistero attraverso un fattore
della storia42.

Ma è possibile che Dio entri nella storia e parli all’uomo come ad un amico? È
conveniente? Giussani, seguendo San Tommaso, risponde di sì: è possibile, perché
Dio è onnipotente e negarlo sarebbe idolatria, ed è conveniente. Il libro de Il senso
religioso termina con due condizioni per una possibile Rivelazione, quasi fornendo
un punto di aggancio per riprendere il discorso nel libro successivo All’origine della
pretesa cristiana. La Rivelazione, se c’è stata o se ci sarà, dovrà essere
comprensibile all’uomo e non dovrà ridurre il Mistero, ma approfondirlo. La
posizione veramente umana è quella sintetizzata da Kafka nella citazione con cui
Giussani chiude il suo libro: “Anche se la salvezza non viene, voglio però esserne
degno a ogni momento”43.

42
L. GIUSSANI, Il senso religioso. Volume primo del PerCorso, 202.
43
La frase è di Franz Kafka, ed è riportata in G. JANOUCH, Colloqui con Kafka, Aldo
Martello Editore, Milano 1964, 79.
21

III) JULIEN RIES

1. Ragioni di una ricerca: homo religiosus

Il sacerdote di origini belga Julien Ries (1920-2013), creato cardinale da


Papa Benedetto XVI nel 2012, è considerato uno dei più grandi studiosi delle
religioni del XX secolo ed è il fondatore di una nuova disciplina scientifica,
l’antropologia religiosa, alla quale ha dedicato la quasi totalità dei suoi vastissimi
studi. Tutte le sue ricerche sono state rivolte all'universalità del fenomeno religioso,
nello spazio e nel tempo, mostrando così che l’uomo, fin dalle sue origini, è un
essere religioso. Sulla scia degli studi di R. Otto e di Mircea Eliade, egli definisce
l’esperienza religiosa come “esperienza del sacro”, del Numinoso, mysterium
tremendum et fascinans. L’esperienza religiosa è perciò irriducibile ad altri
fenomeni, contrariamente a quanto sostenuto dai vari riduzionismi degli ultimi
secoli di Kant, Hegel, Feuerbach, Marx, Freud, Jung…

Il concetto centrale dell’opera di Ries è quello di homo religiosus, l’uomo


che vive l’esperienza del sacro, in quanto la dimensione religiosa è una componente
fondante e ineliminabile di ogni essere umano.

Nella storia dell’umanità l’homo religiosus assume una modalità specifica di


esistenza, che si esprime in diverse forme religiose e culturali. Lo si riconosce dal
suo stile di vita: crede all’esistenza di una realtà assoluta che trascende questo
mondo e vive delle esperienze che, attraverso il sacro, lo mettono in relazione con
questa Trascendenza. Rileviamo che egli crede all’origine sacra della vita e al senso
dell’esistenza umana come partecipazione a un’Alterità. È anche un homo
symbolicus, che coglie il linguaggio delle ierofanie, attraverso le quali il mondo gli
rivela delle modalità che non sono evidenti di per se stesse44.

L’uomo è homo naturaliter religiosus, ovvero per natura è aperto al sacro:


se questo è vero, le diverse maniere di vivere i rapporti con il sacro che la preistoria
e la storia ci documentano costituiscono un patrimonio di fondamentale importanza.
Pur identificando una certa comunanza nei vari aspetti dell’esperienza religiosa,
Ries sottolinea maggiormente che ogni esperienza religiosa è sempre legata alla
cultura e alla storia dell’uomo che la vive. Per tale motivo il suo approccio non è
sincronico, ma è piuttosto storico-culturale, adottando il metodo fenomenologico.

44
J. RIES, «Centomila anni di fede nell’aldilà», 2015, in
https://www.avvenire.it/agora/pagine/centomila-anni-do-fede-aldila [26-4-2019].
22

Normalmente la religiosità dell’uomo è argomentata con ragioni teologiche o


filosofiche mentre Ries si dedica a ricercarne il suo fondamento nell’analisi dei
documenti della religiosità umana che ci hanno lasciato la preistoria e la storia. Tale
approccio non è meramente accademico, ma ha una finalità didattica per l’uomo
contemporaneo. Conoscere tale patrimonio serve all’uomo per vivere più
consapevolmente la propria religiosità. Anche in una società secolarizzata, infatti,
solamente vivendo consapevolmente e pienamente il suo rapporto con il sacro,
l’uomo può trovare la sua realizzazione. Per penetrare fino in fondo il senso dei
fenomeni religiosi occorre, però, una fondamentale fiducia nella capacità del sacro
di esprimere, attraverso i simboli, qualcosa di autentico e di reale: un presupposto
difficilmente condivisibile se si parte da una posizione di negazione programmatica
della realtà del sacro, cioè, da un ateismo di base.

Nel corso della sua ricerca Ries identifica la manifestazione della religiosità
nella capacità di produrre simboli che fanno da mediatori con una realtà
Trascendente e che si esprimono principalmente attraverso i manufatti, le sepolture
e le pitture. Oltre al Simbolo Ries evidenzia altre due costanti stabili della
esperienza religiosa, il Mito ed il Rito.

2. La percezione del sacro nel corso della storia

I recenti scavi archeologici e, in particolare, le scoperte del 1959 nella Rift


Valley in Etiopia hanno permesso di datare a circa 2 milioni di anni fa i primi resti
di specie molto simili agli esseri umani. Tale epoca si denomina paleolitico ed è a
sua volta suddivisa in tre periodi: inferiore, medio e superiore. Gli archeologi
ritrovarono dei ciottoli levigati, che costituiscono il primo segno di una incipiente
cultura. Il loro artefice, denominato Homo habilis, è un bipede che si differenzia
radicalmente dagli australopitechi: egli, infatti, è capace di progettare, realizzare ed
usare degli strumenti, come per esempio le pietre e le ossa. L’Homo habilis è,
dunque, creatore ed ha coscienza di esserlo: ciò ci fa supporre che sia in questo
momento che vada situato il “risveglio” del pensiero ed anche il primo utilizzo di
un linguaggio arcaico.
23

Il successore dell’Homo habilis è l’Homo erectus, presente in Africa a


partire da 1.700.000 anni fa. La grande scoperta merito dell’Homo erectus è il fuoco,
che provocò grandi cambi sociali. L’Homo erectus, inoltre, è chiaramente un homo
symbolicus dato che le pietre da lui intagliate mostrano una vera e propria ricerca
di simmetria ed un gusto estetico per la scelta dei colori. Grazie a questa coscienza
creativa “la sua immaginazione, influenzata dallo spettacolo della volta celeste, del
movimento del sole, della luna e degli astri, impressionata dalle montagne,
dall’acqua e dagli alberi, gli fa vivere una prima esperienza del sacro”45.

Da dove inizia, dunque, la coscienza religiosa dell’uomo? J. Ries non ha


dubbi nell’indicare nella volta celeste ciò che ha fatto entrare in gioco la capacità
simbolica dell’uomo, facendogli sperimentare il sacro. L’uomo ammira
l’immensità del cielo, il sole, la luna, le stelle e si trova così alla presenza del
mistero dell’Infinito. Egli si percepisce come piccolo, finito e, nella volta celeste,
scopre un simbolismo primordiale riferito alla Trascendenza, alla Forza, alla
Sacralità.

L'Homo erectus si è trovato di fronte alla prima ierofania, rivelata alla sua
coscienza attraverso il simbolismo della volta celeste. Non abbiamo qui forse la
chiave di un fatto quasi universale nella storia del pensiero dei popoli, la fede in un
Essere divino celeste, creatore dell'Universo e garante della fecondità della Terra?46

L’Homo erectus è diventato insensibilmente Homo sapiens circa 200.000


anni fa, che si è suddiviso in due sottospecie, l’Homo sapiens neanderthalensis
(scomparso per cause non ancora chiarite 40.000 anni fa) e l’Homo sapiens sapiens.
L’Homo sapiens si contraddistingue per i grandi progressi culturali nella
fabbricazione degli utensili, sviluppando notevolmente la lavorazione della pietra e
inventando l’arco per cacciare. Con la coscienza riflessa arriva anche l’angoscia di
fronte alla morte, che diventa occasione di un’esperienza religiosa comunitaria
tramite i riti funebri. Le prime tombe scoperte a Skhul e a Kafzeh in Palestina,
datano al 90.000 a.C.. Con la comparsa dell’Homo sapiens si assiste ad una vera e
propria esplosione di ritrovamenti di tombe e sepolture, che evidenziano una forte
religiosità. La presenza di riti funebri, infatti, è suggerita dall’analisi delle modalità

45
J. RIES, Alla ricerca di Dio. La via dell’antropologia religiosa., Jaca Book, Milano
2009, XXII.
46
Ibid., 61.
24

di sepoltura dei defunti, i cui crani sono spesso spaccati alla base, forse per il fatto
che la testa era considerata il luogo dove risiedeva l’anima. Il corpo del defunto è
spesso protetto da lastre e disposto secondo un preciso orientamento: a volte è
rivolto a Oriente, forse a significare che l’anima del defunto si dirige verso il sorgere
del Sole di una nuova vita, altre volte è posizionato in forma embrionale, simbolo
della nascita alla nuova vita. Il bisogno degli ornamenti funebri diventa man mano
sempre più forte: offerte di tipo alimentare, forse per aiutare il defunto nel viaggio
verso l’altro mondo, trofei di animali, vari tipi di utensili e suppellettili varie, come
conchiglie, denti, gioielli e statuette. In particolare, ci sono molti casi di
ritrovamenti di conchiglie incastonate negli occhi dei defunti, forse per conferire al
morto la capacità di vedere nell’altra vita. In molte tombe si ritrova, inoltre, l’uso
del colore ocra rosso, la cui lavorazione richiede un processo particolarmente
complesso: questo colore è forse usato per il suo rimando al colore del sangue,
simbolo della vita. Tutti questi elementi mostrano una credenza molto radicata, in
varie zone geografiche, da parte dell’Homo sapiens in una vita che va al di là della
morte.

A questo periodo del paleolitico risalgono anche le prime testimonianze


dell’arte delle caverne che risulta essere segno di una spiccata coscienza religiosa
dell’Homo sapiens.

L'apogeo di quest'arte va da 18.000 anni fa a 10.000 anni fa ed è rappresentato da


150 grotte decorate, considerate come santuari, talvolta chiamate «cattedrali della
preistoria». Le più belle sono Lascaux, Rouffignac, Niaux in Francia, Altamira,
Monte Castillo, Ekain, Santimamine in Spagna. Gli studi fatti da Breuil a Laming-
Emperaire e da Leroi- Gourhan evidenziano un tentativo di concettualizzazione, un
cercare di strutturare un pensiero comune, segni di un alto livello culturale e
simbolico47.

I soggetti prevalentemente raffigurati nelle pitture rupestri sono i grandi


animali selvaggi, come il bisonte e il mammut. Gli studiosi che hanno svolto
approfondite ricerche affermano che le grotte sono dei veri e propri santuari rupestri,
ove il posizionamento delle figure raffigurate sulle pareti non è casuale ma segue
una propria legge interna.

47
Ibid., 245.
25

Ci troviamo in un mondo impregnato di spiritualità. Si può parlare di religione delle


caverne e di cattedrali della preistoria, luoghi sacri di raduno di comunità umane,
luoghi di pellegrinaggi, luoghi di iniziazione48.
I dipinti delle caverne sono rappresentazioni mitiche-simboliche, spesso
legate a temi come la fecondità, la procreazione o la difesa dalle minacce per la vita
dell’uomo. Per esempio, nelle famosissime grotte di Lascaux, è forse raffigurato il
mito di una caccia primordiale a scopo propiziatorio. Essi costituiscono una
testimonianza di esperienza del sacro: l’uomo si percepisce debole e cerca l’aiuto
di forze trascendenti evocate dai simboli. I dipinti, dunque, non hanno solo un
valore estetico o di abbellimento ma sono dei veri e propri mitogrammi, ovvero i
precursori dei miti cosmogonici.

Un chiaro esempio di quest’arte simbolica è la grotta di Rouffignac in


Dordogna (Francia), e i misteriosi duecento metri quadrati del “Soffitto dei
serpenti”, dove sono raffigurati grovigli di serpenti associati alle figure dei mammut.
Dato che il serpente non è un animale da cacciagione, la sua presenza nell’arte
rupestre deve avere un significato simbolico più recondito. Cl. Barriere 49 ha
mostrato che solo i serpenti vanno verso il fondo della caverna, simbolo
dell’oscurità, mentre tutti gli altri animali si dirigono verso la luce, simbolo della
vita. Il serpente è così preso come simbolo del male, della morte e si oppone alla
vita, simbolizzata dai mammut.
L'uomo delle grotte del Paleolitico è già un Sapiens sapiens, un uomo moderno.
Nelle profondità, egli ha cercato il luogo del silenzio, del mistero e dell'incontro
con la Trascendenza. Ancora incapace di costruire dei santuari, egli li ha realizzati
nelle viscere della terra. La sua esperienza religiosa è al tempo stesso memoria
delle origini e presenza del mistero. Dei soffitti delle caverne egli fa delle
riproduzioni della volta celeste50.

L’introduzione dell’agricoltura, intorno al 10.000 a.C., segna il passaggio


dal paleolitico al neolitico. L’uomo aveva vissuto, fino a quel momento, una vita
prevalentemente nomade, basata sulla caccia e la raccolta ma, con la “rivoluzione
neolitica” e l’inizio del processo di sedentarizzazione, costruisce i primi villaggi,

48
Ibid., 64.
49
CL. BARRIERE, Le thème du serpent à Rouffignac, in E. ANATI (a cura di),
Prehistoric Art and Religion. Valcamonica Symposium '79, Centro Camuno et Jaca Book,
Milano 1983, pp. 323-330.
50
J. RIES, Alla ricerca di Dio. La via dell’antropologia religiosa, 65.
26

perfeziona l’arte dell’agricoltura e inizia ad addomesticare gli animali. In


quest’epoca si assiste ad un vero e proprio fiorire della cultura legata ai grandi
agglomerati che si formano. L’umanità entra in una “età dell’oro”: l’uomo è signore
della natura e gli animali gli obbediscono. È proprio in questo contesto che nascono
i primi miti dell’età dell’oro, che svilupperanno nelle tradizioni mitiche in modo
sempre più dettagliato, fino a confluire nei primi scritti religiosi dell’umanità, come
l’epopea di Gilgamesh (2100 a.C), il RigVeda indiano (1300 a.C), l’Enuma Elis a
Babilonia (1200 a.C).

Con il cambio di vita, diventata più sedentaria, cambia anche il modo di


vivere la religiosità da parte del gruppo umano. La religiosità inizia ad essere più
incentrata sul rinnovamento ciclico della natura dato che l’uomo prende coscienza
del mistero della nascita, della morte e della rinascita identificate nel ritmo stesso
della vegetazione. Gli dei vengono, quindi, associati sempre più con la natura
cosmica: il sole, la luna, la pioggia, gli dei della fertilità, della tempesta… Gli
archeologi hanno ritrovato le prime immagini di divinità risalenti a quell'epoca, ove
vengono soprattutto raffigurate la dea della fertilità, presentata come una donna
feconda, ed il toro, simbolo di potenza: questi due culti si diffonderanno
rapidamente in tutto il Vicino Oriente. Si edificano le prime costruzioni megalitiche
e i primi edifici riservati al culto come la città di Catal Huyuk in Anatolia, abitata
da più di cinquemila persone tra il 7000 a.C. e il 5500 a.C., dove, su 139 edifici
emersi dagli scavi, più di quaranta avevano degli altari. Questi santuari indicano la
nascita di culti ben strutturati. Sempre a quest’epoca risalgono delle statuette di
oranti con le braccia rivolte verso il cielo, come gli oranti della val Camonica, che
sono testimoni dei primi riti di preghiera.

A partire da tutti questi dati J. Ries arriva alla dimostrazione della sua tesi:
homo naturaliter religiosus. L’universalità del fenomeno religioso appoggia su dati
paleontologici inequivocabili: ove c’è l’uomo, là c’è religiosità. Per cui chiedersi
quando è nata la religione, equivale a chiedersi quando è nato l’uomo: le loro origini
si confondo e si fondono insieme nei millenni che ci hanno preceduto. Infatti, alcuni
dei segni di discrimine tra l’uomo e le forme di vita precedenti sono proprio la
sepoltura e l’arte simbolica, entrambe usate a scopi religiosi.
27

Una conclusione che lo storico delle religioni trae dalla copiosa documentazione
trovata, catalogata, analizzata e presentata dagli specialisti della paleoantropologia,
è la seguente: a partire dall'emergere della sua coscienza e nel fatto stesso del suo
emergere, l'uomo si presenta come uomo religioso. Perciò, nella storia dell'umanità,
l'uomo religioso è l'uomo normale51.

La religione, inoltre, per il suo essere legata al problema della morte è


intimamente associata alla ricerca sul senso della vita. L’uomo non vuole morire e
si chiede se sia possibile una vita dopo la morte. Se dopo la morte non c’è nulla,
anche la vita stessa cambia radicalmente di senso.

Riportiamo, come riassunto e promemoria delle tappe percorse, la


conclusione dell’opera di Ries, che nella Rivelazione biblica vede un orizzonte di
senso allo svilupparsi della coscienza dell’homo religiosus.

Il nostro rapido sguardo ci ha mostrato come possiamo tracciare la curva della


crescita della coscienza dell'Uomo con l'aiuto delle tracce lasciate dall' attività
umana. Presso l’Homo habilis, creatore della prima cultura, troviamo una
coscienza estetica che ci rivela un homo symbolicus. Con l'Homo erectus abbiamo
i primi indizi dell'homo religiosus che si conferma presso l'Homo sapiens. L'arte
franco-cantabrica rivela un uomo in pieno possesso della sua coscienza estetica:
l'homo religiosus che ha già coscienza della sua situazione nel cosmo. Una volta
sedentarizzato, prenderà coscienza della presenza del divino, rappresenterà le
divinità e dal IV millennio, nella «mezza-luna fertile», nasceranno le prime grandi
religioni. Nel III millennio l'homo religiosus della Mesopotamia moltiplica le
figure divine. Come testimoniano i testi, l'uomo si rivolge soprattutto al suo dio che
diviene suo compagno. All'inizio del II millennio in Mesopotamia sopraggiunge
un avvenimento che modificherà profondamente la coscienza religiosa di un
gruppo di uomini e quindi di tutto un popolo. Dio si rivela ad Abramo e fa alleanza
con lui, lo sceglie per fame l'antenato di un popolo, gli promette una posterità
numerosa. Questo Dio, entra dunque nella storia e diviene il Dio d'Abramo, di
Isacco e di Giacobbe. Un popolo prende coscienza della sua elezione. È una nuova
tappa nella coscienza religiosa dell'uomo52.

3. Simbolo

Il simbolo, dal greco σύμβολον, deriva dalle radici σύν e βάλλω e significa,
letteralmente, “mettere insieme”. Il simbolo consiste in una realtà concreta, un
oggetto o una parola, che rimanda ad un’altra realtà più astratta, che non si può
percepire direttamente o per via concettuale. L’oggetto concreto diventa così il
significante che rimanda al significato che evoca, per rapporto naturale o

51
Ibid., 61.
52
Ibid., 250.
28

convenzionale. L’attività simbolica, ovvero di costruire e percepire simboli, è


specifica dell’uomo ed è retta dall’immaginazione che crea relazioni tra le immagini.
Tutta la creatività culturale si basa sulla forza di tale capacità. La specificità del
simbolo rispetto al segno è ampiamente discussa all’interno della semiologia, ma la
possiamo identificare nella capacità di assumere in sé una grande varietà di
associazioni possibili. Il segno (per esempio il rosso del semaforo) è quasi sempre
univoco e di per sé non è interessante, fungendo da semplice richiamo a
qualcos’altro. Il simbolo, invece, attira su di sé l’attenzione, perché racchiude in sé
un’ampia gamma di significazioni e di sfumature ed è capace di integrare affetti,
ricordi ed impressioni. Si pensi, per esempio, al caso dell’acqua: essa è simbolo
della cosmogonia, di guarigione, di ringiovanimento, di vita, di purificazione, di
rigenerazione, di vita eterna. Il simbolo ha, dunque, una grandissima polivalenza di
significati.

Si è soliti classificare i simboli in tre gruppi: i simboli naturali (per


esempio l’acqua come simbolo di purificazione), simboli convenzionali (per
esempio il pane come simbolo di sostentamento all’interno della cultura
Occidentale; nella cultura cinese tale simbolo non avrebbe nessun significato,
dovendo essere sostituito dal riso), e simboli personali (per esempio gli gnocchi
alla romana come simbolo di amore ed affetto, in quanto associati al ricordo della
mia infanzia di mia mamma che li cucinava per il giorno del mio compleanno).

Eliade ha mostrato l'importanza del simbolo nella vita e nel comportamento


dell'homo religiosus fin dalla presa di coscienza della sua posizione nell'universo,
che gli ha fatto scoprire la volta celeste e le regioni siderali: il sole, la luna, gli astri.
Presso l'uomo arcaico le immagini e i simboli hanno funzionato come una sorta di
laboratorio sperimentale. Il simbolo resta un germe di credenza ed epifania di un
mistero, fonte di energia che lega il cosciente all’incosciente e sorgente di creatività.
Esso costituisce una struttura fondamentale dell’antropologia religiosa53.

Mircea Eliade ha evidenziato che l’uomo prende coscienza del Sacro nel
momento in cui esso si manifesta, ovvero nel momento della ierofania.

Per designare l'atto attraverso il quale il sacro si manifesta abbiamo proposto il


termine “ierofania”. È un termine appropriato, perché non implica null'altro che

53
Ibid., XIII.
29

quello che dice; non esprime nulla di più di quanto implichi il suo significato
etimologico, e cioè che qualcosa di sacro si mostra a noi54.

Il sacro si manifesta, però, attraverso il profano. Proprio tramite la ierofania


si opera la distinzione sacro-profano. Sacro è ciò che viene da un altro luogo,
profano è ciò tramite cui esso viene. In ogni ierofania, manifestazione del sacro
percepita dall’uomo, sono dunque presenti tre elementi: l’oggetto visibile, la realtà
invisibile e la sacralità, dimensione di cui si riveste l’oggetto attraverso il quale il
Sacro si manifesta. “Un albero o una pianta non sono mai sacri in quanto albero o
in quanto pianta; essi lo divengono mediante la loro partecipazione ad una realtà
trascendente; essi lo divengono perché significano questa realtà trascendente”55.
L’oggetto rivestito della dimensione sacrale è ciò che permette di entrare in
comunicazione con il divino. Questo oggetto è dunque un simbolo che permette un
passaggio dal visibile all’invisibile: “non vi è manifestazione del sacro senza
l’intervento di una mediazione. Ogni atto mediatore richiede un’azione
simbolica”56.

L’homo habilis, creatore della prima cultura chiamata olduvaiana, è un


homo symbolicus: crea utensili, intaglia la selce da entrambe in lati, cercando la
simmetria, e scegliendo materiali e colori. Yves Coppens, lo scopritore di Lucy,
cioè lo scheletro dell’ominide più antico finora conosciuto, ha rilasciato
un’intervista ad Avvenire in cui ha fatto notare che

quando l’uomo (…) prende due sassi e col secondo modifica la forma del primo,
nasce l’idea. C’è un progetto che riguarda il futuro. Il primo oggetto fabbricato
dall’uomo è già un simbolo sacro. D’altronde, quando vedo i popoli nativi ed
osservo che i loro gesti sono tutti rituali, non posso pensare che non sia successo lo
stesso con l’uomo primitivo57.

I riti funebri e l’arte rupestre dei millenni successivi sono testimoni


silenziosi dello svilupparsi della capacità simbolica nell’Homo erectus e,
soprattutto, nell’Homo sapiens. In particolare, le composizioni dei dipinti sui muri

54
M. ELIADE, Il sacro e il profano, Bollati Boringhieri, Torino 2013, 21.
55
Ibid., 39.
56
J. RIES, L’uomo e il sacro nella storia dell’umanità, Editoriale Jaca Book, Milano
2007, 557.
57
Y. COPPENS, «Il primo uomo? È nato «religiosus»», 2011, in
https://www.avvenire.it/agora/pagine/uomo-religiosus [26-4-2019].
30

delle caverne “sono fatte di personaggi - animali, uomini, donne – che assumevano
il loro senso autentico solo nel momento in cui erano animati da un discorso
dell'iniziatore. Siamo alle radici del pensiero mitico, che è un eminente pensiero
simbolico”58.

Ries prende in considerazione i simboli dell’ambiente, che sono stati i


primi ad essere percepiti dall’uomo. Lo studioso belga presenta innanzitutto il
Cielo, simbolo quasi universale di Forza e Trascendenza presente in tutte le
culture arcaiche.

La prima di queste scoperte è quella della volta celeste e delle regioni siderali con
il sole, la luna, gli astri. All'uomo arcaico il cielo rivela direttamente la sua
trascendenza, la sua forza, la sua sacralità, senza alcun ricorso, ritiene Eliade, né
all'affabulazione mitica né a una relazione logico-causale. «La contemplazione
della volta celeste, da sola, suscita nella coscienza primitiva un'esperienza
religiosa».59

Un secondo elemento analizzato dal sacerdote belga è la Terra, simbolo di


fecondità e del mistero della creazione continuata. Essa è spesso associata al Cielo,
come compagna della divinità suprema, a cui viene unita in una ierogamia. La Terra
è vista come la grande Madre e, dunque, legata alla donna: a questa simbologia
primitiva risale la tradizione ancora presente in aree rurali di far gettare il grano nei
solchi da donne incinte, come buon auspicio. È in quest’ottica che il Corano (11,
223) dice: “Le vostre donne sono per voi come dei campi”. Intimamente legato alla
volta celeste è il simbolo primordiale della Luce. La luce del sole nel giorno e quella
della luna e delle stelle nella notte sono un simbolo che gioca un ruolo di primo
piano nelle ierofanie di tutte le culture. La Luce, infatti, è simbolo della presenza
delle forze superiori e la sua scomparsa genera paura ed orrore. Per questo in
Mesopotamia la testa degli dei era circondata da un’aureola di luce, tratto ereditato
poi dalla agiografia cristiana.

Ries elenca una seconda serie di tre simboli primordiali: la montagna,


l’albero e l’acqua. La montagna con la sua altezza è simbolo dello sforzo dell’uomo
per innalzarsi fino a Dio, per poterlo incontrare e partecipare della sua Trascendenza.

58
J. RIES, Alla ricerca di Dio. La via dell’antropologia religiosa, 88.
59
Ibid., 80.
31

Nelle varie culture religiose troviamo spesso una montagna sacra come l’Olimpo
greco, i monti indiani Meru e Kailasa, le ziggurat che, nei territori piatti della
Mesopotamia, sostituiscono le montagne, il Sinai, il monte Sion, il Tabor e il
Golgota. L’albero è simbolo del cosmo vivente, racchiudendo in sé tutte le regioni
dell’universo: le radici sono gli inferi, il tronco è la vita terrestre e i rami sono il
mondo celeste. L’acqua è un altro simbolo originario di grande polivalenza
semantica: essa è fonte di vita ma anche di morte, essa purifica e fa rinascere. Legati
alla simbologia dell’acqua sono i fiumi sacri, come il Gange, il Nilo o il Giordano,
o i miti come quello del diluvio universale e della distruzione di una civiltà
inghiottita dall’oceano (si pensi ad Atlantide) e i riti di purificazione come le
abluzioni mussulmane e il battesimo cristiano.

La nostra riflessione sul sacro e l'ambiente ci ha condotti a presentare due trilogie


che sono strutture cosmiche raddoppiate di un simbolismo sacrale molto ricco per
l'uomo. Nella prima trilogia troviamo la volta celeste, la terra e la luce, tre
componenti universali dell'ambiente. La seconda trilogia è più limitata nel suo
contesto geografico ma è anch'essa di una grande ricchezza simbolica; la montagna,
l'albero, l'acqua. Queste due trilogie sono dei supporti di ierofanie, cioè dei mezzi
attraverso i quali si realizzano le manifestazioni del sacro. In altre parole, i sei
grandi simboli che abbiamo appena passato in rassegna intervengono
nell'esperienza del sacro e giocano un ruolo eminente nella vita religiosa60.

La religione, in quanto tale, è sempre simbolica. Il Sacro, infatti, si presenta


come mysterium, ovvero va aldilà di ciò che l’uomo può comprendere con il
linguaggio concettuale: l’uomo non può definire, inquadrare e afferrare pienamente
il Mistero. Il linguaggio simbolico funziona in ambito religioso perché non è arido
come il linguaggio concettuale ma rivela sommessamente all’uomo qualcosa che in
altra maniera non potrebbe conoscere: come scrisse Guardini “il concetto cerca,
dicendo, d'esaurire il significato, l'immagine invece bensì dice, ma al tempo stesso
indica in direzione dell'indicibile e così porta il silenzio nella parola stessa”61. Il
simbolo unisce ciò che è spirituale con ciò che è materiale, per cui senza il simbolo
l’uomo non potrebbe fare esperienza del Sacro ed il Sacro non potrebbe raggiungere
l’uomo.

60
Ibid., 102.
61
R. GUARDINI, Accettare se stessi, 72.
32

Da quasi due milioni di anni, la coscienza dell'uomo ha cominciato a risvegliarsi e


ha permesso l'irresistibile risalita che conduce dall'alfa all'omega, dalla doppia
lama degli utensili alla costruzione dei computer, dalla marcia nella savana a quella
sulla luna. Per realizzare queste prodezze sono occorsi millenni durante i quali
l'uomo ha mobilitato l'ambiente: il cielo e la terra, le montagne e i laghi, la luna e
le acque, la luce e le tenebre, gli alberi e le piante. Senza posa si è messo in cerca
della realtà ultima, del senso del cosmo e della vita. Partendo dall'ambiente ha
scoperto, al di là degli esseri e delle cose visibili, il senso dell'invisibile. Il simbolo
gli ha permesso di aprire la sua coscienza al mistero della creazione e della vita e
di fare l’esperienza del sacro62.

4. Mito

Il mito, dal greco μύθος, è una narrazione sacra che spiega, in forma
narrativa, le origini del mondo e dell’uomo e come il Sacro si è manifestato lungo
la storia. Secondo P. Ricoeur esso è “un racconto tradizionale che porta ad
avvenimenti giunti all’' origine dei tempi e destinati a fondare l'azione rituale degli
uomini di oggi e, in modo generale, a istituire tutte le forme di azione e di pensiero
attraverso cui l'uomo comprende se stesso nel suo mondo” 63 . Il mito usa un
linguaggio simbolico perché vuole comunicare ad altri la stessa esperienza di
incontro con il Sacro, ed esso può essere compreso solo tramite il simbolo. Il
linguaggio simbolico del mito diventa così una nuova possibilità per una ulteriore
ierofania. “Esso ha la funzione di destare e di mantenere la coscienza di un mondo
diverso dal mondo nel quale si svolge la vita di tutti i giorni”64.

Il mito spiega la personalità e la vita del Sacro e la sua relazione con l’uomo:
l’uomo così capisce il proprio posto nell’universo e può rispondere alle sue
domande sul senso della vita e della morte. La potenza del mito sta proprio nel suo
carattere narrativo e drammatico, che rifugge l’aridità statica del concetto. Una
narrazione, infatti, è simbolica e si presta a molteplici piani di lettura, anche in
epoche diverse, dando luogo a possibili ulteriori ierofanie. “Il mito spiega
simbolicamente e dunque fa vedere, rivela come eventi primordiali abbiano fondato
le strutture del reale. Rivela questa ontologia in modo drammatico, cioè non
concettuale”65.

62
J. RIES, Alla ricerca di Dio. La via dell’antropologia religiosa, 104–105.
63
Ibid., 116.
64
Ibid., 109.
65
Ibid., 122.
33

“Grazie al mito l’uomo si colloca all’interno del cosmo, ma il mito diventa


per lui un modello e stabilisce un comportamento che determina le azioni umane”66.
Leggendo il mito l’uomo capisce come deve essere il suo comportamento che è
chiamato ad adeguarsi a quello degli dei e degli eroi dei tempi primordiali, che
hanno funzione paradigmatica. Il mito diventa, dunque, normativo per il
comportamento dell’uomo e per la sua corretta relazione con la Trascendenza:
leggendo i racconti delle origini l’homo religiosus riceve un messaggio sulla
condizione umana ed interpreta le relazioni tra il tempo attuale e quello delle origini.
“Il comportamento dell'uomo arcaico si pone in relazione con un archetipo
presentatogli dal mito e che conferisce potenza ed efficacia all'azione umana”67.

Esiste una vasta gamma di tipologie di miti. I più importanti sono i miti
cosmogonici, che costituiscono l’ossatura della storia santa dei popoli, rivelando il
dramma della creazione del cosmo e dell’uomo e i principi che reggono il processo
cosmico. I miti eziologici che narrano e giustificano situazioni che esistono di fatto,
come l’esistenza di istituzioni, di città o di norme civiche. I miti escatologici
raccontano di catastrofi come cataclismi, diluvi, terremoti che sono avvenuti nel
passato e che potranno ripetersi nell’avvenire. Infine i miti di rinnovamento
spiegano la necessità dei ritorni periodici delle stagioni, del nuovo anno che ricreino
da capo la vita.

La più antica testimonianza di mito la troviamo nell’arte rupestre del


paleolitico. Scrive Ries:

Nel 1962, Annette Laming-Emperaire pubblica il libro La Signification de l'art


rupestre paléolithique, dove avanza un'ipotesi audace: «l'organizzazione figurativa
dei soffitti e delle pareti delle grotte non potrebbe riferirsi a un tema generale di
mitologia i cui personaggi sarebbero coppie di animali?». (…) Questa arte
figurativa è inseparabile da un linguaggio che spiega e lega le figure dipinte,
chiamate mitogrammi. Un mitogramma è un enunciato di simboli situati e animati
da un discorso. Le figure servono a fornire un appoggio visuale a coloro che
conoscono i protagonisti del mito, commentatori incaricati di correlare le figure fra
loro e di spiegare l'azione dei personaggi68.

66
Ibid., 109.
67
Ibid., 124.
68
Ibid., 112.
34

I mitogrammi delle caverne ci fanno capire l’antichità del pensiero mitico


che affonda le sue radici nelle profondità del paleolitico. Condizione essenziale per
la creazione di un mito è l’esistenza di un clan o di un gruppo sociale, all’interno
del quale essi possano essere trasmessi, e nel quale essi vengano usati all’interno di
un contesto iniziatico. A partire dal 10.000 a.C., con la “rivoluzione neolitica”
avviene

la comparsa della rappresentazione del divino (dea e toro), la formazione di nuovi


miti e la creazione di una vera e propria mitologia, linguaggio e messaggio del
sacro. Per l'homo neolithicus l'esperienza vissuta del sacro sfocia in una religione
con credenze, nuove idee religiose e culti con gesti e riti. L'homo religiosus diviene
homo orans69.

5. Rito

La parola rito ha origine indoeuropea è significa “l’ordine immanente del cosmo”.


Un rito è uno schema formale di comportamento secondo norme codificate. Un rito
religioso, che si distingue dai riti “secolari”,

si colloca all'interno di un'espressione simbolica mediante la quale l'uomo cerca un


contatto vitale con la Realtà trascendente, con il divino, con Dio. Esso si compone
di una tecnica e di un sistema di simboli, utilizzati entrambi al fine di ottenere
un'efficace esperienza vissuta del sacro. Fatto di gesti e di azioni accompagnati da
un linguaggio verbale esplicito o implicito, il rito è destinato ad aprire un passaggio
in direzione della realtà ontologica: è un percorso che porta dal significante
all'essere. Compiuto dall'Homo sapiens e religiosus, il rito diventa luogo ed
espressione delle credenze70.

Il rito è il tentativo dell’uomo di rispondere al Sacro, che si è manifestato


nella ierofania: esso nasce dall’unione di una pratica con una credenza. Mediante la
celebrazione rituale l’uomo tenta di ritornare al tempo delle origini per ricevere un
effetto nel presente. Il rito, dunque, non è solo descrizione del passato ma è un
veicolo perché il Sacro si faccia presente oggi, diventando così occasione di una
nuova ierofania. Il rito, infatti, realizza un vero e proprio cambio ontologico
nell’uomo, lo trasforma perché lo inserisce nel Sacro. Esso è intimamente legato al
simbolo, in quanto opera continuamente un passaggio dal significante al significato.
Come il mito, anche il rito usa un linguaggio simbolico: parole, musica, danza sono

69
Ibid., 114.
70
Ibid., 166.
35

tutti gesti ierofanici. Il rito è strettamente legato al mito in quanto ne costituisce


l’attualizzazione: la verità sacra è contenuta linguisticamente nei miti e tramite il
rito l’uomo entra nel tempo e nello spazio sacro, fa ciò che gli dei fanno, e raggiunge
la sua perfezione o salvezza. Il mito, dunque, spiega il significato del rito che lo
riassume e lo riattualizza.

Il rito serve poi come vincolo di coesione sociale ed è il naturale ambito di


esperienza religiosa del gruppo, in quanto sottrae il singolo alla dimensione
solamente privata dell’incontro con il Sacro e lo immette in una esperienza
comunitaria. “All'interno della società il rito è principio di coerenza. Anche se
compiuto in solitudine, esso fa riferimento a una comunità”71.

Esistono diverse tipologie di rito, diversamente classificate. Si possono


riassumere nelle due grandi categorie di miti negativi (apotropaici, purificatori, di
espiazione) e riti positivi (iniziazione, transizione, riti di unione, sacrifici,
pellegrinaggi…).

Per quanto riguarda la differenza tra i riti religiosi e i riti magici, osserviamo che
la magia è caratterizzata da un desiderio di dominio tramite forze particolari,
cosmiche, mentre la religione si volge verso la trascendenza. I riti religiosi operano
nel contesto delle ierofanie, mentre i riti magici ricorrono a potenze che non sono
in relazione con il sacro72.

Le più antiche testimonianze di riti compiuti da parte dell’uomo sono senza


dubbio i riti funerari che nascono come reazione di fronte alla morte altrui. Le ossa
dei crani spezzate, il colore rosso ocra, le conchiglie depositate sugli occhi,
l’abbellimento del corpo del defunto, le offerte alimentari, le lettighe di fiori su cui
sono adagiati i cadaveri sono tutti indizi di prime forme rituali usate fin dai primordi
della storia che manifestano la comune credenza di una vita dopo la morte. È
interessante notare che pur nella grande varietà di credenze riguardanti l’aldilà, ci
sono alcuni fattori comuni riguardanti tutte le culture umane nella visione sulla
morte e nella cura rituale del defunto:

Il fattore comune è il rapporto fra il modo in cui la persona ha vissuto, il senso della
sua vita, e quello che succede dopo la morte: c’è una continuità, si prosegue sulla

71
Ibid., 167.
72
Ibid., 166.
36

stessa strada. Questo è così per gli etruschi come per i celti, per i germani come per
i romani e i greci, in Cina, India, Tibet, eccetera. Poi c’è il fattore comune
rappresentato dal rito: per entrare nell’immortalità bisogna compiere dei riti, quasi
sempre dei sacrifici. Sacrifici centrati sul fuoco, originari dell’India, sono molto
diffusi. Il rituale è ovunque decisivo nella preparazione all’immortalità73.

73
R. CASADEI, «Meeting Rimini 2012. Intervista a Julien Ries.», in
https://www.tempi.it/meeting-rimini-2012-intervista-a-julien-ries/ [26-4-2019].
37

IV) CONCLUSIONE: INTEGRAZIONE DEI DUE METODI

Dai tempi più antichi fino ad oggi presso i vari popoli si trova una certa sensibilità
a quella forza arcana che è presente al corso delle cose e agli avvenimenti della vita
umana, ed anzi talvolta vi riconosce la Divinità suprema o il Padre. Questa
sensibilità e questa conoscenza compenetrano la vita in un intimo senso religioso74.

Nell’uomo è presente un’apertura inestirpabile verso l’Assoluto, verso Dio,


verso il Mistero. Questa convinzione, un tempo forse scontata, è oggi da ribadire
con forza e chiarezza, in quanto la tendenza attuale è quella di appiattire l’uomo
alla sua sola dimensione orizzontale. Le due strade percorse hanno condotto alla
stessa conclusione, seppur tramite due metodi e due punti di vista differenti: l’uomo
è naturalmente religioso. I due metodi non sono però alternativi o auto-escludenti,
ma complementari e possono essere integrati armonicamente tra di loro.

Don Giussani, a partire dalla sua missione di educatore, si è concentrato


maggiormente sugli aspetti esistenziali della religiosità dell’uomo. Egli propone al
lettore di fare un vero cammino, un lavoro su di sé: leggere un suo testo esige il
mettersi in discussione in prima persona per confrontare ciò che si legge con la
propria vita, facendo così un autentico esercizio sul proprio mondo interiore. Con
tale finalità, il sacerdote milanese si aiuta soprattutto dei poeti e degli artisti, dato
che essi hanno mantenuto vive le grandi domande dell’uomo e possono essere così
un esempio per chi deve scoprire in sé tali interrogativi. Il dialogo poeta-lettore,
mediato dalla sapiente mano di Giussani, risulta un vero scambio intimo tra cuori
vivi, realizzando così il motto del card. Newman cor ad cor loquitur. Il punto forte
di tale approccio consiste nel chiamare in causa il lettore per fargli compiere un
percorso, presentato non come indottrinamento religioso o moralistico, ma come un
raggiungimento della propria perfezione e pienezza di uomo. La fecondità di tale
metodo è legata strettamente all’aspetto comunitario all’interno del quale esso viene
intrapreso: esso va compiuto all’interno di una comunità che sostenga e accompagni
il cammino della scoperta di sé, ed eviti derive pericolose o ritardi inutili.

74
Nostra aetate, Edizioni Paoline, Roma 1965, 2.
38

Quando Giussani conobbe l’opera di J. Ries ne rimase fin da subito


affascinato e decise di invitare lo studioso belga al Meeting del 1982, per parlare
delle sue scoperte nel campo della antropologia religiosa. Giussani vide fin da
subito il potenziale della ricerca di Ries, che si proponeva di evidenziare la naturale
religiosità dell’uomo non tramite prove filosofiche o teologiche, ma con un
approccio molto oggettivo e immune da facili critiche ideologiche. Basandosi
solamente sui dati ricavati dalle scienze storiche e archeologiche, Ries mostra come
l’uomo fin da sempre è religioso. L’uomo religioso coincide con il primo uomo e i
due termini sono inseparabili. Tale metodo di ricerca è difficilmente contestabile,
perché oggettivo e rigorosamente fedele al metodo scientifico.

Il punto di incontro tra i due approcci è la comune natura umana. Sia che
l’homo religiosus venga considerato nel suo aspetto oggettivo e storico (Ries), sia
che lo si prenda in considerazione in maniera più esistenziale (Giussani), partendo
dal proprio io, in entrambi i casi sempre di uomo si tratta. Sia Ries che Giussani
evidenziano che lo stupore di fronte alla realtà cosmica (ordinata), è il punto di
partenza per il risveglio della coscienza religiosa nell’uomo. Feuerbach viene
dunque doppiamente smentito: la religione, infatti, è primariamente legata alla vita,
alla bellezza delle cose e allo stupore che la realtà suscita nel cuore umano, agendo
come analogia verso il Mistero. La religione non nasce per esorcizzare la morte ma
come conseguenza dell’affezione per la bellezza della realtà. L’uomo ha avuto
coscienza della vita prima di avere coscienza della morte, compresa come rottura
della vita. Il cosmo e il mondo hanno un’influenza decisiva nell’emergere della
coscienza religiosa sia su un piano esistenziale sia dal punto di vista storico.

Un campo fruttuoso di applicazione di tale complementarietà di approcci è,


a mio parere, la catechesi. La prima tappa della catechesi consiste proprio nel
mostrare come l’uomo sia essenzialmente rivolto a Dio e di come tutta la sua vita
aneli ad una Rivelazione. Per un adolescente ed un giovane risulterà estremamente
attrattivo poter scoprire il proprio mondo interiore come un fascio di desideri
potenti, rivolti verso una risposta grande ed assoluta. Nell’età dell’adolescenza ci si
inizia a porre le domande in maniera esistenziale, avvertendo il brivido della libertà
e percependo la propria vita come un progetto da realizzare. Il metodo di don
Giussani, esistenziale e riflessivo, aiuta il giovane e l’adolescente a scoprire il
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proprio mondo interiore come una esigenza grandissima di bene, di bellezza e di


verità che si può solo saziare nell’incontro con il Bene stesso, la Bellezza stessa e
la Verità stessa.

Nella catechesi con i bambini più piccoli bisogna evitare ogni infantilismo
e banalità, oggi invece dilaganti. Essi, infatti, hanno un cuore da uomini dove
premono già le grandi domande della vita su cui si sono arrovellati i filosofi di tutte
le epoche. Sarebbe però poco fruttuoso affrontare l’argomento dell’apertura verso
Dio in un’ottica soggettiva ed esistenziale, in quanto questo linguaggio è ancora
lontano dal loro modo di interrogarsi sull’esistenza. I bambini, invece, sono
affascinati da un approccio più oggettivo, che mostri loro come sono le cose e che
li porti alla scoperta della verità del mondo. La domanda sulle origini dell’universo
e dell’umanità è sempre una tappa di apprendimento affascinante: il Big Bang, i
dinosauri, gli uomini primitivi sono argomenti che catturano il desiderio di
conoscere anche dei più piccoli. Presentare il senso religioso dell’uomo, a partire
proprio da un approccio oggettivo che si concentri sulle prime tappe della storia
dell’umanità, risulta molto affascinante e mette le basi solide per poter parlare della
Rivelazione di Dio.

Giussani e Ries si rivelano quindi complementari per la loro differente


metodologia di indagine, ma possono risultare potenti alleati nel mostrare che
l’uomo è religioso per natura.
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INDICE
I. INTRODUZIONE ................................................................................................2
II. LUIGI GIUSSANI...............................................................................................4
1. Ragioni di un percorso: riallacciarsi all’uomo .........................................4
2. Natura del senso religioso ........................................................................6
3. Stupore e mistero ....................................................................................10
4. Libertà, educazione, comunità ...............................................................15
5. Idolo e Rivelazione .................................................................................19
III. JULIEN RIES...................................................................................................21
1. Ragioni di una ricerca: homo religiosus .................................................21
2. La percezione del sacro nel corso della storia ........................................22
3. Simbolo ..................................................................................................27
4. Mito ........................................................................................................32
5. Rito .........................................................................................................34
IV. CONCLUSIONE: INTEGRAZIONE DEI DUE METODI ............................37
BIBLIOGRAFIA ...................................................................................................40

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