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DANIEL DEFOE + ROBINSON CRUSOE + ANALISI ANTOLOGIA

Il romanzo è il genere in cui il Settecento inglese viene maggiormente identificato. L’istituzione


letteraria che viene identificata come novel deriva da vari modelli narrativi, in cui spesso si
incrociano e si compenetrano le due tendenze del romance, di carattere fantastico, insieme all’epica
considerato sempre più inaccettabile per la sua distanza dalla realtà, e della history che tende a
valorizzare la prospettiva dell’individuo nei suoi rapporti con il mondo circostante.
L’equilibrio tra fittizio e reale è frutto di una complessa rielaborazione e integrazione culturale. Il
maestro riconosciuto dei romanzieri settecenteschi è Cervantes che, nel Don Quijote, mantiene viva
l’idea del romance proprio attraverso il realismo del libro e la contrapposizione tra la coerenza
visionaria del suo eroe e la dura realtà della Spagna del Seicento.
La narrativa inglese, fino all’inizio del secolo, ha come preoccupazione centrale il problema di cosa
significhi essere persona, di quale sia il valore dell’esperienza e dell’agire del singolo individuo, e
di quale tipo di comunità possa meglio rispondere alle sue esigenze.
I romanzi sono focalizzati sul problema dell’identità dell’individuo nei suoi rapporti con forme di
autorità sociale e morale. Implicitamente, questo rimanda anche a un pervasivo senso di dubbio e di
instabilità riguardo a un mondo in mutamento.

Nessuno come Daniel Defoe ha saputo creare mondi fittizi così perfettamente articolati stabilendo
così l’illusione della realtà. Quello di Defoe è un universo totalmente inventato che pullula di
dettagli realistici, sino a porsi come assoluta riproduzione del vero.
Nato a Londra, da famiglia modesta, Defoe viaggiò moltissimo. Impegnato politicamente fu persino
imprigionato e messo alla gogna, fino a che il tory Robert Harley lo impiegò come agente segreto e
lo inviò in varie missioni per tutta l’Inghilterra. Intensa è l’attività anche letteraria di Defoe, autore
di grande versatilità.
La fama di Defoe è comunque soprattutto affidata ai suoi sei romanzi, primo fra tutti, anche
cronologicamente, Robinson Crusoe del 1719.
Non va dimenticato che all’inizio del Settecento ai mecenati si erano sostituiti i booksellers; essi
controllavano giornali, periodici, riviste e pubblicazioni. Ciò spiega l’attenzione di Defoe per i libri
di viaggio e le (auto)biografie di criminali.
Nei romanzi successivi, Defoe si sarebbe mostrato sempre più attento alle esigenze dei suoi lettori.
In Moll Flanders (1722) e in Lady Roxana (1725) egli sfruttò le memorie di malavitosi – Moll è una
ladra e Roxana una prostituta – spingendo alle estreme conseguenze l’ambiguità insita nella
contrapposizione tra la falsità della prospettiva autobiografica e l’attenzione quasi maniacale al
dettaglio sociale e d’ambiente.
Fondamentale per Defoe è convincere il suo pubblico sulla veridicità dei fatti narrati: per questo
infarcisce il suo racconto di particolari sulla realtà del sottobosco criminale, attinti dalla sua
esperienza giornalistica.
La capacità di cavarsela in ogni situazione illegale o difficile, fa di Moll e Roxana perfetti esempi di
eroine opportuniste, sorrette da assoluto materialismo.
Captain Singleton (1720) e Memoir of a Cavalier (1724) narrano, il primo, la storia di un
avventuriero «privo di virtù o religione» che viaggia sul continente africano, nelle Indie occidentali
e sui mari cinesi imbrogliando, finché, diventato ricco, torna in Inghilterra, dove si sposa e conduce
una rispettabile vita borghese; il secondo, la vita di un gentiluomo inglese del Seicento, arruolatosi
prima nell’esercito austriaco e poi al servizio del re contro gli Scozzesi. Quest’ultima opera presenta
vivide descrizioni di eventi e battaglie.

ROBINSON CRUSOE
Il libro racconta le avventure di un giovane marinaio inglese, che naufraga su un’isola deserta
nell’Atlantico e vi resta per quasi ventotto anni; durante questo periodo, avrà tempo e occasione di
mettere alla prova tutte le sue capacità di adattamento all’ambiente, vivendo al tempo stesso grandi
avventure.
Il romanzo, ambientato nella seconda metà del XVII secolo, è narrato in prima persona ed
incentrato sulla figura di Robinson Crusoe, un ragazzo inglese della classe media che decide di
prendere la via del mare contro i desideri del padre, che lo vorrebbe avvocato. La nave su cui
viaggia Robinson fa subito naufragio ma egli non si scoraggia e si imbarca per una seconda volta.
Anche in questo caso, l’esito è infelice: Robinson è catturato da alcuni pirati e preso come schiavo a
Salé, in Africa. Dopo due anni, il protagonista fugge abilmente insieme a un ragazzo arabo di nome
Xury e viene recuperato dal capitano portoghese di una nave. Robinson cede Xury al capitano) e
giunge in Brasile, dove il capitano lo aiuta a fondare una piantagione di canna da zucchero,
riportando interessanti successi commerciali.
Dopo alcuni anni tranquilli, Robinson si rimette per mare per intraprendere la redditizia tratta degli
schiavi dall’Africa. È in questa occasione che si verifica la circostanza decisiva della sua vita: dopo
un altro naufragio, non lontano da Trinidad, egli si ritrova su un’isola che chiamerà Isola della
Disperazione.
Grazie ad alcuni attrezzi recuperati fortunosamente dalla nave naufragata, il protagonista riesce a
costruirsi un’abitazione, tiene un diario, si fabbrica un rudimentale calendario, cominciando a
coltivare e anche ad allevare alcune capre. Robinson, che ha la sola compagnia di qualche animale
in pratica ricostruisce sull’isola deserta il mondo inglese da cui proviene, dimostrando come, con
ingegno, razionalità e spirito d’intraprendenza si possano superare le difficoltà più impervie.
Dopo alcuni anni di totale solitudine, Robinson scopre di non essere solo: prima nota un’altra
impronta umana sulla spiaggia, poi scopre che sulla sua isola un gruppo di cannibali è solito
sacrificare le proprie vittime. Quando questi si recano lì con una nuova preda, Robinson li attacca e
li uccide, salvando un selvaggio a cui egli darà il nome di Venerdì, in onore del giorno della
settimana in cui quest’ultimo è stato liberato. Venerdì è un ragazzo gentile e intelligente e presto si
affeziona a Crusoe, che gli legge la Bibbia e lo converte al Cristianesimo. Con lui Robinson libera
altre due vittime dei cannibali: una è il padre di Venerdì, l’altra un marinaio spagnolo che svela al
protagonista come sulla terraferma ci siano altri naufraghi spagnoli. Robison organizza allora un
piano per cui lo spagnolo e il padre di Venerdì avrebbero dovuto ritornare a terra, radunare gli altri
marinai, costruire una nave e tornare verso l’Europa.
Tuttavia, prima che ciò si verifichi, sopraggiunge una nave inglese di ammutinati, che vogliono
abbandonare a riva il comandante; Robinson, dopo essersi accordato con quest’ultimo, sbaraglia gli
ammutinati, li lascia sull’isola e si impadronisce della nave, con cui, il 19 dicembre 1686, Crusoe
salpa per l’Inghilterra, dove giunge l’11 giugno del 1687.
Qui, dopo che è stato dato per morto da tutta la famiglia, scopre di essere ricchissimo: recatosi a
Lisbona, scopre per il tramite del capitano portoghese che le sue piantagioni in Brasile sono
diventate molto produttive. Mentre trasporta via terra le sue ricchezze, sempre seguito dal fedele
Venerdì, il protagonista si scontra sui Pirenei con un branco di lupi affamati. Egli poi vende la
piantagione, si sposa e ha tre figli, diventa per un breve periodo governatore dell’isola che lo ha
ospitato per quasi trent’anni e infine si ritira a vita privata nella natia Inghilterra.

Probabilmente la storia è basata su una vicenda reale, quella vissuta da Alexander Selkirk, che,
preso il mare, a sua richiesta venne asciato sull’isola disabitata di Juan Fernandez, da dove venne
riportato in patria cinque anni dopo.
Presentato come una storia vera, Robinson Crusoe, è un racconto vivido, esemplare della centralità
dell’individuo caratteristica del romanzo moderno.
Accolto da un successo che non è ancora estinto, il romanzo, nella sua complessità e ricchezza di
implicazioni, rende plausibili una serie di interpretazioni. Alcuni critici, come Ian Watt, mettono in
relazione la vicenda di Robinson con il nascere dell’individualismo borghese, con la divisione del
lavoro, e con l’alienazione sociale e spirituale che ne consegue; altri mettono l’accento sulla
creazione di personaggi “eroici” all’interno di una dinamica socioeconomica che essi
contribuiscono a formare ma da cui sono minacciati.
Scritto per bisogno di denaro, e per questo legato alle convenzioni di un sottogenere particolarmente
in auge al tempo (quello dei travel books), Robinson Crusoe impone la propria novità fin dalla sua
genesi di prodotto confezionato per il mercato.
Robinson non è un qualsiasi marinaio, ma è il prototipo dell’English merchant settecentesco, il
commerciante che naviga attraverso tutti i mari, spingendosi fino alle terre più lontane, per
procacciarsi nuovi affari.
Uomo economico, privo di emotività, incarna il moderno borghese opportunista.
Sull’isola, egli ricostruisce la realtà che si è lasciato alle spella. Non per caso, quando Robinson
finalmente incontra un indigeno, sceglie di farne il proprio servo, un autentico rappresentante del
proletariato, che il mercante borghese sfrutterà a suo piacere. In tal modo Crusoe diviene anche il
prototipo del colonizzatore, che strappa al colonizzato le sue credenze e la sua lingua, obbligandolo
a imparare l’inglese e a inchinarsi di fronte al Dio degli anglicani.
I tanti dettagli che Defoe ammassa nel corso della narrazione sono segnali, non solo di una evidente
mimesi realistica, ma anche della volontà di creare un’empatia tra autore e lettore, suscitando in
quest’ultimo l’immedesimazione attraverso il riconoscimento degli oggetti quotidiani.

I CALL HIM FRIDAY


Venerdì è la prima persona che Crusoe introduce nell'ordine sociale dell'isola. Il suo nome,
ovviamente, non è venerdì di nascita, ma questo è il nome che Crusoe gli dà dopo averlo salvato
dalle mani dei cannibali.
Quando Robinson ha incontrato Venerdì stava mungendo le sue capre e lo definisce come bello
perché Venerdì non sembrava un uomo di colore, ma sembrava un europeo.
In effetti, Crusoe passa molto tempo a descrivere il corpo di venerdì, in particolare i modi in cui
assomiglia a un europeo.
Robinson sta descrivendo Friday in maniera “positiva” per il fatto che non presenta le
stesse caratteristiche fisiche degli schiavi africani verso i quali ha un pensiero razzista
(stereotipo razziale in base all’aspetto fisico di una persona).
Robinson rappresenta il colonizzatore inglese che vuole imporre la sua tradizione e la sua civiltà e
considera i propri costumi superiori. Infatti, insegna Venerdì solo le parole sì, no e master. Gli
insegna anche a vestirsi come gli europei, segno della sottomissione totale di Venerdì. Il loro
rapporto sembra certamente ambiguo: ci sono momenti in cui sembra essere quasi basato su un tipo
di intimità padre-figlio, ma altri suggeriscono che c'è un chiaro elemento padrone-schiavo nella loro
relazione. Quest'ultima prospettiva è rafforzata in tutto il testo. Per esempio: "Gli ho fatto sapere
che il suo nome doveva essere Venerdì... Gli ho anche insegnato a dire Maestro".
La denominazione degli schiavi dai loro padroni era importante ai tempi di Defoe, e il fatto che
Venerdì non conosce mai il vero nome del suo padrone indica un atteggiamento di estrema
superiorità. Quindi ci sono due punti di vista principali: il rapporto padrone-schiavo, come
evidenziato dal modo autoritario in cui Crusoe tratta Venerdì, e il rapporto padre-figlio, in cui
Crusoe sembra sinceramente preoccuparsi per il benessere di Venerdì.

IAN WATT
Daniel Defoe scrive tre volumi riguardanti le avventure di Robinson Crusoe, ognuna con un titolo
differente:
- Aprile 1719, 1° volume: La vita e le strane, sorprendenti avventure di Robinson Crusoe…;
- Agosto 1719, 2° volume: Le altre avventure di Robinson Crusoe, cioè la seconda e ultima
parte della sua vita;
- Agosto 1720, 3° volume: Serie riflessioni sulla vita e sulle strane e sorprendenti avventure
di Robinson Crusoe: con le sue visioni del mondo angelico.
I titoli non descrivono accuratamente il contenuto dei libri.
Defoe non prestò particolare attenzione al fatto che la «vita» promessa nel primo volume
riservava un’altra vita di ulteriori sorprese nel secondo. E tuttavia i tre volumi non sono mai
stati considerati una trilogia. Il secondo è narrativamente simile al primo ma molto meno
interessante; mentre il terzo ben presto abbandona la pretesa di essere stato scritto o vissuto da
Robinson.
Defoe è autore di una quantità di altre opere di prosa, più o meno romanzesca, tra cui Memoirs
of a Cavalier e Captain Singleton nel 1720, Moll Flanders, A Journal of the Plague Year, e
Coloner Jack nel 1721 e Roxana nel 1724. Ma quei cinque anni, 1719-1724, furono gli unici in
cui si dedicò al romanzo. In seguito, passò a occuparsi soprattutto di opere più lunghe e serie.
La maggior parte delle sue opere, romanzi inclusi, furono pubblicate in forma anonima. Lo
stesso Defoe non attribuiva particolare importanza a Robinson Crusoe. Ancora non sappiamo
con esattezza come Defoe considerasse questo romanzo, che sarebbe diventata la sua opera più
famosa, ma abbiamo almeno due indizi molto illuminanti.
1. Ripetute insistenze perché l’opera venisse considerata storicamente vera e non frutto di
fantasia.
Nella prefazione di The Father Adventures, Defoe attacca con indignazione coloro che
attribuiscono la trama alla fantasia dell’autore. Lo stesso Robinson Crusoe sostiene a sua
volta che si tratta di un’accusa falsa e scandalosa e afferma che la vicenda è anche storica.
Queste affermazioni sembrano dettate da una logica folle.
La sua situazione di confino forzato è rappresentata da un uomo confinato su di un’isola.
Defoe certamente confonde le acque, ma noi siamo autorizzati a credere che ci sia del vero
quando dice che esiste davvero un uomo e che piuttosto famoso: quell’uomo è Defoe stesso
ed è lui, in un certo senso, il soggetto di Robinson Crusoe.
2. Secondo indizio importante per capire il pensiero di Defoe lo troviamo nel primo capitolo di
Serious Reflections, intitolato Della solitudine. Benché si finga sia stato scritto anch’esso da
Robinson, l’enfasi della sua eloquenza ci trasmette la sensazione che i sentimenti in esso
espressi siano quelli autentici di Defoe.
Per quanto sia una difficoltà esasperante interpretarlo con certezza assoluta, abbiamo
comunque motivo di ritenere che Defoe considerasse la sua opera come rappresentazione
delle sue esperienze di vita personali, oltre che come un testo dal più vasto significato
simbolico.

Individualismo economico
Il mito di Robinson Crusoe è per tutti noi collegato quasi interamente alle sue avventure sull’isola.
Nel contesto della vita di Robinson nell’isola, il suo intervento razionale, ecologico ed economico
sul mondo può essere interpretato come premessa morale su cui si fonda la sua personalità.
Sul momento, quando viene gettato dalle onde sulla riva dell’isola, Crusoe si sente esausto e
infelice. In seguito, l’entusiasmo di Robinson nel costruirsi la casa sembra sconfinato; apporta
continue modifiche alla sua grotta e fa la stessa cosa con la casa di campagna e la grande grotta nel
bosco.
Questo sviluppo ripercorre il progresso storico dell’adattamento dell’uomo all’ambiente. Le stesse
fasi della storia umana sono esemplificate nelle soluzioni che Robinson trova per il cibo, arnesi e
mobilia. Comincia come raccoglitore, cacciatore, pescatore. Ben presto però si dedica all’attività
pastorale e infine a quella agricola.
Questa è una scoperta che meraviglia i lettori, abituati a un sistema economico complesso ed
evoluto basato sulla scoperta di quella che viene chiamata divisione del lavoro.
Ma la sua vita non si riduce ad una serie di operazioni manuali meccaniche. Robinson si diverte nel
fare quello che fa, o almeno gode dei risultati che ottiene.
Uno degli elementi del successo di Robinson Crusoe è certo il fatto che rappresenta nu modello di
come i processi economici fondamentali possano essere trasformati in attività terapeutiche.
Tutto questo è motivato dall’intento di sottolineare l’eroicità dei successi conseguiti da Robinson
nelle sue imprese, ma serve anche a mostrare realisticamente come il duro lavoro non sia un
piacevole passatempo bensì un dovere che richiede diligenza infinita.
Non dobbiamo però credere che Robinson si esaurisca nel tipo ideale dell’Homo oeconomicus; non
arriva a fare come il suo modello reale, Alexander Selkirk, che cantava e ballava con i suoi gatti e le
sue capre. Potremmo dire che si colloca a metà tra l’homo oeconomicus e l’uomo comune.
Molto è stato scritto sul pensiero economico di Defoe e Ian Watt ci tiene a dimostrare quanto sia
d’accordo con l’opinione generale secondo cui l’autore adotta una posizione mercantilistica
piuttosto antiquata: è il più interessato al profitto a breve termine che alla capitalizzazione della
produzione secondo le teorie economiche classiche.
Robinson lavora duro non tanto per rispondere alla «vocazione» quanto per necessità. L’obiettivo
determinante è il suo vantaggio economico. Il protagonista è l’evidente personificazione di un
atteggiamento psicologico già descritto dallo stesso Defoe in Jure divino.
Robinson dimostra un’abilità negli affari superiore alla media. C’è per esempio la famosa lista delle
sue situazioni sull’isola divise in «male» e «bene». Quest’abitudine gli rimane anche dopo aver
lasciato l’isola.
Robinson è molto attento, se non addirittura dominato, da interessi economici. Si preoccupa di cose
materiali, ha i piedi per terra, lavora in modo produttivo, ha il senso degli affari e registra con cura i
risultati del suo lavoro.

Individualismo religioso
Ian Watt classifica, e viene bacchettato dai suoi colleghi per questo, Robinson come un «cristiano
della domenica».
Le due opere principali che difendono un’interpretazione più strettamente religiosa di Robinson
Crusoe sono quelle di George Starr e di J. Paul Hunter. Starr sostiene che Defoe seguiva la vecchia
tradizione in cui lo scrittore autobiograficamente descrive un modello piuttosto convenzionale di
peccato seguito da pentimento e rinascita spirituale. Questo modello si ritrova in tutta la narrativa di
Defoe.
Hunter invece si concentra su Robinson Crusoe e in particolare sui suoi predecessori dissidenti.
Non intendiamo mettere in discussione la fede di Crusoe, ma non possiamo fare a meno di
domandarci fino a che punto Defoe avesse instillato nel testo le proprie convinzioni religiose.
Durante il quindicesimo anno sull’isola Robinson scopre l’orma sulla sabbia. Terrorizzato, si
convince che sia opera di Satana.
Un anno e mezzo dopo, durante un altro sbarco dei cannibali, Robinson decide che era giunto il
momento di procurarsi un servo. Appena il «selvaggio» lo vede, si pone il piede di Robinson sul
capo. Venerdì è un aiuto mandato dal cielo.
Robinson riesce finalmente a fare di Venerdì «un buon cristiano». La storia è edificante, ma va detto
che nel seguito del volume non ci sono altri accenni a temi religiosi. Per esempio, Robinson non fa
alcun tentativo di convertire il padre di Venerdì o lo spagnolo papista, quando arrivano.
Non siamo del tutto d’accordo con l’affermazione di Irving Howe secondo cui Robinson «quando
lascia l’isola è esattamente lo stesso di quando c’è arrivato». Va tuttavia osservato che, quando
finalmente abbandona l’isola, Robinson non ringrazia Dio né mostra traccia della sua nuova
redenzione religiosa per tutto il resto del volume. È questa una delle differenze principali tra il
romanzo di Defoe e le opere più note della tradizione religiosa puritana.
Con questo non si vuol sostenere che la redenzione di Robinson non continui, solo che non è più
evidente.
L’accento è posto su una religiosità cui Robinson approda essenzialmente attraverso una personale
indagine circa le intenzioni di Dio nei suoi confronti. La religione di Robinson è individualista in
senso protestante: è la concentrazione, individuale e determinata, del credente che cerca di scoprire
le intenzioni di Dio e di capire come i più piccoli eventi della vira possano contribuire alla sua
collocazione nel progetto divino di punizione e salvezza.
Defoe voleva dimostrare come gli eventi casuali della vita fossero ricchi di un possibile, immediato
significato sia per la vita dell’individuo sia per il destino della sua anima; vi è in lui una
consapevolezza interiore, e la ricerca della provvidenza divina come forza che guida l’uomo.

I significati del mito


Defoe una volta scrisse di quella che amava definire la sua «maniera mitologica» e Robinson
Crusoe lo stimolò a ribadire fortemente la supremazia della morale sulla materia.
Robinson Crusoe, scrive Defoe, è un libro di crescita morale e religiosa, e prosegue specificando
che vi si trova, nel protagonista, una pazienza invincibile, una applicazione indefessa e una forza
d’animo indomabile.
Importanza attribuita alle «disgrazie senza uguali» -> questo farebbe pensare che il mito di
Robinson sia essenzialmente punitivo: Robinson viene punito per la sua tendenza al vagabondaggio,
per il suo desiderio di una vita più avventurosa.
Molti pochi lettori prenderanno l’abbandono della casa da parte di Robinson come grave
trasgressione; perché una delle condizioni dell’individualismo è che ciascuno è autorizzato a fare le
proprie scelte.
L’elemento punitivo contenuto in Robinson Crusoe è del tutto contrario alla morale positiva del
libro: non siamo convinti che Robinson soffra poi così tanto o che la sua decisione non sia stata per
il meglio.
La punizione più grave di fatto si rivela un colpo di fortuna: la tempesta che lo porta sull’isola è
presentata come un disastro, eppure è l’elemento che rende plausibile il mito.
Si potrebbe sottendere che la popolarità del mito di Robinson si fonda sul fatto che contribuisce
all’idea della dignità del lavoro. Le imprese economiche sono descritte in modo tale, che finiamo
per essere affascinati dalle occupazioni ordinarie della vita di tutti i giorni.
Robinson finisce sull’isola essenzialmente perché aveva voluto diventare ricco velocemente. Là
però è costretto a imparare una più dura lezione: il valore del lavoro.
Importante critico di Defoe, Martina Price sottolinea il conflitto presente in Defoe tra «spirito
d’avventura e pietà classica»; i conflitti che descrive sono profondamente radicati in lui. «Defoe
impone scarsa unità tematica ai suoi materiali». Questa mancanza di unità contribuisce al potente
senso di realtà presente nei suoi scritti.
Il fascino universale della solitudine: questo è sicuramente parte del fascino che il libro esercita
sull’immaginazione. In secondo luogo, dovremmo chiederci se Robinson non rappresenti un
modello, per tutti noi, per il modo in cui impara a gestire la sua condizione desolata.
Comunque, il realismo di Defoe e la sua avversione all’imposizione di un’unità tematica
conferiscono alla storia anche altri significati, forse non tutti inconsapevoli, ma spesso decisamente
contrari alle sue intenzioni.
Lo osserviamo nella tendenza di Robinson a giudicare amici e conoscenti non in quanto persone
autonome ma come oggetti da utilizzare per i suoi scopi come avviene, ad esempio, nei confronti di
Xury.

L’atteggiamento di Robinson nei confronti delle donne è caratterizzato dall’estrema inibizione di


quelli che oggi diremmo i normali sentimenti umani.
Quando nota l’assenza di compagnia, prega per avere quella di uno schiavo. Robinson è troppo
dominato dalla ricerca razionale del suo vantaggio materiale per lasciare un qualunque spazio
all’istinto naturale o a più nobili esigenze affettive. Anche quando ritorna al mondo civile, continua
a subordinare il sesso agli affari e solo quando la sua posizione finanzia è stata pienamente
consolidata da un ulteriore viaggio, si sposa.
Il sesso viene visto come pericolosamente irrazionale, un fattore della vita che interferisce con il
raggiungimento dell’interesse individuale e razionale.
Non è casuale che l’amore svolga un ruolo di poco conto nella vita stessa di Robinson e che sia
eliminato dalla scena dei suoi maggiori trionfi.
Questo significa senz’altro esagerare l’aspetto negativo e in gran parte inconsapevole
dell’individualismo di Robinson.
Robinson Crusoe, Moll Flanders e Roxana, tutti attirano a sé senza sforzo e in modo inspiegabile i
più fedeli amici e servitori. A quanto pare, era quello che Defoe avrebbe voluto anche per sé, ma la
vita non volle concederglielo.
Robinson non è solo un omaggio alle fondamenta stesse dell’individualismo psicologico puritano o
all’etica dello sviluppo del capitalismo, è anche una riflessione su vizi e virtù del carattere inglese.
Robinson Crusoe, possiamo concludere, nel bene e nel male, è l’epica dell’uomo che non si
scoraggia.

ROBERTO FERNANDEZ RETAMAR: Calibano e altri saggi


Calibano è l’anagramma creato da Shakespeare sulla parola canibal.
I caribe, prima dell’arrivo degli europei, erano i più valorosi, i più battaglieri abitanti delle stesse
terre che oggi occupiamo noi.
Questo nome, in sé e nella sua deformazione canibal, si è tramandato in un senso infamante.
Questa immagine del caribe, inteso come un uomo dall’aspetto terrificante, contrasta con l’altra
immagine dell’uomo americano offerta da Colombo: quella dell’arauaco delle grandi Antille [il
nostro taino in primo luogo] che viene presentato come pacifico, mite, persino timoroso e codardo.
Entrambe le visioni degli aborigeni americani si diffonderanno vertiginosamente in Europa, e
conosceranno singolari sviluppi.
Le due visioni sono meno lontane di quello che potrebbe sembrare dato che rappresentano
semplicemente due opzioni dell’arsenale ideologico dell’energico borghesia nascente.
In generale, la visione utopica riversa su queste terre i progetti di riforme politiche non realizzatesi
nei paesi d’origine.
La visione della creatura paradisiaca è un’ipotesi di lavoro della sinistra della borghesia, che in
questo modo offre il modello ideale di una società perfetta che non conosce ostacoli.
In quanto alla visione del canibal, essa corrisponde alla destra di questa stessa borghesia.
Appartiene all’arsenale ideologico dei politici d’azione, quelli che realizzano il lavoro sporco.
È indicativo che il termine canibal lo abbiamo applicato, per antonomasia, al negro dell’Africa. Ed
è il colonizzatore colui che ci unifica, che mostra le nostre somiglianze profonde al di là delle
differenze secondarie.
La versione del colonizzatore ci spiega che, a causa della bestialità senza rimedio del caribe, non
restò altra alternativa che sterminarlo.
In relazione a questo, sarà sempre doveroso distinguere il caso di quegli uomini che si opposero con
tutte le loro forze al comportamento dei colonialisti e difesero in maniera appassionata, lucida e
coraggiosa gli aborigeni in carne ed ossa. Questi uomini, disgraziatamente, furono solo delle
eccezioni.
Uno dei lavori europei più diffusi della corrente utopica è il saggio di Montaigne Dei cannibali. Nel
1603 esce ka traduzione inglese realizzata da Giovanni Floro, amico di Shakespeare; si conserva la
copia di questa traduzione che Shakespeare stesso possedette e annotò.
Il libro fu una delle fonti dirette dell’ultima grande opera di Shakespeare, La tempesta.
In quest’opera, Calibano/cannibale è uno schiavo selvaggio e deforme per il quale le ingiurie non
sono mai troppe.
Per la rappresentazione di Calibano, l’autore, si avvale dell’altra opzione del nascente mondo
borghese.
Contro la leggenda nera
La discussione sulla cultura latino-americana ha portato in primo piano la genuinità delle nostre
eredità indigene indo americane e africane, e a evidenziare le «simpatie» e le «differenze» con
l’Occidente.
Ma esiste un’altra forte eredità, né indigena né rigorosamente «occidentale», al massimo
«paleoccidentale»: l’eredità iberica.
Che una parte considerevole della nostra cultura provenga da fonte spagnolo, è ovvio.
Ciò che abbiamo ricevuto dalla Spagna è molto più di una lingua. Ma anche nella lingua emerge il
modo particolare in cui avviene questa ricezione. Menéndez Pidal spiegò: «Ci sono due tipi di
lingua spagnola colta, così come ci sono due tipi di inglese: uno europeo e l’altro americano».
Questa differenza visibile non implica il rischio di una frammentazione della lingua inglese.
L’unità dell’inglese, dunque, si è conservata, ed è auspicabile che si conservi, garantendo così una
feconda intercomunicazione e la continuità di un legame omogeneo con il resto del mondo.
Al di là della lingua, la situazione, naturalmente, è molto più complessa. Gli ispanoamericani amano
ripetere, riferendosi agli spagnoli, che non discendono da quelli che rimasero in Spagna, ma da
quelli che arrivarono in America.
L’adesione alle proposte «occidentali», che affascinavano alcuni gruppi ispanoamericani avidi di
modernizzazione, fu facilitata dallo stato deprecabile in cui si trovava la Spagna e dall’iniquo
sfruttamento a cui sottoponeva queste terre dove stavano nascendo nuove nazioni; ma a ciò
contribuì anche il fatto che la Spagna venne segnata da una feroce campagna avversa che si vuole
chiamare la «leggenda nera».
Apparentemente, questa leggenda nera fu provocata dallo sdegno condivisibile per i crimini
mostruosi commessi in questo continente dai conquistatori spagnoli. Ma il minimo rispetto della
verità storica, mostra che ciò è semplicemente falso. Certo, i crimini ci furono e furono mostruosi
ma, non furono più mostruosi di quelli commessi dalle metropoli che subentrarono alla Spagna in
questa impresa e seminarono la morte e la desolazione in tutti i continenti.
E’ indispensabile rifiutare questo escamotage e collocare l’occupazione del continente americano
nella «prospettiva universale»: allora si vedrà con tutta chiarezza che la conquista e la
colonizzazione dell’America nel XVI secolo fanno parte del fenomeno della nascita e del
consolidamento del capitalismo. Quei crimini, quindi, sono imputabili alla «nascita e al
consolidamento del capitalismo».
La leggenda nera fu forgiata e diffusa con l’intento di occultare queste verità e riversare la colpa su
una nazione, la Spagna, che nel XVI secolo era la più potente della terra e il cui posto aspiravano ad
occupare altre metropoli, tutte coalizzate contro la Spagna.
La leggenda nera fu quindi un’abile arma ideologica nella lotta tra metropoli che accompagna il
capitalismo e abbraccia vari secoli. In quella lotta ci furono delle contraddizioni tra le borghesie
delle diverse metropoli ma sempre sullo sfondo di interessi comuni che oggi sono stati rivelati in
maniera molto chiara dalle società multinazionali; e lodandosi a vicenda, non da ladri quali sono,
ma da rappresentanti luminosi della civiltà.

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