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FRANCESCO GIOSUÈ VOLTAGGIO

ALLE SORGENTI DELLA FEDE IN


TERRA SANTA
2

ATTESA, AVVENTO, NATALE DEL MESSIA

Cantagalli│Chirico
© 2018 Edizioni Cantagalli e Chirico Editore - Siena, Napoli

Grafica di copertina: Rinaldo Maria Chiesa

Impaginazione: Fernando Maria Chirico

Stampato da Edizioni Cantagalli nell’ottobre 2018

ISBN: 978-88-6879-673-0
ai miei catechisti
PREFAZIONE

Fino a poco tempo fa, sembrava che il clima culturale e sociale aiutasse uno stile di vita
fondato sulla fede. Oggi tutto è cambiato. È vero che si può notare una crescita d’interesse,
specialmente tra i giovani, per l’approfondimento della fede, insieme ad un radicamento più
profondo della fede nella vita di ciascuno. Le Case d’esercizi spirituali servono a molti
giovani. Ma in modo decisa- mente più rapido cresce la percentuale della società che vive
come se Dio non esistesse. Ciò riguarda non solo l’Europa e i Paesi storicamente cristiani. Si
nota una debolezza culturale, una mancanza di dinamica sociale, di vivacità e creatività, di
senso della comunità, d’appartenenza e d’unità nella società. In fondo, si è verificata una
sorta di rottura del senso dell’identità propria e della fiducia sociale; la mancanza di un punto
di riferimento più ampio, di comunione delle aspirazioni singole, pur nel rispetto delle
differenze.
Riflettendo sulla trasmissione del cristianesimo, si deve prendere in considerazione un
contrasto tra «il tempo mediatico» e «il tempo biblico». Il «tempo mediatico» non è un tempo
lineare, bensì estremamente selettivo, incentrato sulle cose che attirano l’attenzione e portano
guadagni pubblicitari. Vincono i sensazionalismi e gli scandali, spesso senza che venga
mostrato l’inizio di un processo ed il suo sviluppo. Al contrario, il «tempo biblico» è il tempo
della semina del grano, della sua fruttificazione, della sua raccolta. Corrisponde al ritmo della
vita umana, al processo di riscoperta del senso, della maturazione alla responsabilità.
Francesco Giosuè Voltaggio mostra che l’umanità non solo è preziosa, è anche perduta.
Proprio per questo è cercata dal Salvatore che si fa agnello e nasce in una mangiatoia. Dio va
in cerca di Adamo ed Eva perduti, scendendo fino alla profondità di terra, alle grotte
recondite dell’uomo, a Betlemme.
Le mode ideologiche fondate sull’Illuminismo, sulle ideologie del ventesimo secolo, e
prima di tutto oggi la forza attraente dello stile di vita consumistico, fanno sì che - spesso in
buona fede - siamo «in difesa», cercando di dimostrare che si può accettare il cristianesimo,
nono- stante le mode ed il ritmo del mondo moderno; che la fede porta valori che rafforzano
l’essere umano, che la vita vissuta come se Dio esistesse non è così strana come talvolta si
pensa. Ma non entriamo nella realtà di Dio calato nella storia dell’umanità. In fondo,
lasciamo la vita nel mondo dove Dio quasi non esiste. E così, alla fine ci stupiamo del fatto
che i nostri sforzi sinceri non siano attraenti e che il clima culturale diventi sistematicamente
più stentato.
La Bibbia riporta la chiave di lettura degli avvenimenti e delle relazioni tra Dio, Creatore
e Salvatore del mondo, e l’umanità. Gli avvenimenti sono descritti nel clima dei riti e delle
tradizioni antiche, con note letterarie dalla provenienza molto varia, appartenenti alle diverse
epoche della storia. Nella Bibbia ritroviamo la coscienza d’Israele che riguarda questi
avvenimenti. Dio si rivela non solo nella storia, ma anche nella coscienza della fede, propria
al popolo fedele riguardo alla sua storia.
Purtroppo, oggi l’onnipresenza dei media provoca una rivoluzione sui generis nel modo
di pensare. Il «tempo mediatico» spezza il modo di ragionare. Talvolta arriva fino alla sfera
del subconscio, distrugge la consapevolezza che si ha dell’esistenza del legame causa-effetto,
della successione degli avvenimenti nel tempo. Così si rende poco chiaro il processo di
crescita, del divenire, del farsi. Si perde il senso di responsabilità e sparisce la
consapevolezza che c’è l’illusione di volere tutto, subito. La sovrabbondanza delle
informazioni fa sì che esse perdano di significato.
Questo contesto culturale spinge a formulare il messaggio cristiano come un servizio
d’informazione sull’attività di Dio, sulla sua preoccupazione di mantenere l’ordine della
creazione, il suo sforzo di redenzione, di riportare il senso e l’ordine nonostante il dilagare
del peccato e dell’attività di Satana. E così entriamo nell’humanum, radicato in Dio, e in
carica alla comunità di fede, alla Chiesa di Cristo. Con quest’esperienza, la Chiesa porta un
equilibrio tra personale e comunitario, tra persona e società, tra bene comune e dignità
dell’individuo. È capace di segnalare i meccanismi dello sviluppo, tenendo conto della
dignità di ogni persona umana.
Il libro di Voltaggio introduce alla geografia, alla storia come humus vitale in cui è fiorita
la nostra salvezza. Riporta non solo passi biblici, ma anche testimonianze letterarie e
archeologiche, fonti dei Padri della Chiesa e della liturgia orientale, chiavi ermeneutiche per
interpretare i fatti, per entrare in modo più profondo nei luoghi e negli eventi della salvezza,
per vederne il compimento.
Solo attraverso la conoscenza dell’humus dell’ebraismo dell’epoca del secondo tempio è
possibile conoscere profondamente allo stesso tempo la continuità e la novità costituita
dall’avvento di Gesù Cristo e del primo cristianesimo. Per questo motivo Voltaggio si chiede
cosa significasse essere ebrei nel primo secolo d.C., nel contesto storico e sociale dell’impero
romano, come tutto ciò influisse nella vita corrente, nella mentalità, nella cultura, così da
avvicinarsi a Gesù e ai suoi apostoli, alla trasmissione delle cose divine alla comunità umana.
Condividiamo lo sforzo dell’autore di entrare nella comprensione di Maria come donna
ebrea, al fine di entrare meglio nella comprensione di Maria come Madre di Gesù e Madre di
Dio secondo la rivelazione biblica e la tradizione della Chiesa. Di che tenore era la sua vita
religiosa, come viveva la sua fede, come assimilava le Scritture? Quale era il ruolo della
benedizione mattutina per il clima della giornata di benedizione di lode, che in un momento
preciso è poi divenuta il Magnificat? Cosa significava per la Sacra Famiglia recarsi alla
sinagoga, partecipare alla liturgia, ascoltare la Parola, le profezie che riguardavano il Messia?
Questi sono approfondimenti della storia, ma anche luci per la nostra vita cristiana, per
accogliere in noi la nascita del Salvatore oggi.
Non solo la Bibbia, ma anche numerosi midrashim, i testi rabbinici, il Talmud, la
tradizione orale ebraica ed araba, le interpretazioni e i cenni sottolineati dai Padri della
Chiesa del primo millennio, sono per Francesco Voltaggio una base per cercare la risposta
alla domanda di fondo del popolo d’Israele, ma anche nostra, oggi: chi è il Messia? Cosa
significa essere salvo, integro, compiuto? In che modo il Messia porta pace nel mondo?
Quale è l’identità e la missione del Messia, e oggi della sua Chiesa? Il nostro futuro è aperto a
un compimento, o è sempre condannato alla ciclicità, al nichilismo, alla non-attesa? C’è una
difficoltà per Israele: se questo è il Messia, dov’è la pace del mondo? Anche i discepoli non
poterono accettare la sconfitta della croce. Lc 24,26 precisa che era nel piano salvifico di Dio
che Gesù soffrisse. L’autore mostra quale fosse, ai tempi di Gesù, l’immagine del Messia.
Egli presenta, inoltre, tutte le possibili attese delle note caratteristiche del Messia; le
quattro «scuole filosofiche» (farisei, sadducei, esseni, zeloti); le diverse concezioni
messianiche che si sono sviluppate e diffuse nel tempo. Gesù ha dovuto confrontarsi con tutto
questo, con il modo di presentare Dio e le relazioni tra la comunità d’Israele e il mondo
politico, sociale, i Romani, che hanno invaso il Paese, con le tensioni tra le scuole filosofiche
dell’epoca. Si è dovuto confrontare con l’immagine del messia regale trionfante e con quella
del messia sacerdotale, con gli impliciti riferimenti alle sofferenze che dovevano precedere
l’arrivo del messia ed i riferimenti alle sofferenze e tribolazioni del messia stesso. Per i
cristiani, il Messia è entrato nella valle oscura della sofferenza e della morte, per prenderla su
di sé, nel luogo dove la gente dice: «Dov’è Dio?». Il Messia si carica del castigo del popolo a
causa dei peccati commessi e delle trasgressioni perpetrate contro la Legge.
Le attese del mondo ed il modo in cui Gesù le realizza sono diverse. «Vi dò la pace, la
mia pace. Non come dà il mondo, io la dò a voi» (Gv 14,27). Il mondo conosce una pace che
è assenza di guerra. Gesù, invece, viene descritto da Isaia (9,5) come principe della pace. Lo
shalom è pienezza, felicità compiuta. Cristo è la nostra pace (cf. Ef 2,14), colui che ha fatto
dei due una cosa sola, abbattendo, per mezzo della sua carne, il muro di separazione che
divideva ebrei e pagani, irrompendo nella vita di Giuseppe e Maria galilei, che risiedevano
nei territori della tribù di Zàbulon a Nàzaret e degli apostoli rinchiusi per paura della
persecuzione.
La lettura del libro di Voltaggio ci porta ad una nuova conoscenza delle realtà. Nàzaret
era una piccola cittadina tra i 100 ed i 700 abitanti, situata vicino a due città significative,
come Yafa e Sefforis, occupata dagli zeloti, che si rivolta contro i Romani. Gesù arriva nel
grembo di un abitante qualunque di Nàzaret e per di più donna. Mentre vanno di moda le
visioni di un messia politico, Gesù sceglie una via radicalmente diversa dagli zeloti, una via
più rivoluzionaria: l’amore verso i nemici e la non resistenza al malvagio. Secondo gli scavi
archeologici, Nàzaret fu distrutta dall’invasione assira di Tiglat-Pileser e abbandonata dal
sesto al secondo secolo a.C. Secoli prima, Isaia (9,1) scrive: «Il popolo che camminava nelle
tenebre ha visto una grande luce». Il vangelo di Matteo (4,12-17) menziona il compimento di
tale profezia quando Gesù appare in Galilea, sulle rive del lago. Nàzaret è legata con
l’umiliazione e l’oscurità, ma anche con la luce del Messia, con il riscatto e la redenzione per
opera sua.
È bene vedere i contrasti tra la situazione culturale di oggi e il clima culturale che
accompagna la vita e la missione di Gesù. Oggi viviamo in un clima culturale che «ci
risucchia». Il mondo virtuale, ma anche quello reale, creano dipendenza da come gli altri ci
vedono, dall’ambizione, dall’egoismo, dal successo, dalla mancanza di sensibilità ai legami
interpersonali, alla dimensione comunitaria della vita anche in famiglia. Il libro di Voltaggio
ci descrive le fonti sul matrimonio di Yosef e Miriam. Le tradizioni ebraiche circa il
matrimonio, ignote ai più, ci permettono di capire i vari aspetti del Nuovo Testamento
(compreso il significato del primo miracolo di Gesù alle nozze di Cana) e gli eventi
precedenti alla nascita di Gesù.
Giovanni il Battista è stato il precursore. Prodromos, in greco è «colui che corre davanti».
Luca traccia una vera e propria geografia della salvezza: da Gerusalemme, cuore religioso del
tempo, esce la parola del Signore che è destinata a tutti i confini della terra, a Roma, caput
mundi. Il vangelo ha inizio a Gerusalemme, nel tempio, e si conclude a Gerusalemme, sul
monte degli Ulivi con l’ascensione di Gesù Cristo, mentre gli Atti degli apostoli cominciano
a Gerusalemme, sempre sul monte degli Ulivi, e terminano a Roma.
L’autore guarda gli avvenimenti descritti nella Bibbia come segni della vita secondo i
limiti umani. Zaccaria e Elisabetta sono sterili, sperimentano il fallimento più grande di non
avere una discendenza. La storia della salvezza comincia dalla sterilità umana. Dio entra nella
storia dell’uomo gratuitamente, perché l’uomo non è destinato alla sterilità.
I capelli di Sansone non sono una credenza puerile, ma il segno visibile della sua
consacrazione, del suo «essere santo» per il Signore. Questo è un aspetto particolarmente
attuale per i cristiani. La tentazione più grande per loro è quella di essere «come tutti gli
altri», cioè mondani, per non correre il rischio di essere additati dagli altri e rifiutati. I
cristiani hanno la costante tentazione di dimenticare la loro consacrazione in forza del
Battesimo, che li rende non conformi alla mentalità del mondo.
Giovanni Battista è il profeta «contro corrente». Gesù Cristo è «il consacrato» del Padre
per eccellenza e porterà a pieno compimento tale realtà. Nel vangelo di Giovanni, alcuni
discepoli hanno abbandonato la sua sequela. Gesù a Cafarnao chiede ai Dodici: «Volete
andarvene anche voi?» (Gv 6,67). L’autore avvisa che vi sono due estremi pericolosi per i
credenti di oggi: il fondamentalismo, che equivale a rifiutare il mondo e a chiudersi ad esso
disprezzando e giudicando così i peccatori, e la mondanità che significa «abbassare lo
standard» dell’annuncio, «annacquare il vino» del vangelo per paura che la gente si allontani
e che il messaggio possa non essere accettato. Oggi c’è un enorme bisogno di baluardi, di
punti di riferimento, di luci che brillano nelle oscurità, e l’unica via di salvezza è Gesù Cristo,
crocifisso e risorto. Il Verbo si fece carne «e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14).
Betlemme in ebraico si dice Bet-lehem, «casa del pane». Il tema del pane accompagna tutta
l’attività del Gesù fino all’Ultima Cena, fino agli incontri con il Risorto dei discepoli ad
Emmaus e degli apostoli nel Cenacolo.
Voltaggio è molto attento al fatto che l’intento degli evangelisti non è quello di scrivere
una cronaca fredda degli avvenimenti, quanto annunciare Yehoshua‘, Gesù, il nome che
significa «il Signore salva». Gli evangelisti, i primi apostoli hanno ritenuto di annunziare la
salvezza tramite la storia, perché veramente Dio si è fatto storia, affinché i credenti in
Yehoshua‘ potessero entrare e vivere nella yeshu‘ah, nella «salvezza» contenuta nel suo nome
e nella sua persona. Come figlio di Davide, Gesù nasce a Betlemme. Il Messia entra nelle
pieghe della storia. I primi giudeo-cristiani chiamavano la grotta di Betlemme «grotta
luminosa», perché Dio è entrato nelle caverne e nelle zone più oscure dell’umanità,
illuminandole per sempre. Luca colloca la nascita di Gesù nella cornice storica mondiale,
menzionando il nome di Cesare Augusto. Gesù non viene al mondo alla luce dei riflettori.
Entra nel nascondimento, nella povertà, nel più profondo della terra, in una grotta oscura.
Non c’è per lui posto nell’albergo. Voltaggio descrive le analisi bibliche e storiche che
mostrano opposizione tra il movimento zelota che cerca il regno di Dio sulla terra e vuole
affermare la Torah con la forza della rivoluzione, e la corrente opposta, a favore di Roma,
sorretta da Erode il Grande, il partito degli erodiani. Gesù viene al mondo al crocevia della
storia: nasce nella regione in cui è situato il cuore della religione più importante del tempo,
l’ebraismo. Ma l’ambiente ebraico è stato ellenizzato: più di un secolo e mezzo prima della
sua nascita, gli ellenisti, eredi della civiltà greca, hanno conquistato la Terra Santa, hanno
sviluppato la filosofia, l’arte, un’alta organizzazione civile e militare. In questo punto preciso
della storia umana, Dio si fa storia e geografia.
Nel mistero del Natale è già presente in nuce tutto il mistero del Messia. Voltaggio si
sofferma sul testo dei Vangeli: Gesù guarda la gente da una mangiatoia, ossia dal basso, e ciò
dimostra che egli è entrato in ciò che è angusto, nelle nostre angosce più profonde, là dove
noi non possiamo entrare. Gesù è venuto senza segni grandiosi, perché - come spiega
Benedetto XVI - «non intende conquistare, per così dire, dall’esterno, ma intende essere
accolto dall’uomo nella libertà». È venuto senza segni grandiosi, ha fatto della croce la porta
della misericordia; il suo costato, da cui sono sgorgati sangue e acqua, è un torrente che
risana le nostre ferite e un sentiero per entrare fino al cuore del Signore.
Grande merito dell’autore è il fatto che segue la Bibbia, i testi midrashici, rabbinici,
apocrifi, quelli della prima chiesa cristiana, attingendo ampiamente dai Padri della Chiesa,
ma anche dalle tradizioni ebraiche vive fino ad oggi e da quelle degli arabi che vivono in
Terra Santa. In questo modo, ci ricorda che noi siamo cristiani grazie alle testimonianze
arrivate a noi tramite gli apostoli. Senza queste testimonianze ci sarebbero gli scavi, le pietre
con alcune iscrizioni, ma mancherebbe il cristianesimo con la sua vivacità salvifica e
culturale, mancherebbe la comunità radunata nella Chiesa di Gesù che porta la salvezza a
tutto il mondo. L’autore ci porta alla via della qualità di vita, insieme con il Signore, della
gioia di essere nella comunità, consapevole dove va. Ma bussa anche al nostro senso di
responsabilità.

ANDREA KOPROWSKI, SJ
Collegium Bobolanum,Varsavia
Già Direttore dei programmi di Radio Vaticana
INTRODUZIONE

Humus vitale della salvezza


Il presente libro è frutto di varie puntate tenute su Radio Maria dal 2014 al 2017. In esse,
come recita il titolo della trasmissione, s’intendeva attingere «alle sorgenti della fede in Terra
Santa», sorgenti che sono anzitutto la Scrittura e la Tradizione, senza trascurare i luoghi santi
nei quali Dio si è rivelato. Ognuno di noi, come canta il salmo, è nato in Gerusalemme e in
essa sono «tutte le nostre sorgenti» (cf. Sal 87,6.7).
Questo secondo volume, che segue quello riguardante le feste ebraiche e il Messia1, è
dedicato all’attesa, preparazione, avvento e nascita del Messia a Betlemme. Nostro intento è
aiutare il lettore a «gustare», per ognuno di questi temi, i luoghi geografici e i testi,
l’ambiente e le tradizioni, in altre parole tutto ciò che costituisce l’humus vitale in cui è fiorita
la nostra salvezza. L’opera è incentrata, pertanto, sulle testimonianze letterarie e
archeologiche, attingendo altresì alle fonti dei padri della Chiesa e della liturgia orientale. In
Terra Santa «gridano» perfino le pietre sulle quali camminò il Messia, come anche le «pietre
vive» costituite dal popolo cristiano arabo e da quello ebreo, le cui tradizioni sono un tesoro
da riscoprire incessantemente.
Nelle seguenti pagine si tenta di esporre gli argomenti in modo divulgativo, pensando a
un pubblico più ampio possibile. Il nostro interesse, infatti, non è primariamente scientifico.
Non si tratta cioè di fornire dati che possono essere rinvenuti in altre opere, quanto piuttosto
trasmettere chiavi ermeneutiche utili a interpretare quei dati, al fine di entrare così più in
profondità nei luoghi ed eventi di salvezza, aiutando il lettore a vederne il compimento nella
sua esistenza. Tale intenzione spiega tra l’altro il tono catechetico del libro.

Il Luogo e i luoghi santi


Nella presente opera s’intende sondare, pertanto, la ricchezza degli eventi e dei luoghi
legati all’attesa e alla nascita del Messia, fonte della nostra salvezza. Quest’ultima, infatti, ha
avuto «un luogo». Fra i tanti, uno dei nomi divini ricorrenti nella letteratura rabbinica è
proprio ha-maqom, «il Luogo»2. Il primo «luogo santo» è per così dire Dio stesso. Sin da
tempi antichi, l’espressione ha-maqom era riferita anche al tempio3, ritenuto luogo della
presenza di Dio nel mondo.
Nel Nuovo Testamento, Gesù Cristo è «il Luogo» per eccellenza, il Tempio fatto carne.
Nella sua persona, egli è la sintesi e il compimento di tutta la storia della salvezza. È
necessario comprendere, fin dall’inizio, come Gesù sia venuto a compiere le Scritture e la
tradizione orale, le istituzioni (come, ad esempio, proprio il tempio) e la liturgia d’Israele.
La fede cristiana è tutta fondata sulla notizia di un fatto storico realmente avvenuto. Essa
non è primariamente una filosofia né un insieme di leggi. Il cristianesimo non è nemmeno
una «religione del libro» come l’islam ritiene. Il centro della fede cristiana è essenzialmente
un evento accaduto in un luogo e in un tempo definito, all’interno di un popolo concreto.
Nella sequenza di Pasqua, la Chiesa canta la certezza di tale avvenimento: «Sì, ne siamo certi,

1
F.G. VOLTAGGIO, Alle sorgenti della fede in Terra Santa, I. Le feste ebraiche e il Messia. Da qui in poi si
scriverà «Messia» nel caso il titolo si attribuisca alla persona di Gesù e «messia» nel caso si riferisca al messia
in generale, come figura attesa dagli ebrei.
2
Sull’uso di questo nome, cf. A. Marmorstein, The Old Rabbinic Doctrine of God, I, 92; E.E. Urbach, The
Sages. Their Concepts and Beliefs, I, 63-79.
3
Già nell’AT il termine è riferito al tempio: cf., ad es., 1Re 8,29; Esd 5,15; si veda il corrispettivo greco topos in
2Mac 1,29; 2,18; 3,2; 8,27; 13,24; cf. anche FILONE, Som 1,63-71, e in particolare l’affermazione contenuta
all’inizio: «Dio stesso è chiamato “Luogo”».
Cristo è davvero risorto e ci precede in Galilea!».
Ecco perché, oltre alla storia, vi è una geografia della salvezza. Nella presente opera,
pertanto, s’intende risalire alle fonti e alle testimonianze. Testimoni sono indubbiamente
anzitutto gli apostoli e i cristiani che ancora oggi annunciano il kerygma, l’annuncio della
salvezza. Essi nella loro stessa vita testimoniano che Gesù Cristo è ri- suscitato. Questi invia
delle «pietre vive», testimoni che siano il «luogo di Dio». Secondo il Nuovo Testamento e i
primi Padri, infatti, la Chiesa è il nuovo tempio di Dio (non nel senso di «sostituzione»
rispetto all’antica alleanza bensì di compimento), ove è presente Cristo risorto. Premesso ciò,
è pur vero che gli angeli ordinano alle donne di andare a vedere il luogo dove Gesù era
deposto (cf. Mt 28,6). Anche i luoghi santi divengono, pertanto, testimoni eloquenti.
S. Paolo VI, primo Papa della storia dopo S. Pietro a calpestare la Terra Santa, con il suo
storico viaggio del 1964 ha voluto invitare la Chiesa intera a ritornare alle fonti e ai luoghi
dove tutto è cominciato. Anche i suoi successori, S. Giovanni Paolo II, Papa Benedetto XVI e
Papa Francesco hanno voluto recarsi in pellegrinaggio ai luoghi santi. Paolo VI, in
particolare, ha parlato di due realtà unite indissolubilmente: storia della salvezza e geografia
della salvezza. Così egli scrive nell’Esortazione apostolica Nobis in animo, pubblicata non a
caso il 25 marzo del 1974, solennità dell’Annunciazione del Signore:

Dal giorno della Risurrezione, quando i fedelissimi del divino Maestro si recarono a
visitarne il sepolcro, il primo nucleo giudeocristiano ebbe il merito di conservare il
ricordo dei più importanti Luoghi Santi, e di indicarne le vestigia ai pellegrini che
ben presto cominciarono a frequentarli. Sentimenti di fede e di pietà spinsero i primi
cristiani a ricercare il contatto quasi fisico con i Luoghi Santi e a celebrarvi
suggestivi riti liturgici. È pur vero che il Cristianesimo è religione universale, non legata
ad alcun Paese e che i suoi seguaci «adorano il Padre in spirito e verità» ma esso è pure
fondato su una rivelazione storica. Accanto alla «storia della salvezza» esiste
una «geografia della salvezza». Pertanto, i Luoghi Santi hanno l’alto pregio di offrire
alla fede un irrefrangibile sostegno, permettendo al cristiano di venire in contatto
diretto con l’ambiente, nel quale «il Verbo si fece carne e dimorò tra noi».4

Da un lato, il Pontefice afferma come non sia indispensabile per la fede conoscere i
luoghi santi, poiché, come dice Gesù, «i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità»
(Gv 4,23). Questi rivela alla samaritana che in lui è giunta l’ora in cui non si renderà più culto
a Dio in un luogo determinato, né a Gerusalemme né sul monte Garizim. I cristiani possono
adorare Dio in qualunque luogo del mondo e, in tal senso, come afferma S. Paolo VI, il
cristianesimo è davvero «religione universale». D’altro lato, aggiunge il Papa, esso è fondato
su una rivelazione storica e geografica. Questa è proprio la grande differenza tra la fede
rivelata e tutte le altre religioni. Mentre nelle religioni l’uomo cerca di «legarsi» a Dio
(«religione» viene dal latino re-legare) e va in ricerca di lui, nel cristianesimo avviene
l’esatto contrario: Dio, per iniziativa gratuita, va alla ricerca dell’uomo.
L’evento unico dell’incarnazione del Figlio di Dio in un punto preciso del tempo e dello
spazio è, di conseguenza, una delle differenze essenziali fra il cristianesimo e le altre religioni
mediante le quali si è espressa sin dall’inizio la ricerca di Dio da parte dell’uomo. Nel
cristianesimo, infatti, «non è soltanto l’uomo a cercare Dio, ma è Dio che viene
personalmente a parlare di sé all’uomo (Eb 1,1) e a indicargli la strada sicura sulla quale è
possibile raggiungerlo»5. Così, Dio va alla ricerca dall’uomo, da Abramo, inizio della storia
della salvezza, fino al suo culmine nel Nuovo Testamento. Cristo risorto va incontro agli
apostoli serrati nel cenacolo a Gerusalemme, rinchiusi nella paura della morte: è lui stesso
che va a cercarli e si mostra a essi risorto. Dio personalmente viene a parlare di sé all’uomo,

4
PAOLO VI, Nobis in Animo (cors. nostro).
5
Giovanni Paolo II, Tertio Millennio Adveniente 6.
si autorivela.

Quinto vangelo
Vi sono altre pagine stupende del Magistero riguardo al tema menzionato. Per citare solo
un altro esempio, Papa Benedetto XVI ha asserito nell’Esortazione apostolica postsinodale
Verbum Domini:

Facendo memoria del Verbo di Dio che si fa carne nel seno di Maria di Nàzaret, il
nostro cuore si volge ora a quella Terra in cui si è compiuto il mistero della nostra
redenzione e da cui la Parola di Dio si è diffusa fino ai confini del mondo. Infatti, per
opera dello Spirito Santo, il Verbo si è incarnato in un preciso momento e in un
determinato luogo, in un lembo di terra ai confini dell’impero romano. Pertanto,
quanto più vediamo l’universalità e l’unicità della persona di Cristo, tanto più
guardiamo con gratitudine a quella Terra in cui Gesù è nato, ha vissuto ed ha
donato se stesso per tutti noi. Le pietre sulle quali ha camminato il nostro
Redentore rimangono per noi cariche di memoria e continuano a «gridare» la
Buona Novella. Per questo i Padri sinodali hanno ricordato la felice espressione che
chiama la Terra Santa «il quinto Vangelo».6

A Nàzaret, nella grotta dell’Annunciazione, i padri francescani hanno posto la seguente


iscrizione: Hic Verbum caro factum est, «qui il Verbo si è fatto carne». È indubbio che, fin da
tempi remoti, la Terra Santa sia stata segnata da conflitti, difficoltà e sofferenze. Ai tempi di
Gesù, come afferma Papa Benedetto, essa era un lembo di terra marginale situato alla
«periferia» dei grandi imperi, eppure al tempo stesso un crocevia essenziale, un punto di
passaggio obbligato e di grande importanza strategica. Proprio per questa ragione, la Terra
Santa ha dovuto subire innumerevoli ferite nel corso della storia. La «buona notizia», tuttavia,
consiste esattamente nel fatto che in questa terra polverosa, piena di pietre e di spine d’ogni
genere, non ha disdegnato di discendere Dio stesso. Egli si è rivelato anzitutto a un popolo
concreto, quello ebraico, facendo con esso una storia mirabile che va conosciuta in
profondità: un cristiano non può ignorare le radici ebraiche della sua fede. Tale storia è
culminata con Gesù Cristo, disceso in questa terra ferita.
Per fornire un esempio circa la necessità dell’interesse per la geografia della salvezza,
Gesù discende per essere battezzato nel fiume Giordano, il cui nome ebraico yarden proviene
dalla radice yrd, che significa «discendere»: la kenosis, lo «svuotamento» e la discesa di
Cristo sono già mirabilmente prefigurati nel luogo (e nel suo nome!) in cui egli si fa
battezzare da Giovanni il Battista. Il Giordano, infatti, al termine del suo corso giunge fino
alle profondità della terra. Il punto più basso del globo terrestre libero da acque e ghiacci è la
riva del mar Morto, ove appunto il Giordano sbocca, a 423 metri sotto il livello del mare. In
questa cosiddetta «depressione del Giordano», parte settentrionale della Rift Valley
originatasi circa trentacinque milioni di anni fa dalla separazione delle placche tettoniche
africana e araba, in questa «ferita» profonda della terra è entrato Gesù Cristo. È un simbolo
della nostra ferita: Gesù Cristo scende fino alle profondità, fino al punto più basso di noi
stessi, quello che più ci spaventa. Ecco l’importanza della Terra Santa!
Nella frase tratta dall’Esortazione Verbum Domini, Benedetto XVI evidenzia poi che «le
pietre sulle quali ha camminato il nostro Redentore rimangono per noi cariche di memoria e
continuano a “gridare” la Buona Novella». Ciò che abbiamo tentato di fare nelle seguenti
pagine è precisamente cercare di far «gridare» le pietre che rimangono a testimonianza degli
eventi di salvezza e non solo le pietre, ma anche il popolo ebraico e le sue tradizioni, le fonti
e le testimonianze letterarie.

6
BENEDETTO XVI, Verbum Domini 89 (cors. nostro).
Durante il Concilio Vaticano II, la Chiesa ha vissuto un grande rinnovamento, dovuto al
fatto che numerosi studiosi siano voluti ritornare alle fonti della Bibbia e dei padri della
Chiesa, del primo cristianesimo e della liturgia, alle sorgenti vive della fede cristiana, la quale
contiene immensi e meravigliosi tesori. Si tratta di un compito che la Chiesa deve sempre
portare avanti con rinnovato vigore.
Il Pontefice afferma ancora nel passo citato che «i Padri sinodali hanno ricordato la felice
espressione che chiama la Terra Santa “il quinto Vangelo”». Come visto sopra, l’espressione
«quinto Vangelo» risale a S. Paolo VI, primo Papa pellegrino in Terra Santa.

Analogia dell’incarnazione
Vi è un altro punto di grande rilevanza che riprendiamo da S. Giovanni Paolo II. Questi,
nel corso di un’udienza del 1993 in cui l’allora Cardinal Joseph Ratzinger, in qualità di
Prefetto della Congregazione della dottrina della fede, gli presentava il documento della
Pontificia Commissione Biblica L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, ha trattato
dell’armonia fra l’interpretazione cattolica della Sacra Scrittura e il mistero dell’incarnazione.
Circa la natura della Bibbia si potrebbe parlare di «analogia dell’incarnazione». La Sacra
Scrittura è parola umana e divina nello stesso tempo, in unità indissolubile. Non abbiamo
altro modo di conoscere la divinità di Gesù Cristo e i tesori nascosti in lui se non per mezzo
della sua umanità. Ciò si può riferire analogamente alla Sacra Scrittura: Dio «discende»
esprimendosi in un linguaggio umano.
Alcuni padri della Chiesa, fra i quali spicca S. Giovanni Crisostomo, hanno parlato della
synkatabasis di Dio, della sua «condiscendenza». Non solo nella nuova alleanza Dio scende
nel Giordano in Gesù Cristo, ma già nell’antica alleanza egli è voluto discendere, piegarsi
verso l’uomo, rivelando il suo pensiero divino in un linguaggio umano, come una madre si
piega verso il suo bambino. La concezione musulmana del libro santo è molto distante da
quella dei cristiani, i quali non credono in un libro «piovuto dal cielo», bensì nella Parola di
Dio che è espressa in un linguaggio umano e tramite tutto ciò che è umano. Questa è la logica
dell’incarnazione!
Inoltre, per i cristiani, «Parola di Dio» non è solamente ciò che è scritto, ma anche la
storia. La Rivelazione di Dio, che implica sempre la natura umana, irrompe nella storia
concreta dell’uomo. Ecco perché bisogna prendere sul serio il fatto che «il Verbo si è fatto
carne». Esso è venuto ad abitare in mezzo a noi, anzi, come dice letteralmente il vangelo di
Giovanni «ha messo la sua tenda in noi» (Gv 1,14). Ne deriva che è fondamentale conoscere
la dimensione umana di Gesù e della sua Parola, vale a dire la cultura, la lingua, la mentalità
religiosa, il contesto storico-sociale e la geografia in cui si è espressa. Anche la geografia,
oltre che la storia, diviene pertanto un «luogo teologico».
Già i rabbini hanno preso spunto dalla geografia della terra d’Israele per ricavarne
insegnamenti di fede. Per citare solo un esempio, il lago di Galilea è da essi considerato una
delle meraviglie del mondo: chi non l’ha mai visto non ha ammirato nulla di bello nella sua
vita7. Essi, inoltre, vedono nel lago di Galilea il simbolo del giusto, mentre nel mar Morto
quello dell’empio8. Il primo riceve l’acqua dalle sorgenti dell’Ermon e le ridona formando il
fiume Giordano: è simbolo del giusto, perché accoglie la vita e la rioffre, e perciò è sempre
vivo. Il secondo, al contrario, riceve l’acqua del Giordano e non la ridona: è simbolo
dell’empio, perché prende la vita e la tiene per sé, e così paradossalmente rimane privo di
qualunque genere di vita, condannato alla salse- dine e all’aridità9.
Per sintetizzare in altri termini quanto detto finora, solo attraverso una conoscenza
approfondita dell’ambiente vitale, dell’humus dell’ebraismo all’epoca del secondo tempio è

7
Sulla bellezza del lago di Galilea nella letteratura rabbinica, cf., ad es., b.Meg 6a; BerR 99,12.21; SifDev 355.
8
Cf. TanB Lekh Lekha 8.
9
Si veda, ad esempio, SH. H. AVINER, Pirqè 'Avot. Perush, II, 372.
possibile comprendere la continuità e al tempo stesso la novità costituita dall’avvento di Gesù
Cristo e dalla nascita del primo cristianesimo. Si tratta di un principio essenziale: solo una
conoscenza del sottofondo della tradizione orale ebraica e della storia della salvezza, da una
parte, e dei luoghi della salvezza, dall’altra, permette di penetrare in profondità nel Nuovo
Testamento e nella fede cristiana.

Ecco l’uomo!
Approfondire l’ambiente ebraico al tempo di Gesù equivale a comprendere che questi è
vero Dio ma anche vero uomo, «ecce homo!» secondo la presentazione che ne fa Pilato alla
folla (cf. Gv 19,5). Gesù è un ebreo della Galilea del primo secolo, che vive sotto il governo
di un sovrano locale e sotto il dominio dell’impero romano, nel contesto delle diverse correnti
dell’ebraismo e dei drammatici conflitti del suo tempo. Maria era una donna ebrea, gli
apostoli e gli autori del Nuovo Testamento erano ebrei.
Ci chiederemo, quindi, nelle seguenti pagine: cosa significava essere ebrei nel primo
secolo d.C. nell’ambiente storico-sociale dell’impero romano? Che cosa implicava? Che tipo
di ebraismo si viveva? Come tutto ciò influiva nella vita quotidiana, nella mentalità, nella
cultura, nella letteratura, ecc...? Rispondere a tali domande equivale ad avvicinarsi allo stesso
Gesù Cristo, cercare una comunione con lui anche nelle cose piccole e quotidiane, tentare di
penetrare la sua mente umana, la sensibilità del suo animo. Questa sfida, seppur ardua, è
senza dubbio affascinante e corrisponde a seguire le orme terrene di Gesù con l’intento di
seguire con più sicurezza quelle divine, luminose e nello stesso tempo invisibili, che portano
al cielo. Va precisato, tuttavia, che con ciò non s’intende minimamente svalutare
l’importanza del popolo ebraico in quanto ebraico. Lo studio del sottofondo ebraico non è
volto solo a esaltare la persona di Gesù Cristo, ma ha una sua rilevanza in se stesso. Non va
trascurato che ancora oggi (e in modo miracoloso!) il popolo ebraico è vivo, nella sua fede,
identità e tradizione proprie.
Papa Francesco, in una sua intervista del 12 giugno 2014 a Za Vanguardia, ha affermato:

Non puoi vivere il tuo Cristianesimo, non puoi essere un vero cristiano, se non riconosci
la tua radice ebraica. Non parlo di «ebreo» nel senso semitico di razza bensì in senso
religioso. Credo che il dialogo interreligioso debba approfondire ciò: la radice ebraica
del Cristianesimo e la fiori- tura cristiana dell’Ebraismo. Capisco che ciò sia una sfida,
una «patata bollente», ma si può fare come fratelli. Io prego tutti i giorni l’ufficio divino
con i salmi di Davide (...). La mia preghiera è ebraica e poi ho l’Eucaristia, che è
cristiana.10

Ringrazio vivamente P. Livio Fanzaga, direttore di Radio Maria, per la fiducia


mostratami nell’affidarmi la trasmissione Alle sorgenti della fede in Terra Santa.
Un ringraziamento speciale va a Davide Angelo per il prezioso aiuto nel redigere il libro,
come anche a Claudio D’Auria, Mauro Cavaniglia e Augusta Fiore per la correzione delle
bozze.
Per la grande rilevanza data in quest’opera alle fonti, mi è sembrato essenziale consultare
i testi in lingua originale traducendoli personalmente (a parte rari casi in cui è indicato
esplicitamente), giacché non di rado, specie per quanto concerne le fonti ebraiche, gli autori
riportano citazioni da opere precedenti senza preoccuparsi di consultare le fonti originali,
trasmettendo così vari errori e imprecisioni.
Le citazioni bibliche sono tratte dalla Sacra Bibbia della CEI (editio princeps del 2008), a
parte nei casi in cui è sembrato utile fornire una traduzione differente o più letterale.

10
Intervista esclusiva di Henrique Cymerman Benarroch, riportata in:
http://www.lavanguardia.com/internazional/20140612/54408951579/ entrevista-papa-francisco.html (trad.
nostra dallo spagnolo).
1

ALLE SORGENTI DI MIRIAM DI NÀZARET

Donna ebrea e madre del Messia


Nella nostra introduzione abbiamo accennato all’importanza per la Chiesa di ritornare alle
fonti vive della sua fede. Nelle seguenti pagine andremo alle «sorgenti» della Vergine Maria,
approfondendo alcuni suoi aspetti come donna ebrea e madre del Messia.
La fede nell’incarnazione ci spinge a inserire Maria nella storia e nella geografia della
salvezza. Ciò significa anche considerare la sua figura nell’ambiente storico e sociale della
Galilea del primo secolo, «attingendo» alle sor- genti di Nàzaret. Tra l’altro, com’è noto,
Nàzaret ha un cuore, costituito dal luogo santo denominato «fontana di Maria» ovvero la
sorgente dell’antico villaggio di Nàzaret. Secondo uno dei più antichi vangeli apocrifi, il
Protoevangelo di Giacomo (la cui redazione risalirebbe al secondo secolo d.C., ma che
contiene tradizioni ben più antiche), il primo incontro fra l’angelo Gabriele e Maria sarebbe
avvenuto proprio presso la sorgente11. Per tale ragione, nella tradizione iconografica bizantina
vi è un’icona che rappresenta tale incontro presso la fonte di Nàzaret.
Ancora oggi è possibile visitare tale sorgente e bere alle sue acque all’interno della chiesa
greco-ortodossa di S. Gabriele. Maria è la sorgente di tutte le grazie, giacché attraverso di lei
è giunto a noi il «fiume di grazia» che è Gesù, Messia e Figlio di Dio, che ci è stato donato
per mezzo di questa ragazza di Nàzaret.
Maria è una donna concreta: vergine, sposa e madre, le tre caratteristiche della donna non
a caso oggi più attaccate! Per approfondire la figura di Maria alla luce della fede è utile
sondare i suoi aspetti più umani e concreti, in altre parole cosa significasse essere vergine,
sposa e madre ebrea nel primo secolo d.C.
Non s’insisterà mai abbastanza su questo punto: la nostra fede è storica e, per così dire,
«incarnata». Una fede disincarnata si trasforma presto in gnosticismo. Come precisato già
nella nostra introduzione, il cristianesimo non è primariamente una filosofia o una serie di
leggi, né in nessun modo un insieme di miti, bensì un fatto storico. In modo simile, Maria è
una donna storica, «fatta di terra»: la venerazione a lei non ha nulla a che vedere con la
mitizzazione della sua figura né tantomeno con una sorta di divinizzazione sulla falsariga del
paganesimo. Maria è, al contrario, una donna vissuta storicamente, che è stata la madre del
Messia e che ora è viva nel cielo. I teologi hanno formulato a buon diritto il principio «de
Maria numquam satis», «di Maria non si potrà mai dire abbastanza»12. Potremmo aggiungere
tuttavia, parafrasando S. Agostino, che non possiamo tacerne.
Nelle seguenti pagine, pertanto, intendiamo tornare a Miriam in quanto donna ebrea, al
fine di entrare maggiormente nella comprensione di Maria come madre di Gesù e Madre di
Dio, secondo la rivelazione biblica e la tradizione della Chiesa.

Donna per eccellenza


La creatura più alta, per i cristiani, è e sarà sempre Maria. In tal senso, il cristianesimo è
tutt’ altro che maschilista. Maria è il «segno grandioso» (sēmeion mega) descritto in Ap 12,1,
la «donna vestita di sole», vale a dire ricoperta della risurrezione di Cristo, della veste di

11
Protev 11,1.
12
Benché non si conosca l’origine esatta di tale aforisma tradizionalmente attribuito a S. Bernardo, esso è stato
reso famoso da S. LUIGI MARIA GRIGNION DE MONTFORT, Trattato della vera devozione a Maria, n. 10.
gloria di cui, secondo la tradizione ebraica, Adamo ed Eva erano rivestiti prima del peccato13.
Essa è dunque la donna rivestita di Dio, «con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una
corona di dodici stelle» (Ap 12,1). Se da un lato questa visione dell’Apocalisse presenta la
Chiesa, dall’altro si riferisce senza dubbio anche alla madre del Messia, giacché si afferma
che la donna è incinta e destinata a partorire «un figlio maschio, destinato a governare tutte le
nazioni con scettro di ferro» (Ap 12,5a), il che nel linguaggio biblico significa
inequivocabilmente che è la madre del Messia.
Miriam è una ragazza ebrea del primo secolo della nostra era. È legittimo quindi
chiedersi: di che tenore era la sua vita religiosa? Come viveva la sua fede? In quale modo
ascoltava e assimilava le Scritture? In che maniera si è preparata a essere la madre del
Messia? Com’è entrata nella storia della salvezza e in che misura si è sentita partecipe di
essa? Per rispondere a tali domande occorre rifarsi alle fonti ebraiche con grande attenzione e
cautela, poiché si deve risalire a prima del 70 d.C. Ora, molte delle fonti ebraiche in nostro
possesso oggi sono state redatte posteriormente a quella data. Dovremmo quindi cercare di
rintracciare le tradizioni sulle quali abbiamo una relativa certezza di antichità e specialmente
quelle che risalgono almeno all’epoca del secondo tempio. Varie tradizioni già identificate
come antiche sono ancora troppo poco note, mentre sono di grande utilità per conoscere il
sottofondo del Nuovo Testamento.

Tempio, sinagoga, casa


Per risalire «alle sorgenti» della Vergine Maria e della Santa Famiglia di Nàzaret occorre
considerare come fossero tre i luoghi fondamentali della loro vita religiosa: il tempio, la
sinagoga e la casa.
Per quanto riguarda il tempio, sappiamo che la Santa Famiglia di Nàzaret si recava spesso
in pellegrinaggio a Gerusalemme. Il vangelo di Luca, particolarmente attento al contesto del
tempio, è chiaro riguardo a ciò: «I suoi genitori (Giuseppe e Maria, ndr) si recavano ogni
anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua» (Lc2,41). Ogni famiglia ebrea era invitata a
recarsi tre volte all’anno al tempio di Gerusalemme, per le feste denominate «shalosh
regalim», letteralmente «tre (feste dei) piedi», giacché erano feste di pellegrinaggio: Pesah
(Pasqua), Shavuot (Pentecoste), Sukkot (Festa delle Tende).
Altro centro focale della vita religiosa del tempo era la sinagoga. Certamente la Santa
Famiglia di Nàzaret si recava in sinagoga. Ancora oggi si cerca di rintracciare a Nàzaret il
luogo preciso di tale sinagoga, così importante per la formazione di Giuseppe, Maria e Gesù.
Oggi si fa memoria degli eventi legati a tale luogo in una sala in stile crociato affidata alla
custodia della chiesa greco- cattolica e ubicata nel suq di Nàzaret: i Crociati veneravano qui il
luogo della sinagoga. Dovremmo entrare in profondità, oltre che nella liturgia del tempio,
anche nel mondo liturgico della sinagoga. Che cosa significava per la Santa Famiglia di
Nàzaret recarsi in sinagoga? Come si svolgeva la liturgia che in essa si celebrava? Occorre
comprendere che Gesù Cristo, pur essendo veramente Figlio di Dio, era veramente figlio
dell’uomo. Egli è cresciuto nella coscienza della sua missione, ha ascoltato le Scritture
dell’Antico Testamento, le ha meditate nel tempio, a casa con Maria e Giuseppe, e in
sinagoga. Tante volte Gesù ha ascoltato, nella liturgia sinagogale dello shabbat e delle feste,
la prima lettura, denominata parashah, tratta dalla Torah, e la seconda, chiamata haftarah,
tratta dai Profeti. Questa è la struttura della più antica liturgia della Parola, ereditata dalla
prima Chiesa.
La Santa Famiglia ha ascoltato e conosceva bene il passo profetico del quarto canto del
servo del Signore, che afferma tra l’altro:

13
Così, ad esempio, parafrasa TgJGen 3,7: «E furono illuminati gli occhi di entrambi (Adamo ed Eva) e
conobbero di essere nudi, perché erano stati spogliati della veste di splendore con la quale erano stati creati e
vedevano la loro vergogna».
Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire (...). Era
disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre
sofferenze, si è addossato i nostri dolori (...). Era come agnello condotto al macello (Is
53,3-4.7).

Tale passo non si proclama più in sinagoga, con tutta probabilità dai tempi in cui è stato
applicato dai cristiani proprio a Gesù. Mediante l’ascolto e la meditazione di questa e delle
altre Scritture, è nata e cresciuta gradualmente in Gesù (e in Giuseppe e Maria), la coscienza
messianica e l’unicità assoluta della sua missione.
Un altro elemento fondamentale della sinagoga era la preghiera e, in particolare, come
vedremo, la recita dello Shemà Israel: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il
Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le
forze» (Dt 6,4). Tale recita avveniva in sinagoga e in casa. E qui giungiamo al terzo centro
focale della liturgia ebraica, che era la casa, luogo che doveva essere permeato dalla fede e
dalla benedizione, come vedremo tra breve.

Benedizioni quotidiane
Come viveva questa ragazza ebrea, Miriam, nella sua vita quotidiana? Benché i vangeli ci
riferiscano tutto ciò che è necessario alla nostra salvezza, tuttavia non riportano tutto, come
afferma Giovanni nella conclusione del suo vangelo:

Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in
questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di
Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome (Gv 20,30).

Ciò significa che gli evangelisti non ci riferiscono ogni cosa, né si soffermano sui
particolari della vita quotidiana, specie se noti ai destinatari del vangelo.Ogni mattina
Miriam, come fa sino a oggi ciascuna ebrea religiosa al suo risveglio, recitava una
benedizione. Nell’ebraismo, la vita quotidiana è costellata di benedizioni. L’esistenza stessa
dell’ebreo deve essere tutta una berakhah, una «benedizione». Già Abramo non solo ere- dita
la benedizione divina e la trasmette, non solo recita delle benedizioni, ma è anche destinato
nella sua stessa persona a essere una berakhah, una benedizione per il suo popolo e per tutte le
nazioni (cf. Gen 12,2-3).
Nella fede ebraica vi è una benedizione per tutto. Ogni ebreo al mattino, quando si
sveglia, nelle cosiddette Birkhot ha-shahar («Benedizioni del mattino»), benedice Dio per la
vita, per la vista, per l’intelligenza, per la capacità di movimento e persino per la posizione
eretta del corpo. Quest’ultima benedizione illumina, tra l’altro, il miracolo di Gesù che
raddrizza una donna che, essendo per molti anni ricurva, non poteva entrare in pieno nella
benedizione e nella lode (cf. Lc 13,10-17).
Vi è una benedizione per il vestito, per la luce, e perfino per la stabilità della terra: la terra
è ferma, perché Dio continua la sua creazione ogni giorno sostenendola nell’essere. Si deve
ringraziare Dio anche per la capa- cità di camminare: mentre l’uomo e la donna si cingono la
veste, devono lodare Dio per il dono della forza. Insomma, ogni pio ebreo deve recitare
almeno cento benedizioni al giorno, di modo che tutta la sua vita divenga una liturgia di lode.
Per dare un ultimo esempio che possa aiutare a capire l’importanza di benedire e glorificare
Dio perfino nelle cose minime e scontate della vita quotidiana, basti pensare che vi è una
benedizione addirittura quando si va al bagno! Ogni ebreo deve, infatti, recitare la seguente
preghiera quando fa i suoi bisogni:

Benedetto sei tu Signore, Dio nostro, re dell’universo (così comincia usualmente la


benedizione ebraica, ndr), che hai formato nel corpo orifizi e cavità, perché è rivelato e
conosciuto davanti al trono della tua gloria che, se uno solo di essi si ostruisse o si
aprisse, non sarebbe possibile sussistere un’ora soltanto.

Non sappiamo se al tempo di Gesù le benedizioni fossero già fissate o recitate come
oggi14. Ai tempi di Gesù, infatti, sembra che non esistessero libri di preghiera e che fosse
proibito mettere per iscritto le preghiere liturgiche, giacché queste erano considerate come
parte della Torah orale, la Torah shebe‘al peh (letteralmente «Torah che è sulla bocca»)15. Su
quest’ultima vigeva la proibizione della redazione scritta, poiché doveva essere trasmessa in
modo vivo da maestro a discepolo. Allo stesso modo, le preghiere e le benedizioni erano
trasmesse da maestro a discepolo e di padre in figlio. Per questo Gesù insegna ai suoi
discepoli a pregare ed essi stessi chiedono al maestro di insegnare loro a pregare, come già
aveva fatto Giovanni il Battista con i suoi discepoli (cf. Lc 11,1-4), proprio perché vi era il
divieto di scrivere le preghiere, che dovevano essere trasmesse oralmente e apprese a
memoria.
Secondo la tradizione ebraica, sul monte Sinai Dio ha consegnato a Mosè non solo la
Torah shebikhtav, vale a dire la «Torah scritta», ma anche la sua interpretazione, la Legge
orale, che include anche le preghiere. Ora, la liturgia è per sua natura conservatrice. Per tale
ragione, numerose benedizioni, benché siano state messe per iscritto solo dopo il 90 d.C.,
data del concilio dei rabbini che ha avuto luogo a Yavne (o Jamnia), erano certamente già
recitate prima del 70 d.C.
Tra breve daremo un esempio di benedizione, di grande rilevanza al fine di comprendere
più a fondo la vita e la fede quotidiana di Miriam di Nàzaret. Per ora sia chiara una cosa: la
vita di Miriam è costellata di benedizioni, e, proprio per questo, «esplode» in lei l’inno
meraviglioso del Magnificat (Lc 1,46-55).
Con tutta probabilità esisteva già ai tempi di Gesù la benedizione per l’identità maschile e
femminile. Sia gli uomini sia le donne devono benedire Dio per tre «identità»: l’identità
ebraica, lo stato di uomini liberi (nel caso, ovviamente, che godano di tale stato) e per
l’identità maschile o femminile. Qual è il contenuto di tale benedizione? Gli uomini
pronunciano ogni giorno le seguenti parole:

Benedetto sei tu, Signore Dio nostro, Re eterno, che non mi hai fatto pagano. Benedetto
sei tu, Signore Dio nostro, Re eterno, che non mi hai fatto schiavo. Benedetto sei tu,
Signore Dio nostro, Re eterno, che non mi hai fatto donna.

Quest’ultima frase urta notevolmente la nostra sensibilità moderna. Bisogna riconoscere


che la condizione della donna ai tempi di Gesù fosse tutt’altro che felice. D’altra parte, ciò
non significa che, all’epoca del secondo tempio, gli ebrei fossero sic et simpliciter
maschilisti.

Benedizione della donna


In che modo pregavano le donne? Esse dovevano recitare le stesse due prime benedizioni
che facevano gli uomini: «Benedetto sei tu, Signore Dio nostro, Re eterno, che non mi hai
fatto pagana. Benedetto sei tu Signore, Dio nostro, Re eterno, che non mi hai fatto schiava».
Come terza benedizione, le donne d’Israele aggiungevano la seguente: «Benedetto colui che
mi ha fatto secondo la sua volontà (barukh she‘asani kirtsono)».
Con tutta probabilità, tali preghiere sono antiche e risalgono almeno all’epoca di Gesù.

14
M. WEINFELD, Normative and Sectarian Judaism in the Second Temple Period, 125-136, ha mostrato
numerosi punti di contatto fra le benedizioni del mattino e i testi liturgici rinvenuti a Qumran, che risalgono con
certezza a prima del 70 d.C.
15
Circa tale proibizione, cf b.Shab 115b; così si afferma in t.Shab 13(14),4: «Chi scrive delle benedizioni è
come chi brucia una Torah»,
Nella lettera ai Galati, infatti, S. Paolo afferma con forza: «Non c’è Giudeo né Greco; non c’è
schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal
3,28). Perché Paolo riprende proprio queste categorie Giudeo/Greco (vale a dire pagano),
schiavo/libero, maschio/femmina? Probabilmente egli si riferisce proprio alla benedizione
mattutina citata sopra. Si può arguire che Paolo riporti lo stesso ordine presente ancora oggi
nella benedizione al fine di indicare la novità instauratasi con la venuta del Messia.
Benché la benedizione sopra menzionata suoni oggi alquanto discriminatoria, essa è utile
per addentrarsi nella mentalità ebraica del tempo. La divisione fra le tre categorie menzionate
non era soltanto sociale, quanto piuttosto religiosa. Nella spianata del tempio, com’è noto, vi
era una balaustra che divideva ebrei e pagani. Questi ultimi non potevano accedere all’area
del santuario stesso (pena la morte!), ma rimanevano nella spianata, nel cosiddetto «cortile
dei gentili». Alle donne ebree invece, nonostante fosse consentito varcare il limite imposto ai
pagani, era tuttavia precluso l’accesso alla parte più interna del tempio. Esse non potevano
oltrepassare il cosiddetto «cortile delle donne» situato davanti al santuario. Gli uomini,
invece, potevano entrare più all’interno, nella zona riservata ai sacrifici, ma non nell’edificio
stesso del tempio, il Santo, ove accedevano solo i sacerdoti. Com’è noto, l’ingresso nel Santo
dei Santi, la parte più interna del santuario, era riservato esclusivamente al sommo sacerdote
una volta l’anno, nel giorno dello Yom Kippur, il grande Giorno dell’Espiazione.
Il tempio, pertanto, era pensato tutto secondo il concetto di «separazione», basilare
nell’ebraismo, come emerge fin dal primo capitolo della Genesi. In esso, infatti, si narra che
Dio crea tutto separando, come mostra la ripetizione del verbo wayyavdel («e separò»). Dio
separa la luce dalle tenebre, le acque sopra il firmamento da quelle sotto di esso, il giorno
dalla notte (cf. Gen 1,4.6-7.14). Nel libro del Levitico, ove vi è una netta separazione tra puro
e impuro, tra santo e profano, Dio comanda al popolo: «Sarete santi per me, poiché io, il
Signore, sono santo e vi ho separato dagli altri popoli, perché siate miei» (Lv 20,26). La
consacrazione e la santità sono, pertanto, essenzialmente una separazione. Il versetto sopra
menzionato, non a caso, è tradotto così nel Targum, la parafrasi dell’Antico Testamento in
aramaico: «Sarete santi davanti a me, poiché io, il Signore, sono santo, e vi separerò dalle
genti per essere dei cultori davanti a me»16. Qui si usa il verbo parash da cui deriva il termine
perushim, che significa «separati» ma anche «farisei». Israele è un popolo santo e separato e
appartiene a Dio perché è il popolo del culto.
Tutto ciò è presente nella Torah, «che è stata per noi un pedagogo, fino a Cristo, perché
fossimo giustificati per la fede» (Gal 3,24). Gesù Cristo, dal canto suo, con la sua
incarnazione porta una rivoluzione, pur senza annullare la Torah, giacché afferma: «Non
crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a
dare pieno compimento» (Mt 5,17). In cosa consiste tale rivoluzione? Incarnandosi, essendo
cioè veramente Dio e veramente uomo, soffrendo nella croce e risorgendo per noi in un corpo
di carne, egli, come afferma S. Paolo, «di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di
separazione che li divideva» (Ef 2,14). Tale «muro» non è solo una metafora: al centro del
cortile dei gentili si ergeva un luogo sopraelevato, separato dal resto del complesso da una
balaustra di pietra che segnava il limite oltre il quale gli incirconcisi non potevano avanzare.
Varie iscrizioni in greco e in la- tino ammonivano i pagani, come quella ritrovata nel 1871
che recita: «Che nessuno straniero penetri di là della balaustra che sta attorno al tempio e nel
recinto. Chi vi sia sorpreso sarà causa a se stesso della morte che ne seguirà»17. S. Paolo,
pertanto, dichiara che tale muro è stato abbattuto in Gesù Cristo. In lui siamo dunque una
nuova creazione: non c’è più uomo né donna, schiavo né libero, ebreo né pagano, ma tutti noi
siamo «uno» in lui.
Miriam di Nàzaret, pertanto, pregava ogni giorno, elevando le sue benedizioni appena si

TgLv 20,26 (TgO, TgJ); in corsivo sono indicate le aggiunte rispetto al testo masoretico.
16

OGIS 598; anche GIUSEPPE FLAVIO (Ant 15,417; Bell 5,193-195) attesta l’esistenza di tale iscrizione benché
17

non ne riporti il testo.


svegliava e lodando Dio per il fatto di essere donna: «Ti benedico perché mi hai fatto secondo
la tua volontà». In tal modo, si preparava quotidianamente a dare il suo amen alla volontà di
Dio. All’annuncio dell’angelo, infatti, Maria risponde: «Avvenga per me secondo la tua
parola!» (Le 1,38); non si tratta di un fiat volontaristico, bensì di un affidamento alla grazia di
Dio. In Maria, anche noi possiamo rispodere: «Avvenga in me secondo la tua volontà!».

Shemà Israel
Nel trattato Berakhot («benedizioni») della Mishnà18, così si stabilisce: «Donne, schiavi e
minori sono esentati dal recitare lo Shemà e dai tefillin, ma sono obbligate alla tefillah
(«preghiera»), alla mezuzah e alla Birkat ha-mazon»19. Sebbene non vi sia certezza del fatto
che tale ingiunzione fosse in vigore prima del 70 d.C., non c’è dubbio che alcune delle
pratiche elencate nel testo fossero in voga già prima di questa data.
La donna era quindi dispensata dalla recita quotidiana della preghiera dello Shemà Israel,
il cui cuore, com’è noto, consiste in Dt 6,4-5: «Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio,
unico è il Signore. Tu amerai il Signore tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con
tutte le forze». Ciò, tuttavia, non significa che la donna non potesse recitare lo Shemà Israel
per devozione (e non per obbligo!) o non lo insegnasse ai figli.
Le donne erano anche esentate dalla mitsvah dei tefillin, vale a dire dal precetto di legarsi
con lacci ai polsi sul lato sinistro (quello del cuore) e sulla fronte i filatteri, le custodie ove si
conservano i brani della Torah nei quali si ricorda il precetto degli stessi tefillin, uno dei quali
tratti dallo Shemà Israel. Ciò, in conformità alla parola del Deuteronomio sopra riportata:
«Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore (...). Te li legherai alla mano come un
segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e
sulle tue porte» (Dt 6,6.8-9).
Le donne, tuttavia, erano obbligate alla tefillah, alla mezuzah e alla Birkat ha-mazon. Di
cosa si tratta? Il termine tefillah indica la preghiera denominata Shemoneh ‘Esreh o ‘Amidah,
le diciotto benedizioni che gli ebrei devono recitare stando ritti in piedi in sinagoga. Maria,
pertanto, a casa e in sinagoga recitava queste benedizioni. Come ogni donna, inoltre, era
obbligata alla mezuzah. Questo termine, che indica letteralmente lo «stipite» della porta, è una
custodia che gli ebrei pongono appunto sugli stipiti delle porte e che contiene una pergamena
con i passi biblici corrispondenti alle prime due parti della preghiera dello Shemà Israel, in
conformità, di nuovo, con il passo biblico di Dt 6,9, appena menzionato: «E li scriverai sugli
stipiti (mezuzot) della tua casa e sulle tue porte». Ancora oggi gli ebrei mettono la mezuzah
sugli stipiti delle porte, la toccano e la baciano, venerando e ricordando la parola dello Shemà
all’entrare e all’uscire, cioè sempre.
Maria, dunque, aveva sempre davanti a sé questa parola divina, giacché, come ogni donna
ebrea, era obbligata a toccare e a baciare tale parola divina, come un memoriale perenne, per
ricordarsi costantemente dell’amore di Dio. Maria poneva al centro della sua vita lo Shemà.
Senza dubbio ha ammaestrato suo figlio ad amare, venerare, baciare questa parola e a
metterla al centro della sua vita.
Non a caso, Gesù segnalerà proprio nello Shemà il comandamento più grande di tutti.
Quando uno scriba gli domanda quale sia il primo comandamento della Torah, egli risponde:

Il primo è: Ascolta Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore
tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta
la tua forza. Il secondo è questo: amerai il tuo prossimo come te stesso (Mc 12,29-
31; cf. Mt 22,34-40; Lc 10,25-28).

18
Raccolta delle tradizioni orali ebraiche redatta intorno al 217 d.C, ma che contiene tradizioni ben più antiche.
19
b.Ber 3,3. Le spiegazioni dei termini in ebraico sono fomite di seguito.
Non solo Gesù ha indicato nello Shemà il cuore della Torah, ma lo ha anche compiuto.
Egli ha adempiuto la preghiera dello Shemà nel suo spirito e nella sua carne. Ha amato Dio
con tutto il cuore: il suo cuore è stato trafitto dalla lancia. Non s’intende qui «cuore» solo in
senso fisico, ma anche come la parte più intima della persona: egli è stato tradito dal suo
amico. Ha amato il Padre con tutto il cuore, vale a dire donando a lui le sue sicurezze e tutti
gli affetti. Anche sua madre, Maria, benché non obbligata a recitare lo Shemà, era abituata ad
avere sempre davanti a sé questa parola, che dovrà definitivamente compiere, con l’aiuto
della grazia di Dio, dinanzi alla croce del suo figlio amato. Il cuore di Cristo è stato trafitto e
con esso il cuore di Maria. Chi ha perso un figlio sa bene cosa ciò significhi. Si preferirebbe
morire piuttosto che vedere soffrire un figlio! Maria, dunque, ha compiuto lo Shemà insieme
a Gesù Cristo e per la grazia di costui.
«Tu amerai il Signore tuo Dio (...) con tutta la mente» (Dt 6,5): la mente di Gesù è stata
coronata di spine. Ha accettato di entrare nella volontà di Dio anche quando non capiva,
come nel Getsèmani: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice!
Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36). Gesù, come uomo, durante molti
anni era stato aiutato a entrare nella volontà di Dio da Giuseppe e Maria, la quale, come
abbiamo visto sopra, pregava ogni giorno così: «Ti ringrazio, Signore, che mi hai fatto
secondo la tua volontà». Gesù ha dovuto «crocifiggere» la sua mente, come tante volte anche
noi, che non capiamo il perché della sofferenza, il perché delle croci, talvolta grandi, che Dio
permette nella nostra vita. Anche Maria ha dovuto «crocifiggere» la sua mente: «E anche a te
- le profetizza Simeone - una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,35). Il termine greco psychē,
tradotto qui con «anima», significa anche «mente», «vita»: la spada ha trafitto la mente di
Maria, la sua intelligenza, la sua anima, la profondità del suo essere.
«Tu amerai il Signore tuo Dio (...) con tutte le forze» (Dt 6,5): Gesù ha amato il Padre con
tutte le sue forze. Sulla croce, le sue mani e i suoi piedi, simbolo della forza umana, sono stati
inchiodati, e ciò significa totale donazione, completo abbandono al Padre e agli uomini per
amore. In Cristo, anche Maria ha amato Dio con tutte le sue forze.

Preghiera delle donne


Miriam, come ogni donna ebrea, era tenuta anche a recitare la Birkat ha-mazon, la
«Benedizione dopo il pasto». Il ringraziamento sul cibo è una delle preghiere familiari più
importanti e antiche, giacché prescritta direttamente dalla Scrittura: «Mangerai, sarai sazio e
benedirai il Signore, tuo Dio, a causa della buona terra che ti avrà dato» (Dt 8,10)20. Per J.
Heinemann è difficile dubitare che il ringraziamento prima e dopo il pasto, con la relativa
formula d’invito al rendimento di grazie, risalga a tempi molto antichi21: già il Libro dei
Giubilei testimonia l’uso del ringraziamento dopo il pasto e lo fa risalire ad Abramo22.
All’epoca del secondo tempio la preghiera delle donne era particolarmente esaltata. Nella
Scrittura vi sono alcune donne per il cui merito Israele è stato salvato, innanzitutto le quattro
madri di Israele, mogli dei patriarchi: Sara, Rebecca, Rachele e Lia. La tradizione ebraica ha
evidenziato sempre più i loro meriti e quelli di altre donne, come Miriam dell’Antico
Testamento, sorella di Mosè e di Aronne, arricchendo le loro storie con tradizioni
midrashiche. Fra le più belle preghiere della Bibbia vi sono proprio le preghiere delle donne:
basti pensare ai canti di Miriam (Es 15,20-21), di Debora (Gdc 5,1-31) e di Anna (1Sam 2,1-
10).
In particolare, Miriam di Nàzaret aveva certamente care le tradizioni bibliche e
midrashiche relative a Miriam dell’Antico Testamento, giacché ne portava il nome. Per

20
Cf. C. Di SANTE, La preghiera di Israele, 147; sulla Birkat ha-mazon e la sua antichità, si veda in particolare
L. FINKELSTEIN, «The Birkat Hamazon», 211-217.
21
Si veda J. HEINEMANN, Prayer in the Talmud, 115.
22
Cf. Jub 22,6.
quanto concerne Debora, la risposta profetica a Barak che la invitava a venire con lui in
battaglia doveva essere ben nota alle donne d’Israele: «Bene, verrò con te; però non sarà tua
la gloria sulla via per cui cammini, perché il Signore consegnerà Sisara nelle mani di una
donna» (Gdc 4,9). Tale vittoria per merito di una donna, Giaele, profetizzata da un’altra
donna, Debora, doveva essere ben presente nelle menti delle donne della Galilea e di Nàzaret,
poiché la vittoria su Sisara era avvenuta proprio in Galilea, sul monte Tabor, nelle vicinanze
di Nàzaret.
Fra tutte queste donne oranti, è utile soffermarsi ora su Anna e sul suo cantico. Com’è
noto, il Magnificat riprende vari temi ed espressioni del cantico di Anna. Oggi gli esegeti
tendono ad affermare con eccessiva sicurezza che il Magnificat sia una creazione originale
dell’evangelista Luca, il quale avrebbe scritto a tavolino e messo in bocca a Maria un inno
pieno di risonanze bibliche. Non va dimenticato, tuttavia, che ancora oggi numerosi ebrei, sia
uomini sia donne, sono in grado di ripetere a memoria lunghi passi della Scrittura.
Per di più, se è vero che, come ci ha tramandato l’antica tradizione cristiana (cf. il
Protoevangelo di Giacomo), i genitori di Maria si chiamavano Gioacchino e Anna, non è da
escludere che quest’ultima conoscesse bene il cantico della sua gloriosa omonima e che lo
abbia insegnato a sua figlia. Maria nel Magnificat avrebbe potuto quindi riprendere alcune
espressioni che conosceva a memoria e che i primi discepoli avrebbero poi conservato
gelosamente. Non va dimenticato che presso gli ebrei il verbo shamar, che significa
«conservare, custodire» è fondamentale. Maria, esperta nel custodire le parole divine nel suo
cuore, si esprime con le stesse parole del cantico di Anna.
Nella Settanta, versione greca dell’Antico Testamento redatta da ebrei e completata un
secolo prima della nascita di Gesù, ricorrono le stupende preghiere di Ester e di Giuditta23.
Anche il Targum, versione sinagogale in aramaico dell’Antico Testamento, dà grande spazio
alla preghiera delle donne24. In esso, infatti, s’inseriscono varie tradizioni midrashiche,
giacché la traduzione in aramaico non doveva essere letterale. Secondo il Targum, ad
esempio, quando le levatrici Sifra e Pua devono rispondere al fatto di non aver obbedito
all’ordine del Faraone che le intimava di uccidere i bambini ebrei al momento del parto, esse
danno la seguente motivazione:

Perché le donne egiziane non sono come le donne ebree. Le donne ebree, infatti, sono
vivaci: prima che giunga presso di loro la levatrice, pregano davanti al Padre loro che è
nei cieli, egli risponde loro ed esse partoriscono.25

In questo testo si spiega in cosa consista che le donne ebree siano «piene di vitalità» (Es
1,19): il segreto della loro fecondità è la preghiera. Che cosa c’è di diverso nelle donne ebree
da tutte le altre? Il Targum Palestinese dà una chiara risposta: è l’usanza della preghiera che
distingue la donna ebrea dall’egiziana. In tal modo, nell’assemblea sinagogale ogni donna è
invitata alla preghiera verso il Padre celeste, specie nell’ora dell’angoscia del parto. Il
Targum Pseudo-Jonathan riporta addirittura il gesto di preghiera delle partorienti. Esse
«elevano i loro occhi in preghiera» e «implorano misericordia». Quante volte, in modo
simile, Maria ha elevato i suoi occhi ai cieli e ha pregato davanti al Padre suo che è nei cieli!

Trasmissione della fede al figlio

23
Nella letteratura ebraica antica, si nota un interesse progressivo sulla preghiera delle donne: cf. M.
MCDOWELL, Prayers of Jewish Women, 197‫ ־‬214; M. BAR-ILAN, Some Jewish Women, 112-113.
24
Il Targum Palestinese è sensibile al tema della preghiera delle donne: basti citare qui le preghiere di Agar
(TgGen 16,13 [TgN, TgJ]), di Lia (TgGen 29,17.31-33 [TgN, TgJ]), di Rachele (TgGen 30,6.8.13 [TgJ]), di
Tamar (TgGen 38,25 [TgN, TgJ, TgF, TgC), di Miriam (TgEs 15,21 [TgJ]) e delle donne d’Israele in TgEs 1,19
(TgN, M, TgF [mss. P, V, B]) e in TgEs 38,8 (TgJ).
25
Targum Palestinese a Es 1,19 (TgN): cf. anche TgJ e TgF (mss. P, V, B) al versetto.
Miriam di Nàzaret, inserendosi nel fiume di tradizione di preghiera delle donne sopra
descritto, si recava a pregare nella sinagoga e nel tempio26. Oggi si può visitare la cosiddetta
«sinagoga di Nàzaret» nella chiesa dei greco- cattolici. Benché non si abbia sicurezza circa
l’autenticità del sito, rimane degna d’interesse la memoria a esso relativa, giacché generazioni
di cristiani, almeno fin dal tempo dei Crociati, hanno voluto far memoria là del fatto che
Maria, Giuseppe e Gesù si siano recati tante volte in sinagoga a Nàzaret.
Oggi abbiamo la grazia di poter visitare i resti di sinagoghe che risalgono con certezza al
primo secolo d.C., come le sinagoghe di Gamia, Gerico, Magdala e Masada. Sebbene per le
donne non vigesse l’obbligo di pregare in sinagoga, come stabilisce il Talmud, sappiamo che
esse vi si recavano per devozione. Maria, proprio in sinagoga, poteva memorizzare
facilmente le preghiere delle donne tratte dalla Bibbia e ascoltare la recita quotidiana della
preghiera dello Shemà Israel. In sinagoga, Maria ha ascoltato il libro del profeta Isaia e i suoi
«canti del servo», che rimarcano come la missione d’Israele e del servo sia di portare la luce
al mondo. Maria ascoltava insieme a Gesù i «canti del servo», meditando il fatto di «essere la
serva del Signore» (Lc 1,38). Vi è stata dunque tutta una preparazione, che poi ha avuto il suo
compimento in Gesù Cristo.
Non si nega qui il fatto che Gesù porti una novità, quanto piuttosto si evidenzia come
Maria sia inserita in seno a un popolo vivo che ascoltava le Scritture e meditava la traduzione
della Bibbia in aramaico. In sinagoga si proclamava l’Antico Testamento in ebraico, ma se ne
faceva una traduzione in aramaico, specie in Galilea. In tale traduzione s’inserivano
numerose interpretazioni midrashiche che Maria ha conosciuto e trasmesso a Gesù bambino.
Per dare solo un esempio, Gesù conosceva sin da bambino la storia di Isacco portato al
sacrificio dal padre Abramo sul monte Moria, a Gerusalemme. Un midrash, che arricchisce il
racconto biblico e che risale almeno all’epoca di Gesù, s’incentra sull’Aqedà («legatura»)
d’Isacco. In questo midrash, tramandato oralmente nelle famiglie e nelle scuole rabbiniche, si
rimarca non solo come Abramo abbia condotto Isacco al sacrificio, secondo il racconto di
Genesi 22, ma anche come Isacco si sia offerto liberamente al sacrificio, dicendo al Padre:
«Abbà, legami forte, non avvenga che io recalcitri e sia reso vano il tuo sacrificio!»27. Tante
volte Gesù ha ascoltato questa tradizione orale in sinagoga e in famiglia e si è preparato così
a «offrirsi liberamente alla sua passione».
Maria e Giuseppe avranno senz’altro raccontato a suo figlio la storia del suo omonimo
Giosuè. Yehoshua‘ («Giosuè») e Yeshua‘ («Gesù») sono, infatti, due varianti del medesimo
nome. Il greco Iēsous traduce entrambi i nomi. Giosuè, successore di Mosè, fece passare il
Giordano al popolo e lo introdusse nella terra promessa, il che è prefigurazione di quanto ha
operato in noi Gesù Cristo, facendoci oltrepassare il Giordano e introducendoci nella vera
«Terra Santa» che è il cielo. Questa è la novità: il regno dei cieli non è una terra materiale. La
terra promessa è solo un segno del cielo e per tale ragione Gesù scende al Giordano come
Giosuè. Quando quest’ultimo fa passare i sacerdoti con l’arca dell’alleanza si apre il
Giordano e il popolo può entrare nella terra promessa. Quando Gesù, il «nuovo Giosuè»,
entra nel Giordano si aprono i cieli.
Maria, inoltre, si recava al tempio per le feste ebraiche di pellegrinaggio. Dal vangelo di
Luca sappiamo che Giuseppe e Maria intrapresero spesso il pellegrinaggio a Gerusalemme.
Luca narra che, in una di queste occasioni, mentre tornavano in carovana verso la Galilea,
Gesù rimase nel tempio. Il vangelo è testimone di come anche le donne si recassero in
pellegrinaggio a Gerusalemme, benché l’obbligo fosse in realtà solo per gli uomini. Nella
tradizione ebraica gli uomini sono tenuti ai precetti positivi, mentre le donne solo ai precetti
negativi della Torah. Nonostante ciò, sappiamo che le donne andavano volentieri per

26
Per TgJEs 38,8, ad esempio, uno dei ruoli principali delle donne, oltre a quello di mettere al mondo figli giusti,
è proprio quello di rendere lode e gloria a Dio nel tempio: anch’esse partecipano in modo attivo alla preghiera
del tempio.
27
TgNGen 22,10 (cf. anche TgJ e TgF allo stesso versetto).
devozione in pellegrinaggio, il che era ancora più meritorio per esse proprio perché non
prescritto.

Luci dello shabbat


Alla donna spetta tutt’oggi accendere le luci dello shabbat, le due candele del sabato, in
seno alla liturgia familiare domestica che si celebra alla vigilia di questo santo giorno. Ogni
sabato Maria preparava tali candele sulla mensa della famiglia e recitava una benedizione,
probabilmente simile a quella oggi recitata dalla madre di famiglia: «Benedetto sei tu Signore
che ci hai chiesto di accendere la luce dello shabbat». Ancora oggi, secondo alcune
tradizioni, le madri accendono tante luci quante sono i figli. Si tratta di una missione unica: la
donna trasmette la luce divenendo madre.
Perché tale onore è riservato proprio alla donna? Come la prima donna ha tolto la luce al
mondo, offrendo ad Adamo il frutto letale, così spetta alla donna riportare al mondo la luce
del messia. Ancora oggi, ogni donna ebrea ha un sogno nascosto, quello di diventare la madre
del messia. Tutto ciò si è compiuto in Maria che ha dato alla luce la stessa luce del mondo!
Gesù bambino è cresciuto vedendo la madre accendere le luci dello shabbat. A tale rituale fa
allusione, con tutta probabilità, anche Lc 23,54: «Era il giorno della Parasceve e già
splendevano le luci del sabato». Si può quindi a buon diritto ritenere che l’accensione delle
candele dello shabbat sia un rito antico. Questo era compito della donna, giacché essa doveva
dare alla luce i figli, che sono come delle luci per il mondo. Il Figlio per eccellenza è il
Messia, figlio della nuova Eva, che ha portato la sua luce al mondo. Tutti noi, in Cristo,
possiamo essere immagine di Maria, portatori di luce a questo mondo.
Prima di questa liturgia della luce, Maria, come ogni donna ebrea, aveva già preparato la
cena, e, dopo il lucernario, tutta la famiglia si doveva deliziare nell’amore di Dio che aveva
creato questo giorno per il riposo.

Opere di misericordia
L’uomo e la donna ebrei si distinguono non solo per la preghiera e il culto, ma anche per
la pratica delle opere di carità. La tradizione ebraica ha elaborato una lista delle opere di
misericordia, presente nel Targum28 e in altri testi, parallelamente a quella delle opere di
misericordia corporale e spirituale sviluppata dalla tradizione cristiana. Quali sono le opere
principali di carità secondo i rabbini?
Alcuni testi targumici contengono tre opere di misericordia: la benedizione degli sposi, la
visita dei malati, la benedizione e consolazione degli afflitti29. Il Midrash Bereshit Rabbah
aggiunge altre due opere compiute da Dio: l’ornamento delle spose e la sepoltura dei defunti.
Riportiamo per intero l’interpretazione dal Bereshit Rabbah:

R. Simlai disse: «Troviamo che il Santo - bene- detto egli sia - benedice gli sposi,
adorna le spose, visita i malati, seppellisce i morti. Da dove si deduce che benedice gli
sposi? E Dio li benedisse. Da dove che adorna le spose? E il Signore Dio formò, ecc...
Da dove si deduce che visita i malati? Com’è detto: E il Signore apparve a lui. Da dove
che seppellisce i morti? E lo seppellì nella valle». R. Shemuel b. Nahman disse: «Inoltre
consola gli afflitti, com’è detto: E apparve Dio a Giacobbe nel suo ritorno da Paddan
Aram e lo benedì. Quale benedizione gli diede? R. Yonatan disse: “La benedizione degli
afflitti”».30

28
Cf. TgGen 35,9 (TgN, TgJ, TgF, TgC).
29
Cf. TgNGen 35,9; si veda anche TgC allo stesso versetto.
30
BerR 81,1.
Anche TgJGen 35,9 aggiunge varie opere di misericordia alle tre originarie:

Benedetto sia il nome del Signore dell’universo che ci ha insegnato i suoi fermi
cammini. Egli ci ha insegnato a vestire gli ignudi dal suo aver vestito Adamo ed Eva.
Egli ci ha insegnato a unire gli sposi e le spose dal suo aver unito Eva e Adamo. Egli ci
ha insegnato a visitare il malato, poiché si rivelò in una visione ad Abramo, quando
costui era malato per il taglio della circoncisione. Egli ci ha insegnato a consolare
l’afflitto, poiché si rivelò di nuovo a Giacobbe, quando ritornò da Paddan nel luogo
dove sua madre era morta. Egli ci insegnò a nutrire il povero per il suo aver inviato pane
dal cielo per gli Israeliti. Egli ci insegnò a seppellire il morto da Mosè, poiché si rivelò a
lui nella sua Parola.31

Secondo il Targum, pertanto, Dio è il modello delle opere di misericordia che l’uomo è
invitato a compiere. Egli insegna con le sue azioni le opere buone che comanderà all’uomo:
prima di imporgliele, egli stesso le pratica. Questa concezione è sottintesa in Lc 6,36: «Siate
misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso»32.
Nella tradizione rabbinica, la prima opera di misericordia che Dio insegna all’uomo è
costituita dalla benedizione degli sposi. Alcuni hanno notato che il primo segno del vangelo
di Giovanni è dedicato proprio a questa prima opera33. La seconda opera di misericordia
riportata dal Targum Palestinese è la visita ai malati, opera esaltata anche nel Talmud
Babilonese34. La terza opera di misericordia è la benedizione e la consolazione di quelli che
sono in lutto. Come accennato sopra, Dio stesso ha recitato la benedizione degli afflitti. Tale
tradizione è presente nel Midrash Bereshit Rabbah: «E lo benedisse. R. Yehudah disse in
nome di R. Yonatan: “Lo benedisse con la benedizione degli afflitti”»35. In tal modo, la
tradizione targumica e quella midrashica indicano chiaramente che le opere di misericordia
sono un'imitatio Dei.
La prima opera di misericordia, pertanto, è partecipare ai matrimoni, giacché Dio ha unito
Adamo ed Eva e ha assistito alla loro unione. Poiché le opere di carità costituiscono
un’imitazione di Dio e questi ha unito Adamo ed Eva, ogni ebreo deve assistere e partecipare
alla gioia del matrimonio, vale a dire «rallegrarsi con chi è nella gioia» (Rm 12,15), per usare
l’espressione di Paolo. Inoltre, come continua lo stesso Paolo, sono chiamati a «piangere con
chi piange», e ciò significa visitare i malati, consolare quelli che piangono, seppellire i morti,
dividere il pane con gli affamati e vestire gli ignudi.
Maria, donna ebrea di Nàzaret, mette in pratica tali opere: assiste al matrimonio di Cana
di Galilea e per di più contribuisce alla gioia di tale matrimonio intercedendo presso il Figlio
a favore del miracolo del vino nuovo e invitando all’obbedienza i servi (Gv 2,1-12); va a
trovare Elisabetta sua cugina che è incinta; sostiene il Figlio sofferente sotto la croce,
assistendo infine alla sua sepoltura.

Madre d’Israele e luogo della Shekhinah


La tradizione orale ebraica insiste non solo sui meriti dei padri (Abramo, Isacco e
Giacobbe) e di altri uomini (come, ad esempio, Mosè e Aronne), ma anche sui meriti delle
madri (Sara, Rebecca, Lia e Rachele) e delle donne (come, ad esempio, Miriam). Nel Targum
Pseudo-Jonathan a Es 14,21, il bastone prodigioso di Mosè porta impresso il nome divino
YHWH e i nomi dei padri e delle madri d’Israele. Il bastone è il simbolo della potenza divina

31
Cf. anche b.Sot 14a; QohR 7,2.
32
Per quanto concerne Lc 6,36, abbiamo una sorprendente somiglianza testuale con TgJLv 22,28: «Popolo mio,
figli d’Israele, come il Padre nostro è misericordioso nei cieli, così siate voi misericordiosi sulla terra».
33
Cf. M. PÉREZ FERNÀNDEZ, «Las Bodas de Canà», 119-132.
34
Cf., ad es., b.Ned 40a.
35
BerR 82,3; cf. anche BerR 81,5.
data a Mosè. I nomi dei padri e delle madri sono parte di questa potenza e un memoriale
capace di operare prodigi.
Nel Targum Palestinese a Nm 23,9, Balaam dichiara in profezia che il popolo d’Israele è
stato condotto fuori dall’Egitto verso la terra promessa «dal merito dei giusti patriarchi, che
sono paragonabili alle montagne, Abramo, Isacco e Giacobbe, e dal merito delle giuste
matriarche, che sono paragonabili alle colline, Sara, Rebecca, Rachele e Lia»36.
Le quattro madri hanno un ruolo di grande importanza nella tradizione orale ebraica. La
Vergine Maria ha compiuto per eccellenza la realtà in esse prefigurata: essa è veramente la
Madre, grazie ai meriti di Gesù Cristo, in quanto costui è il pieno compimento dell’Antico
Testamento. Il Targum esprime l’idea che i padri e le madri di Israele sono le colonne del
mondo, cioè le montagne e le colline su cui si basa il mondo e su cui poggia la preghiera
d’Israele. Non solo. Nel Targum si afferma che i meriti dei padri e delle madri hanno persino
un’efficacia su chi sale al tempio per il culto. I meriti delle madri si stendono come una tenda
alla porta della Geènna e impediscono alle anime degli Israeliti di finire in quel terribile
luogo37. Secondo la tradizione midrashica, inoltre, i meriti delle madri e delle donne giuste
d’Israele hanno il potere di liberare gli Israeliti dall’Egitto38.
La Vergine Maria è icona della Chiesa e di ogni cristiano. Quanto compiuto in Maria si
attua in noi: Dio, infatti, così come ha fatto nella vita di Maria, ci ha preparato, anche
attraverso le sofferenze, per una missione fondamentale. Anche a noi, mediante la parola del
vangelo, Dio rivolge personalmente le stesse parole: «Non temere Maria!». Il cristiano è
chiamato a essere come Maria, a non temere, perché anche in lui nascerà il Salvatore. Così
come questa ragazza ebrea di Nàzaret risponde: «Com’è possibile questo?», forse anche noi,
nella nostra povertà, potremmo dare una risposta simile. L’opera di Dio, tuttavia, è sempre
più grande della nostra miseria.
Dio ha scelto questa donna umile che ha accolto l’annuncio senza riserve. In lei la Parola
si è fatta carne, giacché è diventata il luogo della presenza di Dio, della sua Shekhinah. Dio,
che nessun luogo può contenere, ha voluto trovare «un luogo», che è prima il grembo di
Maria e poi la Famiglia di Nàzaret. Maria è veramente beata e mediante lei anche noi, perché
tutto ciò che si è adempiuto in lei Dio vuole compierlo in noi.
Maria canterà nel Magnificat che il Signore ha guardato l’umiltà, in greco «tapeinōsis»,
della sua serva (Lc 1,48). Poiché il termine «tapeinōsis» significa letteralmente «bassezza»,
«povertà», Maria, lungi da esaltare la virtù della propria umiltà, confessa al contrario il suo
sentimento d’inadeguatezza dinanzi all’elezione del Signore. Maria, «fatta di terra» («umile»
viene da humus, «terra») diviene la donna celeste, vestita di sole e di gloria.
Se qualcuno si sente povero come questa ragazza ebrea è pronto per ricevere il tesoro del
Signore, il quale vuol farci ricchi della sua ricchezza e desidera «prendere carne» in noi, nel
«luogo santo» che siamo noi. Ecco perché la nostra fede è storica e incarnata: come Dio ha
fatto una storia di salvezza con il popolo ebraico e l’ha compiuta in Gesù Cristo, tale storia
continua oggi con noi, che siamo la «terra» che il Signore vuole sposare e rendere celeste.
Come Maria, anche noi per la grazia possiamo divenire «luogo santo» e «terra santa», benché
non siamo stati preservati dal peccato come lei. La Terra Santa è un’immagine di ciò che
siamo noi. Pur essendo piena di conflitti e contraddizioni, essa è pur sempre oggetto dello
sguardo e dell’elezione divina. Sì, Dio ha guardato la nostra povertà, questo «caos» che
siamo noi, e ha voluto far riposare su di noi il suo Spirito, affinché possiamo rallegrarci con
Maria e come lei. La prima parola, infatti, che l’angelo rivolge a Maria è chaire,

36
TgNm 23,9 (TgN, TgJ, TgF); il testo citato è tratto dal TgN.
37
Si veda TgJEs 40,8; per questa tradizione, cf. anche ShemR 1,12; BemR 3,6; WaR 32,5; b.Sot 11b. In TgDt
33,5 (TgN, TgJ) è grazie al merito delle madri che la terra produce frutti prelibati.
38
In BerR 72,6 Rachele partorisce grazie all’intercessione delle altre madri. Secondo BerR 73,6, è grazie alla
preghiera di Rachele che fu evitata la guerra civile; in MTeh 55,19 i suoi meriti sono indissociabili da quelli dei
padri e delle madri d’Israele.
kecharitōmenē!, «rallegrati, tu che sei stata ricolmata di grazia!». Anche noi, benché ogni
giorno costatiamo la nostra povertà e bassezza, accogliendo il kerygma siamo ricolmati della
grazia e così, ciò che a noi è impossibile Dio lo rende possibile: lo Spirito riposa su di noi e
Gesù Cristo è generato in noi, mediante l’opera della sua grazia.
2

NEL NOME DI MIRIAM

Signora innalzata
Per risalire sempre più «alle sorgenti» della Vergine Maria, è necessario entrare ora nel
«mistero» del suo nome. Non sappiamo con esattezza il significato del nome «Maria»,
Miryam in ebraico. Sono state proposte numerose ipotesi al riguardo. L’etimologia più
probabile è da accostare al termine aramaico mar/mary o maran/moran, che significa
«signore, padrone». Uno dei più probabili significati del nome «Maria» è dunque «signora».
Il nome Miriam potrebbe derivare anche dalla radice rwm, che esiste sia in ebraico sia in
aramaico e significa «essere elevato, grande». Forse è proprio con riferimento al proprio
nome che Maria, quando eleva a Dio il meraviglioso canto del Magnificat, afferma: «L’anima
mia magnifica (megalynei) il Signore» (Lc 1,46). Maria usa qui il verbo greco megalynei, la
cui retroversione ebraica è teromem (dalla radice rwm per l’appunto): l’anima di Maria
«eleva, innalza, magnifica» il Signore. Essa impiega pertanto la radice del suo nome per
magnificare il Signore o, in altre parole, nel suo nome è già presente l’esaltazione del
Signore.
Com’è noto, il nome proprio di una persona è spesso, nella mentalità biblica, una profezia
della sua vita. Nella Scrittura si narra spesso che Dio cambia il nome di un determinato
personaggio, giacché il nome è una profezia circa l’identità e la missione della persona:
cambiarlo equivale a trasformare la natura della persona. Il nome di Maria, pertanto, è
profetico: tutta la vita di Maria è legata all’esaltazione, giacché è veramente la «piena di
grazia», colei che ha vissuto in anticipo ciò a cui tutti siamo destinati, vale a dire la
glorificazione e l’esaltazione del nome del Signore, non solo con la bocca, ma soprattutto con
la vita. Maria stessa, la Signora, è stata elevata, è la più alta fra tutte le creature.

Prima e seconda Miriam


Per comprendere appieno la figura di Maria dobbiamo collocarla nel contesto della storia
della salvezza e, in particolare, di quello delle donne e delle madri di Israele. Abbiamo visto
sopra come, all’epoca del secondo tempio, si sia evidenziata progressivamente l’importanza
della donna e della sua preghiera: le donne della Scrittura sono state madri d’Israele nella
fede e nella preghiera. Quando si tratta delle madri e delle donne di Israele con riferimento
alla Vergine Maria, il primo riferimento è alla sua omonima Maria (Miriam) dell’Antico
Testamento, sorella di Mosè e di Aronne. Tale figura, citata varie volte nella Scrittura, nella
tradizione orale ebraica assume un’importanza enorme. Oltre alla Scrittura, è fondamentale
rifarsi alla sua interpretazione orale, ancora troppo trascurata. Occorre comprendere che la
Sacra Scrittura è stata consegnata a noi non come una lettera morta, ma grazie alla
mediazione viva di un popolo. La stessa parola di Dio è sempre viva e attuale, tende a
incarnarsi in un popolo concreto.
È naturale pensare che sulla Vergine Maria abbia avuto un ascendente particolare la
Miriam dell’Antico Testamento. Questa in Es 2,8 è chiamata ‘almah, «ragazza». In Is 7,14 si
trova una profezia messianica che ha avuto grande eco nel Nuovo Testamento e nella prima
Chiesa, e nella quale si usa lo stesso termine ‘almah: qui si profetizza che la «ragazza»
concepirà e partorirà un figlio, il cui nome sarà Emmanuele, «Dio con noi». Tale termine è
stato tradotto in greco dagli ebrei nella Settanta, prima della nascita di Gesù, con parthenos,
«vergine». Questa partorirà l’Emmanuele. Tale profezia è vista compiuta da Mt 1,23 in
Maria, la vergine che concepisce e partorisce Gesù, il «Dio con noi».
Secondo l’Antico Testamento e la tradizione ebraica, a Miriam è affidata la cura del cesto
del neonato Mosè suo fratello lungo il percorso del Nilo, affinché veda dove sarebbe giunto il
cesto (cf. Es 2,4-8). A Miriam del Nuovo Testamento è affidata non solo la custodia, ma
anche la maternità di quel nuovo Mosè che non solo è stato salvato dalle acque della morte,
ma è anche il Salvatore che ci ha tratto dalle acque della morte.
Nell’Antico Testamento, inoltre, la prima alla quale si attribuisce il titolo di profetessa è
proprio Miriam (Es 15,20). La Vergine Maria conosceva indubbiamente tale ruolo profetico
della sua gloriosa omonima e poteva facilmente identificarsi con lei. Sul titolo di «profetessa»
attribuito a Miriam s’insiste nel Targum, che aggiunge il titolo al suo nome in vari passi39.
Anche il Midrash evidenzia il ruolo di Miriam come profetessa, già adombrato in Es 15,20, e
la sua relazione speciale con lo Spirito Santo40. Il Midrash Sefer Ha-Yashar 68,1 afferma che
«lo Spirito Santo si posò sopra Miriam». Questa tradizione è certamente antica, perché è
contenuta già nel Liber Antiquitatum Biblicarum, scritto risalente ai tempi di Gesù41. Come,
secondo l’antica tradizione ebraica, lo Spirito Santo riposò su Miriam dell’Antico
Testamento, così esso si è posato su Maria quando l’angelo le ha detto: «Lo Spirito Santo
scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra» (Lc 1,35).
Nell’Antico Testamento, inoltre, Miriam è la donna della lode e della glorificazione di
Dio. Dopo il passaggio del mar Rosso, con il cembalo in mano, essa canta la vittoria del
popolo, avvenuta per opera di Dio (cf. Es, 15,20-21) Miriam invita il popolo «a cantare» (v.
21) e il Targum Onqelos aggiunge: «a dare gloria e ringraziare davanti al Signore, che si è
rivelato sopra i superbi»42, idea che anche la Miriam del Nuovo Testamento riprende nel
Magnificat.
Nella tradizione ebraica, Miriam, figlia di Amram, è addirittura un’antenata di Davide43.
Per tale ragione, di lei si afferma che le fu donata la corona della regalità: è una donna
incoronata! Affermare che essa è l’antenata di Davide equivale a dire che è un’antenata del
Messia. Miriam dell’Antico Testamento è, pertanto, una prefigurazione di ciò che si compie
nella nuova Miriam, la vera donna, la madre del Messia. Secondo la tradizione ebraica, che si
sofferma volentieri sui meriti dei padri e delle madri d’Israele, la prima Miriam ha
accumulato meriti che giovano a Israele.

Dall’amarezza alla dolcezza


Secondo l’antica tradizione ebraica, grazie ai meriti di Miriam Israele riceve grazie
speciali. Qual è il merito principale di Miriam nella storia della salvezza? Grazie a lei,
secondo la tradizione ebraica, sono stati donati i pozzi di acqua nel deserto al popolo44, come
ad esempio il pozzo di Mara, ove l’acqua amara è stata trasformata in dolce (cf. Es 15,23-26).
I rabbini fanno un interessante gioco di parole tra «Mara», che significa «amarezza», e il
nome «Miriam». Per molti, l’etimologia del nome di Maria sarebbe da associare proprio alla
radice mrr, con cui si esprime l’«es- sere amaro». In Rt 1,20 il nome Mara (mr’) è associato
all’amarezza della suocera di Rut, la quale chiede di non essere chiamata più «Noemi», nome
che proviene dalla radice n’m, «essere carino, dolce, gentile», ma appunto «Mara», giacché,
secondo le sue parole, il Signore ha amareggiato la sua vita, permettendo la morte dei suoi
39
Cf. TgNm 12,16 (TgN, TgJ, TgF); 20,2 (TgF); 21,1 (TgN); 33,17 (TgJ).
40
Si veda MekhY a Es 15,20.
41
LibAnt 9,10: Et spiritus Dei incidit in Mariam nocte. Secondo il Talmud, alla nascita di Miriam «tutta la casa
si riempì di luce» (b.Meg 14a).
42
Secondo TgNEs 15,21, Miriam cantava così: «Diamo grazie e lodiamo davanti al Signore, l’Altissimo, che è
glorificato sopra i superbi e esaltato sopra coloro che si esaltano»; cf. anche TgJ al medesimo versetto.
43
Cf., ad es., b.Sot 11b; ShemR 1,17.
44
Cf., ad es., b.Taan 9a; questo e altri testi sono stati analizzati in G. BIENAIMÉ, Moïse et le don de l’eau.
due figli e lasciandola così senza discendenza. Mar significa «amaro», mentre mor, che
proviene dalla medesima radice, designa la «mirra», !’«incenso aromatico».
I rabbini hanno associato il monte Moria, tra gli altri, proprio al termine mor. tale monte,
luogo ove Abramo sale per sacrificare il figlio Isacco, è il monte dell’incenso, perché,
secondo la Scrittura, coincide con il monte del tempio (cf. 2Cr 3,1). Il Moria, monte di Dio
(secondo questa etimologia si può interpretare «Moria» come «amarezza di Ya [del
Signore]») è, quindi, il monte del tempio, il monte della mirra, ma anche il monte
dell’amarezza (mor/mar) che si trasforma in dolcezza: l’amarezza della morte ormai sicura di
Isacco si trasforma nella dolcezza della resurrezione, a somiglianza dell’odore dell’incenso,
amaro al gusto ma soave all’olfatto quando arde.
In conclusione, il nome di Maria evoca anche il monte Moria, luogo in cui un padre si
apprestava a sacrificare il suo figlio unigenito. La Vergine Maria ha dovuto soffrire il Moria,
l’amarezza della croce, la morte del suo amato figlio unigenito, sperimentando la spada del
dolore più atroce, quella che trapassa l’anima e la psiche, un tempo risparmiata ai due padri
Abramo e Isacco. Maria è, quindi, icona della fede e Madre eccelsa, i cui meriti superano
quelli dei padri e delle madri dell’Antico Testamento.

Curare l’amaro con l’amaro


Nella tradizione ebraica le acque amare di Mara sono diventate dolci grazie ai meriti di
Miriam oltre che, come narra la Scrittura, grazie al legno indicato dal Signore e gettato da
Mosè nelle acque (cf. Es 15,25). Questo legno diverrà nella tradizione cristiana simbolo della
croce di Cristo. L’interpretazione orale ebraica aggiunge un dettaglio alla narrazione biblica:
a Mara l’acqua amara diviene dolce perché Mosè getta in essa un legno amaro, un legno di
olivo di oleandro, le cui foglie sono amare e velenose45. La spiegazione di ciò è data nella
Mekhilta deRabbi Yishmael al libro dell’Esodo:

Venite e vedete quanto sono diverse le vie dell’Onnipresente da quelle degli uomini!
L’uomo cura l’amaro con il dolce, mentre colui che con la sua Parola ha creato il mondo
non fa così, ma cura l’amaro con l’amaro. Come? Pone la sostanza dannosa dentro
quella danneggiata per fare di essa un miracolo, giacché, come affermano i rabbini, Dio
è diverso dagli uomini. Questi ultimi, infatti, curano l’amaro con il dolce, mentre Dio è
l’unico a curare l’amaro con l’amaro.46

Potremmo dire che, mediante il legno della croce, l’amarezza di Maria è stata trasformata
nella dolcezza della resurrezione e dell’amore di Dio. Se, nella tradizione ebraica, l’acqua
viva è stata data a Mara e in altri luoghi grazie ai meriti di Miriam, sorella di Mosè e di
Aronne, tale realtà si è compiuta nella Vergine Maria e in noi: l’acqua viva, che sgorga dal
seno di Gesù Cristo, è giunta a noi grazie alla sorgente che è Maria. Ciò è avvenuto
indubbiamente per pura grazia e non solo per merito di Maria, giacché per dare il nostro
amen a Dio c’è bisogno di una grazia speciale e la Vergine Maria è stata ricolmata di grazia.

Bacio di Dio e assunzione

45
Si veda TgEs 15,25 (TgJ, TgN [M]); per uno studio di questo passo e delle tradizioni sottostanti, cf. F.G.
VOLTAGGIO, «La figura del “maledetto appeso al legno”», 47-80.
46
MekhY a Es 15,25; poiché l’insegnamento è attribuito a R. Shimon b. Gamaliel, potrebbe risalire almeno al
100-150 d.C. Uno sviluppo successivo di tale interpretazione, presente in TanB (Beshallah 18), ribadisce l’idea
che Dio fa miracoli curando l’amaro con l’amaro, al contrario di ciò che fa «la carne e il sangue». A sostegno di
ciò si cita Ger 30,17, in cui Dio afferma letteralmente al popolo per mezzo del profeta: «Dalle tue ferite ti
risanerò», ove la preposizione ebraica min si può anche tradurre «a partire da»; in tal modo, Dio guarirebbe il
popolo mediante le sue stesse ferite. Dopo tale ci- tazione, il midrash enuncia un principio fondamentale
dell’agire divino: Dio «cura mediante lo stesso mezzo con cui ferisce» (bemah shehu’makkeh hu’meappe’).
Secondo la tradizione rabbinica, Miriam è uno dei personaggi che ha ricevuto la grazia di
morire «con il bacio di Dio». Con tale espressione si indica che alcune figure
anticotestamentarie, secondo l’interpretazione midrashica di alcuni passi biblici, sono state
assunte in cielo. Ad esempio, hanno avuto tale privilegio Enoch, che fu preso da Dio (Gen
5,24); Mosè, del quale non fu trovata la tomba (Dt 34,6); Elia, che fu portato in cielo sulla
merkabah, il carro di fuoco divino. La fede nell’assunzione della Santa Vergine Maria,
pertanto, non è un dogma nato posteriormente a somiglianza delle credenze pagane, come
alcuni hanno ingiustamente affermato. Al contrario, tale fede è molto radicata nella tradizione
ebraica. Quest’ultima, per affermare come i personaggi sopra elencati e altri siano stati
assunti in cielo, afferma che sono morti «con il bacio Dio» 0 che non hanno «gustato la
morte». Miriam dell’Antico Testamento è esattamente uno dei sette personaggi assunti in
cielo secondo la tradizione ebraica. Anche tale realtà si è compiuta storicamente nella
Vergine Maria, la quale, non solo secondo la fede cattolica ma anche secondo la fede più
antica della Chiesa, è stata assunta in cielo in anima e corpo.
Infine, come notano i rabbini, nel libro dei Numeri la morte di Miriam (Nm 20,1) è
narrata immediatamente dopo le leggi sulle ceneri della giovenca rossa e il rituale delle acque
lustrali (Nm 19,17-22). Per noi oggi è difficile comprendere fino in fondo l’importanza di
quelle ceneri e acque lustrali, eppure ai tempi di Gesù essa era enorme. Il rituale delle ceneri
della giovenca rossa avveniva sul monte degli Ulivi. Tali ceneri erano necessarie per produrre
l’acqua lustrale, che si aspergeva per la purificazione. I rabbini, attenti a ogni dettaglio del
testo sacro (proprio come i padri della Chiesa), si chiedono perché mai il racconto della morte
di Miriam segua immediatamente le disposizioni sulla giovenca rossa. Essi rispondono nel
modo seguente: come la giovenca rossa produce l’espiazione dei peccati, così vale per la
morte del giusto. In tal modo, la morte di Miriam e dei giusti, secondo i rabbini, espia i
peccati (senza ovviamente che con questo si neghi la necessità della conversione personale!).
Tutto ciò, per i cristiani, si è adempiuto in Gesù Cristo e nelle sofferenze, nella «passione
dell’anima» della Vergine Maria.
Si può ritenere che la ricchezza di tali tradizioni potrebbe esser stata presente nella mente
di Maria (insieme forse ad altre tradizioni che non ci sono pervenute!). Miriam di Nàzaret era
una donna ebrea e certamente si rifaceva alla sua madre Miriam dell’Antico Testamento, a
colei che insieme ai fratelli Mosè e Aronne condusse il suo popolo dalla schiavitù alla libertà.
Come grazie a Miriam è stata donata l’acqua a Israele nel deserto, così la Vergine Maria, che
ci accompagna nel deserto di questa vita, è stata uno strumento di salvezza per tutti noi. Essa
ci ha donato la roccia da cui sgorga acqua viva, che è il nostro Signore Gesù Cristo, come
afferma S. Paolo (un rabbino che qui si esprime in modo midrashico!), riguardo agli Israeliti:
«Bevevano da una roccia spirituale che li accompagnava e quella roccia era il Cristo» (1Cor
10,4).
3

IL MESSIA, PRINCIPE DI SHALOM

Shalom ovvero «pienezza»


Gesù ha affermato: «Vi lascio la mia pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo io
la dono a voi» (Gv 14,27). Il mondo può conoscere al massimo una pace che è assenza di
guerra. Lo shalom che porta il messia, invece, è totalmente diverso, giacché non è un mero
risultato degli sforzi umani. I cristiani non pregano solo per l’assenza di guerra, il che
ovviamente è da auspicare e costituisce già un grande passo, ma chiedono che possano venire
per tutti i «tempi della consolazione», i «tempi del Messia» che essi hanno riconosciuto in
Gesù Cristo, chiamato nella profezia di Isaia sar shalom, «principe di pace» (Is 9,5).
Dopo esserci soffermati su Maria e aver cercato di collocarla nell’ambiente storico,
geografico e religioso del suo tempo, cerchiamo di entrare, per quanto possibile, nella mente
e nello spirito della Santa Vergine, tentando di presentare quali fossero le sue attese e quelle
del suo popolo riguardo al messia.
Nei capitoli precedenti abbiamo risaltato l’importanza della figura della donna
nell’ebraismo del primo secolo d.C. Abbiamo notato che alla donna spetta accendere i lumi
all’inizio dello shabbat, perché come la donna ha tolto la luce al mondo, così tocca a lei
ridarla, portando al mondo la luce del messia. Ciò implicava, come abbiamo accennato, che
ogni ragazza religiosa al tempo di Gesù (e fino ad oggi!) desiderasse essere la madre del
messia.
In sinagoga Maria ascoltava l’Antico Testamento, meditava nel suo cuore le promesse sul
messia e comparava gli eventi della sua storia con la Parola di Dio. Il vangelo di Luca nota,
per ben due volte, che Maria custodiva gli eventi e le parole «meditandoli nel suo cuore» (Lc
2,19; cf. 2,51). Il verbo greco symballein, impiegato in Lc 2,19 e tradotto usualmente con
«meditare», significa letteralmente «gettare insieme». Esso esprime il concetto di «riflettere,
ponderare», ma anche quello di «comparare». Maria, pertanto, confrontava nel suo cuore
tutto ciò che accadeva con la Parola di Dio. Così faceva sin da bambino anche Gesù. Egli
ascoltava in sinagoga e in famiglia, da Giuseppe e da Maria, la Parola di Dio in una forma
viva, attuale, esistenziale. La meditava nel suo cuore e cresceva, come dice il vangelo, «in
sapienza, età e grazia» (Le 2,52). Egli maturava progressivamente nella co- scienza di essere
il messia atteso, meditando sulla figura di messia che fosse necessario «incarnare» o quale
tipo di messia egli stesso fosse chiamato a essere.
Una delle questioni principali per il popolo ebraico dai tempi di Gesù fino ad oggi è, del
resto, il seguente: chi è il messia? Da quali opere si può riconoscere? In quale modo deve
trionfare? Come porterà la redenzione e lo shalom al mondo?
Tutti sapevano dalle Scritture che il messia dovesse anzitutto portare la pace, lo shalom.
Vale la pena soffermarsi su questa parola così importante quanto difficile da rendere nelle
lingue moderne. Il termine shalom proviene dalla radice ebraica šlm, che significa «essere
salvo, integro, completo, compiuto, perfetto». L’aggettivo aramaico shalim si attribuisce
all’agnello pasquale per esprimere che esso deve essere «senza macchia», «integro» (cf. TgEs
12,5). In ebraico il piel (forma intensiva) della radice šlm significa «ricompensare, pagare»,
mentre il suo hifil (forma causativa) esprime l’idea di «compiere, adempiere». Anche in arabo
salām significa «pace» e salāma «integrità». In ebraico, pertanto, shalom esprime l’idea di
pienezza; non significa solo assenza di guerra, bensì piuttosto integrità, pienezza, salvezza,
felicità compiuta.
In particolare, un personaggio dell’Antico Testamento porta in sé il nome di «pace»:
Shlomo, Salomone. Anche il nome Yerushalaim, «Gerusalemme» ha un’assonanza con il
termine shalom. Il Salmo 122 gioca proprio su tale assonanza: sha’alu shelom Yerushalayim,
«chiedete la pace di Gerusalemme». Qui «gustiamo» tutta la bellezza della lingua ebraica: a
Yerushalayim risiede lo shem, il «nome» di Dio, là regna Shlomo, figura del messia, che
porterà lo shalom a Gerusalemme. Non a caso, Cristo dirà, con riferimento a se stesso: «Ed
ecco, qui vi è uno più grande di Salomone!» (Mt 12,42). Anche la prediletta di Salomone,
Shulammit (Ct 7,1), la Sulammita, nel Cantico dei Cantici porta nel suo stesso nome lo
shalom e si allude a lei quando si canta: «Io sono ai suoi occhi come colei che procura pace
(shalom)!» (Ct 8,10); essa è la figura ideale della sposa, del popolo eletto e della Chiesa.
Gesù Cristo, per dirla in breve, è venuto a compiere questa parola della pace: egli è
veramente il nuovo Salomone. S. Paolo, non a caso, afferma che Cristo «è la nostra pace,
colui che ha fatto dei due una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva,
cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne» (Ef 2,14). Egli è il vero e definitivo shalom,
colui che ha fatto degli ebrei e dei goyim («pagani») un popolo solo, «per creare in se stesso,
dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace» (Ef 2,15). Il destino della Terra Santa,
insomma, è tutto riassunto nella parola shalom.
S. Giuseppe, la Santa Vergine Maria e Gesù stesso, in quanto ebrei, hanno desiderato e
cercato questa pace del messia e di Dio. Se la sono anche augurata ogni giorno. Il saluto
usuale tra gli ebrei è proprio shalom ‘aleykhem (come, tra gli arabi, salām ‘aleykom), «la pace
sia su di voi». Non a caso, questo è l’ultimo saluto che Cristo risorto dona ai suoi nel
cenacolo (cf. Gv 20,19.21.26: per tre volte!). Agli apostoli, turbati e rinchiusi per paura della
persecuzione, egli dice: «Shalom lakhem!», «Pace a voi!».

Principe di pace in Galilea


La Santa Famiglia di Nàzaret e gli apostoli hanno ascoltato le parole della Scrittura
relative alla pace escatologica che doveva venire con il messia. Gesù ha frequentato la
sinagoga, ha meditato, assimilato e confrontato con i fatti della sua vita le parole profetiche
dell’Antico Testamento, comprese quelle che si riferivano alla pace messianica che egli
stesso avrebbe dovuto portare al mondo.
In particolare, egli aveva certamente ascoltato, letto, scrutato e meditato tante volte una
parola che doveva risuonare con particolare forza agli orecchi di un galileo come lui,
cresciuto nella tribù di Zàbulon (ove si trova Nàzaret) e stabilitosi sulla riva del lago di
Galilea, nella tribù di Nèftali (ove si trova Cafarnao), al fine di svolgere la sua missione
itinerante. Mi riferisco alla meravigliosa profezia contenuta nel nono capitolo di Isaia, che
inizia così: «In passato umiliò la terra di Zàbulon e la terra di Nèftali» (Is 8,23). Il profeta fa
qui riferimento alla tragica deportazione che ha subito il popolo ebraico del nord nel 732 a.C.
da parte degli Assiri (cf. 2Re 15,29). Così continua la profezia:

In futuro renderà gloriosa la via del mare (derekh ha-yam), oltre il Giordano, Galilea
delle genti (gelil ha-goyim). Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande
luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse (...). Perché ogni
calzatura di soldato che marciava rimbombando e ogni mantello intriso di sangue
saranno bruciati, dati in pasto al fuoco. Perché un bambino è nato per noi, ci è stato dato
un figlio. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio
potente, Padre per sempre, Principe della pace (...). Grande sarà il suo potere e la pace
non avrà fine sul trono di Davide e sul suo regno (Is 8,23b-9,1.4-6a).

Il bambino profetizzato da Isaia è chiamato Ietteralmente «meraviglia di consigliere»


(pele’yo'ets) e addirittura «Dio potente» (’el gibbor) e «Principe di pace» (sar shalom).
Questa stupenda profezia, secondo il vangelo di Matteo che la cita, si è adempiuta quando
Gesù è venuto ad abitare presso la via del mare a Kefar Nahum (Cafarnao). Oggi si sa dove
passava questa derekh ha-yam, «via del mare» (via maris). Gesù si è stabilito lungo di essa,
presso «la curva dei pagani» (gelil ha-goyim), e come una luce ha brillato nelle tenebre del
nostro mondo, delle nostre guerre, sofferenze, peccati.
Gesù, del resto, decide di risiedere a Cafarnao proprio per compiere tale profezia di Isaia.
Si può pensare che Giuseppe e Maria, essendo galilei che risiedevano nei territori della tribù
di Zàbulon a Nàzaret, abbiano ricordato a Gesù questa profezia di Isaia. Possiamo
immaginare il loro pensiero: «Benché il Signore ci umili come un tempo per mano dei goyim,
dei pagani, un giorno renderà di nuovo gloriosa la nostra terra, la via del mare, con la luce del
messia che porterà la pace universale». Essi sapevano che Gesù era il Messia, giacché gli era
stato profetizzato e avevano ricevuto segni inequivocabili in merito.

Quale messia?
Ora è necessario fare un passo in più, partendo dalle domande che si ponevano i
contemporanei di Gesù: in che modo il messia doveva portare la pace al mondo? Come
sarebbe stato il suo avvento? Quali erano i segni della sua venuta? Questo, come accennato
sopra, era uno dei problemi centrali al tempo di Gesù. Lo sappiamo non solo dal Nuovo
Testamento, ma anche dai tanti testi della lettera- tura intertestamentaria giunti fino a noi.
Basti citare i testi rinvenuti a Qumran e in varie grotte presso il mar Morto o i testi apocrifi
dell’Antico Testamento. Come si evince da essi, la questione messianica era assai viva al
tempo di Gesù, come del resto lo è anche oggi fra gli ebrei.
La questione sull’identità e la missione del messia è essenziale non solo per gli ebrei ma
anche per i cristiani, giacché è indissolubilmente legata a quella sulla missione della Chiesa:
com’è chiamata questa a essere sacramento di salvezza nel mondo? Non si tratta solo di un
problema storico o teologico. La questione del messia, infatti, non riguarda esclusivamente
ebrei e cristiani, ma in un certo modo ogni uomo. L’idea di messia che si ha, infatti, non è
senza conseguenza per il senso dell’esistenza umana. Il messianismo, lungi dall’essere un
fenomeno meramente religioso, è divenuto anche una realtà politica, sociale e umana.
L’immagine del messia, analogamente a quella di Dio, determina concezioni antropologiche,
comportamenti morali e sociali, progetti esistenziali. Potremmo dire per semplificare:
«Dimmi che immagine di messia hai e ti dirò chi sei»; oppure: «Dimmi che messia attendi e
ti dirò come vivi». Per dare solo un esempio, pare che J.G. Klausner (+1958) abbia affermato
l’assenza di un messia personale nell’Antico Testamento, in quanto era un convinto
sostenitore del socialismo profetico di A.Z.H. Ginsberg (+1927). Ancora oggi molti
sostengono l’idea che il messia sia lo stesso popolo d’Israele.
La questione si propone nuovamente oggi, nel momento in cui, in vari paesi del mondo,
alcuni leaders continuano a presentarsi al loro popolo con «tratti messianici». Sembra proprio
che l’uomo, anche il non credente, non possa vivere senza attendere un messia! La questione
è per la nostra generazione, delusa dopo il crollo delle ideologie, ancora più profonda: si può
ancora sperare nell’avvento di un messia, di un giusto, di un salvatore? Il nostro futuro è
aperto a un compimento o è per sempre condannato alla ciclicità, al nichilismo e alla non-
attesa?

Doveva proprio soffrire?


Uno degli argomenti più diffusi tra gli ebrei per soste- nere che Gesù di Nàzaret non
possa essere il messia atteso da Israele è la semplice constatazione che lo shalom messianico
al quale anelano non sia arrivato con Gesù: se questi è il messia - obiettano - dov’è la pace
del mondo? Così, Gesù sarebbe solo un buon rabbino o al massimo un messia fallito, come ce
ne sono stati tanti in Israele: l’esempio più noto è Bar Kokhba, «il figlio della stella», il quale
fu ucciso nella seconda rivolta giudaica; sebbene un grande personaggio come Rabbi Alava
lo considerasse il messia, egli deluse definitivamente le attese del popolo.
Si deve riconoscere che gli stessi discepoli di Gesù inizialmente non poterono accettare il
fallimento della croce. Alla fine del vangelo di Luca, Gesù rimprovera i due di Emmaus:
«Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti. Non bisognava (dei)
che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Le 24,25-26). I due di
Emmaus non potevano ammettere l’idea di un messia sofferente e per questo Gesù li corregge
con amore.
Potremmo, tuttavia, chiederci: si meritavano davvero i due di Emmaus di essere chiamati
«stolti» da Gesù? Avevano elementi sufficienti nella Scrittura e nella tradizione orale di
Israele per ritenere che il messia dovesse soffrire? Luca mette in bocca a Gesù il verbo greco
dei (Le 24,26): «era necessario, conveniva», rientrava cioè nel piano salvifico di Dio che il
messia soffrisse. Subito dopo il richiamo ai due di Emmaus, in Le 24,27 Gesù spiega loro «in
tutte le Scritture» ciò che si riferisce a lui, «cominciando da Mosè e da tutti i profeti». Gesù,
pertanto, interpreta le sofferenze del messia partendo dalla Torah e dai profeti. La domanda
pare dunque legittima: «Dov’era scritto nella Torah e nei profeti che il messia dovesse
soffrire?». Vediamo quindi quale fosse, ai tempi di Gesù, l’immagine del messia. Si tratta di
un tema essenziale per andare alle sorgenti della nostra fede e per entrare, per quanto
possibile, nella mentalità del popolo ebraico al tempo della Santa Famiglia di Nàzaret.

Bambino senza letto


Al tempo di Gesù circolavano varie concezioni messianiche. Il desiderio del messia era
vivo in molti ambienti, come provano anche i testi neotestamentari. Perfino tra i Romani era
forte l’anelito verso un re salvatore: il poeta Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.), solo una
quarantina d’anni prima della nascita di Gesù, nella sua quarta egloga aveva cantato l’età
dell’oro, la nuova era «messianica» che stava per venire47. Virgilio menziona l’imminente
«ritorno della Vergine» (6: iam redit et virgo) e di «una nuova progenie» che «discende
dall’alto dei cieli» (7: iam nova progenies caelo demittitur alto). Egli nota che grazie a un
«bambino che sta per nascere» finirà ogni guerra e sorgerà l’eta dell’oro (8-9: Tu modo
nascenti puero, quo ferrea primum/desinet ac toto surget gens aurea mundo). Tale bambino
sarà addirittura «un dio» e «governerà il mondo con le virtù dei padri» (15-18). Grazie alla
nascita di questo bambino, tutto sarà fecondo (18-47) e rifiorirà: persino la sua culla gli
offrirà fiori (23). Grazie alla sua nascita, gli armenti non avranno paura dei leoni (22) e il
serpente morirà (24-25). Così termina il poema: «Avanza, o piccolo bambino, al quale non
sorrisero i genitori né un dio concesse la mensa, né una dea un letto» (62-63: Incipe, parve
puer: qui non risere parenti/nec deus hunc mensa, dea nec dignata cubili est). Il sommo
poeta sembra persino far riferimento alla scomodità in cui nascerà il futuro re del mondo: egli
sarà un bambino «senza letto»!
Il testo della quarta egloga mostra sorprendenti contatti con Is 11,1-9: anche qui si canta
di una nuova progenie (v. 1), di un bambino e «piccolo fanciullo» (vv. 6.8) che sarà un re di
stirpe regale davidica (v.l), grazie al quale avverrà il prodigio della pace universale, perfino
tra «il vitello e il leoncello», come tra il leone e il bue (vv. 6-7), e il serpente diverrà innocuo
(v. 8). Come notano gli studiosi, non è da escludere che Virgilio abbia conosciuto le profezie
messianiche ebraiche, se non direttamente dai testi biblici (cosa improbabile) almeno
mediante altri scritti o tradizioni orali.
Quanto cantato da Isaia si è compiuto in Gesù Cristo. Eppure, in modo sorprendente, si
sono adempiuti perfino alcuni dettagli del pagano Virgilio, «profeta» a sua insaputa. Gesù
nasce a Betlemme in una grotta, ed è quindi, fin dal primo momento, un «senza letto», come

47
VIRGILIO, Bucoliche, IV,1-63.
egli stesso dirà: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio
dell’uomo non ha dove posare il capo» (Mt 8,20). Vi era quindi una fervida attesa, non
solamente tra gli ebrei ma anche tra i pagani, e ciò a livello popolare, dato che si trattava di
testi noti a molti.

L’atteso d’Israele
Il desiderio del messia è vivo tra gli ebrei fino ad oggi nella liturgia. Ad esempio, nella
preghiera quotidiana di ‘Amidah (dalla radice ‘md, «stare in piedi», giacché si recita in piedi),
denominata anche Shemoneh ‘Esreh («Diciotto» benedizioni), nella quattordicesima
benedizione secondo la versione palestinese, si recita:

Nella tua grande misericordia, abbi pietà, YHWH Dio nostro, di Israele tuo popolo, di
Gerusalemme tua città, di Sion dimora della tua gloria, del tuo tempio e della tua dimora
e della regalità della casa di Davide e del tuo messia di giustizia. Benedetto sei tu,
YHWH Dio di Davide, che edifichi Gerusalemme.48

Non si può essere certi del fatto che ai tempi di Gesù si recitasse tale benedizione in
questa forma. Alcuni studiosi hanno cercato nondimeno di mostrare la sua antichità. Ad ogni
modo, tale benedizione fa riferimento ai rahamim, alle «viscere di misericordia» del Signore.
Essa esprime inoltre la speranza messianica, giacché nomina il «messia di giustizia». Infine,
si benedice Dio per la ri- costruzione di Gerusalemme, un tema indubbiamente messianico.
Tale preghiera è stata per generazioni il grido di Israele, con cui esso, in piedi, manifestava il
desiderio di vedere l’atteso d’Israele e il desiderato dalle genti.
La venuta del messia, in ogni generazione, è attesa dal popolo ebraico come qualcosa di
improvviso. Gesù stesso afferma che la venuta del Figlio dell’uomo è «come la folgore» (Mt
24,27; cf. anche Lc 17,24). Egli è presentato spesso nei vangeli come colui «che passa» e
invita ad accogliere il kairos, il «momento favorevole» per la conversione. Nel primo
capitolo del vangelo di Marco si ripete, quasi in modo esagerato, l’avverbio euthys, «subito»,
come se il Messia debba venire all’improvviso o passare in fretta.
Il Talmud afferma che «tre cose arrivano di sorpresa: il messia, un oggetto ritrovato e uno
scorpione»49. Il messia, pertanto, spunta all’improvviso come uno scorpione o come una cosa
cercata per giorni che rispunta inaspettatamente proprio quando non si cerca più!
Nel Talmud si afferma inoltre: «Sette cose furono create prima che l’universo fosse. Esse
sono la Torah, la penitenza (teshuvah), il paradiso, l’inferno, il trono della Gloria, il tempio e
il nome del messia»50. Il Midrash Pesiqta Rabbati insiste sulla «pre-esistenza» del messia: «Il
re messia nacque fin dall’inizio della creazione del mondo, perché entrò nella mente (di Dio)
prima ancora che il mondo fosse creato»51. Nella tradizione ebraica si cerca d’individuare
questo misterioso nome del messia, ovvero la sua identità. Tale ricerca è fervida fino ad oggi.
La tradizione sul nome del messia, presente nel testo talmudico citato, è degna
d’interesse, giacché a essa può far riferimento S. Paolo quando afferma che Dio ha donato a
Cristo «il nome che è al di sopra di ogni nome» (Fil 2,9).

Messia zelota?

48
Il testo delle Diciotto benedizioni, rinvenuto nella Genizah del Cairo e custodito nella biblioteca
dell’Università di Cambridge, è stato pubblicato per la prima volta da S. Schechter nel 1898; una sinossi della
preghiera secondo la tradizione palestinese e babilonese si può trovare in L. FINKELSTEIN, «The Development
of the Amidah», 142-169.
49
b.San 97a.
50
b.Pes 54a.
51
PesR 152b.
L’attesa messianica era particolarmente viva ai tempi di Gesù nelle varie correnti
dell’ebraismo. Sappiamo che l’ebraismo all’epoca del secondo tempio era assai variegato.
Pur tuttavia, ciò che accomunava alcuni gruppi religiosi ai tempi di Gesù era proprio la
comune attesa del messia.
Secondo quanto riferisce Giuseppe Flavio, lo storico principale della Terra Santa
all’epoca del secondo tempio (37/38-100 d.C.), quattro erano le correnti ebraiche più
importanti o «scuole filosofiche», come egli le denomina52: i farisei, i sadducei, gli esseni, più
una «quarta filosofia»53, quella degli zeloti54. Almeno uno degli apostoli, Simone «lo zelota» è
chiamato da Gesù proprio da questo gruppo (cf. Lc 6,15). Non è da escludere, tuttavia, che
vari discepoli di Gesù provenienti dalla Galilea fossero zeloti. Si trattava di un gruppo così
famoso in Galilea che lo stesso nome «galileo» era sinonimo di zelota.
Gesù, Giuseppe e Maria si sono dovuti senza dubbio confrontare con le idee degli zeloti,
che affascinavano tanti, specie in Galilea. Come ci riferisce Giuseppe Flavio, gli zeloti
concordavano con i farisei circa l’interpretazione orale della Torah e le questioni dottrinali,
con l’unica differenza che avevano «un’invincibile passione (eros) per la libertà55,
riconoscendo Dio come unico capo e signore». Ciò significa che essi rifiutavano di
riconoscere l’imperatore romano quale kyrios e di pagargli il tributo, giacché Dio era l’unico
kyrios.
Gli zeloti, pertanto, attendevano un messia politico, che liberasse Israele e annientasse il
potere dei nemici romani. Ciò è degno di nota, specie nel contesto degli attuali conflitti che
affliggono la Terra Santa. Gli zeloti attendevano un messia politico che liberasse Israele
dall’occupazione nemica e cacciasse i pagani. È necessario entrare in tale ambiente per
comprendere la forza delle parole di Gesù sul monte delle Beatitudini, quando proclama: «Io
vi dico di non opporvi al malvagio (...). Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi
perseguitano» (Mt 5,38.44). Tali parole risuonano con più forza nel contesto sopra abbozzato.
Al tempo di Gesù, inoltre, sorgevano continuamente degli pseudo-messia, specialmente
tra gli zeloti, che erano dei rivoluzionari, con un loro «braccio armato» costituito dal gruppo
dei sicari. Questa, del resto, è una tentazione che si ripete in ogni epoca. Tanti personaggi
nella storia hanno assunto connotazioni messianiche presentandosi come salvatori del popolo,
come messia politici. Così avveniva ai tempi di Gesù, proprio in Galilea, e ciò è di grande
rilevanza, giacché Gesù è un galileo, cresciuto a Nàzaret e stabilitosi come predicatore
itinerante, per la sua opera di evangelizzazione, in una città centrale della Galilea del tempo,
Cafarnao, vicina ai centri nei quali gli zeloti hanno avuto grandi leaders e personaggi
carismatici. Come ci riferiscono i vangeli, Gesù predicava in tutte le città e i villaggi della
Galilea, e quindi si è dovuto certamente incontrare e scontrare con la mentalità degli zeloti.
Questi personaggi carismatici, che pretendevano un ruolo messianico o erano riconosciuti
come messia e liberatori dal popolo, facevano discepoli e aspiravano a divenire «re dei
Giudei»56. Gli Atti degli apostoli citano, ad esempio, due personaggi: Teuda, che fece
quattrocento discepoli, e Giuda il Galileo, che «indusse gente a seguirlo» (At 5,36-37). Di
entrambi, nelle parole di Gamaliele, si evidenzia il fallimento e la dispersione sofferta dai
loro discepoli dopo la loro morte. Sugli stessi due personaggi ci riferisce Giuseppe Flavio57.
Egli, per la verità, narra di ben sette zeloti che si presentarono come messia attraverso la
ribellione e la lotta armata. Dai dati riportati in Giuseppe Flavio, che fu comandante in
Galilea e che mostra di conoscere bene l’ambiente di tale regione, si deduce che a Sefforis
(città molto vicina a Nàzaret) fosse forte la corrente degli zeloti. Egli, infatti, narra che a

52
Si veda GIUSEPPE FLAVIO, Ant 18,12-22; Bell 2,119-166.
53
GIUSEPPE FLAVIO, Ant 18,23.
54
Cf. GIUSEPPE FLAVIO, Ant 18,4-10.23-25; Bell 7,253-254.
55
GIUSEPPE FLAVIO, Ant 18,23.
56
Cf. GIUSEPPE FLAVIO, Ant 17,285; Bell 2,55.
57
Su Teuda, si veda GIUSEPPE FLAVIO, Ant 20,97-98; su Giuda il Galileo, Ant 18,3-4.23; Bell 2,118.
Sefforis un certo Giuda, figlio del «capo-brigante»58 Ezechia, raccolse una banda di disperati,
attaccò il palazzo reale rubando le armi che si trovavano in esso e cominciò a seminare il
terrore, essendo «zelante» al fine di conquistare «onore regale»59. Degno di nota è che Giuda
raccolse in Galilea un gruppo di poveri: come si può notare, gli pseudo-messia (proprio come
il demonio!) «scimmiottano» il vero Messia, Gesù, e per questo, fino ad oggi, attraggono tanti
nelle loro trame.
Poiché tale rivolta zelota avvenne al tempo di Erode il Grande e a pochi chilometri da
Nàzaret, essa avrà avuto una certa influenza sui nazaretani e quindi su Gesù e sulla Santa
Famiglia. Tra l’altro, proprio a causa delle rivolte zelote, Sefforis fu incendiata dal
governatore romano della Sira, Publio Quintilio Varo, quando Gesù era bambino. Non è da
escludere che Giuseppe e Gesù (a entrambi nei vangeli si attribuisce il titolo tektōn, cioè
«artigiano», «costruttore» e non solo «falegname»: cf. Mt 13,55; Mc 6,3) abbiano lavorato
nella ricostruzione di Sefforis, avvenuta per iniziativa di Erode Antipa tra il 2 a.C. e il 20
d.C., quindi mentre Gesù era un ragazzo.
Indubbiamente la tentazione zelota di un messia che s’impone con la forza deve essere
stata grande anche per Gesù. Del resto, una delle trappole a lui tesa dal maligno nel deserto fu
esattamente quella di indurlo a non accettare la sua identità e la sua missione di Messia
sofferente, a rifiutare il fallimento della croce. Il diavolo tenta Gesù suggerendogli di gettarsi
dal pinnacolo del tempio, in modo che tutti possano riconoscerlo come messia al vedere gli
angeli sostenerlo dinanzi a tutti (cf. Mt 4,5-6). In una parola, si tratta della perenne tentazione
del «messia trionfante».
Lo storico ebreo racconta anche che in Giudea, dopo la morte di Erode il Grande, cioè
alcuni anni dopo la nascita di Gesù, un pastore di nome Atronge aspirò alla regalità, si
autoincoronò re e si mise a capo di una banda armata; una grande moltitudine si unì a loro e
lo chiamava «re»60.
Lo zelota più famoso della Galilea, tuttavia, fu indubbiamente Giuda di Gamia, detto «il
Galileo», che incitò i compatrioti alla rivolta tra gli anni 6-9 d.C., quando Gesù aveva fra i
dieci e i tredici anni. Giuda cominciò a rimproverare gli ebrei di pagare il tributo a Cesare e
di farsi comandare da padroni mortali e non dall’unico Signore61. Egli, secondo il Flavio, era
il leader degli zeloti e cominciò una rivolta, istigando i compatrioti a riprendersi con forza la
libertà62. Come abbiamo detto, Giuda proveniva da Gamia, città arroccata su un colle
inespugnabile a forma di gobba di cammello (in aramaico gamia significa appunto
«cammello») a mezza giornata di cammino da Cafarnao. Ancora oggi si possono visitare i
resti di tale città, vera e propria roccaforte naturale in cui gli zeloti si rifugiarono durante la
prima rivolta giudaica, finché i Romani nel 67 d.C., guidati dal futuro imperatore Vespasiano
in persona, conquistarono la città, provocando il suicidio in massa dei loro abitanti. Insieme a
Masada, altra roccaforte zelota, Gamia, su cui oggi volteggiano le aquile e gli avvoltoi,
rimane così muta testi- mone della fierezza zelota, disposta al suicidio piuttosto che alla resa.

Gesù il Cristo o Gesù il Barabba?


I discepoli di Gesù e con loro l’intero popolo ebraico hanno dovuto, quindi, affrontare la
scelta tra un messia trionfante e un messia sofferente, tra la rivolta e la nonresistenza al male,
in una parola, tra Gesù e Barabba.
Questo problema, come abbiamo accennato, è cruciale non solo per gli ebrei ma anche
per i cristiani: cosa deve fare il messia? Qual è l’opera più grande che egli deve compiere?

58
S’impiega qui il termine archilēstēs, che può alludere a un «capo zelota».
59
Cf. GIUSEPPE FLAVIO, Ant 17,271-272.
60
Cf. GIUSEPPE FLAVIO, Ant 17,278-281.
61
Cf. GIUSEPPE FLAVIO, Bell 2,118.
62
Cf. GIUSEPPE FLAVIO, Ant 18,3-4.23.
Che messia deve essere? Un messia politico e rivoluzionario? Un messia solo spirituale? La
tentazione che ricorre in tutti i tempi è quella del jihād, della guerra santa in nome di dio, in
vista di una liberazione politica, sociale e religiosa. Gesù ha dovuto meditare queste
domande, finché, alla luce delle Scritture e della sua relazione intima e costante con il Padre,
ha preso coscienza di dover incarnare sì il messia trionfante, ma in senso escatologico, come
«Figlio dell’uomo», vale a dire il messia che domina in un altro modo rispetto al messia
politico atteso dalla maggioranza. Egli avrebbe dovuto passare per il fallimento e per la
sofferenza. Gesù ebbe chiaro il fatto che non sarebbe stato un messia liberatore, pronto a
vincere i nemici con la forza. Per questa ragione, sin dall’inizio del suo ministero, su un altro
colle poco distante da quello roccioso di Gamia e di gran lunga più dolce, proclamò il cuore
del suo insegnamento, indiscutibilmente rivoluzionario se si considera l’ambiente delineato
finora: l’amore ai nemici. Ora si comprende come i nemici del tempo fossero concreti.
Indubbiamente Gesù si riferisce ai nemici personali che ognuno aveva, ma anche agli
occupanti romani.
La parola di Gesù Cristo, l’amore ai nemici, costituisce quindi la vera rivoluzione. Egli ha
scelto d’incarnare il messia umile e sofferente, che doveva passare per il rifiuto dei suoi, per
divenire così luce per il mondo, compiendo la vocazione a cui Israele fu chiamato, quella cioè
di essere luce delle genti. Tale vocazione, infatti, era già stata profetizzata ad Abramo, nel
quale sarebbero state benedette tutte le genti (cf. Gen 12,3). Questo si è compiuto in Gesù
Cristo, in un modo inaspettato giacché, come detto, il messia viene all’improvviso. Ciò è vivo
anche nella mentalità ebraica e per questo gli ebrei sono chiamati a vigilare e a essere attenti
ai segni della venuta del messia. Lo stesso Elia, che nella tradizione ebraica deve precedere la
venuta del messia, potrà venire come un mendicante, come un povero, e non necessariamente
in modo eclatante. Dio viene spesso in modo nascosto, e così anche il messia, come aveva
profetizzato Isaia ri- guardo alla misteriosa figura del Servo: «Non griderà né alzerà il tono,
non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno
stoppino dalla fiamma smorta; proclamerà il diritto con verità» (Is 42,2-3). Gesù Cristo ha
fatto sì udire in piazza la sua voce, ma sempre in modo nascosto, velato dalla debolezza della
sua carne, e ancor più velato dalla sofferenza e dal fallimento.
Tutto ciò è fondamentale anche per comprendere alcuni dettagli dei racconti della
passione. Gesù Cristo ri- mane silenzioso dinanzi a Pilato e a Erode, e tale silenzio
impressiona grandemente il primo. In fondo, la scelta quotidiana della nostra vita è proprio il
dilemma tra il vero Messia che trionfa essendo un agnello, il vero Figlio del Padre da una
parte, e Barabba, lo pseudo-messia, «prigioniero famoso» (Mt 27,16) colui che vuole imporre
giustizia con le proprie mani e che «scimmiotta» il vero Messia (Bar abba vuol dire
letteralmente «figlio di papà»!) dall’altra. Barabba è chiamato da Gv 18,40 «lēstēs»
(«brigante, ladrone»), termine che il Flavio attribuisce agli zeloti. Mc 15,7 precisa che egli
aveva commesso omicidio in una rivolta. I due ladroni crocefissi con Gesù, denominati
anch’essi lēstai, erano con tutta probabilità dei rivoluzionari zeloti o, come diremmo oggi, dei
terroristi.
Secondo alcuni manoscritti autorevoli del vangelo di Matteo, Barabba era un soprannome
aramaico («figlio di abba», appunto) mentre il suo vero nome era Gesù. Secondo tali
manoscritti, dunque, Pilato chiede alla folla: «Chi volete che io vi rilasci Gesù il Barabba 0
Gesù detto Cristo?». Potremmo dedurne che Barabba fosse realmente uno pseudo-messia,
una «falsa icona» di Gesù, proprio come il demonio. Egli è presentato alla folla come l’«anti-
messia», una figura dell’anticristo: appare come un grande liberatore, un benefattore del
popolo, un messia politico. Anche a noi s’impone sempre questa scelta, che nasconde una
grande e sottile tentazione, quella del trionfo politico e di un messia che venga a eliminare le
ingiustizie e a risolvere i problemi sociali.
Da tale tentazione non è stato esente nemmeno Gesù, quando il demonio, mostrandogli in
un istante tutti i regni della terra, lo invitò con queste seducenti parole: «Ti darò tutto questo
potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio» (Le 4,6). Gesù poteva
scegliere di essere un re trionfante, ma non l’ha fatto. Egli, durante tutta la sua vita, in
sinagoga, in famiglia e personalmente, ha ascoltato, letto e meditato la profezia del Servo di
YHWH in Isaia: «Disprezzato e reietto degli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il
patire» (Is 53,3).
Mentre meditava e compiva tali parole, egli si confrontava con l’ambiente in cui viveva e
doveva annunciare profeticamente la verità, rifuggendo dalla tentazione di essere proclamato
re dai suoi compatrioti. A questo proposito, vi è un dettaglio interessante nel vangelo di
Giovanni. Dopo il segno della moltiplicazione dei pani e dei pesci, si narra che la gente
riconobbe Gesù come «il profeta, colui che viene nel mondo» (Gv 6,14), ovvero come il
messia, e venne a prenderlo «per farlo re»; ma egli - nota l’evangelista - «si ritirò di nuovo
sul monte, lui da solo» (Gv 6,15). La gente della Galilea, pertanto, vuole «rapire» Gesù (si
usa il verbo greco arpazein, che significa letteralmente «rapire», «prendere con forza») per
farlo basileus, «re», proprio come aveva fatto con alcuni zeloti o personaggi carismatici
contemporanei. Gesù, di tutta risposta, si ri- tira in solitudine. Ciò equivale a dire che egli non
accetta di essere visto come un messia trionfante, venuto semplicemente a risolvere i
problemi materiali del popolo e a rispondere ai suoi bisogni di giustizia sociale. Al contrario,
egli sa di esser venuto per qualcosa di molto più grande, per compiere una giustizia superiore
e per saziare la fame più profonda dell’uomo. Quest’ultimo è chiamato a un’altra dimensione,
ben più alta di quella politico-sociale (che ha certamente la sua importanza), per un altro
regno. Per tale ragione, Gesù Cristo dinanzi a Pilato dichiara: «Il mio regno non è di questo
mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché
non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù» (Gv 18,36); come a dire:
«Se il mio regno fosse di questo mondo, io e i miei discepoli saremmo degli zeloti!». Tale
affermazione di Gesù dinanzi all’autorità romana appare ancora più forte se si considera il
contesto relativo agli zeloti e a coloro che tra di essi si autoproclamavano o si facevano
chiamare dai propri discepoli basileus, «re».
In fondo, sempre, anche noi ci troviamo dinanzi al drammatico aut-aut: Gesù o Barabba?
O, altrimenti: un Messia che trionfa entrando nella Croce e passando per il fallimento o un
messia che trionfa vincendo i nemici e schiacciando l’ingiustizia? Gamia, situata sulle alture
del Golan a pochi chilometri dal monte delle Beatitudini, era un centro degli zeloti, i quali
erano convinti che si dovesse combattere attivamente, come anche i maccabei avevano fatto
un tempo per la liberazione di Israele dal giogo pagano.
Insomma, al tempo di Gesù, l’ambiente popolare era in ebollizione: si aspettava
imminente l’arrivo del messia e del suo regno. Anche altri gruppi attendevano il messia,
come ad esempio i samaritani. Nel quarto vangelo, la donna samaritana rivolge a Gesù tale
asserzione: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà
ogni cosa» (Gv 4,25). Il messia atteso dai samaritani non era tanto un messia regale, come lo
aspettavano gli zeloti o i farisei, bensì un messia profetico, a immagine di Mosè, che per
l’appunto avrebbe annunciato loro «ogni cosa». È essenziale comprendere tutto ciò, perché la
Santa Famiglia di Nàzaret, Gesù e i suoi discepoli vivevano in quest’ambiente culturale e
religioso. Come vedremo, gli zeloti non erano gli unici ad attendere un messia trionfante.

Messia senza spada


Abbiamo rilevato che il messia, secondo la tradizione ebraica, deve portare al mondo lo
shalom definitivo. I discepoli sono giunti alla certezza, dopo un lungo cammino con Gesù e
non senza contrarietà, che il messia trionfa attraverso la sofferenza, attraverso la spada subita
e non sguainata. Questo è il Messia «trafitto» profetizzato da Zaccaria: «Guarderanno a me,
colui che hanno trafitto» (Zc 12,10). Il giorno della sua venuta, secondo lo stesso profeta,
coinciderà con lo sgorgare in Gerusalemme di una sorgente zampillante: «In quel giorno vi
sarà per la casa di Davide e gli abitanti di Gerusalemme una sor- gente zampillante per lavare
il peccato e l’impurità» (Zc 13,1). Va evidenziato che il testo ebraico non recita:
«Guarderanno a colui che hanno trafitto», quanto piuttosto: «Guarderanno a me, colui che
hanno trafitto» (Zc 12,10). Chi sta parlando è Dio in persona. Egli si è lasciato trafiggere per
noi, ha scelto di vincere e di portare la pace passando per la croce e per la sofferenza, affinché
vi fosse speranza per ogni uomo.
Per questa ragione, quando Giovanni il Battista vede arrivare Gesù Cristo, esclama:
«Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie (ho airōn) il peccato del mondo!» (Gv 1,29). Il verbo
greco airein, usualmente reso qui con «togliere, eliminare», significa anche «portare». Tale
doppia traduzione purtroppo si perde in italiano, giacché è impossibile trovare una sola
espressione che racchiuda i due significati. Essa, tuttavia, è di enorme portata: Gesù è
l’agnello che prende su di sé i peccati del mondo. Dio non toglie l’ingiustizia nel mondo
come spesso pensiamo nella nostra mentalità da giustizieri o da zeloti. In che modo, infatti, il
Messia Gesù toglie via l’ingiustizia e il peccato? Prendendolo su di sé. In ciò consiste la follia
della croce, che è nello stesso tempo una buona notizia per tutti noi, perché la croce è pur
sempre «follia di Dio».
Gesù è venuto a portare la vera pace: lo shalom giunge sì attraverso la spada, ma quella
che egli prende su di sé e che trafigge il suo costato. Ecco perché Gesù dichiara: «Sono
venuto a portare non pace, ma spada» (Mt 10,34). Benché tale affermazione di Gesù possa
sembrare una contraddizione, in realtà non lo è. Che cosa significa che egli viene non a
portare pace, ma una spada? Non ovviamente che egli non è venuto a portare lo shalom
messianico, quanto piuttosto che non è venuto a portare la pace che pensa il mondo, una pax
borghese, uno stato in cui non vi siano problemi, né croce, né sofferenza.
Gesù Cristo ha potuto annunciare questa spada perché l’ha presa su di sé. Egli è stato
trafitto e la Vergine Maria è stata associata a questo mirabile e insondabile mistero che ha
rappresentato la nostra salvezza. «Anche a te una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,35)
profetizza il vecchio Simeone alla Vergine Maria nel tempio. La pace che dona Gesù Cristo
corrisponde veramente allo shalom messianico, è una pace eterna, giacché egli ci apre le
porte del cielo. Gesù è veramente il sar shalom profetizzato da Isaia, il «ministro», il
«principe» della pace.
4

L’ATTESA DEL MESSIA

Messia regale trionfante?


Nel capitolo precedente abbiamo cominciato a rispondere ai seguenti interrogativi: quali
erano le attese messianiche all’epoca del secondo tempio? Qual era la speranza della Santa
Famiglia di Nàzaret e del popolo ebraico? Che tipo di messia attendevano? In che modo
Gesù, crescendo e andando in sinagoga, ha cominciato, in quanto uomo, a prendere sempre
più coscienza di essere il Messia atteso da secoli e di esserlo in modo di- verso da quello
atteso dalle varie correnti del suo tempo? Nel presente capitolo tenteremo di far parlare i testi
stessi che testimoniano tale fervente attesa messianica all’epoca del secondo tempio.
Nel capitolo precedente abbiamo visto come Giuseppe Flavio presenti sette personaggi
che, tentando una rivolta contro Roma, furono acclamati come re dei Giudei o messia. Gli
zeloti e i sicari, tuttavia, non erano gli unici che attendevano un messia liberatore e trionfante.
Anche i farisei, insieme ad altri gruppi, aspettavano un messia davidico, «un unto» (in
ebraico, appunto, mashiah) che avrebbe dovuto liberare Israele e costituire un regno eterno,
stabilendo il definitivo shalom messianico annunciato nelle Scritture.
Per fornire un esempio, prendiamo un testo emblematico tratto dai Salmi di Salomone,
libro contenuto nella Settanta, traduzione greca dell’Antico Testamento ebraico precedente a
Cristo. I diciotto Salmi di Salomone, conservati in greco e in siriaco, e con tutta probabilità
composti originariamente in ebraico, sono datati tra la seconda metà del primo secolo a.C. e
la prima metà del primo secolo d.C.; per molti, essi hanno avuto origine in Palestina, in
ambienti farisaici. Essi contengono dei testi messianici incentrati sulla figura del re davidico
chiamato «unto, messia» del Signore, che sarà un guerriero trionfante. Nel diciassettesimo
Salmo di Salomone, s’invoca così la venuta del messia:

Guarda Signore e fa sorgere per essi il loro re (basilea), figlio di Davide, per il
momento (kairon) che tu conosci, o Dio, perché regni su Israele tuo servo! E cingilo di
forza, perché schiacci i capi iniqui, purifichi Gerusalemme dai pagani che la calpestano
per la rovina, cacci fuori con sapienza di giustizia i peccatori dall’eredità, spezzi
l’orgoglio del peccatore come vaso di creta. Con scettro di ferro rompa ogni loro
sostanza, distrugga gli empi pagani con la parola della sua bocca. Con la sua minaccia
metta in fuga i pagani dal suo volto e rimproveri i peccatori con la parola del suo cuore.
Egli radunerà un popolo santo che guiderà con giustizia e giudicherà le tribù del popolo
santificato dal Signore suo Dio. Non lascerà più l’ingiustizia dimorare in mezzo a loro e
nessun uomo che conosca la malvagità abiterà con loro (...). Asservirà i popoli dei
pagani sotto il suo giogo e glorificherà il Signore sotto gli occhi di tutta la terra e
purificherà Gerusalemme con santificazione come quella dal principio. Lo stesso re sarà
giusto, ammaestrato da Dio per loro e non vi sarà ingiustizia nei suoi giorni in mezzo a
loro, perché tutti saranno santi e il loro re è il messia (christos) del Signore. Egli sarà
puro dal peccato per governare un grande popolo, per rimproverare i capi e annientare i
peccatori con la forza della parola. Non avrà debolezza nei suoi giorni a causa del suo
Dio, perché Dio lo ha reso potente in Spirito Santo.63

In questo salmo si presenta un messia (christos) potente e vittorioso, un re denominato


«figlio di Davide». Non a caso, Gesù è stato invocato con questo titolo messianico in più

63
PsSal 17,21-27a.30.32-33.36-37a.
occasioni (cf., ad es., Mt 9,27; Mc 10,47). Occorre notare, inoltre, che Giovanni il Battista si
esprime in modo simile ai Salmi di Salomone: egli annuncia la venuta di un messia potente,
che verrà in «Spirito Santo e fuoco» a purificare Israele dal peccato, raccogliere «il frumento
(i giusti) nel granaio» e a bruciare «la paglia (gli empi) con fuoco inestinguibile» (Mt 3,11-
12). Nel testo citato dai Salmi di Salomone, perciò, è forte l’idea di un messia giusto che
trionferà anche politicamente e donerà finalmente la pace tanto attesa dal popolo.

Messia sacerdotale?
Nel deserto di Giuda, nelle grotte intorno al mar Morto, sono stati rinvenuti numerosi
testi, noti come «testi di Qumran» o «rotoli/manoscritti del mar Morto». Oggi si preferisce la
seconda dicitura, giacché alcuni testi sono stati trovati in varie grotte intorno al mar Morto e
non solo nei pressi del sito di Qumran. Di questi testi conosciamo con certezza il terminus ad
quem: non possono essere stati scritti dopo il 70 d.C. e sono quindi precedenti a Gesù o
almeno contemporanei. Da essi si evince che gli uomini della comunità di Qumran, e più in
generale gli esseni, attendevano un messia o forse due (come pare emergere da alcuni passi)64.
Ciò che è caratteristico di tali manoscritti è l’attesa di un messia non solo regale, ma anche
sacerdotale, chiamato «il messia d’Aronne». Il messia sarebbe quindi sommo sacerdote.
Per dare un esempio di tale concezione, nel testo intitolato Regola della comunità, si
dichiara:

Questa è l’assemblea degli uomini famosi, [i convocati al]la riunione del consiglio della
comunità, se [Dio] ge[ne]rerà il messia con loro. Entrerà [il sacerdote] capo di tutta la
comunità d’Israele e tutti [i padri, i figli d’]Aronne, i sacerdoti [convocati all’assemblea,
uomini famosi e si siederanno di[nanzi a lui, ciascuno] secondo la sua dignità. In
seguito, siede[rà il mes]sia d’Israele e siederanno dinanzi a lui i capi [dei clan d’Israele,
ciascu]no secondo la sua dignità, secondo [il suo stato] nei loro accampamenti e
nelle loro marce. E tutti i capi dei cla[n della comu]nità, con i sag[gi della santa
comunità], si siederanno dinanzi a loro, ciascuno secondo la sua dignità.
[Quando] si riuniranno alla mensa della comunità [per bere] il mosto e sarà
pronta la mensa della comunità [e mescolato] il mosto per bere, [nessuno stenda]
la mano alla primizia del pane e del [mosto] prima del sacerdote, poiché [egli è
colui che bene]dice la primizia del pane e del mosto [e stende] la sua mano sul
pane prima di loro. In seguito, il messia d’Israele stenderà le sue mani verso il
pane. [E dopo bene]dirà tutta l’assemblea della comunità, cia[scuno secondo] la
sua dignità. Secondo questa norma, dunque, faranno in ogni pa[sto, quando si
riun]iscano almeno dieci uo[mini]65.

Il testo è di tono escatologico: si tratta della gene- razione e dell’ingresso del messia tra
gli uomini della comunità. Si fa anzitutto riferimento al messia regale, poiché si menziona «la
generazione» del messia da parte di Dio, in linea con Sal 2,7, un salmo regale che nomina
l’unto (il messia) del Signore. Va rimarcato che qui troviamo una chiara testimonianza,
parallela al Nuovo Testamento, di come tale salmo fosse interpretato in senso messianico.
Non solo. Non va dimenticato che lo stesso Salmo 2 presenta le contrarietà che l’unto del
Signore dovrà soffrire da parte dei re della terra. Nel testo si fa poi riferimento alle
caratteristiche sacerdotali del personaggio in questione. Egli ha un ruolo preminente rispetto

64
Cf., ad es., 1QS IX,11. Dai testi di Qumran non si può stabilire se si tratti di due messia o di un solo messia
con caratteristiche sacerdotali (che appaiono predominanti) e regali. In altri testi sembra più chiaro che si tratti
di un messia di doppia origine e si nomina il messia d’Aronne e d’Israele come se si trattasse di un unico
personaggio (cf., ad es., CD A XII,23-13,1; XIV, 19; CD B XIX, 10-11; XX, 1).
65
1QSa (1Q280) II,11-22; per il testo, datato dal 100 al 50 a.C., si veda D. BARTHÉLEMY, DJD 1,108-118
(plates XXII-XXIV); le parti tra parentesi quadre sono ricostruzioni del testo.
ai sacerdoti della comunità e ha la precedenza assoluta nel benedire il pane e il vino. Tale
personaggio è denominato «il messia d’Israele»: ciò è sorprendente se si confronta al Nuovo
Testamento.
Un altro riferimento al messia sacerdotale si trova in 11Q13 II,15-19. In questo testo si
parla del compimento della profezia messianica contenuta in Is 52,7. Colui che la compie è
denominato «l’unto dello Spirito» (mashiah ha-ruah), l’annunciatore di buone noti- zie
(mebasser) di cui parla Daniele (s’identifica con il Figlio dell’uomo). La sua missione è di
consolare gli afflitti e vigilare sopra gli afflitti di Sion. Dal contesto si comprende come tale
personaggio sia legato a Melchisedek66. Si tratta quindi di un messia sacerdotale. Qui non si
fa alcun riferimento alle sofferenze del messia, eppure quest’ultimo è identificato con il
Figlio dell’uomo di Daniele e ha una missione speciale per gli afflitti e i sofferenti.
I manoscritti del mar Morto sono testimoni di una notevole effervescenza messianica nel
primo secolo dell’era cristiana. Le diverse figure messianiche sono forse aspetti differenti
dell’unico messia. Nonostante le sue nette caratteristiche sacerdotali, tuttavia, il messia dei
qumranici e degli esserli sarà pur sempre un re, che quindi dovrà trionfare sulle nazioni e
operare una liberazione anche politica. Un testo interpreta Gen 49,10 come una profezia del
messia: si tratta qui del messia davidico ovvero regale, che è denominato «messia di
giustizia» e «germoglio di Davide» (cf. Is 11,1; Ger 23,5; 33,15)67. Il testo più rappresentativo
circa il messia regale si trova, tuttavia, nel manoscritto catalogato sotto il nome di
4QApocalisse aramaica (4Q246):

Arriverà sulla terra un’[en]orme tribolazione [...] e grandi massacri nelle province [...] re
di Assur e d’Egitto [...]. Sarà grande sulla terra [...] e tutti [lo] serviranno. [Figlio del
Signore gran]de sarà chiamato e sarà designato con il suo nome. Figlio di Dio sarà detto
e lo chiameranno Figlio dell’Altissimo. Come le stelle della visione così sarà il loro
regno: regneranno per ann[i] sulla terra e distruggeranno ogni cosa; un popolo ne
distruggerà un altro e una provincia un’altra [...], finché sorgerà il popolo di Dio e tutti
abbandoneranno la spada. Il suo regno sarà un regno eterno e tutte le sue vie saranno in
verità. Giudiche[rà] la terra in verità e tutti faranno la pace. La spada scomparirà dalla
terra e ogni provincia lo adorerà. Il grande Dio gli verrà in aiuto facendo la guerra per
lui: metterà i popoli in suo potere e tutti li getterà davanti a lui. Il suo dominio sarà un
dominio eterno.68

A prima vista, il testo, di forte tono apocalittico, tratta solo del messia trionfante che
porterà pace sulla terra. Eppure, a una più attenta lettura, si può notare che l’avvento del
messia non sarà senza sofferenze e tribolazioni, bensì sarà preceduto da tempi d’oppressione
e di spada. Il regno del messia seguirà a battaglie e sconvolgimenti: si nomina una «grande
tribolazione». Ma non è tutto. Nel testo si fa riferimento a una guerra che dovrà sostenere il
messia e che Dio combatterà per lui! Degna d’interesse è, infine, la somiglianza con le parole
dell’angelo Gabriele a Maria in Lc 1,32: «Sarà grande e verrà chiamato Figlio

66
In questo testo, paleograficamente databile alla seconda metà del sec. I° a.C. (cf. F. GARCIA MARTINEZ, Testi
di Qumran, 253, n.1), Melchisedek è considerato una figura angelica avente un molo da protagonista nel
giubileo finale e nella lotta escatologica contro Belial. Per l’apporto di 11Q13 allo sviluppo del messianismo
giudaico post-esilico, si veda P. SACCHI, «Esquisse du développement du messianisme juif», 202-214.
67
4Q252 V,1-6. Altri testi mostrano come il messia poteva essere associato ad altri simboli o personaggi, come
ad esempio il leone di Giuda (ovvero un messia guerriero: 1Q28b); il messia escatologico regale e sacerdotale
(4Q175 9-20); lo scriba 0 il profeta (forse Mosè: CD VI,2-11); Elia o l’interprete della Torah (CD A VII,20;
lQ28b V,20-29; 7QM5,l); la stella di Giacobbe ovvero l’interprete della Torah (CD VII, 19); il germoglio di
Davide interpretato ancora come l’interprete della Torah (4Q174 I,10-11) 0 il messia regale vittorioso su Magog
nella battaglia escatologica (4Q161 fr. 8-10, III, 18-22); il sommo sacerdote presentato come messia guerriero e
condottiero nella battaglia escatologica (1QM II,1-2; XV,4-6; XVI, 13-14; XVIII,5-6; XIX, 11-12); il
consigliere ammirabile di Is 9,5 (1QHa XI [III], 7-18).
68
4Q246, fr. 1 1,4-2,9; il testo è datato al 25 d.C; per l’edizione critica, si veda G. BROOKE - AL., DJD 22, 165-
184 (plate XI); le parentesi quadre segnalano ricostruzioni del testo 0 parti illeggibili.
dell’Altissimo». Il regno del messia descritto nel testo citato sarà eterno. Si abbandonerà la
spada perché giungerà lo shalom universale messianico: «Tutti faranno la pace». Lo stesso
Dio verrà in aiuto del suo messia, «facendo la guerra per lui»: sarà una «guerra santa», che
assoggetterà tutti i popoli al re messia.
Secondo la maggioranza dei testi citati si attendeva dunque un messia trionfante, benché
in qualche testo si trovino impliciti riferimenti alle sofferenze che dovevano precedere
l’avvento del messia.

Il giusto deve soffrire


Entriamo così in uno dei problemi cruciali: esisteva, all’epoca del secondo tempio, l’idea
di un messia sofferente? Alcune correnti ebraiche o tradizioni orali facevano riferimento alle
sofferenze e tribolazioni del messia, almeno come tappa verso il suo regno eterno e la
distruzione dei nemici?
Non bisogna dimenticare che l’ebraismo ai tempi di Gesù era già molto influenzato
dall’ellenismo e dalla filosofia greca. Un noto testo di Platone (morto nel 348/347 a.C.) è di
grande interesse per il nostro tema. Perfino i padri della Chiesa stimarono questo filosofo
greco pagano per alcune sue «profetiche» intuizioni. Nel seguente testo egli riflette sul
paradosso del giusto che soffre l’infamia destinata all’empio:

Conviene che gli si tolga l’apparenza della giustizia; poiché, se apparirà giusto, avrà
onori e doni per apparire tale, e non sarebbe chiaro se sia giusto per amore della
giustizia o dei doni e degli onori. Perciò deve essere spogliato di tutto fuorché della
giustizia stessa: (...) abbia egli massima fama d’ingiustizia, cosicché sia messo alla
prova (...); vada innanzi irremovibile sino alla morte, sembrando per tutta la vita essere
ingiusto ed essendo invece giusto (...): flagellato, sarà torturato, sarà legato, gli
bruceranno gli occhi, e, alla fine, dopo aver patito ogni genere di mali, sarà appeso al
legno.69

Questo il «profetico» ragionamento del filosofo: il giusto deve passare per il crogiuolo
della massima ingiustizia, in modo da sembrare ingiusto e morire da empio, affinché la sua
giustizia sia vagliata e appaia così veramente disinteressata. In una parola, il giusto è tale
proprio perché torturato e appeso al legno (alcuni traducono «crocifisso») come un ingiusto.
Secondo Platone, dunque, tale trattamento che il giusto subisce è necessario e rientra nel
piano divino: deve accadere e compiersi fino al telos, fino all’«estremo».
Le parole di Platone, scritte almeno trecento anni prima di Cristo, implicano una
questione cruciale per ogni uomo in ogni tempo: perché il giusto deve soffrire? In termini
ebraici e cristiani tale questione si può anche esprimere nel modo seguente: perché il messia,
il giusto per eccellenza, deve soffrire? Non è venuto egli a portare pace per sé e per il mondo?
Non deve forse trionfare e donare, mediante il suo trionfo, la pace e la felicità che il mondo
attende? Come si può accettare il fallimento dell’inviato di Dio?
Non a caso, il Corano elimina il paradosso della croce, rifiutando radicalmente la
possibilità che un profeta giusto quale ‘Issa (Gesù) abbia potuto soffrire ed essere condannato
a una morte così infamante: «Il loro detto è: “Abbiamo ucciso il messia, Gesù, figlio di
Maria, inviato di Dio”. Ma non l’hanno ucciso né crocifisso, ma è parso loro»70. In modo
simile, l’apocrifo Vangelo di Barnaba, molto tardivo e per molti redatto in ambiente islamico,
liquida il problema: al Getsèmani avviene un miracolo e il volto di Giuda si trasforma in
quello di Gesù, mentre quest’ultimo è assunto in cielo per opera degli angeli (cf. 215-216).
Perché tale eresia? Perché non si poteva accettare che il messia e profeta potesse soffrire la
pena ignominiosa della croce.
69
PLATONE, Repubblica, II, 361c362‫־‬a (trad. nostra).
70
Corano, Sura 4,157 (trad. dall’arabo nostra).
Sofferenza dell’elezione
Siamo giunti così a un punto cruciale che anche Gesù ha dovuto affrontare. Sappiamo che
nel Getsèmani egli ha avuto una grande lotta, facendo fatica a capire perché dovesse bere il
«calice amaro», che, secondo i profeti, avrebbero dovuto bere i peccatori. Gesù è venuto non
per schiacciare i peccatori, come fra alcuni gruppi ebraici si riteneva avrebbe dovuto fare il
messia, bensì per prendere su di sé il peccato del mondo: questo è qualcosa di veramente
rivoluzionario.
Occorre notare che la questione circa la sofferenza del giusto innocente e del messia è
legata a quella delle nostre sofferenze personali e a quelle del popolo ebraico. Per esempio,
dopo la Shoah, vale a dire dopo la terribile ingiustizia dell’Olocausto subita dal popolo
ebraico da parte dei nazisti e dei loro complici, la crisi di fede di alcuni ebrei, religiosi e non,
è legata a un dilemma simile a quello descritto sopra: come si può ammettere l’atroce
Olocausto del popolo eletto, o almeno degli innocenti e dei bambini? Il dolore del mondo e la
sofferenza degli innocenti, infatti, sono un problema universale e rappresentano l’argomento
più forte degli antiteisti e dei non- credenti: «Se un dio ha fatto questo mondo io non vorrei
essere quel dio, perché il dolore del mondo mi strapperebbe il cuore»71, ha affermato il
filosofo A. Schopenhauer. Ancora oggi, alcuni vorrebbero cancellare la sofferenza, la
vecchiaia, le malattie e tutto ciò che, in fondo, scandalizza l’uomo.
Lo scrittore ebreo francese A. Schwarz-Bart ha affermato: «Il cuore ebraico deve
spezzarsi mille volte per il bene più grande delle genti, dei pagani. È per questo che noi siamo
eletti»72. Egli lega il mistero dell’elezione d’Israele a quello della sofferenza. In modo simile
si è espresso S. Giovanni Paolo II:

Questo straordinario popolo continua a portare dentro di sé i segni dell’elezione divina.


Lo dissi una volta parlando con un politico israeliano, il quale concordò volentieri.
Aggiunse soltanto: «Se questo potesse costare meno!...». Davvero, Israele ha pagato un
alto prezzo per la propria «elezione».73

Potremmo aggiungere: quanto più il messia, l’eletto per eccellenza, doveva entrare nelle
sofferenze per redimere il mondo attraverso di esse!

Dio è là
La presenza di Dio nel giusto sofferente costituisce indubbiamente un grande mistero.
Nondimeno, alla luce della rivelazione anticotestamentaria (soprattutto di figure come
Giobbe, il Servo sofferente di Isaia e altri giusti perseguitati) la sua profondità è stata intuita,
talvolta in modo sorprendente, da vari ebrei. Per citare un esempio, Elie Wiesel, ebreo
americano superstite dell’Olocausto, nel momento in cui vide l’impiccagione di un bambino
ad Auschwitz, racconta quanto segue: «Dietro di me udii il solito uomo domandare: “Dov’è
dunque Dio?”. E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: “Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a
quella forca”»74. Benché, a quanto sembra, Wiesel non abbia vissuto storicamente tale
esperienza, rimane la sua intuizione, sintesi di innumerevoli sofferenze vissute da lui in prima
persona nel campo di prigionia: là (come dicono i superstiti ebrei che non vogliono nemmeno
nominare i campi di concentramento), egli ha sentito una voce, una voce nel silenzio che gli
rispondeva dal di dentro, dalla sorgente della sua elezione divina: Dio è là, nell’innocente che
soffre.
Per i cristiani, il Messia è entrato nella valle oscura della sofferenza e della morte, per

71
A. SCHOPENHAUER, O si pensa o si crede, 41.
72
Cit. in A. MELLO, «Il Servo sofferente nella tradizione ebraica», 99.
73
GIOVANNI PAOLO II, Varcare la soglia della speranza, 111-112.
74
E. WIESEL, La notte, 67.
prenderle su di sé:
Dio era là, appeso alla croce, là, proprio nel luogo in cui tutti dicevano: «Dov’è Dio?».
Il Messia ha, pertanto, percorso la strada del trionfo mediante la più profonda sofferenza,
come del resto era stato annunciato in alcune note profezie anticotestamentarie. Sorprende,
tuttavia, che perfino in testi più tardivi, la tradizione ebraica non abbia smesso di ritornare
sull’idea del messia sofferente. Nel prossimo capitolo torneremo sull’argomento, ma
anticipiamo subito alcuni testi, forse meno noti ai lettori, tratti dalla letteratura rabbinica.
Nel Midrash ai Salmi, Israele rivolge a Dio una domanda pressante: «Quando ci
salverai?». Egli risponde al suo popolo: «Quando sarete sprofondati fino in fondo, allora vi
salverò»75. Nella tradizione ebraica, come vedremo, il messia potrebbe venire in una
generazione malvagia e comunque il suo avvento implica tribolazioni e battaglie: secondo
alcuni rabbini, lo stesso messia non sarà esente dalle sofferenze. Per i cristiani, il messia è
sceso fino alle profondità dell’uomo, della sofferenza e del peccato, per sollevarci con lui.
Nello Zohar si trova un testo impressionante a questo riguardo:

Nel giardino dell’Eden vi è un palazzo, chiamato «palazzo dei figli della malattia». Il
messia entra in quel palazzo e prende su di sé tutti i dolori e i castighi d’Israele: essi
vengono e si posano sopra di lui. Egli li alleggerì portandoli su di sé, perché non vi era
nessuno capace di sopportare i castighi d’Israele per le trasgressioni della Torah, com’è
scritto: Egli si è caricato delle nostre malattie.76

Come vedremo più in dettaglio nel prossimo capitolo, alcune rare volte nella tradizione
ebraica si associa il messia al Servo di YHWH profetizzato da Isaia, Servo sofferente e
innocente che dovrà prendere su di sé il castigo dei peccati d’Israele.

Voce di silenzio sottile


Gesù Cristo nasce, pertanto, in un ambiente in cui si erano sviluppate e diffuse varie
concezioni messianiche. Tra esse, ovviamente, prevale quella di un messia che doveva
trionfare e stabilire con forza la giustizia, benché non mancassero chiare allusioni nelle
Scritture ebraiche al fatto che l’inviato futuro di Dio avrebbe dovuto in qualche modo
soffrire.
Abbiamo citato, tra esse, la meravigliosa profezia di Zaccaria secondo il testo ebraico:
«Guarderanno a me, colui che hanno trafitto» (Zc 12,10). Essa esprime l’idea che l’eletto del
Signore sarebbe stato trafitto, e proprio ciò avrebbe portato la salvezza non solo a Israele ma
anche alle nazioni, giacché Dio, attraverso l’elezione d’Israele, vuole raggiungere tutte le
genti.
Gesù, nel suo ministero, ha dovuto affrontare questo cruciale problema. Quando Pietro,
ad esempio, riconosce la sua identità messianica e fa la sua professione di fede, Gesù deve,
subito dopo, annunciare il suo fallimento, le sue sofferenze indicibili e la sua morte per opera
dei capi dei sacerdoti e degli scribi (cf. Mt 16,13- 23; Mc 8,27-33; Lc 9,18-22). Pietro
reagisce alle parole del maestro con un netto rimprovero: «Dio non voglia, Signore; questo
non ti accadrà mai!» (Mt 16,22), come a dire: «Tu non incarnerai mai questo messia
sofferente, tu sei venuto per trionfare e basta!».
Perfino dopo la resurrezione di Cristo, gli apostoli rimangono fermi sull’idea del messia
trionfante, che ha come prima missione il ristabilimento del regno d’Israele: «Signore, è
questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (At 1,6). Ciò mostra chiaramente
quanto fosse difficile per Gesù scalfire tale ferma convinzione, radicata anche oggi: quella
della liberazione sociale e politica, tutta terrena, da parte di un messia che venga a risolvere i

75
MTeh 45,3.
76
Zohar II, 212a.
problemi del mondo, che porti una pace materiale. Al contrario, il Messia trionfa sempre
attraverso la sofferenza e il fallimento: nel mondo, Cristo è sempre crocifisso!
Nell’Antico Testamento, Dio si manifesta a Elia sul monte Oreb in una brezza soave (cf.
1Re 19,9-13). Egli sperimenta così la teofania, l’apparizione di Dio:

Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti


e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento,
un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il
Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì,
Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna (1Re
19,llb-13).

Il Signore non si manifesta in segni portentosi ed evidenti, ma nel «sussurro di una brezza
leggera». Quest’ultima espressione, in ebraico qol demamah daqqah, significa letteralmente
«voce di silenzio sottile» (1Re 19,12). Dio era là, in quella voce di silenzio sottile.
Papa Francesco, in modo geniale, ha voluto impiegare proprio questa immagine per dare
un’interpretazione della presenza di Dio anche nell’ingiustizia più grande della Shoah.
Menachem Rosensaft, un giurista ebreo-americano, fondatore di un’associazione che riunisce
i figli di genitori sopravvissuti alla Shoah, ha chiesto a Papa Francesco in un’e-mail quale
teoria avesse circa l’atteggiamento di Dio nei confronti di quella grande tragedia del popolo
ebraico. Il Pontefice ha risposto: «La presenza di Dio durante la Shoah era una presenza
nascosta, come quella della “brezza leggera” di cui parla la Bibbia raccontando l’incontro con
il Profeta Elia sul monte Oreb»77.
In modo analogo, il messia che Gesù Cristo ha scelto d’incarnare, in mezzo alle varie
proposte messianiche del tempo, è stato a immagine di questa qol demamah daqqah, «voce di
silenzio sottile». Il Messia, come Dio, è là dove sembra che non ci sia, sulla croce,
nell’estremo della sofferenza e dell’ingiustizia, nel massimo fallimento possibile. Mediante
ciò, il Messia ha visto il vero trionfo, quello celeste, che è la sua risurrezione. Egli è entrato
nel silenzio della sofferenza, per poi gridare a tutti la gioia della risurrezione.
Gesù non ha voluto incarnare un messia zelota, come Barabba; solo attraverso la
sofferenza egli ci ha aperto le porte del cielo, ha vinto i veri nemici, che non sono di sangue e
di carne, bensì i tre nemici contro cui è la nostra vera lotta: il peccato, la morte e il demonio.
Egli è il messia sofferente e trionfante: trionfante proprio perché sofferente.

77
Cit. in https://it.zenit.org/articles/dio-era-presente-nei‫־‬campi‫־‬di‫־‬sterminio-come-la-brezza‫־‬leggera-di‫־‬elia‫־‬sull-
oreb-2/; la notizia è stata riferita dal Washington Post nell’ottobre del 2013.
5

IL MESSIA SOFFERENTE

Messia lebbroso e piagato


In questo capitolo continuiamo, come nel precedente, a immaginarci di essere a Nàzaret
all’epoca del secondo tempio, approfondendo la medesima domanda: quali erano le speranze
di Maria, di Giuseppe e dei loro contemporanei riguardo al messia? Abbiamo notato sopra
come vi fossero varie concezioni messianiche nelle diverse correnti ebraiche. L’ebraismo ai
tempi di Gesù era tutt’altro che monolitico, come del resto anche oggi.
Abbiamo visto sopra come l’attesa del messia trionfante, che doveva trionfare sui nemici
e liberare il popolo dal giogo dei peccatori, e in particolare dai pagani romani il cui dominio
nel trascorrere degli anni si faceva sempre più intollerabile, fosse senz’altro prevalente. Pur
tuttavia, vi sono alcuni testi, sulla cui antichità ancora oggi si discute animosamente, che
parlano di una misteriosa figura di messia sofferente.
Nell’Antico Testamento non mancano allusioni, come i canti del Servo del Signore in
Isaia o altri passi in Zaccaria e nelle Lamentazioni, che presentano la figura di un giusto
sofferente che mediante la sua morte espiatrice porterà la salvezza al popolo e diverrà così
luce per le genti. Non si deve pensare, di conseguenza, che si tratti solo di una credenza
creata ex novo da Gesù o dagli autori neotestamentari alla luce della Pasqua. Nella tradizione
ebraica vi sono alcuni testi, benché non numerosi o comunque al margine della letteratura,
che sono preziosi e illuminanti a proposito.
Il problema principale, riguardo a tali testi che a breve citeremo, è quello della loro
datazione. Se è vero, da una parte, che la data di alcuni di questi testi è tardiva, cioè
posteriore a Cristo e alcune volte anche di vari secoli, è possibile, dall’altra, che le tradizioni
contenute in essi siano molto antiche. Non va dimenticato che le conclusioni dei rabbini sono
saldamente fondate sui testi biblici, il che non esclude che, anche se un determinato testo
fosse tardivo, si sarebbe potuti giungere a conclusioni simili fin da tempi antichi. I testi di
Filone e i manoscritti del mar Morto, anteriori al 70 d.C., mostrano come vi fosse da tempi
remoti un’esegesi assai raffinata. Si fornirà di seguito solo qualche esempio più
rappresentativo, senza pretendere di citare tutti i testi.
Un testo del Talmud Babilonese, contenuto nel trattato Sanhedrin, afferma che uno dei
nomi del messia è «il lebbroso della scuola di Rabbi Yehuda Ha-Nasi». Qui, cosa abbastanza
curiosa, il messia è paragonato a un uomo lebbroso e piagato. Citiamo il testo per intero:

Qual è il suo nome (il nome del messia, ndr)? La scuola di R. Shila diceva: «Shiloh è il
suo nome, com’è detto: finché verrà Shiloh (Gen 49,10)». La scuola di R. Yannai
diceva: «Yinnon è il suo nome, com’è detto: Il suo nome durerà (yinnon) quanto il
sole (Sal 72,17)». La scuola di R. Hanina diceva: «Hanina è il suo nome, com’è detto:
Non vi darò grazia (hanina) (Ger 16,13)». C’è chi dice che il suo nome è Menahem
figlio di Ezechia, com’è detto: Il consolatore (menahem) che conforta la mia anima
si è allontanato da me (Lam 1,16). I rabbini affermano che il suo nome è «il lebbroso
della scuola di R. Yehuda Ha-Nasi», com’è detto: Egli ha sopportato le nostre
sofferenze, si è caricato dei nostri dolori, perciò lo abbiamo considerato colpito,
percosso da Dio e afflitto (Is 53,4).78

78
b.San 98b.
Va notato che i nomi sono tratti da testi della Scrittura. Isaia 53 è interpretato in senso
nettamente messianico. Si fa riferimento al termine nagua‘ che letteralmente vuol dire
«colpito», ma che nell’Antico Testamento ha il significato più specifico di «colpito da
lebbra». Il riferimento a R. Yehuda Ha-Nasi è dovuto al fatto che questo rabbino fu affetto
per tredici anni da una grave malattia e reagì con fede, tanto da sostenere che quelli che
soffrono sono particolarmente amati da Dio, che in tal modo mostra loro la sua misericordia79.
In particolare, nel testo citato, il riferimento al Servo di YHWH in Isaia 53 è di grande
rilevanza, poiché già nella tradizione ebraica s’identifica il messia con questo Servo piagato,
colpito, disprezzato, ma che sarà esaltato a causa delle sofferenze e diverrà strumento di
guarigione per il popolo («per le sue piaghe siamo stati guariti», Is 53,5). Tutto ciò è tutt’altro
che scontato, giacché, come vedremo in seguito, nella tradizione rabbinica vi è un dibattito
circa l’identificazione del Servo di YHWH, al punto che alcuni saggi vedranno in esso tutto il
popolo d’Israele, ma non il messia. Al contrario, nel testo talmudico menzionato, il messia è
chiaramente il Servo di YHWH «colpito» e quindi «colpito dalla lebbra».
Gesù Cristo compie questa realtà: egli stesso guarisce il lebbroso toccandolo (Me 1,40-
44) e immediatamente dopo tale guarigione l’evangelista nota che Gesù «non poteva più
entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori in luoghi deserti» (Me 1,45). Con ciò
l’evangelista allude al fatto che Gesù stesso ha in qualche modo «preso su di sé» tale lebbra,
giacché i lebbrosi erano obbligati dalla Legge a rimanere fuori della città, in luoghi deserti.
Così, il Messia si carica di tutte le infermità del popolo. Egli, inoltre, muore fuori dalla porta
della città come un maledetto o un lebbroso, portando l’ignominia (cf. Eb 13,13).

Messia ben Yoseph


Il Talmud contiene alcuni riferimenti a un «messia figlio di Giuseppe» (mashiah ben
Yoseph), mentre tale personaggio messianico è denominato nel Targum «messia figlio di
Efraim» e nella letteratura midrashica «messia di Efraim» o «messia guerriero». Un testo
talmudico contenuto nel trattato Sukkah fa chiaro riferimento alla morte di tale «messia figlio
di Giuseppe». Si tratta di una discussione tra rabbini su Zc 12,9-10, in cui si profetizza un
misterioso pianto per la morte di un primogenito:

Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di
grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto
come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito.

Per questo misterioso personaggio, che in qualche modo s’identifica con Dio stesso
(«guarderanno a me» ed è Dio che sta parlando, cf. Zc 12,1), si farà lutto come per un figlio
«unico» (yahid in ebraico), un «unigenito» (monogenēs, in greco). Com’è interpretato tale
passo nella tradizione ebraica? Nel Talmud i rabbini si domandano: «Qual è la causa del
pianto in questo versetto (Zc 12,10)?». La risposta non è unanime:

Rabbi Dosa e altri rabbini non sono d’accordo riguardo a ciò. L’uno disse: «Per il
messia figlio di Giuseppe che è stato ucciso». L’altro disse: «Per la cattiva inclinazione
che è stata uccisa». Ha ragione, tuttavia, chi ha detto: «Per il messia figlio di Giuseppe
che è stato ucciso». Poiché sta scritto: Guarderanno a me, colui che hanno trafitto e
lo piangeranno come un figlio unico (Zc 12,10). Perché dovrebbero piangere se si
trattasse della morte della cattiva inclinazione che è stata uccisa? Questo sarebbe motivo
di gioia e non di pianto.80

Questo testo testimonia la credenza in un messia discendente di Giuseppe e per di più

79
Cf. le varie affermazioni sul senso della sofferenza attribuite a questo rabbino in b.BM 85a.
80
b.Suk 52a.
afferma che tale messia sarà ucciso; inoltre, abbiamo qui una chiara testimonianza di come il
personaggio trafitto in Zc 12,10 sia intepretato in chiave messianica; infine, l’opinione di
Rabbi Dosa, oggetto di discussione, è accolta come quella ufficiale. Con tutta probabilità,
essa è da attribuire a Rabbi Dosa ben Harkinas, morto pochi anni dopo la distrazione del
tempio81. Egli afferma che la causa del lutto è la morte del messia ben Yoseph, «figlio di
Giuseppe». Dopo aver menzionato un’opinione discordante, il Talmud propende per
l’interpretazione messianica del versetto. Sembra che la designazione «figlio di Giuseppe»
riferita al Messia possa derivare da Abd 18: «La casa di Giacobbe sarà un fuoco e la casa di
Giuseppe una fiamma»82.
Un testo contenuto nella Tosefta («aggiunta») al Targum di Zaccaria presenta la figura di
un messia figlio di Èfraim nella battaglia escatologica. Il messia sofferente o che va incontro
alla morte è denominato, nei testi che citiamo, «figlio di Giuseppe» o «figlio di Efraim»: in
ogni caso, egli è discendente di Giuseppe, giacché Èfraim è il figlio eletto di Giuseppe (cf.
Gen 48,17-20). Secondo il testo targumico, il messia va incontro alla morte. Gog lo uccide
alle porte di Gerusalemme ed è trafitto dai pagani fuori della città! Ecco il testo completo:

Effonderò sopra la casa di Davide e gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di profezia e
la preghiera di giustizia e dopo ciò il messia, figlio di Efraim, salirà a ingaggiare
battaglia contro Gog. Ma Gog lo ucciderà alle porte di Gerusalemme. E verranno,
impazziti, a me e mi domanderanno perché i pagani hanno trafitto il messia figlio di
Efraim. E piangeranno sopra di lui come il padre e la madre piangono per il figlio unico
e faranno lutto come si fa lutto sul primogenito.83

La profezia di Zaccaria è qui interpretata alla luce di Ger 31,9:

Erano partiti nel pianto (bivkhi), io li riporterò tra le consolazioni (uvetahanunim); li


condurrò a fiumi ricchi d’acqua per una strada dritta in cui non inciamperanno, perché
io sono un padre per Israele, Èfraim è il mio primogenito (bekhori).

L’accostamento dei due testi è operato secondo il principio rabbinico della gezarah
shawah, metodo in base al quale s’interpreta un testo alla luce di un altro in cui ricorrono uno
o più termini identici. In Ger 31,9 compare, come in Zc 12,10, sia il termine tahanunim
(«consolazioni»), sia il termine bekhor («primogenito»), mentre in entrambi i testi si fa
riferimento al pianto. Poiché in Ger 31,9 il «primogenito» è Efraim, i rabbini ne deducono
che anche nella profezia di Zaccaria il primogenito ucciso sarà Efraim, figlio di Giuseppe, o
un suo discendente84.
Nel testo targumico, il messia va incontro alla morte ed è ucciso da una figura enigmatica
denominata «Gog». In Ezechiele 38-39, Gog, figlio di Magog, è il nemico di Israele nella
battaglia escatologica finale. Nella tradizione ebraica, Gog è chiaramente identificato con
Roma. Secondo il Targum menzionato sopra, quindi, il messia è trafitto dai Romani alle porte
della città85.

81
Alcuni la attribuiscono a un altro Rabbi Dosa, vissuto secoli dopo; che si tratti, tuttavia, del Rabbi Dosa più
antico e noto è testimoniato dal fatto che sia menzionato, come altrove, senza patronimico (si veda m.Ed 3,3;
m.Hul 11,2).
82
Si veda, in proposito, b.BB 123b, ove si afferma, riferendosi a questo testo, che Giacobbe aveva precisato che
la discendenza di Esaù sarebbe stata consegnata alla discendenza di Giuseppe.
83
Tosefta a TgZc 12,10. Il corsivo nel testo indica le aggiunte o le parafrasi rispetto al testo originale ebraico (in
tondo). Il testo è contenuto nel margine del Codex Reuchlinianus: vedi A. SPERBER, The Bible in Aramaic, III,
495.
84
Il legame fra il termine «primogenito» e il personaggio di Èfraim è chiaro anche in Gen 48,14ss e Dt 33,17. In
quest’ultimo testo, in particolare, Èfraim è relazionato al primogenito del toro e quindi alle coma, che sono un
noto simbolo messianico; non a caso, in TgDt 33,17 s’inserisce una tradizione sul figlio di Èfraim.
85
Cf. l’ubicazione del Golgota all’epoca di Gesù.
È del tutto improbabile che l’interpretazione messianica contenuta nel testo sopra
menzionato sia nata in epoca cristiana; introdurre la tradizione di un messia figlio di Èfraim o
di Giuseppe (e quindi con chiaro riferimento a Giosuè, stesso nome di Gesù!), trafitto alle
porte di Gerusalemme, avrebbe dato adito a interpretazioni cristologiche. È invece plausibile
che la tradizione, già nota all’epoca del secondo tempio, sia stata corretta, censurata o
accantonata.

Messia tra i malati alle porte di Roma


Secondo un testo del Talmud, contenuto nel trattato Sanhedrin, il Messia si trova
addirittura tra i lebbrosi alle periferie di Roma. Il testo narra che un giorno Rabbi Yehoshua‘
ben Levi ebbe una visione del profeta Elia che stava all’entrata della grotta di Rabbi Shim‘on
ben Yohai. Il rabbino ebbe un dialogo con Elia circa il tempo della venuta del messia e i
segni per riconoscerlo:

Gli chiese: «Quando verrà il Messia?».


Rispose: «Va’ a chiederglielo!».
«E dove abita?».
«Alle porte della città di Roma».
«E quali sono i segni per riconoscerlo?»
«Siede fra i poveri che soffrono infermità: mentre, però, tutti questi si tolgono e si
rimettono le bende tutte in una volta, egli si toglie le bende e se le rimette una alla volta,
poiché pensa: “Forse avranno bisogno di me, cosicché non ritardi!’’».86
Degno di nota è il fatto che la prima domanda di Rabbi Yehoshua‘ è la stessa che i primi
discepoli rivolgono proprio al Messia: «Rabbì, dove abiti?» (Gv 1,38). La venuta del messia,
inoltre, è indicata da Elia, che nella tradizione ebraica è il suo precursore. Questa tradizione si
era affermata già almeno all’epoca di Gesù, come testimonia anche il Nuovo Testamento:

Allora i discepoli gli domandarono: «Perché dunque gli scribi dicono che prima deve
venire Elia?». Ed egli (Gesù) rispose: «Si, verrà Elia e ristabilirà ogni cosa. Ma io vi
dico: Elia è già venuto e non l’hanno riconosciuto; anzi, hanno fatto di lui quello che
hanno voluto. Così anche il Figlio dell’uomo dovrà soffrire per opera loro». Allora i
discepoli compresero che egli parlava loro di Giovanni il Battista (Mt 17,10-13).

Non conosciamo l’antichità della tradizione contenuta nel testo talmudico citato. Il
Talmud è stato redatto fra il terzo e quarto secolo d.C., benché contenga tradizioni ben più
antiche e risalenti, in alcuni casi, almeno all’epoca di Gesù. Bisogna notare, tuttavia, che
alcuni testi, ancora più tardivi, non sono meno impressionanti.
Secondo il testo riportato sopra, il messia vive alle periferie di Roma, tra gli ultimi e tra i
malati, forse i lebbrosi, dato il riferimento alle bende. A differenza di questi, tuttavia, il
messia scioglie le bende e se le rimette una a una, per essere pronto in ogni momento: Dio,
infatti, lo può chiamare ad ogni istante affinché porti la redenzione al mondo senza tardare. Il
messia si trova quindi fra i malati, al centro dell’impero ma in periferia, alle sue porte: è
nascosto, ignorato, disprezzato, malato e piagato!

Il giogo del messia


Il Midrash (il verbo ebraico darash significa «cercare, investigare, scrutare») è un
commentario alla Scrittura, che ne ricerca il suo senso profondo, al di là di quello ovvio. Nel
Midrash Yalqut Shim‘oni su Isaia si trova un dialogo tra il Signore e il suo messia. Dio si
rivolge a lui con le seguenti parole:

86
b.San 98a.
Coloro le cui iniquità sono sepolte con te sono destinati a sottometterti con un giogo di
ferro e ti ridurranno come un vitello i cui occhi sono accecati e soffocheranno il tuo
spirito sotto il giogo; a causa dei loro peccati, la tua lingua si attaccherà al palato. È
questo ciò che desideri?

Il messia risponde a Dio: «Re dell’universo, io accetto tutto questo con gioia su di me,
affinché nessun ebreo vada perduto!»87. Secondo tale midrash, il messia, offrendosi
liberamente alla sua passione, prende su di sé il giogo e accetta di essere disprezzato per la
salvezza del popolo, «affinché nessun ebreo vada perduto». Tra l’altro, è davvero
sorprendente la somiglianza di tale espressione con le parole di Gesù nel vangelo di
Giovanni, nella sua preghiera sacerdotale finale, pronunciata appena prima della sua
passione:

Quand’ero con loro, io li custodivo nel tuo nome, quello che mi hai dato, e li ho
conservati, e nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione,
perché si compisse la Scrittura (Gv 17,12; cors. nostro).

Un testo contenuto nello Zohar, da noi già riportato sopra, presenta il messia come uno
che prende su di sé i dolori e i castighi del popolo:

Nel giardino dell’Eden vi è un palazzo, chiamato «palazzo dei figli della malattia». Il
messia entra in quel palazzo e prende su di sé tutti i dolori e i castighi d’Israele: essi
vengono e si posano sopra di lui. Egli li alleggerì portandoli su di sé, perché non vi era
nessuno capace di sopportare i castighi d’Israele per le trasgressioni della Torah, com’è
scritto: Egli si è caricato delle nostre malattie.88

Abbiamo tradotto il testo aramaico in modo letterale, per poterne «gustare», per quanto
possibile, le espressioni originali. Tra esse, «figli della malattia» è un semitismo per dare
enfasi sul loro stato di infermi: «figlio di» nelle lingue semitiche è un modo di esprimere
qualcosa di essenziale, che fa parte della propria natura, determinata, appunto, dal «padre». Il
messia non solo è un malato, come nei testi citati sopra, ma si carica anche delle infermità e
del castigo del popolo per i peccati e le trasgressioni della Legge.

La morte del messia


Abbiamo commentato sopra il testo della Tosefta del Targum a Zc 12,10 sul messia figlio
di Giuseppe, trafitto dai pagani. Altri testi, benché assai tardivi, menzionano in modo
esplicito non solo le sofferenze del messia, ma anche la sua morte. Il primo è contenuto nel
Midrash noto sotto il nome di Nistarot («misteri, segreti di») R. Shimon ben Yohay:

(Armilao) salirà a Gerusalemme e attaccherà battaglia contro il messia, figlio di Èfraim


e d’Israele, presso la porta orientale, com’è detto: Guarderanno a me, colui che
hanno trafitto (...) e morirà là il messia figlio di Èfraim e Israele farà il lamento su di
lui. E dopo ciò, il Santo - benedetto egli sia - rivelerà loro il messia figlio di Davide e
d’Israele, ma lo vorranno lapidare dicendo: «Tu hai detto falsità, poiché già il messia è
stato ucciso e non c’è altro messia che sorgerà dopo di lui». E lo disprezzeranno com’è
detto: Disprezzato e reietto degli uomini. Ma egli si volterà e si nasconderà da loro,
com’è detto: come uno che copriva la sua faccia da noi.89

87
YalqSh su Isaia, remez 499.
88
Zohar II, 212a.
89
Dopo molte ricerche ho potuto accedere al testo originale che ho tradotto qui e che si può trovare in A.
JELLINEK, Bet ha-Midrasch, III, 80.
La tradizione relativa alla morte del messia è presente anche nella liturgia ebraica. In un
piyyut (poema liturgico ebraico), intitolato ’az millifney bere’shit, attribuito a Eleazar ben
Killir (570-640 d.C.) e contenuto nel Musaf (preghiera aggiuntiva) dello Yom Kippur, si
recita:

Il messia, nostra giustizia, è andato via da noi, ci ha preso il terrore e non vi è chi ci
giustifichi. Egli ha portato le nostre iniquità e il giogo delle nostre colpe; è stato ferito
per la nostra colpa, ha portato sulla sua spalla i nostri peccati: possa egli trovare perdono
per le nostre iniquità! Saremo guariti dalle sue ferite al tempo in cui l’Eterno farà di lui
una creatura nuova. Fallo salire dal centro della terra, innalzalo da Seir per radunarci
una seconda volta sul monte Libano!90

Questa preghiera ebraica sembra alludere al fatto che il messia sia morto o almeno ferito e
abbia nascosto il suo volto dal popolo. Quest’ultimo sarà giustificato e guarito dal messia.
Dio farà di costui una creatura nuova (un’allusione alla sua risurrezione dalla morte?).
Nella preghiera s’invoca con ardente anelito la venuta del messia, affinché egli raduni gli
Israeliti al «monte Libano», nome per indicare il monte del tempio di Gerusalemme: in
ebraico il nome «Libano» (levanon) è legato al termine lavan, «bianco», e tale appellativo era
dovuto al fatto che il secondo tempio era stato edificato con enormi pietre di splendente
biancore91. Si trattava di qualcosa di simile al «miracolo» della neve sui monti del Libano, sul
monte Hermon: nel tempio avveniva il perdono dei peccati e Israele tornava al candore della
neve.

Le orme del messia


Nella tradizione ebraica, si trova l’espressione caratteristica ‘iqvot ha-mashiah che può
essere tradotta come le «orme del messia» o i «passi del messia».
Nelle versione targumiche palestinesi e nel Targum Pseudo-Jonathan a Gen 49,1,
Giacobbe e i suoi figli desiderano conoscere i tempi del messia, ma non è loro concesso. Il
Targum Pseudo-Jonathan dice esplicitamente che il tempo del re messia che deve venire è
segreto ed è rimasto occulto a Giacobbe. Questo è del resto un tema ricorrente in tutta la
letteratura ebraica e nel Nuovo Testamento. Anche il Targum Frammentario (ms. P) a Gen
49,1 ha un riferimento esplicito al messia: s’inserisce l’espressione, sopra menzionata, «le
orme del messia».
Il tempo occulto della venuta del messia costituisce una concezione diffusa nella
letteratura ebraica antica, in particolare nei testi apocalittici92. È proibito rivelare o calcolare il
tempo fissato della redenzione messia- nica93. Il tempo del messia è, infatti, un segreto
riservato solo a Dio94. Benché possa esser vero che, dopo le delusioni seguite alla seconda
rivolta giudaica, tale concezione si sia potuta rafforzare, questa risale tuttavia all’epoca del
secondo tempio, giacché si riscontra anche nei testi del mar Morto e nel Nuovo Testamento95.

90
Traduzione dal testo ebraico riportato in P. LYDA, Siddur Yad kol bo, Musaf leYom Kippur 24.
91
Per di più tale titolo aveva un legame con la liturgia, giacché proprio nel tempio, durante lo Yom Kippur, i
peccati d’Israele erano perdonati e ciò era visto come un adempimento della profezia contenuta in Is 1,18:
«Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve»; cf. SifDev 1,7; b.Yom 39b.
92
Cf, ad es., 1QpHab VII,2; b.Pes 54b; b.San 97b; TgCt 7,13-14; TgQo 7,24-25; Mt 24,23; At 1,6-7; 1Ts 5,1ss;
1Pt 1,5,10-11; Ap 3,3; 16,15.
93
Cf b.Pes 56a; b.Meg 3a; b.San 97b.
94
Così recita TgQo 7,24: «È lontano dall’uomo il conoscere tutto ciò che fu dal giorno eterno, sia il segreto del
giorno della morte, sia il segreto del giorno in cui verrà il re messia»; cf. anche b.Pes 54b.
95
Per i testi del Mar Morto, cf., ad es., 1QpHab VII,1-2: «Dio disse ad Abacuc di scrivere le cose che stavano
per sopraggiungere sull’ultima generazione, ma la fine del tempo non gliela manifestò». In seguito (VII,4-5),
tuttavia, si afferma che tale mistero è conosciuto dal Maestro di Giustizia, al quale sono stati rivelati tutti i
misteri delle parole dei profeti.
In At 1,6-7 Gesù afferma chiaramente ai suoi discepoli che non spetta a loro conoscere i
tempi e i momenti della redenzione messianica definitiva, riservati solamente a Dio.
Secondo la tradizione ebraica antica, pertanto, non si può conoscere con esattezza il
tempo della venuta del messia, giacché è un segreto riservato a Dio e nascosto all’uomo.
Nonostante ciò, si può intuire o riconoscere la sua venuta in base alle sue «orme», ai suoi
segni. Secondo la Mishnà, redatta prima del 217 d.C., nel trattato Sota', le «orme del messia»
sono le tribolazioni che precederanno la sua rivelazione, altrove denominate «doglie del
parto»:

Nelle orme del messia (be‘iqvot ha-mashiah; ovvero quando egli sarà vicino, ndr),
l’insolenza crescerà, la carestia raggiungerà il culmine: la vite darà il suo frutto, ma il
vino sarà caro. Il regno passerà all’eresia e non ci sarà nessuno che rimproveri. La
sinagoga si convertirà in casa di prostituzione. La Galilea sarà devastata e Gablan
desolata. La sapienza degli scribi si corromperà, quelli che hanno timore del peccato
saranno disprezzati, la verità sarà assente. I giovani lasceranno lividi gli anziani, gli
anziani dovranno servire i minori. Il figlio disonorerà il padre, la figlia si alzerà
contro sua madre, la nuora contro la suocera, i nemici saranno i propri
familiari (Mi 7,6). Il volto di questa generazione sarà come il muso di un cane. Il figlio
non avrà vergogna del padre. In chi troveremo appoggio? Nel Padre nostro che è nei
cieli.96

Il detto è attribuito a Rabbi Eliezer figlio di Hurkanus, denominato anche Eliezer il


Grande, che appartiene alla seconda generazione tannaita (70-135 d.C.). Le sofferenze del
popolo per la distruzione del Tempio, profetizzate in Mi 7,6, sono il preludio dell’avvento del
messia. Nel testo mishnaico si usa addirittura un’espressione parallela a quella usata da Gesù:
«Padre nostro nei cieli». Nel seguito di questo testo si elencano sette mali che verranno sulla
terra nei sette anni precedenti alla venuta del messia.
Vi è una certa indecisione tra i rabbini sulla questione se il messia verrà in una
generazione totalmente virtuosa, che lo abbia meritato o comunque sia preparata, oppure in
una generazione totalmente perversa. Così si dichiara nel Talmud:

Disse Rabbi Yohanan: «Il figlio di Davide verrà solo in una generazione totalmente
giusta o totalmente peccatrice; totalmente giusta, come sta scritto: Il tuo popolo sarà
tutto di giusti, per sempre avranno in eredità la terra (Is 60,21); totalmente
peccatrice, come sta scritto: Egli ha visto che non c’era nessuno, si è meravigliato
perché nessuno intercedeva (Is 59,16) e come sta scritto: Per riguardo a me, per
riguardo a me lo faccio (Is 48,15)».97

Riguardo alle sofferenze che precederanno la venuta del messia, vale la pena riportare un
altro testo contenuto nel Talmud, che riporta la seguente opinione di Rabbi Yitshaq riguardo
alla generazione che vedrà la venuta del messia figlio di Davide:

Nella generazione in cui verrà il figlio di Davide, vi saranno meno eruditi e gli occhi
degli altri si spegneranno per la tribolazione e l’afflizione. Vi sarà un nuovo precipitare
di sofferenze e disposizioni perverse: ogni nuovo male verrà immediatamente, prima
che abbia fine il precedente.98

Dopo ciò, si elencano i sette mali che verranno sulla terra, sette anni prima della venuta
del messia. Nel seguito del testo talmudico, Rabbi Alexandri riporta la seguente

96
m.Sot 9,15.
97
b.San 98a.
98
b.San 97a.
contraddizione che Rabbi Yehoshua‘ figlio di Levi notò nelle due presentazioni del messia e
della sua venuta: trionfante, da una parte e umile, dall’altra. La contraddizione è così risolta:

Sta scritto: Ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo (Dn 7,13); e
sta scritto: Umile e cavalcante un asino (Zc 9,9). Se lo avranno meritato, sarà con le
nubi del cielo, se non lo avranno meritato, sarà umile e cavalcante un asino.99

Non possiamo non rimanere impressionati rileggendo questi testi sui quali ancora oggi
poggiano la fede ebraica e la sua speranza messianica. Notiamo, infine, che in Gesù Cristo, la
contraddizione è risolta: la sua prima venuta è stata umile e sofferente, proprio perché
nessuno lo meritava; la seconda sarà trionfante, sulle nubi del cielo.
I passi del messia coincidono, pertanto, con le sofferenze materiali e morali che
precedono la sua venuta, denominate anche nella tradizione «doglie del parto», un’immagine
già usata dai profeti100, da Gesù stesso (Gv 16,21) e da S. Paolo (Rm 8,22). Nel Midrash
Cantico dei Cantici Rabbah si riporta un detto di Rabbi Hanna:

Quando vedi una generazione dopo l’altra insultare e bestemmiare Dio, cerca le orme
del re messia, com’è detto: (le ingiurie) con le quali i tuoi nemici insultano,
insultano i passi del tuo consacrato (‘iqvot meshihekha) (Sal 89,52).101

Nel testo biblico citato (Sal 89,52) si trova l’origine dell’espressione «passi del messia»
(‘iqvot ha-mashiah) nonché la base dell’interpretazione midrashica: i nemici insultano i passi
(‘iqvot) del messia di Dio (il termine mashiah significa «unto, consacrato, messia»), per cui,
proprio quando si vedrà insultare Dio, si devono cercare le orme del re messia, perché egli è
vicino. In altre parole, solo quando Israele «toccherà il fondo» arriverà la redenzione. Questa,
del resto, è un’esperienza che molti credenti hanno fatto. Il Midrash ai Salmi riporta il
seguente dialogo tra Dio e il suo popolo: «Israele disse davanti al Santo, benedetto egli sia:
“Signore dei secoli, quando ci redimerai?”. Ed egli disse loro: “Quando sarete discesi al
punto più basso, in quell’ora vi redimerò”».102

Yehoshua‘ e Yeshua‘, figli di Giuseppe


In diversi testi rabbinici, tra i quali abbiamo citato solo alcuni fra i più rappresentativi,
ricorre la tradizione relativa al messia figlio di Èfraim o figlio di Giuseppe. Tale messia
proviene dalla discendenza di Giuseppe e di Èfraim, figlio eletto di Giuseppe. Ciò che gli
studiosi di queste tradizioni non hanno colto è che il figlio più famoso della discendenza di
Giuseppe e di Èfraim è Giosuè, discepolo fedele di Mosè e suo discendente, guerriero e
condottiero di Israele: egli lo ha fatto entrare nella terra promessa e ha conquistato le sue
città. In ebraico, il nome Yehoshua‘ (Giosuè) significa «il Signore salva», mentre Yeshua‘
(Gesù) è il suo corrispettivo aramaico. Il greco Iēsous, pertanto, traduce entrambi i nomi,
indica cioè sia Giosuè che Gesù. Al di là del medesimo nome, fra i due vi è una stretta
relazione alla quale raramente si dona l’importanza che merita.
Nella tradizione ebraica, il messia figlio di Giuseppe o di Èfraim è, come il più noto
discendente delle omonime tribù, un guerriero, destinato a intraprendere la battaglia finale
contro Gog (Roma) e a liberare Israele. Sarà, quindi, un messia vittorioso, che tuttavia, come
si afferma nel passo della Tosefta al Targum di Zaccaria sopra citato, sarà ucciso in battaglia:
il messia è il personaggio trafitto descritto in Zaccaria al quale tutti guarderanno. Le sue
sofferenze saranno salvifiche per il popolo.
99
b.San 98a.
100
Cf., ad es., Is 13,8; 66,9; Ger 4,31; 6,24; 30,6; 48,41; 49,24; 50,43; Mi 4,9-10.
101
ShirR 2,13.
102
MTeh 45,2.
Alcuni testi alquanto marginali, ma comunque contenuti nel Talmud e nel Targum,
presentano un messia trafitto dai Romani alle porte di Gerusalemme chiamato «figlio di
Èfraim» o «figlio di Giuseppe» (che può essere associato quindi a Giosuè come più illustre
figlio di quella discendenza). Notiamo in margine che varie volte nei vangeli ci si riferisce a
Gesù come «il figlio di Giuseppe» (cf. Lc 4,22; Gv 1,45; 6,42).
La domanda che ci poniamo ora è la seguente: posto che i testi targumici e talmudici sono
di alcune centinaia di anni posteriori all’epoca di Gesù, benché possano contenere tradizioni
molto antiche, a che periodo risale la tradizione sul messia trafitto figlio di Giuseppe o
Èfraim? La maggioranza degli studiosi, specialmente fra gli ebrei, sostiene che essa è
posteriore al 70 d.C. e che quindi non fosse ancora sorta ai tempi di Gesù. Il grande studioso
ebreo J. Heinemann, ad esempio, è convinto che la tradizione sul messia figlio di
Giuseppe/Èfraim sia nata dopo il 135 d.C. a seguito del fallimento di Bar Kokhba, che Rabbi
Aqiva aveva riconosciuto come messia, ma fu ucciso nella seconda rivolta giudaica103.
Come specialista delle datazioni delle tradizioni contenute nella letteratura ebraica, non
nascondo tuttavia forti perplessità sulla teoria di Heinemann. Anzitutto, vi sono chiari indizi
che le tradizioni contenute nei testi relativi al messia sofferente e a quello trafitto figlio di
Giu- seppe/Èfraim possono essere molto antiche. Ovviamente la dimostrazione non può
essere fatta in questa sede. Uno studio approfondito mostra che alcune tradizioni circa il
messia sofferente, benché nettamente marginali rispetto a quelle sul messia trionfante e figlio
di Davide, costituiscono una sorta di «reliquia».
A parte le dimostrazioni sulla base dei testi, da fornire in altre sedi, la ragione per cui la
datazione di Heinemann non convince è la seguente. È difficile immaginare che dopo il 135
d.C., proprio in un’epoca di così grande polemica con i cristiani, i rabbini abbiano dato
origine ex novo a una figura di messia sofferente o morto alle porte di Gerusalemme, ucciso
dai pagani, e per di più chiamato ben Yoseph, «figlio di Giuseppe», con un doppio riferimento
al Giosuè dell’Antico Testamento, di cui Gesù portava il nome, e al padre putativo di Gesù,
menzionato nei vangeli. Per di più, i cristiani avevano messo molto presto Gesù in rapporto a
Giuseppe: ambedue erano stati venduti dai loro fratelli per salvare il popolo. Ciò avrebbe
significato offrire «su un piatto di argento» argomenti ai cristiani per dimostrare agli ebrei
che tale messia, che essi non hanno riconosciuto a suo tempo, fosse proprio Gesù di Nazaret!
Per lo stesso motivo, è illogico pensare che gli ebrei abbiano modellato tale tradizione in base
al Gesù dei vangeli. A nostro parere, di conseguenza, le tradizioni sul messia figlio di
Giuseppe/Èfraim possono risalire all’epoca del secondo tempio, benché si attendesse
prevalentemente, come abbiamo visto, un messia trionfante.
Nella tradizione non mancano testi che fanno riferimento alle sofferenze che dovevano
precedere i tempi messianici e a quelle che il messia stesso doveva subire. Tutto ciò ha come
base l’Antico Testamento. I testi biblici principali sono quelli relativi ai padri d’Israele come
Abramo, il quale ha dovuto soffrire molte prove, dieci secondo la tradizione ebraica, tra cui la
più grande fu la ri- chiesta, da parte di Dio, del sacrifìcio di suo figlio Isacco, il quale,
secondo una tradizione risalente all’epoca di Gesù (la famosa Aqedà, «legatura» di Isacco), si
offre al padre e si fa legare sull’altare nel luogo del futuro tempio; e poi Giacobbe, esule a
causa del fratello ma consolato da Dio; Giuseppe, rifiutato e venduto dai fratelli ma esaltato
da Dio; Mosè, solidale con le sofferenze del popolo; il Servo sofferente di Isaia 53; Geremia,
profeta sofferente; il figlio unico trafitto profetizzato da Zaccaria; Giobbe, il giusto
sofferente; e molti altri, fra cui non si può trascurare lo stesso popolo d’Israele, vittima di
innumerevoli sofferenze in Egitto, nell’esilio in Babilonia e sotto Antioco Epifane IV. Gesù
Cristo, infine, come Messia e compimento di tutta la storia di salvezza, doveva vivere nella
sua stessa persona la sofferenza dei suoi padri e del popolo.

Cf. J. HEINEMANN, «The Messiah of Ephraim», 1-15; l’opinione è oggi largamente diffusa, come afferma
103

D.C. MITCHELL, «The Fourth Deliverer», 3, che tuttavia fornisce seri argomenti in contra.
Nell’Antico Testamento, Dio scende nel roveto di spine per liberare il popolo. I rabbini si
sono chiesti: «Perché Dio è sceso nel roveto ardente?». Fra le varie risposte che hanno dato,
essi spiegano che, come il popolo si trovò tra le spine della sofferenza, così Dio vi dovette
entrare per essere solidale, in qualche modo, con le sue sofferenze104. Il nostro Dio non è
indifferente dinanzi alle nostre spine, angosce, schiavitù: egli è un Dio che condivide ed entra
nella nostra sofferenza. Tutto ciò si è compiuto mirabilmente in colui che i cristiani hanno
riconosciuto come Messia. Nella passione il suo capo è stato coronato di spine: egli è entrato
nel roveto ardente della sofferenza senza consumarsi, perché lo attendeva la risurrezione.
Tale discesa nel roveto, tuttavia, ha inizio già nella sua incarnazione, quando Gesù entra in un
popolo con le sue sofferenze concrete, in un momento preciso della storia, nelle pieghe e
nelle piaghe dell’umanità.

104
Cf. BerR 2,5.
6

NÀZARET, IL GERMOGLIO DELLA SALVEZZA

Piccola e insignificante
La Santa Famiglia di Nàzaret proviene da una storia «piena di spine». La stessa storia del
clan di Gesù e del villaggio di Nàzaret, laddove è fiorito il germoglio (in ebraico netser da cui
Natseret, «Nàzaret») della nostra salvezza, è una storia assai sofferta.
Ai tempi di Gesù, Nàzaret era un villaggio insignificante e ai margini dell’impero
romano. Natanaele di Cana di Galilea a buon diritto affermò: «Da Nàzaret può venire
qualcosa di buono?» (Gv 1,46). Gli scavi archeologici hanno confermato che, all’epoca del
secondo tempio, Nàzaret era solo un piccolo villaggio con poche centinaia di abitanti
(probabilmente fra i 100 e i 700), a differenza di due importanti città distanti solo pochi
chilometri: Yafa e Sefforis. La prima è citata varie volte da Giuseppe Flavio. Costui afferma
che essa era «la più grande città della Galilea»105, dove vi era una fortezza, sede delle truppe
romane. Lo storico ebreo, al contrario, nelle sue opere non cita mai Nàzaret, tanto che alcuni
ne hanno perfino negato l’esistenza.
Un’altra città di grande importanza, a circa sei chilometri dal villaggio di Nàzaret, era
Sefforis. Quando, nel 4 a.C., Erode il Grande (il re della strage degli innocenti) morì, Sefforis
diventò il centro politico di una delle tre tetrarchie che era sotto il potere di uno dei suoi figli,
Erode Antipa, sovrano di una parte della Galilea ai tempi di Gesù. Erode fece di Sefforis la
sua capitale e la chiamò Autocratoris, cioè «residenza regale»106. Poco prima di essere presa
in mano dal sovrano, Sefforis fu occupata dagli zeloti, e Varo, governatore romano della
Siria, fu costretto a inviare l’esercito romano a sedare la rivolta e a occupare la città, che fu
incendiata e i suoi abitanti venduti come schiavi107.
Vale la pena visitare i resti archeologici della città di Sefforis. Questa, a detta di Giuseppe
Flavio che la cita più di quaranta volte nelle sue opere, era una delle più grandi e forti città
della Galilea108. L’importanza e la magnificenza di tale città, che il Flavio denomina
«ornamento della Galilea»109, mette in risalto l’umiltà di Nàzaret. Gesù Cristo entra in tale
umiltà e, se così si può dire, «insignificanza» di Nàzaret, e, cosa ancor più stupefacente,
nell’umiltà e nella piccolezza del grembo di una donna entra Dio stesso, che i cieli dei cieli
non possono contenere.

Segnata dalla sofferenza


A quei tempi non solo Nàzaret era piccola e umile, ma anche segnata dalla sofferenza,
giacché, a pochi chilometri da essa, a Sefforis, come detto, era cominciata la ri- volta degli
zeloti. Nei dintorni di Nàzaret, pertanto, l’ambiente all’epoca di Gesù era in grande
ebollizione a causa della ribellione verso il potere romano oppressore. Vari testi di Giuseppe
Flavio, alcuni dei quali sono stati da noi citati quando abbiamo trattato delle concezioni
messianiche presso gli zeloti, testimoniano il sorgere di numerosi capi zeloti, che, alla testa di
ebrei rivoluzionari fedeli alla Torah, così come i maccabei a loro tempo contro i pagani,

105
GIUSEPPE FLAVIO, Vita 230; cf. anche ID., Bell 2,573; 4,289; Vita 188; 233; 270.
106
GIUSEPPE FLAVIO, Ant 18,27.
107
Cf. GIUSEPPE FLAVIO, Ant 17,288-289; Bell 2,68.
108
Si veda GIUSEPPE FLAVIO, Bell 2,511; 3,34; Vita 123; 232.
109
GIUSEPPE FLAVIO, Ant 18,27.
tentarono delle rivolte contro Roma.
In questo contesto sono da collocare le concezioni sul messia politico tanto di moda in
Galilea ai tempi di Gesù (e ancora oggi in varie parti del mondo!), dalle quali egli si è dovuto
distanziare. Per tale ragione, nel vangelo di Marco, Gesù ingiunge ai miracolati e agli apostoli
il cosiddetto «segreto messianico», vale a dire la proibizione di rivelare la sua identità
messianica110. Dinanzi all’idea diffusa, intorno a Nàzaret e in Galilea, di un messia guerriero,
trionfante e liberatore, Gesù aveva timore che fosse fraintesa la sua identità e missione.
Su tale sfondo va collocata la bellezza della mitezza di Cristo dinanzi ai potenti del suo
tempo. Si può anche arguire che i ladroni crocifissi con lui fossero degli zeloti, dei
rivoluzionari come Barabba: in croce, infatti, non finivano i ladri, bensì i rivoluzionari e i
terroristi. Nel vangelo, per di più, non si parla mai di «buon ladrone»: con tutta probabilità,
egli non era né buono né ladrone, ma un assassino. Egli certamente fu buono per la sua fede
in Cristo e non per le sue precedenti opere. Per essere stato condannato alla pena capitale
della croce, infatti, doveva aver fatto qualcosa di terribile.
Sopra abbiamo riportato quanto Giuseppe Flavio riferisce sullo zelota Giuda, figlio di
Ezechia. Costui, nella città di Sefforis, dopo aver raccolto un gruppo di disperati, attaccò la
residenza regale e cominciò a seminare il terrore, ambendo a onori regali, cioè a essere
proclamato re messia111. Ciò avvenne a pochi chilometri da Nàzaret e negli stessi anni in cui
nasceva Gesù, per cui è impossibile che egli da bambino non avesse ascoltato i racconti di
tale rivolta zelota contro i Romani. Non è da trascurare, poi, che i discepoli di tali
rivoluzionari provenissero da ambienti poveri, come nel caso della rivolta di Giuda, né che
quest’ultimo aspirasse alla regalità. Non è un concetto da cui i discepoli di Gesù sono così
lontani: anche Gesù ha raccolto i suoi discepoli prevalentemente dalla Galilea e perfino dagli
zeloti.
Nàzaret, quindi, era un villaggio sofferente a causa dell’oppressione romana. Nonostante
ciò, Gesù ha scelto una via radicalmente diversa da quella degli zeloti e indubbiamente molto
più rivoluzionaria: l’amore ai nemici e la non resistenza al malvagio.
L’ambiente in cui ha vissuto la Santa Famiglia di Nàzaret non fu molto diverso da quelli
che oggi vedono rifiorire una teologia della liberazione e della rivoluzione, a causa delle
oppressioni e delle ingiustizie inferte al popolo e ai poveri. Proprio per tale ragione, la parola
dell’amore ai nemici che Gesù proclamerà sul monte delle Beatitudini sarà una vera
rivoluzione: i nemici pagani, i Romani, erano ogni giorno davanti agli occhi degli ebrei.

Umiliata da tempi antichi


Nàzaret non era una città sofferente solo per l’occupazione romana che, ai tempi di Gesù,
gravava sempre più sul popolo ebraico. La sua storia era legata a un’antica e terribile
umiliazione.
Come hanno dimostrato gli scavi archeologici, l’antico insediamento di Nàzaret fu
abbandonato dal sesto al secondo secolo a.C. Questo «vuoto» è dovuto proprio alla sua storia
sofferta. Nel 734/33 a.C., il regno d’Israele, vale a dire il regno del nord che includeva anche
la Galilea, subisce l’invasione assira per opera di Tiglat-Pileser III. Moltissime città della
Galilea sono distrutte e una parte della popolazione è condotta in esilio. Più tardi, com’è noto,
anche la Giudea e Gerusalemme dovranno subire la stessa sorte, nel 586 per opera dei
Babilonesi.
La Santa Famiglia di Nàzaret conosceva la storia dei suoi antenati, umiliati con i loro
conterranei galilei e condotti in terra straniera, dalla quale prenderanno, fra l’altro, la lingua: i
loro discendenti torneranno secoli dopo parlando l’aramaico. Gesù aveva ascoltato i racconti
relativi ai suoi padri esiliati, per i quali la speranza sembrava estinta. A tale umiliazione fa
110
Cf., ad es., Mc 1,44; 5,43; 7,36; 8,26.30; 9,9.
111
Cf. GIUSEPPE FLAVIO, Ant 17,271-272.
riferimento il profeta Isaia quando dice: «In passato umiliò la terra di Zàbulon e la terra di
Nèftali, ma in futuro renderà gloriosa la via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti»
(Is 8,23). Nàzaret si trova proprio nel territorio della tribù di Zàbulon. La profezia continua
così: «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che
abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (9,1). Si annuncia, quindi, un futuro glorioso,
che include, come si evince dal seguito del libro di Isaia, il ritorno degli esiliati. E così
avvenne: dal secondo secolo a.C. Nàzaret risorse. Con tutta probabilità, in essa si stabilì un
clan di discendenza davidica, dalla quale doveva provenire il messia, secondo la profezia di
Natan a Davide in 2Sam 7. Giuseppe, infatti, era della tribù di Giuda, della famiglia di
Davide, e perciò in occasione del censimento va a farsi registrare a Betlemme (cf. Lc 2,4).
Per vari secoli, pertanto, il villaggio di Nàzaret fu abbandonato e dovette conoscere
l’oscurità e l’umiliazione della deportazione da parte dei nemici assiri. Costoro importarono
persino dei coloni dall’Assiria con i loro idoli e tentarono di estirpare le radici del tronco di
Iesse.
Tale albero, tuttavia, rifiorì miracolosamente. Dopo centinaia di anni accadde l’inatteso,
giacché è Dio che porta avanti la storia. Così, mentre all’inizio dell’epoca dei maccabei in
Galilea vi erano solo alcuni gruppi ebraici isolati, pochi anni dopo l’asmoneo Ircano,
discendente dei maccabei, nel 134 a.C. divenne re e avvenne il ritorno: vi fu un ingente
movimento di rimpatrio di ebrei da Babilonia e dalla Persia. Ecco il ritorno insperato
dall’esilio: il tronco di lesse, che sembrava morto, rifiorì.
Nàzaret era quindi un villaggio umiliato per la sua antica storia. Le sue radici erano state
tagliate via dalla terra. Esso era un villaggio insignificante, che aveva visto la tenebra
dell’esilio e del paganesimo, e che al tempo di Gesù riviveva la stessa tragedia per opera dei
pagani. Eppure, Nàzaret è anche il villaggio che vede il ritorno degli esiliati, che rifiorisce per
la potenza di Dio e che avrebbe visto la realizzazione della profezia di Isaia nei suoi confini:
«Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce» (Is 9,1). Non a caso,
Matteo rileva il compimento di tale profezia quando Gesù appare in Galilea, sulle rive del
lago (Mt 4,12-17). Gesù in Galilea è egli stesso questa luce dopo l’oscurità dell’esilio, è il
«germoglio che spunta dal tronco di lesse» (Is 11,1). Nàzaret, nella tribù di Zàbulon, è legata
non solo all’umiliazione più tenebrosa, ma anche alla luce del Messia, al riscatto e alla
redenzione per opera sua.

Germoglio che sorge


Una grande scoperta archeologica ha confermato l’esistenza storica di Nàzaret. Nel 1962,
durante gli scavi a Cesarea Marittima sul mar Mediterraneo, fu ritrovato il frammento di una
tavola marmorea in ebraico, che contiene una lista di famiglie sacerdotali che si erano
stabilite in Galilea nel periodo tardo romano. Tra esse si cita anche una famiglia di Nàzaret.
Sebbene tale iscrizione risalga probabilmente solo ai secoli II-IVo d.C., è degno d’interesse
che essa ci abbia fornito la grafia del nome del villaggio: Natseret. Tale grafia ci ha permesso
di stabilire la probabile etimologia del nome del villaggio. Essa è legata al termine ebraico
netser, «germoglio».
I nazaretani, pertanto, erano consapevoli del fatto che lo stesso nome del loro villaggio
faceva riferimento al «virgulto» di cui parlava la meravigliosa profezia di Isaia:

Un germoglio spunterà dal tronco di lesse, un virgulto (netser) germoglierà dalle sue
radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e d’intelligenza,
spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore (Is 11,1-
2).

Sulla base di alcuni testi dell’Antico Testamento, il germoglio diviene un’immagine del
messia. Oltre al testo menzionato di Isaia, ve ne sono altri che contengono il termine ebraico
tsemah, un altro modo per dire «germoglio». In Ger 23,5 si annuncia la venuta di un re
giusto, discendente di Davide, con queste parole: «Ecco, verranno giorni - oracolo del
Signore - nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto (tsemah tsaddiq), che regnerà da
vero re e sarà saggio». In Zc 3,8, l’angelo del Signore profetizza a Giosuè, sommo sacerdote:
«Ecco, io manderò il mio servo Germoglio (tsemah)». Più avanti, s’insiste sullo stesso nome:
«Dice il Signore degli eserciti: ecco un uomo che si chiama Germoglio (tsemah): fiorirà
(yitsmah) dove si trova e ricostruirà il tempio del Signore» (Zc 6,12).
I rabbini hanno visto nel termine tsemah un nome messianico: «Rabbi Yehoshua‘ Ben
Levi disse: “Germo- glio (tsemah) è il suo nome (del messia, ndr), come sta scritto: “Ecco un
uomo che si chiama Germoglio: fiorirà dove si trova” (Zc 6,12)»112. «Germoglio» (tsemah)
diviene, così, addirittura un nome messianico. Nella profezia di Zaccaria esso è attribuito a un
uomo che è presentato dal Signore stesso con una formula solenne: «Ecco un uomo!». Tale
idea è ripresa nel vangelo di Giovanni, nelle parole di Pilato: ecce homo! (Gv 19,5). Secondo
Zc 6,12, tale personaggio ricostruirà il tempio, un’altra profezia che lo stesso vangelo vede
compiuta in Gesù, che afferma: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere»
(Gv 2,19).
Nel Benedictus, un altro Zaccaria canta l’imminente venuta del Messia, attribuendola a un
atto di misericordia divina: «Grazie alle viscere di misericordia del nostro Dio, per le quali ci
visiterà un sole dall’alto» (Lc 1,78). Il termine greco anatolē che ricorre qui e che è
usualmente tradotto con «sole», è in realtà molto evocativo: si può riferire al sole o a un astro
«che sorge», e perciò in latino è tradotto con oriens («oriente», ovvero «ciò che sta
sorgendo»), ma anche a un germoglio «che sorge». Con questo termine anatolē, la Settanta
traduce proprio il termine ebraico tsemah, «germoglio». Zaccaria, pertanto, impiega lo stesso
nome messianico preannunziato dal glorioso profeta, suo omonimo, e compiutosi in Gesù di
Nàzaret: egli è veramente l’Astro, il Sole, l’Oriente e il Germoglio della radice di lesse. Che
la fusione di tali immagini sia chiara già agli albori della Chiesa nascente è dimostrato da Ap
22,16, ove Gesù stesso rivela: «Io sono la radice e la stirpe di Davide, l’astro splendente
mattutino».

An-Nasira, la fiorita
Abbiamo visto come Nàzaret porti nel suo stesso nome la sua storia: Natseret è con tutta
probabilità da legare al termine ebraico netser, «germoglio». Degno di nota è che anche il suo
nome in arabo, An-Nasira («la fiorita»), fa riferimento alla fioritura di questo germoglio. A
Nàzaret è rifiorito il popolo dopo l’umiliazione dell’esilio del regno del nord, là è germogliata
la nostra salvezza proprio durante l’umiliazione dell’oppressione romana. Nàzaret si trova
quindi tra due grandi umiliazioni, quella antica dell’esilio da parte degli assiri e quella recente
del dominio romano, ed è in questa realtà che discende il Figlio di Dio facendosi figlio
dell’uomo. Dio scende nella sofferenza di questo villaggio insignificante, nella grotta
dell’Annunciazione (secondo la tradizione cristiana antica), vale a dire nella parte più oscura
di noi stessi. Egli entra nel grembo di una piccola donna di Nàzaret. E lì fiorisce, come canta
Dante rivolgendosi alla Santa Vergine: «Nel ventre tuo si raccese l’amore/per lo cui caldo ne
l’etterna pace/così è germinato questo fiore»113. In un piccolo e marginale villaggio, nel
grembo di una ragazza, il Verbo di Dio immenso e infinito si fa carne, si circoscrive, e da un
tronco che sembrava senza vita a causa delle umiliazioni subite nasce un germoglio, il
Messia, nostra salvezza. La passione, la morte e la resurrezione di Cristo, in altre parole tutto
il mistero pasquale è già presente nell’incarnazione. Dall’umiliazione dell’esilio e, come
vedremo, dalla storia sofferta di Giuseppe e Maria nasce il Messia. Il figlio di Dio, cosa
mirabile, è entrato in una famiglia umana: se è vero che Maria è «figlia del suo Figlio»114 è
112
EkhaR 5,1.
113
DANTE ALIGHIERI, Paradiso XXXIII, 7-9.
altrettanto vero che Gesù si è fatto «figlio della sua figlia»!
Gesù Cristo ha abitato a Nàzaret per molti anni, ha ascoltato fin da bambino i racconti
delle umiliazioni passate dai suoi padri ma anche le profezie riguardo il futuro glorioso del
suo popolo. A Nàzaret ha meditato le Scritture, le tradizioni orali e le interpretazioni dei
rabbini, preparandosi per anni alla sua missione.

114
DANTE ALIGHIERI, Paradiso XXXIII, 1.
7

IL MATRIMONIO DI YOSEF E MIRIAM

Prima opera divina


In questo paragrafo tratteremo del matrimonio ebraico e in particolare degli eventi vissuti
da S. Giuseppe e dalla Santa Vergine Maria prima della nascita di Gesù a Betlemme. Le
tradizioni ebraiche circa il matrimonio, ignote ai più, aiutano a capire vari aspetti del Nuovo
Testamento e illuminano gli eventi precedenti alla nascita di Gesù.
Nella tradizione ebraica il matrimonio rappresenta anzitutto la gioia per eccellenza, il
colmo dell’allegria, e costituisce una delle opere di misericordia compiute da Dio e che
l’uomo è chiamato a imitare. Per la fede ebraica, la vita del credente deve essere quindi
un’imitatio Dei. Il matrimonio, pertanto, è la prima opera di misericordia che l’ebreo è
chiamato a compiere, a imitazione di Dio. Il Targum Neofiti a Gen 35,9 recita così:

Dio del mondo - sia il suo nome benedetto per sempre e nei secoli dei secoli la tua
umiltà, la tua rettitudine, la tua giustizia, la tua potenza e la tua gloria non avranno fine
nei secoli dei secoli. Tu ci hai insegnato a benedire lo sposo e la sposa da Adamo e la
sua coppia e ci hai insegnato anche a visitare i malati da nostro padre Abramo, il giusto,
quando ti sei rivelato a lui nella pianura della visione, mentre stava soffrendo per il
dolore della circoncisione. Ci hai insegnato ancora a consolare gli afflitti da nostro
padre Giacobbe, il giusto. La morte venne incontro a Debora, nutrice di sua madre
Rebecca, e Rachele gli morì nel cammino. Allora si sedette, lanciò grida, pianse,
lamentandosi abbattuto, e tu, per la tua bontà misericordiosa, ti sei rivelato a lui e lo hai
benedetto con la benedizione di quelli che fanno il lutto e lo hai consolato, poiché così
dice la Scrittura: «Il Signore si rivelò di nuovo a Giacobbe, quando veniva da Paddan
Aram e lo benedisse».115

Ricordiamo che il Targum è la versione sinagogale in aramaico della Scrittura. All’epoca


di Gesù, in sinagoga l’Antico Testamento era proclamato in ebraico ma tradotto in aramaico
per il popolo che, specialmente in Galilea, non comprendeva bene l’ebraico. Tale traduzione
aramaica non doveva essere letterale, per cui in essa erano inserite parafrasi, tradizioni
midrashiche, esortazioni al popolo, ecc... Le tradizioni targumiche sono state raccolte dopo il
70 d.C. e sono confluite, nei primi secoli dell’era cristiana, nei Targumim scritti di cui oggi
disponiamo.
Qual è l’idea centrale del testo targumico che abbiamo riportato sopra? Dio stesso ha
insegnato tre opere di misericordia: la benedizione degli sposi, la visita agli infermi, la
consolazione degli afflitti e di quelli che sono in lutto. Le ultime due opere di misericordia si
ritrovano anche nella tradizione cristiana, mentre la prima è caratteristica della lista delle
opere di carità nell’ebraismo. Poiché il matrimonio, come detto, è il culmine della gioia,
partecipare alla gioia degli sposi costituisce un’opera di misericordia.
Anche nel Midrash Genesi Rabbah si ritrova la stessa idea, sebbene si specifichino
meglio due opere compiute da Dio: l’ornamento delle spose e la sepoltura dei defunti116. Ad
ogni modo, il Midrash concorda con il Targum sul fatto che la prima opera di misericordia
che Dio insegna all’uomo è la benedizione degli sposi, vale a dire la condivisione della gioia
del matrimonio.

115
Cf. anche TgJ, TgF (mss. P, Nu, V, L), TgC allo stesso versetto.
116
Cf. BerR 81,1.
Colmo dell’allegria
Per evidenziare che, fino ad oggi, nella tradizione ebraica il matrimonio è considerato la
gioia per eccellenza, riportiamo alcune benedizioni nuziali, che ricorrono già nel Talmud
Babilonese e che ancora oggi costituiscono il cuore della liturgia nuziale ebraica. Il Talmud
riporta sette benedizioni sugli sposi. Si esprime in tal modo la pienezza della benedizione,
giacché il numero sette simboleggia la pienezza. Le due ultime benedizioni recitano così:

Tu, Signore, farai gioire gli amici che si amano come hai fatto gioire la tua creatura nel
giardino dell’Eden a oriente. Benedetto sei tu Signore, che fai gioire lo sposo e la sposa.
Benedetto sei tu Signore, Re del mondo, che hai creato la gioia e l’allegria, lo sposo e la
sposa, l’esultanza, il canto di gioia, il piacere e la delizia, l’amore e la fraternità, la pace
e l’amicizia. Si oda presto, Signore nostro Dio, per le città di Giuda e per le strade di
Gerusalemme, voce di gioia e voce di allegria, voce di sposo e di sposa, voce gioiosa
degli sposi che tornano dal loro baldacchino e dei giovani che ritornano dai banchetti
della loro festa. Benedetto sei tu Signore, che fai gioire lo sposo insieme alla sposa.117

Benché non abbiamo la certezza che tali benedizioni fossero già fissate nella liturgia
nuziale al tempo di Gesù, il matrimonio, che durava una settimana, era il colmo dell’allegria e
della festa.
Oggi, nel rito ebraico del matrimonio, al termine delle nozze si rompe un calice118. Tra le
varie interpretazioni che danno i rabbini di tale gesto, la rottura del calice simboleggia la
distruzione del tempio di Gerusalemme, poiché mentre s’infrange il calice si devono recitare
alcuni versetti del Salmo 137:

Se mi dimentico di te, Gerusalemme, si dimentichi di me la mia destra; mi si attacchi la


lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo, se non innalzo Gerusalemme al di sopra
di ogni mia gioia (vv. 5-6).

L’ultima espressione «al di sopra di ogni mia gioia» (v. 6) significa letteralmente «al
capo, al vertice della mia allegria»: perfino nel colmo della gioia gli ebrei devono ricordare la
tragedia e la tristezza della distruzione del tempio.
Secondo la fede ebraica, pertanto, compiere opere di misericordia non vuol dire soltanto
soccorrere i sofferenti o condividere il dolore dell’altro, ma anche rallegrarsi con quelli che
sono nella gioia. Talvolta, del resto, è più difficile gioire con chi è nella gioia, perché la
tentazione dell’invidia è sempre in agguato! S. Paolo esprime la medesima idea, quando
esorta così i Romani: «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia; piangete con quelli che
sono nel pianto» (Rm 12,15).
Su questo sfondo, si comprende meglio perché il primo dei sette segni operati da Gesù,
secondo il vangelo di Giovanni, avviene durante una festa nuziale a Cana di Galilea. Tale
segno è chiamato dall’evangelista «l’archē dei segni» (Gv 2,11), vale a dire il «principio» di
questi, non solo in senso cronologico, ma soprattutto paradigmatico. Mediante questo, infatti,
Gesù anticipa, in qualche modo, la sua ora e manifesta la sua gloria (cf. Gv 2,4-5.11).
Il primo miracolo che compie Gesù secondo il quarto vangelo, pertanto, avviene durante
un matrimonio ed è quindi incentrato sulla prima opera di misericordia secondo la tradizione
ebraica che è quella, come visto sopra, di assistere alle nozze, come fecero Gesù, la Santa
Vergine Maria e i discepoli (Gv 2,1-2). Non a caso, l’ultimo segno del vangelo di Giovanni,
la risurrezione di Lazzaro, è legato all’ultima opera di misericordia secondo gli ebrei che è la
sepoltura dei defunti. Come lo stesso evangelista ci riferisce nell’epilogo del suo vangelo,
egli non narra tutti i miracoli compiuti da Gesù, ma ne sceglie solo alcuni che egli chiama

117
b.Ket 7b.
118
Si veda b.Ber 30b-31a.
«segni»:

Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in
questo libro. Ma questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di
Dio, e perché, eredendo, abbiate la vita nel suo nome (Gv 20,30-31).

Non è di certo un caso che l’evangelista scelga proprio le nozze di Cana come primo
segno. In esse, che costituiscono gioia per eccellenza, viene a mancare il vino, vale a dire la
gioia, la festa. Gesù va alle nozze a Cana per mostrare la sua gloria, per compiere un segno
paradigmatico per ogni uomo: egli ha il potere di trasformare l’acqua della nostra vita in vino
nuovo, di ridare alle coppie la festa e la gioia che sono venute a mancare.
Nel vangelo di Giovanni, del resto, è presente una forte simbologia nuziale. In esso,
Giovanni il Battista si presenta come 1’«amico dello sposo» che «esulta di gioia alla voce
della sposa» (Gv 3,29). Questo è un chiaro riferimento alle nozze ebraiche, nelle quali
l’amico dello sposo aveva un ruolo centrale. Egli doveva «ascoltare la voce della sposa»,
verificando la consumazione del matrimonio e testimoniando che la gioia delle nozze era
veramente compiuta. L’amico dello sposo doveva, quindi, essere un amico intimo degli sposi
che, lungi dall’invidiarli, si rallegrava con tutto il cuore della loro unione e che, dopo aver
constatato l’avvenuta unione, poteva ritirarsi, «rallegrandosi con quelli che si rallegravano».
Giovanni il Battista usa questa immagine, nota a livello popolare, per affermare che il vero
sposo dell’umanità è il Messia, Gesù Cristo, e che la sua missione è di scomparire quando
l’incontro tra il Messia e il popolo sia avvenuto.

Unico sposo
Tra i vari simbolismi anticotestamentari, quello nuziale è indubbiamente il più alto al fine
di esprimere la relazione d’amore tra Dio e il popolo d’Israele. L’evento dell’alleanza sul
Sinai e il dono della Torah, celebrato nella festa ebraica di Shavuot (Pentecoste), è visto dai
rabbini come una solenne e meravigliosa cerimonia nuziale tra Dio, lo Sposo, e Israele, sua
sposa.
Il libro di Geremia descrive il fidanzamento tra Dio e Israele nel deserto con le parole del
primo, che si ricorda «con nostalgia» dell’amore di un tempo da parte della sua sposa, ora
infedele: «Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo
fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in terra non seminata» (Ger 2,2). Secondo uno
dei più antichi midrashim, la Mekhilta deRabbi Yishmael, il Signore appare sul Sinai «per
accogliere Israele come uno sposo che esce incontro alla sposa»119.
Gli ebrei, pertanto, leggono il racconto dell’alleanza sul Sinai in Esodo 19 come un
matrimonio, il più importante matrimonio della storia. In Es 19,1-2 i rabbini, sempre attenti a
ogni dettaglio del testo sacro, hanno notato il repentino cambiamento dei verbi dal plurale al
singolare: mentre prima si narra che gli Israeliti «arrivarono» al deserto e là «si
accamparono» (vv. 1-2), subito dopo si nota che «Israele si accampò davanti al monte» (v. 2).
Perché tale cambio? I rabbini vi hanno visto un segno che il popolo ora è un’unica sposa
pronta per l’unico Sposo. Il Dio unico vuole Israele solo per sé e fa un’alleanza nuziale con la
sua sposa. Israele risponde: «Quanto Adonai ha detto, noi lo faremo!» (Es 19,8). La sposa,
cioè, dice il suo «sì» a tale matrimonio, dà il suo consenso.
Così, secondo la tradizione rabbinica, sul monte Sinai, Dio sposò il suo popolo: Mosè era
il paraninfo, l’amico dello sposo; la nube di gloria che copriva il monte era la huppah, il
«baldacchino» nuziale (nella liturgia nuziale ebraica e poi cristiana si usa porre un velo sopra
gli sposi, simbolo della comunione di vita sotto la gloria divina); le tavole della Legge erano
la ketubbah, il «contratto di nozze». Durante il rituale del matrimonio ebraico, infatti, l’uomo

119
MekhY a Es 19,17.
dona alla donna la ketubbah, il contratto matrimoniale nel quale sono registrati i doveri del
marito nei confronti della moglie. Si tratta di un uso molto antico. Com’è tradizione di molte
comunità ebraiche orientali, la ketubbah è letta pubblicamente in aramaico. E un contratto
unilaterale, benché siano implicati i doveri della moglie. Sul Sinai è Dio che scrive e dona le
tavole della Legge, il che indica che l’alleanza di Dio con il popolo è un dono assolutamente
gratuito.
Il matrimonio ebraico, come quello cristiano, deve avvenire alla presenza di due
testimoni, che sono chiamati «gli amici degli sposi», i quali s’incaricano di aiutare gli sposi
nella preparazione e nella mikveh o mikvah, «battesimo rituale» precedente alle nozze, anche
perché devono costatare che gli sposi siano idonei al matrimonio. Su questo sfondo, si può
comprendere meglio la missione di Giovanni il Battista «l’amico dello sposo», che battezza
Gesù, vero Sposo. Giovanni, inoltre, afferma di non essere degno di portare i sandali del
Messia, il che è un altro chiaro riferimento nuziale. Nella legge del levirato descritta
nell’Antico Testamento (cf. Dt 25,5-10; Rt 4,7-8), infatti, per affermare il diritto del cognato
o del parente più stretto sulla sposa, si consegnava il sandalo. L’espressione «non sono degno
di portargli i sandali» usata da Giovanni in Mt 3,11, lungi dall’essere una mera dichiarazione
d’indegnità da parte del Battista, rappresenta piuttosto, per mezzo di un simbolo nuziale, il
riconoscimento dell’identità di Cristo: egli è il vero Sposo d’Israele.

Scegliere una moglie


In questo paragrafo tenteremo di entrare in profondità nel mistero della Santa Vergine
Maria e di S. Giuseppe che si uniscono in matrimonio e che dovranno accogliere nella loro
famiglia il Messia, generato dallo Spirito Santo. Raccoglieremo alcuni dati che ci aiutino a
illuminare gli eventi che precedono la nascita di Gesù, narrati nel primo capitolo del vangelo
di Matteo.
Abbiamo visto sopra come il matrimonio occupi, nella tradizione ebraica, un ruolo di
primo piano. La sacralità del matrimonio e la sua importanza sono attestate dall’Antico
Testamento, ove si paragona al matrimonio la relazione tra Dio e il popolo. Il simbolo nuziale
è assunto come simbolo privilegiato dell’alleanza fra Dio e il popolo.
Ben cinque trattati del Talmud sono dedicati alla questione del matrimonio. Secondo la
tradizione ebraica, lo scopo principale del matrimonio ebraico, oltre alla comunione d’amore
tra gli sposi, è assicurare la discendenza, come stabilisce la prima delle 613 mitsvot
(«precetti») della Torah, e trasmettere la fede a tale discendenza120.
Secondo i rabbini, pertanto, è sconsigliato restare celibe. Ciò è permesso
eccezionalmente, non senza riserve, solo a chi si voglia consacrare devotamente allo studio
della Torah121. Nel Talmud, infatti, vi è il caso unico di Rabbi Ben Azzai, il quale non si sposò
per amore della Torah. Si riporta, perfino, un suo detto in proposito: «Che cosa devo fare se
la mia anima anela la Torah? Il mondo può essere mantenuto da altri»122.
Nella Bibbia, il profeta Geremia rimane celibe per or- dine stesso del Signore, perché la
sua vita è chiamata a diventare un segno per il popolo: «Non prendere moglie, non avere figli
né figlie in questo luogo» (Ger 16,2). Secondo il Midrash Sifré Devarim, perfino Mosè,
avendo parlato con Dio «bocca a bocca», si astenne dai rapporti sessuali con la moglie
Zippora123. Vi sono, pertanto, precedenti illustri per quanto concerne la vita celibe o almeno di
astinenza, benché si tratti di casi isolati. Sappiamo come, ai tempi di Gesù, gli esseni
esaltassero il celibato. Nella halakhah («condotta di vita secondo la Legge») dopo il 70 d.C.,
tuttavia, è prevalsa l’opinione dei farisei: il celibato è nettamente sconsigliato, anche per

120
Cf. b.Yev 63b.
121
Si veda, ad es., b. Yev 62b.
122
b. Yev 63b; cf. anche t. Yev 8,4; b.Sot 4b; BerR 34.
123
SifDev 99.
evitare peccati e disordini sessuali. L’uomo ha l’obbligo di sposarsi, al fine di compiere il
primo comandamento (in ordine cronologico) della Torah: «Siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra!» (Gen 1,28). Chi non è sposato non è un uomo completo, perché Dio creò
l’uomo (ovvero l’essere umano completo) «a sua immagine, a immagine di Dio lo creò,
maschio e femmina li creò» (Gen 1,27) e la donna è «carne dalla carne» e «ossa dalle ossa»
dell’uomo (Gen 2,23).
I saggi raccomandano di far sposare i propri figli a un’età giovane, perché non giungano
ad avere cattivi pensieri o una condotta empia, come dice la Scrittura: «Ispezionerai la tua
casa e non commetterai peccato» (Gb 5,24). Come accennato sopra, chi studia la Torah in
modo assiduo ha diritto di rinviare il suo matrimonio dopo i vent’anni, a condizione che
domini la sua cattiva inclinazione. Solo l’amore per la Torah, che è la prima sposa e regina
d’Israele al punto che gli ebrei la rivestono come una sposa e la incoronano, consente di
rinviare il matrimonio o, come visto sopra, di rimanere celibe.
Si deve scegliere una sposa pia, proveniente da una famiglia degna. Bisogna fare di tutto
per prendere come sposa la figlia di un discepolo saggio (talmid hakham) e, in ogni caso, si
sceglierà solo ed esclusivamente una moglie che è educata nella pratica dei comandamenti.
Il Talmud dà all’uomo vari saggi consigli per aiutarlo nel discernere sulla scelta della
futura moglie, come il seguente:

Affrettati ad acquistare un campo, ma sii lento quando si tratta di scegliere una moglie
conveniente. Scendi di un gradino per sposare una donna, sali di un gradino per
scegliere un amico.124

Vari passi biblici e talmudici sono dedicati alla buona e alla cattiva moglie. Il libro dei
Proverbi afferma: «Una donna forte è la corona del marito, ma quella svergognata è come
carie nelle sue ossa» (Pr 12,4). Nessuno è tanto ricco quanto chi abbia una buona moglie,
tanto che nel Talmud essa è comparata alla Torah:

Disse Rava: «Vieni e vedi quanto è buona una buona moglie e quanto cattiva una cattiva
moglie! Quanto è buona una buona moglie, poiché sta scritto: Chi ha trovato una
donna ha trovato il bene. Se il versetto parla di lei, quanto è buona una buona moglie,
poiché la Scrittura la loda. Se il versetto parla della Torah, quanto è buona una buona
moglie, perché la Torah è comparata a lei. Quanto è cattiva una cattiva moglie, poiché
sta scritto: Io trovo la donna amara più della morte. Se il versetto parla di lei,
quanto è cattiva una cattiva moglie, poiché la Scrittura la condanna. Se il versetto parla
della Gehenna, quanto è cattiva una cattiva moglie, perché la Gehenna è comparata a
lei».125

Afferma il midrash: «Nessun uomo senza moglie, nessuna donna senza marito, nessuno
dei due senza la Shekhinah (“presenza divina”)»126. Secondo il Talmud, infatti, se gli sposi
sono degni, la Shekhinah di Dio dimora con loro, altrimenti «un fuoco li consuma»127. Il
marito dovrà sempre onorare e rallegrare la sua sposa, perché la berakhah («benedizione»)
dimora nella famiglia solo grazie alla donna.
Non si deve pensare, pertanto, che il molo della donna sia sminuito nella tradizione
ebraica. Una buona moglie è, secondo i rabbini, un tesoro inestimabile, perché «tutto viene
dalla donna», come si afferma nel Midrash Genesi Rabbah:

Si racconta la storia di un uomo pio che era sposato con una donna pia, ma non poterono

124
b.Yev 63a.
125
b.Yev 63b.
126
BerR 8,9.
127
b.Sot 17a.
avere figli. Dissero: «Non hanno nulla presso il Santo - benedetto egli sia!». Così, si
divorziarono. Costui andò e sposò una donna malvagia, che lo rese malvagio, mentre
costei andò e sposò un malvagio e lo rese giusto. Da ciò ne deriva che tutto è dalla
donna!128

La Mishnà contiene una frase, divenuta proverbiale tra gli ebrei: «La casa di un uomo è
sua moglie»129. Per tale ragione nel Talmud, sulla base della parola data da Dio a Ezechiele
allorquando gli annuncia la morte della sua donna amata come segno dell’imminente rovina
del santuario di Gerusalemme, la scomparsa della moglie è paragonata addirittura alla
distruzione del tempio:

Disse R. Yohanan: «Ogni uomo la cui prima donna muore è come se il tempio fosse
distrutto ai suoi giorni, com’è detto: Figlio dell’uomo, ecco io ti tolgo all’improvviso
colei che è la delizia dei tuoi occhi: ma tu non fare il lamento, non piangere, non
versare una lacrima (Ez 24,16)».130

I saggi ne ricavano l’insegnamento che una donna per un uomo è preziosa quanto il
tempio per tutto Israele.
Sebbene non possiamo sapere se tali tradizioni fossero già in voga all’epoca di Gesù,
tuttavia i testi scelti sopra, tra i numerosissimi presenti nella letteratura rabbinica, evidenziano
l’importanza della scelta di una donna santa e la gioia immensa costituita dalla celebrazione
del matrimonio. Questo ci consente di ambientare le nozze di Yosef e Miriam, sin dall’inizio
segnate dalla croce e dal rifiuto, come vedremo tra breve.

Acque amare
Nella tradizione ebraica, il ripudio, benché ammesso non è ben visto: «Io detesto il
ripudio», dichiara già Dio per mezzo del profeta Malachia (Ml 2,16). Il Talmud afferma
addirittura: «Perfino l’altare versa lacrime su chi ripudia la sua prima moglie». Chi divorzia è
detestato da Dio»131.
Nella Torah l’adulterio è considerato un grave peccato, giacché Dio stesso ha proclamato
il carattere sacro e inviolabile del matrimonio. La Legge punisce la moglie adultera e il suo
complice con la pena capitale. La Torah prevede anche il caso del sospetto di adulterio da
parte della moglie, venendo in aiuto del marito che nutrisse dubbi sulla fedeltà della moglie,
stabilendo per tale caso un rito solenne, una sorta di ordalia: le acque amare. Alla moglie
adultera era assimilata anche la fidanzata adultera.
Al tempo di Gesù, quindi, nel caso che la promessa sposa fosse sospettata di adulterio,
doveva essere sotto- posta al giudizio delle acque amare, descritto minuziosamente dalla
Torah nel capitolo quinto del libro dei Numeri. In questo caso, la donna diventava una sotah,
vale a dire «sospettata di adulterio»: il marito doveva cessare ogni rapporto con lei e citarla in
tribunale, ove i giudici tentavano di indurla alla confessione della colpa. Se si riconosceva
colpevole, essa subiva la vergogna, la pena del divorzio e la perdita della dote. Se non
confessava, era condotta al tempio, al fine di procedere alla prova delle acque amare.
In tale rito, il sacerdote prendeva dell’acqua consacrata, vi mischiava della polvere presa
nel tempio e pronunciava dinanzi alla donna la formula della maledizione prescritta dalla
Legge, alla quale la donna rispondeva: «Amen, amen!». Il sacerdote scriveva la stessa
formula su di un foglio e lo immergeva nell’acqua, finché le lettere della formula non si
sciogliessero. In seguito, la donna doveva bere l’acqua «piena di maledizione». Nel caso che

128
BerR 17,7.
129
m.Yom 1,1.
130
b.San 22a.
131
B.Git 90b
la donna fosse innocente, le acque amare non sortivano alcun effetto nocivo su di lei ed essa
era considerata innocente. Nel caso fosse colpevole, l’acqua produceva immediatamente
conseguenze letali, causandole indicibili sofferenze che avrebbero potuto portarla alla morte.
Così, mentre la moglie adultera colta in flagrante era sottoposta al processo e alla pena
legale pronunziata da uomini, la donna sospettata di adulterio (sotah) sfuggiva al giudizio
degli uomini per essere sottoposta a quello di Dio. Tale procedura, applicata all’epoca del
secondo tempio, subì in seguito varie modifiche che ne addolcirono la severità, e fu poi
abrogata verso il 70 d.C. dal Sinedrio, per influenza di Rabbi Yohanan ben Zakkay.
Su questo sfondo, possiamo comprendere meglio le sofferenze di S. Giuseppe e della
Santa Vergine Maria. Così si narra nel primo capitolo del vangelo di Matteo:

Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe,
prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo.
Giuseppe, suo sposo, poiché era giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di
ripudiarla in segreto (Mt 1,18-19).

Matteo precisa che Maria era «promessa sposa» (in greco mnēsteutheisē) di Giuseppe. Al
tempo di Gesù, il matrimonio ebraico consisteva essenzialmente in due fasi. La prima,
denominata qiddushin («santificazione»), era un fidanzamento senza coabitazione. Nella
seconda fase, chiamata nissu’in, lo sposo «sollevava, portava» la sposa (dal verbo ebraico
nasci ’), vale a dire la introduceva in casa e così cominciava la coabitazione. Già dopo la
prima fase, i due erano già considerati sposati, giacché, di fatto, il qiddushin era molto più
che un fidanzamento: il fidanzato era ormai un marito ed era necessario un ripudio da parte
sua per lo scioglimento del matrimonio.
Il vangelo di Matteo specifica che Maria fu trovata incinta per opera dello Spirito Santo
nel tempo del qiddushin, cioè prima che lei e S. Giuseppe coabitassero e avessero relazioni
(che, come sappiamo, Giuseppe e Maria non hanno mai avuto). Sullo sfondo delineato sopra,
emerge chiaramente il dramma vissuto dai due: nel momento della massima gioia, costituito
dall’imminente nissu’in, il coronamento del matrimonio (gli sposi erano incoronati in una
meravigliosa festa), una tragedia si abbatte sulla loro vita.
Maria e Giuseppe entrano così, prima del tempo, nella «storia della passione». Maria,
infatti, dovrà subire, a causa del figlio, il disprezzo e il rifiuto di cui egli sarà oggetto, e con
lei Giuseppe. A Nàzaret, se così si può dire, sapevano contare ed erano consapevoli che
Maria fosse rimasta incinta prima dell’ultima fase del matrimonio. Chi, fra gli abitanti di
Nàzaret, credeva che ciò fosse opera dello Spirito Santo? Come poteva spiegare Maria che
questo venisse dallo Spirito Santo? Come poteva farlo S. Giuseppe, pur avendo egli ricevuto
in sogno la rivelazione dell’angelo? In tal modo, cosa spesso trascurata, Maria poteva essere
facilmente considerata a Nàzaret come una peccatrice. Maria e Giuseppe erano visti, tra i
propri familiari e compaesani, come trasgressori della Torah. Ciò forse spiega perché nei
vangeli Gesù sia chiamato dalla gente, non senza una velata ironia, il «figlio di Giuseppe».
«Non è costui il figlio di Giuseppe?» (Lc 4,22) - affermano i nazaretani - come a dire: «Lo
conosciamo bene, sappiamo di chi è figlio, di due che non hanno potuto aspettare il momento
del matrimonio e che sono pertanto dei peccatori...».

Yosef/Giuseppe
Il vangelo di Matteo qualifica Giuseppe, lo sposo di Maria, come dikaios, «giusto», in
ebraico tsaddiq. Il nome di Giuseppe, Yosef in ebraico, significa «egli (o il Signore)
aumenterà». Quando abbiamo trattato del nome di Maria, abbiamo ricordato come i nomi
biblici siano una profezia della vita della persona. Giuseppe porta il nome di una grande
figura dell’Antico Testamento, un padre nella fede che ha dovuto subire il rifiuto dei suoi
fratelli e che è stato venduto da loro per venti monete d’argento (cf. Gen 37,12-36).
Il Giuseppe dell’Antico Testamento, prefigurazione di Gesù Cristo, è anche una profezia
della figura di S. Giuseppe. Il primo è un uomo casto, tanto da rifiutare le proposte della
moglie di Potifar; per non cedere alle lusinghe di quella e conservare la castità è gettato in
carcere (Gen 39,7-23). Egli, inoltre, fa sogni profetici e li interpreta; grazie alla sua castità,
alla sua saggezza e alla capacità d’interpretare i sogni è posto a custode di tutta la casa del
faraone (Gen 40-41). Egli, infine, dà da mangiare ai suoi stessi fratelli che lo hanno venduto;
il faraone dirà, riferendosi a Giuseppe: «Fate quello che vi dirà» (Gen 41,55). Non a caso,
Maria, alle nozze di Cana, riferendosi a Gesù, il nuovo Giuseppe, rivolge ai servi le stesse
parole: «Fate quello che lui vi dirà» (Gv 2,5).
S. Giuseppe è un degno figlio del suo omonimo padre: è l’uomo casto, riceve rivelazioni
divine mediante i sogni, è custode (a immagine del Giuseppe dell’Antico Testamento) dei
tesori più grandi affidati mai a un uomo, ossia Gesù Cristo e la Vergine Maria.
S. Giuseppe ubbidisce in silenzio a Dio. Egli è l’uomo silenzioso per eccellenza nella
Scrittura, a tal punto che non si ricorda nessuna sua parola nei vangeli. In silenzio prende il
bambino e sua madre, come si nota per ben tre volte in Matteo (Mt 1,24; 2,14.21), accoglie
cioè un mi- stero che lo trascende completamente e che comporta la grazia più grande che
abbia mai avuto un uomo, ma che implica sin dall’inizio anche la sofferenza e la croce.
In S. Giuseppe si è compiuta la profezia del suo stesso nome, Yosef, che vuol dire «egli
aumenterà». Dio ha veramente aumentato a dismisura la sua discendenza, certo non in senso
carnale, giacché è il padre putativo di Gesù, ma in senso spirituale: S. Giuseppe è per
antonomasia la figura del padre spirituale.
S. Giuseppe è uno tsaddiq, un «giusto», perché non vuole ripudiare Maria. Egli si viene a
trovare in un momento di enorme sofferenza. Da un lato, egli non può negare l’evidenza:
Maria è incinta. Dall’altro, egli conosce bene Maria, sua promessa sposa, che sa essere santa,
giusta e casta. Da una parte, egli conosce la Torah, desidera compierla e non vuol dare
scandalo, perché accettare Maria e il bambino significherebbe che il peccato sarebbe ricaduto
su di lui e i nazaretani lo avrebbero ritenuto un fornicatore. Egli sa che non può non
rimandare Maria, altrimenti scandalizzerebbe tutta Nàzaret, un piccolo villaggio a quel
tempo, come abbiamo notato sopra. D’altra parte, egli conosce Maria e non vuole applicare la
Legge in modo stretto (già i Romani dicevano: «Summum ius summa iniuria»), cioè non
vuole esporre Maria al pubblico ludibrio e alla morte.
Secondo Dt 22,23-24, la vergine o la promessa sposa che giace con un uomo doveva
essere messa a morte, per cui S. Giuseppe pensa di ripudiare Maria, ma in segreto. Ciò si
poteva fare alla presenza di due testimoni. Il vangelo di Matteo, tuttavia, narra che, mentre S.
Giuseppe sta meditando tra sé e sé queste cose, gli appare in sogno un angelo del Signore,
che gli dice:

Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria tua sposa. Infatti il
bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu
lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati (Mt 1,20-21).

Subito dopo l’evangelista aggiunge:

Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per
mezzo del profeta: Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà
dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi (Mt 1,22-23).

S. Giuseppe, dopo questo drammatico momento di sofferenza e di dialogo profondo con


Dio, dopo il suo combattimento interiore e l’intervento divino, obbedisce a Dio: «Quando si
destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la
sua sposa» (Mt 1,24). Giuseppe e Maria, pertanto, passano alla seconda fase del matrimonio,
al nissu’in: il primo prende nella sua casa la sposa, la quale, «senza che egli la conoscesse
partorì un figlio ed egli lo chiamò Gesù» (Mt 1,25).
In tal modo, S. Giuseppe obbedisce a Dio e accetta di entrare nel mistero meraviglioso di
Gesù Cristo, che comporta certo la dolcezza immensa di avere il Figlio di Dio nella propria
famiglia, ma anche l’amarezza di essere considerato, con Maria, un peccatore pubblico. Fin
dai primi istanti della loro unione matrimoniale, pertanto, Giuseppe e Maria portano su di essi
il sospetto e l’ignominia del peccato, pur essendo senza colpa al riguardo. Essi educheranno e
aiuteranno Gesù a prendere su di sé il peccato e l’ingiustizia. Questi sarà l’Agnello innocente,
ritenuto un malfattore e ucciso come un peccatore pubblico. Mediante tale ludibrio e
umiliazione egli salverà il mondo. A immagine del Figlio di Dio a loro affidato, Giuseppe e
Maria sono come degli agnelli innocenti. Melitone di Sardi (morto intorno al 180 d.C.)
denomina Maria «agnella senza macchia»132. In Giuseppe e Maria, insomma, si riproducono,
come poi dovrà avvenire in ogni cristiano, la forma e l’icona di Gesù Cristo.

Amarezza delle acque, dolcezza di Cristo


Uno dei più antichi vangeli apocrifi, il Protoevangelo di Giacomo, è stato tenuto in
grande stima nella chiesa antica, sia perché molto ortodosso sia perché considerato storico in
vari dettagli. Da esso, ad esempio, conosciamo i nomi dei genitori della Vergine Maria. Esso,
inoltre, ha ispirato l’iconografia bizantina ed è di grande interesse per il suo sottofondo
giudeo-cristiano. Tale vangelo apocrifo, redatto probabilmente tra il 140 e il 170 d.C., può
contenere tradizioni molto più antiche133. Pur non essendo stato accolto nel canone cattolico e,
di conseguenza, non essendo parola di Dio, rimane tuttavia di grande interesse anche dal
punto di vista storico. In esso, infatti, vi sono alcuni dettagli della vita di Maria che possono
essere storici.
Il Protoevangelo di Giacomo racconta che Giuseppe e Maria furono sottoposti alla prova
delle acque amare, conformemente a quanto stabilito in Numeri 5, secondo il rito che sopra
abbiamo ricordato134. Secondo il vangelo apocrifo, Giuseppe e Maria, tra le lacrime, furono
sotto- posti, da parte del sacerdote che scoprì che Maria era incinta, a questa prova terribile
delle acque amare, all’amarezza del pubblico ludibrio, giacché tale rito doveva essere fatto in
pubblico.
Non sappiamo se Giuseppe e Maria siano stati realmente sottoposti alla prova delle acque
amare. Ad ogni modo, è certo che essi abbiano sperimentato molte «acque amare»:
l’amarezza di essere ritenuti dei fornicatori, senza potersi difendere in nessun modo e pur
essendo casti, come anche l’amarezza di non trovare posto a Betlemme. Quest’ultima
sofferenza, in particolare, era davvero inattesa. Secondo la halakhah, la condotta secondo la
Legge, è un grave peccato rifiutare di accogliere e aiutare una partoriente. Aiutare una
partoriente prevale addirittura sull’osservanza del riposo dello shabbat. Giuseppe aveva dei
parenti a Betlemme. Non è da escludere che, sin dall’inizio, Gesù fosse considerato un «figlio
del peccato» e forse anche per questo fu rifiutato. Infine, la Santa Famiglia di Nazaret ha
dovuto sperimentare l’amarezza della fuga in Egitto. Nel mistero del Natale, negli eventi che
lo preparano e lo seguono, insomma, vi è già tutto il mistero pasquale di Gesù Cristo,
compresa la sua passione.
Come abbiamo visto sopra, il nome di Maria ha un’interessante assonanza con il termine
ebraico mor, che significa «mirra» ed è legato al verbo marar, «essere amaro». Alcuni
rabbini vi hanno visto anche un legame con il monte Moria (mor-ya, «la mirra del Signore»),
monte della mirra e degli aromi, in quanto luogo del futuro tempio, e monte dell’amarezza,
giacché Abramo vi si recò, con il cuore in angoscia, per sacrificare il suo figlio Isacco, e per

132
MELITONE DI SARDI,
Pasc 71
133
Basti come esempio paradigmatico il ciclo di mosaici dedicato alla storia della Vergine Maria, che ancora
oggi si può ammirare sulle pareti del monastero di S. Salvatore in Chora a Istanbul.
134
Cf. Protev 15-16.
riaverlo, in seguito alla prova, «come risorto» (cf. Eb 11,19).
La Vergine Maria sperimenterà un’amarezza ben più grande di quella vissuta dal padre
della fede. Maria è veramente la madre nella fede: una spada ha trafitto la sua anima. A
Gerusalemme, a poche centinaia di metri dal monte Moria, Maria ha gustato l’amarezza della
croce. In lei si compie la fede di Abramo, che era una prefigurazione della sua fede piena,
giacché ha visto il suo figlio, il suo «unigenito» (così è chiamato Isacco in Gen 22,1) morire a
Gerusalemme, e poi lo ha visto risorto! Maria, madre nella fede, testimonia che solo
attraverso queste amarezze è possibile arrivare al colmo della gioia, alla dolcezza della
risurrezione. Ciò avviene già nel mistero del Natale. Gesù Cristo, che non trova posto a
Betlemme, è posto in una grotta oscura, senza avere dove posare il capo, nell’amarezza più
grande. Egli, tuttavia, la rende luminosa e dolce: non vi è nessuna notte oscura ed amara che
Gesù Cristo non sia venuto ad assumere, illuminare e rendere gloriosa.
8

GIOVANNI IL BATTISTA, IL PRECURSORE

Cominciando da Gerusalemme
In questo capitolo intendiamo andare «alle sorgenti» della figura di Giovanni il Battista, il
prodromos, che in greco significa letteralmente «colui che corre avanti», il precursore del
Messia. La sua storia comincia a Gerusalemme, giacché tutto inizia dalla città santa nella
quale, in un modo o in altro, tutti siamo nati (cf. Sal 87,6) e dalla quale usciranno la Torah e
la parola del Signore (cf. Is 2,3).
Il vangelo di Luca comincia proprio con l’annuncio a Zaccaria, da parte dell’angelo
Gabriele, dell’imminente nascita di Giovanni il Battista (Lc 1,5-22). Dove avviene tale
annuncio e, pertanto, dove inizia il vangelo? Non solo a Gerusalemme, ma nel cuore di essa,
che è il tempio (Lc 1,8-9). Nella tradizione ebraica, Gerusalemme è il cuore del mondo, il
tempio è il cuore di Gerusalemme e il Santo dei Santi è il cuore del tempio. Ebbene,
l’evangelista Luca comincia il suo vangelo in questo suggestivo scenario. Siamo subito
«proiettati» nel tempio di Gerusalemme, davanti al Santo dei Santi.
Luca comincia così la sua opera nel luogo che la tradizione ebraica considera come «Bet-
el», «la casa (bet) di Dio (’El)», la porta del cielo, l’axis mundi, l’ombelico del mondo, il
luogo della Shekhinah di Dio, della presenza divina sulla terra.
L’evangelista, come si evince dai prologhi di Luca e Atti, ha voluto scrivere un’unica
opera divisa in due libri: il vangelo e gli Atti degli apostoli. Ora, il vangelo di Luca ha inizio
a Gerusalemme, nel tempio, e si conclude a Gerusalemme, sul monte degli Ulivi, con
l’ascensione di Gesù Cristo; gli Atti degli apostoli cominciano a Gerusalemme, sempre sul
monte degli Ulivi e terminano a Roma. In tal modo, Luca traccia una vera e propria geo-
grafia della salvezza: da Gerusalemme, cuore religioso del tempo, esce la parola del Signore
che è destinata a tutti i confini della terra, a Roma, caput mundi.
L’inizio del vangelo di Luca, inoltre, ha come scenario la liturgia ebraica e il culto del
tempio: è durante la liturgia quotidiana di offerta dell’incenso che avvengono l’apparizione
dell’angelo Gabriele al sacerdote Zaccaria e l’annuncio della nascita del più grande dei
profeti.

Yohanan sacerdote
L’importanza data alla liturgia e al sacerdozio dall’evangelista Luca è ancora più evidente
quando si considera la provenienza di Zaccaria ed Elisabetta, genitori di Giovanni. Il vangelo
di Luca nota che Zaccaria è un sacerdote della classe di Abia e che Elisabetta è addirittura
una discendente di Aronne (cf. Lc 1,5). Ciò significa che il loro figlio, Yohanan, è un kohen,
un «sacerdote» al cento per cento. Nell’ebraismo, infatti, il sacerdozio è ereditario, per via di
sangue: non si è sacerdoti per vocazione, ma lo si è per nascita. Al tempo di Gesù (fino ad
oggi!), chi proveniva da famiglie sacerdotali conservava gelosamente la genealogia. Ancora
oggi, coloro che provengono da famiglie sacerdotali, spesso riconoscibili dal cognome (come,
ad esempio, Cohen, Kahana o Kuhn), sono chiamati a donare la benedizione sacerdotale
durante le feste solenni. Giovanni è, pertanto, un sacerdote. Tale dettaglio è spesso trascurato.
Secondo il vangelo di Luca, il sacerdote Zaccaria e sua moglie Elisabetta erano tsaddiqim
(«giusti») e osservanti scrupolosi di tutte le mitsvot della Torah («precetti della Legge», Le
1,6). Ciò che però emerge dal racconto lucano, tuttavia, è che l’avvento del Messia,
l’irrompere del culmine della storia di salvezza che comincia con la nascita di Giovanni, non
è frutto «di carne e di sangue», né dalla provenienza nobile e sacerdotale di Zaccaria ed
Elisabetta, né tantomeno dalle loro opere giuste. Il ritratto idilliaco di questi due pii ebrei,
infatti, è subito spezzato da due insuperabili debolezze umane: la prima è la sterilità di
Elisabetta, proprio come le quattro madri d’Israele (Sara, Rebecca, Rachele e Lia), l’altra è
l’incredulità di Zaccaria. Il giusto e devoto sacerdote, infatti, non crede all’annuncio
dell’angelo: ciò dà, per così dire, il «la» al vangelo. Quest’ultimo è sempre una buona notizia:
il Messia irrompe nelle sofferenze e nelle sterilità, nelle incapacità umane e perfino nella
mancanza di fede. Dio supera la mancanza di fede di Zaccaria, è fedele per sempre, non ritira
la sua promessa. Egli non ritira il suo annuncio per il fatto che il suo sacerdote non crede. Al
contrario, porterà avanti la sua opera, giacché la fedeltà di Dio travalica sempre la meschinità
umana.

Zekharya ed Elisheva‘
Anche i nomi dei genitori di Giovanni il Battista sono profetici. Elisabetta, in ebraico
Elisheva‘, significa «Dio ha giurato» oppure «il mio Dio è giuramento». Non va dimenticato,
poi, che Elisabetta porta un nome legato al sacerdozio e senza dubbio di grande importanza
nella tradizione della sua famiglia, giacché Elisheva‘ era la moglie di Aronne, il fratello di
Mosè, primo sommo sacerdote d’Israele, della tribù di Levi. In Lc 1,5 si precisa che
Elisabetta era una discendente di Aronne. Il nome di Zaccaria, in ebraico Zekharya (da
zakhar, «egli ha ricordato» e Ya, abbreviazione del santo nome di Dio), significa «il Signore
si è ricordato». Si tratta di un nome noto nell’Antico Testamento e tipico anche delle famiglie
sacerdotali.
Nella Scrittura i nomi sono sempre una profezia, giacché nella mentalità biblica la parola
è creatrice, compie ciò che dice, e perciò i nomi racchiudono la vocazione, la missione,
l’opera di salvezza di Dio in una persona. Nel suo cantico di lode, il Benedictus, proclamato
dopo la miracolosa nascita di Giovanni il Battista, Zaccaria proclama che Dio «sì è ricordato
della sua santa alleanza, del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre» (Lc 1,72-73). Egli,
pertanto, fa riferimento al proprio nome «Zaccaria» quando afferma che Dio «si è ricordato»,
e a quello di Elisabetta quando usa il termine «giuramento». In tal modo, Zaccaria proclama
che, nella sua stessa persona, Dio si ricordato dell’alleanza, del giuramento divino fatto ad
Abramo, cioè che la sua discendenza sarebbe diventata come le stelle del cielo, come la
sabbia sulla spiaggia del mare (cf. Gen 22,17), e che in lui sarebbero state benedette tutte le
famiglie della terra (cf. Gen 12,3). La storia della salvezza arriva al suo culmine. Giovanni
Battista costituisce la preparazione prossima a tale compimento, perché egli è l’ultimo dei
profeti dell’Antico Testamento e, al tempo stesso, la porta al Nuovo Testamento. Giovanni
Battista è il ponte tra l’antica e la nuova alleanza, è il dito che indica il compimento, la
pienezza dei tempi, il coronamento della storia della salvezza costituito dal Messia.
Un altro elemento degno di nota è che, nel canone cattolico, l’Antico Testamento termina
con il libro del profeta Malachia, che è anche l’ultimo libro profetico secondo la Bibbia
ebraica. Le profezie dell’Antico Testamento si concludono quindi con un versetto del profeta
Malachia che afferma: «Ecco, io invierò il profeta Elia, prima che giunga il giorno grande e
terribile del Signore» (Ml 3,23). La profezia anticotestamentaria, pertanto, culmina con una
tensione verso il giorno del Signore, la venuta del Messia, che sarà preparata da un
messaggero. Poco prima, infatti, Malachia aveva annunciato: «Ecco, io manderò il mio
angelo a preparare la via davanti a me (...) e l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo
venire» (Ml 3,1). Tale versetto è di centrale importanza nel libro, giacché il nome stesso di
Malachia significa «angelo (mal’akh) del Signore (Ya)». Gesù stesso vede compiuto questo
versetto in Giovanni il Battista (Mt 11,10). Questi è l’«Elia che deve venire» (Mt 11,14) e al
tempo stesso il messaggero (il termine ebraico mal’akh significa sia «messaggero, inviato»
che «angelo») annunciato da Malachia, l’ultimo dei profeti dell’Antico Testamento! Per tale
ragione, nella tradizione iconografica bizantina, Giovanni il Battista è talvolta rappresentato
con le ali, tanto che vi è persino un modello d’icona intitolata «angelo del deserto». Egli è
l’anghelos, il messaggero, l’Elia che doveva venire, secondo la parola dell’angelo Gabriele a
Zaccaria: «Egli camminerà innanzi a lui con lo spirito e la potenza di Elia» (Lc 1,17).
Nell’iconografia bizantina vi è un altro modello d’icona chiamato deēsis («supplica,
intercessione»), ove si rappresenta Cristo benedicente e a suo lato, da una parte e dall’altra, S.
Giovanni Battista e la Vergine Maria in atteggiamento di oranti, con le mani aperte verso
Gesù Cristo, giacché essi sono le due vie viventi che hanno aperto il cammino all’avvento del
Messia.

Le quattro chiavi
Nonostante i nomi solenni che ricordano la gloria d’Israele, la loro nobile origine
sacerdotale e il fatto di essere osservanti della Torah, Zaccaria ed Elisabetta sono sterili. Essi
sperimentano il fallimento più grande, quello di non avere discendenza. Così, il Nuovo
Testamento si collega all’Antico. Anche Sara era sterile e Abramo avanti negli anni. La storia
della salvezza comincia proprio dalla sterilità umana. Dio entra nella storia dell’uomo. Tale
irruzione, lungi dall’essere frutto degli sforzi umani, è gratuità totale che avviene per
iniziativa di Dio, il quale cerca l’uomo e lo rende fecondo. L’uomo non è destinato alla
sterilità.
La tradizione ebraica rimarca che i tre padri (Abramo, Isacco e Giacobbe) e le quattro
madri d’Israele (Sara, Rebecca, Rachele e Lia) erano tutti sterili. Nel Talmud, i saggi si
chiedono: «Perché mai i nostri padri furono sterili?». Essi danno la seguente risposta: «Perché
il Santo - benedetto egli sia - anela alla preghiera dei giusti»135. Dio anela al grido dell’uomo,
desidera, per così dire, irrompere nella sua aridità, nel suo «vuoto»: la salvezza è per i poveri,
il germoglio spunta dal tronco di lesse inaridito per iniziativa gratuita di Dio.
Il Targum Neofiti a Gen 30,22 contiene un’inserzione midrashica di rara bellezza riguardo
al tema della potenza di Dio nei confronti della sterilità umana. In Gen 30,22 si narra: «Dio si
ricordò (wayyizkor) anche di Rachele, la esaudì e la rese feconda». Notiamo fra parentesi che
in tale versetto si usa il verbo zakhar da cui, come rimarcato sopra, proviene il nome
Zaccaria: già nell’Antico Testamento Dio «si ricorda» delle madri d’Israele rendendole
feconde. Prima della traduzione del versetto citato, il Targum Neofiti inserisce una delle sue
perle più preziose, il cosiddetto «midrash delle quattro chiavi»:

Quattro chiavi sono in mano al Signore di tutti i secoli e non sono consegnate né
all’angelo né al serafino: la chiave della pioggia, la chiave del cibo, la chiave dei
sepolcri e la chiave della sterilità. La chiave della pioggia, perché così la Scrittura
interpreta e dice: Il Signore aprirà per voi il buon tesoro dai cieli; la chiave del cibo
perché così la Scrittura interpreta e dice: Apri la tua mano e sazi ogni vivente nei
quali c’è compiacenza; la chiave dei sepolcri perché così la Scrittura interpreta e dice:
Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi farò salire dai vostri sepolcri, o popolo mio; la
chiave della sterilità perché così la Scrittura interpreta e dice: Si ricordò il Signore
nella sua buona misericordia di Rachele e il Signore ascoltò la voce della
preghiera di Rachele e decise nella sua Parola di darle dei figli.136

Questo testo targumico si è adempiuto nel Messia. Egli, come inviato di Dio, doveva
avere in mano queste quattro chiavi. La prima è la chiave della pioggia. Il Messia, come già
aveva fatto Mosè nel deserto, doveva donare l’acqua viva, promessa dai profeti per i tempi

135
b.Yev 64a.
136
TgNGen 30,22 (cf. anche TgJ, TgF, TgC allo stesso versetto).
messianici. Gesù Cristo, pertanto, nel grande giorno della festa di Sukkot si alza in piedi e
grida, il che equivale a dire, nel linguaggio giovanneo, che fa una rivelazione: «Se qualcuno
ha sete, venga a me e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo
sgorgheranno fiumi di acqua viva» (Gv 7,37-38). Gesù ha donato quest’acqua viva dalla
croce (Gv 19,34).
La seconda chiave è quella del cibo. Come Dio, per mezzo di Mosè, aveva dato da
mangiare al suo popolo nel deserto la manna (il «pane dal cielo», Es 16,4) e le quaglie (che il
Signore «portò dal mare», Nm 11,31), così il Messia avrebbe dovuto rinnovare tale prodigio.
Così, Gesù Cristo dona ai suoi in abbondanza il pane e i pesci (il cibo che viene dal mare),
segni del pane vivo disceso dal cielo, che è lui stesso (Gv 6).
La terza chiave è quella dei sepolcri. Il messia avrebbe dovuto rinnovare i prodigi
compiuti da Mosè, mediante il quale venne la morte ai primogeniti d’Egitto e la vita al
popolo, e dai profeti, soprattutto da Elia ed Eliseo, che compirono il più grande prodigio mai
operato, quello della risurrezione (1Re 17,17-24; 2Re 4,18-37). Gesù Cristo ha operato varie
risurrezioni, fra le quali la più nota è quella di Lazzaro (Gv 11). Egli stesso è risuscitato dai
morti.
L’ultima chiave è quella della sterilità. Il vangelo di Luca si apre con il grembo di
Elisabetta che rifiorisce. Dio apre una via in mezzo alla sterilità e alla mancanza di speranza.
Dio anela a un nostro grido di preghiera, cerca di aprirsi una via nella nostra vita, una strada
nel deserto, come dovrà annunciare Giovanni il Battista: «Voce di uno che grida nel deserto:
preparate la via del Signore» (Mt 3,3). Poiché nei manoscritti non vi è alcun segno di
punteggiatura, il versetto può essere anche tradotto nel seguente modo: «Voce di uno che
grida: nel deserto preparate la via del Signore».

Offerta dell’incenso
Lo scenario con cui Luca apre il suo vangelo, come abbiamo ricordato, è Gerusalemme e
in particolare il cuore della città santa, il tempio. In esso Zaccaria, mentre esercita il servizio
sacerdotale, riceve l’annuncio dell’angelo Gabriele. Ancora oggi a Gerusalemme si può
vedere il luogo ove è avvenuto tale evento che segna l’inizio della nuova alleanza. Chi si reca
sulla sommità del monte degli Ulivi può ammirare un panorama stupendo sulla spianata del
tempio, ove si ergeva il Santo, che occupava una minima parte della grande spianata. Non
sappiamo esattamente ove si trovasse il Santo dei Santi - in merito sono state fatte numerose
ipotesi dagli studiosi - probabilmente esso era ubicato sotto l’attuale cupola della Roccia
(detta comunemente «moschea di Omar»). Oggi il luogo è custodito dai musulmani: essi
chiamano Gerusalemme con l’espressione araba al-Quds, «la Santa».
Anche per i cristiani la spianata del tempio è un luogo santo e per molte ragioni. In esso
sono avvenuti numerosi eventi della vita di Gesù, come, ad esempio, la cacciata dei mercanti
e il perdono all’adultera. Qui egli ha predicato e compiuto miracoli. Inoltre, i primi apostoli
sali- vano al tempio, là pregavano e predicavano con parresìa la buona notizia. Esso, infine, è
un luogo santo proprio per l’annuncio della nascita di Giovanni il Battista. Non si tratta, in
questa sede, di fare un commento del testo lucano, quanto piuttosto di soffermarsi su alcuni
aspetti degni di nota per quanto concerne il sottofondo evangelico. Così narra il vangelo di
Luca:

Avvenne che, mentre Zaccaria svolgeva le sue funzioni sacerdotali davanti al Signore
durante il turno della sua classe, gli toccò in sorte, secondo l’usanza del servizio
sacerdotale, di entrare nel tempio del Signore per fare l’offerta dell’incenso. Fuori, tutta
l’assemblea del popolo stava pregando nell’ora dell’incenso. Apparve a lui un angelo
del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso (Lc 1,8-11).

In questo testo, troviamo un aspetto forse poco noto a molti: offrire l’incenso nel
santuario era qualcosa che capitava, per sorte, una sola volta nella vita ai sacerdoti.
Conosciamo questo dato anche dalla Mishnà, testo che raccoglie le tradizioni rabbiniche
antiche. Nel trattato Tamid si precisa che l’offerta dell’incenso era una grazia che accadeva
una volta nella vita:

(Il sacerdote designato) diceva: «Sacerdoti nuovi all’offerta dell’incenso137, venite e


tirate a sorte!». Essi tiravano a sorte e chi vinceva, vinceva. (Poi diceva): «I nuovi con i
vecchi138, tirate a sorte!», (per determinare) chi sarebbe salito dalla rampa all’altare.139

L’espressione «i nuovi con i vecchi» (in ebraico hadashim gam yeshanim) sembra tratta
letteralmente da Ct 7,14: «Le mandragore mandano profumo; alle nostre porte c’è ogni
specie di frutti squisiti, i nuovi con i vecchi (hadashim gam yeshanim): amato mio, li ho
conservati per te». Tale particolare non è sfuggito ad alcuni rabbini, che hanno accostato tale
versetto al rito dell’offerta dell’incenso. Quando il sacerdote prescelto, alle porte del Santo
dei Santi (le «nostre porte»), offriva il profumo dell’incenso, era consapevole di compiere il
rito più importante della sua vita, giacché godeva di un’intimità particolare con Dio, l’Amato
d’Israele, offrendogli gli aromi «conservati» e sentendo, per così dire, il «profumo» della
presenza di Dio140.
Offrire l’incenso nel tempio, pertanto, era una grazia unica nella vita di un sacerdote
ebreo, costituiva un onore immenso e una gioia indescrivibile. Possiamo solo immaginare con
quale timore e tremore il sacerdote prestasse tale servizio, mentre tutto il popolo era in
preghiera. Zaccaria, pertanto, si trova nel momento culminante del suo servizio sacerdotale.
Ancora di più, tutta la storia della salvezza converge hic et nunc: i tempi giungono alla
pienezza, è annunciata la nascita del precursore che preparerà la via al Messia, che sarà la
porta al coronamento di tutta la storia.

Nazir ovvero consacrato


Zaccaria riceve l’annuncio dall’angelo Gabriele: «Non temere Zaccaria, la tua preghiera è
stata esaudita e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, e tu lo chiamerai Giovanni» (Lc 1,13),
in ebraico Yohanan, che significa «il Signore (Yo) ha fatto grazia (hanan)». Tale nome è
veramente una profezia, giacché racchiude la missione di Giovanni il Battista: il suo venire
nel mondo ha aperto l’epoca della grazia, l’era messianica di cui godiamo.
Così prosegue l’annuncio a Zaccaria:

Avrai gioia ed esultanza, e molti si rallegreranno della sua nascita, perché egli sarà
grande davanti al Signore, non berrà vino né bevande inebrianti, sarà colmato di
Spirito Santo fin dal seno di sua madre (Lc 1,14-15).

L’ingiunzione che Giovanni non dovrà bere vino né bevande inebrianti si riferisce al voto
di nazireato descritto in Nm 6, un capitolo di grande importanza anche per i sacerdoti,
giacché termina con la solenne benedizione sacerdotale che Aronne e i suoi figli (cioè tutti i
sacerdoti) dovranno recitare su Israele (Nm 6,22-27). All’inizio di tale capitolo, Dio prescrive
quanto segue:

Quando un uomo o una donna farà un voto speciale, il voto di nazireato per consacrarsi

137
Vale a dire, i sacerdoti che non avevano mai offerto l’incenso. Coloro che l’avevano già offerto non
partecipavano al sorteggio.
138
Vale a dire i sacerdoti che non avevano mai offerto l’incenso insieme a coloro che l’avevano già offerto.
139
Cf. m.Tam 5,2. Il rito di offerta dell’incenso è descritto da qui fino a 7,2.
140
Secondo quanto riferisce GIUSEPPE FLAVIO, Ant. 13,282, anche il sommo sacerdote Ircano ebbe rivelazioni
divine nel momento dell’offerta dell’incenso.
al Signore, si asterrà dal vino e dalle bevande inebrianti (...). Per tutto il tempo del suo
voto di nazireato il rasoio non passerà sul suo capo; finché non siano compiuti i giorni
per i quali si è votato al Signore, sarà sacro: lascerà crescere liberamente la capigliatura
del suo capo (Nm 6,2-3.5).

Ciò spiega, tra l’altro, perché, nella tradizione iconografica, Giovanni il Battista è
raffigurato con i capelli lunghi: egli era un nazireo.
Questo fatto collega la sua figura al nazireo più noto dell’Antico Testamento, Sansone. Vi
è indubbiamente un parallelismo tra le due figure: anche la madre di Sansone è sterile, anche
la sua nascita è annunciata da un angelo, anche nel suo caso il nazireato è una prescrizione
diretta del Signore (cf. Gdc 13,1-7). Com’è noto, secondo il racconto biblico, tutta la forza di
Sansone è nei capelli. Non si tratta di una credenza puerile: i capelli di Sansone erano il segno
visibile della sua consacrazione, del suo «essere santo» per il Signore. Una donna straniera,
Dalila, vorrà farlo diventare come un uomo qualsiasi, «come tutti gli altri». Su questo
particolare s’insiste nella storia di Sansone, giacché quando costui rivela all’insistente Dalila
il segreto della sua forza (com’è noto, solo l’ultima volta le aprirà tutto il suo cuore), le ripete
che, se gli si fosse fatto questo o quello, sarebbe diventato «come un uomo qualunque» (Gdc
16,7.11.13.17). Sansone, cioè, è un nazir, un «consacrato» e non un uomo come tutti gli altri.
Qui troviamo un aspetto particolarmente attuale per i cristiani. La tentazione più grande,
per essi, è esatta- mente quella di «essere come tutti gli altri», uomini «qualunque», cioè
mondani, per non correre il rischio di essere additati dagli altri e rifiutati. Essi hanno la co-
stante tentazione di dimenticare la loro consacrazione in forza del Battesimo, che li rende per
così dire «speciali», non conformi alla mentalità del mondo. Si tratta, in altre parole, del
pericolo di «annacquare» la loro originalità, di farsi accettare e amare dal mondo. Sansone,
com’è noto, cade in questa trappola, rivela il suo «segreto divino» e ritorna un uomo «come
tutti gli altri», finché non ricresceranno i suoi capelli e non si convertirà al Signore.
Giovanni il Battista, che è un uomo casto a differenza di Sansone, non sarà un uomo
come tutti gli altri. Egli sarà un profeta «contro corrente». La nostra generazione ha sempre
più urgente bisogno di profeti, di sentinelle, di baluardi, di punti di riferimento. Perciò oggi i
cristiani sono chiamati a rinnovare questo spirito, a chiedere a Dio lo Spirito di Giovanni il
Battista. Costui ha lo spirito e la forza di Elia: la sua parola è come il fuoco, non si adegua,
non è come tutti gli altri, non riduce la verità del suo annuncio per piacere agli uomini, per
essere popolare.
Gesù Cristo stesso, il «consacrato» di Dio per eccellenza, compirà in pieno tale realtà. Nel
vangelo di Giovanni, dopo che perfino alcuni dei suoi discepoli hanno abbandonato la sua
sequela, a Cafarnao Gesù chiede ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?» (Gv 6,67). Egli
non corre dietro a quelli che se ne sono andati. Con ciò, ovviamente, non s’intende dire che
lui e i suoi discepoli non devono andare al mondo e ai lontani (al contrario, tutta la loro
missione è rivolta al mondo e specialmente ai peccatori), quanto piuttosto evidenziare che
Gesù non diluisce la verità del suo vangelo, non si perde nella mondanità per farsi accettare
dagli altri, non riduce il suo messaggio per paura dell’insuccesso.
In modo analogo, per dirla con una parola, Giovanni il Battista è radicale. S. Giovanni
Paolo II, un profeta dei nostri tempi, usava spesso nei suoi discorsi il termine «radicalità».
Occorre sempre tornare alla radicalità del vangelo. Il cristianesimo, proprio come il Battista, è
radicale pur senza essere fondamentalista. Vi sono due estremi altrettanto pericolosi per la
Chiesa e, più in generale, per i credenti di oggi: da una parte il fondamentalismo, che
equivale a rifiutare il mondo e a chiudersi a esso disprezzando e giudicando così i peccatori,
dall’altra la mondanità, che significa abbassare lo standard dell’annuncio, «annacquare il
vino» del vangelo per paura che la gente se ne vada e che il suo messaggio possa non essere
accettato. Tra questi due estremi, la via da percorrere che indica Giovanni il Battista è la
radicalità del vangelo. I cristiani non possono perdere lo Spirito e la forza profetica, bensì
sono chiamati a essere «profeti di fuoco» come Giovanni il Battista e come Elia prima di lui,
pur nella loro debolezza.
Nonostante la sua giustizia e l’esaudimento della sua preghiera da parte di Dio, Zaccaria
non crede alla buona notizia annunciatagli dall’angelo e gli obietta: «Io sono vecchio».
L’angelo gli ribatte con un altro «io sono», molto più forte di quello del sacerdote:

Io sono Gabriele, che sto dinanzi a Dio, e sono stato mandato a parlarti e a portarti
questo lieto annuncio. Ed ecco, tu sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui
queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole, che si compiranno a
loro tempo (Lc 1,19-20).

L’espressione tradotta qui con «portare un lieto annuncio» è in realtà un unico verbo,
euangelisthai, che signifìca «evangelizzare»», «dare una buona (eu) notizia (angelion)»:
l’annuncio a Zaccaria è già pienamente «vangelo», perché annuncia la venuta del Messia
Salvatore. Come ricordato sopra, la fede non consiste primariamente nelle opere di giustizia.
Per quanto Zaccaria facesse molte opere pie e fosse uno scrupoloso osservante delle mitsvot
della Torah, dinanzi a ciò che gli pare impossibile non crede. Egli non crede che Dio possa
compiere l’impossibile e così rimane muto. L’incredulità rende muti. Nonostante ciò, Dio
rimane fedele e continua la sua opera malgrado la nostra incredulità e il nostro rimanere muti
davanti all’opera stupefacente di Dio, capace di fare l’impossibile.

Danza davanti all’arca vivente


L’antica tradizione ha collocato la visitazione di Maria a Elisabetta e il luogo di nascita di
Giovanni il Battista in un paese vicino a Gerusalemme, chiamato oggi Ein Karem, che
significa «la sorgente della vigna», e situato sulle montagne di Giuda. Abbiamo
testimonianze antiche sul fatto che là fosse conservato il luogo ove si trova la casa di Zaccaria
ed Elisabetta e fosse ri- cordata la nascita di Giovanni il Battista. Così attesta, ad esempio, nel
settimo secolo d.C. un antico lezionario liturgico, il Lezionario Georgiano.
Benché questo non sia uno dei luoghi santi della cui autenticità si sia più sicuri, a noi
interessa soprattutto l’evento che là si ricorda. Degno di nota, inoltre, è che si sia voluto
identificare e custodire il luogo santo di Ein Karem. Esso è un sito veramente meraviglioso,
oggi custodito dai padri francescani, il cui lavoro in Terra Santa è encomiabile e che hanno
fatto scavi archeologici sul sito. Questi hanno confermato che Ein Karem era un villaggio
abitato nel primo secolo d.C.: sono state rinvenute alcune mikva'ot, vale a dire piscine per
l’immersione rituale ebraica. Il luogo, inoltre, fu venerato fin dai primi secoli, come
testimonia un mosaico dedicato ai martiri di Dio presso la chiesa della Natività di Giovanni il
Battista.
Ein Karem è un luogo davvero ameno intorno a una sorgente che fu dedicata a Maria. Chi
lo visita rimane impressionato dalla sua fertilità, dall’abbondanza della vegetazione, dalla
bellezza dei fiori e dai suoi profumi. Colpisce, in particolare, il contrasto di questo luogo così
florido con l’arido deserto che sarà lo scenario della missione di Giovanni.
A Ein Karem vi sono due santuari, entrambi sotto la Custodia francescana di Terra Santa:
nel primo, collocato sulla sommità di un monte, si ricorda il mistero della Visitazione. Maria,
dopo aver ricevuto l’annuncio dell’angelo e mentre Elisabetta è al sesto mese, da Nàzaret «si
alza e va in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda» (Le 1,39). Luca, per
esprimere l’alzarsi di Maria, impiega il verbo anistēmi che è lo stesso verbo usato per
indicare la risurrezione. Maria è la nuova donna, la risorta. Essa si alza in fretta e intraprende
un lungo viaggio, circa quattro giornate di cammino, fino alla regione che il vangelo di Luca
chiama in greco oreinē (Le 1,39), cioè la regione montuosa di Giuda, dove appunto è
collocato il paese di Ein Karem.
Vale la pena soffermarsi su questo mistero della visitazione che è di una profondità,
oserei direi, abissale. La Vergine Maria si reca nella regione montuosa di Giuda, ove
nell’Antico Testamento si era posata l’arca dell’alleanza, il luogo della Shekhinah divina,
della dimora di Dio tra gli uomini. Essa era un santuario mobile che accompagnava il popolo
e rappresentava qualcosa di straordinario rispetto alle altre religioni. Dio già nell’antica
alleanza dimora e cammina con il popolo, condivide le sue sofferenze. Quando Davide
riporta l’arca dell’alleanza dalle montagne di Giuda, dov’era finita dopo varie vicissitudini, a
Gerusalemme, danza con gioia dinanzi ad essa (2Sam 6). La presenza di Dio provoca sempre
nell’uomo la danza e la gioia.
Tutta questa realtà si è compiuta in Gesù Cristo. In lui la presenza di Dio è ancora, per
così dire, «mobile», ma ora risiede in un santuario vivente, nel grembo di una donna, in
Maria, nuova arca dell’alleanza. Non a caso, nelle litanie lauretane del Rosario, Maria è
invocata proprio come «arca dell’alleanza». Giovanni il Battista nel grembo di Elisabetta
esulta e danza davanti alla nuova arca dell’alleanza, nel cui seno dimora la pienezza della
presenza di Dio. Elisabetta si rivolge a Maria con queste parole: «Ecco, appena il tuo saluto è
giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo» (Lc 1,44). Per
esprimere tale sussulto, si usa il greco eskirtēsen, che significa «ha esultato», «ha fatto salti di
gioia», come a dire: «ha danzato di gioia» nel grembo di Elisabetta. Costei aggiunge: «E
beata è colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto» (Lc 1,45).
Così, l’Antico Testamento s’incontra con il Nuovo, l’ultimo dei profeti con il Profeta che
doveva venire nel mondo, il popolo ebraico con il Messia, che diverrà il Messia degli ebrei e
dei gentili. Ciò provoca l’esultanza. I padri della Chiesa hanno insistito su questo mistero
dell’incontro fra le due donne, Maria ed Elisa- betta, e dei bambini nel loro grembo.

Il decimo cantico
Subito dopo tale incontro, Maria innalza il meraviglioso cantico del Magnificat. In tal
modo, Giovanni il Battista danza dinanzi al Messia e la Vergine Maria canta. La danza e il
canto sono di grande importanza nella tradizione ebraica, e poi naturalmente nella tradizione
cristiana. Il Targum al Cantico dei Cantici si apre con i dieci canti di lode che, nella storia
della salvezza, sono intonati per Dio. L’inserzione targumica raccoglie gli inni presenti nella
Scrittura, cantati nei momenti di salvezza più importanti. Secondo il Targum, il primo fu il
cantico di Adamo dopo il perdono dei peccati quando arrivò per lui il giorno di sabato. Il
secondo fu il cantico che Mosè cantò con gli Israeliti dopo che Dio divise il mare per loro. Il
terzo cantico fu quello intonato dagli Israeliti quando fu donato loro il pozzo d’acqua nel
deserto. Il quarto cantico fu ancora cantato da Mosè nel momento in cui giunse la sua ora di
lasciare questo mondo. Il quinto fu il cantico di Giosuè nella vittoria di Gabaon, quando il
sole si fermò. Il sesto cantico fu intonato da Debora e Barak dopo la vittoria su Sisara e il suo
esercito. Il settimo fu il cantico di Anna come risposta al dono di un figlio nella sua sterilità.
L’ottavo cantico fu cantato da Davide per tutti i miracoli compiuti da Dio in suo favore. Il
nono cantico è il Cantico dei Cantici, intonato da Salomone davanti al Signore dell’universo.
Il decimo cantico, quello definitivo, sarà quello di tutti gli Israeliti nei tempi messianici,
quando giungerà la liberazione, che sarà per essi «una gioia, come la notte in cui si celebra la
Pasqua»141.
Secondo la tradizione rabbinica, pertanto, l’ultimo cantico sarà quello messianico. Nel
vangelo, Maria, a nome di tutti i credenti, come figlia di Israele e icona della Chiesa nascente,
intona il suo cantico di gratitudine a Dio per la sua salvezza, portando il Messia nel suo
grembo, l’Emmanuele, il Dio-con-noi.

No, si chiamerà Giovanni!


Come precisa il vangelo di Luca, Maria rimane tre mesi con Elisabetta (cf. Lc 1,56).
141
TgCt 1,1; si veda anche MekhY a Es 15,1.
Poiché questa era al sesto mese di gravidanza quando Maria ricevette l’annuncio dell’angelo
(cf. Lc 1,26), è probabile che Maria abbia voluto assistere al miracolo della nascita di
Giovanni il Battista, il che rappresentava la conferma datale dall’angelo che «nulla è
impossibile è a Dio» (Lc 1,37) e che, di conseguenza, non era impossibile nemmeno il suo
concepimento verginale per opera dello Spirito Santo.
Nella grotta di una chiesa di Ein Karem si fa memoria della nascita di Giovanni il
Battista. Otto giorni dopo la nascita, com’è usanza nella fede ebraica, si circoncide il
bambino e gli s’impone il nome. Come abbiamo visto, Giovanni ha un nome designato
dall’angelo Gabriele, che significa «il Signore ha fatto grazia» e che racchiude tutta la sua
futura missione. Luca rileva che, nel momento della circoncisione del bambino, i suoi
familiari vogliono chiamarlo con il nome di suo padre, che era un personaggio importante, un
sacerdote. Elisabetta, tuttavia, si oppone con audacia alla cerchia familiare, imponendo un
netto rifiuto: «No, si chiamerà Giovanni!» (Lc 1,60). Il fatto che una donna si opponesse alle
pressioni di un clan familiare sacerdotale non doveva essere cosa comune al tempo. Per tale
ragione, i familiari domandano al padre del bambino come voleva che si chiamasse. Zaccaria,
muto per la sua incredulità, scrive su una tavoletta: «Yohanan shemo», «Giovanni è il suo
nome» (Lc 1,63).
Tutto ciò ha un significato molto più profondo di quanto possa sembrare all’apparenza.
Yohanan sarà libero dai legami familiari e avrà una missione unica. Come detto sopra, egli
sarà un consacrato del Signore, non sarà come tutti gli altri né schiavo dei progetti familiari,
ma costituirà una novità rispetto al passato, perché dovrà preparare la via alla novità per
eccellenza che è il Messia.

Cammino nel deserto


Dopo aver scritto il nome di Giovanni, la bocca di Zaccaria si apre, perché Dio è più
grande dell’incredulità umana. Zaccaria comincia a benedire Dio e anche lui innalza un
cantico stupendo, il Benedictus (1,68-79). Il vangelo di Luca è pervaso dalla gioia messianica
e costellato di cantici.
Subito dopo aver riportato il cantico di Zaccaria, Luca narra: «Il bambino cresceva e si
fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a
Israele» (Lc 1,80). Al tempo di Gesù, vari personaggi andarono a vivere nel deserto. Di uno
di questi sappiamo perfino il nome, Banno. È Giuseppe Flavio a riferirci di lui:

Quando seppi che uno, di nome Banno, viveva nel deserto, non usava altro vestito se
non quanto cresceva sugli alberi, non prendeva altro cibo se non quanto germogliava
spontaneamente e si lavava in acqua fredda frequentemente giorno e notte per
preservare la castità, divenni geloso di lui e rimasi presso di lui per tre anni.142

Giuseppe Flavio, venuto a sapere di questo personaggio carismatico che viveva nel
deserto, divenne «zelante» o «geloso» di lui (secondo i due significati del termine greco
zēlōtēs impiegato) e cominciò a imitarlo. Va notato che lo storico ebreo era di famiglia
sacerdotale, proprio come Giovanni il Battista.
Vi erano altri personaggi che attendevano nel deserto la rivelazione del messia, come gli
esseni o gli uomini di Qumran. Sono stati rilevati possibili contatti tra il Battista da una parte
e i membri della comunità di Qumran e gli esseni dall’altra, riguardo, ad esempio, la
concezione di preparare al Signore la via nel deserto143, l’importanza dei battesimi144 e della
conversione ad essi legata145. Sia il Battista sia gli uomini di Qumran, pervasi da una fervente
142
GIUSEPPE FLAVIO, Vita 11-12.
143
Cf. l’uso simile di Is 40,3 in Mt 3,3 e in 1QS 8,12-15; cf. anche 1QS 9,19-20; 1QM 1,2-3.
144
Si veda GIUSEPPE FLAVIO, Bell 2,116.129.137-138.148-149; CD-A 10,10-13; 4Q414; 4Q512.
145
Secondo i testi qumranici, l’immersione nell’acqua ha senso solo quando si è data la conversione: cf., ad es.,
attesa messianica, attendevano nel deserto la rivelazione di Dio e la consolazione d’Israele,
secondo quanto profetizzato dal cosiddetto «libro della consolazione» di Isaia che comincia
dicendo:

Consolate, consolate il mio popolo (nahamu nahamu ‘ammi) - dice il vostro Dio -.
Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta, la sua
colpa è stata scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i
suoi peccati. Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore» (qol qore’
bammidbar pannu derekh YHWH; Is 40,l3‫־‬a).

Com’è noto, gli antichi codici in ebraico (come del resto quelli in greco) non contengono
segni d’interpunzione, per cui, come accennato sopra, il testo si può leggere in due modi:
«Una voce grida: “Nel deserto preparate la via del Signore”»; o altrimenti: «Una voce grida
nel deserto: “Preparate la via del Signore”». Nella seconda possibilità, la voce grida nel
deserto. Secondo i vangeli (Mt 3,3; Mc 1,3-4; Lc 3,3-4), Giovanni, nella sua stessa persona,
compie questa parola: egli è la voce nel deserto.
Il deserto è, quindi, il luogo in cui risuona la voce del Signore. Del resto, l’avvento del
messia si attendeva proprio nel deserto. Come il popolo di Israele, dopo grandi sofferenze,
sperimenta la liberazione e la presenza di Dio per mezzo di Mosè, primo redentore, e dal
deserto sale alla terra promessa, così la redenzione definitiva doveva giungere dal deserto.
Per tale ragione, la prima cosa che lo stesso Gesù Cristo fa, proprio come Giovanni il
Battista, è andare nel deserto.
Gli ebrei religiosi, al tempo di Gesù (e così fino ad oggi), scrutavano in profondità le
Scritture, le imparavano a memoria, le meditavano e le «ruminavano» giorno e notte (cf. Sal
1,2), in altre parole, se così si può dire, le «giravano e le rigiravano»146. Alcuni sapevano bene
che il messia si sarebbe rivelato nel deserto e per questo invitavano i loro giovani a vivere
delle esperienze nel deserto, a recarsi là per ritornare al Signore, per convertirsi e incontrare
Dio, e per conoscere i vari personaggi profetici e carismatici, in attesa del messia.
Ora, nel deserto, si rivela «il più grande tra i nati di donna», benché «il più piccolo nel
regno dei cieli» sia «più grande di lui», come afferma Gesù Cristo (cf. Mt 11,11; Lc 7,28).
Giovanni il Battista, infatti, pur essendo il più grande tra i profeti (Gesù escluso), non
conoscerà la risurrezione di Cristo, non vedrà, per così dire, «il deserto fiorito» secondo
quanto profetizzato da Isaia, cioè non vedrà il totale compimento dell’opera di salvezza. Egli,
proprio come Mosè, morirà nel deserto, al di là del Giordano, nella fortezza di Macheronte.

Profeta scomodo
La fede cristiana è ancorata alla storia. Giovanni il Battista è un personaggio storico: di
lui parla perfino Giuseppe Flavio147, che tratta della sua uccisione nel deserto per opera di
Erode Antipa nella fortezza di Macheronte, i cui resti oggi si possono visitare. La figura di
Giovanni il Battista, oltre ad essere storica, è quanto mai attuale, giacché «grida» ancora oggi
per i cristiani. Anch’essi spesso sono chiamati a gridare nel deserto e per quanto sembri loro
di essere soli, in realtà non è così. Folle numerose seguirono Giovanni il Battista nel deserto.
Tra essi vi erano lontani e peccatori. Perfino Erode Antipa, al quale Giovanni annunciava a
viso aperto e senza timore la verità, dicendogli: «Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo
fratello» (Mc 6,18), lo temeva e lo riteneva «giusto e santo»; benché nell’ascoltarlo rimanesse
«molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri» (cf. Mc 6,18-20).

1QS 2,25-3,9; 5,13-14; 6,20-22.


146
Così si afferma nella Mishnà riguardo alla Torah: «Gira e rigirala, perché in essa vi è tutto, guarda in essa,
invecchia e diventa anziano in essa, e non ti allontanare da essa, perché non hai buona misura se non questa»
(ni.Av 5,22; cors. nostro).
147
Si veda il racconto, di estremo interesse, in GIUSEPPE FLAVIO, Ant 18,109-119.
Erode, quindi, teneva in prigione Giovanni a Macheronte, ma lo ascoltava. Questa è la
missione dei cristiani. Per quanto talvolta possano sentirsi soli nel deserto del mondo o si
voglia azzittirli, per quanto siano gettati in prigione o additati come fondamentalisti, la gente,
in fondo, desidera ascoltarli, perché ne ha bisogno. Essi sono, sempre e comunque, la luce del
mondo e il sale della terra. Essi sono chiamati a chiedere ogni giorno a Dio lo spirito di
Giovanni il Battista, e ancor di più, lo Spirito Santo, che quello non potè ricevere in pienezza.
Egli, in tutta la sua grandezza, è rimasto alla porta, mentre i cristiani sono entrati nella porta
del Messia, nella sua risurrezione, sono stati ri- colmati dello Spirito Santo e del fuoco
annunziati da Giovanni (Mt 3,11).
S. Paolo intima ai cristiani: «Non spegnete lo Spirito» (lTs 5,19). I cristiani sono chiamati
a desiderare la grazia di questo fuoco, a rinnovare ogni giorno la nuova alleanza con Dio, a
lasciare spazio allo Spirito del Signore, affinché la loro parola possa essere di fuoco, piena di
misericordia, sì, ma anche di verità, giacché i lontani hanno bisogno sia di misericordia sia di
verità: benché rimangano perplessi, essi ascoltano volentieri la verità. Per tale ragione, i
cristiani non possono rima- nere zitti. A immagine di Giovanni il Battista, il grande martire e
il testimone per eccellenza (in greco martyr significa entrambe le cose, «martire» e
«testimone»), i cristiani non devono estinguere lo Spirito della testimonianza.
La nostra generazione ha più che mai bisogno di punti di riferimento, di sentinelle, di luci
che brillano nell’oscurità. Tutto ciò non viene dallo sforzo umano né può essere motivo di
vanità o di superiorità verso alcuno, giacché la luce dei cristiani proviene da un Altro. Per tale
ragione, Giovanni il Battista non si è dichiarato il messia, non si è indebitamente appropriato
di ciò che apparteneva al solo Gesù Cristo, all’unico Sposo. Egli stesso confesserà: «Nessuno
può prendersi qualcosa se non gli è stata data dal cielo» (Gv 3,27), come a dire: non siamo
noi i salvatori né il messia, eppure il tesoro che abbiamo è immenso. I cristiani conoscono
Tunica via di salvezza che è Gesù Cristo, per cui non possono tenerla nascosta, bensì sono
chiamati ad essere «il dito» che indica al mondo il Salvatore, lo Sposo, l’Unico che può
veramente saziare la fame profonda dell’uomo, affinché la sua vita possa essere piena, felice,
eterna. Il mondo ha bisogno di testimoni e di profeti, a immagine del Battista, che annuncino
la verità con amore e parresìa senza fondamentalismi, ma non per questo con meno
radicalità.
9

IL NATALE DEL MESSIA A BETLEMME

Casa del pane e della carne di Cristo


In una sua lettera ai cristiani del medio oriente nell’imminenza del Natale del 2014, Papa
Francesco ha scritto:

Ho pensato di scrivere a voi, fratelli cristiani del Medio Oriente. Lo faccio


nell’imminenza del Santo Natale, sapendo che per molti di voi alle note dei canti
natalizi si mescoleranno le lacrime e i sospiri. E tuttavia la nascita del Figlio di Dio nella
nostra carne umana è ineffabile mistero di consolazione: «È apparsa la grazia di Dio,
che porta salvezza a tutti gli uomini» (Tt 2,11).148

A Betlemme è apparsa per noi la grazia di Dio che è fonte di salvezza ed è avvenuta la
nascita del figlio di Dio nella nostra carne umana, «ineffabile mistero di consolazione». Per
entrare in questo mistero del Natale, ci rechiamo spiritualmente laddove è nato il Messia,
andando «alle sorgenti» di questo luogo santo.
Senza entrare nelle questioni riguardanti l’etimologia scientifica del suo nome, Betlemme
si dice in ebraico Bet-lehem, «casa del pane», e in arabo Bet-lahm, «casa della carne». Si
tratta di un nome particolarmente denso di significato: il Logos di Dio si è fatto carne,
prendendo la nostra umanità, e si è fatto pane, dandosi a noi come cibo. Non a caso, Gesù
nasce in una mangiatoia. Questa è già una prefigurazione del mistero pasquale.
Nell’iconografia bizantina il bambino Gesù è avvolto in fasce (anche i defunti erano avvolti
in fasce) e posto in una culla simile a un sepolcro, a significare che quel bambino ci è stato
donato nel suo vero corpo come pane vivo di- sceso dal cielo.
Come aveva profetizzato Isaia, in Gesù «ci è stato dato un figlio» e «un bambino è nato
per noi» (cf. Is 9,5). Secondo Isaia, il primo nome misterioso di questo bambino sarebbe stato
in ebraico pele’yo‘ets, che letteralmente si può tradurre «meraviglia di consigliere» (Is 9,5).
Conformemente a tale profezia, S. Efrem il Siro lo chiama semplicemente «meraviglia»:
«Oggi è nato un bambino, il suo nome è Meraviglia. È proprio una meraviglia di Dio che egli
si sia manifestato come un infante»149.
Gli altri nomi profetizzati nello stesso versetto di Isaia sono: ’el gibbor, «Dio potente»,
avi’ad, «Padre eterno», e, infine, sar shalom, «Principe di pace». Tale pace che il Messia ha
portato è immensamente più profonda della pax augustea tanto in voga al suo tempo.

Shekhinah in noi
La nascita del Messia è il mistero dell’Emmanuele, del Dio con noi. Uno dei vangeli della
solennità liturgica del Natale è il prologo di Giovanni, ove si afferma: «E il Verbo si fece
carne (kai ho logos sarx egeneto), e venne ad abitare in mezzo a noi (kai eskēnōsen en
hēmin)» (Gv 1,14). Quest’ultima espressione greca si può tradurre letteralmente «e mise la
sua tenda in noi». Egli, pertanto, non è venuto ad abitare solo in mezzo a noi. Si tratta di una
di- mora molto più profonda, la più profonda possibile: in noi.

148
FRANCESCO, Lettera ai cristiani del medio oriente (21 dicembre 2014).
149
EFREM IL SIRO, Hymn nat 1,9; la traduzione è tratta da ID., Inni sulla
natività e sull 'epifania, 115.
Nel versetto citato dal prologo del quarto vangelo s’impiega un verbo altamente
evocativo, skēnōo («abitare, dimorare»), che proviene da un tema verbale greco le cui lettere
richiamano il verbo ebraico shakhan, che significa «dimorare». Da esso, a sua volta, deriva
un termine di grande rilevanza nella tradizione ebraica, «Shekhinah», che designa la dimora
di Dio, la presenza nella tenda del deserto e poi nel tempio, divenendo perfino un sostitutivo
del nome santo di Dio. Ora, in Gesù, questa presenza della gloria divina non è più in un
tempio fatto di pietre ma di carne, nell’uomo stesso, in noi: «Ha messo la sua tenda in noi, e
noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre,
pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14). Secondo la tradizione cristiana antica, Gesù è nato in
una grotta, dato che i vangeli non riportano: la luce della gloria divina rifulge nell’oscurità
delle profondità della terra, come vedremo.

Luce nuova del mondo


È necessario sempre rivivere il Natale, il grande mi- stero dell’incarnazione, come una
novità assoluta. Il grande rabbino Nahman di Breslav (1772-1810) sostenne che, nella vita del
credente, è indispensabile un costante hiddush, un «rinnovamento» quotidiano in vista del
qiddush, della «santificazione». In ebraico vi è un passo molto breve, solo una lettera in
fondo, tra la novità e la santità! Per tale ragione, egli ripeteva che «è proibito essere vecchi».
Il mistico rabbino non si riferiva ovviamente all’età anagrafica, quanto a quella spirituale: è
proibito essere vecchi dentro, giacché anche un giovane può essere vecchio nel suo interiore.
Egli invitava il credente ebreo a rigettare un certo modo «vecchio e routinario» di scrutare la
Scrittura, di pregare e di vivere la fede.
Tutto ciò vale a fortiori per il fedele cristiano. Questi è chiamato a interpretare la Parola e
a vivere la liturgia alla luce della perenne novità del Logos che è Gesù Cristo. Costui è
veramente il Novus, la novità che rinnova costantemente la vita di chi lo segue. A questo
proposito, Papa Benedetto XVI, in un suo discorso del 2012, ha affermato:

Il Cristianesimo è sempre nuovo. Non lo dobbiamo mai vedere come un albero


pienamente sviluppatosi dal granello di senapa evangelico, che è cresciuto, ha donato i
suoi frutti, e un bel giorno invecchia e arriva al tramonto la sua energia vitale. Il
Cristianesimo è un albero che è, per così dire, in perenne «aurora», è sempre giovane, e
questa attualità, questo «aggiornamento» non significa rottura con la tradizione, ma ne
esprime la continua vitalità.150

È essenziale, di conseguenza, entrare nella novità del Messia che si rinnova nel mistero
del Natale. Il Messia è la Stella che sorge dall’oriente, è spuntata nel mondo e illumina la vita
dell’uomo. In prossimità della festa cristiana del Natale, gli ebrei celebrano Hannukkah, la
festa della dedicazione del tempio, denominata nella tradizione «festa delle luci» (hag ha-
’orim)151. In essa, gli ebrei fanno ardere ogni giorno la luce della hannukkiah, candelabro a
nove bracci tipico della festa. Essi devono adempiere la mitsvah («precetto») di porre tale
candelabro in vista, alle finestre o alle porte della casa, affinché tutti vedano la luce.
Quest’ultima ricorda la vittoria dei maccabei, vale a dire il trionfo della debolezza degli ebrei
su uno degli eserciti più potenti della storia, quello di Antioco Epifane IV, uno degli eredi di
Alessandro Magno, conquistatore del mondo antico. Gli ebrei devono ricordare il miracolo
(nes in ebraico) avvenuto in Terra Santa della luce divina che vince le tenebre del mondo.

150
BENEDETTO XVI, Discorso nell’incontro con i Vescovi che hanno partecipato al Concilio Ecumenico Vaticano
II e i Presidenti di Conferenze Episcopali (12 ottobre 2012).
151
Il titolo risale almeno all’epoca di Gesù, come testimoniato da GIUSEPPE FLAVIO, Ant 12,325, il quale
afferma che, dal giorno della ridedicazione del tempio per opera dei maccabei fino al suo tempo, «noi
celebriamo tale festa e la chiamiamo “festa delle luci”, per il fatto - credo - che il diritto di celebrare il culto ci
appare luce in un tempo di crisi di ogni speranza».
Ogni giorno accendono una candela del candelabro dalla luce della sua candela centrale,
denominata shammash, che significa «servo» (similmente in arabo shammas vuol dire
«diacono»).
Gesù Cristo, il vero Servo, è stato la «luce del mondo» (Gv 8,12) posta in mezzo e in alto
per illuminare i suoi discepoli, affinché essi divengano altrettante «luci» per il mondo, come
il loro maestro predica nel Discorso della montagna:

Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte,
né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa
luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini,
perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli (Mt
5,14-16).

Gesù Cristo è questa lampada posta sul candelabro, la luce che ha la capacità di accendere
ogni giorno i suoi discepoli, «luci nel mondo». Anche per questa ragione il Natale è la festa
della luce.

Figlio di Abramo
I rabbini rilevano l’importanza di vedere la Scrittura come qualcosa di sempre nuovo e
attuale. Per essi, la Torah possiede «settanta volti»152: essa è come il vino che rivela i suoi
gusti svariati a chi ha il «palato affinato» a esso ovvero, in altre parole, a chi è «iniziato». La
gematria del termine ebraico yayin («vino»), infatti, equivale al numero settanta153. In ogni
parola della Scrittura «splendono molte luci», come afferma il Sal 62,12: «Una parola ha
detto Dio, due ne ho udite: la forza appartiene a Dio»154. Ciò vale ancor più per i cristiani, ai
quali è stato rivelato il «vino nuovo» del Messia (cf. Le 5,38; Gv 2,10). Alla sua luce
rileggiamo ora i vangeli dell’infanzia.
I cosiddetti «vangeli dell’infanzia» di Matteo e Luca non sono una favola né vanno
catalogati sic et simpliciter come un midrash. Occorre rifuggire dalla mentalità razionalista,
causa della preoccupante aridità in cui oggi versa un certo tipo di esegesi. Non va mai
dimenticato che la Parola di Dio (e quindi anche i vangeli dell’infanzia) sono anzitutto
kerygma, annuncio sempre attuale e nuovo che irrompe nell’esistenza umana. La forza del
vangelo e del kerygma è, in definitiva, la stessa forza di Dio. Il termine greco kerygma, com’è
noto, significa «proclamazione della salvezza». Il fatto che i vangeli dell’infanzia, così come i
vangeli nel loro insieme, siano kerygma e teologia non toglie nulla, tuttavia, alla loro
storicità. Essi sono indubbiamente storia, ma già una «storia kerigmatica».
Ciò significa che intento degli evangelisti non è tanto scrivere una cronaca fredda degli
avvenimenti, quanto annunciare Yeshua‘ («Gesù»), nome che significa «il Signore salva».
Gli evangelisti, così come i primi apostoli, hanno ritenuto di dover annunziare la salvezza
attraverso la storia, perché veramente Dio si è fatto storia, affinché i credenti in Yeshua‘
potessero entrare e vivere nella yeshu‘ah, nella «salvezza» contenuta nel suo nome e nella sua
persona.
Non intendiamo, in questa sede, commentare in dettaglio i vangeli dell’infanzia, quanto
piuttosto soffermarci sul loro background per illuminarne alcuni dettagli. Il vangelo di
Matteo si apre con una genealogia. Nella mentalità popolare dei fedeli cristiani, le genealogie
costituiscono una noiosa ripetizione di nomi stranieri e difficili da leggere (e purtroppo di
sovente storpiati nella lettura liturgica!). In realtà, la genealogia è tutt’altro che una parentesi

152
Cf. BemR 13,15, ove si afferma: «Come il calcolo del numero di “vino” è settanta, così vi sono settanta
“volti” nella Torah».
153
La gematria è il calcolo dei numeri corrispondenti alle lettere del termine ebraico yayin («vino»), giacché ogni
lettera ebraica corrisponde a un numero.
154
Così ancora in BemR 13,15.
monotona del vangelo. Al contrario, è meraviglioso che il vangelo cominci con nomi concreti
che richiamano una realtà tangibile: Dio che entra nella storia di un popolo, Israele.
Così inizia il vangelo di Matteo: «Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di
Abramo. Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi
fratelli» (Mt 1,1-2). Matteo decide di cominciare il suo vangelo attribuendo due titoli a Gesù:
«figlio di Davide» e «figlio di Abramo».
Gesù è anzitutto figlio di Abramo, poiché egli è «la discendenza» promessa al primo
patriarca. In Gen 12,3 Dio stesso dichiara ad Abramo: «In te si diranno benedette tutte le
famiglie della terra». Alcuni Targumim interpretano nel senso che le genti saranno benedette
«per il merito» e la giustizia di Abramo155. Tale giustizia consiste essenzialmente nella sua
fede156. Il merito dei patriarchi è un tema ricorrente nel Targum come anche nella letteratura
rabbinica e midrashica157. In virtù del merito dei padri e dei giusti, i figli d’Israele sono
esauditi e salvati. Il legame tra Gen 12,3 e il merito d’Abramo risale certamente almeno
all’epoca di Gesù, poiché ricorre già nell’esegesi di Filone158. La versione della Bibbia in
siriaco (chiamata Peshitta) aggiunge alla fine del versetto l’espressione «nella tua
discendenza», evidenziando così che le genti della terra saranno benedette nella discendenza
di Abramo. L’interpretazione di Sir 44,21 va nella stessa direzione: Dio giurò ad Abramo di
«benedire i popoli nella sua discendenza»159. Il kerygma di Pietro in At 3,25 interpreta il
versetto in senso decisamente messianico e traduce così l’espressione: «Nella tua
discendenza saranno benedette tutte le nazioni della terra». Anche Paolo, in Gal 3,16,
interpreta in modo simile:

Ora è appunto ad Abramo e alla sua discendenza che furono fatte le promesse. Non
dice la Scrittura: «E ai discendenti», come se si trattasse di molti, ma: E alla tua
discendenza, come a uno solo, cioè Cristo.

L’interpretazione messianica di Gen 12,3 era quindi diffusa nel primo cristianesimo.
Quest’ultimo, tuttavia, l’ha ripresa dall’interpretazione orale ebraica. La testimonianza di Sir
44,21 sopra menzionata mostra come, già prima di Cristo, Gen 12,3 fosse interpretato nel
senso che le genti sarebbero state benedette nella discendenza di Abramo, il che poteva
essere inteso come in un suo discendente e nei suoi meriti. Ciò significa che, per i cristiani,
Gesù Cristo è il nuovo Isacco, non nel senso di sostituzione (non sia mai!) ma di
compimento. Gesù è il compimento della benedizione universale fatta ad Abramo: nel
Messia, discendenza di Abramo, saranno benedetti gli ebrei e tutti i pagani della terra. Gesù
Cristo è il nuovo Isacco nel quale i credenti in lui hanno ricevuto la berakhah, la
«benedizione» divina.

Figlio di Davide
In Matteo, Gesù Cristo è chiamato anzitutto «figlio di Davide», il che equivale a dire che
è il Messia, il re d’Israele, il nuovo Salomone destinato a edificare il nuovo tempio. Gesù è il
re ideale profetizzato da Natan a Davide e che Salomone ha compiuto solo parzialmente.
Come Davide suo padre, Gesù nasce a Betlemme.
Proprio a Betlemme, uno tra i più piccoli villaggi della tribù di Giuda, cadde la scelta

155
Si veda TgGen 12,3 (TgN, TgF [mss. V, Sas]).
156
In TgGen 15,6 (TgO, TgN, TgJ), il termine aramaico zkw («merito») traduce l’ebraico tsedaqah («giustizia»):
il merito d’Abramo è quindi legato alla sua fede. Questa tradizione interpretativa ha potuto servire da base alla
conclusione di Paolo in Gal 3,8: la benedizione delle genti in Abramo in Gen 12,3 va interpretata nel senso che
Dio giustifica le genti per mezzo della fede.
157
Cf., ad es., b.RHSh 11a; BerR 39,12.
158
Si veda FILONE, Migr 121-125.
159
Cf. il testo ebraico di Sir 44,21.
divina sul più piccolo dei figli di lesse, discendente di Giuda. Nell’Antico Testamento, Dio
intima a Samuele: «Riempi d’olio il tuo corno e parti. Ti mando da lesse il Betlemmita,
perché mi sono scelto tra i suoi figli un re» (1Sam 16,1). Il profeta, dopo aver passato in
rassegna tutti i figli di lesse, deve costatare che su nessuno di essi cade la scelta del Signore
(1Sam 16,10). lesse si è dimenticato del «più piccolo», assente dalla casa perché pascolava il
gregge (1Sam 16,11). Il più piccolo, il prescelto, è preso quindi dal pascolo del gregge, dai
pastori. Ecco perché i primi che a Betlemme ricevono dall’angelo l’annuncio della nascita del
Re Messia, figlio di Davide, sono proprio i pastori, ai tempi di Gesù categoria disprezzata ed
equiparata ai ladri. A quell’epoca, inoltre, i pastori non potevano essere presi come testimoni
(proprio come le donne che saranno testimoni della risurrezione!), giacché, dovendo stare
sempre in mezzo al gregge, erano al margine della vita comunitaria e liturgica. Essi, inoltre,
potevano contrarre varie impurità e per questo erano disprezzati dai religiosi.
Davide, dunque, il più grande re nell’antica alleanza, tanto che fino ad oggi nella
tradizione ebraica è figura del messia, è preso come pastore da dietro il gregge, essendo per di
più l’ultimo dei suoi fratelli. A Betlemme, fin dall’inizio, Dio sceglie la debolezza di un
giovane che affronterà il gigante Golia, il quale per i padri della Chiesa è figura del demonio.
Un giovane disarmato, come secoli dopo il suo più degno figlio Gesù, salva il suo popolo
senza spada, armato del solo nome del Signore. Tutto ciò, come appare evidente, è mirabile
prefigurazione degli eventi accaduti a Betlemme nel tempo del Natale del Messia.

Discendenza e compimento dei padri


Per i lettori «iniziati», così come per gli ebrei, le genealogie sono fondamentali, e ciò
almeno per due ragioni. In primo luogo, le genealogie bibliche rivelano che Dio è entrato
nella storia e si è legato in perenne alleanza con persone e nomi concreti. In secondo luogo,
nelle genealogie è implicita la concezione che negli antenati è già, in qualche modo,
prefigurata la loro discendenza.
Nella tradizione orale ebraica, e in particolare nelle tradizioni targumiche e midrashiche, i
padri e le madri d’Israele sono considerati come personalità corporative: non solo ciò che si
predica di loro riguarda implicitamente Israele, ma quest’ultimo è riassunto e concentrato
nelle loro persone. Abramo, ad esempio, è il «progenitore»160, non solo come antenato
secondo la carne, ma anche come prefigurazione e «incarnazione» dell’Israele fedele, che è
«nei suoi lombi» (cf. Eb 7,5.10). Tutto ciò che si dice riguardo ad Abramo è scritto anche
riguardo ai suoi figli.
Nei padri, pertanto, sono anticipate, prefigurate e concentrate le realtà più importanti che
nel futuro caratterizzeranno Israele: il culto del Tempio e i sacrifici, le sue feste e la sua
preghiera. Si tratta di ciò che è stato arditamente definito «il principio basilare della tipologia
rabbinica»161 ed è stato così formulato: «Tutto ciò che è accaduto ai padri è un segno per i
figli»162. Questo principio, che i padri della Chiesa chiamerebbero «tipologico», è pertanto già
presente nella tradizione ebraica antica. Ora, anche il messia poteva essere presentato come
personalità corporativa per eccellenza e come summa delle personalità corporative
dell’Antico Testamento. Ricapitolando e rappresentando in sé l’intero Israele, il messia è al
tempo stesso discendenza dei padri e compimento di tutte le realtà in essi prefigurate.
Questa dinamica di compimento riguardante il messia è ampiamente testimoniata nel
Nuovo Testamento163 ed è presente anche nella tradizione ebraica antica, in cui il messia è

160
Il titolo di «progenitore» è attestato già in GIUSEPPE FLAVIO, Bell 5,380 e in Rm 4,l.
161
Cf. A. LEVENE, The Early Syrian Fathers, 316.
162
Così la formulazione di Mosheh b. Nahman, nel suo commento a Gen 12,6. Per questo principio, cf. anche
Tan Lekh Lekha 9 (attribuito a un amoraita dell’inizio del secolo quarto d.C.); t.Sot 8,6; BerR 48,7; 54,5; 60,5;
68,10; 78,5.
163
Si veda ad es., Gv 4,12-14.20-26; 8,31-58.
presentato come persona che compie e, in un certo modo, trascende le figure dei patriarchi, di
Mosè e perfino degli angeli164. Ad esempio, nel Midrash Yalqut Shim‘oni si afferma:

Chi sei tu, o grande monte? (Zc 4,7). Ciò si riferisce al re messia. E perché lo chiama
«grande monte?» Perché egli è più grande dei patriarchi, com’è detto: Il mio servo
sarà elevato, innalzato ed esaltato grandemente (Is 52,13). Sarà più elevato di
Abramo, più innalzato di Mosè, più esaltato degli angeli del culto.165

Questo testo, benché alquanto tardivo, dimostra che la figura descritta nel quarto canto
del Servo di Isaia è interpretata come il messia e che questi è una personalità corporativa:
riassume in sé il popolo d’Israele e, in particolare, i suoi padri.

Nuova era
Nel Nuovo Testamento, Gesù, il Messia, è al tempo stesso discendenza dei padri e
compimento delle loro figure. Nella genealogia di Matteo, infatti, a differenza di quella di
Luca, si trova una divisione delle generazioni del popolo d’Israele in tre grandi ere: da
Abramo a Davide, da Davide all’esilio in Babilonia e dall’esilio a Gesù (Mt 1,1-16). Ognuna
di queste ere conta quattordici generazioni (cf. Mt 1,17).
Tra Abramo e Gesù corre una grande tragedia, la più grande della storia di Israele,
costituita dall’esilio. In questo senso, la genealogia è già kerygma, buona notizia, giacché il
Messia s’inserisce in una storia di peccato e di dolore, al cui centro vi è l’esilio. Questa è già
una parola chiara per credenti, i quali devono vivere alcuni dolorosi «esili», momenti in cui si
sentono nell’oscurità, lontani dalla salvezza. Il Messia penetra nelle pieghe della storia. Ecco
perché Gesù Cristo nasce in una grotta, scende nel profondo della terra. Non a caso, i primi
giudeo-cristiani chiamavano la grotta di Betlemme «grotta luminosa», perché Dio è entrato
nelle caverne e nelle zone più oscure dell’umanità, illuminandole per sempre. Dio stesso è
disceso, compiendo la massima kenosis («svuotamento»).
I numeri delle generazioni presenti nella genealogia di Matteo non sono casuali. Abbiamo
ricordato sopra che ognuna delle tre ere da Abramo a Davide conta quattordici generazioni,
come precisa l’evangelista: «Tutte le generazioni da Abramo a Davide sono quattordici, da
Davide fino alla deportazione in Babilonia quattordici, dalla deportazione in Babilonia a
Cristo quattordici». Perché tanta insistenza su tale numero? L’evangelista desidera
probabilmente evidenziare con ciò che Gesù Cristo inaugura la settima serie di sette
generazioni, giacché le tre ere fino a Gesù contano sei serie di sette generazioni. Gesù Cristo
inizia, quindi, la settima serie di generazioni. Com’è noto, nella Scrittura il numero sette
significa pienezza. Gesù è, pertanto, la pienezza della storia, con lui comincia qualcosa di
nuovo: è, come detto sopra, il Novus per eccellenza. Con Gesù, comincia un nuovo eone, egli
stesso è lo shabbat di tutte le generazioni d’Israele (il sabato era il settimo giorno), in altre
parole la sintesi e il culmine di tutta la storia della salvezza. Su questo sfondo si può forse
comprendere perché, se si contano i personaggi menzionati nella genealogia di Luca (3,23-
38), Gesù costituisca il settantasettesimo nome.

Madri del Messia


Se si entra ancora più in profondità nella genealogia di Matteo, si può cogliere una novità
assoluta rispetto alle genealogie anticotestamentarie. Mentre in quest’ultime, infatti, le donne
sono ignorate, nella genealogia di Matteo se ne ricordano ben cinque: Tamar, Racab, Rut, una
quarta che non si vuole nominare (è denominata «quella che era stata la moglie di Uria», Mt

164
Tale tradizione è presente in un midrash antico (epoca tannaita) come SifBem 12.
165
YalqSh su Zaccaria, remez 571.
1,6) e Maria.
A buon diritto, S. Girolamo nel commentare questo passo ha asserito:

Non si trova nella genealogia del Salvatore in S. Matteo nemmeno il nome di una santa
donna, ma soltanto quello di donne biasimevoli nella Scrittura. Questo è per insegnarci
che il Salvatore è venuto per i peccatori e che, nato lui stesso da peccatori, doveva
cancellare i peccati di tutti.166

Nella genealogia di Matteo, pertanto, sono menzionate quattro donne non proprio
encomiabili, se così si può dire. Per non dar adito a malintesi e a onor del vero, va notato che
anche diversi uomini ricordati nella genealogia sono peccatori «di peso».
Vale la pena rammentare in breve le figure di queste quattro donne. La prima è Tamar,
che si veste da prostituta pur di avere una discendenza (Gen 38).
La seconda è Racab, prostituta straniera, salvata a Gerico con tutta la sua famiglia per
aver nascosto gli esploratori ebrei (Gs 2).
La terza è Rut, donna moabita, e quindi pagana, che proviene da una storia di sofferenza e
amarezza. Quando si trova a Moab, dopo la morte del marito ebreo, ella è ripetutamente
invitata dalla suocera Noemi ad andarsene per la sua strada (Rt 1,5-15). Rut, al contrario,
risponde alla suocera: «Non insistere con me che ti abbandoni e tomi indietro senza di te,
perché dove andrai tu andrò anch’io (...); il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il
mio Dio» (Rt 1,16). Così, Rut - cosa meritevole! - «si attacca» alla suocera e la segue fino a
Betlemme, sposa Booz, parente del marito, e diviene madre di Obed, padre di lesse, padre di
Davide. Questa donna pagana, che viene da una storia di amarezza e di morte, diviene la
bisnonna del re Davide. Una moabita, pertanto, sarà l’antenata del Messia, figlio di Davide.
Circa la quarta donna, a quanto sembra, non si ritiene degno nemmeno menzionarne il
nome: «Davide generò Salomone da quella che era stata la moglie di Uria» (Mt l,6b). Si tratta
di Betsabea, che commise adulterio con il re Davide. Com’è noto, a causa di questa donna
Davide fa uccidere Uria l’ittita per poi prenderla in sposa (cf. 2Sam 11).
La presenza di queste donne è già euangelion, «buona notizia»: il Messia entra nelle ferite
dell’umanità, s’inserisce misteriosamente in questa storia di peccatori per redimerla e
compiere qualcosa di totalmente nuovo, giacché «dove abbondò il peccato, sovrabbondò la
grazia» (Rm 5,20). Tale novità straordinaria emerge tutta dalla conclusione della genealogia
matteana. Benché, infatti, qui si nomini Giuseppe, il padre putativo di Gesù, appare una
frattura completa con le genealogie anticotestamentarie, ove si ripete come un ritornello il
nome del padre che generò e poi il nome del figlio che fu generato. Ora, invece, è da una
donna - e solo da lei! - che nasce Gesù «chiamato Messia»: «Eliud generò Eleazar, Eleazar
generò Mattan, Mattan generò Giàcobbe. Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla
quale è nato Gesù, chiamato Cristo» (Mt 1,15-16). Il bambino, quindi, pur in continuità con
tutta la storia di salvezza, rappresenta una novità assoluta: egli è concepito di Spirito Santo.

Verus Augustus
Il vangelo secondo Luca narra così la nascita di Gesù Cristo:

In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta
la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria.
Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. Anche Giuseppe, dalla
Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme:
egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme
a Maria, sua sposa, che era incinta. Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per
lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo

166
GIROLAMO, In Matt 1.
pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.
C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la
notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la
gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo
disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo:
oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per
voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» (Lc
2,1-12).

Il racconto della nascita di Gesù è storia. Poco prima infatti, l’evangelista, nel prologo del
suo vangelo, aveva manifestato la sua intenzione di scrivere «un resoconto ordinato» degli
avvenimenti, avendo fatto «ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi» (Lc 1,3).
Luca impiega qui l’avverbio akribōs, che significa «precisa- mente, accuratamente». Luca si
presenta quindi come un narratore diligente e fedele alla storia. Per tale ragione, egli colloca
la nascita di Gesù nella cornice storica mondiale, menzionando il nome di Cesare Augusto.
Gesù Cristo entra nella storia proprio nel momento in cui regna il primo imperatore
romano, Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto (63 a.C. - 14 d.C.). Questi è stato acclamato
dagli storici romani come «il principe della pace», il portatore della nuova era del mondo e
della pax augusta universale, inaugurata pochi anni prima della nascita di Gesù, nel 17 a.C.
Non solo. Augusto è stato perfino proclamato sōtēr («salvatore») ed è stato divinizzato. Lo
stesso titolo greco sebastos (in latino augustus) significa «degno di venerazione». Benché
Ottaviano non volesse farsi chiamare «dio»167, in Egitto fu invocato come «dio da dio»168 e in
tutto l’impero come divi filius («figlio del divino» Cesare) o comunque con tratti divini e
«messianici».
Sarebbero molti i testi da citare a riguardo. Basti come esempio l’iscrizione trovata a
Priene, in Asia Minore, e risalente al 9 a.C., che stabilisce il giorno della nascita di Augusto
(23 settembre) come il primo giorno dell’anno. Nella parte che riportiamo di seguito, si
attribuisce per l’appunto all’imperatore il titolo di sōtēr («salvatore») e di theos («dio»):

Poiché la provvidenza che mirabilmente dispone la nostra vita, recante sollecitudine e


liberalità, preparò il bene perfetto per la nostra vita dandoci Augusto, che colmò di virtù
per il bene degli uomini donando a noi e ai nostri discendenti un salvatore (sōtēr) che
ponesse fine alla guerra e offrisse la pace; poiché Cesare, quando apparve, superò le
speranze di tutti quelli che portano buone notizie (euangelia) non solo superando i
benefici dei predecessori, ma anche non lasciando speranza ai successori di poterlo
superare; poiché il giorno natale del dio fu il principio delle buone notizie (euangelia)
per il mondo ad opera sua (...); il proconsole Paolo Fabio Massimo, benefattore della
provincia (...), escogitò in onore di Augusto di iniziare dal suo natale il computo del
tempo civile.169

Su questo sfondo, appare ancora più impressionante il contrasto con la nascita di Gesù
Cristo, che segna davvero l’inizio della nuova era. Questi, tuttavia, non viene al mondo «sotto
la luce dei riflettori», nella caput mundi, al centro dell’universo. Egli entra, al contrario, nel
nascondimento, nella povertà, nel più profondo della terra, in una grotta oscura. Non vi è
posto nell’albergo per il divino Sōtēr («Salvatore») che nasce a Betlemme senza avere un
luogo dove reclinare il capo, come egli stesso ribadirà da grande: «Il Figlio dell’uomo non ha
dove posare il capo» (Lc 9,58). Il vero Salvatore e Dio da Dio, il vero Kyrios («Signore») e
verus Augustus, il solo degno di gloria e venerazione, nasce nelle periferie tra gli ultimi del
mondo e scende alle «catacombe sociali», fino agli abissi della terra.

167
Secondo quanto riferisce FILONE, Legat 154.
168
P Oxy 1453,11.
169
IPriene 105 (=OGIS 2,458), righe 32-40.44.48-49.
Re dei Giudei
Nel testo della nascita di Gesù secondo Luca riportato sopra, si menziona, subito dopo
l’imperatore romano, un altro personaggio storico: «Questo primo censimento fu fatto quando
Quirinio era governatore della Siria» (Lc 2,2). Si tratta di Publio Sulpicio Quirinio. La
questione di stabilire con esattezza di quale censimento parli Luca e quando esso sia avvenuto
è tuttavia alquanto complessa. Qui ci interessa che, secondo lo stesso Giuseppe Flavio, uno
dei censimenti indetti da Quirinio per gravare il popolo con nuove tasse scatenò
l’insurrezione degli zeloti, capeggiati da Giuda il galileo, nativo di Gamia170.
Come abbiamo visto sopra, Giuda il galileo è uno dei principali capi del movimento
zelota, che sostenne una linea opposta a quella di Gesù Cristo, quella di tentare d’instaurare il
regno di Dio sulla terra, di affermare la Torah con la forza della rivoluzione. I primi anni di
Gesù sono da collocare in questo contesto religioso e sociale di grandi tensioni tra la corrente
contro Roma, sostenuta e alimentata dagli zeloti, e quella a suo favore, sorretta dai sadducei e
soprattutto da Erode il Grande (73-4 a.C.) e da quelli del suo partito, gli erodiani.
A Betlemme tale contrasto è evidente perfino dal punto di vista geografico, se così si può
dire. Da Betlemme, infatti, è visibile nel deserto un monte, tagliato a forma di cono, alla
sommità del quale Erode il Grande aveva la sua fortezza preferita, intitolata a suo nome:
l’Erodion. Dai resti che oggi si possono visitare e i testi di Giuseppe Flavio, se ne intuisce
bene l’imponenza e la ricchezza171. Da Gerico, là, vicino a Betlemme, fu trasportato e sepolto
il sovrano dopo la sua triste fine172. Il contrasto con la Santa Famiglia di Nàzaret non potrebbe
essere più stridente: gravata dall’editto romano che sancisce il censimento, essa è costretta a
partire dalla Galilea e affrontare un difficile e pericoloso viaggio, special- mente per Maria
incinta, fino a Betlemme. La famiglia non trova posto in nessuna casa, mentre dinanzi ad essa
si staglia, simbolo del potere, l’enorme fortezza di Erode che troneggia su Betlemme.
Erode il Grande, grazie alla sua astuzia, strinse amici- zia con i potenti romani, riuscendo
a passare di volta in volta sul «carro del vincitore» e a ottenere così l’ambito titolo di «re dei
Giudei», che nessuno dei suoi successori riuscì più a procurarsi. Questo particolare spiega
perché il sovrano restò turbato quando i Magi, giunti dall’oriente a Gerusalemme, si recarono
da lui per domandargli: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei?» (Mt 2,2). Egli ben sapeva
di non potersi attribuire quel titolo, essendo di padre edomita e di madre nabatea. Del resto,
anche gli ebrei religiosi gli rimproveravano ciò, poiché pur essendo ebreo, come figlio di un
edomita era considerato comunque di rango inferiore rispetto agli Israeliti.
Erode era conscio di aver «strappato» il titolo di «re dei Giudei» ai Romani, senza averne
il diritto. Per consolidarlo, fu un re sanguinario e senza scrupoli. Fra i tanti, fece uccidere
anche alcuni dei suoi familiari più stretti fra cui i due cognati Aristobulo e Giuseppe, l’amata
moglie Mariamne e tre dei suoi figli: Antipatro, Aristobulo e Alessandro.
In questo ambiente travagliato, segnato dalla tracotanza umana e dagli abusi di potere, si
svolsero gli eventi decisivi per la Santa Famiglia di Nàzaret. Appare così più grande l’umiltà
di S. Giuseppe, che in silenzio obbedisce alla parola dell’angelo, e quella della Vergine Maria
e di Gesù, che nasce in una mangiatoia.

Kenosis fino alla mangiatoia


Ci soffermiamo ora sul mistero di Gesù Cristo che entra nella grotta, scende fino
all’ultimo posto ed è adagiato nella mangiatoia, segno che l’angelo indica ai pastori.
Gesù viene al mondo in un «incrocio» provvidenziale della storia, giacché nasce nella
regione ove ebbe il suo centro la religione più alta del tempo, l’ebraismo. Al tempo di Gesù,

170
Cf. GIUSEPPE FLAVIO, Ant 18,1-4.
171
Si veda GIUSEPPE FLAVIO, Ant 14,360; 16,13; 17,199; Bell 1,265; 1,419.
172
Come riferisce GIUSEPPE FLAVIO, Bell 1,673.
tuttavia, l’ambiente ebraico era già stato «ellenizzato», poiché già più di un secolo e mezzo
prima della sua nascita gli ellenisti, eredi della civiltà greca, avevano conquistato la Terra
Santa, per cui Gesù nasce al tempo in cui si era sviluppata la cultura più alta, soprattutto per
quanto concerne l’arte e la filosofia. Infine, Gesù viene al mondo nell’impero che ha la più
alta organizzazione civile e militare della storia. In questo punto preciso della storia umana,
dunque, Dio si fa «storia e geografia».
Nel mistero del Natale è già presente in nuce tutto il mistero del Messia, compresa la
passione e il rifiuto che dovrà subire. Per tale ragione, per lui «non c’era posto nell’alloggio»
(cf. Lc 2,7) ed Erode tenta di ucciderlo. In tutte le generazioni vi è un «Erode» che «cerca il
bambino per ucciderlo» (cf. Mt 2,13). Abbiamo visto come l’iconografia bizantina mostri
bene tale aspetto, quando rappresenta il bambino Gesù avvolto in fasce e deposto in una
grotta nera che rappresenta il sepolcro. Così, il mi- stero del Natale è già kerygma,
proclamazione di salvezza che annuncia l’identità di Gesù, la sua divinità e la sua kenosis, il
suo «svuotamento», per cui egli «non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se
stesso, assumendo una condizione di servo e divenendo simile agli uomini» (Fil 2,6-7).
Il vangelo di Luca mostra una predilezione per i piccoli e gli umili, che nell’Antico
Testamento sono chiamati in ebraico ‘anawim. Maria è «la piccola» per eccellenza, che
magnifica il Signore per aver guardato alla sua «piccolezza» (in greco tapeinōsis, Lc 1,48).
L’annuncio del neonato Messia è indirizzato agli ultimi della società, cioè ai pastori,
categoria tra le più disprezzate nell’ambiente ebraico ai tempi di Gesù. Non solamente,
tuttavia, Dio ha guardato alla «piccolezza» della sua serva e ai poveri, ma egli stesso si è fatto
piccolo, giacché «svuotò se stesso».
Il segno dato dall’angelo ai pastori è «un bambino avvolto in fasce», come in un sepolcro,
e «adagiato in una mangiatoia» (Lc 2,12). Al di là dell’alone poetico che il presepio ha
assunto nell’immaginario collettivo, esso ri- mane pur sempre il posto in cui mangiano gli
animali! Ciò richiama la profezia di Is 1,3: «Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la
mangiatoia del suo padrone, ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende». Al bue
e all’asino è paragonato il popolo e con esso tutti noi, che spesso non comprendiamo e
disconosciamo la «mangiatoia del padrone», il vero cibo donatoci da Dio. Benché, tuttavia, il
popolo sia considerato dal profeta peggiore del bue e dell’asino, Dio per quel popolo che in
definitiva siamo noi tutti si è posto nella greppia, luogo che suscita ribrezzo, ed è sceso,
secondo la tradizione cristiana antica, in una grotta.
Il primo a far riferimento alla grotta (che i vangeli invece non menzionano) come luogo
della nascita di Gesù è S. Giustino nel Dialogo con Trifone (ca. 160 d.C.):

Al momento della nascita del bambino a Betlemme, poiché non aveva dove soggiornare
in quel villaggio, Giuseppe si fermò in una grotta prossima all’abitato e, mentre si
trovavano là, Maria partorì il Cristo e lo depose in una mangiatoia, dove i Magi venuti
dall’Arabia lo trovarono.173

Dio entra nelle profondità della terra. Ciò che maggiormente colpisce i visitatori di
Betlemme è il fatto che, per entrare nella basilica della Natività, tutti (anche i potenti!)
devono inchinarsi. La porta attuale della basilica, infatti, risalente al periodo turco e assai più
umile dell’originaria bizantina oggi chiusa, è una porta stretta e bassa. Essa è simbolo di ciò
che Dio permette nella vita di ogni uomo, affinché si abbassi e diventi umile, cosa non facile,
giacché nessuno vuole «chinarsi» nella vita dinanzi alla storia, alle sofferenze, alle
umiliazioni subite, alle scomodità, ecc... Chi ha visitato la basilica sa che occorre abbassarsi e
discendere per giungere alla grotta della mangiatoia ove Gesù è stato deposto.
Dio stesso in Cristo si è abbassato in modo da guardare l’uomo dal basso verso l’alto,
come per dirgli: «Non aver paura di me, io ti guardo dal basso!». Il problema costante tra gli

173
GIUSTINO, Dial 78.
uomini non è spesso il desiderio contrario, quello di guardare gli altri dall’alto? Gesù Cristo,
al contrario, ha voluto guardare l’uomo dal basso. Per tale ragione, più avanti nel suo
vangelo, Luca presenta Gesù che guarda Zaccheo dal basso verso l’alto (cf. Lc 19,5).
Quest’ultimo, come ci riferisce l’evangelista, era un uomo piccolo di statura (Lc 19,3), che
aveva costruito la sua vita per essere «qualcuno» e vi era riuscito, diventando così un
«arcipubblicano» (Lc 19,2), capo dei pubblicani e quindi capo dei peccatori. Egli si era
sforzato in tutta la sua vita di innalzarsi sopra gli altri, giacché questo è talvolta il complesso
di chi è piccolo di statura. Quest’uomo piccolo di statura, dunque, sapendo che Gesù passa
nella sua città di Gerico, sale sul sicomoro (Lc 19,4). Gesù Cristo scende a Gerico, la città più
bassa del mondo, situata a 280 metri sotto il livello del mare. Egli si abbassa fino al fondo
della terra per alzare gli occhi e vedere Zaccheo (cf. Lc 19,5). Costui s’incontra finalmente
con lo sguardo di uno che lo ama veramente, di uno che non lo guarda dall’alto né lo giudica.
Egli, al contrario, lo guarda dal basso, mentre l’altro è sul sicomoro e lo invita: «Zaccheo,
scendi subito, perché oggi io devo fermarmi a casa tua» (Lc 19,5).
Questo avviene anche nel mistero del Natale. Gesù Cristo si abbassa e dalla mangiatoia
guarda l’uomo dal basso e gli dice: «Scendi subito. Dove ti sei messo? Scendi, perché mi
sono fermato a casa tua». Dio è entrato nella «casa del mondo», si è messo nel luogo della
mangiatoia, per dire all’uomo che non vi è nessun peccato, nemmeno il più animalesco, che
in Cristo non possa essere distrutto. Gesù Cristo è sceso per prendere su di sé il nostro
peccato fino a farsi «maledizione» per noi, fino a mettersi all’ultimo posto, nella mangiatoia,
laddove abbiamo ribrezzo perfino di guardare, proprio «come uno davanti al quale ci si copre
la faccia» (Is 53,3). Ecco perché, fin dai primi capitoli, il vangelo è kerygma, secondo le
parole dell’angelo: «Ecco, vi annuncio una grande gioia che sarà di tutto il popolo: oggi nella
città di Davide è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (Lc 2,10-11).

Il più grande, il più piccolo


Dai minareti delle moschee del mondo risuona più volte al giorno il grido Allah hūa
akbar, cioè «Dio è il più grande», o meglio, se si traduce letteralmente l’espressione araba,
«Dio è più grande», vale a dire più grande di quanto l’uomo possa immaginare. Ciò è vero.
Ai cristiani, tuttavia, Dio ha rivelato la pienezza della verità. Essi, infatti, possono gridare non
solo che Dio è il più grande, ma anche Allah hūa asghar: egli è il più piccolo. Il più grande,
infatti, si è fatto il più piccolo, più piccolo di quanto l’uomo potesse immaginare, giacché è
sceso fino agli abissi più profondi dell’umanità. Questo è il mistero della grotta della Natività
a Betlemme, grotta luminosa, perché Cristo, luce del mondo, è entrato nelle caverne più
oscure dell’uomo, nel suo vuoto più profondo, nella «mangiatoia» di ogni uomo. Alla fine, la
mangiatoia è simbolo dell’uomo stesso e del suo vuoto, nel quale Dio è entrato, per riempirlo
della sua pienezza. Non a caso, i primi giudeocristiani chiamavano Cristo il «pleroma», la
«pienezza dei mondi» o «dei secoli», come recitano le Odi di Salomone174: con la sua kenosis,
svuotandosi, ci ha ricolmati del suo pleroma.
Alcuni rabbini hanno ipotizzato che Dio, nel creare il mondo, pur essendo presente nel
tutto, si sia alquanto «ritirato» dal riempierlo della sua pienezza per «fare spazio» al mondo,
all’uomo e alla sua libertà. Tale dot- trina è denominata tsimtsum, «ritrazione». Benché tale
dottrina possa essere intesa male e non sia scevra da pericoli, essa nondimeno rimarca che
l’«umiltà» di Dio è già presente nella creazione, cosicché egli, per amore, fa essere ciò che è
e ciò che non è lui. Tale umiltà si è rivelata in Gesù Cristo: in lui, Dio si è «ritratto», si è fatto
bambino per ricreare l’uomo, per fare di lui una nuova creazione.
S. Anseimo ha donato una delle più belle definizioni di Dio: id quo maius cogitari nequit,
«colui del quale non si può pensare il maggiore»175. Per amore, questi si è fatto, per così dire,
174
OdSal 7,11.
175
ANSELMO D’AOSTA, Proslog 2.
«colui del quale non si può pensare il minore». È esattamente qui che risiede tutta la dolcezza
del Natale, come ha scritto S. Alfonso Maria de Liguori, nel canto Tu scendi dalle stelle da
lui composto: «Quanto questa povertà più mi innamora!». I primi cristiani avevano notato
un’assonanza in greco tra il titolo Christos, «Cristo», e il termine Chrēstos, «dolce, benigno,
amorevole» (tanto più che è probabile che i due termini si pronunciassero anticamente allo
stesso modo). Nel Natale possiamo gustare questa dolcezza dell’amore di Dio in Cristo, di un
Dio che si fa bambino, che si fa piccolo. Quest’abbassamento, segno eterno dell’immenso
amore di Dio, ci fa innamorare di Cristo, il vero filanthropos, come canta la liturgia bizantina,
il «dolce amico dell’uomo».
10

LA SANTA GROTTA E LA MANGIATOIA DI


BETLEMME

Grotta luminosa
Tentiamo ora di entrare più in profondità nel mistero del Natale di Cristo, nel quale «sono
nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza», come afferma S. Paolo (Col 2,3).
Desideriamo contemplare il Dio che si è fatto bambino. Come abbiamo visto, il vangelo non
precisa che Gesù sia nato in una grotta, ma narra che Maria lo «pose in una mangiatoia» (Lc
2,7). La tradizione cristiana antica, ciò nonostante, ha identificato una grotta a Betlemme
come il luogo del Natale del Signore.
Nel capitolo precedente abbiamo tentato di interpretare il significato teologico recondito
di questo dato: il Signore, pur rimanendo Dio, si è svuotato al fine di colmare il nostro vuoto,
simboleggiato dalla grotta. La liturgia bizantina risalta con stupore questo mistero, quando
canta, in un suo inno:

Dio privo di carne s’incarna, colui che non ha principio comincia, e colui che è ricolmo
ora si svuota nascendo dalla Vergine in una piccola grotta: come neonato è allattato
colui che nutre tutto ciò che respira.176

Questo è il grande paradosso del Natale, compiutosi nella grotta: colui che è la pienezza si
è svuotato e ha riempito così il vuoto della nostra grotta.
Sin dai primi momenti, i primi giudeo-cristiani indicavano il luogo santo della nascita del
Salvatore. Abbiamo varie testimonianze letterarie riguardo a ciò che, insieme a quelle
archeologiche, attestano l’autenticità della grotta tutt’oggi venerata dai cristiani delle diverse
confessioni cristiane.
La prima testimonianza che parla di una grotta come luogo della nascita di Gesù è
contenuta in un vangelo apocrifo. Il Protoevangelo di Giacomo, scritto probabilmente il 140
e il 170 d.C., può contenere tradizioni ben più antiche. Esso è un vangelo ortodosso riguardo
alla dottrina: per dame un esempio, basti pensare che afferma già con chiarezza la verginità di
Maria prima, durante e dopo il parto. In questo vangelo apocrifo si narra che nel viaggio da
Gerusalemme a Betlemme, a metà strada177, Giuseppe «trovò una grotta», vi condusse Maria,
«lasciò presso di lei i suoi figli178 e uscì a cercare un’ostetrica ebrea nella regione di
Betlemme»179. Così l’autore del Protoevangelo racconta l’istante della nascita di Gesù nel
ricordo di S. Giuseppe:

Io Giuseppe camminavo e non camminavo. Guardai nell’aria e vidi l’aria colpita da


stupore. Guardai verso la volta del cielo e la vidi ferma, e immobili gli uccelli del cielo.
Guardai sulla terra e vidi un vaso che giaceva e degli operai coricati con le mani nel

176
Anthologhion, I, 1197 (Vespro del 29 dicembre, aposticha stichira prosomia della festa).
177
Cf. Protev 17,3.
178
I figli di Giuseppe, secondo lo stesso Protoevangelo di Giacomo, sono frutto di un suo precedente
matrimonio, prima di diventare vedovo e avere in sposa Maria. L’autore del vangelo apocrifo manifesta una
fede piena nella verginità perpetua di Maria.
179
Protev 18,1. Si può discutere sulla localizzazione della grotta, che per alcuni non può essere quella attuale,
perché situata nei pressi dell’antico villaggio di Betlemme, mentre il vangelo apocrifo la colloca «a metà strada»
tra Gerusalemme e Betlemme.
vaso, ma quelli che masticavano non masticavano, quelli che prendevano su il cibo non
lo alzavano dal vaso, quelli che lo stavano portando alla bocca non lo portavano. I visi
di tutti erano rivolti a guardare in alto. Ecco delle pecore spinte innanzi, che invece
stavano ferme: il pastore alzò la mano per percuoterle, ma la sua mano restò per aria.
Guardai la corrente del fiume e vidi le bocche dei capretti poggiate sull’acqua, ma essi
non bevevano. Poi, in un istante, tutte le cose ripresero il loro corso.180

Dinanzi alla grotta, pertanto, nell’istante della nascita del Salvatore ogni cosa si ferma, in
una sorta di stupore universale. Nella tradizione del presepe, una delle figure dei pastori è
denominato «il meravigliato» o «lo spaventato»: con le mani aperte e tese al cielo, appare
sbigottito dinanzi al mistero.
Secondo il seguito del racconto tratto dal Protoevangelo di Giacomo, quando Giuseppe
trovò la levatrice e la stava conducendo da Maria181, i due «si fermarono al luogo della grotta
ed ecco che una nube splendente copriva la grotta». La levatrice esclamò: «Oggi è stata
magnificata l’anima mia, perché i miei occhi hanno visto meraviglie ed è nata la salvezza per
Israele». Così conclude il racconto:

Subito dopo la nube si ritrasse della grotta e nella grotta apparve una grande luce
che gli occhi non potevano sopportare. Poco dopo quella luce andò dileguandosi finché
apparve il bambino.182

La nube di gloria che, secondo quanto narra l’autore del Protoevangelo, aveva adombrato
la grotta, è un tema tipico della tradizione ebraica. Essa indica che la Shekhinah, ovvero la
presenza divina, riempie la grotta.
La seconda testimonianza, già riportata nel capitolo precedente, è di S. Giustino di
Nablus, il quale conosceva le tradizioni locali perché nativo della Terra Santa. Nel suo
Dialogo con Trifone (ca. 160 d.C.) precisa:

Al momento della nascita del bambino a Betlemme, poiché non aveva dove soggiornare
in quel villaggio, Giuseppe si fermò in una grotta prossima all’abitato e, mentre si
trovavano là, Maria partorì il Cristo e lo depose in una mangiatoia.183

Giustino attesta che il luogo della nascita e della mangiatoia è una grotta, aggiungendo un
particolare importante: essa si trova vicina al villaggio.
Una testimonianza di cent’anni posteriore (ca. 250 d.C.) è fornita da Origene, grande
scrittore cristiano che ha abitato per diversi anni in Terra Santa, conoscendone le tradizioni
locali:

Se qualcuno richiedesse ancora nuovi argomenti per convincersi che Gesù è nato a
Betlemme, secondo la profezia di Michea e secondo la storia scritta dai discepoli di
Gesù nei vangeli, rifletta come, conformemente alla narrazione evangelica della nascita,
viene mostrata la grotta di Betlemme dov’è nato, e, nella grotta, una mangiatoia
dove fu deposto. E tutto questo è noto, in quei luoghi, anche a chi è estraneo alla fede,
che in quella grotta ha veduto la luce colui che è adorato e ammirato dai
cristiani.184

Occorre leggere tra le righe di questo prezioso testo. Origene attesta innanzitutto che al
suo tempo «veniva mostrata» la grotta di Betlemme. Egli impiega il verbo greco deiknytai,

180
Protev 18,2-3.
181
Cf. Protev 19,1
182
Protev 19,2.
183
GIUSTINO, Dial 78 (cors. nostro).
184
ORIGENE, Cels 1,51 (cors. nostro).
che significa «è indicata, è mostrata». Ciò implica che al tempo di Origene (e già di Giustino,
come visto) vi erano cristiani locali che avevano conservato con venerazione la
localizzazione della grotta e facevano da guide, indicando non solo il luogo della grotta ma
anche la mangiatoia. Origene aggiunge poi un prezioso particolare. Egli afferma che il fatto è
noto e accettato da tutti, perfino da quelli estranei alla fede cristiana e quindi sia dagli ebrei
sia dai pagani. Nessuno, pertanto, contestava l’ubicazione della grotta.
Eusebio di Cesarea, nel 320 d.C. circa, conferma i dati fomiti da Giustino e Origene
quando scrive:

Fino ad oggi gli abitanti del posto danno testimonianza, come di tradizione ricevuta dai
loro padri, a quelli che raggiungono Betlemme per conoscere i luoghi, confermando la
verità dei fatti narrati con l’indicare la grotta nella quale la Vergine partorì e depose il
bambino.185

Com’è noto, Eusebio di Cesarea è il primo grande storico della Chiesa e scrive in piena
epoca costantiniana. Egli riferisce che nel luogo della grotta fu eretta una basilica per
iniziativa di S. Elena e di suo figlio Costantino186.

Mangiatoia di fango
Verso la fine del quarto secolo d.C., Sofronio Eusebio Girolamo, grande padre della
Chiesa noto come S. Girolamo, il quale visse per ben trentacinque anni a Betlemme e quindi
conobbe da vicino le tradizioni locali, in una sua omelia per la Natività del Signore, fornisce
indicazioni preziose circa il luogo della mangiatoia:

O se mi fosse concesso vedere quella mangiatoia dove fu deposto il Signore! Ora noi,
come a onore di Cristo, abbiamo tolto quella di fango e ne abbiamo posta una d’argento.
Secondo me, tuttavia, era più preziosa quella che è stata tolta. Al paganesimo
convengono argento e oro, alla fede cristiana conviene che sia di fango quella
mangiatoia! Colui che è nato in quella mangiatoia disprezza l’oro e l’argento. Non
condanno quelli che fecero ciò per onore di Cristo, né tantomeno condanno quelli che
fecero i vasi d’oro per il tempio. Tuttavia, ammiro di più il Signore che, pur essendo il
Creatore del mondo, non nasce tra oro e argento, ma nel fango.187

Ancora oggi i francescani custodiscono il luogo della mangiatoia, situato nella grotta,
accanto al luogo tradizionale della Natività, affidato ai fratelli greco-ortodossi. Nel testo
citato, S. Girolamo manifesta l’ardente desiderio di vedere il presepe del Signore. Egli ha
visto la basilica bizantina in tutto il suo splendore e al suo interno la mangiatoia ove fu
adagiato il Salvatore, ricoperta d’oro e d’argento. Egli, tuttavia, dice di preferire quella
originale, evidenziando come Gesù sia stato deposto nella mangiatoia di fango. Sappiamo che
le reliquie lignee della santa mangiatoia furono portate a Roma, ove sono custodite e venerate
ancora oggi nella basilica di S. Maria Maggiore a Roma.
Nella stessa omelia sopra menzionata, S. Girolamo afferma che Gesù «non è nato in
mezzo a oro e ricchezze, bensì in mezzo al letame, in una stalla (dovunque vi è una stalla vi è
il letame), poiché i nostri peccati erano più sporchi del letame»188. Tale dettaglio che S.
Girolamo aggiunge non è senza rilevanza. I pastori usavano far riposare il gregge o farlo

185
EUSEBIO DI CESAREA, Dem ev 7,2 (cors. nostro).
186
EUSEBIO DI CESAREA, Vit Const 3,43: «La piissima imperatrice volle abbellire il luogo del parto della Madre
di Dio con monumenti meravigliosi, facendo risplendere la sacra grotta di ogni genere di ornamenti.
L’imperatore, poco dopo, l’arricchì ancora di più di doni votivi veramente di natura regale, accrescendo gli
ornamenti procurati dalla madre con la varietà e il pregio di veli intessuti d’oro e d’argento».
GIROLAMO, Hom nat 88.
187

GIROLAMO, Hom nat 88.


188
pernottare dentro le grotte (specialmente le capre che soffrono il freddo), per cui queste
fungevano da stalle. Non vi è quindi contraddizione tra grotta e stalla: ancora oggi, in alcune
grotte usate dai pastori, si possono vedere le mangiatoie scavate nella roccia.
S. Girolamo, inoltre, esalta la grazia donataci in Gesù Cristo che è sceso «fino al nostro
letame», fino a noi che eravamo nella fossa della morte e, come dice il salmo, «nel fango
della palude» (Sal 40,3). In questo fango, in questa immondizia Gesù è sceso, fino al punto
più basso, laddove non possiamo arrivare. Gesù è venuto a tirarci fuori dal letame dei nostri
peccati, rialzando «il povero dall’immondizia» (Sal 113,7). Egli, pur rimanendo senza
peccato, «si è sporcato» con il nostro fango, non ha disdegnato di prendere la nostra
debolezza, «impastandosi» con la terra della nostra umanità. Egli si è fatto uomo in tutto,
eccetto il peccato, per prendere su di sé il nostro peccato.

Porta stretta
Nel 570 d.C. un pellegrino anonimo di Piacenza, che ci ha lasciato una relazione del suo
itinerario, dichiara:

Betlemme è un luogo di massimo splendore e là vi sono molti servi di Dio. Nella grotta
ove nacque il Signore si trova la mangiatoia, ornata di oggetti d’oro e d’argento; vi sono
lampade accese giorno e notte. L’entrata della grotta è veramente stretta.189

L’anonimo piacentino è colpito dalla bellezza di Betlemme e precisa che si tratta di un


luogo santo, abitato da servi di Dio e monaci, e venerato giorno e notte. Egli, inoltre, è
impressionato dalla strettezza dell’entrata della grotta. Abbiamo già fatto riferimento sopra al
fatto provvidenziale che oggi l’entrata alla basilica della Natività avviene attraverso una porta
bassa e angusta. Essa è denominata anche «porta dell’umiltà», perché tutti si devono fare
piccoli e inchinare per passare attraverso di essa. Ogni uomo deve piegarsi per entrare nel
luogo della Natività, così come Dio stesso «si è piegato», facendosi l’ultimo di tutti. Gesù
Cristo, insomma, è entrato in ciò che è angusto, nelle nostre angosce e strettezze più
profonde, là dove noi non possiamo entrare. Egli stesso dirà nel Discorso della montagna:

Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla
perdizione, e molti sono quelli che vi entrano. Quanto stretta è la porta e angusta la via
che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano! (Mt 7,13-14).

Dio stesso ha deciso di entrare per la «porta stretta» dell’incarnazione.

Danza nel luogo santo


Stiamo tentando di tirare fuori un messaggio kerygmatico e catechetico dalle fonti
letterarie e dalle pietre, dalla storia dei luoghi santi e dalle testimonianze dei padri. Com’è
ovvio, non possiamo citare in questa sede tutte le testimonianze antiche su Betlemme. Vale la
pena, tuttavia, concludere con un testo, di rara bellezza, scritto nel settimo secolo d.C. dal
santo patriarca di Gerusalemme Sofronio, che dovette vedere, con immensa amarezza, la città
santa in mano ai conquistatori islamici. Il testo comincia nel modo seguente:

Con l’entusiasmo dell’amore divino nel petto, che io possa andare in fretta alla piccola
città di Betlemme, dove il re dell’universo è nato.190

L’espressione «in fretta» è tratta proprio dal vangelo di Luca: i pastori, dopo l’annuncio

189
Ant Piac it 29.
190
SOFRONIO, Anacr 19.
dell’angelo, andarono «in fretta» a Betlemme per adorare il bambino (Lc 2,16).
S. Sofronio dice poi tra sé e sé:

Danzerò quando sarò entrato nel mezzo di quella santa chiesa, del venerabile
quadriportico e della nobile triconca.191

La presenza di Dio tra gli uomini suscita gioia ed esultanza, tanto che il patriarca desidera
danzare una volta giunto nel luogo santo. Ciò richiama la danza del re Davide dinanzi all’arca
dell’alleanza, alla presenza di Dio che provoca una gioia incontenibile.
Così continua il santo patriarca:

Mi conceda Cristo che là è nato di rivedere ogni bellezza della pura Betlemme. Possa
dimenticare le nubi dei dolori, guardando le numerose colonne scintillanti d’oro e le
opere d’arte splendidamente eseguite! In alto vedrò l’aspetto dei lacunari lucenti di
stelle. La grazia del cielo, infatti, vi brilla per merito dell’arte. Possa discendere in
quella grotta ove la Vergine, regina dell’universo, donò ai mortali il Salvatore, vero Dio
e vero uomo. Appoggerò gli occhi, la bocca e la fronte sulla lastra profumata che
accolse il divino fanciullo, per riceverne un dono spirituale. Mi recherò con venerazione
al presepe glorioso, poiché per esso io, benché privo di senno, fui nutrito dalla parola
divina.192

S. Sofronio, nel brano citato, attesta perfino il gesto che, con grande devozione, i
pellegrini facevano nel luogo della Natività. Ancora oggi i cristiani arabi locali venerano il
luogo santo allo stesso modo in cui si faceva nel settimo secolo. Sulla lastra profumata della
Natività, dove ora vi è una stella a quattordici punte (segno delle quattordici generazioni che
si ripetono nella genealogia di Cristo!), i cristiani arabi appoggiano, nella stessa sequenza
indicata da Sofronio, prima gli occhi, poi la bocca e quindi la fronte, chiedendo una grazia e
«ricevendo un dono spirituale». In tal modo, i sensi dell’uomo sono santificati dal luogo
santo, o meglio dal Santo stesso, giacché il luogo non è santo di per sé, ma in relazione con la
persona di Cristo e agli eventi di salvezza a lui legati.
Infine S. Sofronio manifesta l’ardente desiderio di avvicinarsi con venerazione alla
gloriosa mangiatoia e ne dà la ragione: essa è segno del fatto che l’uomo, benché privo di
senno a causa dei suoi peccati e quindi ridotto come un animale, può nutrirsi del cibo disceso
dal cielo nella mangiatoia che è Gesù Cristo stesso. In altre parole, la santa mangiatoia è il
luogo dove la Parola si è fatta carne e si è fatta cibo per l’uomo.

Vertigine di Betlemme
A Betlemme emerge con chiarezza come la fede cristiana sia saldamente fondata sulla
storia: qui Dio si è fatto carne, si è fatto «storia e geografia». Questa è la meraviglia del
Natale, lo stupore che la Chiesa celebra ogni anno dinanzi alla «vertigine di Betlemme»,
«vertigine» davanti al fatto che l’Infinito si è fatto finito, l’indefinibile si è definito in un
luogo e in un punto del tempo, l’Onnipotente si è reso indifeso e disarmato. In ciò consiste il
prodigio della grotta e della mangiatoia di Betlemme: l’umanità partorisce Dio, per cui Maria
è veramente la Theotokos, la Santa «Madre di Dio», colei che ha partorito Dio. Dante canterà
tale vertiginoso mistero mediante un’espressione paradossale, sintesi mirabile del mistero
dell’incarnazione: «Maria, figlia del tuo Figlio»193. In Maria, primizia dell’umanità,
quest’ultima genera Dio. Ciò attesta che l’umanità è così preziosa che Dio non solo viene nel
mondo, ma si fa addirittura uomo, cioè figlio di una donna e dell’umanità intera. A

191
SOFRONIO, Anacr 19.
SOFRONIO, Anacr 19.
192

193
DANTE ALIGHIERI, Paradiso XXXIII,1.
Betlemme, tutti gli uomini possono gridare con fierezza: «Un bambino è nato per noi, ci è
stato dato un figlio» (Is 9,4). Ebbene sì, è anche nostro figlio colui che è nato da Maria!
L’umanità, tuttavia, non solamente è preziosa. Essa è anche perduta. Proprio per questo
essa è ora cercata dal Pastore che si fa agnello e si mette in una mangiatoia. Dio va in cerca di
Adamo ed Eva perduti, scendendo fino alla profondità della terra, fino alle «grotte» recondite
dell’uomo.
Beata tu, città santa di Betlemme, perché hai visto il Dio bambino, un Dio che si fa
piccolo, che entra per la «porta stretta», la porta dell’umiltà! Dio è «nascosto» in una grotta,
come la liturgia bizantina del Natale canta con il grande poeta S. Romano il Melode,
esclamando con stupore di aver trovato «le delizie» in un luogo nascosto194. Il nascondimento
di Dio, il suo abbassamento nella grotta è una parola di grande forza per gli uomini, che
spesso non accettano di essere nascosti, di chinare la testa dinanzi agli eventi della storia e
agli altri. Essi, in fondo, rifiutano l’umiltà di Dio e a causa del loro orgoglio non possono
varcare la porta stretta dell’umiltà. Eppure, l’unica via al regno dei Cieli è quella del farsi
piccoli e umili, di accettare di essere considerati senza importanza. Il Messia ha accettato di
rimanere nascosto, di esser ritenuto un uomo fallito e senza importanza, di esser rifiutato fin
dal primo momento della sua esistenza su questa terra.

Betlemme siamo noi


Benché i luoghi santi abbiano un’enorme importanza per i cristiani, il pellegrinaggio non
è loro indispensabile per vivere in pienezza la loro fede. Questa è una grande differenza tra la
fede cristiana e quella musulmana, nella quale il pellegrinaggio alla Mecca costituisce un
pilastro essenziale. Sebbene, dunque, recarsi a Betlemme sia indubbiamente una grazia, per
noi non è fondamentale, giacché noi stessi siamo Betlemme, il luogo santo dove Dio in Cristo
si è adagiato. Noi siamo la mangiatoia.
Abbiamo visto sopra come, al di là dei sentimenti che il presepe suscita in noi sin da
bambini, la mangiatoia è pur sempre un luogo che suscita ribrezzo. In questa mangiatoia che
siamo noi, sporca e olezzante, si è messo Dio. La mangiatoia diventa il trono di Dio. Afferma
S. Paolo: «Santo è il tempio di Dio che siete voi» (1Cor 3,17). Betlemme ci dice, di
conseguenza, che non dobbiamo avere paura della nostra umanità, poiché Dio ha scelto
questo trono, la mangiatoia, luogo ripugnante. In esse è già prefigurata la croce, trono dove
Gesù Cristo regna.
In tal modo possiamo entrare nella profondità abissale e sempre insondabile del mistero
dell’amore di Dio rivelatosi a Betlemme. Venendo nel mondo, Dio è entrato nel luogo più
nascosto e più profondo possibile, nella grotta e nella mangiatoia, nel più profondo di noi
stessi. Noi siamo, quindi, il luogo santo, come ha affermato S. Beda il Venerabile:

Ancora oggi e fino alla fine del mondo (il Signore) non cessa di essere concepito a
Nàzaret e di nascere a Betlemme, quando uno qualunque di quelli che lo ascoltano,
accolto il «fiore della sua Parola», fa di sé la «casa del pane» eterno. Ogni giorno il
Signore e concepito in un grembo verginale, cioè nello spirito dei credenti: egli è
concepito tramite la fede e generato mediante il battesimo.195

S. Beda fa qui una meravigliosa sintesi. Ogni giorno Gesù è ancora concepito nella
Nàzaret e nella Betlemme che siamo noi, quando ascoltiamo il kerygma e lo accogliamo. S.
Beda, tra l’altro, gioca volentieri sul significato dei nomi ebraici dei luoghi santi e ne fa
un’interpretazione spirituale. Egli sa bene che, come notato sopra, il nome «Nàzaret»
(Natseret) è legato al «germoglio» (netser), al «fiore», e perciò afferma che il credente

194
Cf. Anthologhion, I, 1167 (Orthros del 25 dicembre, poema di Romano il Melode, ikos).
195
BEDA IL VENERABILE, In Lc ev exp I,2,6-7.
accoglie, come Maria, il «fiore della Parola». Egli conosce anche l’interpretazione ebraica del
nome «Betlemme» (bet lehem, «casa del pane») e perciò afferma che ognuno ha la possibilità
di trasformarsi nella «casa del Pane eterno». Il credente, pertanto, diviene spiritualmente
Betlemme, luogo dove Cristo nasce, in modo da dare frutto e generare Cristo per gli altri. Noi
siamo, pertanto, la mangiatoia ove Cristo si posa per trasformarci in dimora celeste.

Dal fango degli animali alla dimora celeste


Nel Targum Palestinese a Gen 3,18 s’inserisce una preghiera di Adamo a Dio dopo il
peccato:

Ti prego, per la misericordia davanti a te, o Signore, che noi non siamo considerati
come il bestiame davanti a te, mangiando l’erba che si trova sul campo!196

Adamo, quindi, dopo il peccato teme di essere ridotto al rango di un animale e perciò
chiede a Dio che non lo costringa a mangiare l’erba del campo. Questa tradizione è sviluppata
nel Midrash Avot deRabbi Natan, dove si racconta che il primo uomo, quando ascoltò da Dio
l’ordine di mangiare l’erba, tutto tremante, si rivolse a Dio con la seguente domanda:
«Signore dell’universo, io e il mio bestiame mangeremo in una stessa mangiatoia?»197. Allora
Dio decise di concedergli di mangiare il pane con il sudore della fronte. La stessa tradizione
ricorre nel Talmud, in un detto di Rabbi Yehoshua‘ ben Levi, il quale afferma che, quando
Adamo sentì l’ingiunzione divina di mangiare l’erba campestre (cf. Gen 3,18), cominciò a
piangere e a dire: «Signore dell’universo, io e il mio asino mangeremo dunque dalla stessa
mangiatoia?»198. La tradizione rabbinica esalta così l’esigenza di Adamo di conservare la sua
dignità di uomo in opposizione al mondo animale, mostrando la sua ripugnanza e il suo
sconcerto a essere equiparato alla bestia e a nutrirsi, come questa, dalla mangiatoia.
La tradizione cristiana bizantina riprende tale elemento, rimarcando che il primo uomo, a
causa della trasgressione, si ridusse quasi a un essere privo di senno, giacché il peccato rende
folle l’uomo, come una bestia che toma alla sua mangiatoia. Così i padri della Chiesa
affermano che nel presepio in cui cadde il vecchio Adamo scese il nuovo Adamo, per
risollevare il primo dalla mangiatoia e ridonargli la dignità perduta.
Anche S. Efrem il Siro, padre della Chiesa che si rifà spesso alla tradizione ebraica, scrive
in un suo inno:

Davide pianse su Adamo, per come cadde dalla dimora regale a quella delle bestie. Per
essersi la- sciato ingannare per mezzo di una bestia, egli divenne simile alle bestie. La
maledizione fece sì che, come risultato della maledizione, con esse si cibò di erbe e
radici e come esse morì. Benedetto sia Colui che lo separò di nuovo dalle bestie!199

Per Efrem, quindi, Adamo cadde dall’Eden, dimora regale, al fango degli animali. Gesù
Cristo, nuovo Adamo, viene a risollevare il vecchio Adamo dopo il peccato, e lo rialza di
nuovo dal fango della mangiatoia alla dimora celeste.

196
TgGen 3,18 (TgN, TgJ, TgF). L’inserzione targumica ha come origine la contraddizione tra il v.18, in cui Dio
comanda ad Adamo di mangiare l’erba campestre, e il v.19, ove gli ordina di mangiare il pane con il sudore
della fronte. La tradizione rabbinica risolve il problema attribuendo il cambiamento del comando divino proprio
alla preghiera di Adamo. Secondo la tradizione ebraica, infatti, la preghiera ha il potere di cambiare il decreto
divino.
197
ARNA 1,14.
198
b.Pes 118a; cf. anche BerR 20,10.
199
EFREM IL SIRO, Hymn par 13,5. Efrem conosceva la tradizione esegetica ebraica su Gen 3,18, che sviluppò in
senso cristologico. Il primo cristianesimo ha ripreso la tradizione della preghiera di Adamo dopo il peccato:
VitAd 27 riferisce sulla penitenza e la preghiera di Adamo.
Delizie nel luogo nascosto
I temi sopra trattati si ritrovano nella liturgia bizantina, alla quale desideriamo ora rifarci.
Tornare alle sorgenti della fede in Terra Santa, infatti, significa anche attingere ai tesori della
tradizione e liturgia orientali. Un kondakion di Romano il Melode canta: «Betlemme ha
aperto l’Eden, venite a vedere: troviamo nel nascondimento le delizie; venite, riceviamo nella
grotta le gioie del paradiso»200. Betlemme ha riaperto il Paradiso, giacché il Paradiso stesso è
entrato a Betlemme nella grotta e si è adagiato nella mangiatoia. Cristo, infatti, è
l’autobasileia, lo stesso regno dei cieli in persona201. Di qui l’invito a recarsi spiritualmente
presso la grotta di Betlemme: «Venite a vedere!». Il cristiano è invitato a trovare le delizie e a
ricevere le gioie del Paradiso nel luogo nascosto della grotta. Qui si trova Gesù Cristo con la
sua santa Madre e S. Giuseppe, qui si sono «piegati i cieli» e ne è discesa la salvezza.
Così continua il kondakion di Romano il Melode, riferendosi alla grotta:

Là è apparsa la radice non innaffiata che fa germogliare il perdono; là si è trovato il


pozzo da nessuno scavato a cui Davide un tempo aveva desiderato bere: là è la Vergine
che, partorito il bambino, ha subito estinto la sete di Adamo e di Davide: affrettiamoci
dunque al luogo dove è stato partorito piccolo bimbo il Dio che è prima dei secoli.202

Nel secondo libro di Samuele si narra che Davide, non potendo raggiungere la sorgente di
Betlemme a causa di un appostamento di Filistei e avendo desiderio di bere alla fonte della
sua città natale, fece rischiare la vita a tre dei suoi prodi perché si aprissero un varco tra i
Filistei e gli portassero dell’acqua della fonte (cf. 2Sam 23,13-16). Com’è noto, Davide, non
volle bere di quell’acqua che poteva costare la vita ai suoi fidati guerrieri, ma la versò a terra
esclamando: «Non sia mai, Signore, che io faccia una cosa simile. È il sangue di questi
uomini, che sono andati là a rischio della loro vita!» (2Sam 23,17). Davide, pertanto, non
bevve alla sorgente di Betlemme. S. Romano il Melode afferma ora che nella grotta si trova il
mistico pozzo dal quale Davide aveva desiderato bere, che è Gesù stesso, figlio di Davide,
l’unico che poteva saziare la sete dei suoi padri, Adamo e Davide.

Asino e bue per cherubini


Dio si è messo nella greppia. Quest’ultimo luogo è parte del segno dato ai pastori
dall’angelo (cf. Lc 2,11). Conosciamo l’incipit del libro del profeta Isaia (Is 1,1-3). L’inizio
di un libro, e ciò valeva specialmente nell’antichità, è sempre di grande rilevanza, perché
costituisce la chiave interpretativa dell’opera. Dopo il titolo iniziale (1,1), così recita l’inizio
di Isaia (1,2-3):

Udite, o cieli, ascolta, o terra, così parla il Signore: «Ho allevato e fatto crescere figli,
ma essi si sono ribellati contro di me. Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la
greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, e il mio popolo non comprende».

Isaia afferma, da parte del Signore, che il popolo è divenuto peggiore del bue e dell’asino,
giacché, mentre i due animali riconoscono la mangiatoia del loro «signore», il suo popolo non
ha compreso. Il termine ebraico usato da Isaia per «signore» in Is 2,3a è ba‘al, termine molto
evocativo, giacché significa al tempo stesso «signore» e «marito» (nonché Baal nel senso di
«idolo»). Ebbene, per quel popolo, peggiore del bue e dell’asino e che in definitiva
rappresenta noi tutti, Dio stesso si pone nella mangiatoia, in modo da guardare l’uomo dal
basso, come abbiamo spiegato sopra. Dio stesso, in Gesù Cristo, ci ha guardati dal basso della

200
Anthologhion, I, 1167 (Orthros del 25 dicembre, poema di Romano il Melode, ikos).
201
L’espressione autobasileia («regno in se stesso») risale, com’è noto, a Origene.
202
Anthologhion, I, 1167 (Orthros del 25 dicembre, poema di Romano il Melode, ikos).
mangiatoia. Qui contempliamo il volto di Dio, ci incrociamo, per così dire, con gli occhi di
Dio. Qui comprendiamo come Dio non sia un giudice spietato. Certo, Dio è anche giudice,
eppure egli ha deciso di venire con misericordia nella sua prima venuta. Gesù, che ritornerà
nella gloria come giudice universale, nella sua prima venuta ci ha guardato dal basso, per
farci innamorare di lui. Egli ci ha guardato dall’alto solo in un’occasione, dalla croce, proprio
- paradosso mirabile - nel momento del suo abbassamento più grande, della sua kenosis più
profonda. Solo dalla croce ci ha guardati dall’alto, quando ci donava la sua vita, il suo soffio,
la sua santa Madre, insomma tutti i suoi doni e tesori.
Gesù Cristo è disceso nella mangiatoia fino a farsi «maledizione» per noi, fino a mettersi
all’ultimo posto, quel posto che nessuno vuole occupare. E ciò per tutto il corso della sua
vita, dalla mangiatoia alla croce. Il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo. Egli,
tuttavia, ha posato il capo laddove noi non sappiamo adagiarlo, ha ri- posato laddove non
possiamo riposare, vale a dire nella mangiatoia e nella croce.
Un testo della liturgia bizantina attribuito a Giovanni monaco fornisce una geniale
interpretazione della mangiatoia e dei due animali che, secondo la tradizione cristiana, erano
a fianco di Gesù bambino nel presepe:

Incomprensibile il mistero che oggi si compie a Betlemme! L’invisibile viene visto,


colui che non ha carne s’incarna; il Verbo assume spessore, e Colui «che È» diviene ciò
che non era. La Vergine partorisce nella grotta, bimbo neonato, il Creatore della Natura:
la mangiatoia rappresenta il trono celeste, i due animali esprimono l’assistenza maestosa
dei cherubini.203

Nell’arca dell’alleanza Dio era presente tra i due che- rubini che erano rivolti l’uno verso
l’altro (Es 25,20). Gli ebrei rimarcano che Dio appare in mezzo ai cherubini, i cui volti si
guardavano l’un l’altro, come testimonianza che Dio è presente laddove vi è il
riconoscimento del volto del fratello, laddove vi è comunione. Dio che era presente
invisibilmente tra i due cherubini d’oro, ora è presente visibilmente tra l’asino e il bue. In tal
modo, la mangiatoia diviene il trono celeste.
Così termina il tropario di Giovanni il monaco:

I pastori sono nello stupore; i magi portano doni; gli angeli inneggiano dicendo: Gloria a
Dio nel più alto dei cieli e pace sulla terra: perché nella sua benevolenza è con gli
uomini, senza subire mutamento, l’Emmanuele.204

In un altro testo della liturgia bizantina, si canta:

Il cielo ti ha portato la primizia delle genti, a te, bambino che giaci in una mangiatoia,
chiamando i magi per mezzo di una stella: ed essi rimasero stupiti non alla vista di
scettri o troni, ma della povertà estrema; che cosa infatti più misero di una grotta? Che
cosa più umile delle fasce? È qui che risplendeva la ricchezza della tua divinità.
Signore, gloria a te.205

La nostra povertà è il luogo dove risplende «la ricchezza della divinità di Cristo». Non
siamo noi, di conseguenza, a dover colmare i nostri propri vuoti. Nelle nostre «zone oscure»,
nella nostra «mangiatoia», alla quale, come animali, eravamo costretti a tornare per riempire
il nostro vuoto, si è messo Cristo. Ora, in tale mangiatoia, al posto della nostra sozzura,
troviamo il volto di Dio che ci ama, che si è fatto piccolo bambino. Accogliendolo, le
profondità della nostra anima sono illuminate. Ora possiamo entrare nelle profondità di noi
stessi e lì trovare la luce di Cristo, luce e pienezza che illumina la nostra grotta e riempie i
203
Anthologhion, I,1188 (Orthros del 27 dicembre, tropario di Giovanni monaco).
204
Anthologhion, I, 1188 (Orthros del 27 dicembre, tropario di Giovanni monaco).
205
Anthologhion, I, 1164 (Orthros del 25 dicembre, katavasie, ypakoi).
nostri vuoti.
S. Giovanni, insieme con gli altri apostoli, ha avuto la grazia di «toccare il Verbo della
vita» (lGv 1,1) e di posare il suo capo sul cuore di Gesù (Gv 13,25). Per tale ragione, con la
luce dello Spirito Santo, egli è stato «come un’aquila» (e come tale è rappresentato nella
tradizione): volando ad altezze impensate, ha potuto scrutare con gli occhi penetranti della
fede il mistero profondo di Dio fattosi carne (cf. Gv 1,14). Anche noi, nel Natale,
cominciamo a entrare nelle profondità di Dio, negli abissi inesauribili del suo amore e della
sua misericordia.
11

NATALE: UN DIO DISARMATO

Senza armi
Nel Natale si celebra anzitutto l’incarnazione di Dio. Con la nascita di Gesù Cristo, Dio
irrompe nella storia umana. Egli, che non può essere contenuto in nessuno spazio o tempo,
irrompe in un luogo e in un momento concreto della storia. Viene come bambino: è un Dio
totalmente donato e disarmato davanti all’uomo. Questo è esattamente il segno che gli angeli
indicano ai pastori:

Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per
voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia (Lc
2,11-12).

Nel Natale, pertanto, contempliamo un Dio disarmato, come ha affermato Papa Benedetto
XVI in un’udienza generale del 2009:

In quel Bambino (...) si manifesta Dio-Amore: Dio viene senza armi, senza la forza,
perché non intende conquistare, per così dire, dall’esterno, ma intende piuttosto essere
accolto dall’uomo nella libertà; Dio si fa Bambino inerme per vincere la superbia, la
violenza, la brama di possesso dell’uomo. In Gesù Dio ha assunto questa condizione
povera e disarmante per vincerci con l’amore e condurci alla nostra vera identità.206

Qui abbiamo una chiave fondamentale del mistero del Natale, dove Dio è, davanti
all’uomo, disarmato. L’incarnazione può scandalizzare. Un Dio senza armi, che non viene a
difendersi o a difendere il più povero con le armi, può essere, in fondo, il più grande scandalo
per l’uomo. Perché Dio ha deciso di venire senza manifestarsi con evidenti segni esteriori?
Perché il Messia è venuto senza farsi riconoscere in modo eclatante? Indubbiamente ha fatto
grandi prodigi e la sua predicazione era di fuoco. Perché, tuttavia, non si è manifestato con
segni evidenti dal cielo? Papa Benedetto ha risposto nel modo seguente: perché egli vuol
essere accolto dall’uomo nella libertà, «perché non intende conquistare, per così dire,
dall’esterno, ma intende piuttosto essere accolto dall’uomo nella libertà». Egli vuole
«disarmarci», perché possiamo accoglierlo nella libertà.
In modo simile, Papa Francesco, in un suo discorso del 2015, ha affermato:

Il presepe ci dice (...) che Egli non si impone mai con la forza. Ricordate bene questo,
voi bambini e ragazzi: il Signore non si impone mai con la forza. Per salvarci, non ha
cambiato la storia compiendo un miracolo grandioso. È invece venuto con tutta
semplicità, umiltà, mitezza. Dio non ama le imponenti rivoluzioni dei potenti della
storia, e non utilizza la bacchetta magica per cambiare le situazioni. Si fa invece piccolo,
si fa bambino, per attirarci con amore, per toccare i nostri cuori con la sua bontà umile;
per scuotere, con la sua povertà, quanti si affannano ad accumulare i falsi tesori di
questo mondo.207

La povertà di Cristo, la sua mansuetudine e mitezza, è ciò che più ci rende caro il mistero

206
BENEDETTO XVI, Udienza generale del 23 dicembre 2009.
207
FRANCESCO, Discorso ai donatori del presepio e dell’albero di Natale in Piazza San Pietro (18 dicembre
2015).
del Natale del Signore.

Agnello, servo, bambino


La tradizione del «bambino che salva» è presente già nella tradizione ebraica. Il testo più
evidente è contenuto nel capitolo settimo di Isaia, in cui è concesso ad Acaz un segno divino:

Il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che
chiamerà Emmanuele. Egli mangerà panna e miele finché non imparerà a rigettare il
male e a scegliere il bene. Poiché prima ancora che il bimbo impari a rigettare il male e
a scegliere il bene, sarà abbandonata la terra di cui temi i due re (Is 7,14-16).

Secondo tale profezia, quindi, la salvezza viene da un bambino che una ragazza, una
«vergine» secondo la Set- tanta, partorirà e chiamerà «Emmanuele», Dio-con-noi.
Fra i molti testi tratti dalla Bibbia e dalla tradizione ebraica che si potrebbero aggiungere
a quello citato, ci riferiamo ora a uno meno noto, contenuto nel Targum Pseudo-Jonathan al
libro dell’Esodo. Nella sua parafrasi a Es 1,15 il targumista introduce un vivace midrash:

Il Faraone disse di aver visto un sogno mentre dormiva: ed ecco, la terra d’Egitto era su
un piatto di una bilancia e un agnello (talya) era sull’altro piatto e il piatto che aveva
l’agnello pendeva in basso. Egli mandò subito a chiamare tutti i maghi d’Egitto e ripetè
loro il suo sogno. Subito Iannes e Iambres, i capi dei maghi, aprirono la loro bocca e
dissero al faraone: «Un figlio (bar) sta per nascere alla comunità d’Israele, per la cui
mano tutta la terra d’Egitto andrà in rovina».208

Nel sogno riportato dal Targum, il Faraone vede che un agnello pesa più di tutto l’Egitto,
terra ricca e feconda, paese dei Faraoni. Tale agnello, secondo l’interpretazione del sogno,
rappresenta un figlio, un bambino. Il figlio è paragonato all’agnello, animale proverbiale per
la sua mitezza: si tratta di un evidente riferimento a Mosè, secondo la Scrittura l’uomo «più
mite» o «più umile» della terra (Nm 12,3). In altre parole, il bambino Mosè sarà il liberatore
del popolo d’Israele. Un bambino, rappresentato da un agnello, peserà più di tutto l’Egitto
messo insieme!
Ora, secondo la tradizione ebraica, il messia dovrà essere come un secondo Mosè, giacché
dovrà ripetere, in modo nuovo e grandioso, i prodigi di salvezza compiuti per mano di quello.
Un testo paradigmatico, in proposito, è contenuto nel Midrash Qoèlet Rabbah:

Come il primo redentore, così farà l’ultimo redentore. Come del primo redentore è
detto: «Mosè prese la moglie e i figli, li fece salire sull’asino» (Es 4,20), così l’ultimo
redentore, com’è detto: «Umile e seduto su un asino» (Zc 9,9).
Come il primo redentore fece scendere la manna, com’è detto: «Ecco io faccio piovere
pane dal cielo per voi» (Es 16,4), così l’ultimo redentore farà scendere la manna, com’è
detto: «Abbonderà il frumento nel paese» (Sal 72,16).
Come il primo redentore fece salire l’acqua dai pozzi, così l’ultimo redentore farà salire
le acque, com’è detto: «Una fonte zampillerà dalla casa del Signore e irrigherà la valle
delle acacie» (Gl 4,18).209

Su questo sfondo si comprende perché Gesù Cristo abbia compiuto alcuni segni per
mostrare di essere il Messia, l’«ultimo redentore», il nuovo Mosè.
Il termine aramaico talya, usato nel testo targumico citato, è particolarmente denso di
significato: esso vuol dire «agnello», ma anche «servo», «bambino», «giovane». Le risonanze
simboliche del termine potevano quindi essere imprevedibili.

208
TgJEs 1,15.
209
QohR 1,9.
Questa parola aramaica (non va dimenticato che Gesù parlava come prima lingua
l’aramaico) è stata, per così dire, compiuta nella persona di Gesù Cristo: egli è il Talya,
l’Agnello che è al tempo stesso il Servo, che si manifesta anzitutto come mite bambino.

Rugiada del Signore


Per chi conosca l’ebraico, oltre che l’aramaico, il termine talya è ancor più evocativo. In
ebraico, infatti, tal significa «rugiada», mentre Ya è l’abbreviazione del santo nome di Dio
(YHWH). La parola talya si può quindi tradurre anche «rugiada del Signore».
I rabbini sapevano bene che la rugiada è un simbolo del messia e della risurrezione.
Conviene rammentare tale simbolismo. Nella tradizione ebraica, l’espressione «tesori della
rugiada» è un’immagine simbolica per affermare che si aprono i cieli. Il Targum Palestinese
inserisce in Gen 30,22 un midrash sulle quattro chiavi che il Signore tiene in mano: la chiave
della pioggia, la chiave del cibo, la chiave dei sepolcri e la chiave della sterilità; per quanto
concerne la chiave della pioggia, si cita Dt 28,12: «Il Signore vi aprirà il suo buon tesoro, il
cielo»210. Nel Targum Pseudo-Jonathan a Gen 27,1 la notte di Pasqua è definita la notte in cui
si dischiudono «i tesori della rugiada»211. Perché proprio nella notte di Pasqua sono dischiusi i
tesori della rugiada? Secondo la tradizione ebraica, in Pesah (Pasqua) è fissata la quantità di
rugiada per l’anno a venire, mentre in Sukkot la quantità di pioggia212.
Nell’Antico Testamento, la rugiada è legata al dono della manna (cf. Es 16,13-14). In Nm
11,9 si nota che la manna scendeva insieme alla rugiada. Che il particolare della rugiada fosse
oggetto di una particolare attenzione midrashica nel primo secolo d.C. è testimoniato da
Giuseppe Flavio. Egli narra che, quando Mosè elevò le mani in preghiera, la rugiada fu
inviata, si attaccò alle sue mani ed egli pensò che si trattasse di cibo inviato dal cielo213.
Nell’Antico Testamento, inoltre, ricevere la rugiada è segno di benedizione214. Questo
elemento sarà sviluppato nella tradizione rabbinica, dove «rugiada» è sinonimo di
«benedizione»215.
Isaia fa della rugiada un simbolo d’enorme importanza:

Ma di nuovo vivranno i tuoi morti. I miei cadaveri risorgeranno! Svegliatevi ed esultate


voi che giacete nella polvere. Sì, la tua rugiada è luminosa, la terra darà alla luce
le ombre (Is 26,19).

Questa profezia, che si riferisce al giorno della redenzione messianica, annuncia la


resurrezione dei morti a causa della rugiada divina, definita «rugiada di luce». La rugiada
diviene così un simbolo della resurrezione dei morti e perfino di Dio stesso: «Sarò come
rugiada per Israele e fiorirà come un giglio» (Os 14,6)216.
Un’altra tradizione riportata da Giuseppe Flavio merita la nostra attenzione. Egli racconta
che la consacrazione del tabernacolo nel deserto avvenne il mese di Nisan e fu caratterizzata
da una prodigiosa «parousia» di Dio (questo è il termine usato dall’autore), che venne ad
abitare nella tenda: la presenza di Dio si mostrò nella rugiada che stillò dalla nube che
avvolgeva la tenda217.

210
TgGen 30,22 (TgN, TgF). Anche in 2Hen 5-6 le acque sono paragonate a un tesoro: «Io ho scrutato i tesori
della neve e del ghiaccio e gli angeli che custodivano i loro terribili magazzini e il tesoro delle nubi (...). Ed essi
mi mostrarono i tesori della rugiada come olio d'oliva (...) e gli angeli che custodivano i loro tesori, come essi li
chiudevano e li aprivano».
211
Cf. anche TgJDt 28,12.
212
Si veda m.RHSh 1,2.
213
Cf. GIUSEPPE FLAVIO, Ant 3,26.
214
Cf. Dt 33,13; Sal 133,3; Zc 8,12.
215
Si veda, ad es., b.Taan 24b; y.Yom 5,3,42c.
216
In Dn 3,50 (LXX) i tre giovani nella fornace sono salvati da un vento di rugiada.
Il profeta Isaia invoca la salvezza dal cielo, come acqua e rugiada che discendono:

Stillate, cieli, dall’alto e le nubi facciano piovere la giustizia; si apra la terra e produca la
salvezza e germogli insieme la giustizia (Is 45,8).

In questo testo, si usa il verbo r‘f(«stillare»), usato altrove con riferimento alla rugiada
(cf. Pr 3,20). La profezia di Isaia appena menzionata, in cui la salvezza è attesa dal cielo,
unita all’espressione contenuta in Sal 110,3 («dal seno dell’aurora, come rugiada io ti ho
generato»), ha potuto contribuire all’idea della rugiada come simbolo del messia.
La liturgia cristiana dell’Avvento canta, con le parole di Isaia, l’attesa ardente del Messia:
rorate Coeli desuper, et nubes pluant justum, «stillate cieli dall’alto e le nubi facciano
piovere il giusto». Il giusto è ovviamente il Messia, Gesù. Questi è il Talya per eccellenza:
l’agnello, il servo, il bambino, secondo i vari significati del termine aramaico, ma anche «la
rugiada del Signore» che è stillata dal cielo, apertisi per la sua venuta.
Come postilla notiamo che gli ebrei, specialmente prima dei tragici eventi avvenuti
durante il nazifascismo, vedevano l’Italia come una terra meravigliosa, anche a causa del suo
nomen-omen: in ebraico «Italia» si può interpretare come «l’isola (̒i) della Rugiada (tal) del
Signore (Ya)».

Rimetti la spada nel fodero!


Gesù Cristo, che nasce a Betlemme, ha dunque la mitezza del bambino e dell’agnello. Dal
principio della vita fino alla fine, egli è stato un Messia disarmato. Nel Natale contempliamo
Dio che viene a noi disarmato nella sua incarnazione, come tale sarà fino al termine della sua
vita. Nel Natale, come più volte abbiamo ribadito, è già presente in nuce tutto il mistero
pasquale di Cristo e, per questo motivo, il bambino Gesù è avvolto in fasce, perché ciò
prefigura la sua morte per noi. L’iconografia bizantina ri- marca ancor più questo fatto
quando rappresenta Gesù che nasce non in una culla piena di paglia, ma in una sorta di
sepolcro. Nella mitezza di questo bambino che nasce piccolo, disarmato, rifiutato, è già
prefigurata la sua croce e la sua sepoltura, nell’apparizione della stella e nella gioia dei
pastori e dei Magi la sua resurrezione e glorificazione.
Anche alla fine della sua vita Gesù si presenta come un Messia disarmato. Quando egli si
trova nell’orto del Getsèmani, nel momento in cui Giuda viene a prenderlo con la folla di
soldati «con spade e bastoni» per arrestarlo (Mt 26,47), uno dei discepoli di Gesù sguaina la
spada (Mt 26,51). Secondo il vangelo di Giovanni, tale discepolo è nientedimeno che Simon
Pietro (Gv 18,10). Gesù Cristo si rivolge a lui, e in lui a ogni cristiano, con queste parole:

Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spada
moriranno. O credi che io non possa pregare il Padre mio, che metterebbe subito a mia
disposizione più di dodici legioni di angeli? (Mt 26,52-53).

Tale affermazione è fondamentale per il nostro tema: l’«impotenza» di Cristo, lungi


dall’essere passiva, è invece libera e consapevole. Per questo, la preghiera di consacrazione
dell’Eucaristia comincia dicendo: «Offrendosi liberamente alla sua passione». Gesù Cristo,
che è il Potente per antonomasia, il «Dio forte», decide di non difendersi, di rimanere
nell’impotenza, di arrendersi.
La sua persona grida a ciascuno di noi: «Rimetti la spada nel fodero!». L’uomo ha tante
armi con cui si difende dagli altri: barriere, armature, meccanismi di difesa. Egli ha tante
spade con cui passare al contrattacco: la lingua, il pensiero, il cuore, la parola, il silenzio,
ecc... Tutte queste possono essere spade affilatissime per altri, specialmente quando ci

217
GIUSEPPE FLAVIO, Ant 3,201-203.
sentiamo attaccati o subiamo una violenza. Gesù Cristo è stata la prima vittima della feroce
violenza umana. Per questo egli può dire con autorità a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero!».
Secondo il vangelo di Giovanni, egli aggiunge: «Il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò
berlo?» (Gv 18,11), come a dire: «Non sono forse venuto per questo? Non sono venuto
proprio per mostrare, mediante la mia libera resa e il mio distendere le braccia sulla croce, la
misericordia abissale di Dio?».
Nel vangelo di Luca ricorre una frase misteriosa che per quelli che non sono iniziati alle
Scritture potrebbe sembrare una contraddizione. Proprio in quest’ora del combattimento
decisivo, prima di giungere al monte degli Ulivi, Gesù si rivolge ai suoi discepoli con queste
parole:

«Quando vi ho mandato senza borsa, né sacca, né sandali, vi è forse mancato


qualcosa?». Risposero: «Nulla». Ed egli soggiunse: «Ma ora, chi ha una borsa la prenda,
e così chi ha una sacca; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. Perché io
vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra gli
empi. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo compimento». Ed essi dissero:
«Signore, ecco qui due spade». Ma egli disse: «Basta!» (Lc 22,35-38).

Gesù Cristo parla qui del combattimento spirituale che dovrà affrontare, quello della
croce, la «vera spada» che egli deve impugnare, come dirà S. Paolo:

Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra
battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze,
contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano
nelle regioni celesti (Ef 6,11-12).

I discepoli, tuttavia, hanno ancora la «mentalità zelota» e pensano che, quando Gesù
comincia a parlare di brandire la spada, sia giunto per loro il momento della rivoluzione e
della lotta armata in vista della manifestazione del messia trionfante. Per questo offrono a
Gesù due spade. Gesù risponde: «Basta!» (Lc 22,38). Ogni dettaglio del vangelo è davvero
meraviglioso, se scrutato in profondità. Il Signore rivolge tale parola ai suoi discepoli e a
tutto il mondo, ancora oggi molto «armato»: «Basta!». Oggi abbiamo quanto mai bisogno di
questo disarmo universale. Gesù Cristo dice: «Basta!». Basta di stare sempre sulle difensive!
Basta di sfoderare la spada! Basta di essere sempre pronti ad attaccare, con la scusa che «la
miglior difesa è l’attacco»! Basta! «Rimetti la spada nel fodero!».

Mani in alto
Gesù Cristo non si è difeso, cosa che spesso ci scandalizza 0 che ci mette in crisi, perché,
se ci confrontiamo con questa parola, in fondo siamo tutti dei principianti. Gesù non si è
difeso, è un Messia disarmato, che stende le sue braccia, alza le sue mani e si arrende. Egli si
è arreso alla violenza inaudita del mondo. In fondo, ciò che più scandalizza è proprio
l’incarnazione di Dio: vorremmo un Dio potente che si manifesti con segni grandiosi nella
nostra vita e ci liberi dalla sofferenza e dall’ingiustizia, mentre egli si fa impotente e mite.
Come abbiamo spiegato sopra, questa è esattamente la differenza tra l’idea di messia che
circolava all’epoca del secondo tempio, specialmente tra gli zeloti, e quella che Gesù Cristo
compie nella sua carne.
Non è un caso che, nella Chiesa primitiva, i cristiani pregavano sempre con le mani
alzate, segno delle braccia distese di Gesù sulla croce e delle mani pure, senza sangue, che
mostravano al Padre, secondo l’invito di S. Paolo: «Voglio dunque che in ogni luogo gli
uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza polemiche» (1Tm 2,8).
Alzare le mani, inoltre, è il gesto di chi si arrende. Il cristiano si arrende dinanzi agli
eventi della storia. Ciò, ovviamente, non significa non combattere contro il male o non
annunciare la verità. Come ha fatto Gesù Cristo, anche i cristiani sono chiamati a denunciare
l’ingiustizia e ad annunciare la verità senza compromessi. Nel momento cruciale, tuttavia,
Cristo si è arreso, ha steso le sue mani sulla croce per la salvezza del mondo. Essere cristiani
significa essere icone di Cristo in questo mondo, avere la mitezza del Bambino di Betlemme,
arrendersi davanti alla storia. Il mondo annuncia spesso l’esatto contrario, giacché - si dice -
alla fine quelli che vincono sono i lupi! La terribile frase homo homini lupus («l’uomo è un
lupo per l’altro uomo») è rovesciata definitivamente nel cristianesimo: homo homini Christus
(«l’uomo è Cristo per l’altro uomo»), poiché «l’altro è Cristo».
I cristiani sanno che l’unico modo di vincere il male nel mondo è quello segnato dal
Messia, perché egli è la via e la verità, la via di prendere su di sé i peccati e la violenza del
mondo e distruggerli nella propria carne, rompendo così il cerchio della violenza. Infatti,
violenza chiama violenza e spada chiama spada. Perciò dice Gesù: «Tutti quelli che prendono
la spada, di spada moriranno» (Mt 26,52). È chiaro che questo è impossibile per l’uomo se
non riceve dall’alto lo Spirito Santo, lo Spirito dell’uomo nuovo, la natura divina, la mitezza
di Cristo che contempliamo proprio nel Bambino di Betlemme.

Amore disarmato e disarmante


Gesù Cristo afferma davanti a Pilato:

Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei
servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio Regno
non è di quaggiù» (Gv 18,36).

Questa parola, pronunciata da Gesù alla fine della sua vita, si compie anche nel mistero
del Natale. I Magi vengono dall’oriente e a Gerusalemme chiedono: «Dov’è colui che è nato,
il re dei Giudei?» (Mt 2,2). Gesù, pertanto, dal momento della sua nascita fino a quello della
sua passione è riconosciuto come «il re». Ciò, come abbiamo visto sopra, fa tremare Erode
(cf. Mt 2,3), il quale sapeva di non avere diritto a fregiarsi del titolo di «re dei Giudei» e per
questo era molto criticato dagli ebrei religiosi del suo tempo. Per conquistarsi il favore del
popolo come «re dei Giudei», Erode il Grande si diede a enormi opere. Egli sapeva di essersi
acquistato quel titolo a caro prezzo, attraverso le sue amicizie e alleanze a Roma.
Gesù Cristo, ancora piccolo e impotente, «messia e Dio disarmato», fa tremare il trono
dei potenti. Gesù Cristo ha deciso di essere il Re in modo disarmato e disarmante. Prova ne è
che Pilato lo proclama re dinanzi alla folla proprio nel momento della massima umiliazione:
«Ecco il vostro re!» (Gv 19,14), quando è grondante di sangue per la flagellazione appena
avvenuta e oggetto di rifiuto da parte del suo popolo.
Per entrare in profondità in tale verità di Gesù come «Dio disarmato», vale la pena citare
le parole di un uomo che ha percorso le sue orme, di un martire dei nostri tempi. Si tratta di
Pierre Claverie, Vescovo di Orano in Algeria, dell’ordine dei domenicani, martirizzato nel
1996. Alcuni anni prima del suo martirio, egli ci ha la- sciato, in una sua stupenda lettera,
alcune riflessioni circa le caratteristiche peculiari del regno di Gesù Cristo:

Questo Regno non assomigliava a nessuno dei regni di questo mondo: senza frontiere,
senza eserciti e senza Stato. Gesù rifiuta di stabilire un rapporto di forza con Cesare e
impedisce ai discepoli di lanciarsi alla conquista del potere, come invece avrebbero
voluto fare Giuda lo Zelota, Pietro, Giacomo e Giovanni. In questo risiede una delle
differenze essenziali tra Gesù e Maometto (...). Questo Re insignificante non è stato il
più forte: i re della terra lo hanno schiacciato. Ecco il Messia a cui crediamo e cioè che
seguiamo, perché ci porta al Padre e c’introduce nel suo Regno. Si presenta a Betlemme
come il Bambino disarmato, e disarmante, di una fami- glia normale.218
Mons. Claverie instaurò un profondo e profìcuo dialogo interreligioso con i musulmani,
benché, nella lettera citata, evidenzi con chiarezza la differenza essenziale tra Gesù e
Maometto. Come egli afferma, nel Bambino di Betlemme contempliamo l’amore disarmato e
disarmante di Dio. Il mondo ha assoluta urgenza di un disarmo generale a tutti i livelli:
politico, economico sociale ed esistenziale.
Il Bambino di Betlemme ci invita: «Rimetti la spada nel fodero!». Egli ci guarda e ci
invita a chiedere il suo Spirito, uno spirito da bambino, come egli stesso dichiarerà da adulto,
nel suo ministero pubblico:

Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei
cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel
regno dei cieli. E chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie
me (Mt 18,3-5).

Qual è, infatti, la caratteristica principale di un barn- bino? Il fatto di non potersi


difendere e di non resistere al male, la sua vulnerabilità e mitezza di fronte alle ingiustizie. Il
centro del cristianesimo è proprio l’amore ai nemici, la resa e la consegna totale all’altro, in
una parola, la mansuetudine che contempliamo in Gesù Cristo bambino.

Uomo secondo il cuore di Dio


Il principale titolo del messia nella tradizione ebraica è quello di «figlio di Davide».
Anche nei vangeli Gesù è invocato con il medesimo titolo. Qual è il suo significato profondo?
Abbiamo notato sopra come, per la maggior parte dei saggi ebrei, esso significa che il messia
sarà un re della tribù di Giuda, che trionferà sui suoi nemici e porterà lo shalom definitivo,
uno stato di perfezione e di benessere totale, sia interiore che esteriore.
Abbiamo anche rammentato come la radicale obiezione da parte degli ebrei al fatto che
Gesù di Nàzaret sia il messia è la semplice considerazione che tale shalom non sia giunto: è
sotto gli occhi di tutti la realtà che non vi è pace nel mondo. I cristiani, tuttavia, possono
aiutare i loro fratelli ebrei a «correggere» alcune visioni distorte del messia o meglio a
riconsiderare e rivalorizzare aspetti del messia presenti nella loro tradizione e tuttavia messi a
margine o «censurati» dai saggi a causa delle ataviche polemiche con i cristiani e le ferite da
essi subite. Tale aiuto può arrivare, oltre che dalla riflessione sul messia sofferente da noi
fatta nelle precedenti pagine, anche da una meditazione più profonda, a partire dalla Scrittura,
sul titolo «figlio di Davide».
Occorre quindi chiedersi: cosa significa «figlio di Davide»? Partiamo dalla semplice
constatazione che, quando nella mentalità biblica e semitica, si dice «figlio di qualcuno», si
vuole indicare una sua caratteristica essenziale. Un figlio si definisce dalla «natura» del
padre. Che cosa significa, dunque, avere la «natura» di Davide, essere suo figlio? Nella
Scrittura si afferma che Davide, nonostante i suoi grandi peccati, era «un uomo secondo il
cuore» di Dio (1Sam 13,14). Potremmo dunque chiederci quali siano le più grandi opere di
Davide, quelle compiute «secondo il cuore di Dio». Ebbene, egli per almeno tre volte non
risponde al male con il male, ama i suoi nemici, il che è una delle più grandi prerogative
divine. Ovviamente il re Davide non ha adempiuto totalmente tale prerogativa, come
mostrano, in altri momenti della sua vita, i suoi peccati e il sangue versato. In lui, tuttavia, si
delinea la figura del futuro messia, che sarà «suo figlio».
Per ben due volte Davide ha in mano il suo principale nemico che tenta ripetutamente di
ucciderlo, Saul. Quando costui è in cerca di Davide nell’oasi di Engaddi, in pieno deserto di
Giuda, è costretto ad entrare in una grotta per i suoi bisogni naturali. Egli è in un momento di

218
P. CLAVERIE, Lettere dall’Algeria, 107.
debolezza umana e, mentre si trova di spalle nella grotta, Davide gli è dietro e ha
un’opportunità unica: uccidere chi lo sta perseguitando (cf. 1Sam 24,1-4). Gli uomini di
Davide gli suggeriscono: «Ecco il giorno in cui il Signore ti dice: “Vedi, pongo nelle tue
mani il tuo nemico: trattalo come vuoi”» (1Sam 24,5). Davide, tuttavia, si ferma, non vuole
stendere la mano sul consacrato del Signore e così taglia un lembo del mantello di Saul. Ciò
lo fa tremare al pensiero di aver osato toccare il consacrato del Signore (cf. 1Sam 24,5-8). In
una parola, Davide non si fa giustizia con le sue mani. Un fatto simile accade più avanti nella
vita di Davide. Per la seconda volta, costui risparmia Saul proprio quando lo ha in mano
(1Sam 26).
Infine, Davide risparmia Simei, uomo della casa di Saul, che lo maledice quando il re è
nel suo momento peggiore, ovvero mentre sta salendo l’erta del monte degli Ulivi e fuggendo
da Gerusalemme perché tradito dal suo stesso figlio, che porta il nome - ironia della sorte! -
di Assalonne, cioè Abshalom, «padre (ab) di pace (shalom)» (cf. 2Sam 16,5-8). Mentre Simei
maledice il re dinanzi a tutto il popolo e getta sassi contro di lui, Abisai, figlio di Seruià, si
rivolge adirato a Davide: «Perché questo cane morto dovrà maledire il re, mio signore?
Lascia che io vada e gli tagli la testa» (2Sam 16,9). Davide, a detta di Abisai, non dovrebbe
nemmeno sporcarsi le mani: i suoi gli avrebbero fatto giustizia. Il re, al contrario, pronuncia
una delle frasi più belle contenute nell’Antico Testamento:

Che ho io in comune con voi, figli di Seruià? Se maledice, è perché il Signore gli ha
detto: «Maledici Davide!». E chi potrà dire: «Perché fai così?» (...). Ecco, il figlio uscito
dalle mie viscere cerca di togliermi la vita: e allora, questo Beniaminita, lasciatelo
maledire, poiché glielo ha ordinato il Signore. Forse il Signore guarderà la mia
afflizione e mi renderà il bene in cambio della maledizione di oggi (2Sam 16,10-12).

Davide, pertanto, nel momento in cui ha in mano i suoi nemici, depone le armi. Egli
diviene così una prefigurazione del Messia, «figlio di Davide». Se Davide è stato un uomo
«secondo il cuore di Dio», Gesù Cristo è la manifestazione stessa di questo cuore, che ama il
nemico, un cuore disarmato e totalmente donato al malvagio.

Il Pastore annunciato ai pastori


Non è un caso che il primo annuncio della nascita del Salvatore sia rivolto ai pastori.
Benché nella tradizione greca e romana alcuni grandi personaggi dell’antichità crebbero in
mezzo ai pastori e nella Bibbia i padri più importanti d’Israele fossero dei pastori (i
patriarchi, Giuseppe, Mosè e Davide), nell’ambiente ebraico dei primi tre secoli della nostra
era, l’atteggiamento verso i pastori era ben diverso. La Mishnà, infatti, testimonia come i
pastori fossero considerati tra le peggiori categorie del tempo. Il mestiere di pastore era
disprezzato, tanto che i rabbini lo sconsigliavano vivamente: «Un uomo non insegni a suo
figlio ad essere asinaio, cammelliere, barbiere, marinaio, pastore o bottegaio, perché questi
mestieri sono mestieri da ladri»219. Oltre ad essere accostati ai ladri220, i pastori erano spesso
associati all’impurità, a causa del costante contatto con gli animali e per i pericoli di
promiscuità221. La loro testimonianza, proprio come quella delle donne, non era ritenuta
valida222. Essi, inoltre, non potevano entrare nelle sinagoghe e nel tempio. Ai farisei era
persino interdetto comprare lana direttamente dai pastori223.

219
m.Qid 4,14.
220
Cf. anche b.BM 5b; b.BQ 118b.
221
All’inizio di m.Qid 4,14, ad es., si riporta un detto di R. Yehudah in cui si proibisce a un celibe di pascolare il
gregge, come anche a due celibi di dormire nello stesso mantello, proprio per evitare occasioni di grave
trasgressione.
222
Si veda, ad es., b.BM 5b; b.San 26a; 25b.
223
Cf., ad es., b.BQ 118b.
Il Talmud riferisce che vi era una categoria di pastori che, a differenza di altri che
pascolavano greggi giornaliere o stagionali e quindi erano soliti ritornare all’ovile, non
tornavano mai nelle loro case né d’estate né d’inverno224. In poche parole, essi erano beduini o
pastori nomadi che non erano ben visti dagli abitanti delle città e dei villaggi. I pastori che
ricevono l’annuncio della nascita di Gesù, con tutta probabilità, facevano parte di tale
categoria, giacché si trovavano fuori da Betlemme, dato che, dopo aver ricevuto l’annuncio,
si esortano a vicenda a recarsi «fino a Betlemme» per conoscere il prodigioso evento
annunciato loro (cf. Lc 2,15).
Su questo sfondo appare ancora più significativo che il primo annuncio della nascita di
Gesù sia rivolto proprio ai pastori. Sembra che Dio «si sia divertito» ad affidare i primi
annunzi più importanti dell’inizio e della fine della vita di Gesù Cristo a categorie le cui
testimonianze non erano considerate valide. Tutto ciò è di consolazione per tutti: nel suo
Natale, Gesù Cristo arriva agli ultimi, forse proprio perché sono i più disperati o i più
disprezzati e, di conseguenza, i più pronti ad accogliere l’annuncio di salvezza.
L’angelo si rivolge ai pastori con queste parole:

Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella
città di Davide, è nato per voi un Salvatore che è Cristo Signore. Questo per voi il
segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia (Lc 2,10-12).

In tale annuncio si menziona la «città di Davide», Betlemme, in cui, secondo la profezia


sarebbe dovuto nascere il messia:

E tu, Betlemme di Effata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per
me colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai
giorni più remoti. Perciò Dio li metterà in potere altrui, fino a quando partorirà colei che
deve partorire: e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli d’Israele (Mi 5,1-2).

Betlemme, «la più piccola» dei villaggi di Giuda secondo il profeta Michea, sarà proprio
la città dove nascerà Gesù Cristo, giacché egli si è fatto piccolo e si è manifestato ai piccoli in
una città che, tra l’altro, ancora oggi è piccola, ferita e umiliata.
Nella profezia di Michea riportata sopra si preconizza il ritorno di un «resto» grazie al
parto di una donna. In tale resto sono prefigurati i pastori. Nel seguito di tale profezia si
afferma che il bambino nato sarà il re e il pastore d’Israele (Mi 5,1.3). Così, nel vangelo di
Luca, la profezia si compie alla perfezione: il Pastore è annunciato ai pastori. Nel seguito
della profezia, si vaticina che «egli stesso sarà shalom» (Mi 5,4), perciò S. Paolo, rabbino
versato nelle Scritture, affermerà che «Cristo è la nostra pace» (Ef 2,14). Subito dopo,
Michea proclama:

Se Assur entrerà nella nostra terra e metterà il piede nei nostri palazzi, noi schiereremo
contro di lui sette pastori e otto capi di uomini (Mi 5,4).

I rabbini hanno cercato di identificare tali misteriosi personaggi: i «sette pastori» sono
Davide nel mezzo, Adamo, Set, Matusalemme alla sua destra, e Abramo, Isacco e Giacobbe
alla sua sinistra; gli «otto capi» sono lesse, Saul, Samuele, Amos, Sofonia, Sedecia, il messia
e Elia225.
Ad ogni modo, nel testo di Michea sono profetizzati perfino il ruolo dei pastori e E
avvento della pace universale che lo stesso vangelo di Luca vede compiuta, dopo l’annuncio
ai pastori, nell’apparizione dell’esercito celeste che loda Dio dicendo: «Gloria a Dio nel più
alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama» (Lc 2,14).

224
Cf. b.Er 55b.
225
Cf. b.Suk 52b.
Gloria e pace
Gli angeli annunciano anzitutto la gloria di Dio. In ebraico, «gloria» si esprime con il
termine kavod, che proviene dalla radice kbd, «essere pesante». Potremmo dire così che la
gloria di Dio è il suo «peso». In questo bambino così inerme risiede tutto il «peso» di Dio, il
suo valore e la sua potenza. La divinità e l’umanità di Cristo, pur distinte, sono unite
indissolubilmente, di modo che più egli si abbassa nella sua umanità più manifesta la sua
divinità. La gloria di Dio, la sua essenza, si manifesta in modo eminente in Gesù. Egli è così
grande da farsi pie- colo, così glorioso da farsi umile, così eccelso da farsi l’infimo. La natura
umana e divina di Cristo non sono in contraddizione, bensì s’illuminano a vicenda, giacché
unite ipostaticamente nell’unica persona di Cristo.
Gli angeli, infine, annunciano la pace, lo shalom messianico. In Gesù Cristo si adempie la
profezia di Isaia 2, di cui si trova un parallelo in Michea 4,1-3. Alla fine di tale profezia si
proclama:

Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione
non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra
(Is 2,4b).

Questa era l’opera che doveva compiere il messia e che Gesù, come abbiamo visto sopra,
ha compiuto: non alzare più la spada contro l’altro, «rimettere la spada nel fodero». Il mondo
ha bisogno di aderire al Messia, di convertirsi, di cambiare direzione, di correre in direzione
opposta di quella in cui sta correndo, nella sua continua «corsa alle armi». Nel Natale
contempliamo il Dio disarmato, per poterci anche noi disarmare, arrenderci all’amore di Dio.
In Gesù Cristo si è aperta per noi la porta del Cielo, le nubi si sono aperte e ci hanno
inviato il Santo. Ecco perché ci scambiamo regali a Natale: Dio ha fatto a noi il più grande
regalo aprendoci le porte del Cielo. Per noi si è aperta una breccia nei cieli, come canta la
liturgia bizantina:

Ha salvato il suo popolo tra i prodigi, il Sovrano, riducendo un tempo a terra asciutta
l’umida onda del mare. Ma nascendo volontariamente dalla Vergine, apre per noi un
sentiero praticabile per i cieli. Noi dunque lo glorifichiamo, lui che per essenza è uguale
al Padre ed ai mortali.226

Con la sua incarnazione Gesù ha aperto per noi un nuovo esodo, un cammino
«praticabile» verso il Cielo. Ciò è avvenuto non solo all’inizio della vita di Cristo, ma anche e
soprattutto nella croce, ove per noi è stata aperta la porta della misericordia, che è il suo
costato, da cui sono sgorgati sangue e acqua, un torrente che risana le nostre ferite e un
sentiero in cui possiamo entrare fino al cuore di Dio. Gesù Cristo, Re del cielo, è venuto a
instaurare un regno che non è di questo mondo. Secondo le sue stesse parole, noi, come lui,
siamo «nel mondo» ma non siamo «di questo mondo» (cf. Gv 17,15-18), perché siamo
chiamati a essere uomini celesti, nonostante la nostra debolezza e incapacità di arrenderci di
fronte alla storia e all’altro. Siamo chiamati ogni giorno ad amare come Cristo, a essere
uomini celesti, perché è Dio stesso che ci ha aperto questa porta in Cristo, che ci vuole
inviare il suo Spirito, per essere testimoni in questo mondo, davanti a tutti, anche davanti ai
violenti di questo mondo, che la scienza suprema è la mansuetudine di Cristo, che la verità è
Cristo.

226
Anthologhion, I, 1163 (Orthros del 25 dicembre, irmos, giambico).
SOMMARIO

ALLE SORGENTI DELLA FEDE IN TERRA SANTA 1


PREFAZIONE 4
INTRODUZIONE 9
Humus vitale della salvezza 9
Il Luogo e i luoghi santi 9
Quinto vangelo 11
Analogia dell’incarnazione 12
Ecco l’uomo! 13
1 ALLE SORGENTI DI MIRIAM DI NÀZARET 15
Donna ebrea e madre del Messia 15
Donna per eccellenza 15
Tempio, sinagoga, casa 16
Benedizioni quotidiane 17
Benedizione della donna 19
Shemà Israel 20
Preghiera delle donne 21
Trasmissione della fede al figlio 23
Luci dello shabbat 24
Opere di misericordia 25
Madre d’Israele e luogo della Shekhinah 26
2 NEL NOME DI MIRIAM 28
Signora innalzata 28
Prima e seconda Miriam 28
Dall’amarezza alla dolcezza 29
Curare l’amaro con l’amaro 30
Bacio di Dio e assunzione 31
3 IL MESSIA, PRINCIPE DI SHALOM 32
Shalom ovvero «pienezza» 32
Principe di pace in Galilea 33
Quale messia? 34
Doveva proprio soffrire? 34
Bambino senza letto 35
L’atteso d’Israele 36
Messia zelota? 37
Gesù il Cristo o Gesù il Barabba? 39
Messia senza spada 41
4 L’ATTESA DEL MESSIA 42
Messia regale trionfante? 42
Messia sacerdotale? 43
Il giusto deve soffrire 45
Sofferenza dell’elezione 46
Dio è là 47
Voce di silenzio sottile 47
5 IL MESSIA SOFFERENTE 50
Messia lebbroso e piagato 50
Messia ben Yoseph 51
Messia tra i malati alle porte di Roma 53
Il giogo del messia 54
La morte del messia 55
Le orme del messia 55
Yehoshua‘ e Yeshua‘, figli di Giuseppe 58
6 NÀZARET, IL GERMOGLIO DELLA SALVEZZA 60
Piccola e insignificante 60
Segnata dalla sofferenza 60
Umiliata da tempi antichi 61
Germoglio che sorge 62
An-Nasira, la fiorita 63
7 IL MATRIMONIO DI YOSEF E MIRIAM 65
Prima opera divina 65
Colmo dell’allegria 66
Unico sposo 67
Scegliere una moglie 68
Acque amare 70
Yosef/Giuseppe 72
Amarezza delle acque, dolcezza di Cristo 73
8 GIOVANNI IL BATTISTA, IL PRECURSORE 75
Cominciando da Gerusalemme 75
Yohanan sacerdote 75
Zekharya ed Elisheva‘ 76
Le quattro chiavi 77
Offerta dell’incenso 78
Nazir ovvero consacrato 79
Danza davanti all’arca vivente 81
Il decimo cantico 82
No, si chiamerà Giovanni! 83
Cammino nel deserto 83
Profeta scomodo 85
9 IL NATALE DEL MESSIA A BETLEMME 87
Casa del pane e della carne di Cristo 87
Shekhinah in noi 87
Luce nuova del mondo 88
Figlio di Abramo 89
Figlio di Davide 90
Discendenza e compimento dei padri 91
Nuova era 92
Madri del Messia 93
Verus Augustus 94
Re dei Giudei 95
Kenosis fino alla mangiatoia 96
Il più grande, il più piccolo 97
10 LA SANTA GROTTA E LA MANGIATOIA DI BETLEMME 99
Grotta luminosa 99
Mangiatoia di fango 101
Porta stretta 102
Danza nel luogo santo 103
Vertigine di Betlemme 104
Betlemme siamo noi 104
Dal fango degli animali alla dimora celeste 105
Delizie nel luogo nascosto 106
Asino e bue per cherubini 107
11 NATALE: UN DIO DISARMATO 109
Senza armi 109
Agnello, servo, bambino 110
Rugiada del Signore 111
Rimetti la spada nel fodero! 112
Mani in alto 113
Amore disarmato e disarmante 114
Uomo secondo il cuore di Dio 115
Il Pastore annunciato ai pastori 116
Gloria e pace 118
SOMMARIO 120

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