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Luigi Giussani

All'origine della pretesa cristiana

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Proprietà letteraria riservata
© 1999 RCS Libri S.p.A., Milano

eISBN 978-88-58-61984-1

Prima edizione digitale 2011 da edizione Rizzoli 1999

In copertina:
Giotto, Nozze di Cana, Cappella Scrovegni (part.), Padova, ©
Scala.
Progetto grafico di Mucca Design

www.rizzoli.it

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.


È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

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Il libro
In questo secondo volume del suo PerCorso, don Giussani
mostra il passaggio dal senso religioso in generale
all’avvenimento di Gesù Cristo, cioè all’esperienza religiosa
cristiana. Dopo un’introduzione in cui si riepilogano gli
aspetti salienti della riflessione sul senso religioso, l’Autore
aiuta a rendersi conto di come l’uomo in tutti i tempi, fin
dalle sue origini remote, abbia sentito la necessità di
mettersi in rapporto con il mistero ultimo, mediante tentativi
che hanno fatto nascere le varie religioni. L’impossibilità a
raggiungere chiarezza e sicurezza ha fatto sentire all’uomo
l’urgenza o la necessità di un aiuto offerto dallo stesso
mistero, cioè di una rivelazione. Ma tutte le affermazioni in
tal senso nelle diverse storie spirituali dei popoli sono state
come “superate” da un fatto eccezionale: in un certo
momento storico un uomo, Gesù di Nazareth, non solo ha
rivelato il mistero di Dio, ma ha identificato se stesso con il
divino.
Come questo avvenimento abbia iniziato a imporsi
all’attenzione degli uomini; come abbia creato una chiara
convinzione; in che modo abbia comunicato il mistero della
sua persona; come abbia confermato il suo svelarsi con una
concezione nuova e perfetta della vita umana; tutto ciò è il
contenuto di questo volume.
«In esso», afferma l’Autore, «ho voluto esprimere la ragione
per cui un uomo può credere a Cristo: la profonda
corrispondenza umana e ragionevole delle sue esigenze con
l’avvenimento dell’uomo Gesù di Nazareth.»

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Luigi Giussani
(Desio 1922 – Milano 2005) compie i suoi studi presso la
Facoltà teologica di Venegono, nella quale insegnerà per
alcuni anni, specializzandosi sulla teologia protestante
americana e la motivazione razionale dell’adesione alla fede
e alla Chiesa. Negli anni Cinquanta lascia l’insegnamento in
seminario per quello nelle scuole superiori. Dal 1964 al 1990
insegna Introduzione alla Teologia all’Università Cattolica di
Milano. All’origine della pretesa cristiana è il secondo
volume del PerCorso, il frutto di oltre quarant’anni di
insegnamento che si completa con Il senso religioso e Perché
la Chiesa. È autore di numerosi saggi, tra i quali: Alla ricerca
del volto umano (1995), Il tempo e il tempio (1995), L’uomo e
il suo destino (1999), L’io, il potere, le opere (2000),
Affezione e dimora (2001), Dal temperamento un metodo
(2002), Una presenza che cambia (2004), Il rischio educativo
(2005), Dall’utopia alla presenza. 1975-1978 (2006), Il
cammino al vero è un’esperienza (2006), Certi di alcune
grandi cose. 1979-1981 (2007), Si può vivere così? (2007),
Uomini senza patria. 1982-1983 (2008), Qui e ora. 1984-
1985 (2009), L’io rinasce in un incontro. 1986-1987 (2010) e
Ciò che abbiamo di più caro. 1988-1989 (2011). Dalla metà
degli anni Cinquanta dà vita al movimento di Comunione e
Liberazione, oggi presente in Italia e in quasi ottanta Paesi in
tutto il mondo.

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PREFAZIONE
«Quindi giunsero, in un momento predeterminato, un
momento nel tempo e del tempo,
Un momento non fuori del tempo, ma nel tempo, in ciò che
noi chiamiamo storia: sezionando, bisecando il mondo del
tempo, un momento nel tempo ma non come un momento di
tempo,
Un momento nel tempo ma il tempo fu creato attraverso quel
momento: poiché senza significato non c’è tempo, e quel
momento di tempo diede il significato. Quindi sembrò come
se gli uomini dovessero procedere dalla luce alla luce, nella
luce del Verbo, Attraverso la Passione e il Sacrificio salvati a
dispetto del loro essere negativo;
Bestiali come sempre, carnali, egoisti come sempre,
interessati e ottusi come sempre lo furono prima, Eppure
sempre in lotta, sempre a riaffermare, sempre a riprendere
la loro marcia sulla via illuminata dalla luce;
Spesso sostando, perdendo tempo, sviandosi, attardandosi,
tornando, eppure mai seguendo un’altra via.»
T.S. Eliot, Cori da «La Rocca»

Questa è la modalità con cui il messaggio cristiano è stato


trasmesso dalla tradizione fino ai giorni nostri. La mia
intenzione è quella di richiamare la profonda ragionevolezza
dell’affermazione di Eliot e dell’annuncio cristiano così come
si è espresso originariamente. Il criterio guida di tutto il libro
è l’obbedienza all’autentica tradizione della Chiesa, all’intera
tradizione ecclesiale.
Questo volume, come del resto la trilogia del PerCorso,
intende esemplificare le modalità secondo le quali si può
aderire coscientemente e ragionevolmente al cristianesimo,
tenendo conto dell’esperienza reale. In particolare,
All’origine della pretesa cristiana è il tentativo di definire

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l’origine della fede degli apostoli. In esso ho voluto
esprimere la ragione per cui un uomo può credere a Cristo:
la profonda corrispondenza umana e ragionevole delle sue
esigenze con l’avvenimento dell’uomo Gesù di Nazareth. Ho
cercato quindi di mostrare l’evidenza della ragionevolezza
con cui ci si attacca a Cristo, e quindi si è condotti
dall’esperienza dell’incontro con la sua umanità alla grande
domanda circa la sua divinità.
Non è il ragionamento astratto che fa crescere, che allarga
la mente, ma il trovare nell’umanità un momento di verità
raggiunta e detta. È la grande inversione di metodo che
segna il passaggio dal senso religioso alla fede: non è più un
ricercare pieno di incognite, ma la sorpresa di un fatto
accaduto nella storia degli uomini – come Eliot descrive con
poesia insuperabile – . Questa è la condizione senza la quale
non si può neppure parlare di Gesù Cristo. Su questa strada,
invece, Cristo diventa familiare, quasi come il rapporto con
la propria madre e con il proprio padre, nel tempo, diventa
sempre più costitutivo di sé.
A questo libro tengo particolarmente, perché esprime le
ragioni di una fede consapevole e matura. Rileggendolo, per
una nuova pubblicazione, ho voluto apportare – senza
modificarne in alcun modo la struttura e l’impianto originari
– alcune modifiche per renderlo ancora più vicino al lettore
di oggi.
L. G.
Milano, luglio 2001

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INTRODUZIONE
Nell’affrontare il tema dell’ipotesi di una rivelazione e della
rivelazione cristiana, nulla è più importante della domanda
sulla reale situazione dell’uomo. Non sarebbe possibile
rendersi conto pienamente di che cosa voglia dire Gesù
Cristo se prima non ci si rendesse ben conto della natura di
quel dinamismo che rende uomo l’uomo. Cristo infatti si
pone come risposta a ciò che sono «io» e solo una presa di
coscienza attenta e anche tenera e appassionata di me
stesso mi può spalancare e disporre a riconoscere, ad
ammirare, a ringraziare, a vivere Cristo. Senza questa
coscienza anche quello di Gesù Cristo diviene un puro nome.

1. Il fattore religioso e la vita


Affrontare il cristianesimo significa affrontare un problema
pertinente al fenomeno religioso. Non considerare il
cristianesimo in modo comunque riduttivo dipende dalla
comprensività e completezza con cui uno percepisce e
considera il fatto religioso come tale.
Se, perciò, il mio scopo è quello di situare l’emergenza del
cristianesimo, è utile recuperare alcuni aspetti decisivi del
senso religioso in generale. In che cosa consiste il senso
religioso o la dimensione religiosa dell’esistenza? In che cosa
consiste il contenuto dell’esperienza religiosa?
Il senso religioso altro non è che quella natura originale
dell’uomo per cui egli si esprime esaurientemente in
domande «ultime», cercando il perché ultimo dell’esistenza
in tutte le pieghe della vita e in tutte le sue implicazioni.1 È
nel senso religioso quindi l’espressione adeguata di quel
livello della natura in cui la natura diventa coscienza del
reale tendenzialmente secondo la totalità dei suoi fattori; ed
è a questo livello che la natura può dire «io», riflettendosi in

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tale parola potenzialmente tutta la realtà. San Tommaso
diceva: Anima est quodammodo omnia (l’anima è in qualche
modo tutto).2
In tal senso la dimensione religiosa coincide con la
dimensione razionale e il senso religioso coincide con la
ragione nel suo aspetto ultimo e profondo. Il cardinal
Montini in una sua lettera quaresimale definì il senso
religioso come la «sintesi dello spirito».3 Tutti gli impeti con
cui l’uomo è spinto dalla sua natura, perciò tutti i passi del
moto umano – moto dunque cosciente e libero –, tutti questi
passi, cui lo slancio originale induce l’uomo, sono
determinati, resi possibili e realizzati in forza di
quell’impulso globale e totalizzante che è il senso religioso.
Esso coincide, dunque, con l’urgenza di un raggiungimento
totale e di una esauriente completezza e si colloca, nascosto
ma determinante, dentro ogni dinamismo, dentro ogni
movimento della vita umana, la quale risulta perciò progetto
sviluppato da quell’impeto globale, dal senso religioso.

a) Una nota sulla parola «Dio»


Lungo il percorso della religiosità umana la parola «Dio»
segna l’oggetto proprio di questo desiderio ultimo dell’uomo,
come desiderio di conoscenza dell’origine e del senso
esauriente dell’esistenza,4 del senso ultimo implicato in ogni
aspetto di quel che è vita. «Dio» è il «ciò» di cui ultimamente
tutto è fatto, è il «ciò» cui finalmente tutto tende e in cui
tutto si compie. È insomma ciò per cui la vita «vale»,
«consiste», «dura».
Non si può domandare che cosa rappresenti la parola
«Dio» a chi in Dio dice di non credere. È qualcosa che
occorre sorprendere nell’esperienza di chi quella parola usa
e vive seriamente. Un aneddoto a questo proposito risale
all’epoca in cui insegnavo in una scuola superiore. In una
determinata stagione teatrale era stato rappresentato al
Piccolo Teatro di Milano Il diavolo e il buon Dio di Jean-Paul
Sartre. Rammento che alcuni studenti, particolarmente

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colpiti dall’opera, venivano a scuola ripetendo con aria
sardonica certe battute riferite a Dio. Io facevo notare loro,
molto tranquillamente, che quello che in quel momento
stavano deridendo era il dio di Sartre, vale a dire un dio per
me inattendibile, che non coincideva per nulla con ciò in cui
io credevo. Li esortavo semmai a riflettere se per caso quello
rappresentato a teatro non fosse invece il «loro» dio o
eventualmente il modo con cui era loro di fatto possibile
pensare Dio.

b) Una nota sulla domanda che apre una ricerca


attenta
Dio, in quanto oggetto proprio ed esauriente della fame e
della sete umane, dell’esigenza costitutiva della coscienza e
della ragione, è sì una presenza perennemente incombente
sull’orizzonte umano, ma si situa pur sempre al di là di esso.
E quanto più l’uomo spinge l’acceleratore della sua ricerca
tanto più questo orizzonte retrocede, si sposta. È questa
un’esperienza così strutturale che se noi ipotizzassimo
l’esistenza di un essere umano sul nostro pianeta tra un
miliardo di secoli dovremmo dire che la questione gli si
porrebbe al fondo tale e quale, pur nella imprevedibile
diversità delle sue condizioni di vita.
Questa imperitura situazione di sproporzione e di
inarrivabilità facilita l’insorgere nella coscienza dell’ idea di
mistero, la consapevolezza cioè che l’oggetto proprio e
adeguato all’esigenza esistenziale è incommensurabile con
la ragione come «misura», con la capacità di misura che
l’esigenza stessa ha. L’oggetto cui l’uomo tende non è
riconducibile a nessun raggiungimento, a nessun traguardo
cui egli possa arrivare. Tale inarrivabilità, quanto più l’uomo
cammina, tanto più, anziché ridursi via via, diventa evidente,
così che solo nell’uomo «ignorante» c’è la presunzione di
arrivare. Se uno «non ignora» se stesso in rapporto al reale,
se uno è «cólto» nel senso profondo della parola, cioè attento
ricercatore, si trova a dover fronteggiare la drammatica
sproporzione che è stata descritta.

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2. La vertiginosa condizione umana
Guardiamo più attentamente la situazione esistenziale in cui
l’uomo si trova a vivere. Quel «Dio», quella realtà per cui
ultimamente val la pena vivere, come abbiamo visto, è ciò di
cui ultimamente la realtà è fatta e al cui manifestarsi
continuamente si protende. Io, uomo, sono costretto a vivere
tutti i passi della mia esistenza dentro la prigionia di un
orizzonte sul quale una grande Incognita incombe,
irraggiungibile.
E la cosa è tanto più drammatica quanto più io sono
consapevole. Perché, se la stupidità suprema è quella di
vivere distratti, è evidente che per gli stupidi i problemi a
questo riguardo diminuiscono. Io, dunque, in piena
consapevolezza, sono costretto dalla mia condizione
esistenziale a compiere dei passi verso quel destino cui in
me tutto tende senza però conoscerlo. So che esiste, perché
ciò è implicato nel mio stesso dinamismo, e so che quindi
tutto in me dipende da esso. Il senso umano, il gusto di ciò
che provo, che approvo o a cui approdo dipende da quel
destino, ma esso resta un ignoto. L’uomo consapevole
realizza così che il senso della realtà, vale a dire ciò cui la
ragione tende, è una «x» ultimamente non comprensibile e
che non può essere rinvenuta nella capacità di memoria
della ragione. È fuori. La ragione al suo vertice può giungere
a coglierne l’esistenza, ma una volta raggiunto questo
vertice è come se essa venisse meno, non può andare oltre.
La percezione dell’esistenza del mistero rappresenta il
vertice della ragione. Ma, pur in questa sua impossibilità di
arrivare a conoscere ciò di cui intuisce l’esistenza e che
massimamente la concerne – si tratta infatti del senso delle
cose, interesse di ogni interesse –, la ragione mantiene la
sua struttura d’esigenza conoscitiva: vorrebbe conoscere il
destino suo. È vertiginoso essere costretti ad aderire a
qualcosa che non si arriva a conoscere, che non si riesce ad
afferrare. È come se ogni mio essere fosse sospeso a
qualcuno che mi sta alle spalle e il cui viso mai io potessi
vedere. «Conosci tu l’assenza più potente della presenza?»,

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diceva Schweitzer all’infermiera nel dramma di Gilbert
Cesbron È mezzanotte dottor Schweitzer.5
È una condizione vertiginosa dover obbedire a qualcosa di
cui intuisco la presenza, ma che non vedo, non misuro, non
possiedo. Il destino, infatti, o l’ignoto, convoca a sé la mia
vita attraverso le cose, il condensarsi provvisorio ed effimero
delle circostanze, e l’uomo ragionevole, pur privato della
possibilità di una misurazione e di un possesso di
quell’ignoto, è chiamato comunque a una attività, che
consiste, innanzitutto, nel prendere atto della sua condizione
e, in secondo luogo, nell’aderire realisticamente, circostanza
per circostanza, alle emergenze esistenziali, senza poter
tuttavia vedere l’intelaiatura che tutto regge, il disegno in
cui si modella il significato. Quando nel Vecchio Testamento
l’oracolo di Dio diceva: «Le mie vie non sono le vostre vie e i
miei pensieri non sono i vostri pensieri»,6 richiamava gli
Israeliti proprio a questa sproporzione che esistenzialmente
non può non risultare esperienza di contraddizione. L’uomo si
sente uno che cammina verso l’ignoto, aderendo a ogni
determinazione, a ogni passo secondo le circostanze che gli
si pongono come sollecitatrici inevitabili, ma alle quali egli,
proprio perché le riconosce tali, dovrebbe dire sì con tutte le
risorse della sua mente e del suo cuore senza «capire»: una
precarietà assoluta, vertiginosa. A essa l’uomo finisce col
non resistere, anche ammettendo che si possa cristallizzare
un teorico istante in cui egli riesca a prendere una posizione
di adesione a quell’ignoto che lo conduce. L’uomo coglie
nell’attimo la sua condizione vertiginosa, misura la sua
sproporzione. Ma il ricordo di questa sua lucidità non dura.
Questo attimo «filosofico» di percezione della sproporzione
tra l’umano e il senso esauriente delle cose è ben
esemplificato dalle espressioni che Platone usa nel Timeo
parlando dell’Artefice dell’universo: «Ma il Fattore e il Padre
di questo universo è molto difficile da trovare ed è
impossibile parlarne a tutti».7 O, ancora: «Dio possiede la
scienza e a un tempo la potenza per mescolare molte cose in
unità e di nuovo per scioglierle dall’unità in molte; ma

13
nessuno degli uomini ora sa fare né l’una né l’altra cosa, né
mai lo saprà in avvenire».8
Innumerevoli sono nella storia umana le testimonianze del
disorientamento da un lato e del senso di impotente
rassegnazione dall’altro che quella vertigine, quella
sproporzione incolmabile provoca nell’uomo, a tutte le
latitudini e in tutte le epoche.
Emblematiche restano le tragiche parole che Sofocle
mette in bocca al protagonista dell’Edipo re: «Gli uomini
sono il trastullo degli dei. Sono come mosche nelle mani di
fanciulli crudeli, che le uccidono per divertirsi».9
E, se anche non si arriva a questa agghiacciante
affermazione dell’enigmaticità del destino, troppi sono gli
interrogativi, i dubbi in questo terreno: ciò che l’uomo può
raggiungere con le sue forze a proposito del divino, del
senso del suo destino, non perde mai l’immagine d’essere
una palude insicura e talvolta angosciosa in cui egli è
immerso. Un frammento attribuito a Senofane dice, a
proposito della conoscenza: «Nessun uomo ha conosciuto, né
mai conoscerà ciò che è la verità certa a proposito degli dei
[...] supponendo che riuscisse perfettamente a dirla, tuttavia
egli stesso non la saprebbe; si tratta solo di opinione su tutte
le cose».10 E, dopo Senofane, Protagora confesserà,
aprendo una sua opera sugli dei: «Degli dei non posso
sapere né che esistono né che non esistono, né come sono in
quanto alla loro forma; poiché numerosi sono gli ostacoli a
un tale sapere: l’oscurità della questione e la brevità della
vita umana».11
A distanza di secoli e in un ambiente completamente
diverso, non è forse lo stesso smarrimento, pur temperato
dal baluginare di un’iniziale fiducia, ad apparire nella
preghiera di un poeta religioso indiano del XVII secolo,
Toukārām?

«Devo spiegarmi ancora, mio Dio? Non sai tutto

14
di me? Decidi! Io starò qui. Il mio spirito zoppica,
non conosco alcun rimedio, se non quello di
depositare per sempre ai tuoi piedi la mia vita.
Godere, rinunciare sono mali: che cosa lasciare,
che cosa conservare? Mai ho potuto decidermi.
Quando un bambino nella foresta ha perduto sua
madre e non riesce più a trovarla, allora, o
Viththal, piange.»12

Grande si erge in questo contesto la figura di Abramo. La


Bibbia narra che quando l’Ignoto, che pure gli si era palesato
con la promessa di una grande discendenza, gli chiede di
uccidere quel figlio che era stato donato come prima
realizzazione di quella stessa promessa, quando cioè l’Ignoto
si ripropone al patriarca con tutto il peso dei suoi disegni
misteriosi e sfidanti, egli risponde: «Eccomi». E se ne va, in
quello strano mattino, con il figlio accanto verso un luogo
che non conosce, per una ragione che non conosce, disposto
a compiere il sacrificio dove Dio gli indicherà, sacrificio che
poi per volontà del Signore non verrà consumato.13 Abramo
è in quest’attimo figura paradigmatica dell’uomo in tutta la
sua statura e drammaticità, dell’uomo posto in quella
vertigine, trascinato dentro quel vortice nel quale il Mistero
lo avvolge. Una vertigine che normalmente si cerca di
dimenticare, un vortice nel quale l’uomo normale non può
reggere.

3. La ragione alla ricerca di una soluzione


Come allora raggiungere il traguardo in questa foresta senza
guida? San Tommaso dice che nella storia la ragione
dell’uomo ha raggiunto qualcosa della verità del divino solo
in alcuni grandi personaggi, dopo molto lavoro e non senza
la mescolanza di gravi errori. 14

15
Eppure la ragione è spinta da un impulso strutturale alla
ricerca di una soluzione.15 Anzi, la ragione, secondo la sua
natura, implica l’esistenza della soluzione.
L’uomo, dunque, pur avendo dimostrato lungo tutto il suo
cammino di aver percepito il senso di questa sproporzione
primordiale, avendola gridata e modulata in diversi accenti,
mostra però di non riuscire a ricordarsene nella sua pratica
di vita. Subentra sempre un desiderio di piegare il destino al
proprio volere, un desiderio di fissare il significato o il valore
a proprio piacimento.

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Capitolo primo
LA CREATIVITÀ RELIGIOSA DELL’UOMO

Di fronte all’enigma ultimo l’uomo ha cercato di immaginare


e definire tale mistero in rapporto a sé, di concepire quindi
un modo di relazione con esso e di esprimere tutti i riflessi
estetici che l’immaginazione di quell’Ultimo gli dava.1
Lo sforzo umano di immaginazione del rapporto col
Mistero è strettamente in funzione del nesso con il reale, e
perciò espressione ragionevole.2 In tutti i tempi , dunque – e,
si può ben dire, a ragion veduta –, l’uomo ha cercato di
immaginare la relazione che intercorre tra il punto effimero
della sua esistenza e il significato totale di essa. Non esiste
uomo che in qualche modo, anche senza pensarci, non
identifichi una risposta alla domanda circa ciò che
ultimamente lo costituisce.3 Per ciò stesso che uno vive
cinque minuti afferma l’esistenza di un qualcosa per cui
ultimamente vale la pena vivere in quei cinque minuti; per
ciò stesso che uno prolunga la sua esistenza, afferma
l’esistenza di un quid che sia ultimamente il senso per cui
vive.
La religione è l’insieme espressivo di questo sforzo
immaginativo, ragionevole nel suo impulso e vero per la
ricchezza cui può attingere, anche se degenerabile nella
distrazione e nella volontà di possesso del mistero. È un
complesso espressivo che sarà concettuale, pratico e rituale,
e che dipenderà dalla tradizione, dall’ ambiente, dal
momento storico, come anche da ogni singolo temperamento
personale. Ogni uomo infatti compie, lui personalmente, per
ciò stesso che esiste, questo tentativo di identificare, di
immaginare ciò che dà senso. Una religione dipende dalla
situazione storico-ambientale e temperamentale delle
persone.

17
Teoricamente ogni persona potrebbe creare la sua
religione.
Ma nella dinamica della vita umana c’è un ruolo che è
creativo di società: è il ruolo del genio. Il genio è un carisma
eminentemente sociale, che esprime in mezzo alla umana
compagnia i fattori sentiti dalla compagnia stessa in modo
talmente più acuto degli altri che tutti si sentono più espressi
dalla sua creatività che neanche dai loro tentativi. Così noi
sentiamo le nostre malinconie meglio espresse dai ritmi di
Chopin o dai versi di Leopardi che neanche se noi stessi ci
mettessimo ad articolare note o parole sull’argomento. Nella
storia umana il genio religioso coagula intorno a sé,
esprimendo il talento della stirpe meglio di chiunque altro,
tutti coloro che, partecipando al suo ambiente storico-
culturale, sentono in lui valorizzati i dinamismi della loro
ricerca dell’Ignoto.

1. Alcuni atteggiamenti della costruttività


religiosa
L’uomo, al vertice della sua ragione nella percezione del
mistero, in nessun momento della sua storia regge a lungo la
vertigine di tale intuizione. Non riuscendo a costruire in una
precarietà assoluta, come sarebbe l’affrontare la vita di
fronte all’enigma finale, l’uomo cerca quasi un terreno più a
propria misura, sul quale la sua creatività possa edificare il
«luogo» del suo rapporto col mistero. Di fronte al mistero
che percepisce come determinante per sé, l’uomo ne
riconosce la potenza e, non resistendo ad affidarsi sine
glossa a un "ignoto", cerca comunque d’immaginarlo in
rapporto a sé, secondo termini in funzione di sé.
Innumerevoli sono le tracce di questa creatività lasciate
dall’uomo lungo il suo cammino, dalla preistoria a oggi. Non
è però pertinente ai fini del nostro discorso né analizzare nel
dettaglio delle realizzazioni né pretendere di inventariare la
ricchezza e la profondità di questi tentativi dell’uomo.
Facciamo perciò esclusivamente un accenno

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all’atteggiamento originario che essi sottendono,
individuando modalità caratteristiche della costruttività
religiosa che valgono anche per esperienze indotte da
differenti circostanze.

1) L’uomo «non sa» e si sforza di impostare un rapporto di


scambio col mistero.

a) Una prima flessione di questo atteggiamento è quella per


cui l’uomo sente di doversi immergere nel flusso armonico
del cosmo e della storia e, stando alle regole di quella
armonia intravista come sospinta da una sua intima forza,
persegue il suo destino, e si immagina il mistero come
origine e risultato di quella armonia naturale cui egli cerca
d’obbedire.4
L’uomo cerca perciò di penetrare in ciò che non arriva a
conoscere postulando con esso un armonico accordo che egli
sarà in grado di «gestire».
Così l’Ignoto è trasfigurato in Armonia e si ipotizza un
mondo da essa governato, alle cui leggi l’uomo possa
applicarsi come a ogni altra legge.5

b) La seconda flessione si configura più decisamente come


un interscambio, un patto, un contratto tra le immaginate
potenze che guidano il mondo e l’uomo che vuol dare
significato ed efficacia al tempo che vive.6

2) L’uomo «non sa», ma rischia nel rivolgersi già fiducioso


nella buona disposizione dell’Altro.

Questo atteggiamento di fiducia è già presente nelle religioni


più antiche, come quella egizia. Un esempio particolarmente
significativo è offerto da un eloquente frammento di uno
degli inni di Amun di Leida: «Egli ha occhi e orecchi e vista
da ogni parte per colui al quale era affezionato. Egli ascolta
le preghiere di colui che lo chiama. Egli giunge in un istante
da lungi presso colui che lo invoca».>7

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Con lo stesso accento di fiducia in un mistero soccorritore
inizia il Corano, lo scritto sacro dei musulmani, e anche la
liturgia musulmana: «In nome del Dio misericordioso e
benigno» o, secondo un’altra versione, «Nel nome di Dio,
clemente e misericordioso». In alcuni tra i più antichi passi
coranici è mirabilmente espressa questa confidente
convinzione nella sollecitudine del Dio verso una creatura
che è «sua».

«Il Signore tuo non t’ha abbandonato né t’odia


e l’altra vita ti sarà più bella della prima
e ti darà Dio, e ne sarai contento.
(Ma già in questa vita ti ha dimostrato la sua
grazia)
Non t’ha trovato orfano e t’ha dato riparo?
Non t’ha trovato errante e t’ha dato la Via?
Non t’ha trovato povero e t’ha dato dovizia di
beni?»8

E come non ricordare, nel contesto della religione di Israele,


lo stupendo testo profetico di Osea, assunto poi anche dalla
tradizione cristiana? Qui il profeta proclama l’atteggiamento
di fiducia assoluta nella sollecitudine divina facendo parlare
così il Signore di Israele:

«Quando Israele era giovinetto, / io l’ho amato / e


dall’Egitto ho chiamato mio figlio. / Ma più li
chiamavo, / più si allontanavano da me; /
immolavano vittime ai Baal, / agli idoli bruciavano
incensi. / A Èfraim io insegnavo a camminare /
tenendolo per mano, / ma essi non compresero /
che avevo cura di loro. / Io li traevo con legami di

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bontà, / con vincoli d’amore; / ero per loro / come
chi solleva un bimbo alla sua guancia; / mi
chinavo su di lui / per dargli da mangiare».9

Vorrei concludere questi brevi accenni sulla creatività


religiosa considerando la dignità di questo sforzo dell’ uomo.
Ogni essere umano ha una inevitabile esigenza di cercare
quale sia il senso ultimo, definitivo, assoluto del suo punto
contingente. Ogni costruzione religiosa riflette il fatto che
ognuno fa lo sforzo che può ed è proprio questo che tutte le
realizzazioni religiose hanno in comune di valido: il tentativo.
Tutto ciò che di differente hanno è il modo d’espressione,
che dipende da molti fattori; ma tali varianti mai intaccano il
valore detto.

2. Un ventaglio di ipotesi
1) Accorgendosi dell’esistenza di molte religioni l’uomo
consapevole potrebbe avere l’impressione che per essere
sicuro della verità della propria scelta debba incominciare
con lo studiarle tutte, paragonarle tra loro e scegliere. Egli
infatti si domanda: «Come si fa a definire e a riconoscere il
valore dell’una o dell’altra costruzione?», poiché
sembrerebbe logico esigere l’adesione a quella constatata
come la migliore. Questa posizione è resa ufficiale dal
razionalismo moderno e contemporaneo: solo conoscendo
tutte le religioni un individuo potrebbe scegliere quella che
in coscienza gli sembri la più opportuna o più vera. Ma qui si
rivela l’astrattezza di tale posizione: non è un ideale, ma
un’utopia. Infatti suggerirebbe un lavoro praticamente
irrealizzabile. 10
Sperare di conoscere tutte le religioni per poter poi
procedere a scegliere la migliore è utopico, e ciò che è
utopico è falsamente ideale. L’ideale è la dinamica in

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cammino della natura dell’uomo e a ogni passo qualcosa di
esso si adempie. L’utopia è fuori da questa natura; essa è un
sogno sovrapposto, spesso pretesto per sfuggire o per
forzare la realtà. L’utopia è sempre violenza. Assumere di
dover conoscere tutte le religioni che la storia umana
produce, al fine di poter operare una scelta razionalmente
dignitosa, è un criterio la cui astrattezza coincide con una
impossibilità di applicazione.

2) Si potrebbe allora ripiegare sul criterio di cercare almeno


di conoscere le religioni più "importanti" o quelle
numericamente più seguite: per esempio, l’ebraismo, il
cristianesimo, l’islam, il buddismo. Ma questo criterio risulta
inevitabilmente parziale. Ad esempio lo sarebbe stato 2000
anni fa a Roma, quando scrivevano Tacito e Svetonio, e c’era
nell’Urbe un gruppetto di persone che sia Tacito sia Svetonio
credevano «piccola setta» di ebrei legati «a un certo Cristo».
11 Erano cristiani, e se io fossi vissuto a quell’epoca e in quei
luoghi e avessi seguito il suggerimento di una opinione colta,
avrei dovuto trascurare quel minuscolo gruppo d’uomini e
non avrei mai scoperto che la mia verità era invece proprio
lì. Se un criterio è un criterio vero dovrebbe essere
applicabile comunque.

3) Un’ultima immagine dell’astratta pretesa illuminista è


l’idea sincretista: quella di creare una specie di religione
universale che via via prenda da tutte le religioni il meglio;
sempre quindi cangiante, una sintesi del meglio
dell’umanità. Ma non ci si accorge come il meglio per l’uno
può non essere il meglio per l’altro. Ci troviamo di fronte alla
classica presunzione di una società per cui il popolo deve
essere supino alla volontà di un gruppo di illuminati. Se cioè
il mio temperamento religioso arriva a scoprire A e quello di
un altro giunge a B e se una terza persona volesse creare un
C composto dal meglio di A e dal meglio di B, questo C non
avrebbe comunque le caratteristiche di universalità
richieste, perché sarebbe in ogni caso una scelta altrettanto
temperamentale come A e B.

22
4) Sembra più giusta invece la soluzione empirica. L’uomo
nasce in un certo ambito, in un certo momento storico, la
religione che esprime il suo ambiente ha molta probabilità di
essere l’espressione religiosa meno inadeguata al suo
temperamento. Perciò, se si vuol proprio dare una norma,
non assoluta, ma di convenienza, si dovrebbe dire: ogni
uomo segua la religione della sua tradizione.
Può essere che un incontro nella vita faccia balenare la
presenza di un annuncio, di una dottrina, di una morale, di
una emozione più adeguata alla propria ragione maturata, o
alla storia del proprio cuore. Allora uno potrà «cambiare»,
«convertirsi» (Newman osserva che la «conversione» altro
non è che la scoperta più profonda e più autentica di ciò cui
si aderiva prima).12
Ma il consiglio di vivere la religione della propria
tradizione rimane l’indicazione fondamentale senza pretese.
E in questo senso tutte le religioni sono "vere". L’unico
dovere che l’uomo ha è quello della serietà nell’ aderirvi.

23
Capitolo secondo
L’ESIGENZA DELLA RIVELAZIONE

Di fronte al suo destino, al senso ultimo di sé, l’uomo


immagina le sue vie, proiezione delle sue risorse, ma, nella
misura della serietà del suo pensiero e della sua emozione,
soffre l’enigma ultimo come bufera d’incertezza o solitudine
di smarrimento.
Unico aiuto adeguato alla riconosciuta impotenza
esistenziale dell’uomo non può essere che il divino stesso,
quella divinità nascosta, il mistero, che in qualche modo si
coinvolga con la fatica dell’uomo illuminandolo e
sostenendolo nel suo camminare.
Ciò non può essere che ipotesi perfettamente ragionevole,
corrispondente cioè all’impeto e coerente alla apertura
dell’umana natura, pienamente inscritta dentro la grande
categoria della possibilità. La ragione non riesce a dir nulla
di ciò che il mistero possa o non possa fare: proprio per
essere fedele a se stessa non può escludere nulla di ciò che il
mistero possa intraprendere.
Se la ragione pretendesse di imporre una misura al divino,
ad esempio un’impossibilità di questo a entrare comunque
nel gioco dell’uomo per sostenerlo nel suo cammino, se
arrivasse alla negazione della rivelazione sarebbe l’ultima
estrema forma di idolatria, l’estremo tentativo della ragione
per imporre a Dio una propria immagine di Lui. Prima di ogni
altra considerazione, sarebbe un gesto supremo di
irrazionalità.
Il presentimento o l’affermazione di quell’ipotesi di aiuto
per l’uomo sta nel cuore della più grande arte di tutti i luoghi
e di tutti i tempi. Da Platone a Leopardi si può leggere il
grido della ragione che si lancia verso questa ipotesi, che in
varia misura emerge, tanto essa è razionale, tanto è secondo
la nostra natura!

24
1. Qualche esempio
Vediamo ora qualche esempio di come l’esigenza e la pretesa
rivelativa si possano articolare nella storia religiosa
dell’umanità. Di fatto l’esigenza di una rivelazione sottende
l’attesa di una risposta adeguata da parte di quel senso della
vita che non può essere braccato dall’uomo, né come
conoscenza teorica, né come competitività di forze.
Ci inoltreremo in un percorso veloce di alcune
testimonianze sintetiche di grandi studiosi con l’unico scopo
di documentare quanto l’esigenza che il mistero corrisponda
alla domanda umana ultima sia sperimentata come un
palesarsi del mistero stesso, un suo rendersi presente al
camminare faticoso dell’ uomo.

a) La prima osservazione è d’ordine conoscitivo. L’uomo ha


sempre espresso nella sua storia la convinzione di poter
essere illuminato sul «tutt’altro» da sé, sull’Ignoto, in quanto
esso vuole proprio manifestarsi nella realtà. «L’uomo –
osserva Julien Ries – conosce il sacro perché il sacro si
manifesta. Una ierofania è una manifestazione del sacro,
vale a dire un atto misterioso per cui il "tutt’altro" si
manifesta in un oggetto o in un essere di questo mondo
profano.»1
Per l’uomo, perciò, si sono moltiplicati i luoghi ideali, i
luoghi «sacri» di queste manifestazioni.2
Così il simbolo e il mito sono stati vissuti nella storia
dell’uomo come i grandi strumenti per eccellenza conoscitivi
e rivelativi del mistero, mezzi per superare l’effimero e
immergersi in ciò che è destinato a durare. Come osserva
Eliade, «per il mondo arcaico il mito è reale poiché racconta
le manifestazioni della vera realtà: il sacro».3 «Il mito –
secondo la definizione di Ries – è una storia vera, sacra ed
esemplare, che ha un senso specifico e comporta una
ripetizione, ciò che dà luogo a una tradizione. [...] I miti
hanno la funzione di destare e mantenere la coscienza di un
mondo diverso dal mondo profano, il mondo divino».4 Fa

25
parte dei più nobili tra gli sforzi umani quello di superare
l’apparenza e la contingenza, per tentare di raggiungere la
vita in ciò che ha di più incorruttibile, originale e misterioso.
«Il simbolismo religioso, colto nell’esistenza e nella vita
dell’homo religiosus, ha una sua funzione di rivelazione. [...] I
simboli religiosi che toccano le strutture della vita rivelano
una vita che trascende la dimensione naturale e umana.»5

b) La seconda osservazione, già implicita nella prima,


riguarda il fatto che l’uomo ha sempre riconosciuto, oltre che
la necessità di un tramite di realtà cosmiche e naturali per il
suo contatto con il divino, anche il costante bisogno del
tramite di altri uomini.6
Notevole è l’esempio di un’antica forma di sciamanesimo
cinese, il wuismo. I Wu avevano la caratteristica di poter
entrare «personalmente in stretto contatto con divinità e
spiriti».7 Toccante è un brano poetico che descrive un
incontro con la divinità. Dice la donna Wu:

«Con grandi slanci scende il mio dio. Oh, eccolo!


Tutto luce e splendore, così chiaro e senza
limiti!».

E, dopo il rito di ospitalità, quando il dio se ne va e la donna


lo guarda scomparire, ecco il suo rimpianto:

«Ma grande è il desiderio di dio,


profondo il mio sospiro.
Contrito è il mio cuore e affaticato di tristezza».8

26
In questa attesa di rivelazione si avverte un’ansia, un
turbamento che nasce dall’intuizione che in quell’incontro si
sta ripristinando un rapporto perduto. «In tutta la storia
della Cina si ritrova ciò che si potrebbe chiamare la nostalgia
del Paradiso, vale a dire il desiderio di ricostituire, mediante
l’estasi, una "situazione primordiale": quella rappresentata
dall’unità/totalità originaria (huen-tuen), o il tempo in cui si
poteva essere in contatto diretto con gli dei.»9
Naturalmente la storia umana ha visto molte altre versioni
di questa specializzazione del sacro, o meglio di questo
affidarsi degli uomini ad altri uomini per il loro rapporto col
divino.
V’è una declinazione del fenomeno più strettamente
politica. Un esempio viene dal Tibet: «La funzione del re era
fondamentale nella religione tradizionale. La natura divina
del sovrano si manifestava nel suo "splendore" e nei suoi
poteri magici: i primi re restavano sulla terra soltanto il
giorno, mentre la notte tornavano in Cielo; non conoscevano
la morte propriamente detta, ma a un determinato momento
risalivano definitivamente in Cielo sulla loro corda magica,
mu (o dmu) [...], corda che nel pensiero religioso tibetano
[...] assolve una funzione cosmologica – quella di collegare la
Terra al Cielo come un axis mundi».10

c) Significativa della profondità quasi sconvolgente del


desiderio umano di rivelazione è, nel contesto delle religioni
dell’antica Grecia, così lontana da una speranza di rapporto
col divino, l’esperienza dionisiaca.11
D’altra parte, in epoca imperiale romana, «un’epoca
terrorizzata dall’onnipotenza del destino», risuona negli
scritti dell’ermetismo popolare l’incessante testimonianza al
fatto che la presenza del dio risponderebbe alla più intima
sete umana di conoscenza e di dominio della natura per una
vita migliore: «Poiché si tratta di scoprire tutta una rete di
simpatie e di antipatie che la natura tiene nascoste, com’è
possibile penetrare questo segreto, se un dio non lo
rivela?».12

27
d) Ciò che accomuna gli iniziatori di religioni è la certezza di
essere portatori di una essenziale rivelazione del dio.
Dice Eliade parlando della religione iranica: «Zarathustra
dichiara di aver "riconosciuto" Ahura Mazda "col pensiero",
"come il primo e l’ultimo" (Yasna, 31:8), cioè in quanto
principio e fine». Egli «riceve la rivelazione della nuova
religione direttamente da Ahura Mazda. Accettandola, egli
ricalca l’atto primordiale del Signore – la scelta del Bene
(Yasna, 32:2) – e null’altro chiede ai suoi fedeli».13
«Zarathustra interroga il suo Signore [...] e le sue domande
sulla Creazione si susseguono a un ritmo sempre più
concitato. Ma egli vuol sapere anche in che modo la sua
anima, "giunta al Bene, sarà colmata di gioia" e "come ci
libereremo dal male".»14 Eterne domande, il cui ritmo sarà
concitato per tutta la durata del tempo: rispetto a esse
l’uomo si è sempre aspettato risposta dall’Origine misteriosa
di tutto.

Diverso il clima dei testi del Corano, ma identica a tutte


quelle già brevemente citate l’affermazione che a un uomo,
eletto da Dio, viene data la rivelazione che permetterà a lui e
all’umanità di conoscerlo meglio e di vivere in modo più
adeguato alla dignità umana. Il Corano descrive i modi della
rivelazione: «A nessun uomo Dio può parlare altro che per
Rivelazione, o dietro un velame, o invia un Messaggero il
quale riveli a lui col Suo permesso quel che Egli vuole». 15 E
diverse sono le circostanze e le figurazioni attraverso cui
questa attività rivelativa di Dio raggiunge il suo eletto.16

Nell’esperienza del fondatore del manicheismo, Mani,


troviamo anche la sicurezza di aver realizzato una grande
religione universale, secondo quanto aveva appreso dalle
rivelazioni ricevute all’età di 12 e 24 anni quando «un angelo
gli comunicò i messaggi del "Re del Paradiso della luce" (il
Dio supremo e buono del manicheismo)», dandogli questa
certezza: «Come un fiume confluisce in un altro per formare

28
una corrente vigorosa, così i libri antichi sono confluiti nelle
mie Scritture, e hanno formato una grande Sapienza, quale
essa non è mai stata nelle generazioni precedenti».17 Ma la
consapevolezza del fondatore è di aver fatto qualcosa che gli
viene dall’alto. Così lo esprime in un tempestoso colloquio
col suo re: «Quando Mani proclama il carattere divino della
propria missione, Bahram esclama: "Perché questa
rivelazione è stata fatta a te e non invece a Noi, che siamo i
signori del paese?". Mani non può che rispondere: "Perché
tale è la volontà di Dio”».18
e) Da ultimo citiamo la certezza rivelativa della fede di
Israele, la più familiare all’Occidente cristiano. «La fede
d’Israele non si presenta come una proclamazione della
purissima trascendenza di Dio attraverso una collezione di
astratti teoremi teologici, ma neppure — come avviene
invece nella religione indigena cananea — si pone come una
celebrazione immanentistica della divinità, ridotta ai
meccanismi biologici della fecondità sessuale e dei ritmi
stagionali. Il "credo" d’Israele, attestato da Dt 26,4-9; Gs
24,1-13; Sal 136, sceglie invece la storia e il tempo come
l’ambito privilegiato entro cui Dio si rivela. Egli, perciò, resta
trascendente ma affida la sua presenza e la sua parola alla
realtà che maggiormente inerisce all’uomo, la storia.»19
Questa concezione di un Dio che si rivela nella storia
implica l’intuizione della possibile continuità di relazione tra
l’uomo e Dio, che «l’avvenimento» concretizza come spunto,
stimolo, insegnamento. «La fede di Israele è stata sempre un
rapporto con un avvenimento, con un’auto-attestazione
divina nella storia.»20
Tale continuità è trascinatrice della vicenda di tutto un
popolo. «Noi scorgiamo questo popolo perennemente
sospinto, mosso, formato, trasformato, annientato e
risorgente a opera della parola di Dio pronunciata sempre di
nuovo.»21
Potremmo dire, con uno studioso dell’Antico Testamento:
«In sintesi, Jahve e l’uomo sono sempre in relazione, ma

29
questa relazione è anteriore e preparatoria alla rivelazione
propriamente detta: essa appare condizione dell’incontro
perfetto».22

2. fronte a una inimmaginabile pretesa


Abbiamo visto nel capitolo precedente che, nel nobile sforzo
razionale, morale ed estetico che esprimono, tutte le
religioni sono vere e che l’uomo, indotto dalle esigenze della
sua umanità, deve compiere questo sforzo e avere quindi
una religione.
Abbiamo poi visto che l’esigenza di una rivelazione è alla
radice del tentativo e questo vale per le più diverse
esperienze religiose.
Nella libertà e pluriformità dei tentativi e dei messaggi, se
c’è un delitto che una religione può compiere è quello di dire
«io sono la religione, l’unica strada».
È esattamente ciò che pretende il cristianesimo. Sarebbe
delitto in quanto risulterebbe una imposizione morale della
propria espressione agli altri.
Conseguentemente non è ingiusto sentirsi ripugnare di
fronte a tale affermazione: ingiusto rimarrebbe non
domandarsi il perché di tale affermazione, il motivo di questa
grande pretesa.

30
Capitolo terzo
L’ENIGMA COME FATTO NELLA
TRAIETTORIA UMANA

Il pretendere una rivelazione riassume la situazione dello


spirito umano nel concepire e realizzare il rapporto col
divino secondo un’alternativa che questo schema esprime.

La linea orizzontale rappresenta la traiettoria della storia


umana sopra la quale incombe la presenza di una X: destino,
fato, quid ultimo, mistero, «Dio».
L’umanità, in qualunque momento della sua traiettoria
storica, teoricamente o praticamente ha cercato di capire il
rapporto che intercorreva tra la propria realtà contingente, il
proprio punto effimero e il senso ultimo di esso; ha cercato
di immaginare e vivere il nesso tra il proprio effimero e
l’eterno. Supponiamo ora che l’enigma della X, l’enigmatica
presenza che incombe oltre l’orizzonte, senza della quale la
ragione non potrebbe essere ragione, poiché essa è
affermazione di significato ultimo, penetrasse nel tessuto
della storia, entrasse nel flusso del tempo e dello spazio, e
con forza espressiva inimmaginabile si incarnasse in un
«Fatto» tra noi. Ma che significa «incarnarsi», in questa
ipotesi? Significa supporre che quella X misteriosa sia
diventata un fenomeno, un fatto normale rilevabile nella
traiettoria storica e agente su di essa.
Questa supposizione corrisponderebbe alla esigenza della
rivelazione. La possibilità che il mistero che fa le cose arrivi

31
a implicarsi nella traiettoria storica, coinvolgendosi
direttamente e personalmente con l’uomo, sarebbe
irrazionale escluderla: abbiamo già visto come per natura
nostra non possiamo prescrivere confini al mistero.
Perciò, data la possibilità del fatto e la razionalità
dell’ipotesi, che ci resta da fare di fronte a essa? L’unica cosa
da fare è domandarsi: è accaduto o no?
Se fosse accaduto, questa strada sarebbe l’unica, non
perché le altre siano false, ma perché l’avrebbe tracciata
Dio; storicamente il mistero si sarebbe posto come un fatto
cui nessuno, che a esso fosse seriamente e realmente messo
di fronte, potrebbe sottrarsi senza rinnegare il proprio stesso
cammino.
Accettando e percorrendo quella strada tracciata da Dio,
l’uomo potrà accorgersi che nel paragone con le altre essa si
mostra più umana come sintesi, più compiuta nella
valorizzazione dei fattori in gioco. Seguendo quel cammino
eccezionale, a priori io dovrei capire meglio anche gli altri
cammini man mano che ne vengo a conoscenza; acquisterei
così la capacità di cogliere tutto ciò che di buono ci fosse
anche nelle altre strade; e sarebbe un’esperienza
valorizzatrice, ampia, larga, colma di magnanimità. Si
tratterebbe di un’esperienza capace di abbracciare la
totalità dei valori, «cattolica», nel suo senso etimologico:
secondo l’interezza, universale. Dice un documento del
Concilio Vaticano II: «La Chiesa cattolica non rifiuta nulla di
ciò che è vero e santo in queste religioni. Essa considera con
rispetto sincero questi modi d’agire e di vivere, queste
regole e dottrine che, benché differiscano in molti punti da
ciò che essa ritiene e propone, tuttavia apportano spesso un
raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini. [...] Essa
esorta, dunque, i suoi figli affinché, con prudenza e carità,
tramite il dialogo e la collaborazione con coloro che seguono
altre religioni, e, pur testimoniando la fede e la vita cristiane,
essi riconoscano, preservino e facciano progredire i valori
spirituali, morali e socioculturali che si trovano in loro».1
Nell’ipotesi che il mistero incombente al di là dell’
orizzonte di qualsiasi passo d’uomo abbia rotto la linea

32
dell’arcano e sia penetrato sul cammino di quei passi, ci
troviamo di fronte a un cambiamento radicale che distingue
questa modalità "religiosa" da ogni altro tentativo dell’uomo
di rapportarsi all’ignoto: ma prendere in seria
considerazione che quell’ipotesi sia vera nulla può togliere
all’attenta capacità simpatetica verso ogni ricerca umana.

1. Un capovolgimento del metodo religioso


Nell’ipotesi che il mistero sia penetrato nell’esistenza
dell’uomo parlandogli in termini umani, il rapporto uomo-
destino non sarà più basato su sforzo umano, come
costruzione e immaginazione, su uno studio volto a una cosa
lontana, enigmatica, tensione di attesa verso un assente.
Sarà invece l’imbattersi in un presente. Se Dio avesse
manifestato nella storia umana una sua volontà particolare,
avesse tracciato una sua strada per raggiungerlo, il
problema centrale del fenomeno religioso non sarebbe più il
tentativo, che pure esprime la più grande dignità dell’uomo,
di «fingersi» il dio: il problema starebbe tutto nel gesto puro
della libertà che accetti o rifiuti. Questo è il capovolgimento.
Non è più centrale lo sforzo di una intelligenza e di una
volontà costruttiva, di una faticata fantasia, di un complicato
moralismo: ma la semplicità di un riconoscimento; un
atteggiamento analogo a chi, vedendo arrivare un amico, lo
individua tra gli altri e lo saluta. La metodologia religiosa
perderebbe in questa ipotesi tutti i suoi connotati inquietanti
di rimando enigmatico a una lontananza, e coinciderebbe
con la dinamica di un’esperienza, l’esperienza di un
presente, l’esperienza di un incontro.
È da notare come il primo metodo favorisce l’intelligente, il
colto, il fortunato, il potente; nel secondo metodo viene
favorito il povero, l’uomo comune. L’imbattersi in una
persona presente è un’evidenza facile per il bambino e per il
grande. Nella dinamica rivelativa di questa ipotesi l’accento
primo non sarebbe più sulla genialità e sull’intraprendenza,
ma sulla semplicità e sull’amore. Amore che rappresenta

33
l’unica vera dipendenza dell’uomo, l’affermazione dell’Altro
come consistenza di se stessi, scelta suprema della libertà.
In simile ipotesi, comunque, l’affermazione dell’unicità
della strada che ne consegue non sarebbe più espressione di
presunzione, ma obbedienza a un fatto, al Fatto decisivo del
tempo.
Rimane lo spazio a una sola fuga: negare la possibilità
stessa di questo Fatto. Tale delitto contro la suprema
categoria della ragione, la categoria della possibilità,
stigmatizzava il fraticello di Graham Greene, di fronte
all’imperversare dell’odio del «libero pensatore», quando in
La fine dell’avventura ne mostrava la profonda
contraddizione dicendo che gli pareva più libero pensiero
l’ammettere tutte le possibilità, piuttosto che precludersene
qualcuna.2

2. Un’ipotesi che non è più solo ipotesi


Abbiamo visto che questa ipotesi è possibile e che, se fosse
vera, rivoluzionerebbe la metodologia religiosa; dobbiamo
riconoscere ora che essa è stata ed è ritenuta vera nella
storia dell’uomo. L’annuncio cristiano dice: «Sì, questo è
accaduto».
Immaginiamo il mondo come un’immensa pianura, in cui
innumerevoli gruppi umani sotto la direzione dei loro
ingegneri e architetti s’affannino con progetti di forme
disparate a costruire ponti dalle migliaia di arcate che siano
raccordo tra la terra e il cielo, fra il luogo effimero della loro
dimora e la «stella» del destino. La pianura è affollata da uno
sterminato numero di cantieri in cui si svolge il lavoro
febbrile. Arriva a un determinato momento un uomo e con lo
sguardo abbraccia tutto quell’intenso lavoro di costruzione e,
a un certo punto, egli grida: «Fermatevi!». Tutti via via, a
cominciare dai più vicini, sospendono il lavoro e lo guardano.
Egli dice: «Siete grandi, e nobili, il vostro sforzo è sublime,
ma triste, perché non è possibile che voi riusciate a costruire
la strada che unisca la vostra terra al mistero ultimo.

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Abbandonate i vostri progetti, posate i vostri strumenti: il
destino ha avuto pietà di voi; seguitemi, il ponte lo costruirò
io: io infatti sono il destino».
Proviamo a immaginare la reazione di tutta quella gente di
fronte ad affermazioni simili. Gli architetti per primi, i capi-
cantiere, gli artigiani migliori istintivamente si troverebbero
a dire ai loro operai: «Non fermate il lavoro, coraggio:
rimettiamoci all’opera. Non vi rendete conto che quest’uomo
è un pazzo?». «Certo, è pazzo» — echeggerebbe la gente —.
«Si vede che è pazzo» — commenterebbe riprendendo il
lavoro secondo l’ordine dei suoi capi —. Alcuni soltanto non
distolgono da lui lo sguardo, ne sono profondamente colpiti,
non obbediscono come la massa ai loro capi, gli si
avvicinano, lo seguono.
Ebbene, dentro questa forma fantastica, c’è quanto nella
storia è accaduto, quanto nella storia accade ancora.
Arrivati a questo punto non ci troviamo più di fronte a un
problema di ordine teorico (filosofico o morale), ma di fronte
a un problema storico. La prima domanda di cui ci dobbiamo
investire non è: «È ragionevole o giusto quel che dice
l’annuncio cristiano?», ma: «È vero che sia accaduto o no?»,
«È vero che Dio è intervenuto?».
Vorrei notare, benché implicito in quanto detto finora, la
differenza di metodo richiesta dall’affrontare la «nuova»
domanda. Tale differenza si potrebbe enunciare così. Mentre
la scoperta dell’esistenza di un quid misterioso, del dio, può
e deve essere ottenuta dall’uomo attraverso una percezione
analitica dell’esperienza che fa del reale (e abbiamo visto
come la storia ampiamente possa documentare che
normalmente così viene ottenuta), il problema di cui ora
stiamo parlando, essendo un fatto storico, non può essere
verificato con la riflessione analitica sulla struttura del
proprio rapporto con il reale. È un dato di fatto accaduto o
no nel tempo: o c’è o non c’è, o si è verificato o non si è
verificato. O è effettivamente un avvenimento emerso
nell’esistenza dell’uomo dentro la storia, e richiede perciò la
constatazione di un accaduto, o resta un’idea. Di fronte a
quest’ ipotesi il metodo è la registrazione storica di un fatto

35
oggettivo.
La domanda: «È vero che Dio è intervenuto nella storia?» è
allora costretta soprattutto a riferirsi a quella pretesa senza
paragone che rappresenta il contenuto di un ben preciso
messaggio, è costretta a diventare quest’altra domanda:
«Chi è Gesù?». Il cristianesimo sorge come risposta a questa
domanda.

3. Un problema che deve essere risolto


Dice Dostoevskij ne I fratelli Karamazov: «La fede si riduce a
questo problema angoscioso: un uomo colto, un europeo dei
nostri giorni può credere, credere proprio, alla divinità del
figlio di Dio, Gesù Cristo?».
Al livello di tale domanda si gioca ormai la questione
religiosa: in qualsiasi caso, per qualsiasi individuo che venga
raggiunto da questa notizia, il semplice fatto che ci sia anche
un uomo solo che affermi: «Dio è diventato uomo» pone un
problema radicale e ineliminabile per la vita religiosa
dell’umanità.
E Kierkegaard nel suo Diario scrive: «La forma più bassa
dello scandalo, umanamente parlando, è lasciare senza
soluzione tutto il problema intorno a Cristo. La verità è che è
stato completamente dimenticato l’imperativo cristiano: tu
devi. Che il cristianesimo ti è stato annunciato significa che
tu devi prendere posizione di fronte a Cristo. Egli, o il fatto
che Egli esiste, o il fatto che sia esistito è la decisione di tutta
l’esistenza». Ci sono certi richiami che, per la loro radicalità,
quando un uomo li ha percepiti, se agisce da uomo, non
possono essere eliminati, censurati. L’uomo è costretto a dire
sì, oppure no. Per il fatto che viene raggiunto dalla notizia
che un uomo ha dichiarato: «Io sono Dio», l’uomo non può
disinteressarsene, dovrà cercare di raggiungere il
convincimento che la notizia è vera o che è falsa. Un uomo
non può accettare passivamente di essere distolto, distratto
da un problema del genere, ed è in questo senso che
Kierkegaard usa la parola «scandalo», secondo la sua

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etimologia greca, dove «skándalon» significa impedimento.
Impedirebbe a se stesso d’essere uomo colui che subito o
lentamente si lasciasse portar via dalla possibilità di farsi
un’opinione personale intorno al problema di Cristo. Per
inciso vorrei notare che si può essere convinti di vivere da
cristiani, inseriti in qualcosa che definirei una «truppa
cristiana», senza che questo problema sia stato veramente
risolto per la propria persona, senza che essa sia stata
liberata da quell’impedimento.
Un fatto ha una sua inevitabilità. Nella misura in cui il fatto
ha un contenuto importante, eluderlo, con la persistente e
irrazionale distrazione di cui l’uomo è paradossalmente
capace, deforma gravemente la personalità umana. Se uno
stesse guidando un camioncino lungo una strada larga due
metri e si trovasse improvvisamente la strada occupata da
una frana, quel guidatore non potrebbe procedere, dovrebbe
darsi da fare per risolvere la situazione. Quel guidatore si
troverebbe di fronte a ciò che Kierkegaard chiamava nel
brano citato un «deve», un imperativo, un problema che
occorre sciogliere.
Ebbene, l’imperativo cristiano è che il contenuto del
messaggio suo si pone come un fatto. Ciò non sarà mai
sottolineato a sufficienza. Un’insidiosa slealtà culturale ha
reso possibile, per l’ambiguità e la fragilità anche dei
cristiani, la diffusione di una vaga idea di cristianesimo come
discorso, dottrina e perciò magari favola o morale. No: è
anzitutto un fatto, un avvenimento, un uomo che è entrato
nel novero degli uomini.
L’imperativo riguarda però anche un’altra flessione del
fatto: la venuta di quell’uomo è una notizia trasmessa fino a
oggi, fino a oggi quell’evento è stato proclamato, annunciato,
come l’evento di una Presenza. Che un uomo abbia detto: «Io
sono Dio» e che questo venga riferito come un fatto presente
è qualcosa che richiede prepotentemente una presa di
posizione personale. Si può sorriderne, si può decidere di
non curarsene: ciò significherà comunque che si è voluto
risolvere il problema negativamente, che non si è voluto
prendere atto di trovarsi di fronte a una proposta dei cui

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termini nessuna umana immaginazione potrà fantasticare
qualcosa di più grande.
Ecco perché la società così spesso non vuol saperne di
questo annuncio, vuole confinarlo nelle chiese, nelle
coscienze. Ciò che disturba è proprio la percezione della
enormità dei termini del problema: che Egli sia o non sia
esistito; meglio, constatare o non constatare che Egli sia, o
sia esistito, questa è la decisione più grande dell’esistenza.
Nessun’altra scelta che la società può proporre o l’uomo
immaginare come importante ha questo valore. E ciò suona
come un’imposizione; affermare il contenuto cristiano
sembra dispotismo. Ma è dispotismo dare notizia di una cosa
accaduta, per quanto grande possa essere?

4. Un problema di fatto
Occorre rendersi ben conto che il problema riguarda una
questione di fatto. È amaro, dal punto di vista della ragione,
che tutti datino tutto a partire da quando Cristo è nato, e
tanti non si siano mai domandati in che cosa consista
storicamente il problema di Cristo. Non è un problema di
pareri, di gusti, e neanche è un problema di analisi
dell’animo religioso. Un’indagine sul senso religioso non
porta a capire se il cristianesimo ci trasmette una notizia
vera o falsa. Ho già enunciato questa posizione nel primo
volume di questo corso:3 il metodo è imposto dall’oggetto,
non è fissato dal soggetto. Il senso religioso è un fenomeno
della persona, perciò abbiamo chiarito come il metodo per
affrontarlo - ed è sempre da rinnovare questo approccio - sia
la riflessione su se stessi. Invece se Cristo abbia detto o no di
essere Dio, e che sia o non sia Dio, e che ci raggiunga ancor
oggi, è un problema storico, perciò il metodo deve essere
corrispondente, e corrispondente alla gravità del problema.

Riguardo a questo vorrei fare una breve parentesi. Si


sentono talvolta espressioni di questo genere: «I cristiani
hanno Cristo, così come i buddisti hanno Budda o i

38
musulmani hanno Maometto». È evidente che frasi di questo
genere sono frutto di ignoranza. Occorre però rendersene
sia pur brevemente conto.
L’annuncio cristiano è: un uomo che, mangiando,
camminando, consumando normalmente la sua esistenza di
uomo ha detto: «Io sono il vostro destino», «Io sono Colui di
cui tutto il Cosmo è fatto». È obiettivamente l’unico caso
della storia in cui un uomo si sia non genericamente
«divinizzato» ma sostanzialmente identificato con Dio. Dal
punto di vista della storia del sentimento religioso
dell’umanità occorre osservare che la genialità religiosa
dell’uomo quanto più è grande tanto più percepisce,
sperimenta, la sua distanza da Dio o la supremazia di Dio, la
sproporzione tra Dio e l’essere umano. L’esperienza religiosa
è proprio la coscienza vissuta della piccolezza dell’uomo,
della incommensurabilità del mistero. Si narra che san
Francesco fu sorpreso nei boschi della Verna, carponi con la
faccia immersa nel sottobosco, a ripetere: «Chi sei tu? Chi
sono io?»,4 stabilendo così la differenza abissale tra i due
poli, l’uomo e Dio, che creano il fascino del sentimento
religioso. Quanto più questo sentimento è profondo, quanto
più è come un fulmine che scocca potente, luminoso e
bruciante, tanto più l’uomo sente la differenza di potenziale
tra questi due poli. Quanto più un uomo ha il genio del
religioso tanto meno sente la tentazione di identificarsi col
divino. L’uomo può sì agire «fingendosi» dio, ma
teoricamente è impossibile concepire una identificazione.
L’uomo non può strutturalmente identificare la sua evidente
parzialità con il tutto, eccetto che per una clamorosa,
manifesta patologia. Il dinamismo normale dell’intelligenza è
impossibilitato a questa tentazione, perché ogni tentazione
dovrebbe, per sussistere, prendere lo spunto da una
verosimiglianza, da una parvenza di possibilità; e che l’uomo
si concepisca realmente Dio è senza verosimiglianza, senza
parvenza di possibilità.

39
Capitolo quarto
COME È SORTO NELLA STORIA IL
PROBLEMA

C’è un fatto nella storia il quale pretende di essere la


realizzazione propria della ipotesi che il mistero sia entrato
nella traiettoria storica come un fattore di essa, come fattore
perciò terrestre, umano.
Abbiamo visto che la genialità religiosa è tanto più vera
quanto più è lontana da questa pretesa. Ora, noi ci troviamo
di fronte a un fenomeno religioso che invece si fonda su
questa pretesa.
Accostiamo dapprima quanto ci è stato tramandato come
registrazione del dato; in un secondo momento affronteremo
più da vicino il contenuto della pretesa.

1. Il fatto come criterio


Noi disponiamo di un documento storico che è arrivato fino a
noi a mostrarci come per la prima volta sia sorto il problema:
i Vangeli. La natura di questo documento ha posto dei
problemi all’indagine storica. Prima di addentrarci nella pura
registrazione dei fatti così come ci sono pervenuti,
premettiamo dunque qualche osservazione.

a) Cominciamo col chiarire ciò che i Vangeli non sono: in


questo modo eviteremo di usare, per accostarli, un metodo
inadeguato all’oggetto, poiché, come abbiamo ricordato, non
si potrà conoscere un oggetto se non attraverso il metodo
che esso esige per essere affrontato.1
I Vangeli non sono, come è stato ampiamente
documentato, «rapporti stenografici»2 di quello che Gesù

40
faceva e diceva, né vogliono o possono essere «resoconti o
protocolli storici»3 dei suoi discorsi.
Ecco come il documento conciliare Dei Verbum definisce
l’attività degli evangelisti: «Gli apostoli, dopo l’ascensione
del Signore, hanno trasmesso ai loro ascoltatori ciò che egli
aveva detto e fatto, con quella più completa intelligenza di
cui essi, ammaestrati dagli eventi gloriosi di Cristo e
illuminati dallo Spirito di verità, godevano. E gli autori sacri
hanno scritto i quattro Vangeli, scegliendo alcune cose fra le
molte che venivano tramandate a voce o anche per iscritto,
sintetizzandone alcune, spiegandone altre in rapporto alla
situazione delle chiese, conservando infine il carattere di
annuncio, sempre però in modo tale da riferire su Gesù con
sincerità e verità».4
Siamo in questo modo avvertiti di non essere messi di
fronte a tutti i fatti accaduti, ma certo a dei fatti accaduti,
consegnatici dal ricordo di testimoni mossi dall’urgenza e
dall’imperativo di farne conoscere la portata ai singoli e
all’umanità.
Se, per esempio, un’auto nuova, a lungo desiderata e
comprata con sacrifici, mi fosse stata rubata e fosse poi
ritrovata, ecco due modi diversi con cui io potrei venire a
saperlo. Potrei essere convocato in questura e prendere
visione di un rapporto dei vigili che segnala in una strada
ben identificata la presenza di un’auto abbandonata, senza
gomme e senza targa, che però corrisponde alla esatta
descrizione da me fornita nella denuncia; oppure potrei
ricevere la telefonata concitata di un amico che, passando in
autobus, dica di aver visto la mia auto in una strada laterale
di cui non fa il nome, ma che assicura di poter ritrovare. Non
si attarda certo a descrivere l’auto, ma mi attesta la sua
sicurezza che quella fosse proprio la mia auto. E si andrebbe
a vedere. Ambedue i modi di ricevere la notizia hanno una
ragionevole attendibilità: cambia il metodo
dell’accertamento.

b) Ci troviamo dunque di fronte a un documento che ha a

41
che fare, come altri, con la memoria e, in modo originale, con
l’intenzione dell’annuncio: la forma del documento è data da
questa intenzione. Il suo valore storico potrà essere colto a
patto di non misconoscere ciò che lo caratterizza: quello che
si vuole percorrere è il ricordo di un fatto eccezionale
trasmesso da qualcuno che ritiene vitale farlo conoscere ad
altri.5

Appurato quindi che non ci troviamo di fronte a un resoconto


stenografico, a un verbale, a una stesura mossa dalla
preoccupazione di assolvere a un dovere di cronaca
strettamente intesa, per comprendere dobbiamo metterci di
fronte al dato così come emerge: memoria e annuncio.
Occorre affrontarlo globalmente e domandarsi: «È
plausibile? È convincente?». Ogni altro metodo eviterebbe il
dato così come oggi ci raggiunge e si applicherebbe perciò a
un oggetto in fondo inesistente.6
La pretesa di Gesù è l’unico fatto col quale è interessante
prendere contatto, è l’unico fatto costringente per
l’intelligenza dell’uomo, e che richiede imperativamente una
soluzione. Non si dovrebbe rischiare quindi di mancarlo, ma
occorre mettersi nelle condizioni migliori per raggiungere
una convinzione in proposito.7
Ora, la convinzione nasce sempre da qualcosa che si
«dimostra». Ma, come già si è avuto occasione di dire,8 per
le cose più importanti della vita tale dimostrabilità non è mai
di tipo matematico o dialettico: questo tipo di dimostrazione
avrebbe piuttosto a che fare con una nostra creazione o
convenzione. La dimostrazione di cui stiamo parlando viene
offerta dall’incontro evidente con un fatto, dalla presa di
contatto con un avvenimento.
Occorre a questo punto ricordare che nessun contatto
potrà avvenire se non si è disposti a farsi provocare dalla
totalità di quel fatto. Lo scotto che si paga a volerla evitare —
cercando solo qualche cosa, o essendo disposti a farsi
convincere solo da un tipo piuttosto che da un altro tipo di
elementi — ci condurrebbe inevitabilmente a perdere di vista

42
che solo l’imponenza di quell’inaudita pretesa rende
interessante la ricerca e tale imponenza può essere cercata
solo nella globalità del fatto. «Se fin dall’inizio vengono
operati dei tagli nel Vangelo — osserva von Balthasar –, il
fenomeno non resta integro ed è già divenuto
incomprensibile. [...] Quando si eliminano le parti essenziali,
quello che resta è una costruzione così meschina (come il
Gesù storico di un Renan, di un Harnack o anche di
Bultmann) che in essa si può scorgere anche da lontano
l’invenzione professorale e, in ogni caso, non si può spiegare
come un nucleo così gracile sia potuto divenire una forma
così piena, forte e compatta qual è il Cristo dei Vangeli.»9
Occorre dunque essere disposti a farsi provocare dalla
totalità del fatto, che non consiste nell’inventario completo
dei suoi fattori. È questo il punto centrale del citato
documento del Concilio sulla Rivelazione, commentando il
quale de Lubac osserva: «Ora, anche per il Concilio,
l’oggetto della Rivelazione è Dio stesso; ma questo Dio
vivente è intervenuto nella storia degli uomini, e in essa si è
dato dei testimoni, e questi testimoni ci rimandano tutti al
Testimone per eccellenza, a quel Testimone vero e fedele,
che è la sua Parola incarnata. L’oggetto primo della mia fede
non consiste in una lista di verità, intellegibili o non [...]. Se
questo oggetto mi è, nel senso etimologico del termine,
incomprensibile, e come potrei desiderare che così non sia?,
se io non posso circoscriverlo come farei con una creazione
del mio spirito, ciò dipende dal fatto che esso [...] è
l’abbraccio di una Persona vivente. [...] È questo l’essenziale,
l’oggetto rivelato non è concepito come una serie di
proposizioni [...] ma è riconosciuto nella sua unità originaria
come il mistero di Cristo, la realtà di un essere personale e
vivente».10
Quel racconto che stiamo per affrontare ha per scopo
percorrere le tappe di un incontro avvenuto con il portatore
e l’oggetto della più straordinaria pretesa rivelativa della
storia umana. Avverte de Lubac: «È impossibile dissociare
Lui dal suo Vangelo. [...] Periodicamente, gli uomini ci si

43
provano: è volere dividere l’indivisibile. È tradire l’unico
Vangelo, che è, come dicono le prime battute di san Marco,
la buona novella riguardante Gesù Cristo, figlio di Dio (Mc
1,1)»."11 Come osservava padre Rousselot: «Il cristianesimo
è fondato su un fatto, il fatto di Gesù, la vita terrena di Gesù.
E i cristiani sono, anche oggi, quelli che credono che Gesù
vive ancora. È questa l’originalità fondamentale della
religione cristiana».12
Un fatto è un criterio alla portata di chiunque. Un fatto si
può incontrare, nel fatto ci si può imbattere, purché ci si sia
messi nelle condizioni di vederlo. Come potremo dunque
afferrare il fatto di Cristo per valutarne poi la pretesa?
Cominciando a percorrerne la memoria e l’annuncio che di
Lui fanno coloro che ne sono stati già afferrati.

2. Un’attenzione di metodo
Prima di entrare nel vivo del racconto dei primi che lo hanno
incontrato, occorre ancora ricordare alcuni punti di metodo.
Il modo di porsi davanti alla testimonianza di un incontro
così eccezionale, quale è quello con Cristo, è un problema
che mette in gioco emblematicamente l’adeguatezza o meno
di tutto un atteggiamento intellettuale. Il metodo — lo
ripetiamo — descrive la ragionevolezza del rapporto con
l’oggetto e stabilisce i motivi adeguati con cui fare i passi
nella conoscenza dell’oggetto.13
Abbiamo già visto che qui l’oggetto non consiste né in una
lista di proposizioni né nella plausibilità di una cronaca, ma
nella veridicità di una testimonianza riguardo a una persona
vivente che ha, unica, preteso di essere il destino del mondo,
il Mistero entrato a far parte della storia.
Ci richiamiamo qui ai due rilievi da noi fatti riguardo al
raggiungimento della certezza esistenziale.

a) Condivisione e convivenza

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Il primo rilievo riguarda il fatto che io sono tanto più abilitato
ad aver certezza su di un altro, quanto più sto attento alla
sua vita, cioè condivido la sua vita.
La necessaria sintonia con l’oggetto che si vuole arrivare a
conoscere è una disposizione viva che si costruisce nel
tempo, nella convivenza. Ad esempio, nel Vangelo, ha potuto
capire che di quell’Uomo bisognava avere fiducia, chi gli
andò dietro e condivise la sua vita, non la folla che andava a
farsi guarire.

b) L’intelligenza degli indizi, strada della certezza


Il secondo rilievo richiama il fatto che, quanto più uno è
potentemente uomo, tanto più è capace di raggiungere
certezze sull’altro da pochi indizi. Questo è propriamente il
genio dell’umano. Lo sottolinea Rousselot, in questo bel
testo: «Più l’intelligenza è agile e penetrante e più le basta
un indizio tenue per indurre con certezza una conclusione.
[...] È per questo che un’incontestabile tradizione che risale
al Vangelo stesso loda coloro che non hanno bisogno di
prodigi per credere. Non li si loda affatto per aver creduto
senza ragioni: ciò sarebbe deplorevole; ma si vede in essi
delle anime veramente illuminate e capaci, attraverso un
minimo indizio, di cogliere una grande verità».14
Anche questa intelligenza del minimo indizio, benché
l’uomo a un livello fondamentale ne disponga naturalmente
per sopravvivere, ha bisogno di tempo e spazio, perché arrivi
a essere evoluta.
È questa dote che la «pretesa di Gesù» richiede per poter
essere compresa.
Il moltiplicarsi dei segni riguardo alla sua persona conduce
alla ragionevole conclusione che di Lui mi posso fidare.
L’uomo infatti è capace di fidarsi perché intuisce i motivi
adeguati per credere in un altro e per aderire a ciò che egli
afferma. Se per l’uomo l’unica ragionevolezza fosse
nell’evidenza immediata o personalmente dimostrata, egli
non potrebbe più progredire, perché dovrebbe rifare tutti i

45
processi da capo, e la sua conoscenza sarebbe gravemente
limitata. «É all’intelligenza – dice Tresmontant — che Gesù fa
costantemente appello. E la sollecita. Il rimprovero costante
sulla sua bocca è: non comprendete, non avete intelligenza?
Non credete ancora? aggiunge anche. La fede che sollecita
non ha nulla a che vedere con la credulità. Questa fede è
precisamente l’accesso dell’intelligenza a una verità, il
riconoscimento di questa verità, il sì dell’intelligenza
convinta e non una rinuncia all’intelligenza [...]. Il credere
nei Vangeli è questa scoperta, questa intelligenza della
verità che è proposta. Al ragazzo cui si insegna a nuotare, si
spiega che in virtù di leggi naturali non deve aver paura,
nuoterà se farà alcuni movimenti molto semplici. Il ragazzo
ha paura, si irrigidisce, e non crede. Viene il momento in cui
fa esperienza che ciò che gli è stato detto è possibile, crede,
nuota. Non si dirà che la fede, in questo caso, si oppone alla
ragione.»15
Il ragazzo che impara a nuotare deve saper ricordare, in
quel preciso istante in cui gli è necessario, che ha valide
ragioni per fidarsi del suo istruttore. Può venirgli d’istinto,
ma può anche non essere allenato a farlo.
L’intelligenza dell’uomo oggi non è sufficientemente
allenata a una serie di operazioni vitali a causa di
stratificazioni di pregiudizi che l’hanno come anchilosata.
Un’intelligenza che riconosce gli indizi al fine di reperire la
certezza esistenziale su qualcosa di fondamentale per la sua
esistenza è una intelligenza più spalancata di quella che
aprioristicamente nega di poterlo fare.
Occorre pertanto esercitare l’intelligenza all’unicità di una
misura nuova.

3. Il punto da cui partire


Il Mistero ha scelto di entrare nella storia dell’uomo con una
storia identica a quella di qualsiasi uomo: vi è entrato perciò
in modo impercettibile, senza nessuno che lo potesse
osservare e registrare. A un certo punto si è posto e per chi

46
lo ha incontrato quello è stato il grande istante della sua vita
e della storia tutta.
Partiremo allora da quel punto, non senza aver ricordato,
poiché ci serviremo di una pagina del vangelo di Giovanni,
come proprio su tale vangelo si siano dibattute tante vicende
di analisi scientifica del testo, che non hanno potuto tuttavia
intaccare l’evidenza della memoria e dell’annuncio originali
arrivati fino a noi.
Senza alcun dubbio «il vangelo di Giovanni si basa
sull’autorità di un discepolo del Signore, [...] esponente della
tradizione e “testimone”».16 Tale eccezionale testimone ha
voluto che ci si ricordasse il punto in cui per la prima volta la
presenza di Gesù si è imposta come interrogativo supremo.
C’è una pagina del vangelo di Giovanni in cui, come qualcosa
di estremamente importante si segna sul proprio blocco di
appunti, è trascritto ciò che potremmo chiamare il primo
istante, il primo sussulto del problema di Cristo come si è
posto nella storia.
Gesù, fino all’età in cui cominciò a parlare in pubblico, era
vissuto come qualsiasi altro ragazzo e osservava anche in
modo preciso i riti religiosi del suo popolo. Era molto diffuso
a quell’epoca il nome di Giovanni Battista; si parlava di lui
come del profeta che da 150 anni mancava al popolo
ebraico, che dal fenomeno profetico era sempre stato
accompagnato. Giovanni Battista, cioè il Battezzatore, aveva
finalmente interrotto ciò che dal popolo era vissuto come
una sconcertante siccità. Da tutta la Giudea e la Galilea
andavano a sentirlo parlare, diremmo oggi che era oggetto
di qualcosa di simile a un pellegrinaggio. Anche Gesù andò
da lui.
Ho detto prima che la pagina su cui è riportato questo
fatto somiglia molto alla pagina di un notes per appunti. Uno
vi custodisce una frase, magari monca, e l’appunto riduce
un’infinità di cose che sono date come supposte; l’appunto
vuol essere un segnale per una memoria in attività, per un
influsso già vissuto, e non come in un romanzo il dettagliato
accompagnare il lettore in una descrizione che ha come
ideale la ricreazione di una continuità fin nei particolari per

47
una completezza senza vuoti. Il romanzo ha un pubblico,
l’appunto ha un utilizzatore. L’appunto è conciso e,
leggendolo, chi lo utilizza immagina ciò che non è detto tra
una frase e un’altra, ciò che un punto fermo abbandona al
ricordo. È il fenomeno della memoria. La memoria non
trattiene il passato secondo il seguito ininterrotto dei fatti, se
lo imprime a tratti. Ognuno di noi dell’infanzia non ricorda
un tessuto ininterrotto di fatti chiari nel loro susseguirsi, ma
dei fatti emergenti, dei punti rilevanti da cui però è anche
abbastanza facile indurre storie di inclinazioni, di
temperamenti, di carattere. E, se riflettiamo, neppure ieri,
quello ieri così apparentemente a portata di mano, ci resta
impresso nella memoria secondo il flusso ininterrotto del
fenomeno della nostra espressività.
Ora, questa pagina che stiamo per affrontare riporta la
memoria di un uomo che ha trattenuto tutta la vita negli
occhi e nel cuore l’istante in cui la sua esistenza è stata
investita da una presenza e capovolta. Ha trattenuto
quell’istante lucidamente, in seguito, fino alla vecchiaia: ma
in quel momento certo non si è accorto della pienezza e della
totalità in cui si imbatteva. Come due che s’incontrassero
normalmente e poi senza averlo subito previsto si
sposassero; ecco che da vecchi si dicono: «Ricordi quando ci
siamo incontrati per la prima volta, in montagna? Chi
avrebbe immaginato quello che sarebbe successo?». Così è
questa pagina. In essa ogni punto va riempito da uno
svolgimento che è dato come per scontato dalla persona che
scrive.17
Gesù, dunque, era anch’egli andato a sentire Giovanni
Battista. Supponiamo che fosse verso mezzogiorno e che
come al solito ci fosse un gruppetto di persone che si
attardavano ad ascoltarlo. Gesù, arrivato per ascoltare, a un
certo punto accenna ad andarsene. E Giovanni, come
afferrato dallo spirito profetico, grida: «Ecco l’Agnello di Dio,
ecco colui che toglie i peccati del mondo». I suoi ascoltatori
sono probabilmente avvezzi a sentirlo esplodere in frasi non
sempre comprensibili, e l’accettano perché: «È il profeta»,
ma non vi prestano una grande attenzione. Qualcuno invece

48
resta colpito da quel grido e da quello sguardo fisso su una
persona. Sono due che venivano da lontano, due pescatori
della Galilea, che erano lì attentissimi, come due provinciali
in città, a tutto quanto accadeva. Ebbene quei due,
accorgendosi di chi Giovanni Battista stava guardando nel
pronunciare quella frase, lo seguono. «Gesù si voltò e vide
che lo seguivano, allora disse: "Che cosa volete?". Essi gli
dissero: "Dove stai di casa, Rabbi?". Gesù rispose: "Venite a
vedere". Quei due andarono, videro dove Gesù abitava e
rimasero con lui fino a sera. Erano circa le quattro del
pomeriggio.» È suggestiva l’illogicità con cui si nota che i
due rimasero con lui fino a sera e poi, senza dir nulla, si
ritorna all’ora in cui sono entrati in rapporto con lui: le
quattro del pomeriggio.
Uno dei due si chiamava Andrea. Incontra suo fratello
Simone e gli dice: «Abbiamo trovato il Messia». Bene: due
persone vanno a casa di uno sconosciuto, vi trascorrono
mezza giornata e non ci viene detto né che cosa hanno fatto
né che cosa hanno detto. Quello che sappiamo è che uno dei
due, tornato a casa, dice al fratello: «Abbiamo trovato il
Messia». C’è una inaudita naturalezza in questo racconto.
Sono stati là fino a scordarsi che giungeva l’ora in cui i loro
compagni sarebbero usciti a pescare, la sera, sono stati là e
hanno raggiunto quella certezza che hanno comunicato. I
passi intermedi non sono descritti. Eppure avranno fatto
qualcosa: l’hanno sentito parlare, gli avranno rivolto delle
domande, lo hanno visto muoversi e agire in casa, occuparsi
delle sue faccende, avranno visto sua madre far da
mangiare. Noi possiamo solo vederli, l’indomani mattina, là
dove i pescherecci fanno ritorno, sulla spiaggia ad aspettare
quelli che sono andati al lavoro senza di loro, e per prima
cosa uno dei due dice al fratello che è sulla barca: «Abbiamo
trovato il Messia». Possiamo immaginare reazioni e tutto; sta
di fatto che Andrea conduce Simone da Gesù. Pensiamo a
Simone, lì, carico di curiosità davanti all’individuo di cui il
fratello ha detto: «È il Messia». Si sente guardato, e si sente
dire: «Tu sei Simone, figlio di Giovanni; ti chiamerai Pietro».
Gli ebrei usavano attribuire un soprannome per indicare il

49
carattere della persona o qualche fatto importante o
singolare a essa accaduto. Così Pietro attraverso quello
sguardo si trova afferrato fin dentro il suo carattere,
rubesto, granitico.
Il giorno dopo, di pomeriggio, i pescatori erano là sulla
spiaggia a rassettare le reti. Gesù aveva deciso di andare in
Galilea e il sentiero passava vicino alla spiaggia. Simone e
Andrea devono averlo visto e avranno detto agli altri: «Ecco,
è quello che sta passando». E uno di loro, Filippo, impulsivo
come il fratello Giacomo, si alza in piedi e corre su per il
sentiero per vederlo più da vicino e Gesù familiarmente gli
dice: «Accompagnami».
E in un incalzare di certezze comunicate con naturalezza,
Filippo incontra Natanaele e anche lui, come gli altri
avevano fatto, deve dirgli: «Il Messia, quello promesso da
Mosè: l’abbiamo trovato! Si chiama Gesù, è di Nazareth, è
figlio di Giuseppe». Natanaele è il più vecchio, il saggio della
compagnia, quello che non si lascia mai turbare da niente. E
dice a Filippo: «Di Nazareth?! Può venire qualcosa di buono
da quel paese?», che infatti non godeva di buona fama.
«Vieni a vedere», ribatte Filippo. Gesù vede arrivare
Natanaele e rivolto a lui gli dice: «Ecco un vero israelita
senza inganno». Natanaele ha una reazione che tradisce
quasi un istinto di difesa: «Come fai a dirmi così se neanche
mi conosci?». Gesù rispose: «Prima che Filippo ti chiamasse,
quando eri sotto quel fico, io ti ho visto». E Natanaele gridò:
«Tu sei il Figlio di Dio, tu sei il Messia».
Rendiamoci ben conto di dove stiano i segni di veridicità, la
natura di memoria di questa pagina. Non dice, non descrive,
suppone tutto, non sceglie in un disegno organico ciò che
deve passare alla storia. Essa racconta i fatti con tutto il
carico e il naturale sapore di ciò che per il narratore è ovvio
e risaputo, così come due amici potrebbero dirsi: «Ti ricordi
quel giorno in cui abbiamo cominciato a lavorare insieme?» e
in questa rievocazione gli anni di lavoro comune e di amicizia
guidano la memoria, mentre se una cinepresa fosse stata
piazzata nell’ufficio avrebbe fissato solo tutti i dettagli
spazio-temporali. Ma è questo il punto: non avrebbe

50
trasmesso e conclamato lo stesso contenuto.
Questa pagina di Giovanni, così come è formulata, ci
testimonia qualcosa che è valido da allora fino a quando il
sole continuerà a spuntare sul mondo, ora e domani; ci
testimonia la modalità profonda e semplicissima con cui
l’uomo ha capito, capisce e capirà chi è Cristo. Persone che
senza esserselo mai immaginato seguono per curiosità
quell’uomo, stanno con lui fino a sera, dimenticando persino
di andare a lavorare, rimangono così impressionate che
riportano come vera un’affermazione fatta forse da lui stesso
che rispondeva a tutte le attese del loro tempo. Tutti gli
interpreti infatti delle profezie antiche concordavano nel dire
che quello era il momento segnalato dai profeti,
specialmente da Daniele, per la venuta del Messia. C’era
un’attesa messianica così viva che non solo secondo una
corrente medievale, cui Dante ha dato voce, ma anche
secondo molti studiosi, avrebbe superato i confini d’Israele
per raggiungere il mondo pagano, e tale eco sarebbe stata
ripresa anche da Virgilio.
Non c’è proporzione apparente tra quella modalità
semplicissima che abbiamo ripercorso, tra quell’uomo che
invita a casa, e la certezza dei due: «Abbiamo trovato il
Messia», certezza che poi si ripercuote in Simone, Filippo,
Natanaele. Si trovavano di fronte una persona diversa dalle
altre. Quelli che entrano in contatto con lui si sentono attratti
dalla sua personalità eccezionale. La vita potrà forse un poco
dettagliare, ma l’impressione, la prima percezione della
singolare diversità resta.
Ecco, nella certezza d’aver trovato il Messia tutto
sembrerebbe conchiuso. Ma questo è solo il punto di
partenza. Vedremo adesso nel capitolo secondo di Giovanni
quale sviluppo prenda tale certezza: vedremo cioè il
proseguimento della prima percezione.

51
Capitolo quinto
NEL TEMPO UNA PROFONDITÀ DI
CERTEZZA

Vediamo ora come si è confermato il carattere eccezionale


del fatto incontrato, come una impressione pur carica di
evidenza si è trasformata in convinzione.

1. La traiettoria della convinzione


Gesù, dopo gli incontri che abbiamo descritto, continuava a
vivere come tutti e come sempre, a casa sua, impegnato
nelle sue occupazioni, ma quei tre o quattro che erano
rimasti così colpiti da lui erano diventati suoi amici, lo
andavano a trovare, lui andava a pesca con loro.
Il capitolo secondo del vangelo di Giovanni racconta di un
invito a nozze. Come si usava, l’invitato portava gli amici e
poiché Gesù era invitato con sua madre a quella cerimonia
porta con sé il gruppetto di nuovi amici.
Il miracolo delle nozze di Cana — questo strano portento
per cui alla fine del pranzo l’acqua è divenuta vino — è una
delle pagine più significative della concezione che Gesù ha
della vita: qualsiasi aspetto dell’esistenza, anche il più
banale, è degno del rapporto con Lui e quindi anche del suo
intervento. Ogni tipo di evento è determinante, cioè
rivelatore, proprio per la specifica e unica caratteristica del
fatto «Gesù», la cui azione nei confronti dell’umano si
realizza in una estrema e dettagliata concretezza, in ogni
aspetto della vita, autorivelando così in progressione il suo
stesso essere.
Il miracolo delle nozze di Cana si impone agli inizi di
questa progressiva autorivelazione di Gesù.1
«Secondo le costumanze giudaiche — nota Schnackenburg

52
—, se la sposa era alle prime nozze, la festa durava una
settimana. Ci si preoccupava d’avere vino a sufficienza,
perché in occasione della festa se ne beveva
abbondantemente. Si era soliti fare regali di nozze, anzi era
lecito pretenderli dalla maggior parte dei convitati. Perciò è
comprensibile l’imbarazzo del padrone di casa quando venne
a mancare il vino.»2
La madre di Gesù, Maria, con un’attenzione e una
sensibilità che certo la familiarità col figlio le avevano
insegnato (ricordiamo che non doveva avere più di 15 o 16
anni più di lui), si accorge di quell’imbarazzo e lo comunica a
Gesù. Ed egli interverrà. L’evangelista conclude poi così il
racconto di quest’episodio: «E i suoi discepoli credettero in
lui». Verrebbe da stupirsi di fronte a questa frase. Non
avevamo appena visto, nel capitolo precedente, che i
discepoli avevano già «creduto in lui»? È invece questa la
descrizione psicologicamente perfetta e precisa di un
fenomeno usuale per tutti noi. Quando si incontra una
persona importante per la propria vita, c’è sempre un primo
momento in cui lo si presente; qualcosa dentro di noi è
messo alle strette dall’evidenza di un riconoscimento
ineludibile: «ecco, è lui», «ecco, è lei». Ma solo lo spazio dato
al ripetersi di questa documentazione carica l’impressione di
peso esistenziale. Solo cioè la convivenza la fa entrare
sempre più radicalmente e profondamente in noi, fino a che,
a un certo punto, diviene certezza. E questa strada di
«conoscenza» riceverà nel Vangelo ancora molte conferme,
avrà cioè bisogno di molto sostegno, tant’è vero che quella
formula «e i suoi discepoli credettero in lui» si trova più volte
ripetuta, fino alla fine. Quella conoscenza sarà una
persuasione che avverrà lentamente e nessun passo
successivo smentirà i precedenti: anche prima avevano
creduto. Dalla convivenza deriverà una conferma di quella
eccezionalità, di quella diversità che fin dal primo momento
li aveva percossi. Con la convivenza tale conferma si
ingrandisce.3
Nel Vangelo dunque viene documentato che il credere

53
abbraccia la traiettoria della convinzione in un successivo
ripetersi di riconoscimenti, cui occorre dare uno spazio e un
tempo perché avvengano. Ritroviamo qui, incarnato nella
testimonianza evangelica, quel richiamo di metodo che
abbiamo ricordato nel capitolo precedente.4 È talmente vero
che la conoscenza di un oggetto richiede spazio e tempo, che
a maggior ragione questa legge non può essere smentita da
un oggetto che si pretende unico. Anche coloro che furono i
primi a incontrare quella unicità hanno dovuto seguire
questa strada.

a) La scoperta di un uomo senza paragone


Quel primo gruppetto prende sempre più l’abitudine di
accompagnare Gesù quando Lui incomincia a parlare nei
villaggi, nelle piazze, nelle case.
Un giorno lo hanno invitato a mangiare in una casa sulla
cui soglia preme una piccola folla di gente che lo ascolta.5 E
Gesù si attarda, quasi che a stento riesca a staccarsi da chi
sta attento alle sue parole. In prima fila si sono messe le
autorità del luogo: da poco aveva iniziato il suo itinerario
pubblico, ma già chi deteneva un certo potere era in allarme.
Mentre sta parlando arrivano di corsa degli uomini che
trasportano un paralitico adagiato su una stuoia. Vorrebbero
arrivare fino a Gesù, ma la gente lo impedisce. Allora
prendono l’iniziativa di aggirare la casa, salire col malato sul
tetto, rimuoverne una parte per creare un varco da cui
calarlo direttamente all’interno, alle spalle di Gesù. Questi si
volta e lo guarda. Immaginiamo come quell’uomo deve
essersi sentito guardare, per sentirsi dire da Gesù: «Confida,
o figlio, i tuoi peccati ti sono rimessi». La reazione dei
notabili presenti è immediata: nessuno può rimettere i
peccati, solo Dio. Ma Gesù distogliendo lo sguardo
dall’infermo fissa coloro che gli stanno obiettando, e: «È più
facile dire a un uomo: ti sono rimessi i peccati, o dire a lui:
alzati e cammina? Perché sappiate che io ho il potere di
rimettere i peccati, dico a te: alzati, prendi il tuo lettuccio, e

54
cammina!». E quello si alzò fra il grido comprensibile della
gente.
Proviamo ora a pensare a un gruppetto di persone che per
settimane, mesi, anni hanno visto tutti i giorni cose di questo
genere. Quei primi amici, e altri che si sono aggiunti,
assistono quotidianamente e sempre di più alla eccezionalità,
alla esorbitanza di quella personalità.
Ciò che colpisce non è solo il ripetersi del fatto che i
prodigi riempiono addirittura la sua giornata. Le cose, il
tempo e lo spazio gli obbediscono senza alcun apparato
«magico». Egli ottiene ciò con una manipolazione della realtà
del tutto «naturale», come di chi è padrone della realtà
stessa. Il Vangelo nota che giungeva a sera «stanco di
guarire», avendo cioè esercitato senza interruzione il suo
potere sulla realtà fisica.
Ma non era questa la cosa più impressionante. E neppure
la sua intelligenza, capace di confondere e mettere al muro
la scaltrezza proverbiale dei farisei. Come nell’episodio del
tributo a Cesare.6 Ormai i farisei lo impegnavano in continue
diatribe, lo sfidavano e lo mettevano alla prova in ogni modo
e tali discussioni dovevano essere uno spettacolo anche per
chi vi si avvicinava per pura curiosità. Decisi a fermarlo, i
farisei gli chiedono se si dovesse dare il tributo a Cesare. Se
Gesù avesse dato una risposta affermativa, avrebbe
mostrato di tradire il suo popolo, se avesse dato una risposta
negativa, avrebbe offerto il fianco a un’accusa presso il
pretore romano. Gesù, allora, prendendo una moneta chiede
loro di chi fosse l’effigie lì rappresentata e ottenuta la
risposta che si trattava di Cesare li mette a tacere: «Date a
Cesare ciò che è di Cesare, e date a Dio ciò che è di Dio».
Così la soluzione del dilemma era mirabilmente ed
enigmaticamente affidata alla libertà, chiamata in gioco
imprevedibilmente.
La sua intelligenza sventava ogni tentativo di coglierlo in
fallo. Gli trascinano una donna colta in flagrante adulterio;7
gli chiedono se, a suo parere, si dovesse applicare la Legge
di Mosè lapidandola o no.8 Lui li lascia dire, guardandoli con

55
quello sguardo penetrante per cui tutto nel cuore degli
uomini si sentiva scoperto, poi si curva e con una mano
traccia dei segni sulla polvere, quasi a dire: «Le vostre
parole sono parole scritte nella polvere». Gli accusatori
pensano di averlo in pugno e insistono per ottenere una
risposta. Lui si alza in piedi: «Chi di voi è senza peccato
scagli la prima pietra». Possiamo immaginare la consistenza
del silenzio che segue le sue parole. Lentamente tutti si
voltano e se ne vanno, mentre lui è ancora lì curvo a
tracciare le sue simboliche sigle nella polvere e la donna se
ne sta ritta, sconvolta, sola davanti a Gesù. Lui le chiede:
«Nessuno ti ha condannata?», e lei: «Nessuno». E Gesù le
dice: «Neanch’io ti condanno, va’ e non sbagliare più».
Ora, come si è detto, neppure questa intelligenza
conseguente, questa dialettica imbattibile rappresentavano
l’impressione più vertiginosa per coloro che lo
accompagnavano sempre.
Il miracolo più grande, da cui i discepoli erano colpiti tutti i
giorni, non era quello delle gambe raddrizzate, della pelle
mondata, della vista riacquistata. Il miracolo più grande era
quello già accennato: era uno sguardo rivelatore dell’umano
cui non ci si poteva sottrarre. Non c’è nulla che convinca
l’uomo come uno sguardo che afferri e riconosca ciò che
esso è, che scopra l’uomo a se stesso. Gesù vedeva dentro
l’uomo, nessuno poteva nascondersi davanti a lui, di fronte a
lui la profondità della coscienza non aveva segreti. Come nel
caso della donna di Samaria,9 che in una conversazione al
pozzo si sentì raccontare la sua vita, e proprio questo riferì ai
compaesani a testimonianza della grandezza di quell’uomo:
«Mi ha detto tutto quello che ho fatto!». Lo stesso avvenne
nel caso di Matteo il gabelliere,10 considerato un peccatore
pubblico perché al servizio del potere economico romano,
cui Gesù, passando, disse semplicemente: «Vieni». E quello,
riconosciuto, preso, accettato, lasciò ogni cosa e lo seguì. Lo
stesso accadde al capo di tutti i gabellieri, l’uomo più odiato
di tutta Gerico, Zaccheo.11 Gesù, attorniato da una grande
folla, sta passando per strada e lui, piccolo di statura, sale su

56
una pianta, incuriosito, per vederlo. Quando Gesù arriva
sotto quella pianta si ferma, lo fissa, gli dice: «Zaccheo!», e
soggiunge: «Fa’ in fretta, discendi, perché voglio venire a
casa tua». Da che cosa sarà stato investito Zaccheo? Che
cosa lo avrà fatto correre pieno di gioia? Progetti sulle sue
molte ricchezze, volontà di restituire in abbondanza il
maltolto, dare la metà dei suoi beni ai poveri? Che cosa lo ha
travolto e cambiato? È stato semplicemente penetrato e
accolto da uno sguardo che lo riconosceva e lo amava così
come era. La capacità di cogliere il cuore dell’uomo è il
miracolo più grande, il più persuasivo.12

b) Il potere e la bontà
È difficile che una persona potente sia veramente buona. In
Gesù invece i suoi testimoni hanno potuto vedere quello
sguardo non solo potente, prodigioso, non solo intelligente,
non solo captante, ma buono. Pare così impossibile che un
potere tanto grande stia dentro l’orizzonte di una profonda
bontà, e sembra così difficile che una intelligenza acutissima
sia semplice e positiva come l’affettuosità istintiva e
disponibile del bambino! È bello leggere il Vangelo andando
a rintracciare gli spunti appena appena accennati, i
particolari sottili che rivelano la capacità di tenerezza di
Gesù, la sua commossa solidarietà con l’umano.
Come quando in una città si imbatte in un corteo funebre e
viene a sapere che il morto è il figlio unico di una madre
vedova.13 Subito lo muove il dolore della donna ed egli le
dice: «Donna, non piangere». Il suo primo gesto è un atto di
tenerezza, poi le restituirà il figlio vivo. Non gli era stato
richiesto né il miracolo né il gesto di profonda compassione.
Allo stesso modo è Lui a prendere l’iniziativa nell’episodio
della donna curva da tanti anni al punto che non poteva più
raddrizzarsi. 14 Gesù sta insegnando nella Sinagoga: la
vede, la chiama vicino a sé e la guarisce.
Diversi racconti evangelici riportano la sua attenzione per i
bambini, la sua capacità di mettersi in rapporto con loro.15

57
Dice l’evangelista Marco: «Glieli portavano perché li
accarezzasse», e lui non si limita a un vago gesto
benedicente, li prende in braccio, reagisce a chi vorrebbe
impedirlo e poi li benedice, raccomandando a tutti, per poter
entrare nel Regno dei cieli, quell’atteggiamento di positiva
dipendenza dal reale che i bambini hanno. Così, in un
racconto analogo,16 l’evangelista Matteo riporta che Gesù si
prende vicino un bambino e lo mette in mezzo al gruppo, al
centro dell’attenzione, e ammonisce tutti perché non si osi
fargli del male mai, a nessuno di quei piccoli, e non parlava
del male fisico, dal quale forse i più si trattengono
istintivamente, ma dello scandalo morale, del danno alla
libertà della coscienza, di cui è più facile non curarsi, e di cui
Gesù con appassionata vigilanza si preoccupa, perché, dirà
più avanti, «il Padre vostro celeste non vuole che si perda
neanche uno solo di questi piccoli».
È un trasporto rigeneratore il suo, verso tutto il
valorizzabile dell’umano. Dopo un miracolo operato il sabato,
17 e che perciò aveva avuto una certa risonanza, se ne va,
ma molti gli vanno dietro, e il Vangelo osserva che lui «guarì
tutti», cioè guardò tutti, capì tutti, prese sul serio tutti. E
l’evangelista Matteo nota: «Perché s’adempisse ciò che era
stato detto dal profeta Isaia... "Il Messia la canna infranta
non spezzerà, non spegnerà il lucignolo fumigante, finché
abbia fatto trionfare la giustizia"».
Gesù gradisce dall’uomo ciò che gli può dare, e non mette
schermi di nessuna natura, né politica, né sociale, né
culturale, a questa sua accoglienza. Come nell’ episodio
narrato da Luca18 di quel pranzo in casa di un fariseo, dove
irrompe, certamente non invitata, una nota prostituta, che
circonda di attenzioni Gesù, provocando l’indignazione del
padrone di casa che si domanda fino a che punto si potesse
dire che Gesù era profeta, visto che accettava profumi e
gesti affettuosi da una simile donna. La reazione di Gesù è
immediata , e mostra al fariseo Simone di aver accolto i baci
e le lacrime della donna come segno della fede in lui che
essa era in grado di testimoniare, sfidando chiacchiere e

58
commenti, a differenza di Simone che avrebbe ben potuto
come ospite dargli acqua per i piedi impolverati e un bacio di
amicizia, ma non l’aveva fatto: «Ad essa molto è perdonato,
perché molto ha amato».
E così occorre ricordare l’emozione fino alle lacrime che
prende Gesù in occasione della morte dell’amico Lazzaro,
misteriosa emozione, ma segno di un’intima solidarietà con il
cuore umano e con le sue vicende.19 «Nel mesto cammino
alla tomba dell’amico anche Gesù è commosso dall’oscurità
del destino mortale. [...] La breve annotazione che a Gesù
vennero le lacrime agli occhi è l’oscuro antecedente della
sicura preghiera al Padre [...]. [Egli] è unito agli uomini e
aperto alle loro miserie.»20
E Gesù «singhiozza» quella sera sull’altura degli ulivi,21 di
fronte allo splendore del tempio al tramonto, presagendo la
distruzione della sua città.

2. Il sorgere di una domanda e l’irrompere di


una certezza
Continuiamo a immaginare il tipo di conferma che le
giornate con Gesù dovevano essere per chi viveva accanto a
lui quotidianamente. Gesù appare in ogni circostanza un
essere superiore a ogni altro; c’è in lui qualcosa, un
«mistero», perché non si è mai incontrata una tale saggezza,
un tale ascendente, un tale potere, una tale bontà. Questa
impressione, come abbiamo già detto, si fa via via più
precisa solo in coloro che si impegnano a una convivenza
sistematica con lui: i discepoli.
Ma il margine di eccezionalità di quell’uomo era tale che
nasceva spontanea una domanda paradossale: «Chi è?».
Paradossale perché di Gesù si conoscevano benissimo
l’origine, i dati anagrafici, la sua famiglia, la sua casa.
Questa domanda sorge prima negli amici e poi, molto tempo
dopo, anche nei nemici, che pure erano bene informati su di
lui. Questa domanda mostra che ciò che Egli sia in realtà non

59
lo si potrebbe dire da soli. Si può solo constatare che egli è
differente da ogni altro, merita la più completa confidenza, e
a seguirlo si prova una pienezza di vita senza paragone.22
Così si domanda a lui chi egli sia. Soltanto che gli amici,
quando lui dà la risposta, credono alla Sua parola per
l’evidenza dei segni indiscutibili che impongono la
confidenza; i nemici, invece, non accettano quella risposta e
decidono di eliminarlo.

Nel capitolo sesto di Giovanni è riportato un momento


drammatico e bellissimo, significativo di questa dinamica.23
Gesù, che soleva ogni tanto ritirarsi a pregare, si era un
giorno visto seguire da una gran folla e a lungo, una folla che
presto avrebbe avuto fame. Mosso a compassione, li aveva
miracolosamente sfamati. L’entusiasmo di fronte a questo
tipo di prodigio toccò il vertice e, dice il Vangelo, volevano
farlo re, perché la mentalità d’allora identificava il Messia
con un re, più grande di Davide, che avrebbe sterminato i
nemici del popolo d’Israele e avrebbe a esso conferito il
posto che gli competeva nel mondo. Vi era, comunque, anche
una certa corrente di persone, chiamati «i poveri di Dio», che
facevano professione di disponibilità ai misteri di Dio; essi
non si sentivano a loro agio in quella mentalità comune e
sottolineavano la misteriosità della venuta del Messia. Gesù
sembrò in quel momento avallare la volontà del popolo di
avere un re potente, come Egli pareva aver dimostrato di
essere. Ma poi fuggì, prese una barca e andò dall’altra parte
del lago. L’indomani era sabato e, come di consueto, Lui
andava nella sinagoga e, quando l’inserviente agitò il rotolo
delle Scritture per richiamare l’attenzione di chi volesse
commentarlo, Gesù si candidò a farlo, come altre volte,
poiché era dal di dentro della vita sociale e religiosa del suo
popolo che esponeva la sua novità. Disfece il rotolo e lesse il
brano della manna nel deserto, il brano in cui Mosè pregava
Dio perché il popolo si lamentava per il timore di morire di
fame nel deserto e allora Dio mandò quella rugiada strana
che era come pane. Cristo riarrotola il foglio, e dice: «I vostri

60
padri hanno mangiato la manna e sono morti, ma chi si nutre
della mia parola non morirà più». La gente, pur attratta,
restava stordita di fronte a queste affermazioni. Aveva già
detto qualcosa di simile alla donna di Samaria incontrata al
pozzo: che se uno avesse bevuto dell’acqua data da lui non
avrebbe avuto più sete. Mentre sta parlando, si apre la porta
in fondo alla sinagoga ed entra gente che era con lui il
giorno prima e lo stava cercando, appassionata di lui. In
quell’istante Gesù si commuove di un’emozione profonda e
improvvisamente, si potrebbe dire, gli balena e prende
forma l’idea più geniale che abbia avuto nella sua vita
d’uomo. «Voi mi cercate perché vi ho dato del pane — dice
loro —, ma io vi darò la mia carne da mangiare e il mio
sangue da bere.» E risuona in quella sinagoga
un’espressione davanti alla quale evidentemente non si può
star tranquilli neppure dicendo: «È paradossale». E i padroni
della mentalità popolare, i politici, i professori, i giornalisti di
allora, cioè gli scribi e i farisei, cominciarono a dire che Gesù
era pazzo — «Questo modo di parlare non si capisce» — e il
mormorio via via si comunicava a tutti, perché la folla
entusiasta di lui poco prima era già disponibile a farsi
esaltare dal discredito seminato dai potenti. Ma Gesù,
vedendo la reazione della gente, insisteva: «In verità vi dico:
chi non mangia della mia carne non entrerà nel regno dei
cieli». Il mormorio, intanto, si fece clamore, e il giudizio
ripetuto sull’assurdità di quelle parole e sulla follia di Gesù è
sulle labbra di tutti. I farisei lentamente fanno sfollare la
sinagoga, finché nella penombra del crepuscolo resta solo
Gesù con il gruppetto dei più affezionati. Immedesimiamoci
in quell’attimo pieno di tensione. Il silenzio era grande. E
Gesù stesso prende l’iniziativa di romperlo: «Volete
andarvene anche voi?». Ed è qui che Pietro con la sua
veemenza sbotta nella frase che riassume tutta la loro
esperienza di certezza: «Signore, anche noi non
comprendiamo quello che dici, ma se andiamo via da te, da
chi andiamo? Tu solo hai parole che spiegano, che danno
senso alla vita».

61
3. Un caso di certezza morale
Psicologicamente la frase di Pietro è l’applicazione dell’
osservazione che abbiamo già fatto sulla certezza
esistenziale o morale. Quell’atteggiamento è infatti
profondamente ragionevole. Sulla base della convivenza con
l’eccezionalità dell’essere e degli atteggiamenti di Gesù quel
gruppetto non poteva non affidarsi alle sue parole.
Avrebbero dovuto negare un’evidenza più persuasiva di
quella dei loro occhi: «Se non posso credere a quest’uomo,
non posso credere a nulla». La continua reiterazione che la
convivenza realizzava di questa impressione di eccezionalità
determinava un giudizio di ragionevolissima plausibilità del
loro affidarsi a lui. Nel tempo essi hanno acquistato su quell’
uomo una certezza senza paragoni.
Certo, il balenare di quell’eccezionalità nella folla che
andava a vederlo per curiosità o per tornaconto e poi se ne
andava senza affrontare quanto li aveva sfiorati non poteva
determinare alcun giudizio degno di essere chiamato tale. Il
giudizio richiede di affrontare l’esperienza includendovi il
tempo della sua «durata». Senza il tempo di questa
convivenza l’oggetto reale resta inconoscibile, mentre la
certezza morale, quella che nasce da una spalancata
disponibilità, fedele nel tempo, è la culla di un’esistenza
ragionevole.
Per questo Gesù, per rispondere alla domanda che fu degli
amici24 e dei nemici:25 «Ma, allora, chi sei tu?», ha atteso
che il tempo rendesse i discepoli certi del loro attaccamento,
e i nemici pertinaci nella loro ostilità. Gesù, cioè, ha chiarito
il proprio mistero quando gli uomini erano ormai
definitivamente fissati nel riconoscimento o nel
misconoscimento verso di lui. Il suo finale disvelarsi rivelò
anche «i pensieri segreti dei cuori», come aveva profetizzato
Simeone.26 il Suo finale definirsi confermò l’estrema
povertà di spirito di coloro che credevano in Lui; e offrì
l’ultimo e supremo pretesto a coloro che già avevano deciso
in cuor loro di rifiutarlo. «Beati i poveri di spirito»,27 «Se

62
non sarete come bambini, non entrerete mai...».28

63
Capitolo sesto
LA PEDAGOGIA DI CRISTO NEL RIVELARSI

Abbiamo cercato finora di identificare la modalità


psicologica e il momento in cui i documenti evangelici
mostrano come il problema «Gesù» si sia posto.
L’eccezionalità del comportamento di Gesù era tale che
anche l’evidenza del suo contesto familiare, della sua storia
personale non valeva più a definirlo. E così emergeva quella
domanda: «Chi è mai costui?». Ritorniamo su questo fatto:
chi si è posto per primo la domanda lo conosceva bene, lo
frequentava, lo accompagnava a casa sua, era suo amico. È
proprio l’insorgenza di quella domanda in tale umana
familiarità a renderla sintomatica di un problema
esorbitante. «Chi è mai costui?» E l’interrogativo dei
discepoli riecheggiava sulla bocca degli avversari di Gesù
verso la fine della sua vita, quando anch’essi sono costretti
dai fatti a chiedere: «Fino a quando ci terrai col fiato
sospeso? Dicci da che parte vieni, chi sei?».1 È la stessa
richiesta dei discepoli in chiave opposta: ostile, rabbiosa;
mentre per i primi è in chiave di stupore.
Si può immaginare una piccola storia che, per analogia,
puntualizza l’origine del grande interrogativo. Figuriamoci
un paesino di montagna, alcuni decenni fa. Un’unica
mulattiera unisce il villaggio al paese più grande, giù a
fondovalle. Non c’è un medico stabile, ma c’è il comune, con
un sindaco. Tutti vivono del bosco, qualche gallina, qualche
mucca, nessun nesso col mondo. Un paesino chiuso,
degradato. Nell’unica casa un po’ bella del paese una
famiglia venuta dalla città viene a stabilirsi. Un signore e una
signora molto distinti, due bambini. Sono gentilissimi, ma
tutto il villaggio si ritrae di fronte a loro. Li spiano dalle
fessure delle persiane quando passano, nell’unica
botteguccia del paese non accettano alcun tipo di

64
conversazione, nessuno li saluta. Accade un giorno che un
abitante del paese si infortuna gravemente. La signora è
medico e si adopera in tutti i modi fino alla sua completa
guarigione. Così il ghiaccio si rompe e via via, molto
lentamente, si crea non tanto un affiatamento a parole, ma
un affiatamento pratico. Anche lui si rende disponibile a ogni
necessità: un camino si rompe, un macchinario da riparare...
quel signore di città sa sempre come intervenire. «Sarà un
ingegnere», dicono tra loro in paese. Lui la sera andava
sempre nell’unica osteria del villaggio dove gli uomini
giocavano a carte avvolti in una nuvola di fumo. E, dapprima,
se ne stava lì a guardare, poi nell’impaccio generale chiede
di poter giocare anche lui, e gli uomini del paese scoprono
che è anche un ottimo giocatore. Insomma, dopo qualche
settimana quella era la famiglia più amata del paese. Una
domenica, mentre stavano giocando a carte, si interrompe
per raccontare di quando aveva viaggiato nella Terra del
Fuoco e tutti se ne stavano lì con le carte in mano e la pipa in
bocca ad ascoltarlo, perché parlava in modo affascinante,
sapeva una infinità di cose. A un certo punto il più vecchio di
tutti tira fuori la pipa dalla bocca, mette giù le carte e dice:
«Senti, tu devi rispondere alla nostra curiosità. Molti fra noi
dicono che sei un ingegnere, molti dicono che sei uno
scienziato, altri dicono altre cose. Ma tu chi sei? Come fai a
essere così bravo in tutto, a sapere tante cose?». Allora lui
dice: «Amici, adesso che siamo veramente in confidenza ve
lo posso dire. Però non dovete tradirmi, perché per una serie
di ragioni la mia posizione è delicata nei confronti della
legge, e se si sapesse che sono qui mi arresterebbero subito.
Io sono il re del Portogallo in esilio». A nessuno lì nell’osteria
viene in mente di mettere in dubbio questa risposta: era
evidente che le risposte che avevano tentato di scovare loro
erano molto meno esplicative dell’insieme del personaggio di
quanto aveva dichiarato lui. La sua risposta, inimmaginabile,
s’addiceva al suo tipo di persona, all’evidenza che da lui
emanava, molto più delle loro ipotesi.
Ora, alla domanda che nasceva nel cuore della gente che
lo seguiva, abituata al suo discorrere, al suo atteggiamento,

65
alla sua capacità di influsso e di potere sugli uomini e sulle
cose, Cristo non ha dato immediatamente risposta compiuta.
L’avesse fatto avrebbe certamente evitato di morire in croce;
non sarebbe stato ucciso perché l’avrebbero giudicato
soltanto un pazzo. Infatti una risposta come quella che
avrebbe dovuto dare era qualcosa di assolutamente al di
fuori della concezione e della capacità di percezione di
quella gente. Sarebbe suonata follia più che bestemmia.
Per questo Gesù ha usato una intelligente pedagogia nel
definirsi. Lo ha fatto lentamente così da provocare negli altri
una graduale evoluzione per assimilazione, attraverso
processi destinati a favorire per una specie di osmosi la
convinzione.
Del resto, nella natura nessun passo della vita è realizzato
se non per passaggi infinitesimali. L’educazione migliore è
quella impostata in modo che l’evoluzione avvenga senza che
chi affronta il passaggio se ne accorga. Meno scontro c’è,
più normale è lo sviluppo. Crescerebbe sano uno stomaco
sottoposto ogni giorno al trauma di una indigestione? Così
ciò che non si raggiunge attraverso un’evoluzione non è
assimilato.
E anche una definizione deve formulare una conquista già
avvenuta, in caso contrario risulterebbe l’imposizione di uno
schema.
Così, se Gesù si fosse rapidamente ed esplicitamente
definito nella sua natura divina avrebbe prodotto in
chiunque una reazione che avrebbe squalificato ogni
possibilità di fiducia. Gli Ebrei erano troppo accanitamente
monoteisti per tollerare un’affermazione che intaccasse la
loro purissima idea di Dio senza una preparazione adeguata.
Gesù, quindi, seguì una linea educativa nella quale
dapprima tradusse in espressioni implicite e concrete
quell’idea che alla fine doveva esprimere apertamente. La
concretezza — l’idea che si incarna — e l’implicito — far
capire senza definire astrattamente — restano la più
naturale ed efficace linea educativa. Non esisteva neanche
per i discepoli più vicini la possibilità di capire la portata di
una risposta immediata e diretta alla loro domanda. Infatti

66
quello che Gesù dirà di sé riuscirà a imporsi esclusivamente
per il contesto illustrativo che la sua persona avrebbe
determinato.
Come abbiamo già detto, perché quel contesto si
illuminasse di indizi rivelatori, sarebbe stata necessaria la
convivenza. Chi andava ad ascoltarlo per curiosità, piacere, o
per averne vantaggio dal punto di vista del prodigio, chi
insomma lo affrontava tangenzialmente, non poteva avere
quella percezione di sintomi capaci di persuadere ad aderire
alla sua parola. Infatti, osserva Guardini: «Questa rivelazione
della divinità che si palesa nella esistenza viva di Gesù, non
però con manifestazioni irruenti e con azioni grandiose, ma
con un continuo, silenzioso trascendere i limiti delle umane
possibilità, in una grandezza e in una vastità che si
percepiscono dapprima solo come una naturalità benefica,
come una libertà che appare naturale, come umanità
semplicemente sensibile — espresse nel nome meraviglioso
di "Figlio dell’uomo", che egli stesso tanto volentieri si
attribuiva —, finisce per rivelarsi semplicemente come un
miracolo [...] un passo silenzioso che trascende i limiti
segnati alle umane possibilità ma ben più portentoso della
immobilità del sole e del tremare della terra!».2

1. Le linee essenziali della pedagogia


rivelativa

a) Il Maestro da seguire
Innanzitutto Gesù chiede che lo si segua. I primi modi con
cui Gesù propone se stesso sono così dalla gente
comprensibili e accettabili. Contengono una implicazione
molto più grande, ma la gente non se ne accorge. Quando
Gesù ha detto ad Andrea, Giovanni, Simone: «Venite con
me», ha fatto loro un invito che potevano benissimo capire.
Proviamo a proiettarci ora a trent’anni di distanza da quel
primo istante, quando i discepoli sparsi in tutto il mondo

67
allora conosciuto sono diventati gli originatori di una realtà
totalmente nuova. Ripensando al loro passato, che grande
significato acquistava allora quella prima parola udita:
«Seguimi!». Ma nell’istante in cui l’hanno udita, il suo
contenuto totale e profondo non poteva essere percepito.
Ho già fatto l’analogia con un’esperienza corrente per gli
uomini. Una persona si imbatte in un’altra che avrà poi un
significato incisivo per la sua vita: se, dopo venti o trent’anni,
ripensa a quella prima occasione, come sarà colpita di
cogliere il significato recondito di un certo momento
dell’esistenza, di riconoscere il contenuto di un attimo
d’incontro, contenuto che poi la storia farà via via emergere
e che il tempo renderà manifesto!

b) La necessità di una rinuncia


Ma via via che il tempo passa Gesù aggrava la sua richiesta.
La chiamata a seguirlo non si identifica solo con la prontezza
a riconoscerLo giusto, meritevole di fiducia, ma è congiunta
alla necessità di «rinunciare a se stessi».3 In un certo senso
è ovvio: per seguire un altro, occorre abbandonare la propria
posizione, «se stessi». Così egli chiede ai discepoli che lo
seguano anche a costo di doversi distaccare da ciò che è
loro, come la vita familiare o i beni posseduti. Questo già
implicava una certa "stranezza", ma non in modo eccessivo.
Vi erano all’epoca molti «rabbi» (come per esempio in certi
gruppi di Esseni, che si ritiravano nel deserto, oppure che si
stabilivano ai margini della città) i cui adepti abbandonavano
quello che avevano. Ma anche il senso profondo di questa
rinuncia — la rinuncia a «se stessi» come criterio — sarà
destinato ad apparire più tardi nell’animo di chi lo seguiva.

c) Di fronte a tutti
Gesù però pretendeva non solo che lo seguissero realizzando
un distacco da quello che possedevano, ma che fossero «per
lui» di fronte alla società. Egli richiede che l’uomo lo segua

68
anche esteriormente, socialmente (testimonianza), e fa
dipendere da questo il valore stesso dell’uomo, la salvezza.
«Chi pertanto mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo
riconoscerò davanti al Padre mio, che è nei cieli; ma chi mi
rinnegherà dinanzi agli uomini, anch’io lo rinnegherò dinanzi
al Padre mio, che è nei cieli.»4 Del resto nessun rapporto è
mai intero e vero se non ha la forza di prodursi socialmente.
Se, per esempio, una ragazza è legata da tempo a un
ragazzo, a un certo punto, magari anche su pressione del
padre o della madre, gli dirà: «Vieni a casa mia, fatti
conoscere», e fino a quando il ragazzo tergiversa, dicendo:
«Ma no, aspettiamo», ed esita a far conoscere il suo legame
anche di fronte agli amici, giustamente la ragazza si sentirà
insicura e a disagio. Infatti, fino a quando un sentimento o
un rapporto non ha una tenuta tale da affrontare lo sguardo
della società, da affermarsi di fronte a tutti gli altri, fino a
quel punto non si può ancora dire che il sentimento o il
rapporto siano sicuramente veri. Perciò il Signore esprime
questa traiettoria di insistenza: seguirlo; seguirlo fino al
punto da saper abbandonare quanto si ritiene proprio; stare
con Lui di fronte a tutti altrimenti non sarebbe veramente
pieno l’aderire a Lui quand’anche ci si fosse distaccati da
ogni cosa. Per tornare all’esempio di quel ragazzo: egli può
trascurare ogni interesse e anche i suoi rapporti familiari per
stare vicino alla sua ragazza, ma questo non sarà ancora il
segno della sicurezza del suo rapporto. Nello stesso tempo,
infatti, egli può non volere ancora che quel rapporto sia
socialmente affermato, mentre un sentimento umano ha
come suo estremo segno di verità il «di fronte alla società», il
«di fronte a tutti».

2. A causa sua: il centro della libertà


I passaggi che abbiamo descritto costituiscono come un
primo aspetto dei rapporti di Gesù con i suoi. Possiamo
parlare di un momento successivo in cui Egli insiste
ulteriormente e spinge la sua richiesta al cuore della sua

69
profondità.
È questo un momento destinato a provocare grande
impressione in chi lo segue da vicino. Gesù incomincia a
usare insistentemente la formula «a causa mia». Si scalzano
così, a poco a poco, i fattori ritenuti prima fondamentali nello
stabilire una identità, e si delinea una identità nuova, un
volto diverso, per cui quello che di valido si fa è valido non
perché lo si sente o si giudica tale, ma perché lo si compie
per Lui. «A causa mia.» Ma soprattutto si deve prendere atto
che, agendo «a causa sua», si può essere ostracizzati dalla
società, si rischia di entrare in contrasto con la mentalità
comune.
Nel decimo capitolo del vangelo di Matteo, quando Gesù
invia i Dodici nei villaggi a predicare, dà loro delle istruzioni
che esprimono bene questo secondo momento del suo
metodo educativo. «E se qualcuno non vi riceve, né ascolta le
vostre parole, uscendo da quella casa o da quella città,
scuotete la polvere dai vostri piedi. In verità vi dico: nel
giorno del giudizio il paese di Sodoma e Gomorra verrà
trattato meno severamente di quella città. Ecco, io vi mando
come pecore in mezzo ai lupi; siate prudenti come serpenti e
semplici come colombe. Guardatevi però dagli uomini,
perché vi trascineranno davanti ai tribunali e vi flagelleranno
nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti a governatori
e re a causa mia, per essere di testimonianza a essi e ai
gentili. [...] Ora, il fratello darà a morte il fratello e il padre il
figlio; i figli si solleveranno contro i genitori e li faranno
morire. E sarete odiati da tutti a causa del mio nome [...]. Il
discepolo non è da più del maestro, né il servo da più del suo
padrone. Basta al discepolo d’essere [trattato] come il
maestro, e al servo come il padrone. Se han chiamato
Beelzebùl il capo di casa, quanto più i suoi familiari. [...]
Quello che io vi dico nel buio, ditelo nella luce del sole; e
quello che vi è stato detto all’orecchio, predicatelo sui
tetti.»5
Ora, l’aspetto fondamentale, e a ben guardare anche più
impressionante, di questo «a causa sua» non è tanto la
descrizione, sia pure realistica e certamente grave per chi lo

70
ascoltava, delle possibili ostilità cui andava incontro il
seguace di Gesù, bensì il fatto sotteso a tale descrizione:
lentamente Gesù colloca la sua persona al centro della
affettività e della libertà dell’uomo. E questo diventa
sferzante quando Egli si pone addirittura in paragone con gli
affetti più intimi dell’uomo stesso.
«Mentre si rivolgeva ancora alla folla, ecco la Madre e i
suoi cugini che erano fuori e cercavano di parlargli. E uno gli
disse: "Ecco, tua madre e i tuoi parenti son là fuori e
desiderano parlarti". Ma egli, rispondendo a chi l’aveva
informato, disse: "Chi è mia madre e chi sono i miei
parenti?". Poi, stendendo la mano verso i suoi discepoli,
disse: "Ecco là mia madre e i miei parenti. Perché chi fa la
volontà del Padre mio, che è nei cieli, egli è mio fratello e mia
sorella e mia madre".»6
Egli pone la propria persona come alternativa ai sentimenti
naturali, anche se la parola «alternativa» è sbagliata: rende
ragione solo del primo impatto con questo atteggiamento di
Gesù. Si dovrebbe dire: Egli pone la propria persona nel
cuore degli stessi sentimenti naturali, si colloca a pieno
diritto come loro radice vera. «Non crediate che io sia venuto
a portar la pace sulla terra. Non son venuto a portare pace,
ma una spada. Perché son venuto a dividere il figlio dal
padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici
dell’uomo saranno i suoi familiari. Chi ama il padre o la
madre più di me, non è degno di me; e chi ama il figlio o la
figlia più di me, non è degno di me [...]. Chi tien conto della
sua vita, la perderà; e chi avrà perduta la sua vita per amor
mio, la ritroverà.»7
La libertà dell’uomo si verifica molto di più nell’esperienza
dei rapporti con ciò che gli appartiene, che neanche
direttamente con se stesso. Un uomo accetterebbe più
volentieri di perdere se stesso piuttosto che di perdere la
persona amata; la sua libertà, infatti, si incentiva nel
rapporto di possesso o di preferenza. Ecco: Gesù si colloca al
centro di tali rapporti, come nel cuore che li origina e senza
del quale non avrebbero vita.

71
Ed è qui il punto di partenza dell’ostilità nei suoi confronti.
Fino a quando Egli si dice «maestro» e chiede «seguimi»,
uno può riconoscerlo e andare con lui oppure non seguirlo, e
c’è ancora spazio per la semplice indifferenza, ma quando la
sua proposta si chiarisce come una pretesa di entrare nel
dominio della nostra libertà, allora o lo si accetta, e diventa
amore, o lo si rifiuta, e diventa ostilità.
La storia immaginata prima puntualizza anche
analogicamente l’avversione che nasce di fronte a qualcuno
che in qualche modo metta in atto la centralità di una
pretesa.
Un giorno, infatti, dopo che «il re del Portogallo» si fu
amorevolmente imposto ai paesani, arriva un’automobile
della polizia in paese, e lui viene portato via. Era stato
tradito. Da chi? Dal sindaco. Ma come? Mai il sindaco era
stato rispettato e onorato quanto nel mese della permanenza
di quel signore! Eppure il sindaco sentiva, e non lo
accettava, che il centro del paese non era più lui, constatava
di essere stato scalzato come punto di riferimento e padrone
del villaggio.
Un meccanismo molto simile si è innescato per ciò che
riguarda le reazioni alla persona di Gesù. Proprio per quel
suo modo di proporsi comincia a nascere verso di lui
un’ostilità, quando, cioè, egli prende a manifestare la propria
presenza come pretesa di significato decisivo e di potere
determinante nell’ambito della libertà della gente.
Una dottrina che spieghi la vita può provocare consenso o
negazione — dice Romano Guardini —,8 ma ben diverso è
quando una figura umana avanza per se stessa la pretesa di
possedere un’importanza assoluta per la nostra vita. Per
riconoscere tale pretesa, chi ascolta deve rinunciare a se
stesso, deve sacrificare l’autonomia del proprio criterio, in
un modo così sensibile come può avvenire soltanto
nell’amore. Se questa rinuncia a sé è rifiutata, si desta
un’avversione radicale, profonda, che cercherà in tutti i modi
di giustificarsi.
Gli apostoli approfondiranno la loro scelta proprio in
questo secondo momento, così come gli altri in questo

72
momento prenderanno le distanze da Gesù. Dice
Tresmontant: «Se si studia il caso di Gesù di Nazareth, si
vede che la resistenza incontrata proviene dal fatto che
Gesù, con le sue azioni e con le sue parole, insegna una
dottrina che urta e sconvolge abitudini acquisite,
rappresentazioni acquisite, preconcetti. Coloro che
trasmettono preconcetti e li conservano, si ribellano contro
questo insegnante di novità. È intollerabile per loro. Lo era e
lo è ancora oggi. Lo sarà sempre».9
Resta però il fatto che il discriminante fondamentale pro o
contro Cristo sta nella inconcepibile pretesa della sua
Persona, nella novità assoluta della sua «natura», nella
inimmaginabile risposta alla domanda su Chi egli sia: questa
è la chiave di volta per un salto qualitativo nella percezione
di sé e nella immagine della vita.

3. Il momento dell’identificazione
Ma è soprattutto in un terzo momento che Gesù affronta, sia
pure ancora implicitamente, la risposta a quella domanda:
«Tu chi sei?».
Una volta una professoressa di religione valdese mi ha
detto: «Cristo mai dice nel Vangelo: "Io sono Dio"; dice
invece sempre: "Io sono il Figlio di Dio"». E io le ho risposto:
«Se trovassi nel Vangelo che Cristo ha detto: "Io sono la
seconda persona della SS. Trinità" immediatamente direi che
si tratta di un falso». E sarebbe un falso, perché essendo Egli
ebreo, nato in quell’epoca, ed essendo di quel tipo di
estrazione sociale, non poteva parlare se non secondo la
mentalità di un uomo di quell’epoca e di quella estrazione
sociale. Non possiamo immaginarci di sentirlo parlare con la
scaltrezza di un greco del IV secolo, né tanto meno secondo
il tipo di esigenze mentali che contraddistinguono l’uomo
moderno.
Un ebreo non poteva neanche pronunciare la parola Dio,
perché l’avrebbe infangata. Il nome di Dio, i farisei
insistevano su questo, veniva pronunciato tramite delle

73
circonlocuzioni. Dio, infatti, si identificava con la sua parola,
con la storia del popolo, vale a dire con i testi, con la Bibbia
come storia di una nazione, con gli antichi padri. Allora le
circonlocuzioni con cui l’ebreo di quei tempi indicava la
divinità erano: «La legge, i profeti e Mosè» oppure «i Padri»,
«gli antichi», quelli cioè che erano stati riconosciuti come il
tramite, lo strumento della voce di Dio, al punto che quello
che loro dicevano era la voce, la parola stessa di Dio.
Quanto era avvenuto nella loro vita erano gesti di Dio.
Mirabilia Dei, gesti di Dio, si erano verificati con Abramo,
Isacco, con Giacobbe, con Davide.
Allora Gesù rispose alla grande domanda: «Tu chi sei?»
attribuendo a sé gesti e ruoli che gelosamente la tradizione
ebraica riservava a Jahve. Egli così si identificò con Dio.
Rendendo sempre più decisive le sue affermazioni, Gesù
Cristo, ebreo di una determinata epoca, si appropria di
atteggiamenti riservati al divino, usa il metodo di attribuirsi
normalmente quanto era proprio di Dio.
Questa identificazione è avvenuta soprattutto secondo tre
flessioni.

a) L’origine della Legge


Anzitutto, Gesù ha identificato se stesso con l’origine della
Legge. La parola Legge era il sinonimo più usato dai farisei
per indicare il divino. Dire che qualcosa era secondo la
Legge significava dire che era secondo Dio. Per chi lo
ascoltava, doveva essere qualcosa di inaudito sentirlo
ripetere: «Fu detto... ma io vi dico». «Voi avete udito cosa fu
detto agli antichi: "Non uccidere"; e chiunque avrà ucciso,
sarà condannato in giudizio; ma io vi dico: chiunque va in
collera col suo fratello sarà condannato in giudizio. [...] Voi
sapete che è stato detto: "Non commettere adulterio". Ma io
vi dico... È stato pure detto: "Chiunque rimanda la propria
moglie, le dia il libello del ripudio"; ma io vi dico... Sapete
che fu anche detto dagli antichi: "Non spergiurare; ma
adempi i tuoi giuramenti al Signore". Io però vi dico... Voi
sapete che è stato detto: "Occhio per occhio, dente per

74
dente". Ma io vi dico... Voi sapete che fu detto: "Amerai il tuo
prossimo e odierai il tuo nemico". Ma io vi dico...»10 Gesù
modifica ciò che per il fariseo rappresentava il divino
comunicato all’uomo, identificando così se stesso con la
fonte della Legge.

b) Il potere di rimettere i peccati


Ricordiamo l’episodio del paralitico guarito,11 quando Gesù
rivendica a sé il potere di rimettere i peccati, e lo rivendica
in modo fattuale, oltre che con la parola. La gente rimase
impressionata dal prodigio, ma esso rimandava a ben altro.
Rimandava a quel potere di perdono che è solo di Dio. «La
sua pietà mostra dei tratti inauditi, anzi addirittura
rivoluzionari, che dai devoti di allora furono sentiti come
scandalosi e sacrileghi [...]. Egli non risponde a nessuno dei
modelli conosciuti. Esige un cambiamento, che ha di mira
non solo le strutture esterne e le forme di comportamento,
ma anche gli ideali e l’orientamento fondamentale, il cuore
dell’uomo. L’inaudita libertà con la quale Gesù si presenta
solleva una domanda: con quale autorità fai tu codeste
cose?»12

c) L’identificazione con il principio etico


Riandiamo al racconto del Giudizio finale, come è riportato
nel vangelo di Matteo. «Quando verrà il Figlio dell’uomo
nella sua maestà, con tutti gli Angeli, si assiderà al trono
della sua gloria. E tutte le nazioni saranno radunate davanti
a lui, ma egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore
separa le pecore dai capri; e metterà le pecore alla sua
destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che sono
alla sua destra: "Venite, benedetti del Padre mio, prendete
possesso del regno preparato per voi fin dalla creazione del
mondo. Perché ebbi fame e mi deste da mangiare; ebbi sete
e mi deste da bere; fui pellegrino e mi albergaste; ero nudo e
mi rivestiste; infermo e mi visitaste; carcerato e veniste a

75
trovarmi". Allora i giusti gli diranno: "Signore, quando mai ti
vedemmo affamato e ti demmo ristoro; assetato e ti demmo
da bere?
Quando ti vedemmo pellegrino e ti alloggiammo o nudo e ti
rivestimmo? Quando ti vedemmo infermo o carcerato e siam
venuti a visitarti?". E il re risponderà loro: "In verità vi dico:
ogni volta che voi avete fatto queste cose a uno dei più
piccoli di questi miei fratelli l’avete fatto a me". Infine dirà
anche a quelli che saranno alla sua sinistra: "Andate lontano
da me, voi maledetti, nel fuoco eterno [...]. Poiché ebbi fame
e non mi deste da mangiare; ero assetato e non mi deste da
bere [...]". Allora anche questi gli risponderanno: "Signore,
quando mai ti abbiamo visto affamato, o assetato, o
pellegrino, o nudo, o infermo, o carcerato e non t’abbiamo
assistito?".»13 E il re darà anche a loro la stessa risposta, ma
in negativo.
Qui si tratta del Giudizio ultimo, e ciò che agisce in esso è il
principio etico: non il legislatore, ma l’origine o, meglio, la
natura del bene. Ed è Lui. Tant’è vero che chi fa il bene
senza neppure accorgersi di Lui, senza averne coscienza, fa
il bene perché stabilisce, anche senza saperlo, un rapporto
con Lui. Se un’azione dell’ uomo è buona perché è per Lui ed
è cattiva se esclude Lui, Gesù si è posto come discriminante
tra il bene e il male, non tanto come giudice, ma come
criterio di identità. Lui è il bene e non essere con Lui è male.
Questo, pur restando nell’ottica di una implicitezza, è
l’affermazione più potente della coscienza che Cristo aveva
della sua identità con il divino. Perché il criterio del bene e
del male coincide con il principio delle cose, con l’origine
ultima della realtà. La sorgente etica per eccellenza è il
divino, il principio del bene coincide con il vero. Vivere bene
vuol dire servirlo, seguirlo.14

76
Capitolo settimo
LA DICHIARAZIONE ESPLICITA

Della traiettoria seguita finora per descrivere come il


problema cristiano si sia posto vorrei sottolineare soprattutto
gli aspetti di metodo, il dinamismo che l’ha messa in essere,
poiché sarà lo stesso dinamismo lungo tutto l’arco della
storia. Vale a dire: il comportamento di quell’uomo era tale
che quanto più lo si condivideva, lo si seguiva, tanto più si
era indotti a chiedersi: «Ma come fa a essere così?».
Cosicché a un certo punto la domanda esplose. Ricordando il
concetto di certezza morale1 ne abbiamo rievocato un
corollario: la natura ci permette di ottenere la certezza circa
l’umano comportamento — proprio perché fondamentale per
la vita — più velocemente di altri tipi di certezza, attraverso
cioè l’intuizione della convergenza di tanti indizi verso un
punto. Quanto più allora uno condivide la vita di una persona
tanto più è capace di certezza morale a suo riguardo, perché
la congerie di indizi si moltiplica. Così è stato per Gesù.
Allora la sua bontà, la sua intelligenza, la sua tremenda
capacità introspettiva, la possibilità prodigiosa di governo
delle cose, la naturalezza della sua attitudine al miracolo
sono, per chi vive con lui o per chi sa prestargli vera
attenzione, tutti indizi che via via si moltiplicano e si
approfondiscono, indizi che fanno «restare a bocca aperta»,
indizi che provocano una domanda cui non si sa rispondere,
ma cui si deve poter rispondere.
Certamente gli stessi discepoli cercano delle risposte. I
Vangeli riportano, per esempio, un episodio avvenuto nei
pressi di Cesarea di Filippo.2 Possiamo cercare di
immaginarne la dinamica. Gesù, mentre cammina con i suoi
per un sentiero che conduce al mare, vede a un certo punto
il sentiero costeggiare un dirupo scosceso e, come ognuno di

77
noi farebbe, si ferma un istante a guardare. Come colto da
un pensiero improvviso, dice rivolto ai suoi: «Chi sono io
secondo la gente?». Essi rispondono: «Per alcuni Giovanni il
Battista, per altri Elia, per altri uno degli antichi profeti che è
risorto». Allora domanda: «Ma voi chi dite che io sia?». E
Pietro, al solito, sbotta d’impulso, ripetendo probabilmente,
anche se non ne possedeva appieno il significato, qualcosa
che aveva sentito dire da Gesù stesso: «Tu sei il Cristo, il
Figlio del Dio vivente». Pietro aveva già raggiunto
quell’evidenza che gli faceva pensare di Gesù: «Se non posso
fidarmi di quest’ uomo, non posso fidarmi neppure di me
stesso». E Gesù, guardando quella roccia scoscesa che gli
stava davanti, la pietra su cui era stata costruita la cittadella
di Cesarea di Filippo, imprendibile per la sua posizione, e
guardando Pietro gli dice: «Tu sei Pietro e su questa pietra
edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non
prevarranno contro di essa». E poco prima gli aveva detto
«beato», perché la risposta che Pietro aveva dato alla sua
domanda non l’aveva trovata da solo, ma il Padre suo l’aveva
suggerita.
All’interrogativo sull’identità di Cristo tutti cercano di dare
risposta; tutti, di fronte al problema che rappresenta, sono
inquieti perché la loro risposta non esaurisce il tipo. E allora
lo domandano a Lui: «Tu chi sei?», e Lui dà, sì, una risposta,
ma, come abbiamo appena visto, lentamente,
pedagogicamente, introducendola quasi con cautela per non
«spegnere il lucignolo fumigante».3 La risposta, infatti, era
troppo pesante per loro, troppo sconvolgente per la loro
mentalità . Così ha compiuto dei passi introduttivi alla
risposta esplicita. Colloca se stesso come il motivo per cui
vale la pena giocarsi la vita, si pone come fondante i rapporti
che costituiscono il cuore della nostra libertà, infine
comincia addirittura ad attribuirsi gesti e prerogative che la
Bibbia e tutta la tradizione ebraica riferivano gelosamente a
Dio. Diventa creatore della Legge, perdonatore del peccato e
si identifica con la scaturigine dell’etica.
Giunto, però, ormai agli ultimi tempi, la sua dichiarazione
diventerà esplicita. Cristo finalmente si presenta come Dio in

78
modo aperto. E questo soltanto quando le coscienze attorno
a Lui avevano già assunto posizioni decise nei suoi confronti.
Dio, infatti, tende a valorizzare la situazione in cui la nostra
libertà si è precedentemente messa. Il modo con cui Dio ci
tratta asseconda una decisione già presa della nostra libertà,
costringe a svelare meglio ciò che essa è disposta a fare.
Quando la libertà si dispone in atteggiamento di chiusura,
tutto quanto accade la favorisce a chiudersi maggiormente,
e viceversa. «Perché a chiunque ha sarà dato e sarà
nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che
ha.»4
Così la prova definitiva che egli darà di se stesso sarà per i
suoi amici occasione per dimostrare un legame maggiore
con lui; per i suoi nemici il pretesto ultimo per eliminarlo.

Vediamo ora tre momenti caratteristici in cui l’esplicitezza di


Gesù si palesa.

1. Il primo affiorare di una esplicitezza


Negli ultimi tempi vediamo Gesù quasi installato nel portico
del tempio a sfidare i farisei dalla mattina alla sera. Il clima a
Gerusalemme è arroventato a motivo della persona di Gesù.
«C’è un gran "sussurrare", un parlare in segreto tra la folla,
probabilmente composta di gente del luogo e di pellegrini.
Le opinioni sono divise, ma vengono citati soltanto sommari
giudizi. A un riconoscimento, deciso ma incolore ("è buono"),
si oppone la calunnia ("egli seduce il popolo"). Per il reato di
"seduzione" il diritto penale giudaico comminava la
lapidazione. È un’espressione molto forte [...]. Ma quale sia
la situazione a Gerusalemme risulta soprattutto dal fatto che
vi regna il terrore di esprimere un’opinione personale; il
popolo non osa esprimere le sue idee "per paura dei Giudei".
Qui inequivocabilmente si intende parlare delle autorità
teocratiche che ricorrono a minacce e a rappresaglie.»5
Il primo momento di cui vogliamo parlare può sembrare al

79
lettore moderno non del tutto esplicito, ma lo diventa nel
contesto del tempo. Erano, dunque, le ultime settimane della
sua vita e l’atmosfera che lo circondava era nella capitale
quella descritta. Fino ad allora Gesù era fuggito sempre dai
farisei, perché non lo prendessero. Ora, invece, va a
Gerusalemme, decisamente. La situazione era tale che
questa sua decisione provoca le reazioni degli amici. Gli
evangelisti annotano che «Pietro lo trasse in disparte e
cominciò a protestare»6 oppure che «si mise a
rimproverarlo».7 Ma Gesù obietta: «Non pensi secondo Dio,
ma secondo gli uomini».8
A Gerusalemme la diatriba si esalta, ma nella città affollata
di pellegrini lo spettacolo di quelle discussioni interessa
molti curiosi. Gesù prende addirittura l’iniziativa di attaccare
i farisei sul fronte della loro più alta competenza:
l’interpretazione delle Scritture, di cui conoscevano ogni
sottigliezza. «Trovandosi i farisei riuniti insieme, Gesù chiese
loro: "Che cosa pensate del Messia? Di chi è figlio?". Gli
risposero: "Di Davide" .» La risposta è pronta a un tema,
quello del Messia, comune al discorrere degli scribi e dei
farisei, che, come tutti, lo aspettavano in quel momento della
storia. «Ed egli a loro: "Come mai allora Davide, sotto
ispirazione, lo chiama Signore, dicendo: ’Ha detto il Signore
al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché io non abbia
posto i tuoi nemici sotto i tuoi piedi?"’.» La profezia, cioè, usa
lo stesso termine per indicare Dio e Colui che sarebbe
venuto. Conclude Gesù: «"Se dunque Davide lo chiama
Signore, come può essere suo Figlio?". Nessuno era in grado
di rispondergli nulla; e nessuno, da quel giorno in poi, osò
interrogarlo.»9 Benché ogni parola delle Scritture
sembrasse non aver segreti per loro, la loro capacità
interpretativa non bastava a controbattere a Gesù. Ma
qualcosa di definitivo e di solenne deve essere giunto loro
dal suo ragionare, perché da quel giorno non gli hanno più
fatto domande. Un inizio di esplicita risposta era dunque
stato dato: la natura di Gesù si svela come divina.

80
2. Un contenuto di sfida
Un altro momento di dichiarazione esplicita è riportato dal
vangelo di Giovanni, nel capitolo 8.10 Pur nel clima teso di
quelle discussioni al tempio il Vangelo nota spesso che alcuni
giudei ascoltando Gesù «credevano in lui». Erano
probabilmente persone che si dicevano: «Però, non è uomo
da rifiutare in blocco, questo. Dice cose che fanno pensare e
le motiva...». Oggi potremmo qualificarli come simpatizzanti.
Allora Giovanni osserva che, in una di queste circostanze,
Gesù si rivolge a coloro che avevano simpatizzato con lui.
«Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei
discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi.» I
presenti sono sorpresi e punti sul vivo da questa
affermazione. «Essi si sentono feriti dalle parole di Gesù nel
loro orgoglio religioso e nazionale. [...] Nonostante ogni
oppressione politica essi sanno di essere liberi figli di
Abramo, che interiormente non si sono mai piegati a una
dominazione straniera.»11 Quindi obiettano a Gesù di essere
sempre stati liberi, come può lui legare a se stesso la loro
libertà? Gesù ribatte: «Chiunque commette il peccato è
schiavo del peccato. Ora, lo schiavo non resta per sempre
nella casa, ma il Figlio vi resta sempre; se dunque il Figlio vi
farà liberi, sarete liberi davvero». Gesù ricorre a
un’immagine per chiarire la sua capacità di rendere liberi:
«L’immagine è quella di una comunità domestica, in cui vi
sono degli schiavi e un figlio del capo di casa. I servi, o
schiavi, lasceranno un giorno la casa, il figlio ed erede vi
resta. Situazioni del genere si verificavano tanto in Palestina
quanto in territorio ellenistico».12 Quello che egli intende
dire è che chi sbaglia è come schiavo del suo limite. Uno
schiavo non appartiene ancora alla famiglia. Un figlio,
invece, è dentro, nella famiglia della libertà. Dunque, è come
se Gesù dicesse: sarà il figlio a dovervi prendere e farvi
entrare da liberi nella casa.
Gesù ha certo visto le espressioni risentite sui volti dei
presenti, e allora insiste nel volerli provocare, fino

81
all’estrema conseguenza. «So che siete discendenza di
Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia
parola non trova posto in voi. Io dico quello che ho visto
presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete
ascoltato dal padre vostro!» Gli astanti gridano ancora, in
un’atmosfera che si va sempre più riscaldando, la loro
discendenza da Abramo. E Gesù: «Se siete figli di Abramo,
fate le opere di Abramo! Ora, invece, cercate di uccidere me,
perché vi ho detto la verità; questo Abramo non l’ha fatto». I
capi dei Giudei hanno compreso che «Gesù vuole attribuire
loro un altro padre che non è Abramo. [...] Per i Giudei
Abramo era l’iniziatore dell’adorazione di Dio, colui che in
Dio aveva riconosciuto il creatore del mondo e lo aveva
servito fedelmente. [...] Che Gesù neghi che i Giudei siano
figli di Abramo è da essi considerato un insulto alla loro
fedeltà a Dio».13
«Noi abbiamo un solo padre, Dio!» Ma Gesù incalza: «Se
Dio fosse vostro Padre, certo mi amereste, perché da Dio
sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi
ha mandato. Perché non comprendete il mio linguaggio?
Perché non potete dar ascolto alle mie parole, voi che avete
per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre
vostro. Egli è stato omicida fin dal principio e non ha
perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui.
Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e
padre della menzogna. A me, invece, voi non credete, perché
dico la verità. Chi di voi può convincermi di peccato? Se io
dico la verità perché non mi credete?». Gesù, continuando a
discutere e ad accusarli in modo stringente, dice
chiaramente che «tutte le loro pretese (figliolanza da
Abramo e figliolanza da Dio) si infrangono contro il fatto che
essi cercano di ucciderlo [...]. Gesù parla e discute nella
coscienza della sua totale unità con Dio».14 E allora coloro
che erano stati simpatizzanti, che sono divenuti nel corso
della diatriba sempre più estranei, sentendosi attaccati nel
loro orgoglio religioso, passano a dar ragione a coloro che
già si erano urtati con Gesù e lo accusano di essere

82
posseduto da un demonio, quindi ben lontano da quel Dio dal
quale Egli aveva appena detto d’essere stato inviato.
Ma Gesù percorre ormai fermamente la strada della sua
autorivelazione: rifiuta le accuse e afferma qualcosa
destinato ad aggravare e aumentare lo scalpore e il clamore:
«Io non ho un demonio, ma onoro il Padre mio e voi mi
disonorate. Io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca e
giudica. In verità, in verità vi dico: se uno osserva la mia
parola non vedrà mai la morte». La reazione è violenta: gli
urlano che quanto sta dicendo conferma senza ombra di
dubbio il suo essere pazzo, indemoniato. Come si può
promettere di risparmiare la morte? Tutti i grandi della
storia, Abramo, i profeti, hanno dovuto fare i conti con la
morte. Lo scandalo di questa frase è grande: sia per coloro
che banalmente interpretassero alla lettera l’espressione di
Gesù, sia, soprattutto, per chi cogliesse anche solo per
intuito che era come avesse detto: «Io vi dichiaro
solennemente che chi aderisce a quel che dico io, aderisce a
qualche cosa che il tempo e la storia non potranno limitare».
«Ma tu chi pretendi di essere?» La formulazione di questa
domanda, che segue al brano citato, già denuncia il sospetto
e la provocazione. «Anche gli uomini che secondo la fede
giudaica erano particolarmente vicini a Dio, avevano dovuto
condividere la sorte di tutti gli uomini; per questo motivo la
frase finale: "chi pretendi di essere" insinua che Gesù si
voglia parificare a Dio [...]. Soltanto Dio è l’eterno Vivente e
Vivificante [...] e Gesù pretende di risparmiare la morte agli
uomini con la sua parola. A questo modo egli usurpa un
diritto riservato a Dio e si pone al di sopra di tutti gli uomini
a fianco di Dio.»15 Ma Gesù aveva anche detto «onoro il
Padre mio», soggiungendo «non cerco la mia gloria», e prima
di passare alla grande dichiarazione del versetto 58, prima
di «portare la sua autorivelazione a una definitiva,
insuperabile affermazione»,16 ribadirà, quasi per dare una
estrema possibilità alla libertà di qualche suo ascoltatore, la
sua dipendenza dal Padre, quel rapporto misterioso che
avrebbe potuto far sospettare gli astanti di non trovarsi di

83
fronte a un vanaglorioso millantatore: «Se io glorificassi me
stesso, la mia gloria non sarebbe nulla; chi mi glorifica è il
Padre mio, del quale voi dite: "È nostro Dio!" e non lo
conoscete. Io, invece, lo conosco. E se dicessi che non lo
conosco, sarei come voi, un mentitore; ma lo conosco e
osservo la sua parola».17
Così, mentre un animo attento avrebbe potuto intuire che
«l’attacco alla pretesa arroganza di Gesù si infrange contro
la sua obbedienza»,18 Gesù spinge al massimo la sua
provocazione: «Abramo, vostro padre, esultò nella speranza
di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò». In
qualunque genio umano c’è la profezia di un compimento
che la persona di Cristo assicura di incarnare. Ormai è
chiara agli avversari l’insensatezza, la presunzione inaudita,
assurda, di quanto Gesù sta dicendo. La loro obiezione è
perfino disarmata: «"Non hai ancora cinquant’anni e hai
visto Abramo?". Rispose loro Gesù: "In verità, in verità vi
dico: prima che Abramo fosse, Io sono". Allora raccolsero
pietre per scagliarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì
dal tempio». La discussione, iniziata quasi per approfondire
una simpatia e una curiosità, si conclude in una completa e
drammatica rottura. Vi sono affermazioni davanti alle quali è
come se il gioco egocentrico dell’animo umano fosse fatto
esplodere. Sono sfide alla ragione così come è vissuta, non
certo alla ragione in tutta l’ampiezza del suo appetito
conoscitivo. 19 Sono avvertimenti e annunci che non
possono essere tollerati. «Ora Gesù attesta a chiare parole
[...] la sua eccellenza su Abramo. [...] Gesù possiede la reale
preesistenza [...] che è compresa nel suo eterno essere
divino.»20
Occorre notare che, se in luogo della parola «Abramo», ci
fosse la parola «ragione», e invece della parola «Farisei» ci
fosse «gli intellettuali», tutta la dialettica sarebbe
perfettamente applicabile alla tensione fede-cultura
mondana propria dei nostri giorni.

84
3. La dichiarazione conclusiva
Il terzo e finale punto di riferimento è dato dal capitolo 26
del vangelo di Matteo.21
In quelle tumultuose ultime settimane gli appelli a credere
di Gesù si moltiplicano, segni e parole che vogliono far
riflettere gli uomini sull’urgenza e l’unicità del suo annuncio.
Dopo averlo molto sorvegliato, seguito per controllare il suo
insegnamento, i capi religiosi si risolvono a decretare la
pericolosità di Gesù. Non risponde all’immagine di Messia
che ci si aspettava, si scaglia contro di loro, interpreti della
Legge, distoglie il popolo dalla vera tradizione con
insegnamenti sospetti, potrebbe attirare troppo l’attenzione
dei romani. In breve: decidono di catturarlo. Gesù viene
arrestato e portato davanti al Sinedrio per un giudizio. È
talmente viva l’esigenza di giustizia nell’uomo, che non si
darà mai ingiustizia che non cerchi di porsi e imporsi senza
almeno l’apparenza della giustizia, dimostrandone così la
necessità.
Il Sinedrio era il grande consiglio giudaico e di per sé
sarebbe stato competente a giudicare e condannare Gesù,
ma la contingenza storica che vedeva la Giudea inserita
nell’impero romano come provincia faceva sì che il Sinedrio,
per questioni importanti come poteva essere una pena
capitale, dovesse sottoporre il capo d’accusa al governatore
romano.
Così il Sinedrio si accinse a seguire, nel caso di Gesù, una
procedura formalmente al riparo da qualsiasi accusa di
irregolarità: prima una udienza davanti al consiglio, poi
l’imputazione sottoposta alla competenza del governatore
romano. Gesù, davanti al Sinedrio, fu oggetto di molte
accuse, cui si erano prestati parecchi falsi testimoni, i quali
però finirono per contraddirsi. I Vangeli riportano un disagio
generale nel Sinedrio, che cercava una valida imputazione e
per molto tempo non riusciva a trovarla. Finché due
testimoni dicono: «Costui ha dichiarato: "Posso distruggere il
tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni"». Evidentemente in
modo fazioso riducono un’espressione che Gesù aveva

85
effettivamente usato qualche giorno prima, riferendosi
metaforicamente al proprio essere e alla propria persona. A
corto di più validi argomenti, il sommo sacerdote sollecita
Gesù a discolparsi, lo preme perché risponda. Ma è così
evidente la falsità della interpretazione che Gesù tace. Il
sommo sacerdote è alle strette, sa di dovere almeno
formalmente ottenere qualcosa, e allora avanza l’ultima sua
riserva per l’accusa, fa intervenire un argomento che non
avrebbe mai voluto pronunciare, talmente scandaloso era
l’accennarvi, per il blasfemo contenuto. «Ti scongiuro, per il
Dio vivente, perché ci dica se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio.»
«Tu l’hai detto — gli rispose Gesù — anzi io vi dico: d’ora
innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio, e
venire sulle nubi del cielo.» Davanti alla provocazione sulla
testimonianza che era venuto a dare, Gesù non poté più
tacere. Allora tutto il consiglio grida alla bestemmia e
proclama Gesù reo di morte.
L’ammissione di essere il Messia non necessariamente
avrebbe dovuto implicare l’accusa di bestemmia. Gesù,
attribuendo a sé, nella sua risposta, due celebri testi
messianici dell’Antico Testamento — il Salmo 110 e il
capitolo 7 di Daniele —,22 si è fermamente proclamato
Messia. Ma nella domanda stessa l’aggiunta al titolo di
Messia, il Cristo, dell’espressione «Figlio di Dio» (che Gesù
aveva usato) fa filtrare un allarme già esistente che Gesù con
la sua dichiarazione conferma. Il Sinedrio risponde, con il
suo gesto di indignazione, all’obiezione moderna secondo cui
Gesù nel Vangelo non si sarebbe proclamato Dio, ma Figlio di
Dio. Evidentemente le autorità religiose del tempo
riconoscevano in quella frase dell’uomo di Nazareth una
identificazione col divino, una pretesa sentita come
confusione tra la realtà umana e quella divina, che
giustificava l’accusa di bestemmia. Di nessuno, tra i molti
che a quell’epoca si erano dichiarati Messia, si era detto che
bestemmiava. Anzi, poiché il Messia era atteso, i capi
religiosi intelligenti seguivano una linea di verifica
semplicissima. Se qualcuno fosse stato davvero il Messia, il
liberatore che tutti attendevano, avrebbe ottenuto dei

86
risultati, in caso contrario avrebbe fallito. Nulla poteva
indurre il Sinedrio a distaccarsi da quell’atteggiamento
"sensato", per prendere una posizione così grave come
quella di un’accusa di bestemmia, se questa non fosse stata
provocata da qualcosa di più, da qualcosa che turbava, che
metteva in gioco l’idea stessa di Dio che essi onoravano e
difendevano da qualsiasi equivoco, da qualsiasi cosa che
potesse falsare e corrompere la concezione pura che
avevano di Jahve.
La condanna a morte di Gesù davanti al Sinedrio fu per
bestemmia, così come fu esplicitata al governatore romano:
«Perché s’è fatto Figlio di Dio»,23 anche se a Pilato si
sottolineò pure la pretesa di Gesù di essere Re dei Giudei,
appellativo che avrebbe potuto infastidire il rappresentante
dell’impero.

4. La discrezione della libertà


I termini per decidere della pretesa cristiana sono così posti.
Ogni altro elemento, perfino quello grandioso che seguirà la
morte di Gesù, la sua Resurrezione, testimoniata da molti
che l’hanno rivisto vivo, non farà che svelare «i pensieri di
molti cuori».
Quando Gesù era bambino, un uomo, Simeone, di cui il
Vangelo dice essere stato «giusto e timorato di Dio», un
uomo che aveva ardentemente desiderato vedere il Messia
prima di morire, aveva preso in braccio il piccolo che veniva
portato al tempio dai genitori, secondo l’uso, e aveva detto
alla madre che suo figlio sarebbe stato «segno di
contraddizione [...] così si sveleranno i pensieri di molti
cuori».24 L’affermazione di Gesù è semplicemente un fatto, e
i fatti fanno venire a galla l’atteggiamento di fondo del cuore
umano, se cioè esso è chiuso o aperto di fronte al mistero
dell’ essere.
Il problema cristiano si risolve con gli stessi termini con cui
si pone: o ci si trova davanti a una follia o quell’uomo, che

87
dice di essere Dio, è Dio. Il problema della divinità di Cristo
si riduce a questo: alternativa in cui penetra più che in altra
occasione la decisione della libertà. Una decisione che ha
radici recondite e collegate a un atteggiamento di fronte alla
realtà tutta. La libertà non è rappresentata da scelte
clamorose, esse non rendono ragione del dramma della
nostra vita. La libertà è quanto di più discreto esista. Lo
spirito assume una posizione originaria di fronte al reale e
poi la sviluppa, e ne prende coscienza, specialmente nelle
opzioni più gravide di conseguenze, solo dopo. Di fronte al
problema di Gesù Cristo si realizza la conseguenza della
posizione primordiale, più intima e originale della nostra
coscienza di fronte alla totalità degli esseri e dell’Essere.

88
Capitolo ottavo
LA CONCEZIONE CHE GESÙ HA DELLA VITA

1. Premessa: una educazione alla moralità


necessaria per comprendere
1) Il valore di una persona non viene da noi colto
direttamente, come se lo vedessimo. L’intimità personale si
lascia comprendere nella misura in cui si rivela — e si rivela
attraverso i «gesti», come attraverso dei segni —. Si
potrebbe paragonarli a quei sintomi che per il medico sono
manifestazione di una realtà non direttamente percepibile
alla sua osservazione. Quanto più il medico è geniale, tanto
più ha capacità di valutare i sintomi.
Così, per cogliere e giudicare il valore di una persona
attraverso i suoi gesti occorre una «genialità» — una
«genialità umana» —. Si tratta di una capacità psicologica
più o meno sviluppata o più o meno favorita. La compongono
tre fattori: una sensibilità naturale, la completezza
dell’educazione e l’attenzione.

2) In particolare, per verificare l’attendibilità di un fatto


inerente a una personalità morale e religiosa, occorre avere
in sé una genialità morale e religiosa la quale permetta di
interpretare i gesti di quella persona come segni significativi
in quel preciso senso.
Ma domandiamoci: che cosa è la morale? La moralità è il
rapporto tra il gesto e la concezione del tutto in esso
implicato.
L’uomo, infatti, si muove sempre per dimensione universale
— implicita o esplicita, cosciente, incosciente —. La capacità
di cui stiamo parlando, dunque, non è necessariamente
indicata da un livello di santità, di irreprensibilità etica; ma,

89
essendo in gioco l’elementare rapporto del particolare con il
tutto, essa è più definibile come apertura originale
dell’animo; come un originale atteggiamento di disponibilità
e di dipendenza, non di autosufficienza; come una volontà di
affermazione dell’essere, non di sé.
Eticamente tutto ciò si esprime come confronto vissuto di
sé con un ideale che ci supera, quindi come umiltà che vive
nello sforzo di «migliorare sé» e che si esprime nel desiderio
sincero o, almeno, nel disagio per il proprio male.
Si tratta qui del sentimento proprio della creatura, cioè
dell’essere in quanto dipendente, e si tratta della radice
stessa della religiosità. Così, la più drammatica scelta della
nostra libertà, e la condizione di quella capacità di verifica di
cui stiamo parlando, si colloca nelle profondità del nostro
essere: è scelta tra l’autosufficienza e la disponibilità; tra
quella decisiva sfumatura di chiusura, che impedirà la
verifica dei fatti, e impedirà quindi di capire e diventerà
infine irreligiosità da una parte; e dall’altra una semplicità
naturale vissuta che, nel tempo, darà i suoi frutti di
consapevolezza e permetterà all’intelligenza e al cuore di
spalancarsi ai fatti.

3) Gesù nel Vangelo nota continuamente la necessità di


questa che abbiamo chiamato genialità morale per poterlo
comprendere e osserva come l’abitudine a un atteggiamento
autosufficiente, non disponibile, renda impossibile percepire
il valore rivelatore di ciò che compie. Dall’affermazione
tragica di Giovanni («Egli era nel mondo, / e il mondo fu fatto
per mezzo di Lui, / eppure il mondo non lo riconobbe. /
Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto»)1 alle
parole che seguono l’incontro con Nicodemo («Il giudizio è
questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno
preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano
malvagie. Chiunque, infatti, fa il male odia la luce e non
viene alla luce, perché non siano svelate le sue opere. Ma chi
opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente
che le sue opere sono state fatte da Dio»),2 tutto l’inizio del

90
quarto vangelo introduce il dramma che Cristo vivrà con la
coscienza dell’uomo e che viene attestato soprattutto dai
capitoli quinto, sesto e ottavo. «Perché non comprendete il
mio linguaggio? Perché non potete dar ascolto alle mie
parole, voi che avete per padre il diavolo e volete compiere i
desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin dal
principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è
verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è
menzognero e padre della menzogna. A me, invece, voi non
credete, perché dico la verità. Chi di voi può convincermi di
peccato? Se dico la verità, perché non mi credete? Chi è da
Dio ascolta le parole di Dio: per questo voi non le ascoltate,
perché non siete da Dio.»3
Significativi sono, in questo senso, i due grandi miracoli
narrati nel vangelo di Giovanni: la guarigione di un cieco
dalla nascita4 e la resurrezione di Lazzaro.5 In questi
racconti sono vividamente scolpiti quegli atteggiamenti della
libertà che rappresentano l’opposto di quell’apertura
disponibile che siamo chiamati a favorire per poter giudicare
la plausibilità della pretesa di Gesù.
Nel primo racconto un uomo si trova guarito dalla cecità e
i capi religiosi, poiché il gesto miracoloso è stato compiuto
nel giorno di sabato in cui era prescritto il riposo, ne
squalificano il valore come non proveniente da Dio. Essi
cercano «di mettere in difficoltà un uomo incline alla fede,
esercitando pressioni e diffondendo il terrore tra il popolo
[...], respingendo ogni argomento a favore dell’origine da Dio
di Gesù». Essi sono «prigionieri di un atteggiamento
legalistico».6 Ma colui che è stato guarito non si lascia
ingannare: «Contro il loro arrogante sapere c’è la sua
personale esperienza di essere stato guarito da Dio; e non si
scosta da questa constatazione».7
La clamorosa resurrezione di Lazzaro, poi, è un segno
culminante tra quelli operati da Gesù. Tanto è vero che di
fronte a esso molti credettero. Alcuni dei presenti, invece,
«corsero a riferire» ai farisei l’accaduto. Abituati a esserne
succubi, rinunciano a un libero confronto dei fatti con la loro

91
umanità, e si rimettono alla decisione di chi è più influente di
loro. Questi ultimi, poi, mentre nel caso del cieco nato
avevano avviato una specie di indagine sui fatti, di fronte alla
resurrezione di Lazzaro decidono immediatamente di
uccidere Gesù.

Anche noi, comunque, non ci sentiremmo mai capiti se non


da qualcuno che abbia in sé qualcosa di noi. Se chi ascolta
una persona non ha in sé qualcosa che in qualche modo lo
avvicini alla esperienza dell’altro, può travisare il significato
della sua parola.
Così per affrontare la concezione morale di Gesù, e per
valutare la personalità che da essa traspare, occorre una
umanità, una possibilità di corrispondenza umana con Lui.

4) Quella che abbiamo chiamato genialità religiosa, quello


spalancamento ultimo dello spirito, pur a partire da doti
naturali diverse in ciascuno di noi, è qualcosa in cui deve
continuamente impegnarsi la persona. Grande è la
responsabilità dell’educazione: quella capacità di
comprendere, infatti, pur rispondente alla natura, non è una
spontaneità. Anzi, se trattata come pura spontaneità, la base
di sensibilità di cui originalmente si dispone verrà soffocata;
ridurre la religiosità alla pura spontaneità è il modo più
definitivo e sottile di perseguitarla, di esaltarne gli aspetti
fluttuanti e provvisori, legati a una sentimentalità
contingente.
Se la sensibilità per la nostra umanità non è costantemente
sollecitata e ordinata, nessun fatto, neppure il più clamoroso,
vi troverà corrispondenza. Tutti hanno prima o poi provato
quel senso di ottusa estraneità alla realtà che si sperimenta
in una giornata in cui ci si è lasciati trascinare dalle
circostanze, in cui non ci si è impegnati in nessuno sforzo:
improvvisamente cose, parole e fatti, che ci erano prima
chiare ragioni, in quel giorno cessano di essere tali, di colpo
non si capiscono più.
A Gesù, dopo tre anni che compiva prodigi, chiedono un
giorno un miracolo. Chiedono un segno che travolgesse la

92
loro libertà. Invece per Dio l’umanità non è qualcosa, da
costringere, ma da «chiamare» nella libertà.8

2. La statura umana
Chi è Gesù? La domanda fu posta. Ed Egli rispose.
Rispose svelandosi attraverso tutti i gesti della Sua
personalità: «Se non fossi venuto e non avessi parlato loro,
non avrebbero alcun peccato; ma ora non hanno scusa per il
loro peccato. [...] Se non avessi fatto fra loro opere che
nessun altro ha mai fatto, non avrebbero alcun peccato; ora
invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio. Questo
perché s’adempisse la parola scritta nella loro Legge: Mi
hanno odiato senza ragione».9
Ma il «gesto» più illuminante, il «segno», quindi, più
significativo, è la concezione che una persona ha della vita, il
sentimento complessivo e definitivo che ha dell’ uomo. Solo il
divino può «salvare» l’uomo, cioè le dimensioni vere ed
essenziali dell’umana figura e del suo destino solo da Colui
che ne è il senso ultimo possono essere «conservate», vale a
dire riconosciute, conclamate, difese. Solo il divino —
possiamo precisare — può definire la moralità di una
persona.
È nella concezione della vita che Cristo proclama, è nella
immagine che Egli dà della vera statura dell’uomo, è nello
sguardo realistico che Egli porta sull’esistente umano, è qui
dove il cuore che cerca il suo destino ne percepisce la verità
dentro la voce di Cristo che parla; è qui dove il cuore
«morale» coglie il segno della Presenza del suo Signore.

1) Il valore della persona


Fattore fondamentale dello sguardo di Gesù Cristo è
l’esistenza nell’uomo di una realtà superiore a qualsiasi
realtà soggetta al tempo e allo spazio. Tutto il mondo non
vale la più piccola persona umana; questa non ha nulla di

93
paragonabile a sé nell’universo, dal primo istante della sua
concezione fino all’ultimo passo della sua decrepita
vecchiaia. Ogni uomo possiede un principio originale e
irriducibile, fondamento di diritti inalienabili, sorgente di
valori.
Il valore non si può confondere (come siamo da una
mentalità corrente sempre tentati di fare) con le reazioni che
siamo indotti ad assumere. In questo modo il valore della
persona tende a essere ridotto ai termini prevalenti della
mentalità propria all’ambito in cui vive.
Al contrario, la persona gode di un valore e di un diritto in
sé, che nessuno può attribuirle o toglierle. Il valore
racchiude il motivo, lo scopo di un’azione, il «ciò per cui val
la pena agire», o esistere. Quindi, essere sorgente di valori
significa per la persona avere in sé lo scopo del proprio
agire.
Per tutto ciò Gesù dimostra nella sua esistenza una
passione per il singolo, un impeto per la felicità
dell’individuo che ci porta a considerare il valore della
persona come qualcosa d’incommensurabile, irriducibile. Il
problema dell’esistenza del mondo è la felicità del singolo
uomo. «Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il
mondo intero, e poi perderà la propria anima? O che cosa
l’uomo potrà dare in cambio della propria anima?»10
Nessuna energia e nessuna tenerezza d’amore paterno o
materno hanno mai investito il cuore dell’uomo più di questa
parola di Cristo appassionato della vita dell’uomo.
Del resto, l’ascolto di quegli ultimi interrogativi posti da
Gesù rappresenta la prima obbedienza alla nostra natura. Se
si è sordi a essi, ci si precludono le esperienze umane più
significative. Non si potrà amare sé e si sarà incapaci di
volere bene a chiunque altro. Il motivo ultimo, infatti, che
spinge a voler bene a sé e all’altro è il mistero dell’io; ogni
altra ragione è a questo introduttiva.

2) L’originale dipendenza

94
Abbiamo detto che il valore della persona così definito è
affermazione che corrisponde profondamente alla nostra
natura. Ma, domandiamoci, su che cosa si fonda? Se non si
ha chiaro su che cosa si fonda un valore, lo si misconosce
senza rendersene conto. L’evidenza ultima della vita, subito
dopo il fatto che si esiste, è che prima di aver vita non
l’avevamo. Perciò dipendiamo.
Come si motiva, dunque, l’appassionata e intransigente
affermazione che ci viene da Gesù del valore assoluto del
singolo, se questo prima non esisteva, se esso sorge dal
mondo come la schiuma dalla cresta dell’onda e nel mondo si
dissolve, se esso è fenomenicamente derivazione dal
passato, effetto di dati biologici precedenti e destinato a
consumarsi?
Come è possibile che il diritto e il valore della persona non
stiano soltanto nella partecipazione al flusso della realtà,
tanto quanto il dito vale perché parte del corpo, e al di fuori
di esso non vale nulla?
Cristo evidenzia nell’uomo una realtà che non deriva da
dove l’uomo fenomenologicamente proviene, realtà che è
rapporto diretto esclusivo con Dio.
Questo è il rapporto misteriosamente personale che
riguarda anche il più piccolo essere umano: «Guardatevi dal
disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i
loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio
che sta nei cieli».11 È il contenuto di questo rapporto che
rappresenta «il tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova
e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i
suoi averi e compra quel campo»; o «la perla di grande
valore» per cui uno «vende tutti i suoi averi e la compra».12
È questo rapporto il soggetto irriducibile di una conoscenza
indeducibile: «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e
nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il
Figlio lo voglia rivelare»;13 o, altrove: «Beato te, Simone
figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno
rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli».14 L’amore,
suprema espressione dell’autocoscienza e dell’autopossesso

95
dell’uomo, cioè della libertà, di tale rapporto è pure
l’adeguata espressione: «"Maestro, qual è il più grande
comandamento della legge?". Gli rispose: "Amerai il Signore
Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con
tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei
comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il
prossimo tuo come te stesso"».15 Così che il senso della vita
umana, il destino assolutamente unico e personale che in
essa si gioca dipende da tale amore assolutamente unico e
personale, come ci illumina Gesù circa il criterio supremo nel
Giudizio finale.16
Quell’irriducibile rapporto è di un valore inaccessibile e
inattaccabile da qualunque genere di influenza.
Le «beatitudini» sono un inno a tale libertà e a tale
dignità.17 Ma questo inno trova la sua conferma e la sua
esplicazione incantevole in quell’abbandono totale a Dio che
Cristo richiede con dolcezza e forza imparagonabili ai suoi
discepoli18 e nell’inviare in missione i suoi apostoli: «Non
abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno
potere di uccidere l’anima [...]. Due passeri non si vendono
forse per un soldo? Eppure neanche uno di essi cadrà a terra
senza che il Padre vostro lo voglia. Quanto a voi, perfino i
capelli del vostro capo sono tutti contati; non abbiate dunque
timore: voi valete più di molti passeri! Chi, dunque, mi
riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò
davanti al Padre mio che è nei cieli; chi, invece, mi
rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò
davanti al Padre mio che è nei cieli».19

Tale rapporto, unico, in quanto è riconosciuto e vissuto, è


religiosità.

Ora, Gesù, nella sua vita terrena, è come concentrato su


questo problema, perché, senza una definizione di esso e
senza affrontarlo, il singolo non ha alcuna possibilità di
essere salvato, cioè di «conservare» se stesso: sarà schiavo

96
di reazioni che lo investono, rendendolo violento verso sé e
altri, o sarà schiavo via via di diversi tiranni. Ciò significa che
senza quel rapporto il singolo uomo non ha possibilità di
avere un volto suo, indistruttibile, d’eterna durata; non ha
cioè possibilità d’essere persona, di rappresentare quindi un
ruolo inconfondibile nel cammino del mondo, d’essere
protagonista nel disegno totale.
È la scoperta della persona che con Gesù entra nel mondo:
ed è la passione per essa che rende Gesù appassionato
messaggero della dipendenza, unica e totale, del singolo
uomo dal Padre: «Padre nostro, che sei nei cieli...», Tu che mi
generi tutto dalla profondità ultima di me stesso (perché il
«cielo» è identicamente la profondità ultima del creato, come
osservava Gratry nel suo commento al vangelo di Matteo).20
La religiosità cristiana non sorge come gusto filosofico, ma
dall’accanita insistenza di Gesù Cristo che vedeva nel
rapporto col Padre l’unica possibilità di salvaguardare il
valore della singola persona. La religiosità cristiana sorge
come unica condizione dell’umano. La scelta dell’uomo è: o
concepirsi libero da tutto l’universo e dipendente solo da
Dio, oppure libero da Dio, e allora diventa schiavo di ogni
circostanza.
Gesù ha molto insistito su qualcosa che sconvolge i puristi.
Diceva: ascoltatemi, vi conviene. «Se il tuo piede ti
scandalizza, taglialo: è meglio per te... Se la tua mano ti
scandalizza, tagliala: è meglio per te... Se il tuo occhio ti
scandalizza, cavalo: è meglio per te...»21 L’etimologia greca
da cui deriva la parola «scandalo» ha in sé il significato di
trappola, tranello. Gesù ci avverte di non farci ingannare su
quel rapporto definitivo con Dio: esso, cioè la religiosità,
conviene per salvare la propria persona.
Notiamo che niente è più farisaico dello stracciarsi le vesti
per un dovere compiuto in vista di un premio, niente è più
schiavizzante del cosiddetto dovere per il dovere. La
coincidenza del dovere con la felicità è la cosa più concreta
che, sia pure per approssimazioni, la natura ci insinui.
Concludendo: la trascendenza dell’io umano sulla realtà in

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cui è immerso non può essere spiegata per il fatto che è
immerso. D’altra parte è evidente che esso non si è fatto da
sé. Resta così l’alternativa: la superiorità dell’io si fonda sulla
dipendenza diretta dal principio che gli dà origine e dà
origine a tutto, cioè da Dio. La grandezza e la libertà
dell’uomo derivano dalla dipendenza diretta da Dio,
condizione per cui l’uomo realizzi e affermi sé. La
dipendenza da Dio è la prima condizione per l’interesse
umano.22
Per questo, ripetiamo, la dipendenza da Dio vissuta, cioè la
religiosità, è la direttiva più appassionata che Gesù dà nel
suo Vangelo.

3. L’esistenza umana
L’insistenza sulla religiosità è il primo assoluto dovere
dell’educatore, cioè dell’amico, di colui che ama e vuole
aiutare l’umano nel cammino al suo destino. E l’umano è
inesistente originalmente, se non nel singolo, nella persona.
Questa insistenza è tutto quanto il richiamo di Gesù Cristo.
Non si può pensare di cominciare a capire il cristianesimo se
non partendo dalla sua origine di passione alla singola
persona. L’intelligenza dell’umano che Gesù ha e ha
dimostrato lo induce a sospingere l’uomo con forza verso la
sua origine, verso ciò che darà significato e gusto alla sua
vita, verso la religiosità. Senza di essa, che cosa resta
all’uomo? Vanitas vanitatum: vacuità del tutto.
La religiosità in quanto tende a far vivere tutte le azioni
come dipendenti da Dio si chiama moralità: «Non chiunque
mi dice: Signore, Signore, entrerà nel Regno dei cieli, ma
colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli».23 E
siccome la volontà del Padre è nel mistero di Cristo,
giustamente Egli aggiunge, tutto riferendo alla Sua
Presenza: «Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le
mette in pratica sarà paragonato a un uomo prudente che ha
fondato la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, vennero le

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inondazioni, soffiarono i venti e imperversarono contro
quella casa, ma essa non rovinò, perché era fondata sulla
roccia. Ma chi ascolta queste mie parole e non le mette in
pratica sarà simile a un uomo stolto che edificò la sua casa
sopra la sabbia. Cadde la pioggia, vennero le inondazioni,
soffiarono i venti, imperversarono contro quella casa, ed
essa crollò, e fu grande la sua rovina». 24
È un’ambiguità carica di menzogna una moralità che non
parta da qualcosa che sia più dell’io, che non sia l’io: subdola
forma per imporre se stessi a tutti è l’identificazione del
dovere con la propria coscienza. Mentre la coscienza è il
luogo dove si percepisce la dipendenza, un luogo dove
emerge la direttiva di un Altro. Così Gesù, uomo, ci ha
insegnato: «Io non posso far nulla da me stesso; giudico
secondo quello che ascolto e il mio giudizio è giusto, perché
non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha
mandato». 25
Soltanto quest’ipotesi fonda la libertà di coscienza. La
libertà, infatti, è responsabilità, cioè risposta a un Altro. E ciò
salva la libertà, libera la libertà dall’identificarsi con una
reazione endogena o — come sempre ultimamente è —
indotta, subita dall’esterno, quindi da una violenza, da un
«potere» dominante.

4. Una consapevolezza che si esprime in


domanda
L’espressione della religiosità e della moralità in quanto
coscienza della dipendenza da Dio si chiama preghiera.

a) La preghiera è coscienza ultima di sé, come coscienza di


dipendenza costitutiva. Essa rappresentava il tessuto del
sentimento di sé che aveva Cristo, così come traspare nei
mirabili capitoli di san Giovanni: «Il Padre mio opera sempre
e anch’io opero. [...] In verità, in verità vi dico, il Figlio da sé
non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello

99
che Egli fa, anche il Figlio lo fa. [...] Come, infatti, il Padre ha
la vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita
in se stesso [...]. Le opere che il Padre mio mi ha dato da
compiere, quelle stesse opere che io sto facendo,
testimoniano di me che il Padre mi ha mandato. [...] Sono
disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di
colui che mi ha mandato. [...] Il Padre, che ha la vita, ha
mandato me e io vivo per il Padre [...]. Certo, voi mi
conoscete e sapete di dove sono. Eppure io non sono venuto
da me e chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo
conoscete. Io però lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi
ha mandato. [...] Colui che mi ha mandato è veritiero, e io
dico al mondo le cose che ho udito da lui [...]. Quando avrete
innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono e non
faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre,
così io parlo. [...] Io dico quello che ho visto presso il Padre
[...]. Se Dio fosse vostro Padre, certo mi amereste, perché da
Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma
lui mi ha mandato. [...] Se io glorificassi me stesso, la mia
gloria non sarebbe nulla; chi mi glorifica è il Padre mio, del
quale voi dite: "È nostro Dio", e non lo conoscete. Io invece lo
conosco. E se dicessi che non lo conosco, sarei come voi, un
mentitore; ma lo conosco e osservo la sua parola».26
È l’abisso di questa appartenenza, di questa dipendenza
totale che imponeva il contenuto ai momenti di cui parla sì
spesso il Vangelo: «Congedata la folla, salì sul monte, solo, a
pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo
lassù».27
Ma proprio nella continuità di questa preghiera —
«Bisogna pregare sempre» —,28 proprio perché la coscienza
dell’ininterrotta fonte del proprio essere si ergeva
nell’interiorità di Gesù, egli poteva dire: «Non sono solo, ma
io e il Padre che mi ha mandato. [...] Colui che mi ha
mandato è con me e non mi ha lasciato solo, perché io faccio
sempre le cose che gli sono gradite». 29
Tutti questi accenti riecheggiano nei capitoli del discorso
dell’Ultima Cena. E la preghiera finale sintetizzerà il

100
contenuto luminoso e misterioso del cosciente continuo
nesso tra Gesù e il Padre: «Tutte le cose mie sono tue e tutte
le cose tue sono mie».30

b) Nella preghiera risorge e prende consistenza l’esistenza


umana. Così insegna la persona di Gesù.
Accorgersi della propria originale dipendenza non significa
semplicemente coscienza di un passato, del gesto che ci ha
creati. La dipendenza dell’uomo al contrario è continua, di
ogni istante, di ogni sfumatura del nostro agire. Ogni
frammento della nostra esistenza ha nel mistero dell’Essere
la sua totale origine; Dio è il vero nostro padre, il padre di
quella continua generazione che è il nostro esistere. Proprio
in quanto poté affermare: «Io e il Padre siamo una cosa
sola»31 ha potuto anche affermare: «Senza di me non potete
fare niente».32
Si arriva così alla constatazione che l’uomo non solo non
c’era, ma non ci sarebbe se dipendesse da sé, in ogni
momento l’uomo non si fa da sé. Se la coscienza è la
trasparenza di ciò che l’uomo è, la coscienza di sé lo porta
alla conclusione che in ogni preciso momento l’uomo stesso
è fatto da un Altro, che il suo io è un Altro che lo fa. Andando
avanti all’infinito ad analizzare se stesso dovrebbe sempre
arrivare a questa conclusione: la vita è pura dipendenza da
Altro. «Chi di voi, per quanto si affanni, può aggiungere
un’ora sola alla sua vita? Se dunque non avete potere
neanche per la più piccola cosa, perché vi affannate del
resto? [...] Di tutte queste cose si preoccupa la gente del
mondo, ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno.»33
La vita si esprime, dunque, innanzitutto come coscienza di
rapporto con chi l’ha fatta e la preghiera è accorgersi che in
«questo» momento la vita è «fatta». Stupore devoto, rispetto,
soggezione amorosa in questo gesto di consapevolezza: ecco
l’anima della preghiera. La realtà come fascino è il
primissimo grado di questo atteggiamento mistico, che è il
più naturale dell’uomo, l’aspetto più elementare di una
nostra consapevolezza.

101
Ma, nell’esempio e nell’insegnamento di Gesù, stupore,
soggezione, fascino diventano trasparenza di una familiarità
ineffabile: «Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare
e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: "Signore,
insegnaci a pregare [...]". Ed Egli disse loro: "Quando
pregate, dite: ’Padre..."’».34
Soltanto così la solitudine è eliminata: nella scoperta
dell’Essere come amore che dona Se stesso continuamente.
L’esistenza si realizza sostanzialmente come dialogo con la
grande Presenza che la costituisce, compagno indivisibile. La
compagnia è nell’io, non esiste nulla che facciamo da soli.
Ogni amicizia umana è riverbero dell’originale struttura
dell’essere, e se lo nega rischia la sua verità. In Gesù,
l’Emmanuele, il «Dio con noi», la familiarità e il dialogo con
Colui che ci crea in ogni istante diventano non solo
illuminante trasparenza, ma compagnia storica.
L’uomo si distingue dalle altre creature in quanto è
cosciente di ciò che vive; questa coscienza non è completa se
non si approfondisce fino al Fondamento da cui la vita sorge;
l’arco della riflessione non attua tutta la sua dimensione se
non arriva fino al Punto da cui scaturisce l’io col suo gesto.
La preghiera, così, non è un gesto a parte, ma realizza la
prima dimensione di ogni azione. L’atto di preghiera sarà
necessario per allenarci a tale coscienza di ogni azione. Per
questo, il più alto vertice della preghiera non è l’estasi, cioè
una coscienza del fondo tale che uno smarrisce il senso del
solito; ma piuttosto vedere il fondo come si vedono le cose
solite.
Come questo si può tradurre esistenzialmente? L’ideale
segnato da Gesù si può tradurre esistenzialmente così:
«prega più che puoi». È la formula della coscienza di fronte
all’Ideale; è la formula della libertà per l’uomo in cammino.

c) Ma l’espressione compiuta della preghiera è di essere


domanda. E, quindi, l’espressione originale dell’esistenza
umana è domanda. Qui sta tutta la dignità della coscienza e
dell’affetto. «Mio cibo – risponderà Gesù agli apostoli – è
fare la volontà di Colui che mi ha mandato e compiere la sua

102
opera.»35
Nel suo rapporto col Padre la sua realtà d’uomo si
consumava in questa domanda; e nella preghiera dell’Ultima
Cena, con tutta la sconfinata grandezza dell’animo suo,
mendicò il compiersi del Disegno «nascosto nei secoli»:36
«Così parlò Gesù. Quindi, alzati gli occhi al cielo, disse:
"Padre, è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio
glorifichi te [...] perché egli dia la vita eterna a tutti coloro
che gli hai dato. Questa è la vita eterna: che conoscano te,
l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. [...]
Padre, voglio che anche quelli che mi hai dati siano con me
dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi
hai data; perché tu mi hai amato prima della creazione del
mondo"».37
In due luminosi e commoventi brani del Vangelo Gesù ha
con forza definito la natura di domanda che è la preghiera,
proprio come gesto di supremo realismo nei confronti della
condizione umana. Ecco il primo: «Se uno di voi ha un amico
e va da lui a mezzanotte a dirgli: "Amico, prestami tre pani,
perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla
da mettergli davanti"; e se quegli dall’interno gli risponde:
"Non m’importunare, la porta è già chiusa e i miei bambini
sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli"; vi dico
che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà
a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua
insistenza. Ebbene io vi dico: "Chiedete e vi sarà dato,
cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi
chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto".
Quale padre tra voi, se il figlio gli chiedesse un pane, gli darà
una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà al posto del
pesce una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno
scorpione? Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose
buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà
lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!».38 Ed ecco il
secondo, in cui, in forma più appassionata, è espressa la
stessa richiesta che l’uomo viva la sua esistenza come
mendicanza, certa della misericordiosa risposta: «"C’era in

103
una città un giudice, che non temeva Dio e non aveva
riguardo per nessuno. In quella città c’era anche una
vedova, che andava da Lui e gli diceva: ’Fammi giustizia
contro il mio avversario’. Per un certo tempo egli non volle;
ma poi disse tra sé: ’Anche se non temo Dio e non ho rispetto
per nessuno, poiché questa vedova è così molesta le farò
giustizia, perché non venga continuamente a
importunarmi’". E il Signore soggiunse: "Avete udito ciò che
dice il giudice disonesto. E Dio non farà giustizia ai suoi eletti
che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà a lungo
aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il
Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla
terra?"».39
L’ultima terribile domanda definisce il dolore di Cristo di
fronte al mondo. Se l’uomo oblitera ciò cui la preghiera dà
consistenza, cioè la coscienza della totale dipendenza e
dell’inevitabile stato di domanda, smarrisce se stesso, rifiuta
la salvezza.
Di fatto, l’evidente dipendenza ultima e totale
esistenzialmente non può che tradursi in domanda. Colui che
ci fa, ci fa vita: l’accorgersi di Colui che ci fa, coincide con la
domanda che ci faccia vita. Noi siamo fatti come simpatia e
sete di vita. Se la grande consapevolezza, di cui abbiamo
parlato, non si traduce in domanda, non è vera
consapevolezza. La preghiera è soltanto domandare,
domandare prendendo spunto da qualsiasi cosa. Il fenomeno
del nostro bisogno – qualunque esso sia – ci richiama alla
dipendenza, è spunto per approfondire la coscienza della
dipendenza da Dio: Gesù non misconobbe qualsiasi
domanda. Perciò è giusto chiedere qualunque cosa, con la
clausola implicita che fu quella di Gesù nel Getsemani: «Però
non la mia, ma la tua volontà sia fatta».40 La sua volontà,
infatti, significa la mia completezza, la felicità suprema,
quella cui ogni domanda è funzione. Come la mia origine è in
mano sua, così il mio fine è in mano sua.

104
5. La legge della vita

1) Il dono di sé
Se l’uomo come essere (persona) è qualcosa di più grande
del mondo, come esistente (come dinamismo vivo) è parte
del cosmo. Perciò lo scopo del suo agire, se in ultima analisi
è la sua completezza, o felicità, immediatamente però è
servire il tutto di cui fa parte. In quanto parte del mondo
l’uomo deve servirlo, anche se tutto l’universo ha per scopo
di aiutarlo a raggiungere meglio la sua felicità.
Annunciando il suo destino di gloria attraverso la croce,
pochi giorni prima di morire, Gesù darà l’immagine più
impressionante del suo destino: «È giunta l’ora che sia
glorificato il Figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il
chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se
invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la
perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà
per la vita eterna. Se uno mi vuol servire mi segua, e dove
sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre
lo onorerà».41
Altre figure nella proposta di Cristo approfondiscono nella
nostra memoria il paragone del seme. Forse la più nota alla
memoria è quella del Pastore: «Io sono il buon Pastore [...] e
offro la vita per le pecore».42 Ma nel discorso di Cafarnao,
identificando nel pane che si mangia, nella bevanda che si
assume tutta la realtà della sua Persona presente alla vita
dell’ uomo, Gesù tocca l’espressione suprema della sua
volontà di dedizione: «"Non Mosè vi ha dato il pane dal cielo,
ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; il pane di
Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo".
Allora gli dissero: "Signore, dacci sempre questo pane".
Gesù rispose: "Io sono il pane di vita; chi viene a me non
avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete. [...] Chi
mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna
[...]. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera
bevanda" ».43 E nella S. Messa si ripetono le più grandi

105
parole di Gesù: «Prendete e mangiatene tutti; questo è il mio
corpo, offerto in sacrificio per voi».44
L’esistenza umana si snoda in un servizio al mondo, l’uomo
completa se stesso dandosi via, sacrificandosi.
Il miglior commento a questo principio cristiano sono le
parole di Anna Vercors davanti al cadavere della figlia
Violaine, nell’Annuncio a Maria di Paul Claudel: «Forse che
fine della vita è vivere? forse che i figli di Dio resteranno con
fermi piedi su questa miserabile terra? Non vivere, ma
morire [...] e dare in letizia ciò che abbiamo. Qui sta la gioia,
la libertà, la grazia, la giovinezza eterna! [...] Che vale il
mondo rispetto alla vita? E che vale la vita se non per essere
data?».45
L’esistenza umana è un consumarsi «per» qualcosa. Ma
qual è la natura di questa consumazione? Nel mistero della
Trinità la sostanza dell’essere ci viene svelata come
rapporto; aggiungiamo ora: ci viene proposta come dono.
Questa è la grandezza dell’uomo: così come l’Essere che lo
ha creato, la sua vita è di essere dono; egli è simile a Dio.
Così, il suo consumarsi deve divenire dono: egli è l’unica
creatura che può essere cosciente di questo elemento
strutturale del reale.
La legge dell’esistenza umana è l’amore nella sua realtà
dinamica che è l’offerta, il dono di sé. Come Gesù aveva
detto: «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi
perderà la propria vita per me, la salverà».46 Ci viene così
sottolineata la paradossalità di questa legge: la felicità
attraverso il sacrificio. Ma quanto più uno lo accetta, tanto
più sperimenta già in questo mondo una maggiore
completezza. Gesù la chiamava «pace». Ci viene così
proposta una personalità umana come risultante di due
componenti: il sacrificio e l’amore. «Non c’è nessuno che
abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli
o campi a causa del vangelo, che non riceva già al presente
cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e
campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna.»47
Ogni legge non è altro che la descrizione di un

106
meccanismo stabile. Anche l’uomo in quanto tale (essere
cosciente e volente) è un meccanismo fondamentalmente
fissato. La descrizione di questa stabilità fondamentale è
data dalla cosiddetta legge morale.
In base a quale criterio l’uomo stabilirà questa legge del
suo agire? Per descrivere un meccanismo occorre guardare
innanzitutto la sua funzione, il fine di esso. Ora, la
destinazione dell’io essendo il tutto, la sua legge è darsi al
tutto. L’uomo, al di fuori della coscienza del tutto, si sentirà
sempre prigioniero o annoiato.
Occorre a questo punto notare che il fine della vicenda
umana viene perseguito con i mezzi che si hanno a
disposizione, con «ciò che si è». Due fattori noteremo,
perciò, nell’umano dinamismo, come ci vien definito
dall’eredità cristiana.

a) L’istintività. È ciò che mi trovo addosso, ciò che mi


determina, mi attrae, mi stimola. Proprio da questo l’uomo è
introdotto al servizio della realtà: da un complesso di dati da
cui non può prescindere.

b) Tale attrattiva, stimolo, impulso contingente hanno un


fine. Perciò il secondo fattore è la coscienza del fine proprio
a questo fascio di istintività. La natura umana, infatti, ha
come fattore del suo dinamismo non solo la sua urgenza, ma
anche la consapevolezza dello scopo di quell’urgenza stessa.
L’uomo a differenza degli animali e delle altre cose è
consapevole del rapporto che passa tra il suo emergente
istinto e il tutto, cioè l’ordine delle cose.
L’ordinare l’istinto allo scopo, cioè al tutto, è il
fondamentale dono di sé al tutto: è il cosiddetto dovere, la
cui essenza, quindi, non può essere che amore, cioè
consegna di sé.
Il capitolo 19 del vangelo di Matteo contiene
l’esplicitazione e la esemplificazione forse più chiara di
questa immagine del comportamento etico dell’uomo. La
risposta al problema dell’indissolubilità del matrimonio ha la
stessa motivazione della verginità: la dedizione «al Regno dei

107
cieli», il servizio al grande disegno. Il procedimento che la
natura esige «da principio» sollecita allo stesso dono di sé in
funzione del tutto, così come viene affermato nella radicale
volontà di mortificazione verginale di coloro «che si sono
fatti eunuchi per il Regno dei cieli».48
Ma non è umano dare se stessi se non a una persona, non
è umano amare se non una persona. Il «tutto» in ultima
analisi è l’espressione di una persona: Dio («Sia fatta la tua
volontà»). Qualsiasi dovere, dunque, è coscienza della
volontà di Dio («Venga il tuo regno»).
L’agire dell’uomo nel mondo si identifica, nel suo livello più
cosciente, con la preghiera. In questo senso, non c’è nulla di
profano, tutto è collaborazione, dialogo nel grande tempio
dell’Essere, di Dio.49

2) Il disordine umano
L’uomo è di fatto incapace di vivere compiutamente la
grande dipendenza da Colui che è la sua verità e la
proiezione di essa nella vita come dono, amore e servizio .
Ha la coscienza annebbiata e una volontà invincibilmente
annoiata nel dovere della preghiera, vive uno strano
egocentrismo, per cui a lungo andare, invece di ordinarsi al
tutto, tenta di ordinare il tutto a sé; invece di darsi, tenta di
prendersi, invece di amare, di sfruttare.
Questo dato di fatto dipende da una situazione originale,
nativa. La tradizione cristiana lo attribuisce a un disordine
che l’uomo eredita dalle origini della sua razza,
responsabilmente introdotto. Esso determina il clima del
mondo umano in una direzione contraria al disegno di Dio:
«Il mondo è stato fatto per mezzo di lui, ma il mondo non lo
ha riconosciuto. [...] Ora è il giudizio di questo mondo; ora il
principe di questo mondo sarà gettato fuori. [...] Se il mondo
vi odia, sappiate che prima ha odiato me».50
E ciò che la tradizione cristiana chiama peccato originale.
La persona non ha l’energia sufficiente a realizzare se
stessa. Quanto più un uomo è sensibile e cosciente, quanto

108
più, cioè, può essere uomo, tanto più si accorge di non
riuscire a esserlo.
Nella lettera ai Romani, il grido con cui san Paolo termina
la sua constatazione è esattamente la domanda umana cui
Gesù Cristo è risposta: «Me infelice, chi mi libererà da
questa situazione mortale?».51 Questo grido è l’unica
origine perché un uomo possa considerare seriamente la
proposta di Cristo. Se un uomo non attende alla domanda,
come farà a capire la risposta?
Per essere me stesso ho bisogno di un altro: «Senza di me
non potete far nulla».52 Gesù ci ha insegnato che chi
accetterà il suo messaggio di salvezza non potrà esimersi
dall’affrontare questo problema di sincerità con se stessi, da
questo realismo nel considerare l’uomo: non si può essere se
stessi da soli. La compagnia, quella che poi si chiamerà la
comunità cristiana, è essenziale per il suo cammino.
«Nessuno viene al Padre se non attraverso me.»53
Il che equivale a dire, una volta di più, che l’uomo non può
realizzare se stesso se non accettando l’amore di un Altro –
di un Altro con un nome preciso, che indipendente dalla
volontà tua è morto per te —: «Nessuno ha un amore più
grande di questo: Dare la vita per i propri amici».54 Di sé Lui
disse: «Io sono la resurrezione e la vita».55

3) La libertà
a) Questa redenzione non si attua automaticamente: è
essenziale accettare l’aiuto che Gesù Cristo ci ha offerto e
collaborare attivamente. Ciò avviene attraverso un amore
libero.
Alla libertà dell’uomo Cristo («Per questo il Padre mi ama:
perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo.
Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso»)56 deve
corrispondere la libertà dell’uomo che continuamente lo
accetti («La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno
preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano

109
malvagie. [...] Voi non volete venire a me per avere la
vita»).57

b) Ma che cos’è la libertà?


Notiamo che, specie per quanto riguarda le parole
importanti della vita, gli uomini partono da un concetto
preordinato, o da una immagine standardizzata. Per
giungere a una definizione di libertà occorre osservare la
nostra esperienza. Essa ci suggerisce una impressione di
libertà quando otteniamo la soddisfazione di un desiderio. È
nello spazio totale della nostra completezza che la libertà si
realizzerà secondo tutta la sua natura, come capacità di
soddisfazione totale. La libertà è capacità d’infinito, sete di
Dio. Libertà è quindi amore, perché è capacità di qualcosa
che non è noi, è un altro.

c) Durante la vita la libertà non ha a disposizione l’intero suo


oggetto. È in divenire. Gli oggetti che incontra sono come un
anticipo, un riverbero del fine. Quanto più intensa è la vita
della libertà tanto più qualsiasi cosa è attrattiva.
Ma ogni oggetto, non essendo adeguato all’apertura della
libertà, non la impegna tutta. Qui è la possibilità di scelta
della libertà che non è ancora tutta se stessa perché
impegnata da attrattive inadeguate. Ora, o essa riesce ad
avvicinarsi al fine o, poiché inesorabilmente tende a ciò che
la soddisfa di più, si ferma a ciò che la sazia maggiormente
al momento. In questo modo però si contraddice, essendo
fatta per la completezza.

d) Questa contraddizione equivale al concetto di male. Chi fa


il male si rende schiavo di una misura che non è quella per
cui è fatto.58

e) Sintetizzando l’eredità cristiana sul valore della libertà,


possiamo dire che la libertà è la capacità che l’essere
cosciente possiede di realizzare completamente se stesso.
La traiettoria che questa energia percorre verso la

110
realizzazione integrale è attuata dalle «cose», o creature – le
quali, pur contenendo per così dire un po’ del fine (un po’ di
essere), hanno il potere di attirare, di sollecitare la libertà,
rappresentando per essa un anticipo di parziale
realizzazione – .
Nell’afferrare però le cose, la libertà non si attua
integralmente, l’attrattiva delle cose non la impegna
totalmente. Sorge così la possibilità della scelta. Questa è
libertà, ma imperfetta, in via di realizzazione.
Vi possono essere realtà che alla coscienza libera appaiono
attrattive psicologicamente più forti di altre ontologicamente
più vicine al fine.
Così l’uomo si sente in «tentazione»: più attirato verso ciò
che è lontano dal suo interesse finale e che perciò lo mette in
contraddizione con se stesso. Se non resiste alla tentazione,
la sua scelta è «male».
Normalmente l’uomo non può resistere a lungo da solo alla
tentazione. Gesù Cristo è l’essere che gli ridà continuamente
il potere di scegliere bene, cioè di essere libero: «Se
rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei
discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi».59

6. Conclusione
Gesù Cristo non è venuto nel mondo per sostituirsi al lavoro
umano, all’umana libertà o per eliminare l’umana prova –
condizione esistenziale della libertà —. Egli è venuto nel
mondo per richiamare l’uomo al fondo di tutte le questioni,
alla sua struttura fondamentale e alla sua situazione reale.
Tutti i problemi, infatti, che l’uomo è chiamato dalla prova
della vita a risolvere si complicano, invece di sciogliersi, se
non sono salvati determinati valori fondamentali. Gesù Cristo
è venuto a richiamare l’uomo alla religiosità vera, senza della
quale è menzogna ogni pretesa di soluzione. Il problema
della conoscenza del senso delle cose (verità), il problema
dell’uso delle cose (lavoro), il problema di una compiuta
consapevolezza (amore), il problema dell’umana convivenza

111
(società e politica) mancano della giusta impostazione e
perciò generano sempre maggior confusione nella storia del
singolo e dell’umanità nella misura in cui non si fondano
sulla religiosità nel tentativo della propria soluzione («Chi mi
segue avrà la vita eterna e il centuplo quaggiù» ).60
Non è compito di Gesù risolvere i vari problemi, ma
richiamare alla posizione in cui l’uomo più correttamente
può cercare di risolverli. All’impegno del singolo uomo spetta
questa fatica, la cui funzione d’esistenza sta proprio in quel
tentativo.
Il concetto cristiano dell’umana esistenza prevede che mai
la comunità umana aderirà integralmente con la sua libertà
alla condizione da Gesù richiamata. Perciò la vita
dell’umanità in questo mondo sarà sempre dolorosa e
confusa. Ma il compito di coloro che hanno scoperto Gesù
Cristo – il compito della comunità cristiana – è proprio quello
di realizzare il più possibile la soluzione degli umani
problemi in base al richiamo di Gesù.
La concezione della vita umana in Gesù Cristo è quindi
essenzialmente una tensione, una lotta («non sono venuto a
portare pace, ma una spada»);61 è un camminare; è una
ricerca – ricerca della propria completezza, cioè del proprio
vero «se stesso» – .
Non c’è nulla di più anticristiano che il concepire la vita
come qualcosa di comodo e soddisfatto, come una possibile
felicità contingente. «Guai a voi, ricchi, perché avete già la
vostra consolazione. Guai a voi che ora siete sazi.» 62
Riconoscere e seguire Cristo (fede) genera così un
atteggiamento esistenziale caratteristico per cui l’uomo è un
camminatore eretto e infaticabile verso una meta non ancora
raggiunta, certo del futuro perché tutto poggiato sulla Sua
presenza (speranza); nell’abbandono e nell’adesione a Gesù
Cristo fiorisce un’affezione nuova a tutto (carità), che genera
un’esperienza di pace, l’esperienza fondamentale dell’uomo
in cammino.

112
Capitolo nono
DI FRONTE ALLA PRETESA

1. Il mistero dell’Incarnazione
Tutta quanta la vita pubblica di Gesù ci ha dimostrato una
profonda capacità di dominio della natura: essa gli obbediva,
come un servo obbedisce al padrone. E abbiamo anche
messo in risalto come la gente senza pregiudizi, senza
preconcetta ostilità, inevitabilmente accusasse stupore di
fronte a questo spettacolo quotidiano.
Sottolineiamo ancora questa continuità: il potere di Gesù
non era sporadico. Se si volesse, infatti, negare o togliere dai
Vangeli l’attività miracolosa di Gesù, si resterebbe quasi
completamente privi del tessuto stesso della sua vita
pubblica.
Inoltre, questa attività miracolosa Egli compiva con
tranquillità sovrana, senza bisogno di nulla: guariva a
distanza, comandava alla realtà impersonale della natura.
Il suo potere insomma si rivelava cosa normalissima in lui,
per cui ogni uomo onesto non poteva che sentire
l’impressione provata da un fariseo diverso per lealtà dagli
altri, Nicodemo, il quale andando di notte da lui disse:
«Rabbì, sappiamo che sei un maestro venuto da Dio; nessuno
infatti può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui».1
Eppure maghi e guaritori pullulavano in Medio Oriente
all’epoca, ma ciò che colpiva in Gesù era il modo suo di
operare prodigi. Si può dire sinteticamente che il suo
operare prodigi rispondeva a una urgenza etica, costituiva
un richiamo morale, realizzava una educazione ideale. I suoi
avversari, per faziosità, non accettavano la posizione di
Nicodemo, e si impedivano così di vedere semplicemente i
fatti. La faziosità, infatti, è là dove un’idea diventa una

113
posizione, anziché un’obbedienza alla realtà.
Essi così, lo abbiamo visto, tentarono di spiegare le sue
opere in modo diverso: ma non potevano negarne
l’eccezionalità. Lo chiamarono indemoniato, esaltato,
blasfemo.
La validità dell’interpretazione di Nicodemo di fronte a
quella degli avversari di Gesù dipende da una libertà e
sincerità d’animo che permettono di cogliere tutti i sintomi
del gesto di Gesù Cristo nel loro valore e di accettarne le
conseguenze.

2. Una realtà storica straordinaria


Percorrendo quindi la traiettoria – dallo stupore alla
convinzione – di coloro che hanno seguito Gesù e ascoltando
le risposte che Egli via via diede alle domande emergenti in
chi gli stava accanto, ci siamo trovati di fronte
all’affermazione di una realtà storica straordinaria: un uomo-
Dio. Gli avversari lo affrontano chiaramente: «Non ti
lapidiamo per un’opera buona, ma per la bestemmia e
perché tu, che sei uomo, ti fai Dio».2 Il vangelo di Giovanni
l’aveva già osservato precedentemente: «Per questo i Giudei
cercavano più che mai di ucciderlo: perché non solo violava
il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a
Dio».3

1) L’origine di questo fatto, di questa realtà si è chiamata,


nella tradizione cristiana, Incarnazione.
Dice un mistico orientale, noto sotto il nome di Dionigi
l’Areopagita: «L’incarnazione di Gesù secondo la nostra
natura è ineffabile per qualsiasi lingua, inconoscibile per
qualsiasi intelligenza [...] e il fatto che Egli abbia assunto una
sostanza umana lo abbiamo appreso come un mistero».4
In quanto opera divina, l’Incarnazione è un mistero; ma
mistero in modo particolare essa lo è come risultato, in
quanto l’avvenimento che ne risulta trascende i limiti degli

114
avvenimenti naturali.
Compito della nostra coscienza, oltre a quello di accettarlo
come il fatto più significativo della storia dell’umanità, pur
senza poterlo "comprendere", deve essere quello di capire
chiaramente i termini di esso, cosa che invece è possibile. In
secondo luogo, è compito della nostra coscienza verificare
quanto questo avvenimento non sia contraddittorio con le
leggi della nostra ragione. E, infine, trarre da esso luce per
una migliore comprensione della esistenza umana.

2) Prendere sul serio la pretesa di Cristo è profondamente


razionale, poiché essa si è posta come fatto nella storia, e
come fatto generatore di un «nuovo essere», di una nuova
creazione. Sostenere a priori l’impossibilità di questo fatto,
questo è irrazionale, in quanto così si abolisce la categoria
della possibilità, che è propria della ragione, di una ragione
autentica.5

3) Il fatto dell’Incarnazione è infine una trascendente


risposta a una esigenza umana che il grande genio ha
sempre saputo intuire. Il canto di Leopardi Alla sua donna
possiamo sentirlo come una profezia inconsapevole di Cristo
1800 anni dopo di lui, profezia che si esprime come anelito a
poter abbracciare quella fonte di amore intuita dietro il
fascino della creatura umana.

«Cara beltà che amore


Lunge m’inspiri o nascondendo il viso,
Fuor se nel sonno il core
Ombra diva mi scuoti,
O ne’ campi ove splenda
Più vago il giorno e di natura il riso;
Forse tu l’innocente
Secol beasti che dall’oro ha nome,
Or leve intra la gente
Anima voli? o te la sorte avara

115
Ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara?

Viva mirarti omai


Nulla spene m’avanza;
S’allor non fosse, allor che ignudo e solo
Per novo calle a peregrina stanza
Verrà lo spirto mio. Già sul novello
Aprir di mia giornata incerta e bruna,
Te viatrice in questo arido suolo
Io mi pensai. Ma non è cosa in terra
Che ti somigli; e s’anco pari alcuna
Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
Saria, così conforme, assai men bella.

[...]

Per le valli, ove suona


Del faticoso agricoltore il canto,
Ed io seggo e mi lagno
Del giovanile error che m’abbandona;
E per li poggi, ov’io rimembro e piagno
I perduti desiri, e la perduta
Speme de’ giorni miei; di te pensando,
A palpitar mi sveglio. E potess’io,
Nel secol tetro e in questo aer nefando,
L’alta specie serbar; che dell’imago,
Poi che del ver m’è tolto, assai m’appago.

Se dell’eterne idee
L’una sei tu cui di sensibil forma
Sdegni l’eterno senno esser vestita,

116
E fra caduche spoglie
Provar gli affanni di funerea vita;
O s’altra terra ne’ superni giri
Fra’ mondi innumerabili t’accoglie,
E più vaga del Sol prossima stella
T’irraggia, e più benigno etere spiri;
Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
Questo d’ignoto amante inno ricevi.»6

Non corrisponde forse l’urgenza ideale espressa da Leopardi


alla testimonianza di Giovanni: «Ciò che noi abbiamo udito,
ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi [...] e ciò che le
nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita»?7
Emerge qui l’intuizione che quella dimensione ricercata è
propria ma non è propria, è misura desiderabile dall’uomo
ma non da lui determinabile. Quella «x» smisurata cui si
tende ultimamente è diventata presenza, è diventata
Qualcun Altro; Qualcun Altro è diventato la nostra misura.
Non esiste nulla di più umanamente desiderabile dalla
nostra natura: la vita della nostra natura è amore,
l’affermazione di un Altro come significato di sé.

3. I termini di questa nuova realtà


1) Che Gesù sia uomo-Dio non significa che Dio si sia
«trasformato in un uomo», ma significa che la Persona divina
del Verbo possiede, insieme alla natura divina, anche la
natura umana concreta dell’uomo Gesù.
Questa unione non deve essere immaginata come la
confusione di due nature: la Persona del Verbo,
incarnandosi, esprime la sua natura divina attraverso la
natura umana che ha assunto. «Natura» identifica il tipo di
essere che le azioni manifestano; «persona» indica il
soggetto, l’io, che possiede e attua le due nature distinte.8

117
2) Il mistero dell’Incarnazione stabilisce il metodo che Dio ha
creduto opportuno scegliere per aiutare l’uomo ad andare da
Lui. Questo metodo si può riassumere così: Dio salva l’uomo
attraverso l’uomo.9
Questo metodo risponde magnificamente: a) alla natura
dell’uomo, che è carica di esigenza di sensibilità; b) alla
dignità della libertà umana, in quanto Dio la assume come
collaboratrice della sua opera.

3) Discende da ciò come si debba agire per riconoscere


l’intervento di Dio nella nostra vita: attraverso la ricerca,
aderire innanzitutto alla nostra natura e tener presente che
l’esito di una nostra ricerca può esigere un cambiamento
radicale, una rottura del limite stesso della nostra natura.

La differenza tra la Chiesa cattolica e tutte le altre


concezioni e interpretazioni cristiane nasce soprattutto dalla
considerazione di questo metodo.

4) Questo metodo si prolunga nella storia. Se una realtà così


eccezionale è intervenuta nella storia, l’adesione a essa deve
essere possibile sempre e per tutti: «Ecco, io sono con voi
tutti i giorni, fino alla fine del mondo».10 L’assunzione del
metodo indicato dalla realtà dell’Incarnazione implica che
l’uomo è chiamato ad aderire sempre alla identica salvezza
proposta, in tempi nuovi, in circostanze nuove, con strumenti
nuovi. Se Gesù è venuto, è, permane nel tempo con la sua
pretesa unica, irripetibile, e trasforma il tempo e lo spazio,
tutto il tempo e tutto lo spazio. Se Gesù è quello che ha detto
di essere, nessun tempo e nessun luogo possono avere altro
centro.11

4. L’istintiva resistenza
1) Abbiamo mostrato come la ragione non possa a priori

118
escludere l’ipotesi che il mistero entrasse come fattore
nuovo nella storia umana. Trovandoci ora di fronte alla
compiutezza storica di quell’ipotesi realizzata nella persona
di Gesù, dobbiamo sottolineare la resistenza istintiva che la
ragione può avere di fronte all’annuncio dell’Incarnazione. È
come se l’uomo rifiutasse che il mistero si pieghi a diventare
fatto e parole umani. L’uomo di tutti i tempi resiste alla
conseguenza del mistero che si fa carne: se questo
Avvenimento è vero, tutta la vita, anche sensibile, anche
sociale, deve ruotare attorno a esso. Ed è proprio questa
percezione da parte dell’uomo d’essere scalzato come
misura di sé che pone l’uomo in termini di rifiuto, con il
pretesto di non voler vedere offuscata l’inaccessibilità del
mistero, di non rendere impura con antropologismi l’idea di
Dio, di rispettare la libertà propria.

2) Così, dopo lo stupore di fronte all’innegabilità e alla


eccezionalità delle opere di Cristo, la resistenza al contenuto
supremo del suo messaggio si è subito verificata intorno a
Lui. «Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di
quel che Egli aveva compiuto, credettero in Lui. Ma alcuni
andarono dai farisei e riferirono loro quel che Gesù aveva
fatto.»12 È un avvenimento tipico: e si realizza, come
abbiamo detto, la profezia del vecchio Simeone fatta nel
tempio alla madre di Gesù. Dagli scribi e farisei di allora agli
scribi e farisei di tutti i tempi – seguiti dalle loro folle – gli
spunti per accusare l’incredibilità della pretesa di Cristo
saranno sempre gli stessi: l’intollerabilità del paradosso della
sua umanità;13 il suo apparente fallimento (già nei discepoli
di Emmaus: «Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele;
con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose
sono accadute»);14 la miseria di chi lo seguiva (le
considerazioni filosofiche sono così rafforzate dalle note
socio-politiche).
Queste obiezioni sono l’espressione del tentativo ultimo
che la ragione compie per imporre a Dio un’immagine ideale
di Lui.15

119
3) Il fatto dell’Incarnazione costituisce uno spartiacque, sia
nel campo della storia delle religioni sia nella comprensione
stessa dell’esperienza cristiana, come è storicamente
rilevabile dalle numerose eresie che sono state l’occasione
dell’appassionato dibattito su Cristo nei primi secoli.16

5. Per concludere
Contro il fatto dell’Incarnazione si scatena lungo i secoli un
«dogma» tenace che, pretendendo di fissare i limiti
dell’azione di Dio, ne dichiara l’impossibilità a farsi uomo.
Da ciò discende il dogma moderno di tutta la cultura
illuministica, che ha agito, purtroppo, così radicalmente per
riverbero anche sulla cosiddetta «intellighenzia» cattolica:
quello della divisione tra fede e realtà mondana coi suoi
problemi. Questo atteggiamento costituisce esattamente lo
specchio dell’infantile proibizione che l’uomo dà a Dio di
intervenire nella vita dell’uomo stesso.17 È l’ultima
latitudine cui si può spingere la pretesa idolatrica, la pretesa
cioè di attribuire a Dio ciò che alla ragione aggrada o ciò che
la ragione decide.
Il fatto dell’Incarnazione, l’inconcepibile pretesa cristiana,
è rimasto nella storia sostanzialmente nella sua interezza: un
uomo che è Dio – che, dunque, conosce l’uomo e che l’uomo
deve seguire per avere la vera conoscenza di se stesso e
delle cose – . L’esperienza iniziale di coloro che hanno vissuto
con Gesù e lo hanno seguito, trasmessa dai Vangeli, ha un
significato inequivocabile: il destino non ha lasciato solo
l’uomo.18 Il cristianesimo è un avvenimento che è stato
annunciato nei secoli e ci raggiunge ancor oggi. Il vero
problema è che l’uomo lo riconosca con amore.
Il cristiano ha da compiere la funzione non solo più grande,
ma anche più tremenda della storia. È funzione tremenda
perché destinata a provocare irragionevoli reazioni. Mentre
è supremamente ragionevole affrontare e verificare l’ipotesi

120
alle condizioni che essa pone, e più precisamente come un
fatto accaduto nella storia e che in essa permane.

121
INDICE DEI RIFERIMENTI BIBLICI

Genesi
Gen 22,1-19 (1)

Deuteronomio
Dt 26,4-9 (1)

Giosuè
Gs 24,1-13 (1)

Salmi
Sal 9,25 (1)
Sal 94,7 (1)
Sal 110,1 (1)
Sal 136 (1)

Isaia
Is 55,8 (1)

122
Daniele
Dn 7,13-14 (1)

Osea
Os 11,1-4 (1)

Matteo
Mt 5,1-12 (1)
Mt 5,3 (1)
Mt 5,21-22a (1)
Mt 5,27-28a (1)
Mt 5,31-32a (1)
Mt 5,33-34a (1)
Mt 5,38-39a (1)
Mt 5,43-44a (1)
Mt 6,25-34 (1)
Mt 7,21 (1)
Mt 7,24-27 (1)
Mt 9,9-13 (1)
Mt 10,14-18 (1)
Mt 10,21-22a (1)
Mt 10,24-25 (1)
Mt 10,27 (1)
Mt 10,28-33 (1)
Mt 10,32-33 (1)
Mt 10,34-37 (1)
Mt 10,34b (1)
Mt 10,37 (1)
Mt 10,39 75, (1)
Mt 11,27 (1)

123
Mt 12,9-21 (1)
Mt 12,20 (1)
Mt 12,46-50 (1)
Mt 13,12 (1)
Mt 13,44-46 (1)
Mt 14,23 (1)
Mt 16,13-19 (1)
Mt 16,17 (1)
Mt 16,22 (1)
Mt 16,23 (1)
Mt 16,26 (1)
Mt 18,1-11 (1)
Mt 18,3 (1)
Mt 18,10 (1)
Mt 19,12b (1)
Mt 19,13-15 (1)
Mt 19,29 84, (1)
Mt 22,15-22 (1)
Mt 22,36-39 (1)
Mt 22,41-46 (1)
Mt 25,29 (1)
Mt 25,31-44 (1)
Mt 25,31-46 (1)
Mt 26,26b (1)
Mt 26,47-68 (1)
Mt 28,20b (1)

Marco
Mc 1,1 (1)
Mc 2,1-12 (1), (2)
Mc 2,13-17 (1)
Mc 4,35-41 (1)
Mc 8,32 (1)
Mc 8,33 (1)
Mc 9,43-48 (1)

124
Mc 10,13-16 (1)
Mc 10,15 (1)
Mc 10,29-30 (1)
Mc 12,13-17 (1)

Luca
Lc 2,33-35 (1)
Lc 2,34-35 (1)
Lc 5,17-26 (1), (2)
Lc 5,27-32 (1)
Lc 6,24-25a (1)
Lc 7,11-17 (1)
Lc 7,36-50 (1)
Lc 9,24 (1)
Lc 11,1-2 (1)
Lc 11,5-13 (1)
Lc 12,25-26. Lc 12,30(1)
Lc 13,10-17 (1)
Lc 18,1 (1)
Lc 18,1-8 (1)
Lc 18,15-17 (1)
Lc 18,17 (1)
Lc 19,1-10 (1)
Lc 19,41-44 (1)
Lc 20,20-26 (1)
Lc 22,19b (1)
Lc 22,42 (1)
Lc 24,21 (1)

Giovanni
Gv 1,10 (1)
Gv 1,10-11 (1)

125
Gv 1,35-51 (1)
Gv 2,1 12 (1)
Gv 3,19 (1)
Gv 3,19-21 (1)
Gv 3,20 (1)
Gv 4,1-42 (1)
Gv 4,34 (1)
Gv 5,17 (1)
Gv 5,18 (1)
Gv 5,19 (1)
Gv 5,26 (1)
Gv 5,30 (1)
Gv 5,36b (1)
Gv 5,40 (1)
Gv 6,22-71 (1)
Gv 6,32-35 (1)
Gv 6,38 (1)
Gv 6,54a-55 (1)
Gv 6,57a (1)
Gv 7,28b-29 (1)
Gv 8,1-11 (1)
Gv 8,16 (1)
Gv 8,28 (1)
Gv 8,29 (1)
Gv 8,31-32 (1)
Gv 8,31-59 (1)
Gv 8,38a (1)
Gv 8,42 (1)
Gv 8,43-47 (1)
Gv 8,54-55 (1)
Gv 9,1-41 (1)
Gv 10,14a-15b (1)
Gv 10,17-18a (1)
Gv 10,24 (1)
Gv 10,30 (1)
Gv 10,33 (1)
Gv 11,1-44 (1)
Gv 11,1-46 (1)

126
Gv 11,45-46 (1)
Gv 11,25a (1)
Gv 12,23-26 (1)
Gv 12,31 (1)
Gv 12,35 (1)
Gv 14,6b (1)
Gv 15,5b (1), (2)
Gv 15,13 (1)
Gv 15,18 (1)
Gv 15,22-25 (1)
Gv 17,1 (1)
Gv 17,2b-3 (1)
Gv 17,10b (1)
Gv 17,24 (1)
Gv 19,7b (1)

Romani
Rm 7,24 (1)

Efesini
Ef 3,9 (1)

1 Giovanni
1 Gv 1,1 (1)

127
INDICE DEI NOMI
Amun di Leida (1), (2)
Aristotele (1)

Balthasar, Hans Urs von (1), (2), (3), (4), (5), (6)
Bellini, Enzo (1)
Bardy, Gustave (1), (2)
Bultmann, Rudolf (1)

Caillois, Roger (1), (2)


Celso (1), (2)
Cesbron, Gilbert (1), (2)
Chopin, Fryderyk (1)
Claudel, Paul (1), (2)

de Lubac, Henri (1), (2), (3), (4)


Dionigi l’Areopagita (1), (2), (3)
Dostoevskij, Fëdor (1)

Eichhorn, Werner (1), (2)


Eliade, Mircea (1), (2), (3), (4), (5), (6), (7), (8), (9), (10),
(11), (12), (13), (14)

Festugière, André Marie Jean (1)


Francesco d’Assisi (1)

Gilbert, Maurice (1)


Giustino (1)
Gratry, Alphonse (1), (2)
Greene, Graham (1), (2)
Guardini, Romano (1), (2), (3), (4), (5)

Harnack, Adolf von (1)


Huby, Joseph (1), (2), (3), (4)

Kasper, Walter (1), (2)

128
Keller, Carl-Albert (1)
Kierkegaard, Soeren (1), (2)

Lambert, Jean-Clarence (1), (2)


Leone Magno (1)
Leopardi, Giacomo (1), (2), (3), (4), (5)

Moeller, Charles (1)


Montgomery Watt, William (1), (2)
Montini, Giovanni Battista (1), (2)
Morenz, Siegfried (1)
Motte, André (1)

Newman, John Henry (1), (2)

Origene (1), (2)


Otto, Rudolf (1)

Platone (1), (2), (3), (4)


Protagora (1)

Rad, Gerhard von (1)


Ravasi, Gianfranco (1)
Renan, Ernest (1)
Ries, Julien (1), (2), (3), (4), (5), (6), (7)
Ringgren, Helmer (1)
Rosengarten, Yvonne (1)
Rousselot, Pierre (1), (2), (3), (4), (5), (6), (7), (8)

Sartre, Jean-Paul (1)


Scazzoso, Piero (1)
Schnackenburg, Rudolf (1), (2), (3), (4), (5), (6), (7), (8),
(9), (10), (11), (12)
Senofane (1)
Simon, Marcel (1)
Sofocle (1)
Svetonio (1), (2)

Tacito (1), (2)

129
Tommaso d’Aquino (1), (2), (3), (4)
Toukārām (1)
Tresmontant, Claude (1), (2), (3), (4), (5), (6)

Virgilio (1)

Welch, Alford T. (1), (2)

130
INDICE TEMATICO
amare / amore (1)
annuncio (1), (2)s, (3), (4), (5)
armonia / armonico (1)
attenzione (1)
attesa (1)
attrattiva (1), (2)
autorivelarsi / autorivelazione (1)s, (2)s
avvenimento (1), (2), (3), (4), (5)

bambini (1)s
beatitudini (1)
bontà (1), (2)
buddismo (1)

cambiamento (1)
carità (1)
cattolico (1)
certezza (1), (2)s
compagnia (1), (2)s
compassione (1), (2)
completezza (1)s
comunità cristiana (1), (2)
concretezza (1), (2)
condivisione (1)
conoscenza (1), (2)s
consapevolezza (1), (2) (c. dello scopo (1))
convenienza / convenire (1)
conversione / convertirsi (1)
convinzione (1), (2), (3), (4), (5)
convivenza (1), (2)s, (3)s, (4)
coscienza (1), (2)s
creatività religiosa (1), (2), (3)
cristianesimo / cristiano (1), (2), (3), (4)ss, (1), (2)s

131
decisione (1)
dimostrabilità / dimostrazione (1)
dipendenza (1), (2), (3), (4)ss, (1), (2) (d. dal reale (1)) (d.
dal Padre (1))
disordine (1)s
disponibilità (1), (2)
domanda (1), (2), (3), (4), (5)
dono di sé (1)s, (2)
dovere (1), (2)

ebraismo (1)
eccezionale / eccezionalità (1), (2)s, (3), (4), (5), (6), (7)
educazione / educativo (1)s, (2), (3), (4)
esperienza (1), (2)
esplicitezza (1)
evidenza (1), (2), (3), (4), (5), (6)

fascino (1), (2)


fatto (1)s, (2), (3), (4), (5)
fede (1) (f.-cultura (1))
felicità (1), (2)ss
fidarsi / fiducia / fiducioso (1), (2)s, (3)
genio / genialità (1)s, (2)s, (3), (4), (5)s, (6), (7)
giudizio (1) (G. ultimo / finale (1)s, (2))

ideale (1), (2), (3)


identificato / identificazione (1)s, (2)ss, (3)
illuminismo / illuminista (pretesa i. (1)) (cultura i. (1))
immaginare / immaginazione (1)ss, (2), (3) (sforzo d’i. (1)s)
imperativo cristiano (1)s
implicito (1)
incarnarsi / Incarnazione (1), (2)ss, (1)
incontro (1), (2)ss
intelligenza (1)ss
islam (1)

lavoro (1)
libertà (1)s, (2)s (discrezione della l. (1))

132
manicheismo (1)
manifestarsi / manifestazione (1)
memoria (1), (2), (3)ss, (4)
metodo (1), (2), (3), (4), (5)s (differenza di m. (1)) (m.
inadeguato (1)) (capovolgimento del m. (1))
miracolo (1)s, (2)ss, (3)
mito (1)
morale / moralità (1)s, (2), (3)s

obbedienza (1), (2)


offerta (1)
ostilità (1), (2)s

pace (1), (2)


passione (1), (2)
peccato originale (1)
pedagogia / pedagogico (1) (p. di Cristo (1)) (p. rivelativa
(1))
persona (1), (2)s, (3), (4)
persuasione (1)s
politica (1)
possibilità (categoria della p. (1), (2), (3))
potere (1), (2)
preferenza (1)
preghiera (1)ss, (2)s
presente / Presenza (1)s, (2), (3), (4), (5), (6)
pretesa(p. di Gesù / di Cristo (1)s, (2), (3), (4), (5)) (p.
rivelativa (1))
principio etico (1)s
profeta / profetico / profezia (1)s, (2), (3), (4), (5)
promessa (1)

ragione / ragionevolezza (1), (2)s, (3), (4), (5), (6), (7), (8),
(9)
religione / religiosità (1), (2), (3), (4)ss, (5), (6)
riconoscimento (1), (2), (3)
rinuncia / rinunciare (1)s, (2)
rivelazione (esigenza della r. (1)ss, (2)s)

133
sacrificio (1), (2)s
sacro (1)s
salvezza (1) (rifiuto della s. (1))
scandalo (1), (2), (3), (4)
seguire (1)s
semplicità (1)s
senso religioso (1)s, (2)
sfida (1), (2)
sforzo (1)s, (2) (dignità dello s. (1)) (s. razionale (1))
sguardo (1), (2)ss, (3)
simbolismo / simbolo (1)
sintonia (1)
società (1)
spazio (1), (2)
speranza (1)
sproporzione (1), (2)s, (3), (4)
storia (1), (2), (3)
stupore (1), (2), (3)s, (4)

tempo (1), (2), (3), (4)


tenerezza (1)
testimonianza (1), (2), (3)
tradizione (1), (2)
tutto (1)s

umiltà (1)
utopia / utopico (1)s

valore (1), (2)ss


verità (1)
vertigine / vertiginoso (1)s

134
Note all'Introduzione

1
Cfr. L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, pp.
59-77.
2
San Tommaso, Quaest. Disp. De Veritate, II, art. 2. Cfr.
Summa Theologiae, I, q. 14, art. 1; I, q. 16, art. 3. In questi
passi san Tommaso cita e commenta la definizione di
Aristotele, III De anima, c. 8, lect. 13.
3
Mons. G.B. Montini, Sul senso religioso, Lettera pastorale
all’arcidiocesi ambrosiana per la Santa Quaresima, 24
febbraio 1957.
4
Dice il frammento di un inno egiziano che risale al 2000 a.C.
e che si rivolge al Nilo come al Signore, all’origine di tutto il
vivere: «Gloria a te, padre della vita / Dio segreto che sorgi
da segrete tenebre / Inondi i campi creati dal Sole / disseti
gli armenti / abbeveri la terra / Strada celeste, discendi
dall’alto / Amico delle messi, fai crescere le spighe / Dio che
riveli, illumina le nostre dimore» (R. Caillois-J.C. Lambert,
Trésor de la poésie universelle, Gallimard-Unesco, Parigi
1958, p. 160). E, sempre dall’Egitto, ci giunge un inno,
questa volta del XIV secolo a.C., rivolto ad Akhenaton, il Sole,
di cui citiamo alcuni passi che dicono bene come era vissuto
il nesso del «Dio» con tutto ciò che è vita: «Tu dai frutto alle
viscere della donna / metti il seme nell’uomo / nutri il figlio
nel seno della madre / tu, nutrice nel seno materno! / [...] / Il
pulcino dall’uovo già pigola ancora nel guscio / e là tu gli dai
respiro perché resti in vita, / quando gli avrai dato forza per
spezzarlo / egli uscirà, correrà libero. / Quante e quali le tue
opere! / Tu, solo Dio, nessun altro esiste al tuo fianco! / Hai
creato la terra secondo il suo desiderio, / tu solo, la terra con
gli uomini e il loro bestiame. / [... ] / Tu sei nel mio cuore / e
nessuno ti conosce, se non tuo figlio, il Re» (ibidem, pp. 162-

135
163).
5
Cfr. G. Cesbron, È mezzanotte dottor Schweitzer, Bur, Milano
1993, p. 154.
6
Is 55,8.
7
Platone, Timeo, 28 C.
8
Platone, Timeo, 68 D. Il pensiero greco richiama
l’invocazione del poeta indiano Kabîr (1440-1518): «O
misteriosa parola, come potrò mai pronunciarla? / Come
posso arrivare a dire: Egli non è così o Egli è così? / Se dico
che Egli è in me l’Universo ho vergogna delle mie parole; /
Se dico che Egli è fuori di me, dico il falso. / Dei mondi
inferiori ed esteriori Egli fa una unità indivisibile; / Il
cosciente e l’incosciente sono lo scranno dei suoi piedi. / Egli
non è né manifesto né nascosto; né rivelato né irrivelato. /
Non c’è parola per dire ciò che Egli è» (R. Caillois-J.C.
Lambert, Trésor..., op. cit., p. 230).
9
Cit. in C. Moeller, Saggezza greca e paradosso cristiano,
Morcelliana, Brescia 1998, p. 52.
10
Cit. in A. Motte, «L’expression du sacré dans la religion
grecque», in L’expression du sacré dans les grandes
religions, coll. Homo Religiosus, 3, Centre d’Histoire des
Religions, Louvain-la-Neuve 1986, p. 232.
11
Cit. in ibidem, p. 235.
12
Cit. in C.A. Keller, «Prière et mystique dans l’hindouisme», in
L’expérience de la prière dans les grandes religions. Actes du
colloque de Louvain-la-Neuve et Liège (22-23 novembre
1978), coll. Homo Religiosus, 5, Centre d’Histoire des

136
Religions, Louvain-la-Neuve 1980, p. 346.
13
Cfr. Gen 22,1-19.
14
Cfr. san Tommaso, Summa Theologiae, I, q. 1, a. 1.
15
Dice un ammirevole brano dei Dialoghi dello stoico Epitteto:
«Rendi grazie agli dei di averti collocato al di sopra di tutte
quelle cose che essi non hanno neppure posto sotto la tua
dipendenza e del fatto che ti hanno reso responsabile
unicamente di quelle che dipendono da te [...]. Se noi
fossimo intelligenti che altro dovremmo fare in pubblico e in
privato se non cantare la divinità, celebrarla, enumerare tutti
i suoi benefici? [...] Ebbene? Poiché la maggior parte di voi
vuol essere cieca, non occorre forse qualcuno che al vostro
posto trasmetta a nome di tutti l’inno, l’inno di lode a Dio? Se
fossi un usignolo compirei l’opera dell’ usignolo; se fossi un
cigno, quella del cigno. Ma io sono un essere ragionevole,
devo cantare Dio: ecco la mia opera» (cit. in M. Simon,
«Prière du philosophe et prière chrétienne», in L’expérience
de la prière..., op. cit., p. 213).

137
Note al Capitolo Primo

1
Osserva Julien Ries: «Con la sua celebre analisi delle
modalità dell’esperienza religiosa Rudolf Otto, teologo e
storico delle religioni, mette in luce le tappe e il contenuto di
quest’esperienza: sentimento di creatura in presenza del
mysterium tremendum e fascinans espresso dalle parole
qadosh, hágios, sacer. In questo approccio, l’uomo coglie una
prima faccia del sacro, il numinoso, l’essenza numinosa,
l’anyad eva, il "tutt’altro". Questa prima scoperta sfocia su
una seconda, vale a dire la scoperta del sanctum, il valore
numinoso, seconda faccia del sacro, in presenza della quale
il profano appare come un non-valore e il peccato come un
anti-valore. Qui ha origine la religione, che è essenzialmente
rapporto dell’uomo con il sacro, scoperto come numinoso e
come valore numinoso» (J. Ries, Il sacro nella storia religiosa
dell’umanità, Jaca Book, Milano 1995, p. 80).
2
Mircea Eliade nella sua Storia delle credenze e delle idee
religiose testimonia: «"E difficile immaginare [...] come lo
spirito umano potrebbe funzionare senza la convinzione che
nel mondo vi sia qualcosa di irriducibilmente reale; ed è
impossibile immaginare come la coscienza potrebbe
manifestarsi senza conferire un significato agli impulsi e alle
esperienze dell’uomo. La coscienza di un mondo reale e
dotato di significato è legata intimamente alla scoperta del
sacro. Mediante l’esperienza del sacro lo spirito umano ha
colto la differenza tra ciò che si rivela reale, potente, ricco e
dotato di significato, e ciò che è privo di queste qualità: il
flusso caotico e pericoloso delle cose, le loro apparizioni e le
loro scomparse fortuite e vuote di significato" (La Nostalgie
des Origines, 1969, pp. 7ss). Il "sacro" è insomma un
elemento nella struttura della coscienza, e non uno stadio
della coscienza stessa» (M. Eliade, Storia delle credenze e
delle idee religiose, vol. 1, Sansoni, Firenze 1996, p. 7).

138
3
E questa «immaginazione» è lavoro del dinamismo naturale
della ragione, e quindi frutto ed espressione del tipo
culturale che ne è soggetto. «Sul piano etimologico – ci
ricorda ancora Mircea Eliade – "immaginazione" è solidale
con imago, "rappresentazione, imitazione" e con imitor,
"imitare, riprodurre". Per una volta l’etimologia riecheggia
sia le realtà psicologiche che la verità spirituale.
L’immaginazione imita dei modelli esemplari – le immagini -,
li riproduce, li riattualizza, li ripete incessantemente. Avere
immaginazione è vedere il mondo nella sua totalità, giacché
è potere e missione delle Immagini mostrare tutto ciò che
rimane refrattario al concetto» (M. Eliade, Immagini e
simboli. Saggi sul simbolismo magico-religioso, Jaca Book,
Milano 1980, p. 22).
4
Di questo atteggiamento, tipico di tante religioni orientali,
Werner Eichhorn ci offre un esempio riferito alla tradizione
cinese: «Tra le divinità venerate nello stato di Wei è
interessante la comparsa di una di queste che viene
nominata per la prima volta nel 238 sotto il secondo
imperatore. Il suo nome significa pressappoco: "soffio
dell’altissima vetta e dell’armonia centrale". In questo caso
non abbiamo comunque davanti a noi alcun dio [...] ma un
principio derivante dalla speculazione circa la nascita e la
formazione dell’universo [...]. Si tratta del fondamento primo
di tutto l’essere, cioè il soffio originario [...]. La comparsa ora
di quest’ultimo nei sacrifici ufficiali, come origine e causa
prima di tutte le forze della natura, come ad esempio delle
stagioni, del caldo e del freddo, di sole e luna, di piene e
siccità, significa un deciso ingresso della filosofia del tempo
nella sfera della religione di stato» (W. Eichhorn, La Cina
(Storia delle religioni), Jaca Book, Milano 1983, p. 181).
5
È questa una specificazione che cogliamo dalla descrizione
di un altro contesto – quello della religione sumera – fatta da
Julien Ries: «I testi sumeri registrano più volte una parola

139
che si rivela d’importanza capitale nel pensiero religioso:
questa parola è me. I sumeri l’hanno tradotta in quattro
modi: decreti divini; determinazioni; modelli; forze divine. La
Rosengarten suggerisce un’altra traduzione: prescrizioni. Le
prescrizioni sono giuste, sublimi, feconde; si tratta di un
denominatore comune che renderà armonica l’azione di tutti
gli dei nel mondo. [...] I sumeri concepiscono il cosmo come
interamente governato, bello e buono. Tutti i destini sono
stabiliti dagli dei. Gli dei An, Enlil, Enki pronunciano i me
[...]. Essi costituiscono un legame tra gli dei e il cosmo al fine
di mantenere quest’ultimo nell’armonica realtà della sua
esistenza» (J. Ries, Il sacro..., op. cit., pp. 172-173).
6
Nel suo studio su Il sacro nella storia religiosa dell’umanità,
Julien Ries coglie questa caratteristica come propria della
religiosità ittita: «Un’armonia contrattuale regolava i
rapporti tra dei e uomini. Questi ultimi dovevano eseguire la
volontà degli dei. L’uomo è il servitore degli dei. Così, sul
piano umano, il sacro è uno stato relazionale: l’uomo deve
potersi accostare agli dei» (ibidem, p. 113). Un’altra
immagine della stessa caratteristica, più legata a una
necessità di efficienza della propria azione nel mondo e nella
storia, è il do ut des impostato dall’antico romano per
regolare il suo rapporto col destino misterioso: «Il sacro è
per l’uomo romano uno strumento mentale che gli permette
di organizzare il mondo e di situarsi nel mondo. [...] Sulle
nozioni di sacer e di sanctus si fonda la religio che
permetterà di strutturare l’universo e di stabilire il
funzionamento dei rapporti tra uomini e dei» (ibidem, p.
161).
7
Amun di Leida, III, 16 s, cit. in S. Morenz, Gli Egizi (Storia
delle religioni), Jaca Book, Milano 1983, p. 117.
8
Cit. in W. Montgomery Watt-A.T. Welch, L’Islam (Storia delle
religioni), Jaca Book, Milano 1981, p. 73.

140
9
Os 11,1-4.
10
È interessante, a questo proposito, la testimonianza di
Mircea Eliade, anche solo dal punto di vista della conoscenza
ottenibile da uno storico delle religioni: «Può esserci
occupazione più nobile e più ricca sul piano spirituale che la
frequentazione dei grandi mistici di tutte le religioni, che
vivere in mezzo ai simboli e ai misteri, leggere e
comprendere i miti di tutte le nazioni? I profani immaginano
che uno storico delle religioni sia di casa, indifferentemente,
tra i miti greci e tra quelli egiziani, che si senta a suo agio
nel messaggio autentico del Budda, nei misteri taoisti ovvero
nei riti segreti di iniziazione delle società arcaiche. [...] Di
fatto, però, la situazione è del tutto diversa. Moltissimi storici
delle religioni sono talmente assorbiti dai loro studi
specialistici che sui miti greci o egiziani, sul messaggio di
Budda, sulle tecniche taoiste e sciamanistiche non sanno
granché più di quanto ne sappia un amatore che sia stato
capace di orientare opportunamente le sue letture. Nella
loro grande maggioranza hanno una vera familiarità soltanto
con un settore misero e ristretto dell’immenso campo della
storia delle religioni. [...] A tutti i costi abbiamo voluto
presentare una storia oggettiva delle religioni, senza
renderci sempre conto che ciò che battezzavamo oggettività
seguiva le mode di pensiero del nostro tempo» (M. Eliade,
Immagini e simboli..., op. cit., pp. 29-30).
11
Cfr. Tacito, Ab excessu divi Augusti libri, XV, 44; Svetonio, De
vita Caesarum libri, V, XXV, 4.
12
Cfr. J.H. Newman, Apologia pro vita sua, Jaca Book-
Morcelliana, Milano-Brescia 1982, p. 270; Sviluppo della
dottrina cristiana, Il Mulino, Bologna 1967, parte II, sezione
VI, p. 214; Grammatica dell’Assenso, Jaca Book-Morcelliana,
Milano-Brescia 1980, cap. 10, p. 245.

141
Note al Capitolo Secondo

1
J. Ries, Il sacro..., op. cit., p. 82. Lo storico delle religioni
continua: «Ogni ierofania è un fenomeno religioso complesso
nel quale si ritrovano l’essere o l’oggetto naturale, il
"tutt’altro" che si manifesta per mezzo di quest’essere o di
questo oggetto e manifestandosi conferisce a quest’essere o
a questo oggetto una dimensione sacrale che permette di
adempiere una funzione di mediazione».
2
«Ogni microcosmo, ogni regione abitata, ha ciò che si
potrebbe chiamare un "Centro", ovvero un luogo sacro per
eccellenza. È qui, in questo centro, che il sacro si manifesta
in modo totale [...]. Non si deve tuttavia concepire questo
simbolismo del Centro con le implicazioni geometriche
proprie dello spirito scientifico occidentale. Per ciascuno di
questi microcosmi possono esistere svariati "centri". [...]
Tutte le civiltà orientali – Mesopotamia, India, Cina ecc. –
conoscono un numero illimitato di "Centri". [...] Siamo in
presenza di una geografia sacra e mitica, la sola che sia
effettivamente reale e non di una geometria profana,
"obiettiva", in qualche modo astratta e non essenziale,
costruzione teorica di uno spazio e di un mondo in cui non si
abita e che perciò non si conosce» (M. Eliade, Immagini e
simboli..., op. cit., pp. 39-40).
3
Ibidem, p. 40.
4
J. Ries, Il sacro..., op. cit., pp. 72-73.
5
Ibidem, pp. 71-72.
6
Dice Mircea Eliade parlando del significato e dell’importanza
dello sciamanesimo nelle religioni dell’Eurasia antica:

142
«Esistono degli "specialisti del sacro", uomini capaci di
"vedere" gli spiriti, di salire in Cielo e incontrare gli dei, di
scendere agli Inferi e combattere i demoni, la malattia e la
morte» (M. Eliade, Storia..., vol. 3, op. cit., p. 29).
7
W. Eichhorn, La Cina..., op. cit., p. 62.
8
Ibidem, p. 68.
9
M. Eliade, Storia..., vol. 2, op. cit., p. 20.
10
Ibidem, vol. 3, pp. 291-292.
11
«Più ancora degli altri dei greci, Dioniso sorprende per la
molteplicità e la novità delle sue epifanie, per la varietà delle
sue trasformazioni. È in perenne movimento; penetra
ovunque, in tutti i paesi, presso tutti i popoli, in tutte le
religioni, pronto ad associarsi a divinità diverse [...]. E, senza
dubbio, l’unico dio greco che, rivelandosi sotto aspetti
differenti, affascina e attrae tanto i contadini che le élites
intellettuali, i politici e i contemplativi, gli orgiastici e gli
asceti. L’ebbrezza, l’erotismo, la fertilità universale, ma
anche le esperienze indimenticabili suscitate dal ritorno
periodico dei morti, o dalla mania, dallo sprofondare
nell’incoscienza animale o dall’estasi dell’enthousiasmos –
tutti questi terrori e rivelazioni hanno un’unica origine: la
presenza del dio. La sua natura esprime l’unità paradossale
della vita e della morte. Per questo, Dioniso costituisce un
tipo di divinità radicalmente diverso dagli Olimpi. Era forse,
fra tutti gli dei, il più vicino agli uomini? In ogni caso ci si
poteva avvicinare a lui, si giungeva a incorporarlo, e l’estasi
della mania dimostrava che la condizione umana poteva
essere oltrepassata» (ibidem, vol. 1, p. 402).
12
A.J. Festugière, Hermétisme et mystique païenne, p. 43, cit.

143
in ibidem, vol. 2, p. 297.
13
Ibidem, vol. 1, pp. 337; 336.
14
Ibidem, p. 333.
15
W. Montgomery Watt-A.T. Welch, L’Islam..., op. cit., p. 84.
16
«Come spinto da un presentimento, nei mesi di febbraio-
marzo del 632 Maometto si recò alla Mecca: fu il suo ultimo
pellegrinaggio. [...] E l’angelo gli dettò le seguenti parole di
Allah: "Oggi ho reso perfetta la vostra religione; ho compiuto
i miei favori su di voi; Mi è piaciuto darvi l’Islam per
religione" (5:3). Secondo la tradizione, alla fine di questo
"Pellegrinaggio d’addio", Maometto avrebbe esclamato:
"Signore, ho ben adempiuto la mia missione?", e la folla
avrebbe risposto: "Sì, l’hai ben adempiuta!”»; «Un’altra
tradizione ricorda invece la scala su cui Maometto,
trascinato dall’angelo Gabriele, sarebbe salito fino alle porte
del Cielo: egli arriva al cospetto di Allah e apprende dalla
sua stessa bocca di essere stato posto al di sopra di tutti gli
altri profeti e di essere proprio lui, Maometto, l’“amico” di
Allah» (M. Eliade, Storia..., vol. 3, op. cit., pp. 90; 84).
17
Ibidem, vol. 2, pp. 385; 387.
18
Ibidem, p. 386. Interessante è il commento di Mircea Eliade
a questa rivelazione: «La teologia, la cosmogonia e
l’antropogonia manichee paiono dare una risposta a
qualsiasi interrogativo concernente le "origini". Si capisce
perché i manichei considerassero la loro dottrina come "più
vera", cioè più "scientifica", delle altre religioni: perché essa
spiegava la totalità del reale mediante una catena di cause
ed effetti. A dire il vero, esiste una certa similarità fra il
manicheismo e il materialismo scien tifico antico e moderno

144
poiché, tanto per l’uno quanto per l’altro, il mondo, la vita e
l’uomo sono il risultato di un evento casuale» (ibidem, p.
392). Tale è la conseguenza dell’ansia dell’uomo: cerca
nell’Enigma di trovare soluzioni e risposte, e nel suo affanno
si dimentica delle domande!
19
G. Ravasi, «Introduzione», in H. Ringgren, Israele (Storia
delle religioni), Jaca Book, Milano 1987, p. 3.
20
G. von Rad, Scritti sul Vecchio Testamento, Jaca Book, Milano
1984, p. 111.
21
Ibidem, p. 195.
22
M. Gilbert, «Le sacré dans l’Ancien Testament», in
L’expression..., 1, op. cit., Louvain-la-Neuve 1978, p. 212.

145
Note al Capitolo Terzo

1
Nostra aetate, Dichiarazione conciliare sulle relazioni della
Chiesa con le religioni non cristiane, 28 ottobre 1965, 2,
857-858.
2
Cfr. G. Greene, La fine dell’avventura, Mondadori, Milano
1970, p. 235.
3
Cfr. L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., pp. 4-6.
4
Cfr. san Francesco d’Assisi, «Della terza considerazione delle
sacre sante Istimate», da I Fioretti di san Francesco, in Fonti
Francescane, Movimento francescano, Bologna 1977, p.
1594.

146
Note al Capitolo Quarto

1
Vedi qui, p. 41.
2
R. Schnackenburg, La Chiesa nel Nuovo Testamento, Jaca
Book, Milano 1973, p. 14.
3
R. Schnackenburg, Il vangelo di Giovanni, I, Paideia Editrice,
Brescia 1973, p. 26.
4
Dei Verbum, Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione,
18 novembre 1965, V, 19, 901. A questo proposito,
commenta Walter Kasper: «Sono distinti tre gradi nella
tradizione dei Vangeli: ciò che Gesù stesso ha detto e fatto;
ciò che gli apostoli dopo Pasqua alla luce della risurrezione e
della venuta dello Spirito "trasmisero [...] con quella più
completa intelligenza di cui essi [...] godevano"; e finalmente
il lavoro redazionale degli evangelisti, che a seconda della
situazione delle chiese sceglievano alcune cose, altre le
sintetizzavano, altre le spiegavano, conservando il carattere
di predicazione» (W. Kasper, Introduzione alla fede, Editrice
Queriniana, Brescia 1985, p. 54).
5
Cfr. M. Eliade, Storia..., vol. 2, op. cit., p. 338: «Queste
tradizioni si riferiscono tanto a Gesù quanto al Cristo risorto,
il che tuttavia non ne infirma necessariamente il valore
documentario; infatti l’elemento essenziale del cristianesimo,
come del resto di qualsiasi altra religione che rivendichi un
fondatore, è proprio la memoria: è il ricordo di Gesù a
costituire il modello per tutti i cristiani. La tradizione
trasmessa dai primi testimoni era però "esemplare" e non
soltanto "storica"; conservava, cioè, le strutture significative
degli avvenimenti e della predicazione, e non già il ricordo
esatto dell’attività di Gesù. È questo un fenomeno ben noto,

147
e non solo nella storia delle religioni».
6
Si veda, al riguardo, H.U. von Balthasar, La percezione della
forma, Gloria. Una estetica teologica, vol. I, Jaca Book,
Milano 1975, pp. 509-510: «Appare in tutta la sua impotenza
il proposito di quegli esegeti, siano essi credenti o no, i quali
ricercano una fotografia per così dire "neutrale" e una
registrazione su nastro del Gesù storico. Fotografare è un
procedimento fisico e l’apparecchio non può essenzialmente
riprendere se non ciò che gli si offre fisicamente, anche se si
tratta dei lineamenti di un volto umano. La storiografia è
invece una ricerca del senso ed essa non può trovare
essenzialmente un senso più grande di quello che è disposta
a depositare e a investire in anticipo. Ciò che essa è disposta
a dare in questo caso, è tradito dai rispettivi clichés dei vari
ritratti di Gesù. In questi ritratti spesso viene fatto sparire
con qualche trucco il tratto essenziale: la pretesa di Gesù
che attraversa tutte le sue parole e le sue azioni e che è
anche l’esigenza rivolta ai suoi storici di non lesinare troppo
sul senso».
7
Vedi qui, p. 39.
8
Cfr. L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., pp. 19-20.
9
H.U. von Balthasar, La percezione..., op. cit., pp. 436; 456.
10
H. de Lubac, La rivelazione divina e il senso dell’uomo.
Commentario alle Costituzioni conciliari "Dei Verbum” e
"Gaudium et spes”, in Opera omnia, vol. 14, Jaca Book,
Milano 1985, pp. 161; 167.
11
Ibidem, pp. 33-34.
12
P. Rousselot, in P. Rousselot-J. Huby, «Le Nouveau

148
Testament», in Christus. Manuel d’histoire des religions,
Beauchesne, Paris 1927, p. 982.
13
Cfr. L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 25.
14
P. Rousselot, Gli occhi della fede, Jaca Book, Milano 1977, p.
57.
15
C. Tresmontant, L’intelligenza di fronte a Dio, Jaca Book,
Milano 1981, p. 98.
16
R. Schnackenburg, Il vangelo..., I, op. cit., p. 94. «Nel
frattempo i giudizi più radicali sono stati riveduti della
scienza stessa (ad es., dopo la scoperta di papiri molto
antichi e soprattutto del P 52 del 130, sono state rivedute le
datazioni più tardive che giungevano fino al II sec. inoltrato),
ed è anche più stimato il valore storico di alcune
informazioni del vangelo di Giovanni» (ibidem).
17
Cfr. Gv 1,35-51.

149
Note al Capitolo Quinto

1
Cfr. Gv 2,1-12.
2
R. Schnackenburg, Il vangelo..., I, op. cit., p. 460.
3
«Nella misura in cui l’uomo, interiormente e umanamente,
realizza ciò che quest’uomo esprime, sperimenta che deve
credere a lui per poterlo comprendere. E l’uomo sperimenta
ciò non come una vaga eventualità, ma nella sua evidenza
stringente» (H.U. von Balthasar, La percezione..., op. cit., p.
428).
4
Vedi qui, pp. 48-49.
5
Cfr. Mc 2,1-12; Lc 5,17-26.
6
Cfr. Mt 22,15-22; Mc 12,13-17; Lc 20,20-26.
7
Cfr. Gv 8,1-11.
8
Osserva Rudolf Schnackenburg a questo proposito: «Gesù si
viene a trovare in una situazione delicata: deve rinnegare
quello spirito di misericordia che ha sempre predicato,
oppure deve contraddire alla chiara lettera della legge? Se
poi la sentenza è stata già pronunciata, la sua posizione è
ancora più pericolosa: o si deve mettere contro il tribunale
giudaico oppure (ammesso che a quei tempi i Giudei non
potessero eseguire una condanna a morte [...]) apparire ai
Romani come un rivoluzionario. Saremmo di fronte a una
critica situazione politica come quella relativa al tributo a
Cesare» (R. Schnackenburg, Il vangelo..., II, Paideia Editrice,
Brescia 1977, pp. 306-307).

150
9
Cfr. Gv 4,1-42.
10
Cfr. Mt 9,9-13; Mc 2,13-17; Lc 5,27-32.
11
Cfr. Lc 19,1-10.
12
«Gesù si impone alle coscienze. Egli è a casa sua
nell’interiorità degli altri [...]. Egli non si limita a dichiarare
una dottrina che sa per scienza o che ha appreso per
Rivelazione: egli tratta, si può dire, di una faccenda
personale» (P. Rousselot, in P. Rousselot-J. Huby, «Le
Nouveau Testament», in Christus..., op. cit., pp. 1018-1019).
13
Cfr. Lc 7,11-17.
14
Cfr. Lc 13,10-17.
15
Cfr. Mt 19,13-15; Mc 10,13-16; Lc 18,15-17.
16
Cfr. Mt 18,1-11.
17
Cfr. Mt 12,9-21.
18
Cfr. Lc 7,36-50.
19
Cfr. Gv 11,1-44.
20
R. Schnackenburg, Il vangelo..., II, op. cit., p. 560.
21
Cfr. Lc 19,41-44.
22

151
«Del suo segreto bisogna parlare come della sua vita. Certo
Gesù insegna con potenza. [...] Mai la sua affermazione esita.
Mai si mostra "rispettoso delle opinioni altrui". Ma la
riflessione sui testi evangelici mostra che se egli annuncia un
mistero di cui è sicuro, ciò che egli annuncia è un mistero
che lo riguarda. [...] Chi era lui? Sicuramente, egli era
uomo... E tuttavia egli sa ciò che è nell’uomo, e con la stessa
semplicità con cui si dice maggiore di David, di Salomone, di
Giona e del tempio, Egli si pone al di sopra degli angeli» (P.
Rousselot, in P. Rousselot-J. Huby, «Le Nouveau Testament»,
in Christus..., op. cit., pp. 1020-1022).
23
Cfr. Gv 6,22-71.
24
Cfr. Mc 4,35-41.
25
Cfr. Gv 10,24.
26
Cfr. Lc 2,33-35.
27
Mt 5,3.
28
Mt 18,3; Mc 10,15; Lc 18,17.

152
Note al Capitolo Sesto

1
Cfr. Gv 10,24.
2
R. Guardini, La figura di Gesù Cristo nel Nuovo Testamento,
Morcelliana, Brescia 1964, p. 98.
3
Mt 10,39.
4
Mt 10,32-33.
5
Mt 10,14-18.21-22a.24-25.27.
6
Mt 12,46-50.
7
Mt 10,34-37.39.
8
Cfr. R. Guardini, L’essenza del cristianesimo, Morcelliana,
Brescia 1981, p. 39.
9
C. Tresmontant, Cristianesimo, filosofia, scienze, Jaca Book,
Milano 1983, p. 247.
10
Mt 5,21-22a.27-28a.31-32a.33-34a.38-39a.43-44a.
11
Vedi qui, pp. 59-60.
12
W. Kasper, Introduzione..., op. cit., pp. 58; 59-60.
13
Cfr. Mt 25,31-44.

153
14
Nota al riguardo Pierre Rousselot: «Ciò significa all’inizio
vivere secondo i suoi precetti, più stretti e più fondati in
autorità di quelli di Mosè... È, ancora, vivere come lui... È,
infine, vivere per lui... (Mt 10,37 e 19,29). Queste parole, se
si vuol ben pensarle, sono ancora più straordinarie di quelle
con cui egli rimette i peccati o si dichiara giudice delle opere
di tutti, l’ultimo giorno. E lui che si segue sulla strada, è lui
che si troverà alla fine, ed è lui che si vuole amare, volendo
fare il bene» (P. Rousselot, in P. Rousselot-J. Huby, «Le
Nouveau Testament», in Christus..., op. cit., pp. 1019-1020).

154
Note al Capitolo Settimo

1
Vedi qui, pp. 49-51.
2
Cfr. Mt 16,13-19.
3
Mt 12,20.
4
Mt 13,12; 25,29.
5
R. Schnackenburg, Il vangelo..., II, op. cit., pp. 269-270.
6
Mt 16,22.
7
Mc 8,32.
8
Mt 16,23; Mc 8,33.
9
Mt 22,41-46.
10
Cfr.Gv 8,31-59.
11
R. Schnackenburg, Il vangelo..., II, op. cit., p. 353.
12
Ibidem, pp. 355-356.
13
Ibidem, pp. 378; 380-381.
14
Ibidem, p. 382.
15

155
Ibidem, p. 395.
16
Ibidem, p. 391.
17
A questo proposito Hans Urs von Balthasar osserva: «Non si
danno parole nel vangelo [...] che, per ogni animo
naturalmente pio, sembrano essere agitate dal fremito della
hybris? Non solo il greco, ma anche il giudeo, sono costretti
a rabbrividire nella loro pietà più autentica e chiunque
gridasse qui alla bestemmia avrebbe ragione da vendere, al
di fuori del caso di Cristo. Religiosamente queste parole
hanno un suono "insopportabile". Infatti occorre notare bene
che non è il Dio nudo a pronunciare queste parole, ma un
uomo, anche se per il resto Dio parla in lui. [...] Per questo si
può dare una sola giustificazione: che quest’uomo agisca
nell’obbedienza, che proprio nel momento in cui si
attribuisce qualità divine sia obbedientissimo. Ma questo è
possibile soltanto se quest’uomo che obbedisce quando si
"fa" Dio, è un Dio che obbedisce quando si fa uomo. La prima
cosa soltanto sarebbe hybris evidente e non potrebbe
assolutamente essere compresa come obbedienza umana. La
cosa più sicura che si può infatti dire dell’uomo è che egli
non è Dio» (H.U. von Balthasar, La percezione..., op. cit., p.
448).
18
R. Schnackenburg, Il vangelo..., II, op. cit., p. 397.
19
Cfr. L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., pp. 31-44.
20
R. Schnackenburg, Il vangelo..., II, op. cit., p. 400.
21
Cfr. Mt 26, 47-68.
22
Cfr. Sal 110,1; Dn 7,13-14.
23

156
Gv 19,7b.
24
Lc 2,34-35.

157
Note al Capitolo Ottavo

1
Gv 1,10-11.
2
Gv 3,19-21.
3
Gv 8,43-47.
4
Cfr. Gv 9,1-41.
5
Cfr. Gv 11,1-46.
6
R. Schnackenburg, Il vangelo..., II, op. cit., pp. 403; 419.
7
Ibidem, p. 425.
8
«Il fatto che Cristo non mi "dice niente", non è opposto
all’altro che in sé e da sé dice tutto a tutti. E qui non si tratta,
come nelle singole scienze, di un semplice adattamento
tecnico al modo di pensare e al dialetto concettuale di un
determinato ramo del sapere, ma si tratta piuttosto della
corrispondenza di tutta l’esistenza umana con la forma di
Cristo. E non sono soltanto delle condizioni previe
intellettive, ma esistenziali che devono essere adempiute
perché la forma, che interpella tutta l’esistenza, trovi anche
ascolto in questa esistenza intera» (H.U. von Balthasar, La
percezione... , op. cit., pp. 434-435).
9
Gv 15,22-25.
10
Mt 16,26.
11

158
Mt 18,10.
12
Mt 13,44-46.
13
Mt 11,27.
14
Mt 16,17.
15
Mt 22,36-39.
16
Cfr. Mt 25,31-46.
17
Cfr. Mt 5,1-12.
18
Cfr. Mt 6,25-34.
19
Mt 10,28-33.
20
Cfr. A. Gratry, Commento al vangelo di S. Matteo, Edizioni
Paoline, Milano 1957, p. 82.
21
Cfr. Mc 9,43-48.
22
«Il mio rapporto religioso con Dio è determinato appunto da
quel fenomeno unico che non si ripete altrove, cioè che
quanto più profondamente io mi abbandono a Lui, quanto
più pienamente io lo lascio penetrare in me, con quanta
maggior forza Egli, il Creatore, domina in me, tanto più io
divento me stesso» (R. Guardini, La coscienza, Morcelliana,
Brescia 1948, p. 59).
23
Mt 7,21.

159
24
Mt 7,24-27.
25
Gv 5,30.
26
Gv 5,17.19.26.36b; 6,38.57a; 7,28b-29; 8,28.38a.42.54-55.
27
Mt 14,23.
28
Cfr. Lc 18,1.
29
Gv 8,16.29.
30
Gv 17,10b.
31
Gv 10,30.
32
Gv 15,5b.
33
Lc 12,25-26.30.
34
Lc 11,1-2.
35
Gv 4,34.
36
Cfr. Ef 3,9.
37
Gv 17,1.2b-3.24.
38
Lc 11,5-13.
39
Lc 18,1-8.

160
40
Lc 22,42.
41
Gv 12,23-26.
42
Gv 10,14a-15b.
43
Gv 6,32-35.54a-55.
44
Cfr. Mt 26,26b; Lc 22,19b.
45
P. Claudel, L’Annuncio a Maria, BUR, Milano 2001, p. 179.
46
Lc 9,24.
47
Mc 10,29-30.
48
Mt 19,12b.
49
«Si ha un’armonizzazione: il Vangelo insegna che per il
cristiano nulla è profano, perché tutto è santificabile. I Padri
non hanno trascurato di sottolineare questa novità. La nuova
creazione instaurata da Gesù non si pone sotto il segno della
contrapposizione sacro-profano. Dio impegna nella storia del
mondo un’azione che completa in pienezza la creazione» (J.
Ries, Il sacro..., op. cit., p. 224). Ed ecco anche
un’osservazione, nello stesso senso, di Mircea Eliade: «Ad
ogni modo nulla di tutto ciò che, attraverso il Cosmo,
manifesta la Gloria – per parlare in termini cristiani – può
lasciare indifferente un credente» (M. Eliade, Immagini e
simboli..., op. cit., p. 37).
50
Gv 1,10; 12,31; 15,18.

161
51
Cfr. Rm 7,24.
52
Gv 15,5b.
53
Gv 14,6b.
54
Gv 15,13.
55
Gv 11,25a.
56
Gv 10,17-18a.
57
Gv 3,19; 5,40.
58
Cfr. Gv 3,20; 12,35.
59
Gv 8,31-32.
60
Cfr. Mt 19,29.
61
Mt 10,34b.
62
Lc 6,24-25a.

162
Note al Capitolo Nono

1
Gv 3,2.
2
Gv 10,33.
3
Gv 5,18.
4
Dionigi l’Areopagita, Una strada a Dio, a cura di P. Scazzoso,
Jaca Book, Milano 1989, p. 63.
5
Su questo punto si veda C. Tresmontant, L’intelligenza..., op.
cit., p. 111: «L’opposizione tra la ragione e la fede potrebbe
ridursi a questa opposizione tra una ragione abituata a
conoscere un certo dato, ma che si rifiuta di accettare
questa novità d’essere [...] che esige da lei, dalla ragione, un
rinnovamento [...]. In nome di questa giurisdizione
dell’antico sul nuovo, una ragione che si rifiuta alla creazione
del nuovo non avrebbe dovuto credere neppure – come
osserva san Giustino – alla possibilità della creazione intera,
quella del mondo, alla possibilità della sua propria creazione
(I Apol. XIX). È questo l’indice di un sofisma abituale del
pensiero che si attribuisce il diritto di giudicare in anticipo
del possibile e dell’impossibile, in nome del dato reale,
antico, come se la realtà non fosse sempre stata in fase di
innovazione, di creazione, così che, al limite, questa ragione
non avrebbe potuto ammettere che il nulla, se si fosse
chiesta la sua opinione».
6
G. Leopardi, «Alla sua donna», in Cara beltà..., BUR, Milano
1996, pp. 53-55.
7
1 Gv 1,1.

163
8
Cfr. Leone Magno, Lettera a Flaviano, 28, 3-4.
9
Dionigi l’Areopagita: «L’unità, la semplicità, l’invisibilità di
Gesù, il Verbo divinissimo, per mezzo dell’incarnazione a
nostra somiglianza, sono giunte alla composizione e alla
visibilità... in seguito alla bontà e all’amore per gli uomini e
con sommo beneficio hanno procurato a noi la possibilità di
una comunione unitiva con Lui, unificando la nostra miseria
con ciò che vi è in Lui di più divino, se anche noi ineriamo nel
Cristo, come le membra in un corpo, secondo l’identità di
una vita immacolata e divina» (Una strada..., op. cit., p. 109).
10
Mt 28,20b.
11
Cfr. M. Eliade, Immagini..., op. cit., p. 150: «Da dove viene
[...] l’impressione irresistibile, avvertita soprattutto dai non
cristiani, che il cristianesimo ha innovato rispetto alla
religiosità anteriore? Per un indù che simpatizza con il
cristianesimo l’innovazione che colpisce maggiormente (se si
lascia da parte il messaggio o la divinità di Cristo) consiste
nella valorizzazione del Tempo, in ultima istanza nella
salvezza del Tempo e della Storia. [...] Il Tempo diventa
pienezza in virtù del fatto stesso dell’incarnazione del Verbo
divino; tuttavia questo stesso fatto trasfigura la storia. Come
potrebbe essere vano e vuoto il Tempo che ha visto nascere,
soffrire, morire e risuscitare Gesù? Come potrebbe essere
reversibile e ripetibile ad infinitum?».
12
Gv 11,45-46.
13
Celso, retore pagano del II secolo, ha espresso l’obiezione
contro l’umanità di Cristo in questi termini: «Che, se alcuni
fra i cristiani o i giudei sostengono che un Dio o un Figlio di
Dio è disceso o deve discendere sulla terra, come giudice
delle cose terrene, questa è, tra le loro pretese, la più

164
vergognosa e non c’è bisogno di un lungo discorso per
respingerla. Quale senso può avere per Dio un viaggio come
questo? Dovrebbe forse servire a sapere cosa accade fra gli
uomini? Ma Dio non sa tutto? È dunque incapace,
presupposta la sua potenza divina, di migliorare gli uomini,
senza spedire corporeamente qualcuno per conseguire
questo effetto? [...] O bisogna paragonarlo a uno arrivato,
fino allora sconosciuto dalle folle e impaziente di esibirsi
davanti a loro per fare sfoggio delle sue ricchezze? [...] Se,
come affermano i cristiani, egli è venuto per aiutare gli
uomini a entrare nella via retta, perché non si è reso conto di
questo dovere che dopo averli lasciati errare per secoli?»
(Origene, Contra Celsum, IV, 3-5, cit. in G. Bardy, La
conversione al cristianesimo nei primi secoli, Jaca Book,
Milano 1975, p. 181).
14
Lc 24,21.
15
Ancora Celso formula, in termini filosofici, l’obiezione: «Non
dico nulla di nuovo, ma cose dimostrate da tempo. Dio è
buono, è bello, è felice. La sua situazione è ottima e
bellissima. Se egli scende verso gli uomini, significa che si
assoggetta a un cambiamento; questo cambiamento sarà
(fatalmente) da buono in cattivo, da bello in brutto, da felice
in infelice, da buonissimo in cattivissimo. Chi vorrebbe un
cambiamento simile? Inoltre, ciò che è mortale, è, per
natura, soggetto alle vicissitudini e alle trasformazioni. Ma
ciò che è immortale, resta, per essenza, sempre identico a se
stesso. È impossibile dunque che Dio subisca un
cambiamento di questo genere» (Origene, Contra Celsum,
IV, 14, cit. in G. Bardy, La conversione..., op. cit., p. 181).
16
A proposito di una delle più gravi eresie, il docetismo,
Mircea Eliade osserva: «Il docetismo, una delle prime eresie,
di origine e struttura gnostica, esemplifica in modo
drammatico la resistenza contro l’idea dell’incarnazione: per
i doceti (dal verbo dokeo = sembrare, apparire), il Redentore

165
non poteva accettare l’umiliazione di incarnarsi e di soffrire
in Croce; essi ritenevano invece che Cristo "sembrava" un
uomo perché aveva rivestito una parvenza di forma umana.
[...] I Padri avevano pertanto ragione nel difendere
accanitamente il dogma dell’incarnazione, [...] Dio si è
completamente incarnato in un altro essere umano concreto
e storico – vale a dire attivo in una temporalità storica ben
circoscritta e irreversibile – senza tuttavia rinchiudersi nel
suo corpo (poiché il Figlio è consustanziale al Padre)» (M.
Eliade, Storia..., vol. 3, op. cit., p. 406). Si veda anche AA.
VV., Su Cristo: il grande dibattito nel quarto secolo, a cura di
E. Bellini, Jaca Book, Milano 1978.
17
È un atteggiamento che già i Salmi rilevano quando fanno
dire all’empio: «Dio non vede, non se ne cura» (cfr. Sal 9,25;
94,7).
18
I Vangeli, come nota Claude Tresmontant, «non hanno
fornito né conservato la totalità dell’esperienza iniziale. [...]
Hanno raccolto informazioni, tradizioni orali, provenienti,
alla fine, da colui che era l’oggetto di queste tradizioni. [...]
Nelle trasmissioni orali certe perdite d’informazione sono
state inevitabili. [...] Resta il fatto che nonostante tutto
questo, i padri, i dottori e i teologi delle generazioni ulteriori
hanno avuto a loro disposizione, da questi piccoli libri, il
contenuto di un’esperienza iniziale, quella dei testimoni.
Quest’esperienza iniziale era senza ambiguità. Gesù di
Nazareth era un uomo, pienamente e totalmente un uomo,
anatomicamente, fisiologicamente e psicologicamente. Ma
non era solo un uomo, disponeva di una scienza, di una
saggezza, di una facoltà, di una santità, che non sono quelle
dell’uomo, bensì quelle del Creatore increato, quelle di Dio.
Tale è l’esperienza iniziale» (C. Tresmontant,
Cristianesimo..., op. cit., pp. 249-250).

166

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