Supplementi
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Paideia Editrice
Hans Hiibner
Teologia biblica
del Nuovo Testamento
voi. III
Lettera agli Ebrei,
Vangeli e Apocalisse.
Epilegomeni
Edizione italiana a cura di Francesco Tomasoni
Paideia Editrice
Titolo originale dell'opera:
Hans Hiibner
Biblische Theologie des Neuen Testaments
Band 3.Hebraerbrief, Evangelien und Offenbarung. Epilegomena
Traduzione italiana di Francesco Tomasoni
lo stesso tempo l'affida anche alle mani della chiesa, in cui la fi-
des quaerens intellectum possa di nuovo adoperarsi per l'intel-
lectus quaerens fi.dem. Così sia consentito al teologo che non de-
dica ora questa fatica a un vivo, come il primo volume, né la
correda con un in memoriam, come il secondo, di chiudere l'ul-
timo volume e quindi l'intera opera con un Deo gratias! Che
esso dunque sia ora dedicato a Dio uno e trino.
Hermannrode/Gottingen, 27 febbraio 1995.
HANS HUBNER
INDICE DEL VOLUME
Premessa............................................... 9
PARTE SECONDA
Teologia biblica degli scritti neotestamentari
(seguito)
Capitolo quinto. La lettera agli Ebrei . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23
1. Osservazioni preliminari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23
2. La questione del testo delle citazioni dell'Antico Testamento . 26
3. La teologia della lettera agli Ebrei . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 28
a) Ebr. 1,1-4,13: Verbum Scripturae - Verbum Trinitatis..... 28
b) Il sommo sacerdote del nuovo ordinamento salvifico . . . . . 48
e) Parenesi e testimonianza della Scrittura . . . . . . . . . . . . . . . . 79
d) Riepilogo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 84
Capitolo sesto. I vangeli sinottici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 89
1. Il vangelo di Marco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 92
a) Vetus Testamentum in Evangelio secundum Marcum . . . . . 92
b) Concentrazione teologica: il vangelo come adempimento
della Scrittura. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 103
e) Concretizzazione teologica: legge - Israele - i popoli. . . . . . 122
2. Il vangelo di Matteo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 130
a) Lo stato della questione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 130
b) La teologia di Matteo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1 35
Le citazioni di adempimento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 136
L'adempimento della legge . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 149
Conclusione teologica: la chiesa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 157
3. Gli scritti lucani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 162
a) Luca e la sua sacra Scrittura. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 162
b) Gli scritti lucani come unità teologica . . . . . . . . . . . . . . . . . 164
e) Lo Spirito santo come spirito di Cristo e spirito della chiesa 167
d) Israele, i popoli e la legge . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 178
e) La soteriologia di Luca ............................. 187
20 Indice del volume
f) Epilogo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 195
Magnificat e Benedictus. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 195
Il discorso di Stefano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 202
Capitolo settimo. Il vangelo di Giovanni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 205
l. Osservazioni introduttive . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 205
2. La teologia del vangelo di Giovanni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 210
a) Gv. l: cristologia in nuce ............................ 21 l
b) Gv. 2 e 4: l'antico e nuovo tempio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 217
e) Gv. 3: l'innalzamento del serpente e del figlio dell'uomo. . . 220
d) Gv. 5: potenza e libertà del figlio dell'uomo.. . . . . . . . . . . . 220
e) Gv. 6: il discorso del pane come ermeneutica biblica ...... 225
f) Gv. 7: la fede nel Cristo . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2 3l
g) Gv. 8 e 9: luce e libertà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 241
h) Gv. lo: il buon pastore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24 5
i) Gv. 1 1: Lazzaro e Caifa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2 53
l) Gv. 1 2: «Affinché si adempia la parola profetica» . . . . . . . . 2 55
m) Gv. 19: «È compiuto!» ............................. 265
3. E il logos divenne carne . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 269
Capitolo ottavo. L'Apocalisse di Giovanni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 277
PARTE TERZA
Epilegomeni
Lo spazio-tempo della grazia
Capitolo primo. Preludio filosofico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 295
Capitolo secondo. Lo spazio-tempo della grazia, I. L'Antico Testa-
mento ............................................... 319
Capitolo terzo. Lo spazio-tempo della grazia, II. Il Nuovo Testa-
mento ............................................... 327
Capitolo quarto. Lo spazio-tempo della grazia, III. Gesù di Nazaret 341
Cap.itolo quinto. Lo spazio-tempo della grazia: conclusione teolo-
gica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 371
Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 38 5
Indice dei passi citati ..................................... 416
Indice degli autori ....................................... 427
PARTE SECONDA
TEOLOGIA BIBLICA
DEGLI SCRITTI NEOTESTAMENTARI
{seguito)
CAPITOLO QUINTO
1. Osservazioni preliminari
Non sarebbe stato opportuno trattare la lettera agli Ebrei nel secon-
do volume della Teologia biblica che appunto contiene l'esposizione, ol-
tre che della teologia paolina, anche della storia dei suoi effetti nel Nuo-
vo Testamento? La lettera non rientra in questa storia degli effetti? Ora
si può discutere se o in qual modo le affermazioni critiche verso la leg-
ge, proprie delle lettere paoline autentiche, trovino la loro consapevole
risonanza nell'argomentazione critica verso il culto, quindi verso la leg-
ge del culto, propria della lettera agli Ebrei. Probabilmente erano noti
all'autore di quella lettera almeno i pensieri fondamentali della critica
paolina alla legge. 1 Non si dovrebbe dunque isolare interamente questa
lettera dalla storia degli effetti della teologia paolina. Se nondimeno le è
assegnata in questo terzo volume una posizione particolare rispetto agli
altri scritti neotestamentari collocabili nella storia degli effetti della teo-
logia paolina, il motivo più appariscente è che il secondo volume sareb-
be risultato troppo esteso. Ma soprattutto vi è un motivo obiettivo, cioè
teologico. Infatti nella lettera agli Ebrei non solo la teologia critica verso
la legge si trova in una prospettiva molto speciale giacché la critica alla
legge si focalizza nella critica al culto veterotestamentario; soprattutto è
decisivo il fatto che il rapporto dell'autore della lettera agli Ebrei con la
Scrittura sia assai diverso rispetto a quello di Paolo. La posizione erme-
neutica che si manifesta in essa è determinata da un pensiero strettamen-
te affine al giudaismo ellenistico alessandrino e che per parte sua, pur in
modo soltanto eclettico e quindi parziale, ha assunto in sé elementi pla-
tonici. Ciò risulterà fra l'altro da Ebr. 8,5; 9,23 s., dove l'influsso plato-
nico sul pensiero teologico dell'autore traspare in un significativo duali-
smo (l'opposizione fra Ù7toÒttyµ.a e cnwi da un lato e 't'à iiÀYj"9tvci dall'al-
tro). Il richiamo alla Scrittura avviene di conseguenza nell'orizzonte del
pensiero greco. L'intreccio che traspare nei tardi scritti dell'Antico Testa-
r. In EWNT n, 1170 s. (DENT 1, p 1 s.) ho parlato della modifica alla teologia pao-
lina della legge nella lettera agli Ebrei; ciò è stato contestato da H.-F. Weiss, KEK
xm,406.
24 Teologia biblica degli scritti neotestamentari
mento e poi anche nelle lettere paoline fra pensiero genuinamente israe-
litico ed ellenistico 2 diventa evidente nella lettera agli Ebrei come diffi-
cilmente in un altro scritto biblico, se si prescinde forse dalla Sapienza
che in una forma ad essa propria integra nella sua teologia il pensiero
platonico e stoico. 3 La Sapienza e la lettera agli Ebrei, pur seguendo nel
contenuto e nella forma vie proprie, sono assolutamente paragonabili
per quanto attiene all'incontro fra il pensiero orientale e occidentale.
Hans-Friedrich Weiss interpreta la teologia della lettera agli
Ebrei come una teologia biblica. 4 Al riguardo egli rinvia anzi-
tutto a Ebr. 1,1-14, in particolare alla serie di testimonianze di
1,4-13, dove già affiorerebbero programmaticamente per tutta
la lettera aspetti essenziali della ricezione della Scrittura. Giu-
stamente si dice: «Per l'autore è ovvio non solo che Dio stesso
abbia un tempo parlato 'ai padri nei profeti' (1,1); piuttosto la
maniera in cui nella sua lettera di consolazione e ammonimen-
to spiega il discorso definitivo di Dio 'nel figlio' si muove del
tutto nell'ambito e nel contesto della Scrittura, che viene im-
mediatamente riferita al 'figlio', quindi letta e intesa sotto l'a-
spetto cristologico». 5 Egli parla del carattere costitutivo della
Scrittura per la lettera agli Ebrei e in proposito adduce anche a
buon diritto l'argomento quantitativo del gran numero di e-
splicite citazioni scritturistiche e della massa di allusioni e cita-
zioni virtuali che difficilmente si possono circoscrivere in mo-
do preciso. 6 La lingua e la terminologia della lettera sono de-
terminate dalla tradizione biblica; lo sviluppo della cristologia
e soteriologia avviene essenzialmente nell'orizzonte di una lin-
gua messa a disposizione dalla Scrittura. «Ciò che è dato nella
lettera agli Ebrei è quindi la testimonianza di una teologia nu-
trita di fonti bibliche - in una parola: una teologia biblica». 7
Giacché Hans-Friedrich Weiss mette in evidenza questo fat-
to come difficilmente altri commentatori, ci sia consentito ri-
ferirci ancora a lui: all'autore della lettera importa non solo pro-
durre in primo luogo una «prova scritturistica» 8 della sua pro-
12. Op. cit., 181. 13. Bleek,Hebriierbrief1, 371 s. 14. Op. cit. I, 374.
15. Sperber,JBL 59, 248.
La lettera agli Ebrei 27
conoscere in LXXA e in LXX 8due tradizioni di un'unica versione che
si potrebbe chiamare quella dei Settanta; l'autore della lettera agli Ebrei
possedeva ancora un testo di questa versione nella sua forma originaria.
«Attraverso il processo di revisione redazionale i testi di LXXA e LXX 8
finirono per diventare un misto della lezione primitiva e di quella reda-
zionale, come appunto sono nella loro forma attuale». 16 Una delle mono-
grafie più importanti per la nostra problematica è la dissertazione pre-
sentata a Monaco da Friedrich Schroger col titolo Der Verfasser des He-
braerbriefes als Schriftausleger ( 1968). Egli mette in conto soprattutto mo-
difiche al testo dei LXX operate dallo stesso autore della lettera. Rin-
viando a Bleek, Thomas, Peter Katz, 17 Kahle e Sperber, ribadisce che lo
studio dei processi in atto nella genesi dei LXX sarebbe ancora agli inizi
e nondimeno le citazioni della lettera agli Ebrei potrebbero «indubbia-
mente recare un buon contributo all'assolvimento di questo compito». 18
Rimane ancora da citare la dissertazione presentata a Gottinga da Erko
Ahlborn col titolo Die Septuaginta-Vorlage des Hebraerbriefes (1966,
quindi nello stesso anno in cui anche Schroger ha presentato la sua dis-
sertazione, perciò i due non potevano aver notizia l'uno dell'altro). Se-
condo Ahlborn Pimpostazione finora seguita nella questione, e cioè il
chiedersi se le citazioni dipendano da un codice A, B o da qualsiasi al-
tro, è «non solo fondamentalmente irrilevante, ma anche fuorviante giac-
ché i manoscritti nei singoli libri appartengono a diverse versioni». 1 9 E
così giunge a concludere che sia da escludere come testo a disposizione
della lettera agli Ebrei una versione alessandrina. Bisogna anzi dubitare
in generale di un gruppo con questo nome. «Anche l'Alessandrino da so-
lo è fuori discussione come fonte di citazioni; piuttosto bisogna vicever-
sa mettere in conto la possibilità che A abbia conosciuto e utilizzato an-
che la lettera agli Ebrei».2° Il prospetto delineato mostra come l'imposta-
zione della questione sia diventata sempre più adeguata all'argomento,
nella misura in cui gli studi recenti sui LXX coi loro dati parziali, per un
certo verso divergenti hanno goduto di maggior attenzione, ma che tut-
tora manca una soluzione universalmente persuasiva dell'intera proble-
matica. La risposta che forse si profila nel corso dei prossimi anni non
potrebbe magari collocarsi fra le posizioni di Thomas e di Ahlborn?
35. Per l'autore della lettera agli Ebrei è teologicamente irrilevante che si tratti di un
canto nuziale per il re.
36. L'affermazione utilizzabile per l'autore della lettera si può ricavare solo dal testo
dei LXX che è notevolmente modificato rispetto all'originale ebraico.
37. L'autore della lettera presenta il testo lievemente modificato: ><al ~ pci~ooç •t"i)<;
tùSu"t'lJ"t'O<; pci~oo<; "t'ij<; ~acnÀtta<; aou.
38. H.-J. Kraus, Psalmen, BK xv/1, s1978, 486. 39. Op. cit., 491.
40. Cfr. anche Sa!. 24,8: jhwh 'izzuz w'gibbor jhwh gibbor milpiima; si veda anche
Deut. 10,17; Ger. p,18. L'intitolazione regale citata di Is. 9,5 milita a mio avviso per
la sua origine preesilica e quindi probabilmente anche per la sua autenticità isaiana.
Ciò è però in gran parte contestato negli studi veterotestamentari.
La lettera agli Ebrei 39
to. Tuttavia in una forma o nell'altra si esprime il suo signifi-
cato peculiare: il re rappresenta Dio. Nell'Antico Israele ciò
può essere stato pensato nel senso di una concezione adottiva
del re, quindi non nello stretto significato dell'essere come ap-
punto avviene nel Nuovo Testamento e proprio qui in Ebr. 1,
8, dove inequivocabilmente si attribuisce al figlio di Dio l'esser
Dio stricto sensu. Bisogna però anche ribadire che questo fi-
glio di Dio nel suo esser Dio è colui che domina regalmente al
posto di Dio. In altri termini: se egli, in quanto figlio di Dio, è
nel suo esser Dio il messia, l'unto regale, ciò significa che la
sua dignità messianica è qualificata dal suo esser Dio come di-
gnità divina. È significativo a questo riguardo che in lj; 44, do-
po il discorso della basileia del figlio di Dio, chiamato Dio, si
menzioni la virtù regale in senso assoluto, la giustizia, Òtxaw-
cruvri (cfr. Sap. 1,1), amata da questo figlio di Dio come Dio, lj;
44,8: «Perciò, ÒtCÌ. 'tOU'to, il tuo Dio, o Dio, ti unse a messia
(eX,ptcrÉv ere:)». Quindi Gesù è il figlio, è Dio, è il messia, è il re-
gale sovrano divino. Qui s'incontra quasi tutta la cristologia,
qui si raccolgono i suoi singoli elementi fondamentali. E so-
prattutto è Dio medesimo che parla a suo figlio, che si rivolge
a lui cristologicamente. Cristologia quindi come parola di Dio
al Cristo.
In questo senso prosegue ora anche la serie di citazioni. In
Ebr. 1,10-11 si cita lj; 101,26-28. Corrisponde del tutto all'er-
meneutica della lettera che nel frattempo abbiamo conosciuto
se l'invocazione lì rivolta a Dio è presa come invocazione alfi-
glio. Attraverso un piccolo spostamento delle parole in lj; 101,
26 41 viene sottolineato il carattere dell'invocazione: crù xa't'à.p-
x.IJ.c,, xupte:, 't~v yijv è"'9e:fJ-e:Àtwcrac, .. Y Dio si rivolge ora al fi-
glio con kyrios; anzi in modo ancor più netto possiamo dire:
Dio si rivolge a Dio con kyrios. Il figlio è però kyrios divino
grazie al suo operare nella creazione del mondo essendo appun-
to in essa il mediatore menzionato in Ebr. 1,2. Nel pensiero
biblico tuttavia l'operare del figlio è l'essere del figlio, non so-
4I. Per la forma testuale della citazione, cfr. Griisser, EKK xvrr/1, 88 s.
42. Invece nei LXX: xa:'!'à:pxèt<: au, xupLt ...
Teologia biblica degli scritti neotestamentari
tavia nelle sue parole lo sguardo è rivolto solo al credente. L'autore della
lettera agli Ebrei invece guarda ad entrambi, sia a chi ha ascoltato la vo-
ce minacciosa di lji 24 e presta obbedienza a Dio - anche Èvwmov cxù-rou
ricorda Paolo (1 Tess. 1,3 ecc.) - sia a chi indurisce il proprio cuore e
perciò è giudicato dalla parola «critica» di Dio. Con Paolo l'autore della
lettera agli Ebrei non condivide però soltanto la consapevolezza della
potente efficacia di questa parola divina; 63 caratterizzandola come xpt-
'!txÒç Àoyoç, egli vede, alla stregua di Paolo, l'uomo nella sua radicale si-
tuazione forense. Come nell'esposizione della teologia paolina abbiamo
mostrato quanto l'apostolo abbia riconosciuto la dimensione forense qua-
le esistenziale fondamentale e ne abbia utilizzato la fecondità per la sua
teologia, così la stessa cosa si potrebbe dire per l'autore della lettera agli
Ebrei. Harald Hegermann parla a ragione di Ebr. 4,12 come di un passo
che si distingue per l'aspetto compositivo, in cui il suo autore presenta
espressamente la sua «teologia del parlare divino» nell' «inno della paro-
la disvelante di Dio». 64
L'autore della lettera ha forse voluto mettere in rilievo la
piccola unità di Ebr. 4,12 s. perfino sotto l'aspetto retorico uti-
lizzando À6yoc, come inclusio? Allora egli sottolineerebbe che
il logos di Dio ci pone dinanzi a questo Dio in modo tale che
gli dobbiamo proferire il nostro logos. Il logos umano è qui con
Grasser la responsabilità, 65 è la nostra parola responsabile di-
nanzi a Dio. L'avvenimento personale fra Dio e l'uomo è po-
sto in chiara luce dal logos che bisogna ascoltare e dal logos che
risponde e ne porta la responsabilità. Con Claus-Peter Marz:
« ... alla parola di Dio deve corrispondere la risposta dell'uo-
mo».66
to appartiene alla storicità di Gesù. Nello stesso tempo c'è l' es-
sere del figlio al di sopra del tempo, trascendente; e proprio in
tal modo è data la premessa, conforme all'essere, del rapporto
del padre e del figlio divino, che sussiste al di là di ogni tempo.
Il figlio eterno del padre eterno, Gesù, non è diventato nel tem-
po; invece il sommo sacerdote, quello è diventato nel tempo.
Così c'è un essere del figlio, ma un esser-diventato del sommo
sacerdote. Questo simul, che appunto corrisponde all'afferma-
zione cristologica fondamentale Deus simul et homo e che poi
di nuovo fa saltare questo simul giacché il sommo sacerdote
come uomo nel suo compimento «partecipa» 70 alla dignità di-
vina, questo simul dunque rende palese nel suo contenuto la
tensione della teologia della lettera. Questa tensione non può
essere però interpretata come contraddizione. Essa è piuttosto
una caratteristica distintiva della tensione immanente, insita
necessariamente in ogni affermazione teologica giacché la teo-
logia abbraccia per definitionem l'essere al di là di Dio e insie-
me l'essere al di qua della creaturalità.
L'autore passa ora in Ebr. 5,11-6,12 al «solido nutrimento»; presenta dun-
que la teologia nello stadio più avanzato di riflessione. La nostra atten-
zione particolare dovrebbe già essere risvegliata da quanto qui si ricolle-
ga all'annuncio di voler esporre la teologia più perfetta: si dice che quelli
che sono stati «un tempo illuminati», &mx!; tpw'ttcr-8Év'tcxc; (6,4), ma poi
sono caduti non potrebbero essere ricondotti alla conversione. 71 Do-
vrebbero qui essere riaccostate nella più stretta affinità l'esperienza di
fede e la conoscenza teologica. Una profonda conoscenza teologica com-
porta per l'autore della lettera una profonda penetrazione della fede cri-
stiana. Si tratta nello stesso tempo di un certo trasferimento nell'escha-
ton, dal momento che si parla di gustare la buona parola di Dio e le for-
ze dell'eone venturo, µ.ÉÀÀonoc; cx!wvoc; (6,5). Questo gusto, per così di-
re escatologico, ha il suo fondamento nel gustare il dono celeste (6,4). E
bra, era già sommo-sacerdote. Questo ben s'adatta alla sua sequenza argomentativa:
Gesù possiede il suo sommo sacerdozio secondo quest'ordine ed è perciò superiore
proprio in questo al sacerdozio levitico dcli' Antico Testamento. Melchisedek sta dun-
que al di sopra di Levi.
70. Si parla qui di partecipazione fra virgolette giacché il termine non esprime l'av-
venimento in modo assolutamente conforme alla realtà. Tuttavia in un modo o nel-
l'altro ci serviamo nella cristologia di concetti immanenti che sono appunto inade-
guati, in quanto immanenti, a rendere il trascendente.
71. Si veda Goldhahn-Miiller, Die Grenzen der Gemeinde, 75 ss.
Teologia biblica degli scritti neotestamentari
80. Diverso è il parere di Marz, op. cit., 52 che non interpreta la liturgia del santuario
celeste descritta nel seguito come culto «celeste» dell'elevato al cielo, bensì trova qui
espressa la morte in croce di Gesù. Giustamente Grasser, EKK xvn/2, 78: «I vv. 1-2
nominano il tema della nuova sezione: Gesù è il sommo sacerdote regale che esercita
il suo ministero nel cielo. I vv. 3-13 offrono la giustificazione a questo trasferimento
dalla terra al cielo: Cristo può essere sommo sacerdote solo nel sancta sanctorum ce-
leste giacché non corrisponde affatto al sacerdozio terreno stabilito dalla legge (7,
14)». Sul rapporto fra il sommo ministero sacerdotale di Gesù terreno e celeste dovre-
mo dire ancora qualcosa di più preciso in seguito.
Teologia biblica degli scritti neotestamentari
l'impressione che l'autore della lettera pensi addirittura par-
tendo dal cielo. La rappresentazione Èv 'tote; oùpavotc; è palese-
mente così dominante per la sua riflessione teologica che la let-
tera, pur avviandosi all'inizio (Ebr. 1,2) col dato temporale be'
foxihou 't'Wv ~fJ-Epwv 't'OU't'wv, è più determinata da tale spazia-
lità. Il cielo è concretamente descritto. Abbiamo qui di nuovo
a che fare con la tipologia? Il sommo sacerdote è delineato
come celebrante celeste, ossia come celebrante del santuario e
della vera e propria tenda. Sullo sfondo di questa affermazione
sta la rappresentazione sacerdotale levitica della tenda del de-
serto. L'ebraico 'ohe! mo'ed è tradotto nei LXX con~ crx"YJ"~
't'ou [J.ap't'uptou, Es. 27,21 ecc. L'autore ha in mente la tenda
mobile durante la peregrinazione nel deserto? Intende forse in
modo traslato con la tenda il tempio di Gerusalemme? 81 C'è
anche da chiedersi se egli alluda a Num. 24,1-6 LXX, dove si
trova l'espressione O'X"YJ'ICXt, &e; fo"Y]~E'I xupwc; (v. 6). Tuttavia,
comunque qui si risolvano le questioni particolari - il proble-
ma decisivo è di stabilire come l'autore della lettera veda il rap-
porto fra antica e nuova tenda dal momento che questa è ca-
ratterizzata come la vera tenda. Che cos'è poi Cristo come Àet-
't'oupyòc; 't'Yjc; O"X"Y]VY)c; 't'Yjc; !:ÌÀ"Yj-Btvijc; (Ebr. 8,2)?
Qual è il contrario di à.ÀYj.Stv~ nella mente dell'autore della lettera? Ver-
rebbe spontaneo pensare anzitutto a ljle:uò~c;. Ma l'autore vuol davvero
dire che la tenda o il tempio veterotestamentario sono un'entità menzo-
gnera? Fino a tanto non sembra spingersi. Bisogna piuttosto tradurre
à.ÀYj.Stv~ con «vera e propria»? La tenda veterotestamentaria è solo in un
modo improprio, forse anche soltanto attenuato il luogo del culto a Dio?
Probabilmente questa interpretazione s'avvicina di più a ciò che si in-
tende dire in Ebr. 8,2. 82 Tuttavia l'antitesi «inautentico-autentico» rima-
ne ancora sulle prime assai vaga.
Peculiare è anche l'argomentazione in Ebr. 8,3 s. Anzitutto nel v. 3 si
può sottoscrivere il fatto che l'insediamento di un sommo sacerdote com-
porti che questi offra doni e vittime. E sicuramente è chiaro che anche il
«nostro sommo sacerdote» dovrebbe avere qualcosa da offrire. Poi però
81. Per Hegermann, ThHK, 163, la lettera agli Ebrei non distingue fra i due più anti-
chi santuari, ossia fra la tenda sacra e il tempio di Salomone da un lato, e il tempio
erodiano dall'altro; egli partirebbe piuttosto dal santuario di Jahvé attestato nella leg-
ge cultuale dell'Antico Testamento senza porsi il problema delle sue concrete confi-
gurazioni nella storia. 82. Cfr. ad es. Grasser, EKK xvn/2, 83.
La lettera agli Ebrei 59
s'incontra l'affermazione strana del v. 4 secondo cui se egli fosse sulla
terra non sarebbe neppure un semplice sacerdote, giacché qui appunto
già ne esistono tali che offrono doni. Ma egli fu sulla terra! E proprio
qui ha dato se stesso quale vittima, come l'autore della lettera ancora po-
chi versi prima aveva detto. Tuttavia lo sguardo del nostro autore sem-
bra essersi tanto fissato sull'attuale attività celeste di Gesù come sommo
sacerdote da credere di poter passare sotto silenzio, per un attimo, nella
sua argomentazione teologica il venerdì santo. La differenza «spaziale»
di cielo e terra gli permette infatti di illustrare da tutt'altra parte rispetto
a prima la differenza fra il sommo sacerdozio veterotestamentario leviti-
co e il sommo sacerdozio di Gesù.
Ora il nostro teologo diventa perfino filoso[o. Proprio nel
senso di un pensiero proveniente da Platone e probabilmente
anche nel senso di una teologia improntata alla linea giudaica
alessandrina (Filone) egli adduce in Ebr. 8,5 i concetti di copia,
u7toÒe:t yµa, e ombra, cnrnX:. Giustamente Erich Grasser vede che
il nostro testo attraverso i concetti di tm6òe:tyµcx, cnrnX:, fooupa-
\ltct e 'tU7toc; s'avvicina molto alla dottrina platonica delle idee. 83
Quando egli poi dichiara che il santuario terreno e quello ce-
leste non si contrappongono come «sotto» e «sopra» (quindi
in una corrispondenza positiva come nell'apocalittica e nella
letteratura rabbinica), ma come il buon originale e la copia di
minor valore, come la realtà e l'apparenza, quindi in una di-
versità qualitativo-ontologica, 84 c'è da chiedersi se qui egli non
costruisca troppo forzatamente i due diversi modi di vedere.
Anche il pensiero platonico può appunto esprimersi in una rap-
presentazione spaziale.
L'autore della lettera ci mette a disposizione un criterio per giudicare la
sua comprensione di questo fondamentale pensiero platonico citando al
v. 5 la conclusione della direttiva divina per la fabbricazione del cande-
labro destinato al culto, ossia la frase caratteristica per la rappresentazio-
ne dello scritto sacerdotale, Es. 25,40 che nella versione dei LXX dice:
8pa 7t0t~cn:tc; xa"tiX "tÒV "tU7tOV "tÒV Òe:Òe:typ.Évov C'Ot Èv "tci> ope:t. In Ebr. 8,5
sta al posto di "tÒv Òe:Òe:ty(J-Évov la locuzione "tÒv Òe:tx~Év"ta, pressoché iden-
tica nel contenuto. Più importante è che l'autore della lettera fra 7tOt~
ae:tc; e xa"tiX "tÒv "tU7tOV inserisca la parola mina e così universalizzi la
direttiva di Es. 25,40. In tal modo interpreta una singola direttiva dello
scritto sacerdotale come una direttiva generale per il culto veterotesta-
83. Op. cit., 88. 84. Ibidem.
60 Teologia biblica degli scritti neotestamentari
85. Ego, lm Himmel wie auf Erden, 59 s. 86. Griisser, EKK xvn/2, 91 n. 135.
87. Basti qui citare l'ultima frase del Timeo (92c): SvlJ't'à yil:p xat à...9.Xva't'a 'l:ci)a À<X-
~wv xat O'U(J.7tÀlJpW..9d.; oòe b l<OO'(J.Oç OU't'W, l:ci)ov bpa't'Òv 't'IÌ bpa't'IÌ 7tEpLÉ)'.OV, e!xwv 't'OU
'IOlJ't'OU [io completo: ..9eou] Seòç a!a..9lJ't'Oç, (J.É'(LO''t'Oç xal apLO''t'Oç xaÀÀLO''t'O<; 't'E xat
't'EÀEW't'<X't'Oç yÉyovev dç oùpavòç oòe (J.Ovoyev~ç wv.
La lettera agli Ebrei
gico, quindi nuovo, ciò dipende unicamente dalla colpa del po-
polo d'Israele.
Per l'autore della lettera al contrario Ger. 38,31-34 LXX di-
mostra che l'antica diatheke era in sé inadeguata, anzi riprove-
vole e perciò doveva cedere alla nuova. 94 Il pensiero secondo
cui l'antica diatheke merita biasimo è ulteriormente sviluppa-
to in Ebr. 8,13, dove si dice che la legge mosaica è antiquata e
invecchiata e quindi votata al declino. L'istituzione salvifica
sul Sinai è quindi vecchia. Un simile apprezzamento e giudi-
zio, una tale svalutazione radicale dell'avvenimento del Sinai
deve esser suonato addirittura blasfemo alle orecchie giudai-
che, ma anche a molte orecchie giudeocristiane, come prima cer-
te parole di Paolo critiche verso la torà, soprattutto nella lette-
ra ai Galati. Se già le critiche finora espresse nella lettera agli
Ebrei sul sacerdozio levitico erano per gli ebrei un'arroganza,
ciò che è detto nel cap. 8 doveva loro apparire come un cre-
scendo ulteriore nelle ingiurie alla rivelazione divina del Sinai.
Infatti Israele si definisce a partire dal Dio e dalla torà del Si-
nai. E ambedue vengono qui liquidati. Non solo Israele è offe-
so, no, anche il Dio d'Israele lo è in quanto gli è tolto il suo
esser-Dio. Diversamente non può essere letto Ebr. 8 con occhi
giudaici. Erich Grasser ha ragione: «In nessun altro luogo si
trovano parole similmente dure sul primo patto che di conse-
guenza, in modo per così dire naturale, va verso la sua fine». 95
Tuttavia fra il testo di Geremia in quanto tale e la citazione
c'è ancora un'altra differenza di alta rilevanza rispetto all' o-
rientamento teologico complessivo della lettera: giacché in Ger.
38,31-34 LXX si tratta della nuova diatheke, occorre gettare
94. Acutamente sostiene H.-F. Weiss, KEK, 444: «Infatti partendo dalla costatazione
dclv. 7 secondo cui 'quella prima (istituzione salvifica)' stessa era 'non senza biasimo',
il 'biasimo' di Dio espresso nel v. 8 si rivolge appunto non solo ... agli appartenenti al-
la 'casa d'Israele e di Giuda', bensì almeno anche a 'quella prima (istituzione salvifica)
stessa. Proprio sotto questo aspetto si distingue in effetti ]'interpretazione di Ger. 3 1
(3 8) nella lettera agli Ebrei dal!' originaria intenzione del!' affermazione di Ger. 3 1 (3 8),
che accentua primariamente la disobbedienza degli israeliti». Si veda però anche Gras-
ser, EKK xvn/2, 99: «Rispetto a Geremia l'intenzione della citazione è diversa. Là si
tratta di consolazione, qui di critica». Sull'intenzione del testo veterotestamentario, si
veda soprattutto Levin, Die Verheissung des neuen Bundes, 132 ss.
95. Grasser, EKK xvn/2, 104.
La lettera agli Ebrei
avanti lo sguardo a Ebr. 9,15 ss. Lì infatti si enuncia l'idea se-
condo cui una diatheke - qui conformemente allo spettro di si-
gnificati di diatheke una volta intesa come istituzione unilate-
rale (nel senso della lettera: l'istituzione salvifica da parte di
Dio), poi anche come testamento (v. sotto) - esige la morte;
perciò il primo e il secondo «patto» sono entrati in vigore col
sangue. L'autore della lettera agli Ebrei citando quindi Ger.
38,31-34 LXX ha in mente sotto le espressioni Òta-i9~x'Y]v xat-
v~v e a~'t''Y] ~ Òta-8~x'Y] la morte cruenta di Gesù che corri-
sponde allo spargimento cultuale del sangue nella conclusione
del «patto» di Es. 24 (citazione di Es. 24,8 in Ebr. 9,20: 't'OU't'O
't'Ò aiµ.a 't'Y)c; Òta-8~x'Y]c; ~e; Ève:'t'etÀa't'o 7tpÒc; ùµ.cic; o-8e:6c;). 96
Con la citazione di Ger. 38,3 l-34 LXX nel cap. 8 l'autore della lettera ha
spinto così avanti la sua argomentazione che ora sussistono le premesse
sul piano rappresentativo e concettuale per sviluppare ampiamente nel
cap. 9 la contrapposizione fra il culto veterotestamentario e il sacrificio
di sé neotestamentario da parte di Cristo. In verità, e questo non può sor-
prendere dopo le spiegazioni finora offerte, la sua morte sacrificale è di
nuovo collocata nel contesto della sua attività celeste (Ebr. 9,1 l). Il cap.
10 ne è l'immediata prosecuzione. Se in esso si parla dell'unico sacrificio
di Cristo (Ebr. lo,12-14), è lo svolgimento del pensiero di Ebr. 9,26-28.
In Ebr. 9, l -1 l si descrive il rituale veterotestamentario senza che si ad-
duca una sola citazione formale. Certamente si descrivono in modo re-
lativamente dettagliato dati del culto come utensili e luoghi di culto (so-
prattutto il tabernacolo di Es. 25-30) e inoltre ci si riferisce chiaramente
al rito del grande giorno della riconciliazione, dello jom kippur, Lev. 16.
In verità l'autore non tien conto di certe modifiche del tempio postesili-
co. Egli si attiene piuttosto interamente alle affermazioni del Pentateuco
(secondo lui arca dell'alleanza, verga di Aronne e tavole della legge si
troverebbero ancora nel «sancta sanctorum»). Se al riguardo segue la
Scrittura, egli trasferisce in contrasto con Es. 30,6-8 l'altare del sacrificio
di aromi nel «sancta sanctorum». È probabile che abbia frainteso Lev.
16,12 s. Infatti non si può pensare che egli di proposito voglia mano-
mettere il testo veterotestamentario per adattarlo alla sua intenzione,
ossia per ricollegare questo altare all'espiazione del culto. A quanto pa-
re, nel periodo successivo alla distruzione del secondo tempio non ne ha
più avuto un'immagine reale.
96. Es. 24,8 secondo i LXX: tòoù -cò al1J.a -ci]ç òia·.9~K'% ~ç òiÉ-.9&-co Kupioç rcpòç U(J.ciç
7tEpÌ rcav-cwv -cwv M;wv -cou-cwv. L'autore della lettera ha naturalmente dinanzi agli
occhi tutta la sezione di Es. 24,2-8.
66 Teologia biblica degli scritti neotestamentari
102. Palesemente ora la «prima» tenda non è intesa come parte del tempio veterote-
stamentario, non è intesa quindi topograficamente, bensì cronologicamente, cioè come
la «tenda» veterotestamentaria. Ai fini della sua argomentazione l'autore modifica i
suoi singoli elementi argomentativi (v. i commentari).
103. Cfr. voi. 1, 197 ss.; voi. n, 295 ss.
104. Questa del v. 8 non è identica, come ad esempio pensa Loader, Sohn und Hoher-
priester, 163 s. alla itpÙYt"l') O'XT)V~ del v. 2, bensì alla tenda del primo «patto», quindi
non coincide con la sua prima parte (Goppelt, Typos, 200 ss.).
La lettera agli Ebrei
dono ai due luoghi celesti, ossia alla tenda più grande e più
perfetta, non fatta da mani d'uomo e al vero santuario celeste,
-tà &yta, 9,11 s. Se però poi nel v. 12 di nuovo domina l'antite-
si radicale, cioè l'opposizione fra il sangue soteriologicamente
inefficace di capri ed agnelli e l'unico sangue soteriologicamen-
te efficace, quello di Cristo (v. anche 9,13 s.; 10,4), allora viene
documentata ancora una volta l'assoluta superiorità del som-
mo sacerdozio di Gesù sul sacerdozio veterotestamentario.
Allora però tutto quanto nella tipologia della tenda poteva an-
che essere visto embrionalmente come superamento (si veda
quanto abbiamo già detto riguardo alla 7tapa~oÀ~ nel v. 9) vie-
ne in fondo piegato nella totale antitesi. C'è soltanto una sote-
riologia che meriti questo nome: mediante (òta strumentale) il
suo proprio sangue Cristo, diventato (7tapaye:v6µ.e:voc;) realtà
storica come sommo sacerdote escatologico, opera la nostra re-
denzione. Quale rapporto però si stabilisce secondo Ebr. 9, 11
s. fra questa sua azione storica e la sua azione celeste, il suo at-
traversare la tenda celeste fino al vero santuario celeste per lì
intercedere a nostro favore? In altri termini: quale rapporto
c'è fra l'unico passato di Cristo e la sua perenne presenza?
La sequenza temporale e anche effettiva di Ebr. 9, 11 s. non è del tutto sem-
plice da determinare. Così si capisce che la frase sia interpretata dagli stu-
diosi in modo assai diverso. 113 La questione decisiva rispetto al contenu-
to è di spiegare la reciproca relazione di òtà. 'tou lòtou atµa'toc;, poi ElcrY)À-
-BEv Écpa7tal; dc; 'tà. &yia e infine alwvtav Àu'tpwcrtv EupaµEvoc;. A mio av-
viso bisogna partire dal seguente dato grammaticale: EupaµEvoc;, come par-
ticipio dell'aoristo, significa che Cristo come colui che già aveva opera-
to una redenzione eterna, entrò una volta per tutte nel santuario. 11 4 Al-
lora però, rigorosamente parlando, ElcrY)À-BEv non può coincidere con EU-
paµEvoc;.115 Così viene facile interpretare: mediante il suo proprio san-
gue Cristo operò la redenzione eterna. E come simile redentore sacer-
dotali! entrò una volta per tutte nel santuario.
II3. Si vedano i commentari.
114. È strano che difficilmente negli studi ci si soffermi come tema d'analisi su questo
dato grammaticale. Si veda però Loader, Sohn und Hoherpriester, r 86: «In corrispon-
denza ai nostri risultati bisogna assegnare a tupaµ.tvoc; il suo pieno significato tempo-
rale. Egli entrò nel sancta sanctorum dopo aver già ottenuto sulla terra la redenzione.
Perciò entrò una volta per tutte nel sancta sanctorum».
II 5. Diversamente Griisser, EKK xvn/2, 154: «tupaµ.tvoc; non è peraltro una seconda
azione accanto a t!aijÀ8tv, ma un'unica e medesima».
72 Teologia biblica degli scritti neotestamentari
116. Questa è la ragione relativa della concezione di Grasser citata nell'ultima nota e
lì respinta; si veda anche Kasemann, Das wandernde Gottesvolk, 148: «Proprio la mor-
te sacrificale in cui Gesù offre il suo corpo carnale a Dio è nello stesso tempo, in quan-
to irruzione attraverso l'impedimento del Kot"CotitÉ-ccxa11cx, l'daoòoç nel cielo ... Tuttavia
nel sancta sanctorum penetra solo il sommo sacerdote sicché di fatto si deve far inco-
minciare da qui, con la sua morte sacrificale, l'assunzione della carica di sommo sacer-
dote da parte di Gesù» (da Kasemann spaziato).
117. Si vedano le concordanze dei LXX a itpoai:pÉpt1'V.
118. Sulle teorie riguardo ali'. espiazione veterotestamentaria, cfr. voi. II, 317 ss.; Hiib-
ner, Biblische Theologie als Hermeneutik, 110-131. 272-28 5.
La lettera agli Ebrei 73
perspicue che sia cogente un'interpretazione nel senso men-
zionato. La sua negazione di un effetto soteriologico in base al
sacrificio veterotestamentario fa propendere piuttosto in sen-
so contrario. C'è allora da chiedersi come sia da comprendere
il rapporto del sangue di Cristo e del dono della sua vita. Ci
troviamo di nuovo dinanzi a una questione teologicamente es-
senziale, dalla risposta alla quale dipende la comprensione del-
la mentalità teologica fondamentale dell'autore della lettera. 119
Prima di sforzarci per una tale risposta, completiamo le espressioni di Ebr.
9, 1 I -14 imr.iegando nelle seguenti spiegazioni i paralleli presenti in que-
sta lettera. E importante notare come l'autore parli del sangue e soprat-
tutto del sangue di Cristo. In Ebr. 9, I 5 ss. egli collega il concetto della dia-
theke all'esigenza della morte del testatore. Come abbiamo già osserva-
to, egli gioca qui col concetto di Òta.S~x'Yl che può significare sia un'uni-
laterale istituzione (della salvezza) sia anche un testamento. La prima dia-
theke è stata posta in vigore secondo Es. 24 col sangue (Es. 24,8 citato in
Ebr. 9,20). Poi si trova in Ebr. 9,22 la cosiddetta regola del sangue pro-
pria della lettera agli Ebrei: senza spargimento di sangue non avviene re-
missione, xwpìc; CXÌ!J.CX't'e:xxucrtac; où "(LVE't'Clt Cl(j)ECl'tc;. 120 Dunque anche la re-
denzione degli uomini dai loro peccati operata da Cristo dovette avve-
nire attraverso il sangue. 121
A questo punto sono proficue le riflessioni su Ebr. 9 e 10 di
Erich Grasser che, in una specie di excursus collegato alla sua
esegesi di Ebr. 9,11-14, si è espresso tematicamente riguardo al-
1'ermeneutica delle affermazioni della lettera sul sacrificio espia-
torio di Gesù. 122 Con H erbert Braun 123 egli pone la questione
decisiva se per noi in generale sia ancora teologicamente possi-
u9. Cfr .. anche Feld, Hebr, 76 ss. e 82 ss.
120. Sembrerebbe quasi che nell'antico «patto» ci fosse nondimeno ancora una remis-
sione in virtù dello spargimento di sangue, giacché appunto Ebr. 9,22b si riferisce a
quanto s'è detto prima. Secondo Ebr. 9,19-22a si tratta infatti dell'avvenimento di Es.
24. Tuttavia a una tale conseguenza si giunge solo se si interpreta isolatamente Ebr. 9,
19-22 (contro una tale interpretazione sta inequivocabilmente Ebr. 10,4).
ur. Un ampio approccio epistemologico all'interpretazione della lettera è stato pro-
posto da John Dunnil nella sua dissertazione Covenant and Sacrifice in the Letter to
the Hebrews. Egli sfrutta i metodi della sociologia, dello strutturalismo e della filoso-
fia dei simboli per l'interpretazione della lettera. Nel suo interessante prospetto non
posso qui addentrarmi. Riguardo a Ebr. 9,22 rinviamo al cap. 7 «The necessity of
blood», soprattutto alle sue sezioni «The symbolism of blood» e «The piace of en-
counter». Tornerò sulla sua concezione in una successiva pubblicazione.
122. Grasser, EKK xvu/2, 164 s. 123. Braun, HTN, 258.
74 Teologia biblica degli scritti neotestamentari
è per lui così importante perché Gesù lassù siede sul trono alla
destra di Dio. Che a tal proposito~ 109,4 sia di alta rilevanza
teologica l'abbiamo pure continuamente costatato. 128
Già nelle deuteropaoline è emerso come l'autocomprensio-
ne o la comprensione che vi si esprime è determinata specifica-
mente dal fatto che il credente si riconosca già in un certo mo-
do nel cielo, com'è affermato in modo particolarmente forte
da Ef 2,4 ss. Un tal uomo che si riconosce determinato dal cie-
lo fin nelle profondità della sua esistenza, è diverso rispetto a
chi si comprende solo a partire dalla compagine di fattori im-
manenti. Che cosa significhi sapere di esser nascosti nel cielo,
lo comprende certamente solo il credente. Infatti solo lui co-
glie nella sua fede il cielo esistente per lui, il Dio «pro-esisten-
te» per lui nel cielo e il sommo sacerdote Gesù lì «pro-esisten-
te», come realtà che lo determina effettivamente. Solo chi è con-
sapevole di questa realtà che lo determina può esserne sorretto
nell'esistenza. Questo ferreo principio ermeneutico non può es-
sere abrogato. E ciò significa pure che solo il credente capisce
davvero ciò che l'autore della lettera vuol dire teologicamente.
Anche qui di nuovo il nostro ceterum censeo: la fede è la con-
ditio sine qua non della comprensione teologica.
È proprio questa condizione esistentiva di «fatto», questa
condizione di esistenza che è espressa con e:lcr~À-8e:v [Xptcr'tÒç]
Ècpamx!; e:lc; 't'à &yta, Ebr. 9, 12 e prima già con 7tano-.e: ~ci.lv e:lc;
't'Ò Ènuyxcive:tv 1'.mè:p aÙ't'wv, Ebr. 7,25. Molto bene ha afferma-
to ]oachim Gnilka, e proprio riferendosi a Ebr. 9,11 s.: «L'ul-
teriore argomentazione della lettera agli Ebrei diventa com-
prensibile solo se si pensa al realismo con cui si parla del cielo,
del trono di Dio. Necessariamente se ne ricava perfino l'im-
pressione che il mondo celeste sia più reale di quello terreno ...
Il suo ministero di sommo sacerdote (se. quello di Cristo) si e-
stende fino al mondo celeste». 129 Non è forse di fatto l'assunto
fondamentale della fede cristiana che il mondo celeste sia «più
reale» - posto che si sia riflettuto su che cosa significa realtà a
partire da Dio?
128. Hengel, «Setze dich zu meiner Rechten!», 129 ss.
129. Gnilka, Theologie des NT, 382 (corsivo mio).
La lettera agli Ebrei 77
«Ciò che è stato finora esposto sul tema, viene ora in conclusione piut-
tosto riassunto, ancor più ribadito e perfino inasprito in modo addirittu-
raazzardato».130 Questa caratterizzazione di Ebr. 10,1-18 da parte di Ha-
rald Hegermann coglie nel segno. 131 Perciò non abbiamo più bisogno di
seguire nei dettagli il procedere della sezione, tanto più che abbiamo già
citato in diversi contesti alcune delle sue affermazioni. Tuttavia è oppor-
tuno porre ancora una volta alcuni accenti.
L'autore della lettera in Ebr. 10,1 mette in bella evidenza il suo pen-
siero platonizzante, mediato certamente dalla teologia giudaica alessan-
drina {cfr. anche per Ebr. 8,5; 9,23). Il nomos ha in sé solo l'ombra {axta
già in Ebr. 8,5) dei beni salvifici venturi, 132 non viceversa-ci sia consenti-
to tradurre con Erich Grasser - la vera forma delle cose stesse, oùx aù-
't~v 't~v elxova -tci>v 7tpayp.a-twv. ' 33 elxwv non è dunque qui, come nella
terminologia platonica (Tim. 92c), 134 la copia, la rispettiva concretizza-
zione nell'ambito del mondo sensibilmente percepibile, nell'ambito de-
gli ala.S'Yj-ta, bensì l'archetipo. ' 35 Abbiamo già richiamato l'attenzione
sulla prescrizione sacerdotale della tabnlt, Es. 2 s,40. Anche in Ebr. 10, r
questo pensiero biblico neotestamentario dovrebbe dunque essere espres-
so nell'orizzonte del pensiero giudaico ellenistico, e questo senza che in
tal modo vada perduto il contenuto biblico vero e proprio. Il pensiero
greco ellenistico, anche il pensiero platonico così volentieri disprezzato
nell'ambito della teologia evangelica, è quindi assolutamente in grado di
dar espressione ad affermazioni bibliche senza un'essenziale perdita del-
la loro sostanza. Qui non si dovrebbe procedere troppo sbrigativamente
col cosiddetto verdetto della metafisica. Naturalmente la concezione
platonica dei due mondi, del mondo delle idee e di quello delle loro co-
pie sensibilmente percepibili, è un modo di concepire il mondo di cui og-
gi per noi è evidente l'inadeguatezza e la parziale contraddittorietà. Tut-
130. Hegermann, ThHK, 19I.
lJI. Si veda anche Grasser, EKK xvn/2, 202: «Nel contenuto la sezione non va al di
là del cap. 9, ma nella forma sì. Infatti quello che vi si dice viene ancor più conferma-
to attraverso l'esegesi scritturistica nella forma del pesher-midrash».
132. I (J.ɰÀÀov'fa àya8a sono naturalmente i beni che alla visione del tempo propria
della legge appaiono soltanto come futuri. Nella visione dell'autore della lettera inve-
ce sono già presenti giacché egli vive già nel tempo escatologico.
133. Così ad es. Braun, HNT, 288; Grasser, EKK xvn/2, 200; H.-F. Weiss, KEK, 499;
Hegermann, ThHK, 192: «l'immagine essenziale delle cose stesse».
134. Cfr. sopra, n. 87.
135· Grasser, EKK xvn/2, 206: «Nella lingua non si asserisce l'opposizione di axia
versus dxù1v, ma di fatto sì, e anzi col contrasto fra apparenza e realtà, col quale la
teologia protogiudaica ellenistica (ad es. Filone) come pure la lettera ai Colossesi
(2,17) e quella agli Ebrei assumono l'eredità platonica ... La medesima distinzione di
&!xwv e r.payµ.aTa si ritrova in Plotino (Enn. 6,6,6: -.ouTo ò'iaTtv oùx EtKova 'fou
itp&yµ.a-.o~, ànà -.ò r.p<iy 1J.a aù'fo)».
Teologia biblica degli scritti neotestamentari
tavia non si tratta affatto di ripristinare oggettivazioni della concezione
del mondo, bensì di cogliere quello che costituisce l'impulso interno del-
la concezione platonica del mondo. Ed esso, detto in termini del tutto ap-
prossimativi, implica che la realtà data sulla terra non abbia in se stessa
la sua ragion d'essere. In linea di principio il teologo è necessariamente pla-
tonico in quanto non può ammettere il materialismo giudicandolo come
una concezione del mondo che riduce enormemente la realtà.
Se dunque dovrebbe essere incontestabile che l'autore della
lettera agli Ebrei si collochi nella storia degli effetti della filo-
sofia platonica e argomenti con concetti e rappresentazioni
platoniche, è parimenti da ribadire, come già si è anticipato, che
egli con questo suo pensiero platonizzante sottolinea la diffe-
renza fra l'antico cosiddetto ordinamento di salvezza e il nuo-
vo reale ordinamento di salvezza in un modo considerevolmen-
te più forte di quanto in Platone stesso s'incontri la differenza
ontologica. Infatti questi non giudica così negativamente il
mondo visibile, sensibilmente sperimentabile, come l'autore
della lettera valuta l'istituzione del culto espiatorio, propria
della legge levitica. Di nuovo ricorre in Ebr. 10,1 il concetto di
'te:Àe:twaa.t, così importante per l'autore: i sacrifici del culto
espiatorio veterotestamentario non conducono al perfeziona-
mento i partecipanti; sono dunque in ultima analisi completa-
mente inutili. Continuamente vengono offerti. Continuamen-
te si ripete il loro rituale da parte dei celebranti che compiono
il culto espiatorio. Eppure non ottengono nulla! La sezione di
Ebr. rn,1-4 si legge come l'esposizione di una continua, tragi-
ca illusione: si crede di procurare sempre di nuovo la salvezza
attraverso il culto levitico, ma non si fa che produrre anno do-
po anno il ricordo della perdizione, &.va(J-vriatç &.[J-a.p'ttwv, Ebr.
10,3.
In modo addirittura drammatico - bisogna appunto leggere
i testi teologici apparentemente così astratti nella concretezza
intesa dall'autore - dunque in modo addirittura drammatico si
spiega come venga proclamata dal cielo la fine di questo inuti-
le culto espiatorio. Entrando nel nostro mondo il futuro som-
mo sacerdote parla a suo padre divino recitando in preghiera ljJ
39,7-9 (Ebr. 10,5-7): «Non hai voluto sacrifici del culto! Non
hai gradito olocausti e sacrifici espiatori». Al loro posto su-
La lettera agli Ebrei 79
bentra Cristo per fare la volontà di Dio, ossia per compiere il
dono della vita da sommo sacerdote. Ciò è così interpretato
dall'autore della lettera nel v. 9: egli toglie il primo ordinamen-
to; lo abolisce per instaurarne uno nuovo.
Questa interpretazione non è però del tutto chiara. Chi toglie il primo or-
dinamento? Chi ne instaura uno nuovo? Gesù? 136 Dio? 137 La maggio-
ranza degli esegeti, come peraltro corrisponde al filo del discorso nel v.
9, 1 38 interpreta quale soggetto dell'espressione Gesù nella sua incarnazio-
ne. L'alternativa fra Dio e Gesù è però, presa nella sua rozza antiteticità,
troppo netta. Infatti se il figlio di Dio con la sublime autorità di suo pa-
dre si propone di abrogare e instaurare, ciò avviene certamente nel rico-
noscimento della volontà di Dio. In effetti Gesù dice esplicitamente di ve-
nire per compiere appunto la sua volontà.
Teologicamente è più importante l'affermazione àvmpe:i 't'Ò
7tpcinov (10,9): egli toglie la prima istituzione sacerdotale. Già
nel corso delle spiegazioni è emersa in effetti la pesante aporia:
benché il culto espiatorio levitico sia inutile e antiquato, sem-
bra fondarsi su un ordinamento, su un'istituzione salvifica di
Dio (òta-B~x:ri). E se qui sta àvatpe:i, «toglie», questa locuzio-
ne, a quanto sembra evidente, vuol dire che la prima Òta-B~x'YJ
con i suoi comandamenti del culto era valida fino a quel mo-
mento per autorità divina. L'aporia dunque rimane.
139. L'autore della lettera agli Ebrei scrive b òè: òbca:ioç p.ou anziché, come Paolo, b òè:
òbca:wç. Con ciò egli s'avvicina più di Paolo al testo dei LXX: b òè: òhca:wç È>< 7r1a-nwç
1J.ou (~a-na:i. Ancora diverso T.M.: w'~addiq be'emunato ji!Jjeh. Non sono chiari i
motivi per una modifica del testo dci LXX da parte dell'autore della lettera (se poi in
verità si tratta di una sua modifica!). Infatti non è suggerita dalla specifica direzione
assertoria della sua citazione. Egli inoltre adduce in ordine inverso Abac. 2,4a e 2,4b.
Anche a questo proposito è vero, come Hegermann, ThHK, 220 giustamente dichia-
ra, che l'intervento non implica alcuna alterazione dell'affermazione del testo e non è
in sé necessario per lo scopo dell'autore.
140. Serie di esempi nell'Antico Testamento: Sir. 44-50; Sap. 10.
La lettera agli Ebrei 81
12,1). La serie paradigmatica, com'è preparata dalla doppia ci-
tazione già esaminata di Is. 26,20 / Abac. 2,3 s., così è introdot-
ta dalla «definizione» 141 che vuol esprimere proprio quel mo-
mento essenziale della fede che è conforme allo scopo parene-
tico. Se la fede è anzitutto definita come ÈÀm~oµÉvwv U7tOcr't'cx-
crtc;, come «l'ipostasi dei beni sperati» (Ebr. 11,1), vi si esprime
primariamente l'orientamento di tutta l'esistenza verso l'atte-
sa, prossima parusia di Cristo, quindi la parusia di colui che
viene, dell'ipx6µevoc;, nominato nella citazione di Ebr. 10,37 s.
Poi però u7tocr't'cxcrtc; implica qualcosa sull'esistenza del creden-
te. Questo concetto con uno spettro in sé assai ampio di acce-
zioni non significa qui in nessun caso la fede come sostanza.
Se vi si indica solidità, essa è piuttosto quella del credente, sic-
ché fede e speranza diventano entità quasi identiche. Con ciò
s'intende quell'atteggiamento che «definisce» la fede veterote-
stamentaria, ossia il consolidar-si o il saper-si-consolidato in
Jahvé, he'emfn. La seconda determinazione della fede, 7tpcxyµa-
't'W\I EÀE)''X,Oç OÙ ~ÀE7tOfJ.É\IW\I, il fermo esser convinto di quelle
«cose» che non si vedono (u,1) significa qualcosa di simile.
Le due «definizioni» dicono infatti pressoché la stessa cosa. In
quanto però la fede è considerata secondo questa solidità, l'u7t6-
cr't'cxcrtc; partecipa della solidità di colui sul quale la fede poggia,
della solidità di Dio. Le «definizioni» del v. la superano dun-
que ogni pensiero che si articoli secondo lo schema di sogget-
to-oggetto. 141 Se però s'intende in questo senso ÈÀm~oµ.Évwv
14 I. Si discute che si possa parlare di definizione in senso proprio. Secondo Heger-
mann, ThHK, 222, l'autore offre «non una definizione che chiarisca da ogni lato il
c'oncetto della fede ... , ma piuttosto mette in evidenza fondamentali tratti essenziali
della fede in uno stile evidentemente definitorio». Dal canto suo H.-F. Weiss, KEK,
559 parla all'inizio semplicemente di definizione, poi però dichiara che questa
definizione non vuol designare l'essenza della fede in senso assoluto: «Ciò che qui è
dato non è una definizione astratta o assoluta che offra in quanto tale un 'elenco esau-
stivo di tutte le caratteristiche che spettano alla fede in senso religioso', bensì una de-
terminazione dell'essenza della fede considerata necessaria dall'autore della lettera in
vista della tentazione di fede cui sono esposti i suoi destinatari». In ogni caso non è una
definizione che voglia fissare la fede in concetti esatti e completi.
142. Per altre interpretazioni di Ebr. l l, l, talora differenti da quella qui presentata
solo per sfumature, si vedano i commentari. Kiister, ThWb VIII, 584-587 (GLNT XIV,
740-746) contesta l'interpretazione di Lutero il quale, contro tutta l'esegesi antica e
medievale che aveva tradotto urcoa-retatç con substantia (nel senso di oùalet), aveva in-
Teologia biblica degli scritti neotestamentari
d) Riepilogo
Se ora riepiloghiamo le spiegazioni sulla teologia della lette-
ra agli Ebrei, risulta una riflessione teologicamente approfon-
dita e ampia sulla soteriologia, considerata dal punto di vista
La lettera agli Ebrei
centrale del sommo sacerdozio di Gesù come abrogazione del
culto espiatorio levitico. La soteriologia è qui intesa come theo-
logia crucis, anzi come teologia la cui peculiare forza assertoria
consiste nel brusco distacco dall'Antico Testamento in quan-
to - certamente: solo in quanto - questo è concepito come la
legge mosaica o, più precisamente, come la legge cultuale espia-
toria all'interno della legge mosaica. Il contenuto di questa
theologia crucis è la redenzione dell'uomo peccatore che in tal
modo ha un nuovo essere - formulato più precisamente: è in
tal modo appunto questo nuovo essere.
Ma la teologia scritturistica della lettera agli Ebrei contiene
accanto a questa un'altra componente essenziale. La lettera pre-
senta infatti anche una decisa teologia della parola di Dio che
si manifesta già con ogni evidenza nella parte d'apertura di Ebr.
1,1-13. Questa è anzi per l'autore la novità del tempo escato-
logico iniziato con Cristo, Ebr. 1,2: bù:crxa'tou 'twv Yjp.e:pwv
'tOU'twv, che Dio ci abbia parlato attraverso questo figlio. A que-
sto punto si pone però la questione decisiva per l'intera visio-
ne teologica della lettera: quale rapporto c'è nella lettera agli
Ebrei fra la theologia crucis e la theologia verbi divini?
Si potrebbe tentare un'armonizzazione fra i due fondamen-
tali tratti teologici della lettera costruendo il nesso nella pro-
pria riflessione teologica e dicendo: la lettera è uno scritto pa-
renetico che mira alla fede, intesa come fede che si mantiene in
situazioni di persecuzione, quindi come fiducia in Dio nelle
angustie del tempo escatologico. La fede che così implica la
speranza nell'esserci celeste e la fiducia in Dio comporta però
anche nello stesso tempo la fede «nella» redenzione dal pecca-
to attraverso l'azione del sommo sacerdote Cristo che ha dato
nel sangue la sua vita sulla croce. Così sarebbe allacciato il nes-
so fra le due teologie appena menzionate. Una tale armoniz-
zazione è insita assolutamente nella teologia della lettera. Il le-
game interno fra le due teologie si può organicamente ricavare
dalla lettera. Nondimeno è appunto il nostro procedere com-
binatorio e la nostra interpretazione in tale combinazione che
produce questa sintesi teologica. La forma teologica della let-
tera in verità le corrisponde solo indirettamente.
86 Teologia biblica degli scritti neotestamentari
anche la critica alla legge cultuale della lettera agli Ebrei non
significa altro in linea di principio che il solus Christus e la sola
gratia. Il modo in wi l'autore della lettera agli Ebrei tratta la
legge cultuale è fondamentalmente solo una forma speciale del-
la critica paolina alla legge.
E le teologie dei due uomini s'avvicinano pure in un punto
essenziale in quanto ambedue sottolineano nel contesto della
loro critica alla legge la validità della Scrittura. Bisogna però
riconoscere che a Paolo interessa continuamente ribadire con
energia la Scrittura nel suo essere scritta, mentre l'autore della
lettera agli Ebrei mette in rilievo la parola detta, anche se egli
può averla naturalmente a disposizione solo come parola scrit-
ta. Ciononostante rimane in tutti e due una comune e peculia-
re intenzione: Scrittura, sì - legge, no. Che il no dei due autori
neotestamentari cambi in un parziale sì, è pure meritevole di
considerazione. Bisogna inoltre ammettere che la teologia del-
la giustificazione di Paolo non s'incontra così nella lettera agli
Ebrei. Tuttavia questo fatto dev'essere visto nella sua relazio-
ne, quindi nella sua relativizzazione attraverso i punti appena
menzionati. Anche nella lettera agli Ebrei ricorre poi il pen-
siero forense.
In conclusione: la concezione teologica della lettera agli Ebrei
è un grandioso abbozzo nello spettro complessivo della teolo-
gia neotestamentaria. Nella giusta prospettiva ermeneutica -
questa in verità è necessaria-questa lettera può ancor oggi spin-
gerci all'autentica riflessione teologica e a ulteriori sviluppi con-
cettuali.
CAPITOLO SESTO
I VANGELI SINOTTICI
dimeno sono soprattutto, come abbiamo già detto, l'espressione della ri-
spettiva concezione redazionale dei sinottici 4 • 5
1. Il vangelo di Marco
a) Vetus Testamentum
in Evangelio secundum Marcum
Nonostante ogni progresso negli studi sul vangelo di Mar-
co durante il ventesimo secolo, dobbiamo accordare a William
Wrede, col suo scritto pubblicato nel 1901, Das Messiasgeheim-
nis in den Evangelien (Il segreto messianico nei Vangeli), il me-
rito di aver determinato in modo così decisivo la discussione
sul più antico scritto evangelico che tutti i successivi lavori
scientifici su di esso si sono svolti e si svolgono alla sua om-
bra. Anche quelli che hanno respinto o respingono risoluta-
mente la sua visione, hanno pensato o pensano assolutamente
nel sistema di coordinate tracciato dal suo disegno. Wrede ha
messo in rilievo che Marco 6 non ha scritto una biografia di Ge-
sù.7 È vero. Wrede ha messo in rilievo che il vangelo di Marco
4. Un'eccezione particolarmente significativa è rappresentata dalle citazioni nella sto-
ria delle tentazioni in Mt. 4,1-11 /Le. 4,1-12.
5. A integrazione delle spiegazioni sulla teologia dei sinottici si veda il prospetto de-
gli studi di Lindemann, ThR; sui sinottici in generale: ThR 59, 41 ss.; su Marco: ivi,
IIJ ss.; su Matteo: ivi, 147 ss.; su Luca: ivi, 252 ss. Sulla questione dell'influsso sa-
pienziale è imprescindibile l'ampia monografia di von Lips, Weishcitlichc Traditio-
nen im NT. Un contributo degno di nota sul confronto strutturale dei vangeli sinot-
tici con tradizioni veterotestamentarie (ad es. la tradizione dell'esodo, la tradizione
del Sinai) è data da Swartley, Israel's Traditions and tbc Synoptic Gospels. Avrebbe
senso una discussione con questo libro solo se fosse condotta con ampiezza. Qui pe-
rò non è più possibile giacché il mio piano di presentazione della teologia sinottica
era già concluso prima che apparisse la monografia di Swartley. In lui si tratta di
un'impostazione strutturalmente diversa che tuttavia in alcuni passaggi coincide nel
contenuto con la nostra. Data l'impostazione metodologica diversa, non avrebbero
senso rimandi solo occasionali ad essa nelle note.
6. Per questo, come per gli altri vangeli, si mantiene qui anche a livello espressivo la
differenza fra l'autore e il suo scritto.
7. Benché non una biografia, tuttavia una narrazione. Giustamente afferma Strecker,
Zur Messiasgeheimnistheorie im Mk, 49: «Nella successione temporale della vita di Ge-
sù si manifesta la salvezza escatologica. L'evangelista non distingue; piuttosto l' avve-
nimento della salvezza è presentato come storia della salvezza». Cfr. anche Roloff,
EvTh 29, 143 ss. e lo studio eccellente di Ernest Best, Mark. The Gospel as Story.
I vangeli sinottici 93
rientra nella storia dei dogmi. È vero. Wrede ha messo in ri-
8
lievo che quel vangelo sta sotto l'idea guida del segreto mes-
sianico. È vero. 9 W rede ha messo in rilievo che alla concezio-
ne teologica del vangelo di Marco appartengono i comandi di
tacere e l'incomprensione dei discepoli. È vero. Wrede ha dato
una spiegazione - da lui stesso esplicitamente definita ipoteti-
ca ' 0 - al segreto messianico marciano: l'origine di questa idea
dipende dalla convinzione secondo cui l'inizio della messiani-
cità di Gesù sarebbe dato dalla risurrezione. Tuttavia a quel
tempo si sarebbe già riempita di contenuto messianico la vita
terrena di Gesù.'' Questa spiegazione però non è vera.
Dovremo dunque vedere diversamente nella loro connes-
sione intima, cioè teologica, gli elementi e i motivi del vangelo
più antico, riconosciuti giustamente da Wrede, dovremo dun-
que determinare in altro modo l'intera concezione del (cosid-
detto) segreto messianico che indubbiamente vi si trova. Il
concetto chiave, che è decisivo sotto questo aspetto, si chiama
anzitutto theologia crucis. Con esso si para dinanzi ai nostri
occhi la fondamentale concezione teologica del redattore Mar-
co. Se i vangeli, come li ha caratterizzati Martin Kahler, sono
«storie della passione con un'ampia introduzione», 12 ciò vale
particolarmente per il vangelo di Marco. Bisogna ancora evi-
denziare subito che per questo tratto teologico centrale del no-
stro scritto la problematica della teologia biblica è particolar-
mente feconda. È poi decisivo precisare che il «vangelo secon-
do Marco», come ha spiegato convincentemente Willi Marx-
sen, è, in quanto tale, un appello; esso va letto come predica-
zione e non è affatto un «resoconto su Gesù». ' 3 Egli rende an-
cor più netta la sua affermazione e coglie in tal modo il carat-
8. Chi vuol riservare il concetto di «storia dei dogmi» a un tempo successivo della sto-
ria della teologia può ben usare un altro concetto. Nella sostanza Wrede ha ragione.
9. Naturalmente si può discutere se «segreto messianico» sia la formula ottimale. An-
cora una volta: nella sostanza Wrede ha ragione!
ro. Wrede, Messiasgeheimnis, 229 (tr. it. 299): «Si considerino queste riflessioni come
un saggio, un tentativo. Io non affermo di aver presentato una dimostrazione che dis-
sipi ogni oscurità». 1 r. Op. cit., 228 (tr. it. 298).
12. Kiihler, Der sog. historische jesus und der geschichtliche Christus, 60 (tr. it. 94).
13. Marxsen, Der Evangelist Markus, 87 (virgolette nel testo); cfr. però n. 7.
94 Teologia biblica degli scritti neotestamentari
I8. Se Mc. 9,II-IJ dovesse trasmettere un colloquio autentico nel suo nucleo (io lo
suppongo, tuttavia non dipende da questa autenticità ciò che qui bisogna dire teolo-
gicamente), difficilmente il v. 12cd dovrebbe essere ascritto alla parte autentica della
pericope. La sequenza del colloquio è più limpida in Mt. I 7, IO-I zab (fino a Tj..9ÉÀ lJacxv).
I vangeli sinottici 97
richiama proprio a questa Scrittura, parimenti al Pentateuco, a un detto
dell'io di Dio, Es. 3,6. E non può mancare neppure !'«Ascolta Israele».
Gesù ribatte a chi lo interroga in Mc. I 2,28-34 richiamandolo insieme col
comandamento dell'amore a Dio, Deut. 6,4 s. E aggiunge subito il co-
mandamento dell'amore al prossimo, Deut. 4,35, sicché il massimo co-
mandamento diventa il doppio comandamento dell'amore.
Già all'inizio del vangelo, come abbiamo ricordato, s'incon-
tra ~ 2, interpretato così spesso cristologicamente. Dio stesso
ha proferito dal cielo ~ 2,7 riferendosi a Gesù come suo figlio.
In Mc. 12,36 si trova anche~ 109. Colui che in Mc. 1,11 è in-
terpellato come figlio di Dio cita~ 109,1 per legittimare in ba-
se alla Scrittura la sua dignità divina. Le spiegazioni alla lettera
agli Ebrei hanno già mostrato come ambedue i salmi in una
mutua appartenenza cristologica dominino l'argomentazione
teologica dell'autore della lettera. Nel vangelo di Marco i due
salmi stanno, per così dire, come conclusio: ~ 2,7 è proferito a
Gesù immediatamente prima della sua attività pubblica, men-
tre~ 109,7 è presentato come ultima citazione di Gesù nel cor-
so della sua attività pubblica. Le due citazioni dai Salmi inqua-
drano dunque l'attività di Gesù: con la prima si dice che egli è
il figlio di Dio e con la seconda questo figlio di Dio dichiara di
sedere in trono alla destra di Dio come sovrano divino, come
kyrios nella gloria divina.
Nel discorso apocalittico di Mc. 13 Gesù cita la Scrittura al-
l'insegna apocalittica. Ora s'incontra anche, in allusioni in par-
te chiaramente riconoscibili, il libro di Daniele (Dan. 2,28 in
Mc. 13,7; Dan. 12,12 in Mc. 13,13; Dan. 12,11 in Mc. 13,14 [-rò
~ÒÉÀuy[J-a -rljç Èpl](J-Wcre:wç]; Dan. 12,1 in Mc. 13,19; soprattut-
to Dan. 7,13 in Mc. 13,26). Inoltre si devono fra l'altro men-
zionare le seguenti citazioni o allusioni: Is. 19,2 in Mc. 13,8;
Mich. 7,6 in Mc. 13,12; Deut. 13,2 in Mc. 13,22; Is. 13,10 in Mc.
13,24; Is. 34,4 in Mc. 13,25; 19 Zacc. 2,10 e Deut. 30,4 in Mc.
13,27. C'è in ogni caso da registrare che per Marco Gesù parla
in modo apocalittico solo dopo la conclusione della sua attività
pubblica e si riferisce esplicitamente, anzi con rilievo a Daniele
I 9. I s. I 3, I o; 34,4 in Mc. 13,24 s. chiaramente come citazioni, benché senza formula quo-
tationis.
Teologia biblica degli scritti neotestamentari
20. J. Gnilka, EKK n/2, 1979, 322 (tr. it. Marco, Assisi 1987, 890): «È morto nella di-
sperazione Gesù? La valutazione teologica dell'intero salmo depone contro una tale
possibilità... La salvezza, annunciata nell'inno di ringraziamento del salmo (vv. 23 ss.),
testimonia però che la risurrezione, nella quale la comunità credeva, è il presupposto
per il quale si è descritta la passione di Gesù coll'aiuto di quel salmo». Esplicitamente
tuttavia Gnilka sottolinea: «Con ciò il grido dell'abbandono da parte di Dio, emesso
dal Crocifisso, non viene sminuito e mitigato» (ibidem). Cfr. anche Weiser, Theolo-
gie des NT, 74 s.
21. Feldmeier, Der Gekreuzigte im «Gnadenstuhl». A questo punto rinviamo anche
al suo studio Die Krisis des Gottessohnes, in cui è presa in considerazione la teologia
del vangelo di Marco a partire da Mc. 14,32-42.
22. Feldmeier, Der Gekreuzigte, 224; da Feldmeier messo in rilievo tipograficamente.
23. Al riguardo, op. cit., 224 s. 24. Op. cit., 225.
100 Teologia biblica degli scritti neotestamentari
2 5. Op. cit., 226. 26. Op. cit., 227. 27. Op. cit., 230.
I vangeli sinottici 101
qui il loro comune io. E che questo «io sono» - l'accento pog-
gia su io e nello stesso tempo su sono - debba essere inteso nel
senso dell'evangelista come un io con qualità trascendente, di-
vina, è indicato dal proseguimento della frase: «Vedrete il figlio
dell'uomo sedere alla destra della potenza (di Dio)». Lo ve-
drete «giungere con le nubi del cielo». Si ripresenta dunque l.jJ
109,1, questa volta però nel contesto di Dan. 7,13. Questo pas-
so con l'affermazione dell'elevazione riservata a colui che ha
figura d'uomo si fonde con l'affermazione non più superabile
dell'elevazione di l.jJ 109, 1. 28
Martin Hengel vede a buon diritto in Dan. 7,9-14 il più importante pa-
rallelo a Sai. 110,1, quindi a ljJ 109,r. Acutamente egli precisa che in Da-
niele mancano il decisivo motivo dell'intronizzazione e il titolo di «si-
gnore» per colui «che ha figura d'uomo».2 9
Hengel nota anche la rilevante differenza fra T.M. e LXX riguardo a
Dan. 7,13 s. (Dan. 7,13 s. -8' traduce T.M. più letteralmente che i LXX).
Il testo dei LXX dice:
xixl 1òoù È7tt 'twv ve:tpe:Àwv 't'ou oùpixvou
wc; u!Òc; àv-8pW7tOU ~fl'X,E't'O
XIXt Wc; 7tlXÀ.1XlÒc; "Ì][J.EflWV 7t1Xfl~V
XIXt Ot 7t1XflEO"'t'YJXO't'e:c; 7t1Xfl~Cl'IXV IXÙ't'ctJ
xixl Èoo.S'Yj IXÙ'tctJ Èçouatix.
In tal modo anziché «giunse all'antico dei giorni e gli fu presentato», si
dice «egli era come un anziano dei giorni, e i presenti erano presso di
lui», sicché bisogna riconoscere con Hengel che «l'enigmatico 'che ha
figura d'uomo' è ancor più strettamente congiunto all'anziano e al giu-
dice».30
Secondo Dan. 7,13 LXX l'wc; u!òc; àv-8pw7tou subentra «qua-
si al posto di Dio». 3 ' Bisogna concordare con Hengel anche
28. La tesi di una theologia gloriae che determinerebbe il vangelo di Marco è stata
elaborata da Hans Jiirgen Ebeling, Das Messiasgeheimnis und die Botschaft des Mar-
cus, 1939 nella prospettiva dell'epifania della gloria di Gesù. Heikki Raisanen, Das
«Messiasgeheimnis» im Mk, ritiene «che l'interpretazione secondo la storia della rive-
lazione in forma modificata sia quella meno gravata di difficoltà come spiegazione del
segreto messianico» (p. 165). Su questo concordo ampiamente con lui, anche se non
posso seguire il suo verdetto critico verso l' «interpretazione della teologia della cro-
ce», soprattutto non posso sottoscrivere il suo fondamentale giudizio: «Si deve in
ogni modo ammettere che nel più antico evangelista si abbia più un tradente e meno
un teologo o un ermeneuta di quanto gli studi recenti in genere abbiano presuppo-
sto,. (p. 168). 29. Hengel, «Setze dich zu meiner Rechtenf», l 58 s.
30. Op. cit., l 59. 3 r. Op. cit., l6r.
102 Teologia biblica degli scritti neotestamentari
36. Considero secondario u[ou .9tou con Nestle-Aland•s e contro Nestle-Aland' 6'' 7 •
37. Nella problematica della storia della tradizione non possiamo qui addentrarci. Si
veda al riguardo soprattutto Steichele, Der leidende Sohn Gottes, 43 ss.
38. Steichele, op. cit., 74: «I vv. 2 s. trovano il loro adempimento nella comparsa del
Battista... ».
39. Con rinvio a R. Pesch, HThK n/1, 1976, 76 (tr. it. Il vangelo di Marco I, Brescia
1980, 142).
104 Teologia biblica degli scritti neotestamentari
gelo come l'incontro col Dio che rivela il suo potere salvifico,
allora viene spontaneo comprendere il vangelo nel senso che
questo in virtù del suo esser predicato fa diventare efficace la
salvezza di Dio o, in altri termini, Dio vi si rende presente ri-
velando se stesso come salvezza. A questa comprensione s'a-
datta allora nel modo migliore l'interpretazione di 't'ou -8e:ou co-
me genitivo soggettivo, anche se certamente può risuonare in-
sieme il significato del genitivo oggettivo. Similmente dovreb-
be essere inteso anche in Mc. 1, 1 e:ùa.yyÉ:.Àtov 'I ricrou Xptcr't'ou.
Quanto siano fra loro teologicamente congiunti il vangelo e colui che è
predicato nel vangelo, ossia Gesù crocifisso e risorto è stato mostrato da
Willi M arxsen: Marco ha ampliato in Mc. 8,3 5 un originario eve:xe:v ȵ.ou
mediante xal 't'ou e:ùayye:À!ou. Questa aggiunta vuol essere un'interpre-
tazione, xa.1 è quindi epesegetico. 43 Similmente si dice in Mc. 10,29 E'lle:-
xe:v ȵ.ou xal eve:xe:v "t'ou e:ùayye:Àlou.
L'interpretazione epesegetica dell'evangelista, per di più con
un concetto del linguaggio missionario, implica dunque «che
per lui il Signore sia qui presente nel vangelo». Con ciò «il
vangelo è l'entità attuale che rappresenta il Signore». «Il van-
gelo è per Marco da un lato la forma (o una forma) in cui Ge-
sù si fa presente ... Dall'altro lato il vangelo (predicato) è rappre-
sentante di lui». 44 In questo senso Marxsen concepisce anche
l'intero vangelo a partire da Mc. 1,1 come un evangelo: «Ciò
però significa fin dall'inizio: l'opera va letta come predicazio-
ne, è in quanto tale appello, non 'resoconto su Gesù'. Che vi
affiori anche il resoconto è, sotto questo aspetto, quasi casua-
le».41 E così si dice giustamente: «In quanto però questa predi-
cazione avviene, si fa presente il risorto stesso». 46 Marco mo-
stra dunque una chiara e rilevante teologia della parola di Dio.
Se già il concetto del vangelo è teologicamente vicino a ciò
che ne pensa Paolo, questa vicinanza è ancor più sottolineata
dall'esigenza della fede in Gesù: mcr't'e:ue:'t'e: Èv 't'q> e:ùa.yye:Àtcp. 47
Probabilmente essa coincide con e:lç 't'Ò e:ùa.yyÉ:.Àwv; forse vi si
43. Marxsen, Der Evangelist Markus, 85; cfr. Gnilka, EKK 11/2, 22 {tr. it. 456 s.).
44. Marxsen, op. cit., 85 (corsivo mio). 45. Op. cit., 87. 46. Ibid. (corsivo mio).
47. Su Èv v. Soding, Glaube bei Mk, 141 s.: la preposizione congiunge fede fiduciaria
e fede di confessione; Èv è allora ben più dell'El<; usuale con ma't'euw.
I vangeli sinottici I 07
può percepire anche un certo sottotono causale. 48 In tal caso
l'esigenza di credere al vangelo predicato da Gesù significhe-
rebbe che questa fede è resa possibile dalla grazia di colui che
vi agisce essendo rappresentato dal vangelo. In realtà la fede
non si limita semplicemente a ritenere «vero» il contenuto del
vangelo: sarebbe troppo poco. Piuttosto questa fede è l'incon-
tro con colui che nell'attuarsi dell'incontro medesimo av-vera
se stesso nel credente. La verità in senso teologico ha sempre
carattere esistentivo.
La correlazione teologicamente importante di vangelo e fe-
de o, ancor più ampiamente, di Cristo, vangelo e fede riceve
però un ulteriore approfondimento. Infatti Gesù annuncia con
l'adempiersi del momento storicamente qualificato - 7tc.7tÀ~
pw'tcxt o xcxtpoc; - l'immediata vicinanza della signoria di Dio:
~yytxe:\I ~ ~cxcrtÀdcx 'tou .Se:ou, Mc. 1,15 (che nella sua predica-
zione prepasquale Gesù abbia fatto della basi/eia di Dio l'ar-
gomento centrale lo ricordiamo qui, ma non è ancora oggetto
di analisi). 49 In tal modo è proferito un termine essenzialmen-
te escatologico, espresso anche nelle parabole del seme che cre-
sce da sé (4,26-29) e del granello di senapa (4,30-32), ma anche
inequivocabilmente in Mc. 9,1. In questo senso è da compren-
dere anche il discorso dell'ingresso nella signoria di Dio, e:lcr-
e:À.Se:i\I e:lc; 't~\I ~cxcrtÀdcx\I 'tou .Se:ou (Mc. 9,47; 10,23-25). In
proposito bisogna richiamare soprattutto l'ultima affermazio-
ne sulla bocca di Gesù, ossia la prospettiva escatologica nel-
l'ultima cena di Mc. 14,2 5. Le preposizioni e:lc; e È\I, usate nel
vangelo di Marco per la basi/eia di Dio, la simboleggiano co-
me entità spaziale; ~yytxe:\I viceversa in 1, 1 5 esprime il mo-
mento temporale della sorpresa esistentiva. 10
48. E. Lohmeyer, KEK 1/2, 14 1957, 30 valuta se la locuzione lv i;cj> tùciyyù1ci> non
designi anziché l'oggetto della fede il suo mezzo e fondamento; ipotesi respinta da
Soding, op. cit., 142 n. 35.
49. Ciò avverrà solo negli epilegomeni in rapporto alla questione dell'importanza
teologica del Gesù terreno (cap. 4). Ora importa unicamente la comprensione mar-
ciana della signoria di Dio ossia il luogo teologico di questo «concetto» nel tutto del-
la teologia del vangelo di Marco.
50. Si veda quanto scriviamo negli epilegomeni, cap. 4 su spazio-tempo della grazia a
proposito della predicazione di Gesù sulla basi/eia.
108 Teologia biblica degli scritti neotestamentari
no capito nulla del fatto dei pani, où cruvijxav. Il loro cuore era
indurito. L'espressione xapola 7te:7twpw(J.ÉV"YJ, come può ricor-
darsi il lettore del vangelo di Marco, è identica a quella desi-
gnante il duro cuore dei farisei ed erodiani che volevano ac-
cantonare, eliminare Gesù, Mc. 3,6. I discepoli stanno dunque
dalla parte degli uccisori del figlio di Dio. Il peggio è però che
essi sono vittima di un'atroce autoillusione. Come I' «io» di
Rom. 7,5 7 i discepoli s'immaginano di essere, come seguaci di
Gesù, sulla via della vita, ma sembra proprio che si trovino in-
vece sulla via della morte.
La sequenza di Mc. 8,1-9 e Mc. 8,14-21 mostra il medesimo
quadro, ma con colori ancor più stridenti. Già anche soltanto
l'interrogativo dei discepoli in Mc. 8,4, su come si potrebbe
procurare nel deserto pane per la gran moltitudine, tradisce la
loro ottusità spirituale e religiosa. Come possono chiedersi ciò
se soltanto pensano alla prima moltiplicazione. 58 Ancor più
evidente diviene la teologia dell'incomprensione dei discepoli -
è teologia nel senso stretto del termine e non ad esempio psi-
cologia - nel triplice passo di particolare importanza, Mc. 8,
27-37; 9,30-37; 10,32-45.
In Mc. 8,27-37 Pietro quale primo nella cerchia dei dodici
proferisce la confessione dogmaticamente corretta: «Tu sei il
messia», v. 29. Che tuttavia non l'abbia fatto con correttezza
dogmatica è mostrato dalla sua reazione all'interpretazione che
Gesù dà di questa confessione in lui come messia, come «Cri-
sto», pertinente nella formulazione, quindi dalla sua reazione
ali' annuncio che questi come figlio dell'uomo dovrà soffrire,
morire e risorgere, vv. 31-33. Pur avendo espresso esattamente
il suo credo, non ne ammette come valida l'interpretazione di
Gesù ed è perciò nel suo giudizio Satana. Pietro non vuol ac-
cettare la morte di Gesù e nel suo rifiuto non ascolta la paro-
polo». Mc. 7 si trova in ogni caso fra Mc. 6 e Mc. 8, quindi fra i due rac-
conti della moltiplicazione dei pani. In essi Gesù è descritto come il
buon pastore secondo il salmo 2 3. Se però qui Gesù assolve il suo dove-
re di buon pastore saziando gli affamati e questo saziare in verità indica
metaforicamente il saziare con la parola del vangelo, allora non è di cer-
to il popolo quello al quale si pensa col biasimo divino in questa parte del
vangelo.
Irrilevanti per la questione presente sono le seguenti citazioni sulla
bocca di Gesù: Es. 20,12 / Deut. 5,16 (decalogo) e Es. 21,17 in Mc. 7,10;
Deut. 24,1.3 e Gen. 1,27 e 2,24 in Mc. 10,4.6; Es. 20,12-16 / Deut. 5,16-20
in Mc. 10,19.
72. Gnilka, EKK u/2, 129 (tr. it. 612); analogamente D. Liihrmann, HNT 3, 1987, 193:
Non si tratta «meramente di una 'purificazione' del tempio da immoralità finanziarie
o di altro genere .. ., bensì di un'altra determinazione della funzione del santuario di
Gerusalemme: non un tempio determinato dal sacrificio, bensì una sinagoga senza
sacrifici (7tpoaEU'X,~ è termine tecnico in questo senso), aperta ai 'pagani', non solo agli
israeliti». In questo contesto egli rinvia a Hengel, Proseuche.
73. Nonostante le obiezioni suscitate da più parti - si può rimanere alla classica for-
mulazione di Ernst Kasemann, Das Problem des historischen ]esus, 207 (tr. it. 50):
«Ma chi nega che l'impurità entra nell'uomo dall'esterno intacca le basi e il testo della
torah, nonché l'autorità dello stesso Mosè. Inoltre, attacca i presupposti di tutta la
realtà cultuale antica, con la sua prassi del sacrificio e del!' espiazione. In altri termini,
elimina la distinzione, fondamentale per tutta l'antichità, tra il temenos, la sfera del
sacro, e la profanità, e può quindi porsi tra i peccatori. Per Gesù all'origine dell'im-
purità nel mondo c'è il cuore dell'uomo. Che il cuore umano divenga puro e libero:
ecco la salvezza del mondo e l'inizio del sacrificio che piace a Dio, l'inizio del vero
culto, come dirà soprattutto, sviluppando l'argomento, la parenesi paolina». Cfr. an-
che Hiibner, Das Gesetz in der synoptischen Tradition, 158 ss.
74. Gnilka, EKK u/2, 118 s. (tr. it. 596): «Abbiamo a che fare con una formazione
cristiana che presuppone per Gesù la filiazione davidico-messianica. Egli entra nella
sua città realizzando le promesse messianiche. Tuttavia non viene per soddisfare atte-
se politiche». Ma si veda Liihrmann, HNT, 189.
126 Teologia biblica degli scritti neotestamentari
2. Il vangelo di Matteo
a) Lo stato della questione
Che proprio il vangelo di Matteo debba essere giudicato particolar-
mente uno scritto che espone l'evento di Cristo in rapporto all'Antico
Testamento è un presupposto incontestato per quasi tutti i commentari
e le monografie che propongono come tema teologico questo «primo»
84. Ibidem. 85. Op. cit., 227.
86. Mi sono più volte espresso criticamente verso l'interpretazione data da Mussner a
Rom. u,26. Mi compiaccio invece di concordare con lui su quanto dice a proposito
del vangelo di Marco rispetto alla separazione della chiesa da Israele; Mussner, Das
NT als Dokument fur den AblOsungsprozess der Kirche von lsrael, 165 s.
I vangeli sinottici 131
vangelo. Significherebbe portare acqua al mare se ancora si volesse ap-
positamente giustificare il fatto che questo rapporto avvenga sotto un
duplice aspetto, ossia mediante le cosiddette citazioni di riflessione o di
adempimento e mediante il motivo tematicamente dominante della leg-
ge. Se però qui nell'ambito di tutti i vangeli sinottici vogliamo mettere
in rilievo i contorni teologici del vangelo di Matteo, è opportuno, prima
di un'esposizione che precisi i due aspetti centrali, chiarire la modifica
apportata dall'evangelista Matteo al complessivo disegno teologico di Mar-
co. Infatti emergono inconfondibilmente frammenti del cosiddetto se-
greto messianico di Marco - proprio nel loro carattere frammentario -
che sulla base della volontà di Matteo di conferire una forma teologica
nel quadro della sua complessiva concezione mostrano un nuovo volto
all'interno di un sistema mutato di coordinate teologiche. Questa fram-
mentazione della concezione marciana del segreto messianico è un ulte-
riore indizio della correttezza della teoria delle due fonti.
Funzione costitutiva per la teologia del vangelo di Matteo hanno le
citazioni di adempimento. Riguardo alla terminologia Heinrich julius
Holtzmann distinse in questo vangelo due specie di citazioni veterote-
stamentarie: le citazioni di riflessione, che sono aggiunte a un racconto e
riflettendovi lo commentano in quanto adempimento di una promessa
profetica, e le citazioni di contesto, che sono esse stesse elemento inte-
grativo di un racconto. 87 Oggetto di ulteriore indagine esegetica diven-
nero allora le citazioni di riflessione. Giacché nella loro rispettiva for-
mula quotationis si parla dell'adempimento di ciò che era stato detto da
un profeta (elemento fondamentale: tva/8rcwç rcÀYJpw,9.ii [o: 't'o't'e: ÈrtÀY)-
pw,9.YJ] 't'Ò pYJ,9.È:v [urcò xupiou] òtà 't'ou rcporp~'t'ou ÀÉyov't'oç), Wilhelm Roth-
fuchs nel 1969 con la sua monografia Die Erfullungszitate des Matthdus-
Evangeliums ha coniato il concetto di 'citazione di adempimento' (in in-
glese: fulfilment formula). Nella letteratura di lingua inglese è ampia-
mente in uso fino ad ora la semplice espressione formula quotationis,
ma essa è troppo poco specifica riguardando ogni citazione introdotta
con una formula quotationis.
Non c'è accordo sul numero preciso di citazioni di adempimento. In
ogni caso sono da annoverare fra di esse: Mt. 1,22 s.; 2,15.17 s.23; 4,14-
16; 8,17; 12,17-21; 13,35; 21,4 s., 27,9. Si discute in modo controverso su
2,5 s. (nessuna forma di rcÀYJpow; cosiddetta citazione di contesto); 3,3 e
I r,10 (riferimento al Battista anziché, come capita altrove, a Gesù; nes-
suna forma di rcÀYJpow); 13,14 s. (interpretazione postmatteana? unica ci-
tazione di adempimento in bocca a Gesù; quasi perfetta concordanza
col testo dei LXX). Mt. 2,5 s. e 3,3 non dovrebbero essere giudicate cita-
zioni di adempimento; se invece 13,14 s. fosse testo originario di Mat-
teo, cosa poco probabile, allora in effetti questa citazione, benché addot-
88. Allen, ET 12, 281 ss. 89. Voi. 1, 74. 90. Hanhart, ZThK 81, 400 ss.
91. Kilpatrik, The Origins of the Gospel according to St. Matthew: il vangelo di Mat-
teo come rielaborazione liturgica del vangelo di Marco.
92. Burkitt, The Gospel History and its Transmission e Harris, Testimonies.
I vangeli sinottici 133
sarebbe specificamente tagliata per il contesto narrativo delle pericopi in
questione. Naturalmente con ciò non si contesta affatto che al tempo
della stesura del vangelo esistessero già nelle comunità cristiane raccol-
te di testimonianze. Tuttavia la specifica combinazione delle citazioni di
adempimento o il loro specifico riferimento al rispettivo contesto evan-
gelico sono così fatti che se le si volessero svincolare dal contesto non
costituirebbero più una sensata raccolta di testimonianze.
Dinanzi a tali aporie l'ipotesi di Krister Stendahl della scuola di Mat-
teo93 dovrebbe essere uno dei tentativi di spiegazione più interessanti e
degni di discussione. Se con Emst von Dobschutz 94 si ammette che l'e-
vangelista fosse un rabbi convertito e avesse preso parte attiva alla vita
della chiesa, questo «equivale a dire che nella chiesa di Matteo era all'o-
pera una scuola». 95 Questa scuola era «una scuola per maestri e guide
ecclesiali e per questa ragione l'opera letteraria di questa scuola assume
la forma di un manuale per l'insegnamento e l'amministrazione all'in-
terno della chiesa».96 L'interpretazione della Scrittura praticata in essa è
vista da Stendahl come «il tipo matteano dell'interpretazione midrashi-
ca», «esso s'avvicina molto ... al midrash pesher della setta di Qumran».97
La peculiare rielaborazione dei testi delle citazioni di adempimento del-
la scuola di Matteo dovrebbe pertanto essere vista in analogia al com-
mento di Abacuc in 1 QpHab, nel quale fu operata con libertà creativa
«una violazione del testo corrispondente» di Abacuc. 98 «Le citazioni
con formulasi sarebbero allora formate all'interno dello studio delle Scrit-
ture da parte della chiesa matteana, mentre la forma del resto sarebbe com-
plessivamente quella del testo palestinese dei LXX». 99 L'ipotesi di Sten-
dahl è quindi assolutamente in grado di fornire una spiegazione plausi-
bile al fatto della differenza fra la specie testuale delle citazioni di adem-
pimento e quella delle altre citazioni nel vangelo di Matteo. Tuttavia in
alcuni punti nevralgici offre il fianco dal canto suo alla critica.
Anzitutto Berti! Gartner 100 ha potuto addurre argomenti considere-
voli mostrando che la tesi di Stendahl di un uso assai libero del testo di
Abacuc suscita notevoli perplessità. Infatti è possibile che la comunità
di Qumran abbia posseduto un proprio testo del profeta minore che era
identico a quello presentato in 1 QpHab. Di portata ancora maggiore è
però la sua obiezione all'interpretazione delle citazioni di adempimento
nel vangelo di Matteo partendo dal commento pesher ad Abacuc: questa
specie di interpretazione nei commentari di Qumran si fonderebbe su
un legame testuale continuativo (o sorgerebbe in CD da sezioni testuali
precedentemente fissate), mentre l'interpretazione scritturistica del van-
93. Stendahl, The School of St. Matthew. 94. von Dobschiitz, ZNW 27, 338 ss.
95. Stendahl, op. cit., 30. 96. Op. cit., 35. 97. Ibidem.
98. Op. cit., 193; cfr. inoltre 190 ss. 99. Op. cit., 195·
loo. Gartner, StTh 8, l ss.
134 Teologia biblica degli scritti neotestamentari
103. Stendahl, op. cit., 34. 104. Gundry, The Use of the OT in St Matthew, 5.
I vangeli sinottici 135
rante il ministero terreno di Gesù s'incaricava di prendere nota e le sue
note fornirono la base della massa di tradizione apostolica evangelica ...
Matteo prendeva nota e dal suo materiale attinsero i sinottici». 105 La sua
conclusione: «Matteo fu il suo proprio targumista e impiegò una cono-
scenza delle tradizioni testuali ebraiche, aramaiche e greche dell'Antico
Testamento». !06 Tuttavia anche se si prescinde dalla tesi insostenibile
che Matteo abbia stenografato le parole di Gesù - già anche soltanto l'e-
same da lui condotto della forma testuale delle citazioni, come Gundry
se la rappresenta, non può eliminare la discrepanza fra le citazioni, qual
è ora oggetto di discussione, al massimo la può solo un po' attenuare. 107
Anche secondo George M. Soares Prabhu le formulae quotationis del
vangelo di Matteo hanno tutte «lo stesso carattere adattivo, diretto al con-
testo», perciò sarebbero «libere traduzioni targumiche dell'originale e-
braico per opera di Matteo in vista del contesto in cui le ha inserite». 108
La sua analisi, certamente assai breve, delle citazioni di contesto può si-
curamente stimolare a una maggiore prudenza rispetto a un'affermazio-
ne troppo ardita secondo cui i LXX costituirebbero la Bibbia di Matteo.
Tuttavia non gli è riuscito di provare che non esistano due forme testua-
li di citazioni veterotestamentarie nel vangelo di Matteo che in linea di
principio sarebbero differenti.
Il prospetto degli studi qui presentato e necessariamente incompleto
mostra che per ora non c'è una soluzione davvero convincente al pro-
blema del diverso modo di presentarsi delle citazioni di Matteo. Al mo-
mento dobbiamo accontentarci di un insoddisfacente non liquet e que-
sto nonostante il fatto che difficilmente in un altro ambito esegetico si sia
lavorato con tanta acribia filologica come proprio nell'analisi delle cita-
zioni di Matteo. Presumibilmente il processo di formazione di questo
vangelo, che alla fine deve essere visto come l'opera di un singolo, è più
complicato di quanto si possa evincere dai dati particolari in nostro pos-
sesso. È probabile che Stendahl con la sua tesi della scuola di Matteo,
pur non avendo ancora potuto risolvere il problema, abbia almeno visto
qualcosa di giusto e abbia indicato la giusta direzione.
b) La teologia di Matteo
Matteo non è interessato al segreto messianico di Marco. È
più che discutibile se nel vangelo di Marco, che appunto era
uno dei documenti scritti a sua disposizione, abbia assoluta-
mente capito quello che l'evangelista più antico intendeva con
105. Op. cit., l 82 s. Op. cit., 172.
106.
op. cit., 147-150.
107. Cfr. soprattutto il riepilogo,
108. Soares Prabhu, The Formula Quotations, 104.
Teologia biblica degli scritti neotestamentari
Le citazioni di adempimento
Matteo ha in verità ripreso e rielaborato un pensiero teolo-
gico centrale di Marco giacché le citazioni di adempimento
sono pure centrali per la sua intenzione teologica. Marco in
Mc. 1,2 s. aveva posto tutto il suo scritto sotto una citazione di
adempimento e così, nonostante ogni squilibrio in singoli casi
qua e là, gli aveva conferito un'impressionante compattezza
teologica e unità interna. Matteo viceversa ha fatto di questo
precedente dato dell'unica citazione di adempimento tutta una
serie di simili citazioni. In tal modo egli ha palesemente sotto-
lineato il pensiero dell'adempimento, ma nello stesso tempo
non ha più potuto conferire a ogni singola citazione l'identico
peso teologico che la citazione in Mc. 1,2 s. aveva nella con-
cezione marciana. A ciò s'aggiunge che la distribuzione delle
citazioni di adempimento all'interno del vangelo di Matteo
non avviene nelle stesse proporzioni; soltanto la storia dell'in-
fanzia ne mostra quasi la metà.
109. Cfr. quanto si è detto sopra, p. 131, sulla frammentazione della concezione mar-
ciana del segreto messianico ad opera di Matteo.
110. In Bornkamm-Barth-Held, Oberlieferung und Auslegung im Mt, 48-53.
nulla dalla teoria delle parabole e l'ha invertita perciò nel suo
contrario.
Anche la citazione di Is. 29,13 LXX in Mt. l 5,8 s. non è una formale ci-
tazione di adempimento. Tuttavia per Matteo - come già prima per Mar-
co - è un detto profetico che prevede il comportamento irritante del po-
polo (6 ÀcxÒc; ou'toc;) e nello stesso tempo lo smaschera. I «partner della di-
scussione» di Gesù sono però i farisei e gli scribi di Gerusalemme, non
il popolo stesso.
Una citazione di adempimento in senso formale è ancora Is.
62,1 l / Zacc. 9,9 in Mt. 21,5. Solo Matteo inserisce questa cita-
zione nella pericope dell'ingresso di Gesù in Gerusalemme.
Di nuovo una citazione di adempimento ha qui un intento cri-
stologico. Interpellata è la figlia di Sion, quindi Gerusalemme,
più precisamente: gli abitanti di Gerusalemme: il tuo re viene a
te. Gesù è il sovrano di Gerusalemme. La sua dignità regale si
fonda però - con una singolare rottura delle consuete rappre-
sentazioni di un re - sulla sua mansuetudine, come illustra vi-
sivamente il suo cavalcare su un'asina e(!) un puledro. ' 37 For-
se ha ragione Gnilka quando nella concisione della citazione
di Zaccaria ' 38 intravede per l'evangelista l'intenzione di porre
al centro dell'attenzione la mitezza del re. ' 39
Anche la citazione di «Geremia» (citazione composita che ha alla base so-
prattutto Zacc. l 1,12 s.) in Mt. 27,9 ha un intento cristologico: Gesù do-
veva essere tradito per trenta denari d'argento. Tuttavia non si esprime
più nulla di essenzialmente nuovo per la cristologia di Matteo mediante
questa citazione.
137. Quanto al fatto di cavalcare su due animali ci si è abbandonati a molta fantasia. W.
Grundmann, ThHK l, 1968, 449 ritiene possibile nel senso dell'evangelista la soluzio-
ne di Origene, secondo cui l'émivw txÙ'!wv non è da riferire ai due animali, ma ai ve-
stiti posti sui due animali. Gnilka, HThK l/2, 202 s. (tr. it. Il vangelo di Matteo II, Bre-
scia 1991, 302) no.n vede in Matteo uno scrittore sprovveduto; per questo egli al caval-
care su due animali avrebbe «connesso un'idea precisa, ad esempio che Gesù ha uti-
lizzato il puledro, più basso dell'asina, per appoggiarvi i piedi». «In ogni caso gli asini
si cavalcavano in modo tale da tenere entrambe le gambe dalla stessa parte». Mal' evan-
gelista ha davvero pensato qui così concretamente? Tuttavia è vera l'affermazione di
Gnilka (p. 203 [tr. it. 302]) secondo cui per l'evangelista è più importante l'adempi-
mento letterale del detto profetico, nella cui interpretazione egli ha frainteso (di pro-
posito?) il parallelismus membrorum. Abbondantemente speculativo è Rothfuchs, Er-
fullungszitate, Boss.
138. L'asina si trova solo nel contesto del vangelo di Matteo (Mt. 21,2: 011011 Òi:.Òi:.-
fLt\IY)\I), non nel testo dei LXX. 139. Gnilka, HThK l/2, 203 (tr. it. 302).
I vangeli sinottici 149
Se riguardiamo retrospettivamente alle citazioni di adempi-
mento del vangelo di Matteo, possiamo complessivamente met-
tere in risalto la loro funzione cristologica. Se si giustappongo-
no sinotticamente, esse non mostrano tuttavia una concezione
cristologica compatta.
Questo deficit traspare sintomaticamente nel seguente dettaglio. Per Mar-
co il battesimo di Giovanni era un battesimo di conversione per la remis-
sione dei peccati, t!c; èicptatv &µ.ap't"twv, Mc. 1,4. Per Matteo invece que-
sto fine del battesimo era teologicamente insostenibile. Così egli cancel-
la dc; èicptatv &µ.ap't"twv e inserisce questa locuzione nella pericope del-
l'ultima cena. Secondo Mt. 26,28 il sangue di Gesù è versato per i molti
dc; èicptatv &µ.ap't"twv. Per Matteo dunque una remissione dei peccati è pos-
sibile solo a partire dalla croce, dalla morte espiatrice di Gesù. Allora pe-
rò ci si potrebbe aspettare che l'evangelista per un pensiero teologico co-
sì centrale abbia utilizzato come citazione di adempimento un testo trat-
to da Is. 53. Come abbiamo evidenziato, Is. 53 ricorre sì nella citazione
di adempimento di Mt. 8,17, ma in un contesto del tutto diverso. Chie-
dersi perché Matteo abbia in tal modo usato questo capitolo teologica-
mente così eminente del Deutero-lsaia, è a mio avviso una domanda o-
ziosa giacché una risposta si potrebbe dare solo in maniera molto specu-
lativa.
Le citazioni di adempimento hanno quindi significato strut-
turale per l'esposizione dell'avvenimento di Cristo da parte del-
l'evangelista, ma non coprono affatto con pienezza la sua cri-
stologia. Non si devono perciò sottovalutare, ma neppure so-
pravvalutare rispetto alla cristologia di Matteo.
Evidente è stata anche la loro funzione per l'ecclesiologia di
Matteo. In esse e in altre citazioni che sono almeno da situare
nella vicinanza teologica delle citazioni di adempimento, è e-
merso come Israele si sia giocato la sua prerogativa teologica e
ora la chiesa divenga il nuovo popolo di Dio. Nelle citazioni
di adempimento o di riflessione la cristologia e l'ecclesiologia
procedono dunque insieme mano nella mano.
142. In questo senso, pare, anche Qumran ha inteso «i poveri di spirito» (1 QM 14,7;
l QH 14,3). Gnilka, HThK 1/1, 121 (tr. it. 191) spiega acutamente in questo senso Mt.
5,3: è l'atteggiamento spirituale verso Dio nel quale sia a Qumran sia anche secondo
Mt. S.3 si attende ogni aiuto da Dio. «'I poveri nello spirito' sono quindi anch'essi co-
loro che si reputano mendicanti davanti a Dio, che sanno di non poter provocare a
forza l'avvento del regno dei cieli, ma che dev'essere Dio a concederlo loro. Questa in-
terpretazione non è mutuata da Qumran: può fondarsi anche su analogie all'interno
del vangelo, in primo luogo sulla scena introduttiva, composta dall'evangelista, del-
l'ammaestramento della comunità con la presentazione del bambino (18,1 ss.)».
152 Teologia biblica degli scritti neotestamentari
146. Ciò vale anche per la prima, un'antitesi che inasprisce la torà, Mt. j,21-26. Se qui
si parla del dono sacrificale e dell'altare, ciò avviene non proprio per l'avvenimento
cultuale. Il tono poggia inequivocabilmente sulla riconciliazione.
147. Secondo il discorso della montagna è il massimo incremento dell'amore, ossia l'a-
more del nemico. In esso si dimostra quello a cui può arrivare l'amore nella sua ulti-
ma conseguenza.
154 Teologia biblica degli scritti neotestamentari
148. Con questa formulazione ho precisato quanto ho detto in Das Gesetz in der syn-
optischen Tradition, 84 ss. 149. Bacon, Studies in Matthew, 81.
150. Stendahl, The School of St. Matthew, 24: «Nella convincente trattazione di Ba-
con riguardo a Matteo come vangelo quintuplice questa idea non è più un parassita
sul debole ramo delle parole di Papia, interpretate in modo eccessivo. Essa poggia su
di sé». Poco dopo però (p. 27) si mostra cauto rispetto alla possibilità di compiere una
precisa suddivisione (a detailed division) del vangelo in cinque libri fra loro connessi.
I vangeli sinottici 155
re introdotta per dar colore al suo vangelo». 151 Aggiunge tuttavia: «Ma
è pure da notare l'uso limitato che egli fa dei motivi del nuovo esodo e
del nuovo Mosè. Le prove a favore della presenza di questi due temi non
sono abbastanza convincenti da costituire una solida base all'ipotesi dei
'cinque libri' avanzata da Bacon, non del tutto priva di fondamento, ma
ancora discutibile. Questi motivi hanno senza dubbio influito sul vange-
lo di Matteo, ma non si può dire che l'abbiano chiaramente foggiato o mo-
dellato nel suo complesso». 1 s> Espressamente si dice: «Non vi sono espli-
citi riferimenti al monte Sinai; in 5,1 non appaiono analogie con la narra-
zione del cap. 19 dell'Esodo, in cui viene data la legge al popolo d'Israe-
le, come invece ne appaiono e vengono sviluppate in Ebr. 12,18 ss.; né
in altro punto del testo considerato, salvo le espresse citazioni della leg-
ge in Mt. 5,21 ss., vi è riferimento diretto agli avvenimenti del Sinai. Le al-
lusioni al Sinai stesso sono estremamente caute, se pure esistono». 113 La
conclusione: «Gesù non è tanto un Mosè che viene come messia, quanto
f,iuttosto un messia - figlio dell'uomo, Emmanuele - che ha assunto la
unzione mosaica. Il sermone sul monte è pertanto ambiguo: fa pensare
alla legge di un nuovo Mosè, ma è anche la parola piena d'autorità del Si-
gnore, del messia: è la torà messianica». 154
167. In Mt. 17,1 opo<; sta senza articolo. Perciò non è sicuro che lo possiamo vedere in
una linea teologica con Mt. 5,1; 28,16. Dal punto di vista del contenuto tuttavia c'è
una probabilità non minima (v. Gnilka, HThK 1/1, 109 [tr. it. 174]).
168. Holtz, Untersuchungen uber die atl. Zitate bei Lk, 169.
169. Op. cit., 170. 170. Op. cit., 171 s.
I vangeli sinottici
zione della citazione che egli presenta in modo fedele ai LXX e che rice-
ve «l'auspicato ampliamento universalistico». 171 Egli cita quindi Am. 9,
I 2 secondo il testo A dei LXX (+ èiv e 'tÒV xuptov, forse anche 6 davanti
a 7tOtwv). Martin Rese è però giustamente critico con Holtz nel rilevare
che la fedeltà di Luca al testo dei LXX non è proprio così grande come
quello sostiene. 172 Con una serie di passi egli ha potuto in ogni caso mo-
strare che Luca nelle sue citazioni «altera più o meno fortemente il testo
dei LXX sia per adattare le citazioni al contesto sia per render conto del-
la sua concezione teologica». 173 Allora però si toglie qualcosa della sua
forza probante all'argomentazione di Holtz secondo cui Luca non a-
vrebbe conosciuto il Pentateuco poiché ne adduce le citazioni con più
grande discrepanza dal testo dei LXX rispetto alle citazioni dei libri so-
pra nominati. In un caso o nell'altro rimane assodato che almeno alcune
citazioni del Pentateuco hanno subito una peculiare modificazione ri-
spetto al testo dei LXX. È singolare ad esempio che si citi il noto passo
di Es. 3,6 in verità due volte in modo differente non solo da Es. 3,6 LXX,
ma anche fra loro (Atti 3,13; 7,32). Deut. 18,15 (ss.), pur di centrale im-
portanza cristologica, è fortemente modificato in Atti 3,22 s. e 7,37 in
un modo di volta in volta diverso senza che ciò sia necessariamente fon-
dato nell'intenzione di Luca. L'ipotesi avanzata da Holtz rimane, a ben
vedere, almeno degna di considerazione. Meritevole di discussione è pe-
rò anche la tesi proposta da E. Earle Ellis del «modello pesher in un nu-
mero di citazioni dell'Antico Testamento in Atti 2 e Atti 13, di cui tut-
te sono escatologicamente applicate al presente». 174 Per Anthony T. Han-
son Luca è «più un portavoce delle interpretazioni di altri intorno alla
Scrittura che uno che indaga la Scrittura da se stesso»; 175 se questo è ve-
ro, dev'essere seriamente valutato almeno per i prospetti storico-salvifici
tracciati nel discorso di Stefano e nella prima predica di Paolo.
Si dovette pure richiamare l'attenzione su alcune particolarità delle for-
mulae quotationis negli Atti degli Apostoli. Dei profeti minori Gioele è
chiamato per nome in Atti 2,16: 'tÒ dpY)µ.Évov òtà 'tou 7tpocp~'tou 'lo~À,
per i due altri profeti minori, Amos e Abacuc, invece si parla dei profeti
al plurale senza indicarne il nome: xa.Swc; yÉypa7t'tat Èv ~t~ÀCJl 'twv 7tpo-
cp'Y)'twv, Atti 7,42 (Am.); 'tÒ e:lp'Y)µ.Évov Èv 'tote; 7tpocp~'tatc;, Atti 13,40 (Ab.);
o! À6yot 'twv 7tpOcpY)'tWV xa.Swc; yÉypamat, Atti 15,15 (Am.). L'espressio-
ne ~t~Àoc; 'twv 7tpOcpY)'tWV in Atti 7,42 intende il libro dei dodici profeti
minori? In ogni caso il plurale è usato solo per i profeti minori. Formal-
mente vi corrisponde la formula quotationis di Atti 1,20 yÉypa7t'tat yàp
Èv ~t~Àq> ljJaÀµ.wv, con cui si introducono 4 68,26 e 108,8. Isaia è citato
una volta col nome, ma si indica esplicitamente come parlante vero e pro-
171. Op. cit., 21 ss. 172. Rese, Atl. Motive in der Christologie des Lk, 211 ss.
173. Op. cit., 104. 174. Ellis, Prophecy and Hermeneutic, 202.
175. Hansen, The Living Utterances of God, 89 (corsivo mio).
Teologia biblica degli scritti neotestamentari
prio lo Spirito santo: xcùwç -rò 7t\IEU[J-a -rò aytov ÈÀaÀ"f]O"E\I òtà 'Hcrafou
-rou 7tpocp~-rou 7tpÒç -roùç 7tao:Épaç uµ.wv ÀÉywv, Atti 28,2 5 s.; in Atti 7,48 in-
vece Isaia è introdotto solo con xa.Swç 6 7tpocp~-t"f]ç ì..Éye:t. Isaia è il pro-
feta? In Atti r 3,34 viceversa per una citazione di Isaia si nomina come
parlante Dio: o(hwç Etp"f]xe:v, e similmente poco dopo in Atti r 3,47, pure
per una citazione di Isaia: oihwç yàp ÈnÉ-raì..-rat ~µ.~v 6 xuptoç. Dio ri-
corre pure come parlante in Atti 3,25, benché in un accenno che si rife-
risce al discorso di Dio ad Abramo (Gen. 22,r8); similmente in Atti 7,3
per Gen. r 2, r e Atti 7,6 per Gen. r 5>13 s. (qui però in discorso indiretto
alla terza persona singolare anziché alla seconda persona come nei LXX);
parimenti in Atti 7,3 r con ÈyÉve:-ro cpwv~ xupiou è citato il passo impor-
o
tante per Luca di Es. 3,6 e in Atti 7'33 con e:l7te:v òè: aù-refi xuptoç Es. 3,5
e Es. 3,7.8.ro. Per le citazioni dei salmi si cita spesso come parlante Da-
vide (Atti 2,25.34; 4,25). Del tutto singolare, e tale da andar oltre il qua-
dro del Nuovo Testamento, è la speciale introduzione di tji 2,7: wç xal
Èv -refi tjiaì..µ.efi yÉypamat -refi òe:u-rÉpcp, Atti r 3,3 3. Nei due casi in cui si cita
Deut. r 8 si nomina come parlante Mosè (Atti 3,22; 7,37).
Merita quindi osservare che, a quanto risulta, Luca sia più interessato
nelle citazioni formali della Scrittura a evidenziare come parlanti (conti-
nuamente ricorrono forme di ÀÉye:tv o ÀaÀe:~v) importanti figure vetero-
testamentarie come Davide, Mosè o Isaia o perfino Dio stesso oppure lo
Spirito santo. Delle più di venti citazioni solo cinque sono introdotte da
una formula quotationis con la locuzione yÉypa7t-tat. Evidentemente il ca-
rattere scritto delle citazioni è per Luca di secondaria importanza.
ti Anna e Caifa, Le. 3,2). Negli Atti degli Apostoli s'incontrano pure
importanti figure politiche dell'impero romano (ad es. l'imperatore Clau-
dio, Atti I 8,2; il proconsole Galli on e, Atti I 8, I 2 ss.; il procuratore ro-
mano Felice, Atti 24; il re Agrippa e la regina Berenice, Atti 25,13 ss.).
184. Kiimmel, op. cit., 84 s. 185. Minear, Luke's Use of the Birth-Stories.
186. Cfr. al riguardo i commentari che pur con differenze nelle singole questioni con-
cordano in ciò.
168 Teologia biblica degli scritti neotestamentari
187. In proposito Mussner, Cath(M) 46, 229 ss. Giustamente qui (p. 238) si dice che
Maria stessa vive del tutto nell' «universo semantico» del suo popolo Israele; il rinvio
agli autori lì citati (n. 33) è però poco proficuo.
188. H. Schiirmann, HThK m/1, 1969, 47 n. 53 (tr. it. Il vangelo di Luca r, Brescia
1983, 140 n. 53). ·
I vangeli sinottici
207. In verità gli apostoli hanno dimenticato Le. 24,47 s. Stranamente i commentato-
ri, come ad es. E. Klostermann, HNT v, 11975 e Wiefel, ThHK III, 1988, 417 nell'e-
segesi di Le. 24,47 s. non affrontano la differenza con Atti ro. Naturalmente questa
«dimenticanza» non si può interpretare psicologicamente. Qui c'è una disarmonia
dell'autore biblico.
208. F. Bovon, EKK m/r, 1989, 20: «Luca utilizza una forma del vangelo di Marco
che si discosta solo lievemente da quella canonica. In verità egli sorvolò inspiegabil-
mente su Mc. 6,45-8,26». No, questa omissione non è «inspiegabile», è irrinunciabile.
209. Hiibner, Das Gesetz in der synoptischen Tradition, 185 ss. (dove si esamina an-
che il rapporto di Le. r r,37 ss. con Mt. 23).
2ro. Forse Luca non ha ripreso la disputa di Mc. 10,2 ss., giacché lì si contrappongo-
no Gen. r,27 e 2,24 alla determinazione della legge di Deut. 24,r, egli invece vuol evi-
tare nel suo vangelo tutto ciò che anche lontanamente nella predicazione del Gesù ter-
reno possa far pensare all'abrogazione della legge mosaica.
I vangeli sinottici 181
211. Cfr. Le. 18,17. 212. Cfr. Atti 22,12: EÙÀtx~~c; Ktx~à ~Ò'I vo1.1.ov.
«Così io sono qui come testimone per i grandi e i piccoli e non dico
nient'altro se non quanto avevano predetto i profeti e Mosè come avve-
nimento futuro, cioè che il Cristo avrebbe dovuto patire se, primo ri-
sorto dai morti, doveva essere proclamato quale luce per il popolo e i
pagani». L'espressione qiwc; ... -refi n Àcxcf> xcxl -rote; E-Bve:cnv si trova in ve-
rità del tutto sulla linea del pensiero teologico proprio del Paolo storico
che appunto in Gal. 1, 1 5 si era richiamato a ls. 49, 1 LXX, a un passo nel
cui contesto si dice, Is. 49,6: !òoù -rWe:txa ae: e:!c; qiwc; Wvwv -rou e:f vcxl ae:
e:!c; crW't'Y)plcxv ~wc; è:axa-rou Tijc; yijc;.2 10 Per tutto quello che Luca propo-
ne a partire da Atti 16 è vero ciò che dice Conzelmann per Atti 2 I, 2 3:
«Corrisponde alla comprensione lucana della chiesa, alla continuità fra
lsraele-giudeocristianesimo-etnicocristianesimo» e in proposito egli cita
esplicitamente il decreto apostolico.2 11
La riflessione che da ultimo rimane determinante per la teo-
logia missionaria di Paolo, quindi la vera e propria riflessione
di teologia missionaria da parte di Luca si trova alla fine degli
Atti. Paolo in Atti 28,25 dichiara che lo Spirito santo - questi
proferisce quindi la parola teologica decisiva, questi «ha l'ulti-
ma parola», questi non solo ha determinato la missione paoli-
na, ma dice anche alla fine ciò che conta - aveva già parlato ai
«vostri» padri per bocca del profeta Isaia e cita poi - lo udia-
mo di nuovo - /s. 6,9 s., ossia le parole profetiche che costi-
tuiscono la teoria marciana della parabola e per le quali biso-
gna notare che Luca, a differenza di Matteo, fa proprio in Le.
8,10 il finale t\la del documento a sua disposizione (Mc. 4,12).
La citazione in Atti 28,26 s. da àxo'fl fino al termine, se si prescinde da pic-
cole differenze (ad es. + cxù-rwv dopo il primo 'tote; wcr(v, àxoucrwcrtv in-
vece di àxoucrwcrt), concorda col testo dei LXX, quindi proprio con quel-
la sezione del testo che contiene anche la citazione probabilmente se-
condaria 111 in Mt. 13,14 s. Invece per le prime parole della citazione da
7tope:u-8Y)'t't fino a e:!7tov,1 13 che mancano in Mt. 13, non si trova una con-
cordanza letterale della citazione di Luca col testo dei LXX.
La questione teologicamente decisiva è ora se l'indurimento
espresso nella citazione sia il risultato dell'a~ione divina (b:a-
220. La differenza è che secondo Atti 26,23 la luce è il risorto, secondo Gal. r,r 5 è
Paolo. 22r. Conzelmann, HNT, r3r.
222. Stendahl, The School of St. Matthew, 131.
223. Holtz, Untersuchungen uber die atl. Zitate bei Lk, 36 mette in conto la possibi-
lità che il primo versetto provenga letteralmente dai LXX pur mostrando una forma
che altrove non è attestata.
I vangeli sinottici
e che per costui trova una sua soluzione nel senso che natural-
mente ogni singolo giudeo come ogni pagano continua a man-
tenere la possibilità di giungere alla fede. «I giudei si sono sì
giocati la loro preminenza, ma come singoli non sono per sem-
pre es cl usi». 228
Allora Luca avrebbe indubbiamente condiviso con Paolo il
«prima al giudeo, poi al greco» di Rom. 1,16, ma non il capo-
volgimento da lui operato a mo' di chiasmo in Rom. 11. La fi-
ducia paolina di Rom. 11 ,26 «Dio salverà tutto Israele» non tro-
va appiglio nel piano di storia della salvezza di Luca. Se in Atti
28,24 alcuni giudei si lasciarono convincere da Paolo sulla fede
cristiana, ciò s'adatta bene all'interpretazione offerta da Gnil-
ka riguardo ad Atti 28. Nondimeno - e ciò è costitutivo per il
pensiero teologico di Luca - sono Mosè e i profeti che Paolo
adduce a testimoni per Gesù, Atti 28,23. In questo senso anche
il «tempo della chiesa» è pur sempre il «tempo della legge e
dei profeti» (v. Le. 16,16). In quest'ultima epoca della storia
della salvezza stanno per così dire l'uno accanto all'altro il
Dio della promessa e il Dio dell'adempimento. La Scrittura
del Dio della promessa, che era la Scrittura del popolo giudai-
co eletto, diventa attraverso l'incredulità dei giudei la Scrittura
della chiesa. La conseguenza del passaggio della salvezza dai
giudei, popolo un tempo privilegiato dalla grazia della chiama-
ta divina, ai pagani è espressa da «Paolo» - e quindi da Luca -
nel v. 28: l'incredulità colpevole dell'antico Israele diventa la
condizione per cui la salvezza di Dio, -.ò Cl'W'r~pwv 'rOU -Be:ou,
s'indirizzi ai pagani con un carattere definitivo non più revo-
cabile. Ed è sicuro: essi ascolteranno! Questo pensiero con-
clusivo della duplice opera lucana mostra la meta verso cui si è
diretto l'autore neotestamentario: la storia missionaria dei pri-
mi decenni porta alla perdita tragica, definitiva della salvezza
da parte del popolo giudaico che si è colpevolmente giocato il
suo carattere israelitico donatogli da Dio mediante la chiama-
ta. Ancora si afferma nel Nuovo Testamento e con ogni chia-
rezza: la chiesa subentra al posto di Israele. Anche Luca so-
stiene incontestabilmente e con ogni evidenza la cosiddetta
228. Gnilka, Die Verstockung lsraels, 154.
I vangeli sinottici
e) La soteriologia di Luca
Un giudizio di Philipp Vielhauer ha trovato ampio consen-
so: «Del significato salvifico della croce di Cristo non si parla
mai [in Luca]>>.2 30 Si noti che questa affermazione si trova nel
suo saggio: Il 'paolinismo' negli Atti degli Apostoli. L'inten-
zione è chiara: Luca ha in comune con Paolo teologicamente,
soprattutto soteriologicamente, tanto quanto nulla! Mentre
per l'apostolo delle genti la «croce» è il giudizio sull'umani-
tà intera e al medesimo tempo la riconciliazione, xa.'ta.ÀÀa.y~
(Rom. 5,6-1l;2 Cor. 5,14-21), secondo Atti l 3 la crocifissione è
229. Schille, ThHK, 479. 230. Vielhauer, Zum «Paulinismus» der Apg, 22.
188 Teologia biblica degli scritti neotestamentari
diante il suo Cristo, v. 36: «Pace sia con voi!». Di nuovo Ge-
sù, a partire dal v. 44, dice in linea di principio proprio quello
che già prima aveva spiegato per via ai discepoli di Emmaus.
Certamente ora Gesù è più preciso. Adesso la parola pasquale
di Gesù di Le. 24,44 fa da pendant alla parola prepasquale del-
la predica di N azaret di Le. 4,2 I. Al 7tE7tÀ ~pw't'at lì proferito
corrisponde qui il 7tÀ ripw-8ijvat. Dev'essere adempiuto, con-
formemente al «deve» divino, tutto ciò che sta scritto «su di
me» nella legge di Mosè, nei profeti e nei salmi. Di nuovo non
può sfuggire la terminologia ermeneutica, v. 45: dopo la sua
affermazione col òe~ Gesù «apre» - ancora il verbo Òtavolyw -
la mente dei suoi discepoli, Òt~vod;ev aÙ't'wv 't'Òv vouv 't'OU cruv-
tÉvat 't'àç ypacpaç. Si può parafrasare il versetto come segue:
Gesù sottrae i discepoli alla prigione di una facoltà di giudizio
puramente immanente trasferendoli nell'ambito di una com-
prensione che può essere prodotta solo dallo Spirito santo. È
il Cristo determinato dallo spirito di Dio che fa partecipare i
suoi discepoli al pneuma di cui è dotato secondo Is. 61,I. Qui
si anticipa un po' della festa di pentecoste di Atti 2, anche se la
ricezione dello Spirito santo è annunciata solo per un evento
futuro. Infatti secondo il v. 49 Gesù dice loro che manderà lo-
ro la promessa di suo padre, 't'~v È:7tayyeÀtav 't'ou 7ta't'poç µou.
Questa promessa è per essi la forza di Dio, òUvaµtç. L'anti-
cipazione prolettica della pentecoste fa sì che i discepoli com-
prendano ora con «mente aperta» le Scritture. Comprenderle
significa però comprendere che il Cristo soffre e il terzo gior-
no risorge dai morti (cfr. Le. 24,26). L'anticipazione prolettica
della pentecoste fa inoltre comprendere ai discepoli che a tutti
i popoli è predicata la conversione per la remissione dei pec-
cati nel nome di Gesù. Di nuovo si potrebbe obiettare che
242
anche qui non si dice esplicitamente nulla sul come di una for-
za eventualmente redentrice della morte in croce di Cristo. E
bisogna ammettere che un'interpretazione di Le. 24,44-49 tale
da rimanere immanente alla pericope di fatto non fornisce al-
cuna spiegazione soteriologica di questa morte. Una simile in-
242. Che la locuzione dç mina '!à è:·.9'1'1] di Le. 24,47 sia in tensione con Atti 10 s. è
già stato detto.
194 Teologia biblica degli scritti neotestamentari
f) Epilogo
Magnificat e Benedictus
Riguardo ai brani poetici del Magnificat e Benedictus, Luca, come già
si è detto, li ha ricavati dalla sua tradizione pur apportandovi alcuni in-
terventi redazionali. Discussa è l'origine dei due inni, discussa è anche
l'identità di quella che parla nel Magnificat. A partire da Volter 243 si di-
scute se l'orante intesa dall'evangelista non sia Elisabetta. Così ha giudi-
cato anche Adolf von Harnack che in verità non ha voluto congetturare
in Le. 1,46 xal d7tEV 'EÀtaa~E't, ma ha supposto un semplice xal dm:v. 244
243. Valter, ThT 30, 224 ss. 244. von Harnack, Das Magnificat der Elisabet.
Teologia biblica degli scritti neotestamentari
Tuttavia i migliori argomenti sono per Maria come parlante nel Magni-
ficat. 245 Allettante per l'ipotesi di Elisabetta è certamente il fatto che il mo-
tivo della 't'am:ivwcrti:; s'adatti piuttosto alla situazione di Elisabetta, giac-
ché il testo di riferimento veterotestamentario è palesemente la preghie-
ra di Anna in r Sam. 1,1 I. Questa donna lì supplica perché le venga eli-
minata l'onta della sterilità.2 46 Quando però in Le. 1,48 si dice «d'ora in
poi tutte le generazioni mi esalteranno», ciò si fonda piuttosto sulla di-
gnità di Maria come madre del messia,2 47 come madre del figlio di Dio
la cui signoria non avrà fine, Le. 1,32 s., piuttosto che sulla grazia con-
cessa a Elisabetta.
Un buon prospetto sinottico del testo del Magnificat e dei paralleli
nei LXX rimane sempre quello di Erich Klostermann.2 48 Grazie ad esso
si può ottenere nel modo migliore per il nostro inno uno squarcio di ve-
tus Testamentum in novo receptum. Ora il nostro compito non può es-
sere quello di interpretare ogni singolo parallelo. Ci sia perciò consenti-
to solo di evidenziare i tratti significativi. È noto che nell'Antico Testa-
mento donne divenute madri in situazioni straordinarie hanno cantato
la loro maternità con inni di giubilo. Questo è il caso soprattutto del
canto di lode di Anna in r Sam. 2. Tuttavia in questo contesto dovrebbe
essere ricordata anche Lea, madre di quattro figli, Gen. 29,31-35.
Più importante è però il fatto che il Magnificat presenti af-
fermazioni soteriologiche assai significative. Vi si ritrova l'eco
dell'annuncio soteriologico dell'angelo Gabriele, Le. 1,30 ss.
Maria dopo aver cantato nell'inno di giubilo la grazia conferi-
tale, mette in luce l'azione di Dio verso Israele, l'azione dun-
que del Dio che mostrerà la sua misericordia, è:Àe:oc;, a tutte le
generazioni future di Israele qualora lo temano, Le. 1,50 / ~
102,17; essa canta l'azione del Dio che è il Dio forte, Le. 1,51:
È7tOt l]cre:v xpa'toc; iv ~pax,lovt aù'tou / ~ 117, 1 5: òe:~tà. xuplou È-
7tOt~cre:v òuvixfJ-t\I (contesto v. 14: dc; crw't'Y]ptixv). Da mettere in
particolare rilievo è però quell'azione di Dio mediante la quale
capovolge radicalmente i rapporti storici: ha rovesciato i po-
tenti dal trono e innalzato gli umili, Le. 1, 52. E di nuovo è il
canto di lode di Anna che può essere citato come parallelo, 3
Bacr. 2,7 s.:
245. Buona raccolta degli argomenti in Schiirmann, HThK m/1, 72 ss. {tr. it. 174 ss.).
246. 1 lltxa. 1,11: iàv Èm~ÀÉ7tWV Èm~ÀÉ.jiriç È7tL 't'~v 't'tx7ttivwatv 't'i)ç òouÀl]ç aou xtxl
1.1.vl]a..9flç IJ.OU xtxl òcj>ç "TI ÒoUÀTJ aou am:p1.1.tx .Xvòpùiv...
247. Schiirmann, HThK m/1, 74 (tr. it. 177). 248. Klostermann, HNT, 18 s.
xupto<; 7t't"W'X,tl:Et xal 7tÀOU't"tl:Et,
't"C17tWIOt XClt àvuljJoi.
' .. 7tEV1J't"Cl
' ' Y'YJ<;
- C17t0
ClVtCl"'t"lf '
XClL à7tÒ X07tptC1<; ÈyetpEt 7t't"W'X,ÒV
xa.Stcrat µ.e't"à òuvacr't"wv Àawv
xal .Spovov ò0~1J<; xa't"axÀ 1Jpovo1.1.wv aùwiç.
249. Per gli altri paralleli cfr. Klostermann, HNT, 19: Giob. 12,19; Ez. 21,26; <li 106,9.
250. Schiirmann, HThK m/1, 76 {tr. it. 180 s.).
Teologia biblica degli scritti neotestamentari
rallelo a /s. 66, 1 s. nel senso di un controcanto agli annunci di Aggeo (Agg.
2,19), secondo cui al compiersi della costruzione del tempio sarebbe ini-
ziato il tempo della salvezza 161 - posto che con ls. 66, 1 s. sia espressa sem-
plicemente una critica al tempio così moderata e relativizzata-, il rinvio
del Trito-Isaia al cielo come trono di Dio e alla terra come sgabello per i
suoi piedi, come pure la conclusione tratta: «Quale casa potete dunque
costruirmi?» verrebbero radicalizzati da Luca nel senso di una critica al
tempio in linea di principio. In tal modo egli rendendo assoluta la teolo-
gia della creazione enunciata dal Trito-Isaia contro la teologia del tem-
pio avrebbe espresso il no di Dio al tempio e quindi alla comprensione
cultuale della religione da parte di Israele.
Si interpreti pure ls. 66,1 s. come Westermann o diversa-
mente - è incontestabile che Luca ha compreso questo passo
nel senso di un'assoluta critica al tempio.
261. C. Westermann,jesaja 40-66, ATD 19, 4 1981, 327 s. {tr. it. 489 s.).
CAPITOLO SETTIMO
IL VANGELO DI GIOVANNI
1. Osservazioni introduttive
Per il vangelo di Giovanni le questioni scientifiche introduttive sono
oltremodo difficili come, si può dire, per nessun altro scritto del Nuovo
Testamento. Ad essere fino ad oggi vivacemente discussi sono soprat-
tutto problemi di critica letteraria e di storia redazionale. Il dibattito
metodologico arriva fino al punto da far registrare un fondamentale di-
saccordo sul fatto che in assoluto la via della critica letteraria, peraltro
messa al centro della sua esegesi da parte di Bultmann - proprio come
teologo - sia metodologicamente adeguata a questo scritto evangelico.
Mentre Rudolf Bultmann - per menzionare qui solo la questione più im-
portante sotto l'aspetto teologico - ha messo in conto interpolazioni da
parte della cosiddetta redazione ecclesiale, volta a relativizzare I' escato-
logia al presente dell'evangelista (ad es. Gv. 5,24 s.) con l'aiuto di affer-
mazioni di escatologia al futuro (ad es. Gv. 5,28 s.) e inoltre a corregger-
la con affermazioni sacramentali (ad es. Gv. 6,51b ss.),' Martin Hengel
ad esempio respinge decisamente le soluzioni di critica letteraria finora
proposte. Contro di esse ci sarebbe la sorprendente unità dello stile e del
mondo di rappresentazioni religiose, come pure la personalità dominan-
te dell'autore, un maestro teologico con un'ampia tensione dialettica e
una grande forza di integrazione.' Da ultimo però anche Hengel ha as-
sunto un atteggiamento verso la critica letteraria più positivo di quanto
prima appariva dal momento che parla dell'opus imperfectum dell'evan-
gelista che sarebbe stato concluso dopo la sua morte e questo per mano
- la voce di uno che grida nel deserto». Ciò significa che egli è
solo questa voce, una voce però che in ogni caso grida con for-
za: «Preparate la via del Signore!». Questo xupwc; non è, come
nell'Antico Testamento, Dio padre, bensì Gesù Cristo. La te-
stimonianza che il Battista dà di se stesso è quindi nello stesso
tempo la sua testimonianza della dignità divina di Gesù. Il Bat-
tista dice quindi nella prima citazione del vangelo chi è Gesù.
Egli in quanto -8e6c; è pari al -8e6c;, è kyrios divino; a lui spetta
come al padre l'esser-kyrios.2 9
Come in Mc. l,2 s., ls. 40,3 LXX è la prima citazione del vangelo. La
differenza significativa è che in Mc. l,2 si dice xa.Swç yÉypa7t-rat Èv -refi
'Hcrata -refi 7tpocp~'!'(], mentre in Gv. l,23 xa.Swç e:lm:v 'Hcra\'aç ò 7tpocp~
'!'r'Jç. Il profeta parlò; con le sue parole parla ora il Battista. Marco pre-
senta la citazione come sua propria citazione di riflessione o di adempi-
mento, Giovanni invece fa proferire al Battista con autorità e con l'uso
del proprio io le parole del profeta veterotestamentario. Perciò il quarto
vangelo modifica a ragion veduta il testo profetico aggiungendo Èyw (v.
sopra). La convergenza fra i due vangeli nell'addurre come prima cita-
zione ls. 40,3 LXX non deve necessariamente implicare che Giovanni co-
noscesse il vangelo di Marco.
La spiccata superiorità del Cristo sul Battista è messa in risalto pro-
prio da questi. Già prima della sezione l,19 ss., che inizia con xal au'!'r'J
fo-rlv ~ iJ.ap-rup(a -rou 'Iwavvou, l'evangelista in Gv. l,l 5 ha citato la te-
stimonianza del Battista: «Colui che viene dopo di me ha maggior digni-
tà di me», 30 7tpw-roç 1J.ou ~v. Con ~v si esprime inequivocabilmente la pre-
esistenza. Il Battista sapeva quindi della preesistenza di Cristo, ossia del
suo essere divino dai primordi. In verità però anche la propria esistenza,
cioè quella del Battista, rientra nell'adempimento del tempo messianico.
Lui stesso è preannunziato nella Scrittura. E lo sa. E così è anche ovvio
che egli sappia altrettanto bene riguardo al messia preannunziato nella
Scrittura; che egli dunque nella sua familiarità con la Scrittura sappia chi
è questo messia (cfr. Gv. 5,39).3'
29. È improbabile che l'evangelista abbia ignorato il fatto che il testo di Is. 40,3 LXX
col suo 't~v Oòov xup1ou si riferisse a Dio (nel senso di ò SEoç). Piuttosto dovrebbe qui
già preparare l'affermazione teologica culminante di Gv. 10,30: «lo e il padre siamo
una cosa sola».
30. Così interpreta EfJ.ltpoo-SÉv IJ.ou yÉyovEv ad esempio R. Schnackenburg, HThK 1v/1,
'1967, 249 s. e 249 n. 7 (tr. it. Il vangelo di Giovanni I, Brescia 1973, 346 s. e 347 n. 172).
3 1. Si discute fin dove si estenda la testimonianza del Battista nel prologo. Di regola
vi è computato solo Gv. r, r 5; diversamente giudica Hanson, The Prophetic Gospel,
27 ss.: la confessione del Battista termina col v. r 8.
Il vangelo di Giovanni 2I 5
Il Battista però conosce l'identità divina di Gesù non solo mediante la
Scrittura. Dio stesso glielo ha detto (Gv. 1,33: Èxi::'tvoc; fi-Ot d7tev). Egli ha
dunque udito ciò che Dio gli ha detto su Gesù; e ha visto ciò che Dio ha
fatto a Gesù. Lo spirito di Dio è stato il segno visibile di Dio su di lui (v.
33: Èq/8v &v tÒTJc;). Alla familiarità del Battista con la Scrittura s'aggiunge
quindi la sua familiarità con Dio stesso. E così egli attesta come uno che
ha veduto. Come il fl-<Xpi:upi::tv di Gesù ha il suo corrispondente nel fl-<Xp-
i:updv del Battista, così l'éwpaxi::v di Gesù di Gv. 1,18 nell'éwpaxa del
Battista di Gv. 1,34.
· Sì discute sul concreto riferimento veterotestamentario della parola
del Battista, Gv. 1,29: tÒE b à:(J-vÒc; i;ou -Bi::ou b a'{pwv i;~v cXfi-<Xpi:lav 'l:OU xocr-
fi-OU. Secondo Bultmann il titolo «agnello di Dio» è difficilmente scelto
in relazione a Is. 53,7, bensì piuttosto all'agnello pasquale. 32 La maggior
parte degli esegeti però vede a buon diritto in questo versetto la conflu-
enza di differenti tra.dizioni. Che la rappresentazione. ~ell'agne.llo pa-
squale alla fine del pnmo secolo potesse formare un'unita teologica rap-
presentativa e concettuale con l'espiazione vicaria di Is. 53 è non solo
comprensibile sullo sfondo della tradizione liturgica della cena, ma è an-
che naturale espressione dello sviluppo storico della tradizione ecclesia-
le. Si può certamente precisare che i verbi in oòi:oc; i:à.c; cXfi-<Xpi:tac; Tif!-ciiv
qiÉpi::t di Is. 53,4 e b atpwv i:~v &.1.1.api:tav i:ou xocr(J-OU di Gv. 1,29 differi-
scono nel contenuto in quanto atpi::tv, in senso stretto, significa il pren-
der-su-di-sé le pene delle colpe, non l'assunzione vicaria della colpa. 33 È
però più che dubbio che l'evangelista in 1,29 volesse distinguere così
nettamente atpi::tv da qiÉpi::tv. Se il Battista in Gv. 1,29 indica Gesù come
agnello di Dio, b à:(J-vÒc; i:ou -Bi::ou, dovrebbe essere abbastanza sicuro il
richiamo a ls. 53,7: wc; 7tpo~ai:ov È7tt crcpay~v ~'X.'8lJ xal wc; à:fi-vÒc; Èvantov
i:ou xdpovi:oc; a&tòv &cpwvoc;. 34
Is. 40,3 LXX in Gv. 1,23 conduce dunque già, come prima
citazione del vangelo, nel centro dell'affermazione teologica
fondamentale dell'evangelista. Il Battista nella sua persona e
predicazione si dimostra come l'inizio dell'attuazione storica
dell'avvenimento della salvezza. La sua testimonianza profeti-
ca è identica alla sua autocoscienza kerygmatica: egli esprime
32. Bultmann, KEK, 66 n. 7.
33. Cfr. al riguardo i commentari e qui il punto c.
34. Giustamente Hanson, The Prophetic Gospel, 33: «Sembra assai probabile che si
riferisca direttamente a Is. 53,4-7,._ A proposito di aipwv in Cv. 1,29 egli suppone che
l'evangelista, giacché ni' (T.M.) è reso nei LXX sia con cpÉpeiv, sia anche con atpeiv,
abbia letto nella sua edizione greca dell'Antico Testamento in Is. 53,4 aipei anziché
cpÉpei. A mio avviso, se si tien conto della confluenza di differenti tradizioni sopra ri-
cordate (liturgia e scrittura), questa ipotesi non è necessaria.
216 Teologia biblica degli scritti neotestamentari
duco da questa idea ulteriori conseguenze teologiche per non sovraccaricare con essa
importanti affermazioni sulla teologia di Giovanni. In questa nota ci permettiamo
però di dire francamente: le parole programmatiche salus ex I udaeis non si confanno
alla teologia giovannea. Barrett, KEK, 225 e altri contestano che si tratti di una glos-
sa. Giacché però qui in fondo interpretiamo il testo biblico definitivo, riveste solo un
interesse secondario per il nostro intento stabilire se la locuzione discussa risalga o no
all'evangelista. 41. Cfr. sotto, pp. 226 s. e passim.
42. Barrett, KEK, 255. 43. Voi. 1, 213 ss.
e) Gv. 3: l'innalzamento del serpente e del figlio dell'uomo
Il capitolo terzo è teologicamente molto denso. Nel dialogo con Ni-
codemo si parla della ~ixatì.dix 't'ou -8e:ou, Gv. 3,3.5, del ye:vvl]'8Y]vixt &vw-
-8e:v, 3,3.7, dell'opposizione acipç-7tve:uµ.ix, in genere della realtà del 7tve:u-
µ.ix divino. ye:vvl]-8Y]vixt &vw.Se:v coincide con ye:vv'r]-8Y]vixt Éx 't'OU 7tVEU!J.IX-
't'O<;, 3,5 ss. Dell'opposizione acipç-7tve:uµ.ix invece si parla nel contesto del
motivo tipicamente giovanneo del fraintendimento, 3,5 ss.; Nicodemo
non capisce perché pensa sulla base della mera ovvietà.
Tutto questo conduce infine alla tipologia di Gv. 3,14, secondo cui
Gesù deve (òe:i - quindi: Dio vuole così) essere innalzato, come Mosè
innalzò il serpente nel deserto. Questo riferimento a Num. 21,9 viene
espresso da Giovanni con u~w.SY]vixt, un termine che oltrepassa ogni ov-
vietà. Da Gv. 3,14 non risulta ancora che qui si faccia un'affermazione
della theologia crucis come affermazione della theologia gloriae. In que-
sto senso per chi legge il vangelo la prima volta il capitolo terzo possie-
de un carattere ancora indiscutibilmente preparatorio. Solo Gv. 8,28 e
Gv. 12,34 gli sveleranno il senso vero e proprio di Gv. 3,14. Perciò qui il
passo non può ricevere ulteriore interpretazione teologica.
In Gv. 3, 16 ss. si trovano espressioni soteriologiche centrate sui ter-
mini come àyix7tiiv, 7tta't'e:ue:t v, xpl ve:t v, aw~e:t v, axo't'oc,/epwc,. L' &vw.Se:v gio-
ca un ruolo significativo in Gv. 3,3 1 ss., questa volta nel contesto di un
linguaggio dualistico. In tutti questi contenuti teologici dovrà adden-
trarsi l'interpretazione dei successivi capitoli del vangelo di Giovanni.
Gesù. Gesù invece parla di Dio come Dio. Come -8e:6c; preesi-
stente rap-presenta colui che è b -8e:6c;. Nella sua divinità parla
in nome di suo padre divino (cfr. v. 34a). Quindi nella persona
del figlio divino è Dio stesso che si rivolge ai giudei. Tuttavia
avviene la cosa inaudita: essi respingono il Dio che si rivolge a
loro (v. 43b: où Àaµ~ave:-rÉ µe:). I giudei quindi vengono meno
proprio nel momento in cui Dio stesso rivolge a loro la paro-
la: concretamente e in una viva scena si para dinanzi agli occhi
del lettore quello che era già stato espresso dal prologo in con-
cisione programmatica, Gv. 1,IO s.: x.al b x.6crµoc; aù-ròv oùx. É"'(-
,
vw. e:~c; '!aI >l)lo
~o~a
TÀQ
"Y] ve:v, x.mI '>l)lo
o~ ~ow~
' I
au-rov ou' 7tape:IÀ at-'ov.
(.).
wv.
€yw d[J-t o La tendenza di affermazione teologico-cristo-
logica, già evidenziata nel vangelo di Giovanni, rende proba-
bile questa interpretazione. Gesù rivela se stesso con le parole
di rivelazione di jahvé. L'autorivelazione del figlio divino è
l'autorivelazione del padre divino. Gesù proferisce l'io di Dio;
a lui spetta l'essere di Dio.
A partire da questo assoluto «IO SONO» va interpretato
teologicamente il più specifico «io sono il pane della vita»:
Dio non solo dà il pane dal cielo, Dio è il pane del cielo. In tal
senso Dio è in Cristo per il credente il Deus pro nobis. In Cri-
sto, nella sua incarnazione, Dio è venuto-giù dagli uomini (l'at-
to del logos divino, espresso con xa't'a-~atvetv, un verbo di spo-
stamento locale, dovrebbe essere anche nella rappresentazione
dell'evangelista un «venir-dall' -alto» solo in senso metafori-
co). E chi in quanto credente non ha più fame e sete, 15 è già
partecipe - com'è propriamente inteso dall'immagine - della
vita eterna. 56
La vita eterna intesa al presente, come abbiamo già riscontrato nel cap.
5, 57 trova il suo modo d'essere definitivo nell'ultimo giorno, nel giorno
della risurrezione: xàyw àvaa't~aw aùi;òv i;fJ fox(i'!TI Tjµ.ÉpCf o simili,
Gv. 6,39 s.44.54. È possibile che questa locuzione sia una continua inte-
grazione da parte della cosiddetta redazione ecclesiale.
Perdono la vita eterna quegli ascoltatori di Gesù che non
credono in lui. Infatti si richiede un vedere con fede: t'va 7tac; o
vewpwv 't'OV uwv xat mcnwwv Etc; au't'ov EXYI y~W'YJV
() - \ (\ \ I ' \
' )
\ ''
atwvwv, 6, I
58. Probabilmente ci si riferisce a Is. 54,13: XCltL r.av't'Cltc; 't'oÙc; u!ouc; aou ÒtÒCltX't'oÙc; ·Seou,
citato in Gv. 6,45: XC1tl eaoV't'Cltt r.avnc; ÒtÒC1tx't'ol -Beou. Negli studi si rinvia anche a Ger.
38,33 s. LXX.
Il vangelo di Giovanni 229
il vero pane dal cielo, -tÒv &p-tov Éx -tou oùpcxvou -tÒv iXÀr]'Stvov, Gv. 6,32,
allora secondo Gv. 1,17 la grazia e la verità, xapti; xcxt iXÀ~./].e:tcx poteva-
no diventare realtà per mezzo suo. Ed egli stesso può ferciò dire (Gv.
14,6 [contesto del versetto appena citato di Gv. 14,9]: Éyw e:lp.t li oòòi; xcxt
li àÀ ~./].e:tcx xcxl li t;w~.
Verità, àì.~-BEti:x, è quindi in questo senso evento, ossia l'even-
to in cui Dio (per impiegare un'espressione un po' elaborata) si
svela al credente come colui che vuole svelarsi. L'essere com-
preso soteriologicamente è dunque il suo divenire che si attua
soteriologicamente. 59 Verità nel senso di verità teologica 60 è
pertanto un concetto ermeneutico centrale. Quasi si potrebbe
accentuare così la formulazione: verità è l'essere di Dio che si
svela come rivelazione di sé, verità è il Dio ermeneutico come
evento, o ancor più concisamente è l'evento ermeneutico di Dio.
Eternità e tempo si sono attuati come unità paradossale di es-
sere divino e divenire divino, cosa che è colta cristologicamen-
te in Gv. 1,14: xi:xt 6 Àoyoc, cràpç ÈyÉvE't'O. E se l'uomo nella ri-
velazione divina di Gesù ascolta e vede appunto questo Dio,
immerso nell'atto e nel processo di questa fede, viene coinvol-
to in questa paradossale unità di eternità e tempo. Sf!Jren Kier-
kegaard non è forse sulle tracce dell'evangelista Giovanni? 61
Se però con la verità è necessariamente espressa nello stesso
tempo la vita e questa è sia la vita di Dio che si dona sia la vita
dell'uomo a lui donata, se inoltre la via è la via del parlare di-
vino e, ad essa congiunta, la via dell'ascoltare e del vedere uma-
ni, allora la triade di Gv. 14,6, concretizzata nel racconto del
59. Si dice già qualcosa di vero con il titolo di un ben noto libro, Gottes Sein ist im
Werden (L'essere di Dio è nel divenire)-anche se a Karl Barth ci si oppone, come l'au-
tore di queste righe, più criticamente di Eberhard]ungel.
60. Cfr. al riguardo la mia voce àì.~..9tta, in EWNT I, 138-145 (DENTI, 152-160), su
Giovanni 143-145 (DENT 1, 157-160); ma soprattutto si veda la voce di Bultmann
àì.~..9tta, diventata classica, in ThWb 1, 239-251 (GLNT 1, 640-674), con G. Quelle
G. Kittel, 233-238 (GLNT 1, 625-640), che appartiene pur sempre alle cose migliori
scritte sull'àì.~..9tta neotestamentaria e in particolare giovannea. Irrinunciabile è an-
che Ignace de la Potterie, La vérité dans Saint ]ean, che però in importanti aspetti
esprime giudizi diversi rispetto a Bultmann e a me.
61. Oltre a pensare a Kierkegaard, l'esegeta dovrebbe anche riflettere se i Beitriige zur
Philosophie di Martin Heidegger dal sottotitolo significativo Vom Ereignis [L'evento]
non possano essere proficui a questo punto.
Teologia biblica degli scritti neotestamentari
67. Sforzi in senso critico-letterario soprattutto in Bultmann, KEK, 214 ss.; Schnak-
kenburg, HThK 1v/2, 183 s. (tr. it. 248 s.);]. Becker, OTBK 4/1, 1 1991, 273-275. 302.
310 ss.; Barrett, KEK, se la sbriga troppo agevolmente accantonando continuamente
o ignorando le questioni di critica letteraria.
68. WA 56, 356,19 s.; voi. II, 342 con n. 183).
69. La traduzione luterana rivista nel 1984: «Se qualcuno vuol compiere la sua volon-
Il vangelo di Giovanni 2 35
lOI. Si veda anche ciò che si è già detto su Mc. 6,45-52, sopra, pp. l 12 ss.
102. Si veda sotto, il paragrafo 3 di questo capitolo.
Il vangelo di Giovanni 245
chi ha compreso la sua vera provenienza, Gv. 8,5 8: «In verità,
in verità vi dico, prima che Abramo nascesse, IO SONO».
Nuovamente Gesù si serve dell'espressione dell'io di Dio. Egli
che è il logos incarnato di Dio, che parla come -8c.6c; dell'o
-8c.6c;, dice alludendo a Es. 3,14: «/O SONO - Ern EIMI». E
così abbiamo ancora in Gv. 8 una citazione dell'Antico Testa-
mento, anzi la citazione per eccellenza, infatti abbiamo la pa-
rola di Dio, il logos di Dio che col suo io divino si oppone al
mondo empio. Questo mondo all'inizio vincerà in modo cla-
moroso, farà morire sulla croce il Dio incarnato. Ma questa
vittoria è la sua sconfitta. Dio vincerà poiché il logos di Dio
vivrà la pasqua.
.Ciò che è teologicamente rilevante in Gv. 9 è già stato fondamentalmen-
te affermato nelle spiegazioni relative a Gv. 8. L'evangelista ha pure crea-
to l'aggancio formale fra i due capitoli stessi; la frase cristologicamente
programmatica con l'io sono di Gv. 8,12 è ripresa in Gv. 9,5. Ciò che ri-
spetto a Gv. 8 è nuovo, non è nuovo nel senso della strategia teologica
complessiva dell'evangelista, cioè la trasgressione del comandamento del
sabato. 103
Il tema «cieco - vedente» ritornerà con virulenza alla fine del-
l'attività pubblica di Gesù (Gv. 12,36 ss.). Perciò il lettore del
vangelo di Giovanni deve tenere il mente le ultime parole del
capitolo nono, le parole di Gesù contro i farisei ciechi, Gv. 9,
39-41: «Sono vénuto in questo mondo per il giudizio affinché
quelli che non vedono vedano e quelli che vedono divengano
ciechi». I farisei comprendono (!) che si riferisce a loro. Pro-
vocano però con la loro domanda un rimprovero ancor più
violento: «Se foste ciechi, non avreste peccato. Ora però giac-
ché dite di vedere, il vostro peccato rimane!». Di nuovo cX(J-i:xp-
'tti:x al singolare e per due volte di seguito.
113. H.-J. Kraus, Psalmen, BK xv/2, !1978, 737 s.; cfr. anche p. 739: «Si può com-
prendere il salmo 82 solo se si tengono presenti le aspre contese che Israele doveva
superare contro le pretese degli dei pagani. Questi dei erano realtà- realtà di una giu-
risdizione perversa che favoriva i rS'jm e rigettava gli indifesi. Israele vedeva che tutto
il mondo creato era sconvolto dalle potenze del male (5b). Il pantheon di potenze
demoniache reggeva i popoli».
l 14. Ci si consenta qui di ricordare che nell'interpretazione di Ebr. l,8 s. la citazione
di ljJ 44,7 s. contiene per il re di Gerusalemme l'appellativo di «Dio», o8eoç, che però
l'autore della lettera agli Ebrei interpreta come appellativo del padre divino a suo
figlio divino. In Sai. 45,7 s. l'appellativo di 'elohlm è dunque rivolto a un uomo. In tal
caso naturalmente questo termine non è inteso nel senso strettamente teologico. Tut-
tavia per questo tempo antico non si può presupporre una vera e propria compren-
sione teologica della parola «Dio». Così anche ad es. Es. 4,16: w''atta tihjeh-llo le'lo-
htm. Secondo W.H. Schmidt, Exodus, BK n/1, 1988, 204 s., questa espressione non è
senza rischi; ma rimane protetta da equivoci giacché descrive una relazione: «Mosè è
'Dio' solo per Aronne, non di più». Secondo questa concezione Mosè sembra rappre-
sentare Dio per Aronne, è, per così dire, la forma umana di apparizione dell'azione di-
vina. In tal senso Gesù come Dio che rappresenta il padre - ancora: nello stretto sen-
so del termine re-praesentatio - sarebbe la realtà definitiva, non più superabile della
rappresentazione di Dio mediante quell'uomo che come rappresentante di Dio è es-
senzialmente Dio, è dunque in senso giovanneo 8eoç per o 8e6ç (Cv. l,1). Almeno
per Mosè si può accettare l'idea della rappresentanza di Dio attraverso la sua persona
(cfr. anche Es. 7,1: n'tattikii 'elohtm l'far'oh).
115. Così ad es. anche Schnackenburg, HThK 1v/2, 389 s. (tr. it. p7 s.), il quale però
pensa che si debba sicuramente «includere» la seconda parte del versetto «secondo il
modo spesso abbreviato di citare».
Il vangelo di Giovanni
di Dio in Gesù, Gesù come rivelazione di Dio. L'evangelista non pensa
partendo da concetti teologici benché argomenti pur sempre in certo
modo con concetti, ma riconoscendosi assolutamente determinato in
modo esistentivo da questa realtà divina vuole condurre i suoi lettori al-
la fede (Gv. 20,31: L'vix ma't"EUO"YJ't"e: ... xixl L'vix ma't"e:uone:c; ~w~v É'X.YJ't"e: ... )
e così coinvolgerli nella realtà di grazia e di vita. La sua concezione
teologica, che secondo le spiegazioni finora svolte è apparsa davvero
permeata di pensiero teologico, pur non essendo da prendere come una
deduzione concettuale, mira in ultima analisi, come del resto è risultato
continuamente per il pensiero teologico degli autori neotestamentari, a
trascendere la teologia come teologia. Se nella fides quaerens intellectum
si attua l'impegno teologico degli autori neotestamentari per trovare an-
zitutto in una concezione teologica la loro espressione adeguata, così
proprio questa teologia conduce al di là di se stessa, ossia a una fede più
profonda. È il movimento circolare che s'incontra di continuo: fides-
theologia-fides. Invece una teologia paga di sé che volesse rimanere in se
stessa verrebbe meno in linea di principio ed essenzialmente come teo-
logia. Perciò una teologia che dimenticasse il suo inserimento ecclesiale
non sarebbe più teologia.
La spiegazione teologica della citazione esige che si esamini il suo con-
testo veterotestamentario. L'evangelista ha in mente Sai. 82 / lji 8 l nella
sua totalità e aderisce al tono dell'accusa e della condanna che lì risuo-
na? A favore di questa ipotesi si potrebbe all'inizio addurre il fatto che
anche Gesù in Gv. 10 proferisca aspre parole d'accusa. È però poco pro-
babile che egli abbia inteso gli enti celesti (in qualsiasi modo si concepi-
scano) interpellati nel salmo," 6 poiché la sua argomentazione non sa-
rebbe coerente. La frase infatti ha senso solo se Gesù con Èxe:i'vot di Gv.
10,3 5 intende uomini: se già quegli uomini erano .fJ.e:o(, come si può rifiu-
tare a quell'uomo che compie le opere nominate in Gv. 10,37 s. la fede
con la quale viene professato come .fJ.e:oc; o come u!òc; 't"ou .fJ.e:ou? Il tema
delle opere attraversa appunto il vangelo di Giovanni come un motivo
centrale. 117 Esiste anche la via che attraverso la fede nelle opere di Gesù
giunge alla fede in lui stesso, Gv. 10,38. La fede nelle opere può condur-
re alla conoscenza dell'essenza divina di Gesù. È la conoscenza di Gv.
10,30 che Gesù ora in 10,38 così formula: «Il padre è in me e io sono nel
padre».
Dal legame in cui si trova Gv. 10,34 col suo contesto non si può però
stabilire chi Gesù abbia inteso con gli «dei» di lji 81,6. Le parole: «io
dissi» vanno riferite alla preesistenza di Gesù? us Allora sulla base di Es.
3 ci sarebbe da valutare se non si intenda Mosè che secondo Es. 4,16; 7,1
era appunto 'elohtm per Aronne e il faraone. Con questo però non con-
r r6. Così ritiene da ultimo Hanson, The Prophetic Gospel, r47 ss.
r r7. Si veda ad es. Cv. s,r7 ss. r 18. Così Hanson, The Prophetic Gospel, 147 s.
Teologia biblica degli scritti neotestamentari
corda il fatto che nel salmo quelli che sono designati come «dei» siano
accusati nel modo più aspro. O si ritiene che al centro dell'attenzione di
Gesù ci sia il contesto dell'accusa al giudice ingiusto dato dal salmo e al-
lora però non si può annoverare Mosè fra gli dei di lji 81,6 oppure si
suppone che nella visuale dell'evangelista ci fosse Mosè come Dio, ma
allora non sarebbe stato da lui considerato il contesto dell'accusa. In
questo caso però il miv-tEç di lji 81,6b rimarrebbe fuori considerazione.
Forse - può essere presentata solo come ipotesi - si offre
un'indicazione per una possibile soluzione se si parte dalla for-
mula reciproca di immanenza di Gv. l 5,5: «Chi rimane in me
e io in lui porta abbondante frutto». Infatti questa formula
corrisponde alla formula reciproca di immanenza di Gv. 10,38
secondo cui il padre è in Gesù e Gesù nel padre. Ciò significa
però che chi è «in Gesù» è «in Dio». Chi esiste «in Gesù» e
quindi «in Dio» si trova nell'ambito di Dio, nell'ambito dell'o
.fJ.c.6ç, e può così esser chiamato, benché naturalmente solo in
senso attenuato, -i9c.6ç. Ciò che vale per Gesù in senso pieno
vale anche per il credente in quanto è «in Cristo». Anche qui
si riconferma quanto è stato esposto sull'esistenziale della spa-
zialità a proposito del paolino «essere in Cristo». 119
Se Giovanni nel suo pensiero teologico avesse davvero pen-
sato all'antitesi espressa in~ 81,6 s. - gli dei immortali vengo-
no degradati a uomini mortali a causa della loro ingiustizia di
giudici -, allora dai 7tcX\l'tEC', di ~ 8 l ,6b sarebbero stati estro-
messi gli ingiusti, quindi quelli che avevano rifiutato la fede a
Gesù. Questa ipotesi che pure dev'essere presentata solo con
riserva offre il vantaggio di tener conto sia del contesto del
salmo sia anche dell'insieme di Gv. IO. Questa ipotesi s'accor-
derebbe con l'orientamento dell'argomentazione di Giovanni
anche in un altro punto. Infatti mostrerebbe con incisività
nella loro mutua appartenenza sia l'ix '!OU -i9c.ou valido per
Gesù come figlio di Dio (ad es. Gv. 8,42; v. anche Gv. 3,31: 6
&vw-i9c.v èpx6p.c.voç... b ix '!ou oùpa.vou èpx6p.c.voç) sia il mede-
simo ix '!ou .fJ.eou valido per il credente (ad es. Gv. 1,13; 8,47).
L'enorme dinamismo nel contenuto di questo ix, di questo
aver in Dio il fondamento della propria esistenza, anzi l'enor-
119. Voi. II, 206 ss.
Il vangelo di Giovanni 253
me peso di questa affermazione - questo fenomeno è già stato
messo in rilievo con forza. Chi è «da» Dio, sia Gesù, sia chi
crede in Gesù e quindi in Dio, sta in un fronte comune contro
quelli che sono Èx 'tOU xocrµou ('tOU'tou) (ad es. Cv. 17,14) o 120
ix 'tljc; yljc; (Cv. 3,3 1), sinonimo del terribile Èx 'tou mx'tpÒc;
'tou Òta.~oÀou (Cv. 8,44). In tal modo Gesù e i credenti hanno
il loro comune essere da Dio. Nondimeno rimane la differenza
essenziale fra di essi in quanto solo Gesù è il figlio di Dio in
senso assoluto. C'è pure una differenza essenziale fra Èx e Èx.
In margine ci permettiamo ancora un'osservazione sull'interpretazione
di Anthony T. Hanson alla citazione di tJi 81,6. È degna di menzione e di
attenta valutazione la sua supposizione secondo cui nel contesto di que-
sta citazione, ossia in tJi 81,8, con à.vaa-.a, b .Seoç, xptvov -.~v y'ijv sarebbe
predetta la risurrezione di Cristo. 121
124. Il soggetto di È7toi11aav in Gv. 12,16 è il popolo, quindi si tratta del suo omaggio
descritto al v. 13; per la problematica cfr. Bu!tmann, KEK, 320 n. 4. Diversamente
Barrett, KEK, 414.
125. L'ÈiJ.V~aS11aav di Gv. 12,16 ha quindi il suo fondamento pneumatologico in Gv.
14,26; così anche Schnackenburg, HThK 1v/2, 473 (tr. it. 627).
Teologia biblica degli scritti neotestamentari
130. Ciò è stato visto giustamente da Knoppler, Die theologia crucis des]oh,passim.
13 r. Op. cit., 272. 132. Op. cit., 162 s.
Il vangelo di Giovanni
bile rispetto alla critica testuale 133 - , allora riceverebbe una con-
ferma supplementare la supposizione espressa da Knoppler.
È risultato che la sezione di Gv. l 2,2 7-5 o che conclude i
capp. l-12 offre con estrema densità teologica un compendio
che in certo modo anticipa la teologia del vangelo. Così non
può sorprendere se s'incontra anche la preesistenza di Gesù in
unione al passo centrale veterotestamentario di /s. 6. In /s. 6,1
il profeta riferisce di aver visto Jahvé o nella versione dei LXX
il kyrios, e[òov -.òv x.upwv, seduto su un trono elevato. Is. 6,1 è
però il contesto di /s. 6,10. In /s. 6,1 LXX si aggiunge ancora:
xa.l 7tÀ~pric; ò o[xoc; 'ti)c; ò6çric; a.ù-.ou. In Gv. 12,41 si afferma
ora esplicitamente: 'tll.U'ta. ebev 'Hcra.ta.c; O'tt dòev 't~V ò6ça.v
a.ù-.ou, xa.l ÈÀaÀricrev 7tepl a.ù-.ou (si veda Gv. l,18: .fi.eòv oùòdc;
Éwpa.xev 7tW7tO'tE" µ.ovoyev~c; .fi.eòc; b wv dc; -.òv x.oÀ7tov -.ou 7ta.-
'tpÒc; Èx.Ei" voc; içriy~cra.'to ). 134
143. In Mt. 27,46 questo versetto del salmo non è più così determinato dal dinamismo
della theologia crucis come in Mc. 1 5,34.
3. E il logos divenne carne
Col prologo è iniziata la parte dedicata propriamente al-
1'esposizione della teologia giovannea. Col prologo deve an-
che finire. Infatti l'evangelista compendia il suo risultato teo-
logico in una delle sue frasi, in Gv. 1,14. E questo versetto de-
v'essere anche quello col quale concludiamo l'interpretazione
del quarto vangelo tanto più che nella sezione intitolata «Cri-
stologia in nuce», in cui abbiamo spiegato il prologo, l'abbia-
mo di proposito sorvolato ampiamente.
Se vogliamo, per così dire, intendere Gv. 1,14 come frutto teologico del
quarto vangelo, un tal giudizio implica anche il rapporto del prologo
col resto del vangelo. Tuttavia proprio su questo punto le opinioni sono
divise. L'evangelista ha assunto il prologo - qualsiasi sia la sua prove-
nienza - come tradizione? Così fensa la maggior parte degli esegeti. O
dobbiamo supporre con Michae Theobald che l'autore del prologo col
suo proemio interpreti l'inizio della narratio, dato nella forma dei versi
di Gv. 1,6-8? 144 Theobald ha acutamente giustificato la sua ipotesi che
in sé tiene. Tuttavia è discutibile che la sua plausibilità sia maggiore di
quella della posizione contraria. Ci si consenta perciò qui di partire dal
presupposto che l'evangelista abbia già trovato il prologo, lo abbia in-
terpretato secondo la sua intenzione teologica e abbia voluto che fosse
inteso nella sua forma definitiva proprio a partire da 1,14. Per la nostra
questione ha perciò un rilievo solo secondario stabilire in quale conte-
sto teologico il prologo sia stato originariamente concepito.
Già più importante è la nota controversia fra Rudolf Bult-
mann e Ernst Kasemann. Bisogna supporre con Bultmann che
sia il v. 14a ad essere accentuato: il verbo divino è diventato
carne? O ha ragione Kasemann nel vedere il v. 14a completa-
mente all'ombra del v. 14b: «Noi vedemmo la sua gloria»? 145
Così egli scrive: «Per quanto noi sappiamo, Giovanni è il pri-
mo cristiano che utilizza la vita terrena di Gesù solo come
sfondo per mettere in risalto il figlio di Dio che passa per il
mondo umano e la descrive come spazio d'irruzione della
gloria celeste ... Il figlio dell'uomo non è appunto un uomo fra
gli altri e non è neppure la rappresentazione del popolo di Dio
144. Theobald, Die Fleischwerdung des Logos, passim e in compendio p. 490.
145. Kiisemann,jesu letzter Wille, 28.
2 70 Teologia biblica degli scritti neotestamentari
r 52. Op. cit., 247. A buon diritto egli qui s'oppone all'interpretazione di Luise Schott-
roff, Der Glaubende und die feindliche Welt, 274, a mio avviso poco perspicua, tal-
volta confusa. Viceversa è proficua e stimolante la chiara formulazione di Schnelle, an-
che se forse talvolta si esprime in modo troppo deciso.
Il vangelo di Giovanni
153. Il termine «concezione» può essere usato proprio solo analogicamente per l'at-
tuale fisica, sia essa microfisica o macrofisica.
Il vangelo di Giovanni 273
Il logos è quindi divenuto carne, divenuto uomo. Con que-
sto si esprime in tutto il realismo - e qui Bultmann ha ragione
- la piena umanità di colui che si è incarnato. Il logos - rima-
nendo -8e:6i::; - non si è travestito in una figura umana come ad
esempio si racconta degli dei greci. Infatti né uno Zeus, né un
Apollo è stato realmente un cràp~ ye:voµe:voi::;, un &v-8pw7toç ye:-
v6µe:voç o un 'taupoç ye:v6µe:voç. Essi non furono davvero nel
modo d'essere di un uomo o di un toro. Non furono al con-
tempo Dio e uomo (Zeus con Alcmena) o Dio e toro (Zeus ed
Europa). Il logos invece ha conservato il suo esser-Dio ed è di-
ventato esser-uomo.
Giacché però il logos nella sua esistenza storica è colui che è diventato
uomo e quindi il suo modo di apparire per ciascun uomo era quello di
un essere umano, solo il credente poteva vedere la sua doxa, il suo esser-
Dio come quello del «primogenito del padre». Egli fece allora i suoi se-
gni, i suoi a'Yjµ.e:i:a. ' 54 E questi segni in effetti indussero molti alla fede
(ad es. Gv. 2,23). Tuttavia la vera fede è l'esser-nati-da-Dio, Gv. 1,13,
l'esser-nati-dall'alto, ye:vvYj./J.ijvat &.vw./J.e:v, 3,3.7, il poter-udire in base al-
l'esser-da-Dio, 8,47. Tutto ciò è detto dal Gesù prepasquale. È però il
paraclito, lo Spirito di Dio, lo Spirito della verità che dopo la pasqua in-
troduce in tutta la verità, 14,17.26; 15,26; 16,7-11.13. Così nell'intenzio-
ne dell'evangelista vedere la doxa divina che spetta al figlio di Dio è in
ultima analisi un vedere postpasquale nella fede (cfr. 20,29). I µ. ~ lòov't'e:ç
sono quelli che non vedono come vero ciò che si dà agli occhi. Quanto
Giovanni descrive nella prospettiva dell'allora mira all'oggi del tempo
postpasquale. In esso, come credenti di oggi, vediamo la doxa di allora e
di oggi del divenuto-uomo. La confessione allora proclamata in Gv. 1,
'14, We:aaaµ.e:./J.a, propria di quelli che sono vissuti col aàpç ye:voµ.e:voç e
che hanno potuto vedere nella sua aiipç la sua òoça divina, diventa la
confessione di quelli che non hanno più potuto vedere lo storico aàpç
ye:voµ.e:voç, ma introdotti dal suo spirito in tutta la verità, vedono la òclça
del figlio di Dio con la loro fede attuale. Al duplice piano della divinità
e umanità, tempo ed eternità nel prologo e in tutto il vangelo s'aggiunge
il nuovo duplice piano del vedere di allora nella fede e del vedere di oggi
pure nella fede. E l'incrocio teologico di coordinate con le sue due di-
154· Per le differenti concezioni dei al)µ.eia si vedano soprattutto Wilkens, Zeichen
und Werke; Heiligenthal, Werke als Zeichen, 135 ss.; recentemente C. Welck, Erzahl-
te Zeichen. Egli nella sua dissertazione che cerca di interpretare soltanto sul piano sin-
cronico i racconti giovannei dei miracoli mette in luce la «significanza cristologica» di
queste azioni per il quarto evangelista. Esse sono «sempre anche segni - cristologici»
(op. cit., 57).
274 Teologia biblica degli scritti neotestamentari
15 5. Kieffer, Die Bibel deuten - das Leben deuten. Einfuhrung in die Theologie des
NT,109.
CAPITOLO OTTAVO
L'APOCALISSE DI GIOVANNI
suo sfondo veterotestamentario in Ez. 3,12: xal àvÉÀa~É IJ.E 7tvEuµa, xal
~xoucra xa't'omcr.fJ.Év µou cpwv~v crEtcr1J.ou µqaÀou. Nel medesimo verset-
to ricorre poi come eulogia il riferimento alla òOça xupiou. Parallelamen-
te si trova nel contesto di Apoc. 1,9 ss., cioè in 1,6: aÙ't'tji ~ òOça. Ez. 3,12
sta nel contesto della vocazione del profeta Ezechiele, in Ez. l,4-3,21.
In ogni caso Giovanni vuol descrivere la sua chiamata in
parallelo alla chiamata di un profeta dell'Antico Testamento.
Anche nella chiamata di Ezechiele avvennero visioni (il carro
del trono di Jahvé) e audizioni. La concezione secondo cui l'in-
carico di Giovanni come veggente sia un incarico profetico, co-
me ora è stato di nuovo evidenziato con forza di fan Fekkes,
ha quindi un importante punto d'appoggio in Apoc. 1 ,9 ss. Cer-
tamente qui Giovanni è incaricato di scrivere ciò che vede in
un libro, o ~ÀÉm:~ç ypchjJOv dç ~~~À(ov (cfr. Is. 30,8), per spe-
dirlo alle sette comunità, v. 11. Quando il veggente si volta per
«vedere la voce», scorge sette candelabri d'oro, Apoc. 1, 12 ss.
Per l'interpretazione bisogna accostare Apoc. 1,20. Si discute se
i sette candelabri debbano richiamare il culto veterotestamen-
tario di Es. 25,31 ss.; 37,17 ss.; Zacc. 4,2-6, il candelabro a sette
braccia. 1
Per intendere la comprensione della Scrittura da parte del
nostro veggente è forse ancor più significativo il rapporto che
egli stabilisce in Apoc. 1,9 ss. con Dan. 7. Già prima del raccon-
to della chiamata, nella parte introduttiva di Apoc. 1 ,4-8 - pre-
scindiamo qui dall'intitolazione del libro in Apoc. 1,1-3 6 - si
trovano due detti profetici in cui è chiaramente riconoscibile il
riferimento a Dan. 7,13 e Zacc. 12,10. L'attesa del Cristo che
viene per il giudizio finale è formulata in stretta dipendenza da
Dan. 7,13 {).' inApoc. l,7:
'Iòoù ÉPXE't'at IJ.E't'à 't'wv vEcpEÀwv,
xa( olJ;E't'Clt ctÙ't'ÒV 1t1iç Òcp.fJ.aÀµoç .. ,
5. Così pensa ad es. Kraft, HNT, 44; di parere contrario E. Lohse, NTD 11, 7 1988, 20
(tr. it. L'Apocalisse di Giovanni, Brescia 1974, 43): «Quest'immagine non deriva dalla
tradizione veterotestamentaria che conosce soltanto il candelabro a sette braccia .. .,
mentre qui si parla di sette diversi candelabri».
6. È possibile che sia stata premessa ali' Apocalisse più tardi, così ad es. Kraft, HNT, 17;
contro questa ipotesi già avanzata da D. Véilter, J. Weiss, F. Spitta e altri si è espresso
W. Bousset, KEK XVI, 1966 (= 6 1906), 183.
Teologia biblica degli scritti neotestamentari
7. Per Apoc. 1,14 s. si veda anche Dan. 10,6 -3': xaì o! òcp·.9aÀ(J.OÌ aÙ>ou wcrEÌ Àa(J.r;aoEç
;;upk Anche in Apoc. 1, I 5 il veggente si riferisce a questo passo di Daniele, cfr. però
anche Ez. 1,4.27.
8. Giustamente afferma Lohse, ibidem {tr. it. 44): «Spesso l'Apocalisse applica diret-
tamente a Gesù i predicati di Dio tratti dall'Antico Testamento... egli è uguale a Dio»
(corsivo mio). Il «direttamente» è della massima rilevanza teologica.
L'Apocalisse di Giovanni
7, dove la bestia orribile (però a una testa) come ultima dei quattro ani-
mali che emergono dal mare, ha sette corna. Giovanni non è dunque in-
teressato agli altri animali di Dan. 7. Inoltre il drago non viene dal mare,
ma appare come la donna nel cielo. Che egli spazzi via dal cielo sulla
terra la terza parte delle stelle ha come base veterotestamentaria Dan. 8,
10. Citiamo ancora Eduard Lohse: «Questi [il mostro] si introduce con
satanica violenza nell'ordine celeste e lo sconvolge». 25 Il veggente di Pat-
mos osserva perfino nel cielo una guerra fra Michele e il drago, ambe-
due rispettivamente sostenuti dai loro angeli. Anche qui è evidente il ri-
ferimento a un passo di Daniele, a Dan. 1o,1 3.
nell'Apocalisse è più evidente una conoscenza della tradizione esegetica giudaica che in
qualsiasi altro libro del Nuovo Testamento. Anzi si sarebbe tentati di dire che l' Apo-
calisse mostra più segni dell'influenza della tradizione esegetica giudaica che tutto il
resto dei libri del Nuovo Testamento messi insieme!». «Giovanni è così libero e crea-
tivo nel suo uso della Scrittura che siamo indotti a chiederci se davvero abbia guarda-
to alla Scrittura come ispirata. Abbiamo notato sopra ... l'eccellente espressione di
Sweet riguardo al modo in cui Giovanni usa la Scrittura: 'libertà creativa'. Ciò signifi-
ca forse che egli potesse fare tutto quello che voleva con la Scrittura, far sì che servis-
se a ogni scopo prestabilito senza riguardi a quanto 'realmente significasse'? Questo è
il tipo di domanda che potremmo in verità porre rispetto a quasi ogni metodo di in-
terpretazione della Scrittura. Potremmo porla a Filone: quando vediamo c'ome alle-
gorizza il Pentateuco, non possiamo essere biasimati se concludiamo che Filone po-
tesse usare il suo metodo allegorico per indurre il suo testo a dire assolutamente qual-
siasi cosa. Si potrebbe davvero esprimere un simile giudizio su una grande quantità di
esegesi rabbinica ... E tuttavia ci sbaglieremmo se esprimessimo un tale giudizio su Fi-
lone, sui rabbi o su Giovanni».
27. Si veda, oltre ai commentari, soprattutto Fekkes, Isaiah and Prophetic Traditions,
226 ss.
290 Teologia biblica degli scritti neotestamentari
EPILEGOMENI.
LO SPAZIO-TEMPO DELLA GRAZIA
Con il termine epilegomeni s'intende comunemente qualcosa
come una postfazione in cui siano ripresi in breve compendio
alcuni pensieri fondamentali dell'opera. Èm-ÀÉye::tv significhe-
rebbe allora dire-in-aggiunta a quello che in realtà si è già det-
to qualche parola ulteriore che indirizzi lo sguardo del lettore
all'essenziale del corpus dell'opera. Nella Teologia del Nuovo
Testamento di Rudolf Bultmann gli epilegomeni, complessi-
1
PRELUDIO FILOSOFICO
1. Qui teologia biblica intesa come teologia sorta dal pensiero biblico, non però nel
senso specifico di teologia biblica. 2. Jenni, THAT r, 116 ss.
3. Seebass, ThWAT r, 224 ss. (GLAT r, 437 ss.). 4. Op. cit., 228.
Epilegomeni
questi giorni», allora questa fine, questo eschaton non si riferisce più a
un tempo finale relativamente breve, non si lega più all'attesa imminen-
te, come ad esempio in I Tess. 4,13-18. Piuttosto questa locuzione in un
modo semanticamente singolare vuol qualificare un «tratto» di tempo
più lungo nella sua importanza teologica. In qualche modo mediante una
«escatologia al presente», molto specifica, una comprensione cronome-
trica del tempo è sostituita da una coscienza, per così dire, kairologica.
xa.tpoç anziché "12ovoç. Solo nel kairos il futuro può essere visto in unio-
ne al presente. 5
Basta già questo esempio della locuzione «alla fine dei giorni» nell'in-
sieme della Bibbia per mostrare sintomaticamente come sia irrinunciabi-
le una riflessione vera e propria sulle rappresentazioni del tempo presen-
ti nei due Testamenti. Quando però il tempo diventa in quanto tale og-
getto tematico della riflessione, allora ci si avventura anche nell'ambito
dei domini filosofici. Meditare sul tempo, quindi ri-flettere sulla questio-
ne di che cosa sia il tempo, che cosa sia concretamente nei libri biblici,
significa pensare filosoficamente, ri-flettere filosoficamente. Se dunque
dobbiamo a questo punto calarci in questioni filosofiche, ciò implica es-
senzialmente ben più che una semplice presa d'atto delle risposte offerte
nella storia della filosofia.
Non può essere nostro compito condurre qui un'esauriente analisi di
tutte le rilevanti concezioni del tempo che oggi sono discusse nell'ambi-
to filosofico. Ci sono però costanti fondamentali che vanno richiamate
e criticamente valutate: quali rappresentazioni filosofiche del tempo ci
sono note che siano precedenti al Nuovo Testamento? Le affermazioni
bibliche possono essere meglio comprese nel loro orizzonte? Quali
rappresentazioni filosofiche del tempo successive al Nuovo Testamento
possono essere richiamate allo stesso scopo? In questo orizzonte dob-
biamo menzionare almeno Platone, Aristotele, Agostino, Immanuel Kant,
Henri Bergson e Martin Heidegger.
Per Platone bisogna citare soprattutto il Timeo. 6 Il filosofo descrive
nel mito ciò che non gli è possibile descrivere in altro modo. In tal senso
è evidente la premessa: il pensiero del tempo concepito da Platone è e-
spresso solo impropriamente in Tim. 38b. Se qui si raffigura la creazione
del tempo, che avviene in base alla creazione del cielo e delle sue stelle e
quindi contemporaneamente a questa creazione del cielo, quello che si
vuole esprimere diventa evidente solo se si comprende in senso proprio
l'intento fondamentale del Timeo. Il problema basilare di questo dialo-
go che, nonostante qualche contestazione nei tempi più recenti,7 dovreb-
5. Si vedano le voci relative nei lessici esegetici.
6. V. in particolare Cornford, Plato's Cosmology; Friedlander, Platon III, 329-355.
494-502; Taylor, A Commentary on Plato's «Timaeus»; Vlastos, Plato's Universe.
7. Soprattutto Owen, The Piace of the «Timaeus» in Plato's Dialogues; suo interlocu-
tore è Cherniss, The Relation of the «Timaeus» to Platos' Later Dialogues.
Preludio filosofico 297
be essere considerato uno degli ultimi, è la correlazione fra essere e di-
venire e a questo proposito viene assegnato al divenire un rango ontolo-
gico più elevato rispetto ai precedenti dialoghi platonici.
Se il demiurgo riceve l'incarico divino di creare il cielo e
quindi le stelle, ciò dipende dal fatto che Dio non sia il Dio del
divenire e perciò non intervenga neppure egli stesso in questo
processo. Ciononostante il cielo è in intimo legame con l'am-
bito dell'essere in quanto le stelle col loro movimento sono im-
magine dell'essere eterno. Esso è «immagine mobile dell'eter-
no», e:lxw xtvri't'ov 't'tva alwvoc;; è «immagine, che procede se-
condo il numero, dell'unità perseverante nell'unità», alwvoc; iv
évl xa't'' &.pt-i9µòv loucrav alwvwv e:lx6va, a cui abbiamo dato il
nome di tempo», Tim. 37d. 8 C'è dunque corrispondenza fra
rcapaòe:tyµa, l'essere divino eterno, e e:lxwv, l'immagine in mo-
vimento: ambedue si trovano fra loro in relazione conforme al-
l'essere sulla base di rapporti numerici, xa't''à.pt-i9µ6v. Partendo
da questa ontologia dualistica che non può essere vista come
opposizione antitetica, dev'essere compreso che cosa è il tem-
po, xp6voc:;, per Platone. Dalle affermazioni del Timeo finora
esposte risulta conseguentemente la nota frase programmatica
di Tim. 38b: «Il tempo è divenuto col cielo», xp6voc:; ò'oùv µe:'t''
oùpavou yÉyove:v.9
Intenzione di Dio nella creazione del tempo (7tpÒç "tPO'Jou yÉ'JEO't 'J) fu dun-
que quella di creare sole, luna e cinque altre stelle affinché potesse esse-
re distinta e conservata la misura del tempo, dç Òtopta1.1.ò'J xctÌ cpuÀax~'J
àpt-81.1.w'J XPO'Jou yÉyo'JE'J, Tim. 38c. Platone può perciò designare le stel-
le «Strumenti dei tempi», opya'Ja XPO'JW'J {plurale), Tim. 41e; 42d.
Di proposito abbiamo dedicato attenzione a Tim. 37-42 poiché è ri-
masta ancora aperta la questione se Platone nella sua filosofia sostenga
un concetto obiettivo del tempo. Ciò che finora è emerso sembra con-
fermare questa opinione. In effetti è appunto il movimento delle stelle a
determinare il tempo, senza di esse il tempo non è pensabile ed è onto-
logicamente impossibile.
8. La traduzione s'ispira a quella di Otto Apelt. Anche nel seguito è tenuta presente
senza essere seguita in modo pedissequo.
9. Schleiermacher e Apelt traducono concordemente yÉ':yov&v con «sorse», Schleier-
macher intende oùpavé~ con «cielo», Apelt con «universo», Ambedue le traduzioni col-
gono ciò che Platone vuol dire.
Epilegomeni
Dunque: dove non c'è corpo, non c'è neppure tempo. Se Ari-
stotele non avesse messo in conto la materia esistente dal-
l'eternità, avrebbe dovuto come Platone postulare la creazione
del tempo insieme alla creazione delle stelle. Il pensiero del mo-
vimento, xt\l'Y]rrtc;, è pertanto quello che porta maestro e disce-
polo a concepire in modo analogo il tempo. 13
Se però il tempo è il numero del movimento, questo nume-
ro dev'essere calcolato. Secondo Aristotele ciò è fatto dall' ani-
ma, la ~u'X.~· Quindi egli indaga la relazione fra tempo e ani-
ma.14 Tuttavia egli si chiede anche - e qui emerge di nuovo il
pensiero metafisico di Aristotele: metafisica certamente nel sen-
so di Aristotele ' 5 - per che cosa, òtà -r:t, il tempo sembri essere
in tutto, quindi in terra, nell'acqua e nel cielo. 16 Se egli dunque
afferma Èv 7tll.\l'tt Òoxe:i' dva.t b xp6voc,, allora in questa locuzio-
ne dva.t dovrebbe essere inteso in senso strettamente ontologi-
co: il tempo è! 7 La domanda posta da Aristotele sul òtà -r:t do-
vrebbe anche implicare la questione in che misura il tempo sia
rispetto all'anima. O in altri termini: in che misura il tempo è
a partire dall'anima? Anzitutto ribadiamo semplicemente che
per Aristotele non ci sarebbe tempo se non esistesse l'anima. 18
Di quale anima parla però Aristotele? Se, per dirla con Kurt Flasch, l'at-
tività dell'anima è «formalmente costitutiva» del tempo come numero,
Aristotele non precisa nella Fisica «se pensi all'anima del cielo o alla sin-
13. Kurt Flasch, Was ist Zeit?, 121 vede giustamente maggior vicinanza fra Aristotele
e il Timeo platonico che fra Aristotele e Agostino, conf l l.
14. Phys. 4,14,22p: a~LOV ò'èmaKÉ<jitwç KGtÌ 1tWç 1tO't"t EX.E' b "X.flOVOç itpÒç 't"~V <Jiux~v.
15. Secondo Flasch, Was ist Zeit?, 120 s. la teoria aristotelica del tempo non rientra
nella metafisica. Flasch dice però al contempo che Aristotele nella Fisica presuppone
che termini come movimento ecc. siano già stati determinati; così può accontentarsi
pure di un breve rinvio all'anima. In tal modo però Flasch ha implicitamente ammes-
so che la teoria del tempo sia fondata secondo Aristotele negli elementi basilari della
metafisica. 16. Phys. 4,14,223a.
17. Aristotele si è prima confrontato con la concezione secondo cui il passato non è
poiché «non è più», il futuro non è poiché «non è ancora» e quindi il presente come
tempo non è poiché non è parte di un tutto ad esso superiore, phys. 4,10,217b ss.
Possiamo qui sorvolare su queste riflessioni di Aristotele, ma vi dovremo ritornare in
relazione ad Agostino.
18. Phys. 4,14,22p: d ÒÈ iJ.T)ÒÈv aÀÀo itÉq>UKEV àpi-81.1.ttV ~ <Jiux~ KGtÌ <JiuxiJç vouç, àòU-
VGt't"OV dvai "X.flOVov <JiuxiJç I.I.~ ouaT)ç, àìX~ 't"OU't"o 8 iton ov ta't"iv b "X,Povoç, o!ov d èv-
ÒÉ"X,t't"Gti KLVT)aiv dvai avtu <JiuxiJç.
300 Epilegomeni
gola anima dell'uomo». 19 L'anima del cielo in Aristotele avrebbe un'ana-
loga funzione dell'anima del mondo in Platone: «Senza l'anima del cielo
non c'è movimento delle stelle e senza di questo non si può muovere né
mutare nulla, quindi senza l'anima non può essere enumerato nulla».2°
E subito Flasch viene a parlare della singola anima umana: «Senza l'ani-
ma individuale non può esservi numero e quindi neppure tempo, ma non-
dimeno un hypokeimenon, un substrato del tempo, che non è una sua for-
ma preliminare, bensì un mutamento naturale enumerabile sulla base del-
l'attività dell'anima celeste (4,14,223a 16-29)».2 1
In tal modo Aristotele ha insieme concepito tempo ed eter-
nità. È l'eterno movimento circolare della suprema orbitacele-
ste che costituisce la misura del tempo. 22 Se dunque l'anima del-
l'uomo calcola il tempo e questo è determinato come «nume-
ro del movimento», allora essa lo calcola a partire da questo mo-
vimento circolare, da questa immagine dell'eternità.
Di conseguenza Aristotele, anziché parlare di àpt-8µ.òc; xtv~crewc;, può an-
che presentare come definizione del tempo l'espressione «misura del mo-
vimento» e dire: ÈO''tt VO 'X,pOvoc; !J.É'tpov Xt V~O'EWc; XClt 'tOU Xt vefo-8-at, phys.
4,12,22ob. Così Dio e tempo non sono di certo riferiti l'uno all'altro di-
rettamente, ma in un certo senso indirettamente.
Per le nostre riflessioni teologiche ha grande rilevanza l'e-
spressione aristotelica dell'essere-nel-tempo, i;Ò iv ·y,p6veit dvi:u.
21. Ibidem. Per la questione del rapporto fra tempo e anima in Aristotele è irrinuncia-
bile il breve saggio di Franco Volpi, Chronos und Psyche col sottotitolo significativo:
Die aristotelische Aporie van Physik IV, 14, 223a 16-29 che offre una panoramica sto-
rico-filosofica informativa dell'influenza esercitata dalle interpretazioni di Aristotele.
Volpi (p. 55) stabilisce con Wolfgang Wieland che la dottrina aristotelica del legame
fra anima e tempo non è affatto un esempio di concezione soggettivistica del tempo.
Alla fine delle sue spiegazioni (p. 59) rinvia alla lezione tenuta da Heidegger a Mar-
burgo nel semestre estivo 1927 (cfr. anche la nostra nota 27), che purtroppo sfiora so-
lo di sfuggita. Egli vede lì nella tendenza fenomenologica e insieme radicalizzata del-
l'interpretazione di Heidegger un'interpretazione in una direzione estremamente in-
teressante. La funzione manifestativa dell'anima farebbe apparire come tempo la mo-
bilità enumerata dell'ente giacché essendo essa stessa un'anima temporale potrebbe
scoprire nella sua temporalità l'ente. «In tal modo Heidegger cerca di mostrare che
Aristotele se non ha visto esplicitamente, almeno ha presentito e avvertito come pro-
blema il ruolo manifestativo dell'anima come temporalità non solo e non tanto nella
costituzione delle esperienze soggettive del tempo (e questo già molto tempo prima
di Agostino), bensì anche nella costituzione della sua esperienza oggettiva.
22. Flasch, Was ist Zeit?, 121.
Preludio filosofico 301
23. Phys. 4,12,22ob: où IJ.ovov ÒÈ "~" xiniaLv -.ci> "/.POVCJ,J µ.e-.pouµ.ev, àì.ì.à x<1l "TI xLv~
aEL -.òv XPOVOV ÒLIÌ -.ò épi°'ta·.9<1L u7t'àH~Àwv.
24. Phys. 4,12,221a: ÒTjÀov 8-.L )(<1L -.oiç aÀÀoLç -.ou-.·&a.. L-.ò Ì;v "/.POVCJ,J dv<1L, -.ò µ.t-.ptia-
./J.<1L <1Ù-.ci>v -.ò dv<1t u7tÒ -.ou "/.POVOU.
25. Heidegger, Essere e tempo,§§ 12 e 13. 26. Op. cit., §§ 45 ss.
27. Così Heidegger nella sua lezione di Marburgo Die Grundprobleme der Phiino-
menologie (Semestre estivo 1927) intende la locuzione «qualcosa è 'nel tempo'» anzi-
tutto non in senso esistenziale, ma categoriale come intratemporalità (Gesamtausga-
be 11/24, 334, tr. it. 226). Secondo Heidegger Aristotele ha «portato al concetto in mo-
do univoco la comprensione ordinaria del tempo così che la sua concezione corrispon-
de al concetto naturale di esso» (p. J29 1 tr. it. 223).
28. Questa è in linea di principio la legge ermeneutica fondamentale di qualsiasi rice-
zione di contenuti spirituali.
302 Epilegomeni
32. Delling, ThWb III, 457,12 ss. (GLNT IV, 1367 s.).
33. Flasch, Was ist Zeit?, u8.
34. La letteratura sulla sua comprensione del tempo è enorme. Mi limito qui a citare
Ernst A. Schmidt, Zeit und Geschichte bei Augustin, 1985; Friedrich-Wilhelm von
Herrmann, Augustinus und die phiinomenologische Frage nach der Zeit, 1992 e Kurt
Flasch, Was ist Zeit?, 1993. Il libro undicesimo delle Confessioni ha continuamente
stimolato a riflessioni e reinterpretazioni. In esso le meditazioni di Agostino sul tem-
po avvengono al cospetto di Dio, in gran parte perfino come preghiera, parimenti pe-
rò sono la rielaborazione delle tradizioni filosofiche sul tempo giunte fino a lui. Ben-
ché non nomini né Platone, né Aristotele, si confronta chiaramente con le loro teorie.
Epilegomeni
35. von Herrmann, Augustinus, 104 ss. 36. Op. cit., I 3I.
37. Se qui Aristotele si chiede o;[~ Ti cpua1~ cxùo:ou, a ciò corrisponde la domanda di
Agostino: quid est ergo tempus? E se Aristotele subito dopo dice (2 I Sa): o;ou ÒÈ: 'XR6vou
o:à µÈ:v yÉyovt o:à ÒÈ: µÉÀÀt1, ~ao:i ò'oùÒÉv, ovo:o~ µtpiao:ou, Agostino s'interroga imme-
diatamente dopo la domanda appena citata: duo ergo illa tempora, praeteritum et futu-
rum, quomodo sunt, quando et praeteritum iam non 'est' et futurum nondum «est»?
Sulla struttura parallela in Aristotele e Agostino cfr. Flasch, Was ist Zeit?, I 20 ss.
Preludio filosofico
Excursus.
Interpretazione delle Confessioni:
controversia fra von H errmann e Flasch
La disputa dei filosofi sulla comprensione del tempo in Agostino può
forse risultare troppo specialistica ad alcuni lettori di un libro esegetico.
In verità a mio parere questa controversia aiuta moltissimo a capire l'in-
terpretazione del tempo da parte di quell'antico pensatore che per la pri-
ma volta nel corso della storia culturale ha considerato tematicamente chi
comprende il tempo e attraverso questa sua meditazione sul tempo di-
schiude in maniera considerevolmente migliore il pensiero biblico sul
tempo. Perciò di proposito non rinunciamo qui a una presa di posizione
critica sulla discussione tra Friedrich-Wilhelm von H errmann e Kurt
Flasch. Tuttavia questo argomento è esposto in un excursus affinché chi-
unque sulla base della sua comprensione esegetica non lo giudichi rile-
vante per la questione della teologia biblica del Nuovo Testamento pos-
sa saltarlo nella lettura. L'insieme dovrebbe essere comprensibile anche
senza che si prenda in considerazione la discussione fra i due filosofi. 39
Kurt Flasch si oppone alla distinzione proposta da Friedrich-Wil-
helm von Herrmann fra una comprensione filosofica o fenomenologica del
tempo e una sua comprensione naturale-quotidiana. 4° Con forza si di-
ce: «Nulla nel libro undicesimo delle Confessioni è sorto nelle condizio-
ni di pensiero e di vita della modernità».41 In effetti nessuno lo può con-
testare. Tuttavia bisogna chiedersi se nelle condizioni di pensiero e di vi-
ta dell'antichità non ci fossero comprensioni dell'esistenza che, essendo
38. von Herrmann, Augustinus und die phi:inomenologische Frage nach der Zeit, 51 ss.
39. Benché io ritenga irrinunciabile questa problematica per ragioni ermeneutiche, chi
la pensa diversamente può appunto addossare a me come mia questa persuasione che
non lo convince. 40. Flasch, Was ist Zeit?, 339 e passim. 41. Op. cit., 15.
306 Epilegomeni
aperte alle «condizioni di pensiero e di vita della modernità», ora possia-
mo comprendere nel nostro pensiero dell'esistenza. Nelle antiche con-
dizioni di pensiero e di vita non possono esserci stati spunti di una fe-
nomenologia esistenziale che possono essere integrati nel nostro pensie-
ro fenomenologico? Ciò che Flasch ha ricavato dal pensiero di Agosti-
no è un'interpretazione largamente adeguata al padre della chiesa. 42 A
questo punto ci permettiamo la seguente osservazione anticipando già
Bergson: la critica di Flasch a una visione di Agostino troppo precipito-
sa che appunto lo assimili eccessivamente a Bergson è in linea di princi-
pio assolutamente giustificata. In verità questi non distinse ancora come
Bergson fra durata misurabile e durata realmente sperimentata del tem-
po. Con Flasch si può dire: «Agostino non aveva il problema del con-
trasto fra tempo esteriore, misurabile, omogeneo e tempo interiore, glo-
bale ... T aie distinzione non trova appiglio nel testo di conf r r. Agostino
dichiara di voler indagare che cosa sia il tempo; non allude minimamen-
te alla differenza, tanto meno al contrasto di tempo esteriore - tempo
interiore». 43 Tuttavia bisogna osservare contro Flasch che, nonostante il
persistere nel sistema della misurabilità, c'è in Agostino secondo il suo in-
tento un superamento della comprensione matematizzante del tempo,
quindi proprio quell'intento che Bergson esplica pur ponendosi in con-
trasto con Agostino.
In tal senso è ridimensionata, anche se non completamente confutata
l'interpretazione di Agostino da parte di Flasch. Agostino è più moder-
no di quanto Flasch ammetta. 44 Con questa osservazione non è ancora
verificata la tesi di von Herrmann della doppia comprensione del tempo
nelle Confessioni. Questi rinvia per essa anzitutto alla frase già citata di
conf r r, r 7, secondo cui Agostino sa che cosa sia il tempo finché non viene
interrogato in proposito. Con questa frase il padre della chiesa vuol dire
42. Cito qui solo il seguente passo, op. cit., I 9 s. (sulla definizione del tempo già citata
in conf r r ,2): «Appare un equilibrio ben ponderato fra i tre modi del tempo; l'insisten-
za poggia però sul loro esser presenti e sul fatto che altrove, quindi, per così dire,
fuori dell'anima, non si possano assolutamente ritrovare. In tal modo il presente ac-
quista ... preminenza, esso riunisce appunto in sé tutti i tempi ed è il loro unico luogo
ontologico. Questa espressione è di nuovo da correggere nel senso del testo: non il
presente riunisce le tre dimensioni del tempo, bensì è l'anima a riunirle nel presente. I
tempi ... sono opera sua. Non si dice mai che ci sarebbero inoltre tempi esteriori. Il
tempo è tempo dell'anima, mai un puro tempo cosmico. Il tempo dell'anima è l'unico
tempo cosmico di cui abbiamo notizia ... Lo spazio interno può essere spazio interno
del mondo, ma il mondo non può essere spazio dell'anima. Qui si nascondono i pro-
blemi della teoria agostiniana del tempo ... Questa anima si costruisce un mondo co-
me un poeta espone con parole e fantasie un mondo». 43. Op. cit., 3 r.
44. Eccessiva è la polemica da lui dichiarata contro gli «agostinisti dogmatici del pre-
sente» che si adoperano per «confezionare il loro santo come verità al di sopra del
tempo e per svincolarlo il più possibile dalla storia». (op. cit., 13 1 ).
Preludio filosofico
che c'è nelle relazioni umane una comprensione del tempo che di norma
non è messa in questione e che appunto rende possibile la concezione
del tempo da parte degli uomini. È, per dirla con von Herrmann, «non un
sapere tematico», bensì un «sapere di attuazione». 45 Questo sapere di at-
tuazione precede sempre e fondamentalmente la questione filosofica del-
l'essenza del tempo. E così von Herrmann può dire a buon diritto che la
questione filosofica dell'essenza del tempo è sempre preceduta dalla con-
cezione naturale del tempo che rende possibile una tale questione.46
Forse si dovrebbe ampliare la distinzione fra comprensione naturale e
fenomenologico-filosofica del tempo mostrando ancora in Agostino la
comprensione teologica del tempo. Una triplice comprensione del tem-
po risulta infatti dalla struttura del libro undicesimo delle Confessioni su
cui riflettono sia von Herrmann, sia Flasch. In conf 11, 1-16 Agostino si
sforza di presentare il rapporto di tempo ed eternità come rapporto quin-
di fra l'uomo temporale e Dio eterno. Egli lo fa inserendo le sue rifles-
sioni sul tempo nel suo «dialogo confessionale» 47 con Dio. Il tractatus
theologicus fino a conf 11,17,5 mira però, se così si può dire, al tractatus
philosophicus (da conf 11,17,6) sull'essenza del tempo - nella prospetti-
va sia della comprensione naturale, sia anche di quella fenomenologico-
filosofica. Dall'argomentazione teologica è dunque sorta la questione
primariamente filosofica dell'essenza del tempo. Ed è questa domanda
alla quale nel seguito Agostino risponde. 48
Rivolgendosi ali'anima humana, 49 egli conduce in un certo senso il dia-
logo con se stesso. Agostino guarda dentro di sé per comprendersi come
anima che comprende il tempo.
Si può sicuramente discutere sulle singole interpretazioni di von Herr-
mann. Ci si può perfino chiedere criticamente se il concetto di «collo-
52. In proposito Flasch, Was ist Zeit?, 105 ss. Egli richiama l'attenzione soprattutto
su de civ. Dei 11,6, CCh 48,326 rr. 1-12: si enim recte discernuntur aeternitas et tem-
pus, quod tempus sine aliqua mobili mutatione non est, in aeternitate autem nulla
mutatio est: quis non videat, quod tempora non fuissent, nisi creatura fieret, quae ali-
quid aliqua mutatione mutaret, cuius motionis et mutationis cum aliud atque aliud,
quae simul esse non possunt, cedit atque succedit, in brevioribus vel productioribus
morarum intervallis tempus sequeretur? Cum igitur Deus, in cuius aeternitate nulla
est omnino mutatio, creator sit temporum et ordinator: quo modo dicatur post tempo-
rum spatia mundum creasse non video, nisi dicatur ante mundum iam aliquam fuisse
creaturam, cuius motibus tempora currerent; inoltre 15.
3I o Epilegomeni
57. Immanenza intesa qui in senso teologico, quindi come l'ambito del mondo creato
in antitesi alla trascendenza del creatore divino.
58. Manzke, Ewigkeit und Zeitlichkeit, 162; in relazione a ciò afferma giustamente:
«Quei modelli che spiegano la dissociazione dell'esperienza umana del tempo in mo-
do tale da interpretarla a partire dalla contrapposizione fra tempo ed eternità come
312 Epilegomeni
69. Op. cit., 278. 70. Op. cit., 279. 71. Op. cit., 278 s.
72. Spec. op. cit., 298 ss. 73. Op. cit., 309. 74. Op. cit., 3 r r (corsivo mio).
Epilegomeni
12. Cfr. anche Preuss, Theologie des ATI, 2 53: «Il presente è unito di conseguenza al
passato e aperto al futuro».
Lo spazio-tempo della grazia, I. L'Antico Testamento
3. Cfr. spec. Neusner, The Rabbinic Traditions about the Pharisees before 70, I-III.
Lo spazio-tempo della grazia, Il. Il Nuovo Testamento 329
loro situazione presente e ambedue allo stesso scopo hanno
impiegato affermazioni contro il loro senso letterale. Né i giu-
dei, né i cristiani possedettero la Sacra Scriptura per seipsam.
Ambedue argomentarono teologicamente con la loro rispetti-
va Sacra Scriptura recepta. Infatti dove c'è storicità, c'è rice-
zione. L'assenza di ricezione è ontologicamente impossibile.
Questa circostanza di fatto filosofico-ermeneutica determina
ogni affermazione teologica; infatti un'affermazione teologica
è espressione di una riflessione che non parte da un punto sto-
rico zero. E poiché, com'è risultato sempre più chiaramente
nel corso delle nostre riflessioni, la ricezione avviene sulla base
di costellazioni storiche sempre nuove col loro sistema di co-
ordinate storiche e sociali, date necessariamente in modo sem-
pre nuovo, e quindi nuova storicità produce nuova w;mpren-
sione storica, la tradizione recepita, anche la tradizione recepi-
ta di una sacra Scrittura letteralmente fissata è una tradizione
compresa in modo sempre nuovo. Non c'è mai tradizione in
sé, c'è solo tradizione interpretata.
Con quanto abbiamo appena detto il discorso dello spazio interpretati-
vo sempre nuovo è situato parimenti nell'orizzonte del tempo. Spazi in-
terpretativi hanno rispettivamente il loro tempo interpretativo. Se l'in-
terpretare è necessariamente un esistenziale dell'esserci umano in cui è
costitutiva anche la comunione degli uomini, se dunque l'interpretare -
avviato consapevolmente o, come capita per lo più, inconsapevolmente
-è un processo inevitabile per l'esistenza dell'uomo e delle comunità uma-
ne, allora questa circostanza di fatto ontologica è un tema che merita di
essere particolarmente considerato rispetto al compito di una teologia
biblica del Nuovo Testamento.
Il rapporto reciproco dei due Testamenti, ora liberato dai
limiti di una considerazione meramente letteraria, si è quindi
evidenziato come rapporto di una storia della relazione fra
Israele e chiesa che si svolge nel tempo e nello spazio. In tal
modo si manifesta sempre più chiaramente nei suoi contorni il
pensiero dello spazio-tempo, in cui dev'essere insieme conti-
nuamente considerato il contenuto esistenziale, quindi la spa-
zialità e temporalità dell'esistenza umana (si veda l'excursus
alla prima lettera ai Corinti). 4 Israele e chiesa come entità spa-
4· Voi. II, 205 ss.
330 Epilegomeni
ca; per lui, com'è apparso chiaro, la storia era una categoria
eminentemente teologica e non gli importava invece la storia
per se stessa. Giacché neppure i sinottici riferiscono su Gesù
con intento primariamente storico-biografico, li abbiamo di
conseguenza valutati nella nostra concezione teologica come
scritti teologici, quindi cristologici. Se però adesso negli epile-
gomeni riassumiamo il compendio teologico della teologia o
delle teologie degli autori neotestamentari, allora dev'essere af-
frontato come tema specifico il loro f andamento storico, da
cui provengono. Perciò la persona di Gesù di Nazaret rientra
appunto necessariamente in questi epilegomeni. E risulterà an-
che che la questione dell'importanza di Gesù e della sua azio-
ne si attaglia nel modo migliore al contesto della tematica: «spa-
zio-tempo della grazia». Che gli epilegomeni con questa tema-
tica non siano una mera appendice al corpus vero e proprio
della teologia biblica del Nuovo Testamento, ma anzi derivino
la loro valenza argomentativa e il loro peso teologico dai me-
solegomeni è evidenziato appunto dalla necessità con cui la cri-
stologia come teo-logia del Nuovo Testamento postula la ri-
flessione teologica su Gesù di Nazaret. Infatti questi è la viva
persona umano-divina senza la quale tutta la cristologia neo-
testamentaria sarebbe priva di sostanza. La teologia come ri-
flessione teologica sulla rivelazione di Dio conduce quindi a
colui che è come uomo la rivelazione di Dio in persona.
Ora non è questo il luogo per sviluppare tutta la problema-
tica del cosiddetto Gesù storico. 1 Nondimeno sono però op-
portune alcune fondamentali osservazioni. Nella misura in cui
la teologia neotestamentaria è essenzialmente cristologia e non
proprio gesulogia, il punto di vista di Rudolf Bultmann, per il
quale la predicazione di Gesù rientra nelle premesse della teo-
logia del Nuovo Testamento, ma non ne è essa stessa parte, è
relativamente legittimo - ma appunto solo relativamente.' Dal
nostro intento teologico diverge notevolmente la sua opinione
secondo cui l'importanza di Gesù e della sua attività sia dari-
durre al fatto, al 'che' della sua venuta, al 'che' della sua predi-
1. Mi limito qui a citare Kasemann, Das Problem des historischen f esus e Gnilka, Je-
sus von Nazareth. 2. Bultmann, Theol., 1 (tr. it. 13).
Lo spazio-tempo della grazia, III. Gesù di Nazaret 343
cazione, giacché teologicamente conterebbe soltanto che la
croce e la risurrezione di Gesù siano divenuti oggetto nella ri-
flessione teologica come l'evento escatologico. 3 La questione
rilevante in questo contesto è infatti di stabilire se la comparsa
di Gesù non costituisca già la realtà di quella salvezza che poi
in modo particolare si è realizzata pienamente mediante la sua
croce e risurrezione. Se Gesù ha annunciato la ventura signo-
ria di Dio, allora si pone ineluttabilmente la questione di qua-
le rapporto sussista fra la chiesa postpasquale e la signoria di
Dio annunciata nel tempo prepasquale da Gesù, un rapporto
stabilito fra due realtà spirituali, cioè operate da Dio. Il detto
molto citato di Alfred Loisy, secondo cui Gesù avrebbe an-
nunciato il regno di Dio, ma sarebbe venuta la chiesa, pur con
l'astiosa sfumatura con la quale per lo più è richiamato, 4 può
forse essere avvicinato a quanto ha proprio detto Bultmann
non astiosamente, ma per convinzione teologica. In nessun ca-
so però Loisy ha disgiunto fra loro così radicalmente in senso
storico la predicazione di Gesù e quella della chiesa, in nessun
caso ha posto in antitesi così radicalmente Gesù e la chiesa co-
me Bultmann ha determinato teologicamente il rapporto fra il
contenuto della predicazione di Gesù e il contenuto del ke-
rygma. Se però il Gesù terreno è il crocifisso e appunto questo
crocifisso è stato prima condotto alla croce dalla via della sua
attività e dalla salvezza di Dio presente su questa via, allora
parlare del mero 'che' della sua venuta e del mero 'che' della
sua predicazione è espressione di pensiero non storico. 5
3. Ad es. Bultmann, Die Christologie des NT, 245-267 {tr. it. 262-285); Idem, Ant-
wort an Ernst Kasemann, 190-198: 195 {tr. it. !063-1071: I068).
4. Loisy, Evangelium und Kirche, 112 ss. Loisy non intende questo detto così cinica-
mente, bensì in senso storico: giacché per ragioni storiche (l'attesa imminente non si
compì) la forma originaria del vangelo non poté mantenersi, la chiesa dovette esten-
derla. E proprio in questo senso lo scopo della chiesa per Loisy rimase quello del van-
gelo. Giustamente dice Peter Neuner, TRE XXI, 454: «Da questa citazione si recepì
solo l'affermazione: 'Gesù aveva annunciato il regno e al suo posto è venuta la chiesa'
e se ne ricavò - contro l'intenzione di Loisy - una squalifica quasi maligna della chie-
sa, che in tal senso è in contrasto con l'annuncio di Gesù» (corsivo mio).
5. A questo punto emerge una peculiare frattura nel pensiero storico di Bultmann. Pro-
prio la sua impostazione metodologicamente corretta in base all'interpretazione esi-
stenziale, che gli ha consentito di diventare uno dei teologi(!) più significativi del ven-
344 Epilegomeni
22. I termini ÒtKatoauv'I) .Stou e òUva1.1.1ç .Stou sono (quasi) sinonimi benché visti da
una prospettiva ben diversa.
23. In verità sarebbe troppo semplicistico se si volesse vedere sostituita la predicazio-
ne prepasquale di Gesù sulla signoria di Dio dalla predicazione postpasquale della
giustizia di Dio; infatti pure nel tempo postpasquale si parla ancora della signoria di
Dio (ad es. Gal. 5J2I; I Cor. 6,9 s.; I 5,25).
24. È davvero un pezzo della tragedia della teologia del ventesimo secolo se proprio il
Epilegomeni