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6 agosto 2023/
di: Paolo Trianni
Francesco sarà ricordato anche come un papa missionario. Con lui la Missiologia, che già
era stata ripensata durata il concilio Vaticano II con il decreto Ad gentes e venticinque anni dopo
con l’enciclica Redemptoris missio, ha trovato un ulteriore sviluppo. L’esortazione
apostolica Evangelii gaudium disegna infatti una nuova idea di missione, più ampia, più
inclusiva e più dinamica. In essa si parla di una trasformazione missionaria di tutta la Chiesa,
puntualizzando che tutti i cristiani sono discepoli missionari (cf. EG 119).
Il testo del documento, in particolare, ha disegnato un’idea nuova di missione che, senza
cessare di essere ad gentes, non si circoscrive o limita ad essa. In esso viene spiegato che
l’evangelizzazione va concepita in modo maggiormente esteso, precisando che suoi destinatari
non sono più soltanto i «gentili», ma anche i popoli dell’Occidente che si stanno
scristianizzando.
La Missiologia oggi
La Chiesa è di natura sua missionaria (cf. Ad gentes 2). Dal momento che prolunga
l’incarnazione di Cristo, la missione coincide e si identifica con la Chiesa stessa. Intesa come
attualizzazione delle parole e delle opere Cristo, l’attività missionaria accompagnerà sempre il
cammino ecclesiale. Tuttavia, essendo mutato l’orizzonte della missione, è oggi cambiata la
figura del missionario e sono cambiati i suoi compiti.
L’orizzonte storico-sociale, ma anche teologico, che dà sfondo ai nuovi scenari
missionari, è mutato in virtù:
della globalizzazione,
dei flussi migratori,
della rivoluzione digitale,
del secolarismo,
della diversa valutazione teologica che si dà alle altre culture e tradizioni religiose.
Una prima conseguenza di questo nuovo scenario è che la missione non può più essere legata
al paradigma geografico. C’è infatti necessità di missione ovunque si ignori la parola di Cristo, e
questa ignoranza non riguarda solo le terre lontane, ma anche le nazioni occidentali. La categoria
paradigmatica che accompagna oggi la missione, dunque, anziché il «dove», è piuttosto quella di
«contesto». All’interno di questi ultimi, però, giacché rinviano a due ambiti differenti, è bene
fare una distinzione tra quelli culturali-religiosi e quelli esistenziali.
La Missiologia contemporanea non può non prendere atto di questi mutati orizzonti e di
queste varie trasformazioni che hanno cambiato forme e contenuti della missione, rendendo una
materia, già complessa, ancora più articolata. Di per sé questa disciplina – come dimostra il fatto
che la Missiologia non sia una semplice cattedra, e nemmeno una mera licenza, ma una vera e
propria facoltà universitaria – fa comprendere quanto la preparazione ad essa richieda una
formazione autonoma e competenze del tutto specifiche rispetto alla formazione che viene
programmata nella facoltà di teologia.
Mentre per la teologia i contesti sono marginali, per la Missiologia sono essenziali, sono
anzi la sua ragion d’essere. In altre parole, la Missiologia è nientedimeno che la teologia della
Chiesa in uscita. Essa ha un ritmo tangenziale, non radiale, è centrifuga anziché centripeta.
A motivo della sua natura epistemologica, chi si occupa di questa disciplina deve essere
attento non solo:
Si studia Missiologia per diventare dei cristiani che siano cittadini del mondo;
Ci sono ancora terre da evangelizzare e nazioni che ignorano il Vangelo. Associare alla
missione il termine ad gentes è dunque legittimo e conserva il suo valore. Tuttavia, nel nostro
tempo la missione non si fa solo «verso» i popoli, ma anche «tra» di loro, dall’interno delle loro
culture e religioni.
La missione è oggi passata:
Jules Monchanin denominava questa dinamica missionaria «teologia dello scambio». Il ritmo
dell’interculturalità, del resto, è lo stesso dell’intersoggettività tipica del personalismo cristiano.
Nel suo incontro con l’altro, soprattutto con civiltà millenarie che esprimono grandi valori etici e
spirituali, la Chiesa è inevitabilmente destinata a cambiare e crescere. Anche se non si può
generalizzare, e non è sempre facile, la presenza missionaria di fronte a queste antiche civiltà
realizza che non è chiamata solo a insegnare, ma anche a imparare. Capisce che non ha solo
qualcosa da dare, ma anche qualcosa da prendere, anzi da com-prendere. La missione inter
gentes, nell’ottica della teologia dello scambio, è chiamata non solo ad in-formare ma anche ad
in-formarsi, non solo a in-culturare ma anche a interculturarsi.
La crescita delle comunità ecclesiali locali e lo sviluppo delle teologie contestuali stanno
appunto determinando un movimento inverso, perché ora sono spesso le periferie che
arricchiscono e alimentano la chiesa universale. L’effetto di questa nuova comprensione della
missione è la nascita di una Ecclesia non più eurocentrica ma multiculturale.
L’origine di tale processo va rintracciato nel Concilio Vaticano II e nella sua inedita
valorizzazione delle culture e delle religioni, che non sono state più lette come un male da
eliminare ma come una ricchezza da accogliere. Dietro il nuovo atteggiamento c’era un
fondamento teologico, la premessa che lo Spirito «operava nel mondo prima ancora che Cristo
fosse glorificato» (AG 4), e l’idea che il Verbo di Dio, prima di farsi carne, era già nel mondo
come luce vera che illumina ogni uomo (cf. GS 57).
L’esito logico è stato che oggi, tra le mansioni dell’essere missionari, c’è quella di prendere
atto e fare discernimento su ciò che lo Spirito di Dio ha operato tra gli uomini prima e fuori della
Chiesa visibile. Anzi, facendo un ulteriore passo concettuale di non piccolo rilievo, la teologia
missionaria utilizza tali testimonianze per ripensare l’identità stessa della Chiesa. D’altro canto,
promuovere una Chiesa in uscita implica necessariamente apertura e disponibilità al
cambiamento.
Il cristianesimo, infatti, non si può definire a priori, e l’identità della Chiesa, dal Concilio di
Gerusalemme, è sempre stata un’identità aperta. Da questo movimento di apertura, per quanto
complesso, è alla fine lecito attendersi non una relativizzazione della fede, ma un suo
potenziamento. Dal fatto che tutta la Chiesa è missionaria consegue che anche tutta la teologia lo
è, e va coinvolta in questo processo di accrescimento identitario. In tale ottica, la principale
difficoltà del lavoro concettuale del missionario consiste, da un lato, nel tamponare un diffuso,
incoerente e superficiale sincretismo e, dall’altro, nell’arricchire l’architettura culturale e
teologica della Chiesa. Il missionario per primo è chiamato non a un’evoluzione del dogma, ma a
uno «sviluppo della dottrina» e al superamento del «si è sempre fatto così», per citare le parole
di papa Francesco.
In sostanza, la missione non è più solo annuncio, ma anche ascolto. Se in passato la Chiesa
ha modellato le altre civiltà ora è aperta anche a farsi modellare da esse, perché
l’evangelizzazione è diventata reciproca permeabilità, interscambio, interdipendenza.
Altamente simbolico e significativo, a tale riguardo, è l’invito che Giovanni Paolo II rivolgeva ai
teologi chiedendo loro di impadronirsi del linguaggio e della sensibilità culturale della civiltà
indiana (cf. Fides et ratio 72).
Fare missione, d’altro canto, non può significare distruggere le culture. Ciò che interroga la
Chiesa missionaria contemporanea, semmai, è come possa annunciare il Vangelo preservandole.
Essa si chiede come possa salvarle e al contempo assumerle e integrarle. L’essenza del
movimento missionario, infatti, non consiste in un mero e superficiale adattamento, ma
nell’assimilare, acquisire e oltrepassare i costumi di tutti i popoli. Quando un missionario si
incarna in una determinata cultura, assume il compito di farsi «vaso comunicante», e ancor più
un «catalizzatore» che consente alle Chiese dei diversi contesti culturali di svilupparsi in
autonomia.
È chiaro, pertanto, che il missionario, se non proviene dalle terre in cui opera, debba essere
un profondo conoscitore delle tradizioni e delle religioni che intende evangelizzare. Solo così
potrà operare non un semplice dialogo interculturale e interreligioso, ma un autentico dialogo
intraculturale e intrareligioso. Il missionario è infatti chiamato ad avere una relazione reale con
i popoli che lo ospitano, a vivere come loro, a pensare come loro, a penetrare le dinamiche
profonde che sono alla base delle loro cosmologie mitiche e delle loro metafisiche.
Non di rado, grazie a questa immersione, il missionario diventa un pensatore originale che fa
da sprone allo sviluppo della teologia universale. Va sottolineato, a questo proposito, che la sua
teologia è sempre induttiva, esplorativa e profetica. È chiaro che, almeno in una prima fase
dell’impiantazione missionaria, la preoccupazione per l’esattezza dogmatica o il radicalismo
sarebbero atteggiamenti assurdi. La crescita della Chiesa e il suo futuro in continenti dove è
ancora del tutto marginale sono legati al definitivo superamento di atteggiamenti teologici
preconciliari nei quali persistono schematismi rigidi, pregiudizi, deduzioni preconcette e
autoreferenzialità.
Ancora più emblematica è la metafora del seme e dell’albero. Secondo questa logica
l’essenza del cristianesimo non starebbe nel seme delle origini, ma piuttosto nell’albero frutto
dell’espansione culturale della religione cristiana e del filtro ermeneutico che ha agito abitando e
attraversando le varie civiltà.
Molto spesso i missionari sono stati promotori e precursori di una Chiesa propriamente
cattolica e universale, capace cioè di liberarsi dalle soggezioni e dai particolarismi di tempi e
luoghi che non le sono essenziali. Jules Monchanin, anticipando di trent’anni uno dei passaggi
più forti di Nostra aetate, affermava che la Chiesa sarebbe stata in grado di integrare tutto ciò
che c’è di vero e di santo nell’esperienza spirituale delle grandi civiltà quando avrebbe permeato
tutte le razze e tutte le culture. A tale riguardo, merita di essere riportata per esteso la sua visione
di chiesa ed il suo programma missionario:
«La Chiesa, nei primi venti secoli della sua storia si è foggiata – nella sua struttura esteriore
– sulla civiltà occidentale: oggi invece l’esigenza di adottare come rivestimento della Chiesa
quello di altre civiltà, implica qualche rinuncia, un ritorno alle origini, una dissociazione
dell’essenziale dall’accidentale, e soprattutto una interiorizzazione tramite una intensa vita
contemplativa, un primato della mistica sulla liturgia, sulla teologia, sulla filosofia religiosa e
sulle istituzioni».
Anche papa Francesco ha voluto sottolineare che l’incontro con la diversità culturale non
minaccia l’unità della Chiesa (cf. EG 117), aggiungendo che «una sola cultura non esaurisce il
mistero della redenzione di Cristo» (EG 118) e ribadendo che è impossibile pretendere che tutti i
popoli di tutti i continenti imitino le modalità adottate dai popoli europei per esprimere la propria
fede cristiana (cf. EG 118).
L’apertura della Chiesa a culture e religioni nuove – come quelle dell’Oriente – può essere
altrettanto decisiva per il cristianesimo di quanto lo è stato, per la Chiesa primitiva, il passaggio
dal suo luogo originario nel contesto del giudaismo al mondo greco-romano perché – come
successe all’epoca – potrebbe essere parimenti funzionale a una migliore comprensione dei
misteri della fede e alla loro dogmatizzazione.
Occorre però riconoscere che questo processo di crescita universalizzante avrà tempi lunghi.
Va ammesso, infatti, che dopo venti secoli il messaggio cristiano è stato «metabolizzato»
essenzialmente dalla sola cultura greco-romana. Anche se questo passaggio è stato imponente, e
finanche straordinario, risulta evidente che la maturazione del cristianesimo non possa limitarsi a
questa unica «metabolizzazione». La fede cristiana, prima di arrivare al compimento finale che
abbracci tutto il mondo e tutti i popoli, dovrà per forza confrontarsi con altre civiltà,
soprattutto quelle più antiche e prestigiose.
Se questo appare il destino del cristianesimo, occorre ribadire però anche la sua trascendenza
rispetto a ogni civiltà. La Chiesa, infatti, non si identifica con nessuna cultura particolare perché
essa, semplicemente, le abita, le attraversa e le trasfigura. Suo compito è quello di far morire e
far rinascere ogni civiltà. È questo il ritmo missionario della Chiesa in uscita, che non può non
riflettere l’aufhebung hegeliana, improntato cioè alla conservazione dell’antico trasformato e
illuminato dall’interno. WHAT??? In sintesi, se è forse eccessivo parlare di missione nei termini
della liberazione della fede cristiana dai «lacci» della sola cultura occidentale, è comunque
evidente che la Chiesa si muova verso una universalità che è compito precipuo del discepolo
missionario comporre.
La svolta pastorale
Dei cambiamenti di cui è oggetto la missione, prendeva atto già l’enciclica Redemptoris
missio. Il nuovo contesto globalizzato, secolarizzato e multireligioso che si è venuto a creare,
stimola la chiesa ad essere non meno missionaria, ma più missionaria, proprio perché la sprona
ad esserlo in modo maggiormente ampio e trasversale.
Oggi la Chiesa sa che non deve più occuparsi solo dei «lontani», ma anche degli
«allontanati». Tale inaspettata urgenza pastorale nasce dal disincanto religioso contemporaneo,
ma anche dal fatto che religioni prima lontane si sono fatte prossime e sembrano avere maggiore
forza attrattiva del cristianesimo. Un paradosso attuale, è che sono esse a convertire molti
battezzati e cresimati. L’uomo oggetto dell’annuncio missionario della chiesa del nostro tempo,
pertanto, non è più solo il «pagano», ma anche l’ateo postmoderno, il relativista, e il sincretista
sedotto dagli esotismi della next age.
È questa una nuova situazione pastorale che la comunità ecclesiale deve saper
fronteggiare e a cui deve reagire in modo efficace. Per certi aspetti, infatti, il missionario
contemporaneo è chiamato non a costruire la chiesa, ma a «ricostruirla», perché non si tratta di
impiantare nuove realtà, ma di rivitalizzarle.
Svolta pastorale della missione, però, significa anche attenzione ed impegno attivo e
responsabile verso il Regno di Dio, affinché divengano palesi la sua giustizia e la sua carità. La
missione, infatti, non si deve occupare solo dei «lontani», ma anche degli «ultimi». È questa la
ragione per la quale ogni parrocchia, le aule universitarie, la scuola, la strada, le periferie, le
carceri, i centri di assistenza per immigrati, sono oggi, a tutti gli effetti, autentici luoghi di
missione. Del resto, la fede non può essere scissa dalla prassi di testimonianza, e l’annuncio delle
dottrine non può essere disgiunto dal contrasto alle miserie, al disagio sociale, alla delinquenza e
all’emarginazione. Sotto questo aspetto, il missionario, che è per eccellenza un cristiano
universale ed un cittadino del mondo, non può che dire I care di fronte alle ingiustizie sociali,
alle varie povertà, ai diritti umani violati, alla pace minacciata, ai disastri ambientali. La sua
agenda teologica è quella delle priorità del mondo, perché non si limita a leggere ed interpretare
il tempo in cui vive, ma agisce ed opera in esso, nella misura in cui, molto spesso, è direttamente
coinvolto nelle sorti degli «ultimi» e ne condivide le condizioni di vita.
La testimonianza missionaria, da questo punto di vista, coincide con una svolta
ortopratica e con una contestualizzazione esistenziale della fede. È questa la ragione per la quale,
nella formazione del missionario, non deve mancare l’acquisizione di competenze manageriali e
di leadership che gli possano consentire di trovare risorse e finanziamenti capaci di contrastare
nel modo più efficace quel male che egli conosce da vicino e che, molto spesso, ha scelto di
condividere e rendere suo.
La svolta dialogica
La missiologia vive una tensione costitutiva tra dialogo e annuncio. Non mancano
nemmeno teologi che vorrebbero persino abolire la missione e sostituirla con il dialogo
interreligioso. È questo, infatti, uno dei capisaldi del teocentrismo pluralista. All’estremo
opposto, però, anche l’esaltazione del dialogo interreligioso è stata raggiunta da varie critiche,
perché, oltre ad esporre la rivelazione e la verità ad una potenziale relativizzazione, lo si è
ritenuto viziato da un preliminare antropocentrismo.
Missione e dialogo interreligioso, prescindendo dalle critiche che entrambi si sono attirati,
sono tradizionalmente considerati antitetici in quanto ordinati a due opposti principi logici.
Trovare una soluzione alla tensione che divide queste due irriducibili istanze non è
semplice, richiede un pensiero complesso ed il superamento di schemi logici binari, riduzionistici
ed elementari. Va premesso, comunque, che gli stessi documenti del magistero riconoscono
come il dialogo interreligioso faccia parte della missione evangelizzatrice della chiesa e non sia
in contrapposizione con la missione ad gentes (cf. RM 55). La medesima enciclica, però,
puntualizzava anche che non sono equivalenti, non sono interscambiabili e non vanno confusi o
strumentalizzati (cf. RM 55). A ben vedere, pertanto, il dialogo di cui parla Redemptoris
missio non si può definire dialogo in senso proprio, perché ha come premessa una verità che il
magistero non può mettere in discussione ed un secondo implicito fine rappresentato
dall’intenzionalità oggettiva di convertire l’altro.
Ci sono però almeno tre percorsi logici attraverso i quali missione e dialogo interreligioso
si possono considerare complementari e funzionali l’uno all’altro senza entrare in
contraddizione.
Un terzo percorso logico che dimostra la complementarietà tra missione e dialogo, anche
se la prima è legata ad un principio veritativo ed il secondo a quello ermeneutico, è che la verità
sul piano storico non è mai data in modo pieno ed evidente, di conseguenza, il dialogo
diventa lo strumento che permette di procedere verso di essa.
La stessa rivelazione disvela e nasconde una verità, che rimane ulteriore e sempre da
raggiungere. Più che una nozione, essa coincide appunto con una ricerca, con un «muovere
verso». Al riguardo, una categoria che può superare la contraddizione tra questi due concetti ed
essere funzionale alla loro armonizzazione, è quella del «già e non ancora». La missione
annuncia appunto la verità «già» data, mentre il dialogo accompagna il cammino verso il «non
ancora». Sotto questo aspetto, confronto dialogico ed ermeneutica rappresentano i mezzi
principali attraverso i quali diviene possibile procedere verso una verità che è sempre in divenire
ed un passo avanti all’uomo. Se sul piano esistenziale e salvifico, infatti, la rivelazione comunica
una verità piena, su quello del possesso concettuale rimane sovrastante ed inesauribile. La
conoscenza di Dio, per dirla con Paolo, è sempre per Speculum et in Aenigmate (1Cor 13,12).
Nell’attesa, pertanto, che il piano escatologico consegni all’uomo la verità piena e definitiva, il
dialogo – anche quello interreligioso – è un modo di procedere verso di essa.
In definitiva, benché ontologicamente diverse, missione e dialogo sono accumunate
dall’essere entrambe ordinate alla verità. Il dialogo è autenticamente tale solo e quando dibatte
contenuti di ordine religioso. La conclusione che se ne deve trarre è la reciproca
complementarietà che lega un confronto dialogico che, senza occuparsi di contenuti teologici,
sarebbe privo di sostanza; ed una teologia che ha compreso di aver bisogno del dialogo per
crescere, per universalizzarsi e per penetrare sempre più in profondità il mistero soverchiante di
Dio. È chiaro, ad ogni modo, che oggi la missione si fa attraverso il dialogo, ed il dialogo è parte
della missione della chiesa. Tra i suoi compiti c’è appunto quello
di promuoverlo,
di svilupparlo e
di insegnarlo.
3) Il terzo indirizzo si denomina Missione, dialogo e religioni. In virtù del superamento della
tensione che ha diviso annuncio missionario e dialogo interreligioso, i corsi di questa
specializzazione studiano la pedagogia del dialogo, ma anche le varie religioni, da un punto
di vista storico, fenomenologico e teologico.
In generale, quindi, questi tre indirizzi della nuova licenza di missiologia dell’università
Gregoriana, intendono esprimere il volto nuovo della missiologia, che continua a coincidere con
lo studio sistematico dell’attività evangelizzatrice della chiesa e dei mezzi con i quali attuarla,
nel quadro, però, di un mutato contesto storico, sociale, teologico e culturale. Una riforma dei
programmi missiologici risultava necessaria perché, come scrive papa Francesco, non viviamo
soltanto un’epoca di cambiamenti ma un vero e proprio cambiamento d’epoca. In un tale
orizzonte, si profila dunque come necessaria l’auspicata svolta missionaria della teologia, perché
una chiesa in uscita richiede un pensiero teologico proiettato verso la contestualità e
l’attualità, verso, potremmo dire, quella superiorità del tempo sullo spazio di cui parla
Bergoglio. Sono altrettanto missionari, però, anche gli altri tre principi di cui parla il papa nella
sua esortazione apostolica:
La teologia missionaria, che non può prescindere dal tempo, dalla realtà, dalla storia e dallo
sguardo verso il compimento escatologico, è da sempre improntata a questi quattro criteri
generali.
Questo suo costitutivo ancoraggio al «tempo», all’«unità», alla «realtà» e al «tutto», fa sì che
spetti proprio alla missiologia disegnare la chiesa del futuro, e, per certi aspetti, anche il mondo
futuro.
Una chiesa in uscita ha bisogno di missionari, e la missione richiede una formazione che insegni
loro ad incontrare l’uomo là dove si trova. La missione, infatti, coincide veramente con la gioia
di annunciare il Vangelo; liberazione, realizzazione e pienezza salvifica di ogni uomo.