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Commentario teologico del Nuovo Testamento

Supplementi
7

Paideia Editrice
Hans Hiibner

Teologia biblica
del Nuovo Testamento
vol. II
La teologia di Paolo
e la storia dei suoi effetti
nel Nuovo Testamento

Paideia Editrice
Titolo originale dell'opera:
Hans Hiibner
Biblische Theologie des Neuen Testaments
Band 2.Die Theologie des Paulus und ihre neutestamentliche Wirkungsgeschichte
Traduzione italiana di Paola Florioli

© Vandenhoeck & Ruprecht Verlag, Gottingen 1993


© Paideia Editrice, Brescia 1999 ISBN 88.394.0582.8
INMEMORIAM
PROFESSORIS ET DOCTORIS
ANTONII T. HANSON
AMICI ET VETERIS TESTAMENTI
IN NOVO INVESTIGATORIS
PREMESSA
ALL'EDIZIONE ITALIANA

A due anni dalla pubblicazione dell'edizione italiana del pri-


mo volume, ecco ora il secondo volume della mia Teologia bi-
blica del Nuovo Testamento. Di ciò ringrazio di cuore la Pai-
deia Editrice, in particolare il dr. Marco Scarpate la traduttri-
ce, dott.ssa Paola Florioli, per il loro buon lavoro.
Riguardo al contenuto di questo secondo volume, non è ne-
cessario aggiungere altro a quanto dico nella premessa all'ori-
ginale tedesco. Un punto soltanto vorrei tuttavia sottolineare:
confortato dalle molte e positive recensioni al primo volume da
parte cattolica, nella premessa all'edizione tedesca ho accenna-
to all'intento ecumenico della mia Teologia. Dopo la pubblica-
zione del secondo volume sono venuto a sapere di una pari ac-
coglienza, in particolare anche nella cattolica Italia. Dopo la let-
tura del secondo volume, d'altra parte, alcuni recensori, certo
molto benevolmente, hanno temuto che, in quanto teologo lu-
terano, al seguito di Martin Lutero io attribuissi un peso ecces-
sivo alla teologia di Paolo e di conseguenza troppo poco al si-
gnificato di Gesù di Nazaret. Il terzo volume nel frattempo u-
scito in lingua tedesca dovrebbe, almeno spero, aver mostrato
l'inconsistenza di tali timori, dal momento che esso si conclude
con l'esposizione dell'annuncio e del destino di Gesù. E intento
di questa sezione è di mostrare che questo Gesù, il Figlio di
Dio, è qui la ragion d'essere divina di qualsiasi teologia bibli-
ca. Spero che anche questo secondo volume raggiunga in Italia
il suo scopo ecumenico. Soprattutto spero che sia di stimolo al
lettore a pensare teologicamente, a pensare a partire dalla sa-
cra Scrittura.
Hermannrode/Gottingen, giugno r 999.
HANS HUBNER
PREMESSA

In linea di principio una premessa è un paradosso assai singola-


re. Pur trovandosi prima dello svolgimento vero e proprio del
libro, di norma viene scritta dopo aver concluso il manoscritto.
Questa circostanza ha senso perché così l'autore fin dalle prime
pagine può comunicare ciò che gli si è chiarito solo durante la
stesura dell'opera. Riguardo a questo secondo volume della Teo-
logia biblica del Nuovo Testamento, sono sempre più convinto
che, nei suoi intenti originari, l'esegesi della sacra Scrittura è in-
terpretazione della sacra Scrittura. Tuttavia non sempre si con-
viene che l'esegesi sia principalmente scienza dell'interpretazio-
ne. Leggendo parecchie pubblicazioni esegetiche anche piutto-
sto recenti si ha l'impressione che non pochi esegeti si acconten-
tino consapevolmente di un compito storico. Certo, nessun bi-
blista deve trascurare gli aspetti storici e letterari: questi sono
una conditio sine qua non. Ma quando la critica storica e lette-
raria volutamente non viene svolta in vista della comprensione
teologica della sacra Scrittura, al lavoro esegetico viene a man-
care ciò che gli è proprio. Approfondire la teologia di Paolo e la
sua storia degli effetti (Wirkungsgeschichte) neotestamentaria
ha inoltre rafforzato anche la mia convinzione che è possibile
cogliere adeguatamente ciò che un autore neotestamentario
vuole dire, solo se ci lasciamo da lui condurre lungo il suo per-
corso argomentativo teologico. O almeno, ciò è vero per quegli
scritti neotestamentari che sono trattati in questo secondo vo-
lume.
Se dal procedimento cronologico scaturisce un'esposizione
della teologia neotestamentaria che per concezione e struttura
si differenzia considerevolmente da altre teologie del Nuovo Te-
stamento, non si tratta certo di una novità. Il gesuita Ferdinand
12 Premessa

Prat aveva già concepito il primo volume della sua teologia


paolina sulla base della successione cronologica delle lettere di
Paolo, non certo dal punto di vista di uno sviluppo teologico. 1
Ma il tentativo qui presentato mostra forse che in ogni caso il
procedimento metodologico consistente nell'accompagnare Pao-
lo lungo il suo sviluppo teologico consente di comprenderlo me-
glio come figura storica e proprio per questo come teologo che
sa riflettere e argomentare.
Sono grato per il vastissimo consenso incontrato dalla mia
concezione, proposta e motivata nei prolegomeni. Quasi senza
eccezioni è stato accolto con favore il fatto che grazie al tipo di
esposizione il lettore venisse coinvolto nel divenire di tale con-
cezione. Di fronte a un 'accoglienza tanto benevola dei prole-
gomeni, è con una certa esitazione che pongo il secondo volu-
me tra le mani di quanti lo leggeranno, poiché non so fino a
che punto saprò corrispondere alle aspettative, a quanto pare
piuttosto trepidanti. Mi auguro però che almeno il tentativo in
sé di trattare la teologia degli scritti esaminati dal punto di vi-
sta della correlazione tra questione storica ed ermeneutica si
ponga l'obiettivo giusto. La distinzione tra Vetus Testamentum
e Vetus Testamentum in Novo receptum, intesa in senso non
solo storico ma anche teologico, contrariamente ai miei timori
è accettata dalla maggior parte dei recensori, in parte è stata
anzi accolta con vero favore. Quasi contemporaneamente al
2

secondo volume della mia Teologia è uscito il primo volume


della Teologia biblica del Nuovo Testamento di Peter Stuhl-
macher, in cui è presa in esame anche la teologia di Paolo. Mi
rincresce che per motivi di tempo io non abbia potuto occupar-
mi di questa importante opera se non in pochissime note: l'au-
tore, da tempo uno dei sostenitori più rappresentativi dell'esi-
1. Per alcuni lettori sarà forse di qualche interesse sapere che il defunto storico della
chiesa Hubert Jedin, quando gli consegnai il mio volume sulla legge in Paolo e sullo
sviluppo teologico dell'apostolo, mi raccontò quanto segue: durante il suo esame di
laurea a Breslau (1925!) Friedrich Wilhelm Maier gli chiese quale critica avesse dari-
volgere all'opera di Prat sulla teologia di Paolo. Maier stesso fornì la risposta: Prat
non aveva riconosciuto lo sviluppo della teologia paolina.
2. Su questo punto cfr. anche il saggio di Nikolaus Walter, Bucher: so nicht der heili-
gen Schrift gleich gehalten ... ? Karlstadt, Luther - und die Folgen.
Premessa 13
genza di una teologia biblica, contesta la mia distinzione tra
Vetus Testamentum e Vetus Testamentum in Novo receptum.
Dunque il nostro confronto - e spero che si tratti di un dialogo
fecondo anche per chi ne è al di fuori - proseguirà in un altro
momento.
Sono grato anche perché il favare incontrato dai prolegome-
ni è giunto da parte non solo evangelica ma pure cattolica. Era
infatti mio intento portare un contributo al dialogo teologico
ecumenico. In particolare mi compiaccio che da recensori cat-
tolici sia stato accolto favorevolmente quanto ho esposto nel ca-
pitolo di teologia sistematica su Karl Rahner. L'accordo di ese-
geti cattolici ed evangelici, ampio anche se ovviamente non pie-
no, nel comprendere e valutare la dottrina paolina della giusti-
ficazione è di grande importanza nella situazione teologica at-
tuale. Da alcuni anni infatti si vanno intensificando gli attac-
chi di esegeti soprattutto americani all'opinione sostenuta dalla
maggior parte dei teologi evangelici secondo la quale per la
teologia di Paolo è d'importanza cruciale la giustificazione per
fede, senza le opere della legge (ad es. Ed P. Sanders e Francis
Watson). In alcune recensioni certi autori vengono pubblica-
mente elogiati per aver provocato la caduta esegetica della
«posizione luterana». Ad essere criticata non è l'opinione di un
certo esegeta o di una certa scuola teologica, bensì la compren-
sione di Paolo nella teologia e nella chiesa luterane. Non si
tratta più dunque di una singola opinione esegetica che si con-
trappone a un'altra, ma è l'esegesi stessa a essere praticata co-
me contestazione del fondamento teologico di una confessione
religiosa. È dunque con vera riconoscenza che dovremmo pren-
dere atto del considerevole avvicinamento fra teologi cattolici
ed evangelici nella comprensione di Paolo.
Certo alcuni criticheranno che io abbia prestato troppo poca
attenzione al giudaismo di età neotestamentaria. Al riguardo
posso rimandare anzitutto ai prolegomeni, pp. 292 s. Penso
inoltre che di fronte alla situazione attuale della ricerca f asse
necessario in primo luogo seguire coerentemente il cammino
qui intrapreso. È ovvio che tocchi ad altri con diversi interessi
di ricerca integrare ciò che io non ho voluto o potuto fare.
Premessa

Come nel primo volume, la spiegazione avviene discutendo


la bibliografia di un certo rilievo. E con un tema di tale porta-
ta ciò può accadere solo operando una selezione. Perciò ho do-
vuto scegliere tra una quantità di pubblicazioni in cui è diven-
tato difficile districarsi, trascurando talvolta opere veramente
di valore. Dove avevo già discusso un argomento in precedenti
opere su Paolo, ho ritenuto di non doverlo più ripetere qui ap-
profonditamente. Per il resto rimando alla mia rassegna critica
della ricerca su Paolo a partire dal 1945 (ANRW 11, 25.4, 2649-
2840), in cui il lettore potrà leggere molto di quanto qui forse
non trova.
A molti vanno i miei ringraziamenti, in primo luogo ad al-
cuni colleghi della Facoltà Teologica di Gottinga. Vorrei men-
zionare anzitutto il prof dr. Georg Strecker e il vescovo emeri-
to, prof dr. Eduard Lohse. Sono loro grato per la lettura critica
del manoscritto. Ringrazio il signor stud. theol. Mare Wisch-
nowsky per la redazione dei due indici, nonché per l'aiuto tec-
nico prestatomi col diplomato in teologia Maic Zielke. Ringra-
zio la signora stud. theol. Cora Bartels per la revisione del ma-
noscritto. Un ringraziamento particolare va alla signora Heidi
Wuttke per aver trascritto un manoscritto alquanto difficile.
La dedica di questo secondo volume della Teologia biblica
del Nuovo Testamento è un doloroso in memoriam. È manca-
to infatti il mio amico inglese, prof dr. Anthony T Hanson,
neotestamentarista che aveva seguito con il massimo interesse
il nascere della mia Teologia biblica, potendo assistere purtrop-
po solamente alla pubblicazione dei prolegomeni. Proprio lui è
stato uno degli studiosi più eminenti sia della ricezione del-
l'Antico Testamento nel Nuovo, sia della teologia paolina. La
dedica di quest'opera, consacrata alVetus Testamentum in No-
vo nonché alla teologia di Paolo, sia dunque particolarmente
significativa. È con viva gratitudine che ripenso ai lunghi anni
di scambio scientifico e arricchente incontro personale.
Hermannrode/Gottingen, prima domenica di avvento r 992.
Hans Hiibner
INDICE DEL VOLUME

Premessa all'edizione italiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9


Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . l l

PARTE SECONDA
Teologia biblica degli scritti neotestamentari
(mesolegomeni)
Introduzione
Capitolo primo. Citazioni e allusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23

l. Le f ormulae quotationis . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23
2. Citazioni e midrash . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24
3. La critica testuale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2 5
4. Le allusioni e il problema ermeneutico-teologico di citazioni e
allusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 26
Capitolo secondo. La teologia di Paolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35
r. L'apostolo teologante e il teologo argomentante . . . . . . . . . . . 35
2. La biografia di Paolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39
3. Le lettere di Paolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49
a) La prima lettera ai Tessalonicesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 50
L'argomentazione nella prima lettera ai Tessalonicesi . . . . . 50
La :eolo~ia della prima lettera ai Tessalonicesi: essere davan-
ti a Dio........................................ 57
b) La lettera ai Galati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67
Argomentazione e teologia nella lettera ai Galati . . . . . . . . . 67
La teologia della lettera ai Galati: essere davanti a Dio ed es-
sere in Cristo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . l 27
e) La prima lettera ai Corinti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . l 29
I Cor. l-4: theologia crucis - theologia verbi crucis. . . . . . . . l 30
Sguardo retrospettivo su I Cor. l-4 . . . . . . . . . . . . . . . . . l 59
I Cor. 5-7: lesistenza corporea del cristiano . . . . . . . . . . . . l 62
I Cor. 8-10: la libertà e i suoi limiti .................... 178
16 Indice del volume

I Cor. 11-14: il culto ............................... 199


ICor. 15: il finale escatologico. Esistenza escatologica come
esistenza corporea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 226
d) La seconda lettera ai Corinti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2 39
2 Cor. 3,1-4,6: l'apostolo e la sua comunità. Libertà e Spirito 240
2 Cor. 4,7-7,4: l'esistenza apostolica ................... 252
e) La lettera ai Romani ............................... 265
Il problema della lettera ai Romani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 265
L'analisi retorica della lettera ai Romani ................ 273
La teologia della lettera ai Romani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 295
Peccato e giustizia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 295
Rom. 7 e Rom. 8: legge e Spirito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 333
Rom. 9-II: Israeleelagiustificazionepermezzodellafede 349
Rom. 12-14: osservazioni sull'etica di Paolo .......... 366
f) L'inno cristologico della lettera ai Filippesi e la cristologia
paolina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 369
4. La teologia di Paolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 384
Capitolo terzo. La storia degli effetti della teologia paolina nel Nuo-
vo Testamento ........................................ 395
r. Le lettere deuteropaoline . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 396
a) La lettera ai Colossesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 396
b) La lettera agli Efesini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4I 2
e) La seconda lettera ai Tessalonicesi .................... 426
d) Le lettere pastorali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 428
2. Le lettere cattoliche (eccetto 1-3 Gv.) .................... 430
a) La lettera di Giacomo come scritto teologico ............ 430
b) La prima lettera di Pietro, culmine della storia degli effetti
della teologia paolina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4 37
e) La lettera di Giuda: la Scrittura come testimonianza del Dio
che punisce . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 446
d) La seconda lettera di Pietro: metafisica come teologia? . . . . 448
Capitolo quarto. Retrospettiva: teologia, fede e rivelazione . . . . . . . 463
Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 469
Indice dei passi citati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 503
Indice degli autori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51 3
PARTE SECONDA

TEOLOGIA BIBLICA
DEGLI SCRITTI NEOTESTAMENTARI
(MESOLEGOMENI)
INTRODUZIONE

Con i prolegomeni è stato costruito il sistema teologico di coordinate al-


l'interno del quale poter elaborare convenientemente una teologia bibli-
ca del Nuovo Testamento. Si era evidenziato che essi non solo rappre-
sentano una specie di struttura formale per l'esposizione concreta delle
idee teologiche degli autori neotestamentari, ma anche che già per il
contenuto hanno molto da dire a proposito della teologia degli scritti bi-
blici. Si era addirittura rivelato opportuno approfondire talora nei parti-
colari alcuni topoi teologicamente di importanza cruciale, come ad esem-
pio l'annuncio della giustificazione di Paolo. Si è così chiarito come gli
aspetti teologici esegetici e quelli di teologia fondamentale siano stretta-
mente intrecciati fin dalla loro propria origine. Non è proprio possibile
scindere tra loro sostanza e contenuto della rivelazione. Per questo mo-
tivo i prolegomeni, e in particolare ciò che in essi è stato detto da un pun-
to di vista della teologia fondamentale ed esegetica circa il problema
della rivelazione, potrebbero già costituire in parte una puntualizzazio-
ne contenutistica di ciò che è negli intenti di una teologia biblica del N uo-
vo Testamento. Tuttavia la tendenza immanente del risultato ottenuto
rimanda ancora oltre. La struttura delle risposte del primo volume, in
intimo rapporto tra di loro, preme energicamente verso nuovi interro-
gativi.
Ma non la prendiamo troppo alla leggera, se stabiliamo come vantag-
gio costruttivo un tale orizzonte teologico globale? Non presupponia-
mo, forse senza troppo riflettere, che questo orizzonte globale si lasci
definire come un'entità fissa, determinabile fin dal principio, nella quale
riusciamo poi a far rientrare tutti i singoli elementi che il lavoro esegeti-
co saprà produrre? Non bisogna tener conto del fatto che ogni nuovo
risultato si ripercuoterà sul sistema teologico di coordinate già stabilito?
Mentre ascoltiamo ciò che gli autori neotestamentari hanno da dirci a
proposito della loro personale comprensione, o meglio, di come essi han-
no personalmente inteso la Scrittura veterotestamentaria, ecco infatti che
muta nuovamente la nostra iniziale comprensione del tutto. Nessuno
che si ponga interrogativi storici riesce a uscir fuori da questo circolo
ermeneutico. Pur dovendo dunque attenerci nella sostanza ai risultati
dei prolegomeni, quando vi siano nuovi risultati esegetici particolari re-
steremo comunque aperti a vedere da una nuova prospettiva quanto si è
20 Introduzione

prima affermato, e questo per non essere troppo affrettati nel classifica-
re ciò che è nuovo, magari inusitato, in ciò che è stato acquisito prece-
dentemente ed è divenuto ormai usuale.'
Il rapporto teologico con l'Antico Testamento di gran parte degli au-
tori neotestamentari emerge con maggior evidenza nelle citazioni scrit-
turistiche formali. L'intento teologico che anima tali autori si può de-
durre ampiamente da queste citazioni. Ma non soltanto il contenuto del-
le citazioni, bensì anche le formule con cui esse vengono spesso intro-
dotte, le formulae quotationis, esprimono in molti casi l'intento teologi-
co di ciascun autore - talvolta addirittura in maniera programmatica. Si
tratta, anche se ovviamente in modo diversissimo, di espressioni di spic-
cata concettualità teologica e considerevole forza espressiva teologica.
Se dai testi neotestamentari si togliessero gli elementi veterotestamen-
tari, gran parte di essi perderebbero visione e peso teologici.
Tuttavia vanno prese in considerazione anche le allusioni, benché sia-
no più difficili da verificare.Non è sempre possibile determinare con cer-
tezza se un parallelo veterotestamentario, che noi indichiamo come tale,
sia stato introdotto anche dall'autore neotestamentario come allusione
consapevole. Dobbiamo pensare infatti che situazioni ed enunciati del-
]' Antico Testamento dovevano essergli tanto familiari da entrare di con-
tinuo e quasi automaticamente in quanto andava esponendo.' Dovremo
dunque attribuire un peso teologico anche a quelle allusioni tratte dalla
Scrittura che magari non sono state inserite consapevolmente. Esse in-
fatti mettono comunque in luce un qualche aspetto del pensiero e del-
!' orizzonte teologico di ciascun autore neotestamentario. Nelle nostre
ricerche, tuttavia, alle citazioni formali dovrà essere dato un peso mag-
giore, poiché è in esse, più che nelle allusioni, che di solito è espresso
più chiaramente l'intento teologico dello scrittore neotestamentario. Bi-
sogna dunque verificare come e in quale misura l'argomentazione di cia-
scun autore, con l'aiuto di citazioni e allusioni veterotestamentarie, met-
ta a disposizione elementi per l'argomentazione teologica dei relativi
scritti neotestamentari.
Ma se parliamo di argomentazione ecco spuntare un altro aspetto im-
portante. L'argomentazione, infatti, acquista rilevanza particolare pro-
prio all'interno di unità concepite retoricamente. È vero, attualmente è
controverso come e quanto gli autori neotestamentari abbiano fatto ri-
corso alla retorica antica.Nella ricerca neotestamentaria, tuttavia, dovreb-

I. Nel suo corso su Holderlin nel semestre invernale 1941/42, Martin Heidegger pre-
sentò questa idea del consueto, categoria da cui ben difficilmente ci separiamo e nella
quale collochiamo l'inconsueto; a suo parere, è per questo motivo che occorre fare co-
sì tanta strada prima di riuscire a diventare ascoltatori, Gesamtausgabe n/52, I.
2. Riguardo al problema teologico ed ermeneutico delle allusioni (ma anche delle ci-
tazioni) v. § 4.
Introduzione 2!

be imporsi in misura sempre maggiore l'opinione che l'esegeta non può


più rinunciare alla conoscenza della retorica antica, dal momento che al-
meno per alcuni degli autori neotestamentari, Paolo in particolare, deve
tener conto di conoscenze e capacità retoriche. Se dunque intendiamo il
concetto di argumentatio come parte di un testo composto secondo le
regole della retorica antica, ecco sorgere un nuovo interrogativo: come
si adatta l'argomentazione teologica con l'Antico Testamento, che ritro-
viamo in esso, al procedimento della propria argumentatio? In quale mi-
sura e con quale peso l'argomentazione con l'Antico Testamento determina
l'argumentatio teologica relativa a ciascun autore neotestamentario?
CAPITOLO PRIMO

CITAZIONI E ALLUSIONI

r. Le f ormulae quotationis

Si possono trovare formulae quotationis 1 già in tempi precedenti al


Nuovo Testamento, i primi abbozzi addirittura nell'Antico Testamen-
to: per es. in 2 Re 14,6 kakkiitub besefer t8rat-mo5eh, LXX: 4 Regn. 14,
6 xa.Swc; yéypa7t'!at Èv ~t~Àiq.i v6µwv (!) Mwi.icrij, 2 Cron. 23,18 kakka-
tub bet8rat moseh, LXX: xa.Swc; yéypa7t-rat Èv v6µq.i Mwi.icrij e Bar. 2,2
xa-rà -rà ye:ypap.µéva Èv -refi vo1J.q.> Mwi.icrij. Vi corrisponde il qumranico
kf' ken katub o ka'afer kiitub (1 QS 5,15; 8,14; 4 QFlor l,2.12; CD 7,
19). Si deve dunque supporre che il rabbinico kekkatub o il suo equiva-
lente aramaico kedekketlb, riscontrabile solo in epoca successiva al Nuo-
vo Testamento, fosse già d'uso corrente nell'esegesi rabbinica anche in
epoca neotestamentaria.
In questa tradizione esegetica rientra la formula quotationis più fre-
quente del Nuovo Testamento: xa.Swc; yéypa7t-rat o o-rt yéypa7t-rat, yé-
ypa7t-rat, yéypa7t'!at yap ecc. (62 volte), di cui 9 in Mt., 7 in Mc., 9 in
Le., l volta in Gv., 5 in Atti, 16 in Rom., 8 in I Cor., 2 in 2 Cor., 4 in
Gal., l volta in I Pt. Accanto a queste troviamo anche altre forme di
ypacpw, ad es. xa-8-wc; Ècr-rtv ye:ypa1J.µÉvov, soprattutto in Gv., o, in diver-
se varianti,~ ypaçi~ ÀÉye:t in Gv., Rom., Gal. e I Tim.
Con quest'ultima formula si ha già il passaggio a quelle formulae quo-
tationis per le quali è costitutiva una forma di ÀÉyw. Invece dei singoli
passi possono essere citati i relativi autori, ad es. xa.Swc; d7te:v 'Icrdac; 6
7tpocp~TY)c;, Gv. l ,2 3; t.aulò ... ÀÉye:t, Atti 2,2 5; ma anche semplicemente
xa.Swc; 6 7tpo;o~n1c; ÀÉye:t, Atti 7,48. Nella singolare formula quotationis
wc; xal Èv -refi 'Dcr'YJÈ: ÀÉye:t, Rom. 9,25, in base al V. 24 probabilmente il
soggetto è Dio.' Ma se si tralasciano per un momento quei casi in cui
nelle citazioni alla prima singolare vengono fatti parlare Dio, Cristo o lo
Spirito santo - e qui bisognerebbe citare soprattutto Rom. 9-1 l ed Ebr.,
lettera che dal punto di vista delle sue formulae quotationis è piuttosto
eccentrica -, allora nelle formulae quotationis Dio stesso non è menzio-

1. In ambito anglosassone si è ampiamente diffusa l'espressione introductory formula.


2. V. i commenti.
24 Citazioni e allusioni

nato come colui che parla. Nel corpus Paulinum xa-&wç dm:v 6 -&i::oç, 2
Cor. 6,16, è al singolare. Ma questa citazione fa parte di un'interpolazio-
ne. In tutti e undici i casi, nel Nuovo Testamento ÀÉyi::t xupwç è parte
integrante della citazione stessa, oppure costituisce un'aggiunta alla cita-
zione apportata dall'autore neotestamentario. 3
Un caso a parte è rappresentato dalle formulae quotationis delle cita-
zioni di riflessione o di compimento di Mt., Zva/ortwç ('to'ti::) rtÀ"f]pw-&n
(btÀ"f]pW-&"f]) 'tÒ p"f]-&Èv (urtò xupiou) òtà 'toli 7tpocp~'tou ÀÉyonoç ecc., fon-
damentali per la sua concezione teologica; le citazioni di compimento di
Gv., altrettanto rilevanti dal punto di vista teologico, sono formulate in
modo meno stereotipo. 4 Specifici di Mt. sono anche i passi scritturistici
del cap. 5 introdotti da Yjxoucra'ti:: O'tt ÈppÉ-&"f] (àpx.doiç) e proposti in an-
titesi o annullati. A ÈppÉ-&"f] si può paragonare il rabbinico ne'emar. 5
Apoc. è piena di allusioni veterotestamentarie, ma non vi figura alcu-
na citazione formale. Per questo motivo in essa non vi sono neppure
espressioni che introducono citazioni. Solamente in Apoc. l 5,3 con xai
~òoucrtv 't·~v 0ò~v MwucrÉwç 'tou òouÀou 'toli -[holi xat (!) "'~" 0ò~v 'toli àp-
viou ÀÉyov'ti:;ç viene introdotto un cantico composto con elementi vete-
rotestamentari. Vi è una certa difficoltà data dal fatto che mentre Apoc.
15,3 fa necessariamente pensare a Es. 15,1, tale passo non è affatto citato
in Apoc. l 5,3 s., ed anzi il cantico è in contrasto con lo spirito di Es. l 5.
Tale difficoltà induce R.H. Charles a supporre che la menzione di Mosè
in Apoc. l 5,3 sia solo una glossa marginalc. 6
Talvolta un'unica formula quotationis introduce combinazioni di ci-
tazioni (accostamento di due o più passi biblici) o citazioni miste (ove
in una sentenza biblica rientrano anche elementi di un altro passo). 7 En-
trambi i fenomeni non sono tipici dcl giudaismo, e quindi è improbabile
che siano stati ripresi dall'esegesi giudaica.

2. Citazioni e midrash
Certamente l'esegesi giudaica nel midrash conosceva la combinazione
di passi biblici che si interpretano vicendevolmente. Tuttavia fino a oggi
nello studio sul giudaismo (R. Bloch, J.W. Doeve, R. Le Déaut, G. Ver-
mes, A.G. Wright) non si è ancora raggiunto l'accordo per quanto ri-
guarda il concetto di midrash. È difficile giudicare nei singoli casi in che
misura determinati generi del midrash come, ad esempio, il midrash dei

3. V. in particolare Ellis, Prophecy and Hermeneutic, 182 ss.


4. Riguardo alle singole varianti v. nel voi.III la sezione riservata a Giovanni.

5. Bacher, Die exegetische Terminologie, ad voc.


6. R.H. Charles, Revelation II (ICC), 3 5.
7. Soprattutto in Paolo; si veda la sezione riservata a Paolo in questo volume.
La critica test14afe

proemi (Petiba), abbiano effettivamente paralleli nel Nuovo Testamen-


to. E. Earle Ellis vede ad es. in Ebr. 10,5-39; Rom. 9,6-29 e Gal. 4,21-5,1
«lo schema generale di questo modello», in Le. 10,25-37 e Mt. l 5,1-9 «un
modello alquanto differente, che negli scritti rabbinici è chiamato jelam-
medenu rabbenu». 8 Ma Dietrich-Alex Koch contesta tali paralleli e fa no-
tare innanzitutto che del midrash dei Proemi è caratteristico proprio ciò
che non si adatta a Paolo, ossia il fatto che il testo da interpretare - si
intende il testo del Seder - compare solo alla fine dell'interpretazione. 9
Tuttavia a volte in questo genere di midrash il versetto del seder viene
citato ancora prima del versetto della petiba, facendo così risultare ab-
bastanza relativo questo tipo di obiezione. Koch contesta poi con vigo-
re ancora maggiore che in Paolo vi siano analogie con il midrash Jclam-
medenu. '0 Otto Miche!, senza comunque impiegare in questo contesto
il concetto di midrash, rinvia alla «peculiarità rabbinica di unire cita-
zioni di vari generi scritturistici», ossia «Torà, Nebiim e Ketubim» o an-
che solo «Torà e Nebiim», e ritiene di scorgervi una radice delle combi-
nazioni paoline di citazioni.'' Nel complesso il rapporto tra modalità di
citazione degli autori neotestamentari e midrash è ancora talmente con-
fuso che in futuro sarà meglio evitare di riprenderlo in considerazione.
Anche il rapporto tra midrash e targum è controverso. Per questo
non sarà qui trattato il rapporto tra prassi targumica e citazioni scrittu-
ristiche nel Nuovo Testamento; tuttavia nei casi che lo richiedono la
questione targumica sarà ricordata.

3. La critica testuale
Sebbene la maggior parte degli autori neotestamentari citi l'Antico
Testamento secondo i LXX, e solo in certi casi si possa seriamente pen-
sare a un ricorso ali' originale ebraico, ad esempio per alcune citazioni di
compimento di Mt., si riscontrano di continuo delle differenze tra il te-
sto dei LXX e la citazione neotestamentaria. Secondo l'ipotesi di Paul
Kahle, la storia dei LXX non inizia con un testo originario che nel corso
del tempo subisce alterazioni ma anche recensioni, bensì con svariate
traduzioni targumiche dai testi ebraici in volgare al greco. 12 Tale ipotesi,
tuttavia, non riuscì a imporsi, e oggi, con Dominique Barthélemy, Robert
Hanhart e altri studiosi dei LXX, bisognerebbe forse pensare a continue e
costanti recensioni del testo dei LXX per far coincidere nel contenuto la

8. Ellis, Prophecy and H ermeneutic, r 54 ss.


9. Koch, Die Schrift als Zeuge des Evangeliums, 224-227.
re. Sulla questione del midrash in Paolo v. anche Hanson, Studies in Paul's Technique
and Theology, 201 ss. r r. Miche!, Paulus und seine Bibel, 83.
r 2. Kahle, Die Kairoer Geniza, 222 ss.
Citazioni e allusioni

traduzione greca e l'originale ebraico, e supporre che tale processo si ri-


fletta anche nelle citazioni del Nuovo Testamento. ' 3 Dunque il lavoro
esegetico svolto sulle citazioni scritturistiche neotestamentarie si riper-
cuote anche sull'attività di critica testuale dei LXX. 14

4. Le allusioni e il problema ermeneutico-teologico


di citazioni e allusioni
Sarebbe troppo limitato voler riuscire a comprendere il rapporto teo-
logico con l'Antico Testamento degli autori neotestamentari solo in ba-
se alle loro citazioni veterotestamentarie. Che essi presentino citazioni
formali, certamente è solo espressione di una situazione ben più com-
plessa. L'Antico Testamento, la Scrittura - la ypmp~, come dicono essi
stessi - è per loro una patria spirituale e religiosa a un tempo. Tra i suoi
libri si sentono a loro agio, di essi si nutrono. Per loro l'orizzonte teolo-
gico costituito dalla Scrittura è proprio quella realtà all'interno della
quale comprendere ed esprimere il «nuovo» che Dio ha operato in Cri-
sto. Certo, si tratta del vecchio orizzonte teologico. Ma quello nuovo
può essere inizialmente espresso soltanto nella concettualità teologica e
religiosa di quello vecchio. Quanto la Scrittura offre in concetti, idee,
immagini ecc. tramandate dalla tradizione religiosa è stato da essi inte-
riorizzato - introiettato, per dirla in termini psicologici -; tuttavia è
nella natura della lingua, nella sua forza e dinamica, riuscire a esprimere
qualcosa di nuovo partendo dal potenziale che ha a disposizione, ossia
da ciò che le offre il «vecchio». Ma se il nuovo trova la sua espressione
linguistica in parole offerte dal vecchio, avviene allora il prodigio per cui
la lingua con la sua «riserva» di parole vecchie diventa essa stessa nuova,
in quanto riesce ad «esprimere» il nuovo con il vecchio. È proprio della
storicità della lingua il continuare a rinnovarsi così.
Ora, ciò che è valido per la ricezione linguistica tout court
si presta particolarmente bene al caso concreto della ricezione
dell'Antico Testamento nel Nuovo. Il linguaggio del Nuovo
Testamento, o più esattamente il linguaggio che è proprio di
ogni singolo autore neotestamentario, evidenzia in gran parte
una spiccata impronta veterotestamentaria. Se si prescinde dal-
13. Barthélemy, Les Devanciers d'Aquila; Hanhart, ZThK 81, 400 ss.
14. Grazie agli enormi progressi compiuti dalla ricerca più recente sui LXX (v. tra
l'altro l'edizione dei LXX di Gottingen), è ormai superata la compilazione dei paral-
leli veterotestamentari fatta da Wilhelm Dittmar nel suo Vetus Testamentum in Novo
del 1899/1903 (si veda ora Hans Hiibner, Vettls Testamentum in Novo, Pars secunda:
Corpus Paulinum, Giittingen 1997).
Il problema ermeneutico-teologico di citazioni e allusioni

le citazioni, allora sono le allusioni veterotestamentarie ad in-


fluenzare le argomentazioni e raffigurazioni teologiche dei sin-
goli autori. E questo vale in particolare quando il loro lin-
guaggio, nei punti salienti delle esposizioni, si eleva a linguag-
gio di preghiera. Tuttavia, spesso non è più possibile dimo-
strare in che misura il singolo autore neotestamentario fosse
consapevole di alludere a uno o magari addirittura a più passi
dell'Antico Testamento. Ma questo in fondo è anche irrilevan-
te, dato che sappiamo quanto fossero spiritualmente e religio-
samente radicati nella sacra Scrittura di Israele. È sempre l'an-
tica immagine di Dio, l'antica immagine di uomo, a permeare
di continuo e in larga misura il pensiero teologico degli autori
neotestamentari. Essi non ritenevano neppure indispensabile
rinviare a importanti enunciati e concezioni dell'Antico Testa-
mento perché, come ripeto, la sua realtà spirituale e religiosa
era scontata per loro e, come certo pensavano, anche per i loro
lettori. Spesso non si riesce neanche a valutare se una remini-
scenza di espressioni veterotestamentarie sia un'allusione in
senso stretto o se sia dovuta semplicemente alla dimestichezza
col linguaggio dell'Antico Testamento. I passaggi sono scorre-
voli, e il nostro giudizio, se anche dovesse rivelarsi esatto, in
molti casi risulterebbe irrilevante. Ciò che conta, infatti, è che
dove gli autori del Nuovo Testamento parlano la lingua del-
1'Antico, se ne servono per esprimere qualcosa di così radical-
mente nuovo che la loro lingua in fondo diviene neotestamen-
taria, cessando di essere veterotestamentaria.
Si pone così il problema ermeneutico fondamentale. Gli au-
tori neotestamentari hanno attinto con grandiosa, indipenden-
te immediatezza dall'Antico Testamento come loro fonda-
mento religioso e teologico. Se dunque con le citazioni hanno
interposto una certa distanza tra sé e la Scrittura, inserendole
come strumento di riflessione teologica e in questo modo com-
piendo una certa oggettivazione dell'Antico Testamento, allo-
ra proprio le allusioni sono molto più strettamente legate ad es-
so, in quanto si sono infiltrate in modo più diretto in ciascun
«canale» degli scritti neotestamentari. E proprio questo è il
punto per cui noi, per quanta familiarità possiamo avere con
30 Citazioni e allusioni

La ricezione, se avviene veramente come evento storico, è ri-


cezione critica, anche quando la critica non è l'elemento prin-
cipale. Nessuno è in grado di riprendere qualcosa che è stato
detto in precedenza nel senso esatto inteso nella situazione
originaria. Certo nel processo di ricezione di un testo storico
molto può essere conservato dal punto di vista del contenuto.
Se però si tratta di un testo che ha il sapore di ciò che è storico,
allora il significato che viene espresso con storicità nuova non
riprodurrà mai esattamente quello originario. In caso contra-
rio la storia non sarebbe più storia e la storicità non sarebbe
più tale.
L'obiezione teologica è immediata: com'è possibile avere ri-
cezione critica - necessariamente tale da una prospettiva er-
meneutica - quando si parla di ricezione della rivelazione? Le
difficoltà teologiche emergono soprattutto laddove contenuto
della rivelazione è il giudizio di Dio. La ricezione critica del giu-
dizio annunciato da Dio e messo in atto, dunque di una crisi
da Dio annunciata e realizzata, non è disprezzo blasfemo di
Dio? All'uomo è possibile, anzi lecito, recepire criticamente la
crisi di Dio? Una risposta ragionevole a questo interrogativo
può essere data solo caso per caso. Tuttavia va tratteggiato al-
meno il problema teologico di fondo. Il problema ermeneuti-
co principale era risultato essere il rapporto tra carattere diret-
to o immediato e carattere indiretto o mediato. Questo era e-
merso innanzitutto dalla considerazione che gli autori neote-
stamentari, o almeno quelli provenienti dal giudeocristianesi-
mo, avevano un'immediatezza con l'Antico Testamento com-
pletamente diversa da quella di coloro che vi giunsero (e vi
giungono) in un secondo tempo, attraverso la fede cristiana.
Quanto esposto nei prolegomeni a proposito di rivelazioni
veterotestamentarie e rivelazione neotestamentaria, tuttavia,
ha già mostrato che la vera immediatezza è quella del diretto
rivolgersi di Dio all'uomo. Ora, se il Nuovo Testamento so-
stiene l'identità tra Jahvé, Dio di Israele, e il Padre di Gesù
Cristo, il Dio annunciato nel Nuovo Testamento, ecco sorge-
re un interrogativo che per una teologia biblica è veramente cru-
ciale: l'io di Dio che parla direttamente nell'Antico Testamen-
Il problema ermeneutico-teologico di citazioni e allusioni 31
to, dunque l'io che interpella direttamente Israele, si rivolge
anche alla chiesa cristiana? È dunque un io di Dio che oggi in-
terpella ancora direttamente anche noi? È evidente che questo
vale soprattutto per quegli enunciati veterotestamentari nei
quali l'io di Dio si esprime come un io che agirà in un futuro
escatologico. In altre parole, il Nuovo Testamento riprende
l'io di Dio espresso nell'Antico Testamento come io di Dio che
interpella noi?
Parlando di immediatezza, tuttavia, abbiamo nuovamente
introdotto nelle nostre riflessioni anche le citazioni. È proprio
in esse, infatti, che si incontra l'io di Dio - naturalmente l'io
immediato di Dio nel carattere mediato della citazione che,
come abbiamo già mostrato, essa produce grazie alla distanza
della riflessione teologica. Certamente per merito della rice-
zione - che ora avviene su un piano diverso - questo carattere
mediato ridiventa nuovamente il carattere immediato origina-
rio, poiché il lettore del Nuovo Testamento deve ricondurre
l'io di Dio, oggettivizzato nella riflessione teologica, all'io di
Dio immediato, quello che ha importanza per lui. Se la fede
degli autori neotestamentari aveva portato alla riflessione teo-
logica, alla teologia, questa a sua volta deve ricondurre alla fe-
de del lettore. E dato che costui, stando all'intenzione dell'au-
tore neotestamentario, di norma è già il credente, dovremmo
più propriamente affermare che la teologia dell'autore neote-
stamentario dovrebbe portare a rafforzare la fede del lettore.
Dopo queste considerazioni, l'inestricabile intreccio tra fe-
de e teologia - dove quest'ultima è teologia nel vero senso del-
la parola - va visto nel contesto del rapporto tra carattere me-
diato e carattere immediato. All'interno di questo complesso,
però, l'aspetto riguardante la critica si colloca soprattutto sul
piano della riflessione teologica, dunque sul piano del caratte-
re mediato. Ma allora a soggiacere alla critica teologica consa-
pevole non è il processo della rivelazione in quanto tale invia-
ta a Israele: si tratterebbe di un'assurdità teologica. La ricezio-
ne della rivelazione in quanto tale sarebbe «critica» al massi-
mo nella comprensione di chi recepisce, essendo l'elemento
della critica necessariamente inserito nel processo di compren-
Citazioni e allusioni

sione della situazione storica, ogni volta nuova. Tuttavia è con-


sapevolmente critica, e dunque critica sul piano della riflessio-
ne teologica, la visione neotestamentaria della comunità salvi-
fica veterotestamentaria. Questa, infatti, o viene considerata
una realtà religiosa ormai superata, oppure viene addirittura
definita con pesanti titoli negativi. Ma allora, per restare nella
metafora della «dimora dell'essere» presa a prestito da Martin
Heidegger, la chiesa è una dimora nuova rispetto a quella vec-
chia. Dunque il linguaggio di Dio nel Nuovo Testamento, pur
riprendendo quello dell'Antico, è una dimora nuova. Parlan-
do in modo nuovo - Ebr. 1,1 s. è illuminante in tal senso: bt'
fox.a't'ou 't'wv ~IJ.e:pwv 't'ou't'wv D.aÀricre:v ~µiv Èv u[tj)- Dio ci ha
costituiti in modo nuovo come chiesa. Il nuovo linguaggio di
Dio ci ha fatti nuovi. Siamo noi ora la nuova creazione, la xai-
v~ x't'icriç (Gal. 6,15;2 Cor. 5,17);siamocreaturanovainquan-
to creatura verbi navi.
Un interessante parallelo a questa problematica è offerto dal filosofo fran-
cese George Steiner nel suo appassionato saggio Vere presenze, uno tra i
libri più interessanti e affascinanti di questi ultimi anni. Anch'egli tratta
di ricezione critica e - cosa più importante - di carattere immediato. An-
ch'egli intende fornire un'interpretazione di linguaggio, significato e sen-
sazione che in fondo poggia sull'ipotesi di una presenza di Dio. 22 Con
la fantasia crea una società in cui sia vietato discorrere a proposito di ar-
te, musica e letteratura. Tutti i discorsi di questo genere sono considera-
ti chiacchiere illegali. 23 Ciò che è musica può essere interpretato solo dal
musicista nel corso della sua esecuzione; un'opera teatrale viene inter-
pretata esclusivamente dall'attore sul palcoscenico. Esattamente in que-
sto modo l'artista attua la ricezione critica. Steiner polemizza dunque
contro !'«egemonia della cultura secondaria e parassitica». 24 Inventa
«una società, una politica del primario che privilegi le percezioni imme-
diate dei testi, delle opere d'arte e dei componimenti musicali». 25 Men-
tre l'artista con la sua azione artistica creativa nella sala dei concerti o a
teatro pratica un'ermeneutica tale da definire la realizzazione di una
comprensione responsabile, di un approccio attivo»,2 6 «l'esecutore» - a
differenza di chi recepisce - «investe il proprio essere nel processo in-
terpretativo».27 Per fortuna in questo contesto Steiner spezza una lancia
anche a favore dell'apprendimento mnemonico - vi sono professori e

22. Steiner, Vere presenze, Milano 1998('1992), 17 s. 23. Op. cit., 18 ss.
24. Op. cit., 20. 2 5. I bid. 26. Op. cit., 2 r. 27. Ibid.
Il problema ermeneutico-teologico di citazioni e allusioni 33
docenti universitari «moderni» che ne defraudano alunni e studenti, pri-
vandoli così di una proprietà intellettuale-, incoraggiando anche l'ascol-
tatore o il singolo lettore a imparare a memoria una poesia o un brano
musicale. 28
A Steiner preme dunque ribadire che un'opera d'arte non può essere
spiegata con un'analisi astratta. Il suo contenuto infatti può essere com-
preso solo se viene ri-eseguito,2 9 in questo modo trasformandoci e ar-
ricchendoci. Se entra in gioco lo scambio tra «noi» e ciò che sa il cuore
allora, stando all'ermeneutica di Steiner, nel momento in cui il nostro
cuore diventa un cuore che sa, noi stessi diveniamo persone che com-
prendono. Ma ciò che egli asserisce a proposito dell'arte è vero a fortiori
per quello che afferma il «testo» della rivelazione di Dio, per quello che
Dio esprime nel suo testo. La comprensione artistica diviene così equi-
valente alla comprensione di fede. Infatti, ciò che Dio dice - in quanto
soggetto rivelante e insieme oggetto che qui si rivela - è esattamente ciò
che in fondo solo il cuore può sapere. Anche qui la «supremazia dcl se-
condario e del parassita» è negativa. Certo, per la teologia in quanto
scienza non sarà mai inutile dedicarsi a ciò che è «secondario». E anzi
indispensabile che vi sia un lavoro teologico che non sia comunque ri-
flessione diretta della fede. Altrettanto necessaria è un'esegesi che per
gradi riconduca dal carattere indiretto a quello diretto. Ma l'esegesi co-
me scienza teologica sa di essere, nel più profondo, &l;ayaye:iv di «testi»
che costituiscono il linguaggio della rivelazione. Gv. r, r 8 resta il punto
di riferimento teologico centrale di ogni «esegesi» neotestamentaria: ixe:i-
voç il;l]y~craw. L'esegesi deve anche portare - per dirla con George Stei-
ner - a imparare a memoria i testi biblici, che di conseguenza devono svi-
luppare un'efficacia nella nostra coscienza. Se il carattere diretto della vi-
ta divina è ciò a cui in fondo mira l'esegesi - ovviamente non tutte le ini-
ziative esegetiche possono perseguire direttamente questo intento - al-

28. Op. cit., 22 s.: «Imparare a memoria, par coeur, significa offrire al testo o alla mu-
sica una chiarezza e una forza vitale permanenti ... Ciò che sappiamo par coeur, nel
nostro cuore, diventa parte attiva della nostra consapevolezza, regola il ritmo della
nostra crescita, di quella diversificazione sempre maggiore che è così vitale per la no-
stra identità. Nessuna esegesi, nessuna critica dall'esterno può farci incorporare così
direttamente i mezzi formali, i principi che organizzano l'esecuzione di un fatto se-
mantico, sia esso verbale o musicale. La precisione nel ricordare e nel richiamare alla
mente non ci permette soltanto di afferrare più a fondo l'opera, ma stabilisce una re-
ciprocità fra noi e ciò che la nostra memoria, il nostro cuore sa. Mentre noi cambia-
mo, cambia anche il contesto che dà forma al poema o alla sonata che abbiamo inte-
riorizzato».
29. Con questo Steiner intende qualcosa di più rispetto a quello che intendeva Wil-
helm Dilthey con la sua ermeneutica della post-comprensione, della condivisione e
dell'imitazione, spiccatamente psicologica su esempio di Schleiermacher; Dilthey,
Die Entstehung der Hermeneutik, 317 s.
34 Citazioni e allusioni

!ora Steiner smaschera a ragione un'esegesi che ha perso, o intende per-


dere, di vista la prospettiva del carattere diretto.
Steiner si chiedeva se fosse possibile dire o scrivere qualcosa di signi-
ficativo sulla natura e il senso della musica. 30 Non possiamo qui esporre
dettagliatamente come ha lavorato su tale questione. Basti ricordare che
sfiora ripetutamente l'ambito proprio della teologia, anzi, per lui ogni
cosa sfocia in quel Dio che appunto nell'immanenza non si lascia affer-
rare. Ma per quanto riguarda la parola, con Agostino, Boehme e Cole-
ridge giunge alla parola data. Daturnon intelligitur. 31 Dunque una teolo-
gia scientifica come quella qui esposta può solo avere il fine di rimanda-
re al datur, di rappresentare il tutto in modo tale da evidenziare in qual-
che modo il carattere diretto del datur divino. Certo la teologia, per quan-
to creata dalla fede, di per sé non crea tale carattere. Ma se dovesse sbar-
rare la strada che vi conduce verrebbe stravolta nella sua natura.
L'interessante tentativo di prendere in esame la concezione teologica
dell'Antico Testamento nel Nuovo ricorrendo alla teoria dell'interte-
stualità - con tale termine, da qualche tempo nella scienza letteraria si de-
finisce la relazione reciproca tra i testi 32 - è stato presentato da Richard
B. Hays nella sua monografia Echoes of Scripture in the Letters of Paul. 33
Anche per lui si tratta di qualcosa più della semplice verifica di citazio-
ni. Ed è estremamente meritorio che Hays intenda rendere utilizzabile
questo nuovo strumentario scientifico per la questione relativa alla rice-
zione dell'Antico Testamento nel Nuovo. Ha indicato alla ricerca futu-
ra un importante cammino metodologico. 34 Purtroppo, a motivo di un
certo pragmatismo egli ha consapevolmente rinunciato a tematizzare le
implicazioni filosofiche insite nel programma dell'intertestualità (post-
strutturalismo ). Inoltre, in lui resta non chiarito il concetto di «eco». Vi-
sta la non chiarezza metodologica e filosofica che ancora sussiste, la mo-
nografia di Hays non sarà qui utilizzata da una prospettiva concettuale
per presentare la teologia di Paolo, ma sarà presa in considerazione solo
occasionalmente, per singole questioni concrete.
30. Steiner, Vere presenze, 30. 31. Op. cit., 212.
32. Al riguardo cfr. in particolare lntertextualitat, a cura di U. Broich e M. Pfìster.
33. New Haven - London 1989.
34. Ho espresso diffusamente il mio consenso e la mia critica al progetto program-
matico di Hays nel saggio lntertextualitat- die hermeneutische Strategie des Paulus?:
ThLZ 116, 881 ss.
CAPITOLO SECONDO

LA TEOLOGIA DI PAOLO

r. L'apostolo teologante e il teologo argomentante


Con teologia di Paolo, tema che verrà trattato nel seguito, si intende
innanzitutto la teologia praticata dall'apostolo stesso secondo la distin-
zione di Gerhard Ebeling cui si accennava nei prolegomeni,' distinzio-
ne fra teologia contenuta nella Bibbia e teologia conforme alla Bibbia,
alla Scrittura. 2 Innanzitutto occorre esaminare come Paolo pensa teolo-
gicamente. Questo è opportuno soprattutto per lui, dato che è uno dei
teologi più significativi del Nuovo Testamento. Anche se già prima di
lui nella chiesa primitiva, e più precisamente nelle comunità ellenistico-
giudeocristiane, si pensava teologicamente, tuttavia è certamente merito
suo aver dato statura spirituale a questo pensiero. 3 Se anche non si adat-
ta a una certa convenienza moderna definire l'apostolo un eroe spiritua-
le - tale definizione sarebbe oltretutto alquanto inopportuna-, tuttavia
Paolo possedeva già una grandezza teologica indiscutibilmente superio-
re. E proprio da quel grande teologo che era ha scritto lettere il cui con-
tenuto, in misura rilevante, è teologia. La lettera ai Romani, ad esempio,
è uno scritto in cui presenta fatti teologici aspettandosi che chi legge o
chi ascolta la lettura dell'epistola fatta a voce alta, si lasci coinvolgere nel
pensiero teologico. Ma pensare teologicamente, per Paolo, significa ar-
gomentare in modo teologico. E per lui largomentazione è sviluppo, e-
sposizione di questioni teologiche.
Paolo esige che il lettore pensi in modo teologico insieme a lui, che
colga in modo riflessivo almeno ciò che egli presenta argomentando. Ma
da chi pretende tutto questo? A parte la lettera a Filemone, le sue sono
lettere destinate a comunità - tranne quella di Roma - da lui stesso fon-
date durante le sue missioni. Dunque scrive argomentando teologica-
mente a comunità che sono già cristiane. Dunque le sue non sono lette-
re missionarie. Nessuna ha intenti di predicazione missionaria. Sono i
problemi interni delle singole comunità cristiane ad aver bisogno per un
r. Voi. I, 3 r ss. 2. Ebeling, Wort und Glaube I, 69.
3. Di diverso parere Raisanen, Paul and the Law, 266 s.: «È un errore fondamentale
di molte esegesi paoline di questo secolo l'aver ritratto Paolo come il 'principe dei
pensatori' nonché come il 'teologo' cristiano 'per eccellenza'».
La teologia di Paolo

verso o per l'altro della parola apostolica, e dunque anche della riflessio-
ne teologica. Quindi Paolo esercita la sua autorità apostolica anche invi-
tando le sue comunità a considerare insieme a lui e in prospettiva teolo-
gica i problemi che le assillano, esaminandoli a fondo. Di conseguenza
sembra credere che l'autorità che egli riveste gli consenta di esigere che
le sue comunità accolgano senza esitare tale invito a pensare teologica-
mente. In fondo, essendo giunte alla fede esse si sono anche qualificate
per riflettere su questa loro fede e sulle sue conseguenze. Anche se la fe-
de nasce dall'ascolto della predicazione, Rom. lo,17, tuttavia l'esistenza
di fede non è una conseguenza automatica. Le lettere di Paolo mostrano
come una sua caratteristica sia la continua fidem quaerens intellectum.
La comunità deve discernere, òoxqJ.a"çe:t v, Rom. l 2,2. 4
L'annuncio non è teologia, e la fede non è convinzione teologica. Ma
il confine tra annuncio e teologia, tra fede e convinzione teologica, è la-
bile. La stessa predicazione missionaria precedente alla teologia paolina,
che è principalmente un riportare le parole di Dio rivolte all'uomo, ri-
corre di continuo all'argomentazione, non sa rinunciarvi. E una parte
considerevole di questa argomentazione è un richiamo alla Scrittura. La
predicazione missionaria si serve di dimostrazioni scritturistiche. Se que-
sto può essere avvenuto in particolare con la missione ai giudei, lo stes-
so si sarà però ripetuto più volte anche con la missione ai gentili, soprat-
tutto se si trattava di pagani che in quanto timorati di Dio erano già in-
timamente legati al giudaismo o addirittura già proseliti.
Ed è proprio questo argomentare con la Scrittura ad essere costitutivo
per l'argomentazione teologica delle lettere di Paolo. Proprio nei punti
cruciali il ricorso alla Scrittura è di importanza fondamentale per il suo
argomentare teologico. Egli adduce prove scritturistiche, dunque si ser-
ve dell'indiscussa e incontestata autorità della Scrittura senza che questa
scalfisca la sua autorità di apostolo di Dio e di Gesù Cristo, acquisita
dopo la chiamata sulla via di Damasco. Paolo non mette in discussione
il rapporto tra autorità apostolica e autorità scritturistica. Probabilmen-
te non l'ha neanche percepito come un problema, mentre noi, una volta
resi attenti a questo punto, non possiamo più fare a meno di affrontare
tale problematica.
Ora però, come si vedrà, nelle sue lettere Paolo argomenta con com-
petenza retorica. È vero, non sappiamo per quali vie egli abbia potuto
impratichirsi della retorica antica. I suoi anni giovanili e il suo cammino
di formazione, infatti, sono per noi una vasta terra incognita. 5 A tut-
t'oggi, nella ricerca che lo riguarda non si è concordi nel ritenere che
l'apostolo abbia effettivamente studiato a Gerusalemme presso Gama-

4. V. al riguardo soprattutto Bctz, ZThK 85, 208 ss.


5. Tuttavia, ciò che si può affermare del giovane Paolo è stato ultimamente esposto in
modo esemplare da Martin Hcngel nel suo saggio Il Paolo precristiano.
L'apostolo teologante e il teologo argomentante 37
liele il Vecchio, come sostengono Atti 22,J. È nota la contestazione di
questa circostanza da parte di Rudolf Bultmann sulla base di Gal. 1,22. 6
Ma che prima della sua conversione Paolo fosse sconosciuto alle comu-
nità della Giudea non può essere addotto come argomento contrario al-
l'opinione che in una città di almeno 25000 abitanti 7 il giovane discepo-
lo del rabbi avrebbe dovuto essere noto ai cristiani gerosolimitani. Tut-
tavia, questo non dimostra ancora che egli abbia studiato a Gerusalem-
me. Joachim Jeremias nell'allievo di Gamaliele vedrebbe, per la metodo-
logia esegetica, un hillelita. 8 Ma è difficile scorgere un hillelita in Paolo,
così rigorista per quanto riguarda la torà (Gal. r, 1 3 s.). 9 Inoltre non è cer-
to che Gamaliele il Vecchio fosse un hillelita. Io Bisogna dunque pren-
dere seriamente in considerazione l'ipotesi che prima della sua chiamata
Paolo abbia sostenuto una posizione rigidamente shammaita. II Qui pos-
siamo lasciare aperta la questione se sia stato allievo di Gamaliele, e se
abbia poi studiato davvero a Gerusalemme. I> Tuttavia è indiscutibile che
Paolo avesse acquisito conoscenze riguardanti la legge, sapesse applicare
la metodologia esegetica e soprattutto conoscesse bene i LXX. Per dirla
con Adolf Deissmann, era un giudeo dei LXX. IJ
Dunque non sappiamo da dove Paolo abbia ricavato la propria com-
petenza retorica, né in quale misura ne sia entrato in possesso. Ma le sue
lettere mostrano indiscutibilmente una grande dimestichezza con la re-
torica antica. Dobbiamo in particolare a Hans Dieter Betz se la questio-
ne relativa ali' analisi retorica delle lettere paoline è stata riconosciuta come
un obiettivo irrinunciabile. I 4 Se vogliamo riuscire a rintracciare l'argo-
mentazione teologica di Paolo per poterne cogliere con acutezza mag-
giore il profilo del pensiero teologico, allora l'analisi retorica delle sue let-
tere in particolare è assolutamente indispensabile. È perciò opportuno
presentare la teologia di Paolo in modo tale da poter prendere in esame
le lettere paoline autentiche in successione cronologica e, se è il caso, an-
che analizzarle dal punto di vista retorico. In questo modo ci si schiude
non solo il contenuto teologico delle singole lettere, ma anche la dina-

6. Bultmann, RGG' IV, 1020 s.; Bornkamm, RGGJ v, 168, propende invece per la sua
formazione a Gerusalemme.
7.Jeremias,Jerusalem, 97 s. (tr. it. 142), parla di 25000-30000 abitanti a Gerusalem-
me. Questa cifra potrebbe anche essere sbagliata per difetto.
8. Jeremias, Pa11l11s als Hillelit. 9. Contrario Hiibner, KuD 19, 2 1 5 ss.
ro. Op. cit., 228 s. r r. Op. cit., 224; v. anche Haacker, War Paulus Hillelit?
12. Personalmente ritengo probabile che abbia studiato a Gerusalemme.
r 3. Deissmann, Paulus, 79; per il rapporto tra Paolo e l'interpretazione rabbinica del-
la Scrittura v. in particolare Ellis, Prophecy and Hermeneutic, 147 ss.
14. Betz, NTS 21, 3 5 3 ss.; successivamente ha rielaborato questa conferenza, tenuta il
I 3 agosto 1974 al Convegno SNTS, Sigtuna (Svezia), facendola diventare l'ampio com-
mento a Galati (Hermeneia).
La teologia di Paolo

mica del pensiero teologico di Paolo, cosa questa indispensabile per riu-
scire a cogliere proprio tale contenuto. La teologia paolina non è un'en-
tità statica! Essa ha origine dal processo teologizzante. Solo presentando
il divenire della teologia, anche e soprattutto nelle singole lettere, diven-
ta accessibile l'intento teologico dell'apostolo. Solo chi percorre con Pao-
lo il cammino spesso faticoso del pensiero teologico comprende vera-
mente cosa sia ad animarlo nel più profondo. Chi si limita a considerar-
ne la forma concettuale finale al solo scopo di consumarla, si ferma alla
superficie teologica. 15
Tuttavia, del divenire bisogna parlare anche in considerazio-
ne della incoerenza di teologie differenti, in parte contraddit-
torie, in lettere diverse. 16 Si mostrerà, ad esempio, che c'è un
divenire della teologia della legge dalla lettera ai Galati alla let-
tera ai Romani. La situazione argomentativa di Rom. è in pri-
mo luogo risultato della storia degli effetti dell'argomentazio-
ne in Gal. Paolo, è vero, mantiene l'idea di fondo della giusti-
ficazione per fede e non per le opere della legge, ma la teologia
esposta in Rom., nella cui cornice si riflette in modo nuovo l' an-
nuncio della giustificazione, si è modificata sensibilmente. C'è
quindi anche un divenire della teologia paolina che va inteso
come sviluppo progressivo di un qualcosa che era stato pensa-
to ed esposto in precedenza, ovvero come sviluppo che ha su-
bito notevoli modifiche e correzioni dovute al fatto che Paolo

1 5. Con questo non intendo assolutamente screditare la pionieristica opera esegetica


delle generazioni passate di esegeti sulla concettualità teologica. Non c'è bisogno di
motivare quello che il mondo teologico deve per esempio alla Teologia del Nuovo
Testamento uscita dalla penna di Rudolf Bultmann. Quanto egli espone a proposito
del concetto antropologico di crw1J.a (§ 17), del concetto di crap~ (§ 22) o del concetto
di ÒtxawcruvlJ (§ 28; v. anche§§ 29 e 30) rientra nella produzione esegetica e teologica
migliore del nostro secolo, poiché egli non offre semplicemente definizioni concet-
tuali analitiche, ma interpreta i concetti stessi e in questo modo li fa uscire dal loro
carattere di semplice passato. Oggi però non è sufficiente fermarsi a un'esposizione di
questo tipo.
16. Christiaan Beker, Paul the Apostle, nel suo schema bipolare su contingenza e coe-
renza della teologia paolina, tenta di dimostrare che certe affermazioni dell'apostolo,
che in un primo momento sembrano essere in contraddizione tra loro, alla fine risul-
tano coerenti. In linea di principio l'impostazione di Beker è corretta. Tuttavia egli
eccede nel livellare incoerenze palesi, che possono essere adeguatamente spiegate se si
mettono nel dovuto ordine cronologico le lettere paoline autentiche. Alla fine il suo
procedimento sbocca in un'armonizzazione inammissibile. V. anche la versione ri-
dotta, Beker, Der Sieg Gottes. Su Beker v. Hiibner, KuD 33, 162 ss.
La biografia di Paolo 39
teneva conto delle mutate circostanze storiche. Ma allora l'ar-
gomentazione - e questo non solo per quanto riguarda Paolo
- è un evento per il quale occorre considerare sia colui che ar-
gomenta e la sua situazione, sia la situazione di coloro ai quali
l'argomentazione si rivolge. La situazione argomentativa, che
per Paolo è al tempo stesso anche situazione retorica, è dun-
que una combinazione delle situazioni di almeno due parti. ' 7
Per l'autore come per il lettore, il cammino qui intrapreso significava, e
significa tuttora, accompagnare il teologo Paolo lungo le sue riflessioni
teologiche, a volte faticose e forse persino stancanti. Significa dunque ar-
gomentare criticamente insieme a lui, e anche al di là della sua figura,
per riflettere infine, interpretandolo, il tutto, con l'idea di avere un am-
pio respiro esegetico-teologico. Personalmente, tuttavia, ritengo che Pao-
lo e la sua teologia - o meglio, il suo teologizzare e le sue teologie - me-
riterebbero che noi pagassimo di buon grado tale prezzo.

2. La biografia di Paolo

Riguardo alla biografia di Paolo, basti qui accennare a ciò che è stret-
tamente indispensabile per presentare la teologia (o le teologie) delle sue
lettere. In ordine cronologico, sono considerate lettere autentiche: I Tess.,
Gal., I e 2 Cor., Rom. L'ordine cronologico di Fil. e Film., anch'esse
autentiche, non può essere stabilito con certezza. Ma più della cronolo-
gia assoluta delle lettere è importante quella relativa, soprattutto la prio-
rità di Gal. rispetto alla corrispondenza corinzia. È da questa classifica-
zione cronologica, infatti, che dipende il tipo di valutazione che si dà
allo sviluppo teologico di Paolo. Coloro che sostengono la priorità cro-
nologica delle lettere ai Corinti rispetto a Gal. adducono come ragione
fondamentale il fatto che solo in Gal. e Rom. viene esposta esplicitamen-
te la teologia paolina della giustificazione, e quindi le due lettere dovreb-
bero essere state scritte in tempi ravvicinati; I e 2 Cor. mostrerebbero
comunque abbozzi di questa teologia.' A sostegno della priorità crono-
logica di Gal. rispetto alle lettere ai Corinti si potrebbe invece far pre-
sente che, mentre Gal. proibisce categoricamente di sottostare alla torà
per quanto riguarda questioni fondamentali, in I Cor. 8 e in Rom. 14 e
17. Certo non è qui possibile discutere tutto il problema della teoria moderna dell'ar-
gomentazione. Accenniamo solo alla Theorie der Argumentation, ed. M. Schecker.
1. V. in particolare Borse, Der Standort des Gal. Con Paolo l'apostolo dei popoli, Jiir-
gen Becker ha presentato un progetto imponente sullo sviluppo teologico di Paolo in
linea con la priorità cronologica di 1 e 2 Cor. rispetto a Gal.
La teologia di Paolo

r 5 si delinea chiaramente una posizione meno intransigente. Ma in tal


caso collocare cronologicamente Gal. a cavallo tra le lettere ai Corinti e
la lettera ai Romani comporterebbe un'oscillazione singolare, addirittu-
ra incredibile: dapprima un atteggiamento conciliante, poi il rifiuto as-
soluto di scendere a compromessi, infine nuovamente il distacco da una
posizione tanto rigida. A questo si aggiunga che nonostante gli stretti
contatti terminologici tra Gal. e Rom., soprattutto nella questione rela-
tiva alla legge, le loro differenze teologiche non sono irrilevanti.
Gli eventi che maggiormente hanno influenzato la vita di
Paolo - stando alla testimonianza delle sue lettere - furono in-
nanzitutto la chiamata ad apostolo, avvenuta a Damasco o lì
nei pressi; quindi la partecipazione appassionata al sinodo di
Gerusalemme sulla missione ai pagani' (il cosiddetto concilio
apostolico), e infine l'esperienza, per lui amara, vissuta in oc-
casione del factum Antiochenum. Su questi avvenimenti che
incisero così profondamente sulla vita di Paolo siamo infor-
mati soprattutto tramite Gal. 1 e 2, la narratio della lettera; in-
vece le narrazioni di Atti 9 e 1 5 per certi versi stravolgono la
realtà storica. Per questo motivo nel presentare la teologia pao-
lina gli Atti verranno ignorati. 3 Ovviamente neanche il reso-
conto autobiografico in Gal. è un'esposizione «obiettiva».
La questione cruciale è dunque se la narratio autobiografica
di questa lettera, che deve servire all'argomentazione teologi-
ca, non veda magari gli eventi da una prospettiva sbagliata. Se
infatti la teologia della giustificazione esposta in Gal. dovesse
essere solo il risultato di una riflessione teologica a fronte della
confusione che regnava tra i galati, come afferma, ad esempio,
William Wrede ricorrendo al concetto di dottrina di battaglia, 4
allora Paolo avrebbe proiettato questa sua nuova teologia al-
i' epoca del sinodo della missione.
Ma i dubbi che nutriamo sull'interpretazione che del sino-
do fornisce Paolo dovrebbero essere suscitati piuttosto da con-
siderazioni di altro genere. Infatti, difficilmente si potrà nega-
2. Nel seguito indicato semplicemente come sinodo della missione. Attualmente anche
Wechsler, Geschichtsbild und Apostelbrief, 300. 394, ha adottato l'espressione «sino-
do della missione ai pagani».
3. Ciò non toglie che gli Atti contengano anche indicazioni interessanti dal punto di
vista storico. 4. Wrede, Paulus, 67 ss.
La biografia di Paolo 4I
re che Paolo, come si ricava dalla sezione di narratio in Gal.
2 , 1- ro, sia stato vittima di un certo autoinganno. Qui infatti fa
il resoconto delle discussioni sorte durante il sinodo e del suo
esito, nonché dell'accordo preso con le autorità gerosolimita-
ne. E lo fa con l'intento dichiarato di citare appunto queste per-
sone come testimoni delle dichiarazioni che farà nella argu-
mentatio teologica della lettera (Gal. 3, I -5, I 2 ), dichiarazioni e-
stremamente critiche, addirittura antinomistiche, nei confronti
della legge. Tuttavia è evidente che quelli di Gerusalemme, e
in particolare le «colonne», non avrebbero mai condiviso una
teologia della legge così come la presenta Paolo in Gal. Paolo
deve aver interpretato male il loro assenso. E più avanti ciò
troverà motivazioni ancora più valide.
Ma se anche Paolo si è sbagliato a questo riguardo, tuttavia
è difficile credere che in un secondo tempo abbia visto il con-
testo del sinodo attraverso le lenti della situazione in Galazia,
tanto da proiettare gli elementi essenziali della teologia appena
acquisita indietro nel tempo fino al sinodo, benché allora il
suo pensiero teologico non fosse ancora così sviluppato.
Quanto abbiamo appena detto conferma ciò che Paolo as-
serisce a proposito della sua chiamata. Anche a questo riguar-
do facciamo qui solo un breve accenno. All'inizio della narra-
tio (Gal. 1,13 s.) relativa al tempo precedente alla sua chiama-
ta, Paolo parla della sua condotta nel «giudaismo» e di come
perseguitasse fieramente la chiesa di Dio cercando di annien-
tarla. E questo come uno che all'interno del giudaismo faceva
progressi molto maggiori rispetto a tanti suoi coetanei. Per lui,
ciò significava concretamente essere stato un fanatico, pieno di
zelo per le tradizioni dei padri e quindi più che mai per la leg-
ge mosaica. In lui è dunque lecito vedere una specie di «ideo-
logo leader» del giudaismo della torà a livello locale (Dama-
sco?)? Certo, nel rigorismo fanaticamente teologico per quello
che riguarda la torà si potrà vedere il motivo principale della di-
sposizione d'animo e dell'atteggiamento assunti nei confronti
del cristianesimo che si andava costituendo: il rigorista della to-
rà perseguitava la chiesa di Dio perché questa - all'inizio nien-
t'altro che un «partito» religioso interno al giudaismo, ma con
42 La teologia di Paolo

un'accentuata pretesa di esclusività 5 - in quanto comunità di


giudei trasgrediva la legge giudaica in un modo che non era
più possibile accertare con precisione. La persecuzione della
chiesa da parte di Paolo si spiega benissimo sulla base di Gal.
1, 1 3: la libertà di questi cristiani nei confronti della legge, in-
decente agli occhi del rigorista della torà, li squalificava come
giudei apostati. Poi però l'improvvisa esperienza della chiama-
ta, a Damasco, deve aver avuto l'effetto di uno shock per Pao-
lo. Tutto il suo sistema teologico di coordinate, basato sulla leg-
ge, era stato distrutto in un attimo: Dio stava dalla parte di co-
loro che in un modo o nell'altro si emancipavano dalla legge,
che dunque la trasgredivano. Ma se Dio parteggiava per dei
trasgressori, allora tutto l'impegno di Paolo a favore della leg-
ge non era stato altro che una lotta fanatica contro Dio stesso.
Di conseguenza Damasco è il momento in cui nasce la libertà
teologica dalla legge, per quanto embrionale possa essere stata
in un primo momento tale convinzione teologica. 6
Questa spiegazione dell'esperienza della vocazione e l'inter-
pretazione proposta sopra della narrazione autobiografica di
Gal., secondo la quale durante il sinodo della missione Paolo
mirava all'affermazione della- fondamentale - libertà dalla leg-
ge, si sostengono vicendevolmente. 7 Se dunque la chiamata di
Paolo non può essere vista separatamente dalla questione della
legge, allora l'esperienza vissuta a Damasco deve averlo neces-
sariamente posto di fronte proprio a tale questione; quindi è
estremamente difficile immaginare che nella sua battaglia per
5. Per Francis Watson, Paul, judaism and the Gentiles, passim, dapprima il cristiane-
simo è un movimento riformistico giudaico. Con «la sua creazione di comunità cri-
stiane di gentili», Paolo lo avrebbe separato radicalmente dalla comunità dei giudei
seguendo di fatto il modello sociologico di «trasformazione di un movimento rifor-
mistico in setta» (p. 19 ).
6. Similmente ad es. anche Dietzfelbinger, Die Berufung des Paulus, 22 ss. ecc.; v. an-
che Hiibner, Die Theologie des Paulus im Lichte seiner Berufung.
7. I tentativi recenti di provare che la posizione di libertà rispetto alla legge degli el-
lenisti di Gerusalemme di Atti 6 rispecchi una costruzione lucana o sia il risultato di
una teologia ellenistica giudeocristiana successiva (ad esempio Strecker, Befreiung und
Rechtfertigung, 231) alla luce di Gal. 1 e 2 diventano piuttosto discutibili. L'autobio-
grafia di Paolo sostiene la citata interpretazione di Atti 6, mentre Atti 6 appoggia me-
no quanto è stato appena detto a proposito di Gal. 1 e 2.
La biografia di Paolo 43
una missione ai gentili che non imponesse la circoncisione non
avesse in mente la questione della legge. Ecco la sequenza che
ne risulta: se quando Paolo perseguitava la chiesa il suo atteg-
giamento nei confronti della legge ha avuto un ruolo, se non il
ruolo, decisivo; se la sua chiamata ad apostolo ha avuto neces-
sariamente ripercussioni sul suo impegno a favore della legge,
in precedenza tanto fanatico; se di conseguenza dovette situa-
re nel quadro della questione della legge anche il proprio in-
tervento al sinodo in favore della missione ai gentili senza
l'imposizione della circoncisione, mentre i suoi interlocutori a
quanto pare non avevano rettamente inteso i suoi intenti radi-
cali, allora come conseguenza logica di tali condizioni - so-
prattutto considerando la costruzione della narratio di Gal. in
funzione della argumentatio - emerge un fatto preciso: al si-
nodo le autorità di Gerusalemme avevano concesso a Paolo (e
a Barnaba) l'esonero dall'obbligo della circoncisione per la mis-
sione ai gentili; l'apostolo, però, che in quanto pensatore di
principio rielaborava tutto nelle sue implicazioni di principio,
aveva finito per interpretare tale concessione in chiave di li-
bertà di principio dalla legge.
Se questa supposizione è esatta, allora si può capire perché
in occasione del factum Antiochenum 8 era inevitabile che
scoppiasse lo scandalo, Gal. 2,11 ss. Entrambe le fazioni rite-
nevano di avere pienamente ragione. Giacomo, a quanto pare
informato del fatto che ad Antiochia giudeocristiani ed etni-
cocristiani prendevano i pasti in comune, si sentì offeso: con-
cedere che la missione ai gentili non comportasse l'obbligo
della circoncisione non significava certo che gli etnicocristiani
potessero indurre i giudeocristiani ad apostatare la legge, nel
caso specifico le prescrizioni alimentari. Agli occhi di Giaco-
mo, infatti, al sinodo si era parlato solamente di circoncisione.
Ai pagani che volevano farsi cristiani - e a loro soltanto - era
stata fatta quest'unica concessione. Tale argomentazione, so-
stenuta dalle persone mandate ad Antiochia da Giacomo, do-
vette convincere sia Pietro sia Barnaba, e infine l'intera comu-
8. Riguardo al factum Antiochenum v. il recentissimo Wechsler, Geschichtsbild und
Apostelstreit, soprattutto pp. 296 ss.
44 La teologia di Paolo

nità antiochena. Da parte sua Paolo non poteva e non voleva


sforzarsi di capire. La conseguenza fu certo tragica per lui, che
si ritrovò isolato. A colpirlo in modo particolarmente doloro-
so fu senza dubbio il comportamento di Barnaba, suo collabo-
ratore: eppure erano stati loro due insieme a imporre l'accor-
do di Gerusalemme. Ma evidentemente Barnaba non aveva in-
terpretato il sinodo in modo così radicale e di principio. In Pie-
tro, Paolo dovette vedere un uomo estremamente incoerente.
Proprio lui, una delle «colonne», non rispettava i patti. Ma a
suo favore bisogna supporre che la motivazione addotta da Gia-
como fosse vincolante per lui, che si era comportato in modo
incoerente già prima dell'arrivo degli inviati di Giacomo. In-
fatti si era semplicemente adattato alla situazione della comu-
nità «mista» di Antiochia. Non era certo coerente quanto Gia-
como.
È quindi evidente che Paolo sbagliò nel giudicare quanto av-
venne col factum Antiochenum, proprio come era successo in
precedenza per la situazione del sinodo. 9 Ma nonostante il vi-
vace scontro tra i due apostoli ad Antiochia, anche in seguito
Paolo continuò a sentirsi in comunione ecclesiale con la co-
munità giudeocristiana di Gerusalemme. Questo emerge con
chiarezza da Gal., altrimenti l'argomentazione portata in que-
sta lettera sarebbe priva di fondamento. Bisogna addirittura fa-
re un ulteriore passo avanti: ancora all'epoca in cui scriveva
Gal. Paolo vede sia il sinodo sia il f actum Antiochenum nella
stessa prospettiva in cui li ha visti in origine. Continua a in-
tendere la decisione di Gerusalemme come unità di principio
nella questione riguardante la legge; continua ad interpretare il
comportamento dei suoi avversari ad Antiochia come mero
opportunismo, al quale egli si oppone con chiare motivazioni
teologiche. Sulla questione della legge è sempre inflessibile; nel-
la sua argomentazione non si scorge la minima traccia di spiri-
to conciliante. Semplicemente ritiene di non avere alcun moti-
9. Questa spiegazione del factum Antiochenum depone a favore dell'ipotesi che esso
si verificò non molto tempo dopo il sinodo della missione. Vengono così a cadere le
motivazioni addotte da Gerd Liidemann, Paulus I, 101 ss., per invertire l'ordine cro-
nologico tra sinodo della missione e factum Antiochenum.
La biografia di Paolo 45
vo per imporre una determinata osservanza delle prescrizioni
della legge. I deboli nella fede - questo concetto è ancora as-
sente in Gal. - a quest'epoca per lui sono ancora dei traditori
della fede. Una certa comprensione per questi «deboli» appa-
rirà solamente in I Cor. Qui, al cap. 8, Paolo raccomanderà
quei comportamenti che qualche tempo dopo, in Rom., consi-
glierà vivamente alla comunità romana divisa in due su tale
questione, Rom. 14,1-15,13.
La lettera ai Romani non è soltanto un documento partico-
larmente importante dal punto di vista teologico; essa consen-
te anche di formulare ipotesi sull'epoca precedente alla sua
composizione. Si tratta sempre della questione della legge e
del rapporto con Gerusalemme; non solo, si parla anche della
questione teologica riguardante Israele. Tralasciando del tutto
l'argomentazione teologica di Rom. l,18-1 l,36, sono di parti-
colare rilievo teologico non solo la sezione l 4, l- l 5, l 3 - in cui
la nuova posizione dell'apostolo dei gentili, già visibile in I
Cor. 8, viene esposta ampiamente e concretizzata in un altro
contesto storico - ma soprattutto le affermazioni sui progetti
di Paolo, Rom. l 5. Di Roma vuole fare la tappa di partenza
per la missione in Spagna. Prima però vuole assolutamente re-
carsi di persona a Gerusalemme per portarvi la «colletta per i
poveri dei santi in Gerusalemme», decisa in occasione del si-
nodo della missione, Rom. l 5,26. Che intenda recarsi nella
capitale giudaica nonostante l'evidente pericolo mortale che
corre, potrebbe essere in relazione con il timore forse fondato
che da parte della comunità di Gerusalemme non vi fosse più
alcuna intenzione di accettare il denaro. Se si considera questa
situazione alla luce del rapporto tra Paolo e i gerosolimitani,
così compromesso dopo il factum Antiochenum, si capirà me-
glio l'eventuale reazione negativa da parte dei secondi.
Se davvero è andata come si suppone, 10 allora questo indica
che la situazione creatasi al momento del factum Antiochenum
si era andata sempre più deteriorando. Ad Antiochia, attac-
cando Pietro Paolo aveva attaccato i gerosolimitani, prenden-
10. Nella ricerca si va rafforzando sempre più l'ipotesi che di fatto la comunità di Ge-
rusalemme non accettò la colletta.
La teologia di Paolo

do teologicamente le distanze dalle «colonne»; 11 ora sono i se-


condi a prendere le distanze da Paolo, e questo in modo molto
più radicale di quanto avesse fatto l'apostolo ad Antiochia con-
tro Gerusalemme. Paolo aveva tacciato di ipocrisia, dunque di
opportunismo (Gal. 2,13), l'offesa alla «verità del vangelo»
(Gal. 2,14) da parte di Pietro e degli altri «giudei»; ora a Geru-
salemme la comunione ecclesiale con Paolo era considerata di-
strutta. Non può esservi comunione ecclesiale con chi si è pro-
nunciato con tanta risolutezza contro la sacra legge mosaica, e
che diffamando la legge di Dio ha diffamato Dio stesso. In ba-
se a Rom. non è possibile dimostrare direttamente un' argomen-
tazione di questo tipo da parte di Gerusalemme, ma la si può
ipotizzare se si ritiene veramente fondato il timore di Paolo
che la sua colletta non sarebbe più stata ben accolta dai santi a
Gerusalemme. Comunque egli ritiene essenziale che i cristiani
di Roma preghino affinché la colletta sia accettata dai giudeo-
cristiani di Gerusalemme, Rom. 15,31.
A questa ipotetica ricostruzione della situazione di Paolo
occorre tuttavia fare una premessa, quanto mai opportuna se
ci si raffigura tale situazione nel modo più concreto possibile:
la lettera ai Calati doveva essere nota a Gerusalemme, perlo-
meno per quello che riguarda la sua tendenza antinomista. Se i
contromissionari recatisi in Galazia erano giudeocristiani, co-
me nel frattempo si è affermato nella ricerca, 12 e se essi hanno
avuto sentore di questa lettera, circostanza altamente probabi-
le, 13 allora tutto lascia pensare che ne denunciassero il conte-
nuto a Gerusalemme con la massima rapidità. La reazione e-
11. Purtroppo non sappiamo se e come Paolo si espresse riguardo a Giacomo durante
il factum Antiochenum.
12. A dire il vero Walter Schmithals, ZNW 74, 27 ss., sostiene ancora l'ipotesi che si
trattasse di gnostici.
13. Era forse intenzione di Paolo che anche i contromissionari giudaizzanti venissero
a conoscenza della sua argomentazione? Così sostiene, ad es., E.P. Sanders, Paul, 60:
«L'argomentazione di Paolo era diretta non solo ai suoi convertiti, ma anche ai suoi
avversari, che citavano la Scrittura». Questa eventualità dovrebbe essere presa in con-
siderazione, benché non sia possibile provarla. Ma poiché all'epoca in cui ricevettero
la lettera di Paolo i galati erano ancora in contatto 'con queste persone - lo si può ben
dedurre dal contenuto dello scritto-, anch'esse dovettero venire a conoscenza dell'ar-
gomentazione dell'apostolo.
La biografia di Paolo 47
stremamente critica di Paolo verso la legge non faceva che
portare acqua al loro mulino. È possibile che con sufficienza
abbiano detto a Giacomo e ai suoi seguaci: «Come avete potu-
to cedere a questo traditore, quella volta del sinodo? Vedete
che cosa pensa realmente quest'uomo! Ora finalmente ha mo-
strato il suo vero volto».
Se dunque è abbastanza probabile che Giacomo fosse stato
informato di Gal. dai contromissionari - che forse deforma-
rono addirittura ciò che Paolo aveva scritto facendone giunge-
re a Gerusalemme una versione più grossolana -, allora non ci
vuole molta fantasia per immaginarsi la reazione di Gerusa-
lemme, e in particolare di Giacomo. Se gli informatori riporta-
rono in forma di denuncia ciò che in Gal. 3 e 4 Paolo afferma-
va di negativo rispetto alla legge, e se riuscirono a convincere
Giacomo che Paolo sosteneva tali cose, scandalose agli occhi
di un giudeo, in quanto apostolo di Gesù Cristo e anzi richia-
mandosi agli accordi con Gerusalemme, allora Giacomo non
poteva reagire se non rifiutando categoricamente tale teologia.
In questo modo, però, si compiva la rottura teologica tra lui,
che metteva l'osservanza della torà tra i fondamenti elementari
della sua convinzione teologica, 14 e Paolo.
In questa catena di argomentazioni, l'ultimo anello è costituito dalla rea-
zione di Paolo all'apprendere della reazione di Giacomo. Dato che era
l'unità della chiesa a stargli a cuore, doveva giocare tutte le sue carte, in
particolare la sua competenza teologica, per ricucire lo strappo con Ge-
rusalemme. Vari elementi indicano la svolta teologica di Paolo: il fatto
che a Roma proponga la questione della legge in un modo teologicamen-
te molto più differenziato e meno radicale; che pur mantenendo intatto
I4. Vi è un gran numero di tentativi recenti miranti a contestare la posizione nomista
di Giacomo, fratello del Signore; ad es. Schmithals, Paulus und Jakobus, spec. 8 5 ss.
Di sicuro Giacomo non era un giudaizzante. Si può convenire con Franz Mussner,
HThK xm/I, Io (tr. it. La lettera di Giacomo, Brescia I970, 24 s.): «Per ciò che ri-
guarda il tanto conclamato legalismo, Giacomo pare essere stato sì un giudeo-cristia-
no di stretta osservanza, ma non un ritualista fanatico». Quando poi Mussner defini-
sce il fratello del Signore uomo dell'accomodamento e della mediazione (p. IO [tr. it.
2 5]), occorre chiedersi se questo sia vero anche per l'epoca successiva al factum An-
tiochenum e soprattutto alla lettera ai Galati. Riguardo a Giacomo v. anche Pratscher,
Der Herrenbruder jakobus, spec. 63 ss. Personalmente non posso condividere l'opi-
nione che attribuisce al fratello del Signore la lettera di Giacomo (così, ad es., Muss-
ner, op. cit., 8 [tr. it. 2 3 s.]).
La teologia di Paolo

il proprio principio fondamentale della giustificazione per sola fede sen-


za le opere della legge possa attribuire alla legge mosaica e anche alla cir-
concisione un valore più positivo rispetto a Gal.; che possa addirittura
giudicare la legge santa e di carattere pneumatico, Rom. 7,12.14. Un'al-
tra circostanza mette in luce l'impegno di Paolo per ricucire teologica-
mente ed ecclesialmente lo strappo con Gerusalemme: mentre in Gal. 4,
21-3 l presentava un' «allegoria» che risultava insopportabile a giudei e
giudeocristiani, ora, in Rom. 9-1 l, presenta il frutto delle sue nuove ri-
flessioni teologiche riguardanti Israele: «Tutto Israele sarà salvato»,
Rom. r 1,26. Non vi è dubbio che questa sua nuova teologia non sia tan-
to testimonianza di un patetico opportunismo quanto risultato di una
riflessione teologica nuova, effettivamente avvenuta. Che poi in Rom.
emerga la consapevolezza che la sua visita a Gerusalemme potrebbe fal-
lire - e probabilmente riesce a intuirne benissimo i motivi - non fa che
evidenziare quale fosse la reazione di Paolo alle notizie che gli perveni-
vano da Gerusalemme dopo che vi era stata resa nota la sua lettera ai
Galati. Chi intenda opporsi a questa ipotesi deve ricostruire in modo al-
trettanto ipotetico e differente la storia degli effetti di Gal. Procedendo
necessariamente per ipotesi, dovrebbe spiegare perché Giacomo, essen-
do all'oscuro della lettera ai Galati, non le fece seguire alcuna reazione.
Ma quanto è plausibile una simile ipotesi?
La figura di Paolo abbozzata sopra è stata ricostruita sulla
base di pochi punti fissi forniti dalle lettere paoline autentiche.
Tale abbozzo esige ora basi solide, ottenibili mediante gli enun-
ciati teologici delle lettere paoline. Così, però, sorge un proble-
ma per chi non si accontenta semplicemente di fissare le idee
teologiche di Paolo. Si è evidenziato infatti che l'impegno teo-
logico dell'apostolo, a causa della sua situazione esistentiva,
riguardava questioni come la legge, la sacra Scrittura, il rap-
porto con Israele, il rapporto con i vertici giudeocristiani della
chiesa a Gerusalemme ecc. Anzi, proprio i suoi sforzi teologi-
ci più accaniti per presentare la giustificazione per fede furono
il risultato di questo complesso di problematiche. Ma sono poi
questi gli interrogativi che oggi ci interessano, forse addirittu-
ra ci assillano teologicamente? Il rapporto con Israele, il popo-
lo dell'antica alleanza, e con la sua sacra Scrittura - intesa ora
come Scrittura in origine (e tuttora) rivolta a questo popolo -
è davvero una questione che tocca il cuore della teologia cri-
stiana attuale? 1 5 Dunque la teologia paolina, così centrata su
15. In Germania il problema dell'importanza teologica di Israele non può lasciare
Le lettere di Paolo 49
Israele e sulla legge, non è forse una teologia talmente legata al
proprio tempo da essere superata in linea di principio? Quale
cristiano oggi è disposto a farsi circoncidere, come un tempo i
gala ti? Quale cristiano - a parte certe eccezioni - vuole osser-
vare oggi la legge di Mosè per presentarsi giusto davanti a Dio?
Quale cristiano oggi si preoccupa di instaurare un buon rap-
porto con un giudeocristianesimo di Gerusalemme che in pra-
tica non esiste neanche più? L'impegno teologico di Paolo era
tutto orientato alla situazione missionaria specifica della chie-
sa primitiva.
Tali questioni diverrebbero ancora più pressanti se dovesse aver ragione
Ed P. Sanders, per il quale la teologia di Paolo non ha avuto origine dal-
la situazione di emergenza in cui viveva l'uomo, ma sarebbe stata conce-
pita a partire dalla massima «prima la soluzione, poi il problema». 16 L'af-
fermazione a priori è che Dio in Cristo ha redento l'umanità: dunque
l'umanità ha bisogno di redenzione. Alla fine della sua opera Sanders lo
afferma molto drasticamente. Citiamo qui l'originale inglese: «In short,
this is what Paul finds wrong in ]udaism: it is not Christianity». 17 Una
base teologica veramente formale.
C'è dunque da chiedersi se la teologia paolina, nonostante
sia così legata alla situazione delle comunità missionarie pao-
line ai loro esordi, non implichi anche una teologia che per noi,
oggi, non abbia soltanto interesse esistentivo, ma sia anche
una questione di vita o di morte allorché essa si svela a noi nel
suo intento reale, mostrandoci che riguarda anche noi diretta-
mente. Dobbiamo dunque svolgere il compito ermeneutico
che ci è imposto, se non vogliamo procedere nella presenta-
zione della teologia paolina come in un mero gioco castalio di
biglie.

3. Le lettere di Paolo
È opportuna una breve premessa sulla forma adottata per presentare
la teologia paolina. Come già si è accennato, il principio seguito è quello

indifferenti, visti i crimini tremendi commessi dal regime nazionalsocialista. Ma la


questione israelita riveste per questo un interesse teologico primario universale?
16. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese, 606 ss.
17. Sanders, Paul and Palestinian judaism, 552 (corsivo nel testo).
La teologia di Paolo

della cronologia delle lettere autentiche. Ma esse differiscono alquanto


per metodo di esposizione teologica. Vi sono lettere in cui l'apostolo scri-
ve una specie di trattato teologico, presentando la sua teologia addirittu-
ra in linea di principio. In altre tratta problemi specifici delle sue comu-
nità, applicando criteri teologici alla valutazione della situazione, alla cri-
tica e all'esortazione, per giungere così a vere e proprie esposizioni teo-
logiche di principio. Essendo dunque il genere di argomentazione teolo-
gica tanto differente da lettera a lettera, non è possibile, o per lo meno
non è opportuno, adottare la medesima forma di presentazione per tut-
te. Quindi non si consideri un capriccio se nel seguito, per ogni lettera pao-
lina, vi sarà un modo diverso di proporne il contenuto teologico, scelto
in base alla singola struttura delle argomentazioni.
Se dunque alla base di quanto esporremo vi è il principio cronologi-
co, perché solo così si può riuscire a presentare plasticamente al lettore il
divenire teologico della teologia paolina, vista l'esigenza pressante di evi-
tare l'eccessiva prolissità si è reso necessario procedere, per alcune lette-
re, a una selezione degli argomenti da trattare. Tale selezione è avvenuta
in base al criterio dell'importanza teologica. È evidente che a questo pun-
to i giudizi discrezionali saranno inevitabili.

a) La prima lettera ai Tessalonicesi


L'argomentazione nella prima lettera ai Tessalonicesi
I Tess. 1 è una lettera strettamente personale che Paolo invia alla comu-
nità di Tessalonica. Essa tratta dei buoni rapporti che intercorrono tra l' a-
postolo e i destinatari, come evidenzia l'analisi retorica e contenutistica
del testo.' Per la comprensione dello scritto sono essenziali le sovrap-
posizioni di singole sezioni. Se a dominare ampiamente è la trattazione
del rapporto che lega l'apostolo alla comunità, tuttavia quasi di continuo
questa si intreccia a temi concreti e specifici. Ne consegue che le singole
sezioni si sovrappongono l'una all'altra in base ad affermazioni comuni.
Al prescritto di l,l segue il rendimento di grazie per il buono stato
della comunità, l,2-10. Paolo ripensa all'attività missionaria svolta con
successo a T essalonica. Ringrazia per la situazione in cui si trova la co-
munità facendo presente la propria azione - non è un autoelogio, in quan-
to tale azione ha lo Spirito santo come vero soggetto. Contemporanea-
mente l'apostolo lega la propria esistenza a quella della comunità, into-
nando già al v. 3 uno degli accordi fondamentali della lettera, ossia il co-
1. Riguardo alla recentissima discussione su r Tess. v. tra l'altro il quadro d'insieme
offerto da W. Trilling in ANRW II, 2H, 3365 ss.
2. Riguardo all'analisi retorica di I Tess. v. in particolare Jewett, The Thessalonian
Correspondence, 61 ss.; Johanson, To Ali the Brethren, 81 ss.; Schoon-Janssen, Um-
strittene «Àpologien», 47 ss.; Hughes, Rhetoric of 1Thess.
Le lettere di Paolo

ram Dea escatologico: E!J-7tpocr./J.ev 't'ou ./J.eou xctl 7tct-rpòç l]µwv: chi esiste nel-
la fede, sa di esistere al cospetto di Dio. E chi è consapevole di questo suo
essere coram Dea necessariamente guarda al giorno del giudizio, che per
il cristiano è giorno di salvezza. In relazione a ciò, la sezione si conclude
con la prospettiva escatologica di r,10. l,9 s. riprende come è noto la ter-
minologia missionaria (giudaica e cristiana). 3 Ma queste espressioni
«dogmatiche» non vengono presentate come dogmatica: i cristiani di Tes-
salonica non hanno bisogno di un insegnamento dogmatico. Tali parole
devono piuttosto attestare che la loro fede è conosciuta ovunque. Ma ciò
dà innanzitutto l'occasione a Paolo di accennare al proprio arrivo, etcr-
oooç, presso i tessalonicesi. Essendo stato lui a farne dei credenti nel sen-
so di l,9 s., i cristiani di tutta la Macedonia, dell'Acaia e non solo parla-
no di questo suo arrivo.
Stando a l,2-10 dunque I Tess. già nel primo capitolo sembra essere
un tipo di lettera appartenente al genus demonstrativum, quello che ser-
ve a lodare o a biasimare - nel caso presente è di lode che si tratta. 4 Che
questo non avvenga ai fini di una captatio benevolentiae lo dimostra lo
svolgimento dell'intera lettera. Tuttavia classificare I Tess. come lettera
epidittica contrasta co.n la circostanza fornita da 4,13-18 e 5,1-1 l, in cui
vengono date informazioni teologiche, ossia informazioni riguardanti
questioni escatologiche, benché non si possa non vedere una certa fina-
lità esortativa. 5 Se dunque anche la frase escatologica alla fine dell'unità
r,2-ro può già trovare una spiegazione nel coram Dea escatologico di
1,3, allora l'accenno che viene fatto in l,10 a «Gesù, che ci strapperà dal-
l'imminente giudizio d'ira» potrebbe già preparare all'insegnamento esca-
tologico di 4,13 ss. La sezione epidittica l,2-10, allora, con grande pro-
babilità punta anche all'insegnamento, all'informazione relativa a un con-
testo teologico. Tuttavia più avanti indicheremo con maggior precisione
come sia da classificare retoricamente 4, l 3 ss.
Al rendimento di grazie fa seguito l'apologia di 2,1-12. È controverso

3. V. soprattutto Bussmann, Themen der paulinischen Missionspredigt, 38 ss.


4. Nella retorica antica si distinguono tre generi di discorso: 1. genus iudiciale, il cui
modello è l'arringa giudiziaria; 2. genus deliberativum, il cui modello è il discorso
politico (l'assemblea popolare è invitata a prendere una decisione); 3. genus demon-
strativum, il cui modello è il discorso che si tiene davanti a un convegno solenne per
elogiare (o anche per biasimare) un personaggio, una comunità ecc. Come parti del
discorso vanno ricordate: 1. l' exordium, il cui scopo principale è conquistare la sim-
patia degli ascoltatori, in particolare dei giudici; 2. la narratio, in cui si illustra il fatto;
3. la propositio, breve esposizione del fatto, eventualmente conseguenza della narra-
tio, e in parte anche riassunto del punto controverso; 4. la argumentatio o probatio,
parte centrale, determinante, del discorso; 5. la peroratio, il cui scopo è rinfrescare la
memoria e influenzare gli animi. Riguardo ai genera cfr. Lausberg, Handbuch der li-
terarischen Rhetorik, §§ 139-254; riguardo alle partes artis cfr. op. cit., §§ 255-1091; v.
anche Fuhrmann, Die antike Rhetorik, spec. 75 ss. 5. V. sotto.
La teologia di Paolo

se l'apostolo qui si opponga a dei rimproveri effettivamente mossi, op-


pure se prenda semplicemente le distanze rispetto al comportamento ri-
provevole di predicatori itineranti, filosofici e religiosi. Quest'ultima
posizione, sostenuta tra gli altri da Martin Dibelius 7 e Philipp Vielhauer, 8
sarebbe un po' troppo artificiosa. È molto più probabile invece che i so-
spetti espressi a Tessalonica abbiano spinto Paolo a scrivere la sua apo-
logia.9 A favore dell'ipotesi che sia stato costretto a difendersi da accuse
mosse contro di lui, circolanti nella comunità, gioca il fatto che anche in
altre lettere egli si è sentito in obbligo di scrivere apologie. Il corpus Pau-
linum è in larga misura un corpus apologeticum.
Anche per 2, l - l 2 la classificazione citata prima non è sufficiente. Per
quanto in questa unità della lettera predomini il tratto apologetico, tut-
tavia vi è anche uno spiccato elemento esortativo o parenetico. Essendo
uno che ha annunciato il vangelo con franchezza, 2,2 - in 2,1-12 il con-
cetto kerygmatico -ro eùa:yyÉ:Àwv (-roi:i .Seou) ricorre per ben quattro vol-
te con una forte accentuazione 10 - , Paolo ha certamente inteso questo an-
nuncio anche come esortazione, come~ 7tapaxÀ11cnç ~p.wv, 2,3, come Tia-
paxaÀeiv, 2,12. Egli, che si definisce colui che è andato incontro ai tessa-
lonicesi in modo santo, giusto e irreprensibile, 2,10, li esorta e li inco-
raggia a comportarsi in modo degno di quel Dio, 7tepma-reiv up.ciç à~iwç
-rou .Seou, che li ha chiamati al suo regno e alla sua gloria, 2,12. A questo
xaÀeiv di Dio, che nella predicazione del vangelo diventa realtà storica I I
- in tale predicazione le espressioni veterotestamentarie di fondo sono
fortissime I i - , risponde il 7tepma-reiv dell'uomo che nella fede ha colto il
vangelo. Anche i concetti ~acnÀda e òo~a, che hanno un forte peso teo-
logico, guardano ali' Antico Testamento e posseggono una grande dimen-
sione escatologica.
Per l'analisi retorica il tratto esortativo che abbiamo evidenziato al-
l'interno di 2,1-12 significa che vi sono elementi caratteristici del genus
deliberativum. D'altra parte il tratto apologetico di fondo di questa se-
zione rientra piuttosto nel genus iudiciale. Ma l'elogio alla comunità pre-
6. Riguardo alla discussione dr. il quadro d'insieme di Johanson, To Al! the Brethren,
52-54. 7. M. Dibelius, HNT r r, r r.
8. P. Vielhauer, Geschichte der urchristlichen Literatur, 86.
9. Così, ad es., H. Schlier, Der Apostel und seine Gemeinde. Auslegung des Ersten
Briefes an die Thessalonicher, Freiburg-Basel-Wien 1972, 31 (tr. it. L'apostolo e la sua
comunità. Esegesi della prima lettera ai Tessalonicesi, Brescia 1976, 39). Chiedersi di
che genere fossero gli avversari di Paolo è un interrogativo poco rilevante per le no-
stre considerazioni, per cui lo lasceremo senza risposta.
ro. Nel resto della lettera lo si ritrova ancora due sole volte, in I,2-10 (al v. 5 come 'tÒ
eùayyÉÀwv lJiJ.W'I), per cui 1,2-10 e 2,1-12 risultano tra l'altro collegati fra loro anche
da questo termine eminentemente teologico.
r r. Deve restare aperta la questione se qui s'intenda anche la chiamata pretemporale
di Dio. 12. V. sotto.
Le lettere di Paolo 53
sente nella sezione precedente, l ,2-1 o, faceva pensare al genus demonstra-
tivum. Dunque anche solo l'inizio di I Tess. mostra che Paolo, il quale an-
che e soprattutto nelle lettere successive tradisce una grande dimestichez-
za con gli strumenti della retorica antica, combina, anzi mescola tra loro,
i tratti caratteristici di generi retorici differenti. Una classificazione delle
lettere in base a questi generi classici è dunque impossibile, almeno per
quanto riguarda I Tess. E anche per le altre epistole sarà possibile solo in
singoli casi.
I Tess. 2, l 3 ha carattere di transizione. Il xaì oià 't"OU't"O trae le conse-
guenze da quanto detto precedentemente (incluso l,2-10). Rinnovando
il ringraziamento riprende l,2. I due impieghi di e:ùxapicr'touµ.e:v 'tcj> -8-e:cj>
possono essere intesi come inclusio per le due pericopi l,2-10 e 2,1-12,
collegate l'una all'altra soprattutto mediante e:fooooç ed e:ùayyÉÀwv. Con-
temporaneamente in 2,13 si ha una precisazione teologicamente concet-
tuale: la parola degli uomini viene contrapposta alla parola di Dio. Il van-
gelo, anche sulle labbra dell'uomo Paolo, non è parola d'uomo ma paro-
la di Dio. I Tess. 2,14-16 - che non è un'aggiunta successiva ' 3 - con-
cretizza la situazione di persecuzione dei tessalonicesi. Con il µ.ip. l]'tctt
del v. 14 si ha il rimando a l,6, e si evidenzia ancora una volta un ele-
mento del genus demonstrativum. Il tema dei giudei qui viene menzio-
nato solo di sfuggita; significa molto poco per la tendenza teologica di
fondo di I Tess. Tuttavia la descrizione dettagliata mostra quanto stesse
a cuore questo tema a Paolo e forse anche alla chiesa di T essalonica.
In 2,17-20 troviamo nuovamente una laudatio della comunità. Resa
orfana dall'assenza di Paolo, essa è per lui speranza, gioia e corona di
cui vantarsi. Lo riafferma con tono escatologico: essa è tale «davanti al
Signore Gesù nel giorno della sua parusia». Addirittura le viene attribui-
ta la qualifica di «nostra doxa».
Nel cap. 3 Paolo narra del ritorno di Timoteo, collaboratore di Dio
nell'annuncio del vangelo di Cristo. Ed ecco ricorrere di nuovo le paro-
le chiave dei capp. l e 2. Ecco riaffiorare i noti tratti del genus delibera-
tivum e del genus demonstrativum. Ritroviamo anche il tema del ringra-
ziamento. E come il cap. 2 terminava con il coram Domino escatologico,
anche il cap. 3 si conclude con il coram Deo escatologico. Il cap. 3 com-
pleta dunque quanto era stato scritto prima informando i tessalonicesi
circa il ritorno di Timoteo e le buone notizie da questi riportate (e:ùay-
ye:Àicrap.évou). Se si vuole, si può definire I Tess. l-3 una «lettera di ami-
cizia». '4 C'è solo da chiedersi se tale definizione contribuisce alla com-
prensione della lettera, dato che sappiamo piuttosto poco dell'epistolo-
grafia antica, mentre lo studio del suo rapporto con la retorica antica,

13. Hiibner, Gottes !ch und Israel, 129 ss.


14. V. Schoon-Janssen, Umstrittene «Apologien», 39 ss.; op. cit., 47: I Tess. va oltre la
semplice lettera di amicizia, verso l'insegnamento e la parenesi.
54 la teologia di Paolo

proprio riguardo alle lettere paoline, resta tuttora un desiderio della ri-
cerca.15
Generalmente in I Tess. 4 e 5 si individua la seconda sezione princi-
pale della lettera. 16 Di sicuro il Àomòv oùv iiÒEÀ<pot in 4, r segna palese-
mente l'inizio di una nuova sezione all'interno della lettera. 17 Al tempo
stesso però con la parenesi che comincia in 4,r si dà continuazione alle
proposizioni esortative individuabili in precedenza, anche se ovviamen-
te tale nuova parenesi, contrariamente alle asserzioni che la precedono,
si serve di affermazioni più dettagliate. L'espressione 7tapax.aÀolifJ-EV, che
introduce la sezione, era già stata impiegata da Paolo in 2, r 2 in una for-
mulazione programmatica, dopo che in 2,3 aveva già definito il proprio
annuncio una 7tapax.ÀryJtç. A Tessalonica Timoteo aveva il compito di
crTYJpt~at UfJ-iiç x.at 7tapax.aÀÉcrm, 3,2. Ora però quella che è la volontà di
Dio viene esposta in modo più approfondito e concreto. È definita san-
tificazione, àytacrfJ-oç, 4,3, e ad essa i tessalonicesi sono stati chiamati da
Dio. Il x.aÀE~ v, già noto da 2, r 2, in 4,7 riceve un accento etico. Dio ha
chiamato gli uomini nel suo regno e nella sua gloria, dunque li chiama
anche alla santificazione. E proprio in questo contesto Paolo riprende
un'affermazione centrale del profeta Ezechiele (Ez. 36,27; 37,14), anche
se solo indirettamente in una negazione: chi rifiuta una vita nella san-
tificazione rifiuta Dio stesso, «che vi dona il suo santo Spirito», ÒtÒona
"t"Ò 7t\IE:up.a aÙ"t"o(i "t"Ò aywv EÌç i'.ip.iiç, 4,8.
Qui dunque non abbiamo alcuna citazione formale, né tantomeno una
formula quotationis. Quando Paolo, così en passant, inserisce un'espres-
sione veterotestamentaria in ciò che sta esponendo, naturalmente è pos-
sibile che lo faccia senza dare per scontata la conoscenza dell'Antico Te-
stamento da parte dei suoi destinatari. Ma non potrebbe invece essere
che abbia inserito l'allusione così di sfuggita proprio perché contava sul
fatto che i tessalonicesi conoscevano bene il teologumeno di Ezechiele,
importantissima affermazione profetica della sacra Scrittura? Ad ogni
modo in I Tess. si parla ripetutamente dello Spirito, e in passi di impor-
tanza non secondaria (già in 1,5). A ciò si aggiunge che l'apostolo, il
quale già con r,9 s. aveva citato non solo il kerygma specificamente cri-
stiano, ma anche alcuni topoi della missione giudaica, in 4,5 riprende
una delle parole chiave della polemica giudaica contro i pagani, Ger. ro,
2 5: "t"a' "O '!''
e:vVYJ "t"a' fl- "YJ' e:too"t"a "t"O\I (\ ' 18 Ma se anc h e p ao 1o non d ovesse
' vEov.

15. Al riguardo più circostanziato è ThLZ 109, 241 ss.


16. Così ad es. Kiimmel, Einleitung, 220; Vielhauer, Geschichte der urchristl. lit., 84;
T. Holtz, EKK xm, 29 ss.; Schlier, 1 Thess., 12 s. (tr. it. 17); per l'aspetto linguistico-
testuale Johanson, op. cit., 67 ss., distingue tra I Tess. 1,2-3,13 come «funzione preva-
lentemente espressiva», e 4,1-5 ,24 come «funzione prevalentemente conativa».
17. Così, ad es., Holtz, EKK, 151.
18. I LXX lett.: Wv'I] 't'à iJ.~ doo•a crE. V. anche i.li 78,6: UJv'I] 't'à iJ.~ ytvwcrxona crE e
Giob. 18,21: oùwç oÈ b 't'OTCOç 't'WV IJ.~ EÌOO't'WV 't'ÒV xuptov. Cfr. Gal. 4,8 s.
Le lettere di Paolo 55
aver dato per scontato che i suoi destinatari riuscissero a identificare le
citazioni veterotestamentarie come tali, resta il fatto che egli stesso nel
passo centrale della sua argomentazione deve aver consapevolmente ri-
preso l'Antic~ Testa.mento. C,he l'esis~e?za cristiana si.a esistenza nello
Spirito, che Dio abbia messo il suo Spmto nel cuore d1 coloro che cre-
dono in Cristo, sono realtà vive grazie all'esperienza dello Spirito, vis-
suta al momento della conversione al Dio che ha risuscitato Cristo dai
morti. 19 Perciò anche in 1 Tess. il ripetuto richiamo allo Spirito santo è
una parte di argumentatio, indifferentemente dal fatto che l'inserimento
della citazione di Ez. in 4,8 sia intesa principalmente come argomento
secondo la Scrittura oppure secondo la sola esperienza. Se veramente
Paolo intende richiamarsi ad Ezechiele in modo tale da rendere evidente
agli occhi dei tessalonicesi il riferimento alla Scrittura, allora tale richia-
mo sarebbe al tempo stesso anche riferimento all'esperienza che quanto
promesso dal profeta si è compiuto in essi. Essendo poi collocata pro-
prio alla fine della pericope 4,1-8, l'allusione a Ez. riceve un peso anche
contenutistico.
Con l'esortazione all'amore fraterno anche 4,9-12 contiene clementi
di parenesi concreta. Paolo la introduce rinnovando l'elogio ai tessalo-
nicesi: certo essi non hanno bisogno che nella lettera Paolo glielo ricor-
di. Subito dopo il v. 8 con l'allusione a Ez., la motivazione è significati-
va: infatti è Dio stesso ad insegnare, .{)eoòiòawcot, loro ad amarsi gli uni
gli altri. Il riferimento a 1,3 è palese. Lì Paolo ringraziava per l'azione del-
la fede e la fatica dell'amore, qui elogia coloro che amano. Ciononostan-
te ripete lo stereotipo napaxaÀolip.e:v 'JIJ.iic;, v. 1 o, perché ciò che è dato
deve giungere a pienezza. In tale contesto nel v. 12 ricorre nuovamente
anche il ne:pma'te:~v della frase programmatica di 2, 1 2. L'intreccio di
connessioni nel contenuto delle singole sezioni della lettera si fa sempre
più fitto e plastico davanti ai nostri occhi. E coloro che un tempo ascol-
tavano la lettura a voce alta della lettera sentono ripetersi di continuo le
stesse cose in contesti sempre nuovi.
Nella pericope 4,13-18 Paolo affronta la questione escatologica, la ra-
gione principale che lo ha spinto a scrivere la lettera. Come già in 4,9,
anche in 4, 1 3 si trova un'espressione introdotta da r-e:pi: r-e:pì 'twv x0t1J.w-
µÉvwv. Già in relazione a 1,9 s. avevamo accennato che 4,13-18 non mi-
rava semplicemente a dare delle informazioni. Queste sono sì al centro
dell'esposizione, ma è palese l'intento di confortare quei tessalonicesi
che si affliggono per i loro morti (v. 18).
Se ora ci chiediamo quali siano le implicazioni veterotestamentarie in
questa pericope, si rende necessario fare un accenno alle concezioni apo-
calittiche nei libri più recenti dcli' Antico Testamento (risurrezione dei
morti: Is. 26,19; Dan. 12,2; giù dal ciclo: Dan. 7,13; tromba: Zacc. 9,14;

19. V. Gal. 3,1-5.


La teologia di Paolo
Is. 27,13; Sa!. 47,6). Tuttavia nessun passo veterotestamentario viene ri-
portato esplicitamente come argomentazione. Come elemento argomen-
tativo troviamo in primo luogo al v. 14 il nucleo del kerygma neotesta-
mentario: «Come infatti crediamo che Gesù è morto e risuscitato, così
anche quelli che si sono addormentati in Gesù, Dio li farà venire con
lui». Ecco dunque la conclusione tratta dal kerygma di Cristo, relativa
alla non chiarita questione escatologica. Nel v. l 5 Paolo si richiama poi
a una parola del Signore che adduce come argomento. Dunque dice le
cose più importanti non in forza di una propria autorità apostolica, ma
sulla base dell'autorità di una predicazione di Cristo e di una parola del
Signore che gli sono trasmesse. Le concezioni apocalittiche dell'Antico
Testamento - nel caso che ne siano state riprese direttamente e non at-
traverso la mediazione di un atteggiamento fondamentalmente apocalit-
tico largamente diffuso, certo essenzialmente condizionato da un reper-
torio di concezioni apocalittiche veterotestamentarie - appaiono quasi
come semplice raffigurazione del pensiero di fondo espresso in 4, l 3 ss.
Anche per la seconda pericope escatologica in 5,1-1 l, nuovamente in-
trodotta da un m:pi, in un primo momento è vero che vengono date in-
formazioni di tipo escatologico. E come per 4,18, anche questa pericope
si conclude con l'esortazione al conforto. Al 7tct\l'Wte: crÙ\I xupicp è:croµ.e:-
f)a di 4,17 corrisponde in 5,ro crÙ\I cdrccji ~~crwp.e:\I. Ma il tono di fondo
di p-1 l è lievemente diverso rispetto a quello di 4,13-18. È vero, con
aù·rnì yàp àxpt~wç oì'òa'te: del v. 2 si prende atto ancora una volta della
conoscenza dei tessalonicesi, importante ai fini della salvezza (cfr. 2,I.
2.5), mentre al v. 5, chiamando i destinatari figli della luce e figli del gior-
no, Paolo esprime un ulteriore elogio. Ma non si può non sentire il pres-
sante invito a vegliare (v. 6: µ. ~ xaf;e: 1.Jòw1J.e:\I ... àHà ì'PlJì'OPW(J.E\I ).
All'interrogativo riguardante le implicazioni veterotestamentarie in 5,
l-l l si può rispondere, a differenza di 4,13-18, rimandando a un topos
centrale dell'Antico Testamento, ossia il giorno dijahvé (ad es. Am. 5,
18.20; Gl. 2,1; 3,14). Ma essendo introdotta da aÙ'toÌ yàp àxpt~wç oì'òa-
'tE, la frase sul giorno del Signore di 5,2 diventa un'informazione preci-
sa, ben nota ai destinatari. Ed è a un futuro ben preciso, preannunciato
nell'Antico Testamento, quello a cui Paolo si richiama. Non si può af-
fermare con sicurezza se per 5,3 pensi anche a Ger. 6,14.
La pericope 5,12-24 è ancora una volta un brano parenetico. La lette-
ra dunque, tralasciando i versetti conclusivi di 5,25-28, si chiude con una
sezione esortativa, caratterizzata dall'affollarsi di verbi attinenti come ad
es. Èpw'tW(J.E\I, ~ye:icrf;at, 7tapaxaÀou1J.e:\I, \louf)e:'te:i'te:. La sezione pareneti-
ca termina con la definizione «dogmatica» di Dio come colui che «vi chia-
ma», mcr'tÒç 6 xaÀw\I uµ.tiç. Tornano nuovamente alla memoria 2,12 e 4,7.

Se ci si volge indietro a considerare l'intera lettera si nota


l'adeguatezza della consueta suddivisione nelle due parti I, I-
Le lettere di Paolo 57
3 13 e 4,1-5,28. Tuttavia una linea di demarcazione troppo ac-
c~ntuata tra le due cancella il diffuso intento di Paolo il quale,
ricorrendo all'elogio, all'esortazione e all'argomentazione, in-
treccia strettamente insieme le singole pericopi. Un interroga-
tivo è qui di particolare interesse, ossia quello riguardante la
teologia espressa nell'epistola paolina più antica giunta sino a
noi, nonché le sue implicazioni veterotestamentarie. La rispo-
sta che ne risulta è la seguente: la lettera presenta una teologia
che argomenta e riflette solo in maniera non tematica. Non è
concepita come uno scritto teologico, e in questo si differen-
zia da lettere come Gal. o Rom. Le sue parti affini al genus de-
monstrativum - che qui doveva essere menzionato per primo
-, deliberativum e iudiciale, tuttavia, sono scritte in modo teo-
logicamente meditato. Questa epistola prettamente pastorale
presenta, come si è visto, una gran quantità di concetti teolo-
gici importantissimi (ad es. vangelo [di Dio], fede, speranza,
amore, gloria, chiamata [come azione di Dio], ira, Spirito san-
to, santificazione, risurrezione, giorno del Signore). E una par-
te non irrilevante di questi termini teologici, centrali per I Tess.,
resta teologicamente piuttosto sbiadita se non si prende atto
della relativa storia veterotestamentaria precedente. Per questo
motivo nel seguito, sullo sfondo dell'analisi retorica e in parte
anche contenutistica appena compiuta, le idee teologiche che
stanno dietro la concezione della lettera verranno presentate in
modo più mirato a un impianto sistematico.

La teologia della prima lettera ai Tessalonicesi:


essere davanti a Dio
Visto che le tribolazioni della chiesa di Tessalonica dovute alla situa-
zione di persecuzione in cui si trovava, nonché le pene dell'apostolo stes-
so sono di significato esistentivo rilevante per la tematica della lettera, è
opportuno iniziare col tema «apostolato e sofferenza». Paolo lo esporrà
diffusamente nella sua dimensione cristologica solo all'interno dell'apo-
logia dell'apostolato di 2 Cor., al capitolo 4. Ma 2 Cor. è un documento
che risale all'ultima fase dell'azione missionaria e teologica di Paolo. Ep-
PD:re già nella «giovanile» I Tess. l'apostolo tratta questo tema, anche se
pnvo della profonda dimensione cristologica di 2 Cor. 4. Ma la relazio-
La teologia di Paolo

ne tra sofferenza apostolica e cristologia è già riscontrabile, in embrio-


ne, in I Tess., ove la situazione di sofferenza della comunità viene accol-
ta nella riflessione teologica. Apostolo e comunità sono infatti egualmen-
te soggetti a tribolazioni e persecuzioni. In tal senso i tessalonicesi sono
imitatori, µtµ.11-rc.d, dell'apostolo e di conseguenza anche imitatori del
Signore, r,6. Tali tribolazioni sono anzi necessarie, 3,3: «Sapete bene che
siamo destinati a questo». Le .fJ.Àiljie:tç potrebbero qui designare le tribo-
lazioni messianiche.
Nell'Antico Testamento, nei salmi si parla spesso delle .{).Ài-
lj;e:~ç
dell'orante, soprattutto quelle causate dall'oppressione di
nemici personali (ad es. lj; 9,ro.22; 53,9). Ma il termine esprime
pure l'oppressione e l'afflizione del popolo di Israele, anche del-
l'uomo pio che rappresenta Israele.2° Le tribolazioni avevano
un significato apocalittico nelle sezioni apocalittiche dei pro-
feti (Apocalisse di Isaia) e di Daniele (Dan. 12,1 .{).': xa~ fo-ra~
xatpÒç .{).Àilj;e:wç, .{).Àilj;~ç o?a où yÉyove:v à.qi'o0 ye:yÉvY)'tat Wvoç
È7tt -rljç yljç ewç 'tOU xatpou Èxdvou). Da qui alla concezione
delle doglie messianiche a motivo del messia Gesù, il passo
teologico è breve. Va da sé che l'idea veterotestamentaria del
21

popolo di Dio che soffre tribolazioni e doglie messianiche


conduce all'analogo concetto neotestamentario, e che quindi
in tal senso va teologicamente interpretato anche I Tess. 3,3.
Tuttavia si pone un interrogativo: il popolo dei giudei destina-
to all'ira del giudizio finale di Dio (2,16: b:qi.{).acre:v oÈ bt'aù-roùç
-YJ òpy~ dç -rÉÀoç) ha ceduto alla chiesa il proprio essere Israe-
le? E la chiesa è poi degna di sopportare con la gioia dello Spi-
rito santo (1,6) le tribolazioni messianiche in realtà destinate a
Israele? In 1 Tess. troviamo dunque una sorta di teologia eccle-
siologica della sostituzione: chiesa anziché sinagoga?
Con l'accenno alle tribolazioni dell'apostolo e della sua co-
munità viene affrontata la questione dell'esistenza cristiana tout
court. La teologia si presenta allora nella sua dimensione an-
tropologica. Per I Tess. 3,3 l'esistenza cristiana è necessaria-
20. Schlier, ThWb III, 141,48 ss. (GLNT IV, 524); 141,51 ss. (GLNT ibid.): «Non vi è
passo in cui si dica esplicitamente che la ·.9ÀtljJtç rientra di necessità nella storia di
Israele in quanto popolo eletto e guidato da Dio; tuttavia Israele subisce di fatto nella
sua storia sempre nuove ·.9ÀtY,etç, di cui avverte il valore salvifico».
21. Krcmcr, EWNT II, 375 ss. [DENT 1, 1645 ss.).
Le lettere di Paolo 59
mente esistenza nella persecuzione. E proprio in questa sua
autocomprensione Paolo si sentiva fortemente legato alla chie-
sa di T essalonica. Ma in relazione alla grande tribolazione par-
la - e in modo persino paradossale - della gioia dello Spirito
santo.L'esistenza nella tribolazione e nella persecuzione è dun-
que al tempo stesso esistenza nello Spirito santo. La situazione
di persecuzione e al contempo l'esistenza nello Spirito defini-
scono le due sezioni della lettera, connesse l'una all'altra. L'e-
sistenza nello Spirito santo, tuttavia, è anche la realtà a cui Pao-
lo mira con le affermazioni parenetiche così sostanziali relati-
ve alla santificazione, 4,3-8. E proprio in questa pericope, nel-
l'ultima frase in particolare, si ritrova l'allusione alla promessa
dello Spirito di Ezechiele. Allora, proprio dove Paolo defini-
sce che cosa è un cristiano - e di fatto questo avviene special-
mente in 4,3-8-, il riferimento all'Antico Testamento è essen-
ziale. Per quanto sia indiscutibile che in 1 Tess. Paolo non citi
mai formalmente l'Antico Testamento, tuttavia bisogna tener
conto anche del peso teologico con cui l'apostolo, con la peri-
cope parenetica più importante, 4,3-8, punta teologicamente al
passo di Ezechiele. Se anche l'intento principale dell'argomen-
tazione paolina può essere l' «informazione» escatologica di
4,13-18, non per questo si può sottovalutare l'importanza
teologica di 4,3-8. Se Paolo in 4,8, e proprio in questo passo,
riporta parole tratte da Ez. 36,27 e 37,14, allora ciò è di grande
importanza per il ruolo che riveste l'Antico Testamento, o me-
glio l'Antico Testamento come libro profetico, per il suo pen-
siero teologico.
Stando al significato letterale Ez. 36 e 37 sono capitoli con
un messaggio escatologico, espongono la promessa escatologi-
ca dello Spirito fatta al popolo Israele. Ora, 1 Tess. è una let-
22

tera di stampo eminentemente escatologico. Quanto l'aposto-


lo va esponendo è pervaso dalla consapevolezza di un'attesa
molto prossima. Per questo motivo le sue affermazioni non
hanno un distacco oggettivo. Nella sua analisi dell'esistenza
Martin Heidegger ha mostrato come, in prospettiva esistenzia-

22. Riguardo a questi capitoli v. soprattutto W. Zimmerli, BK.AT xm/2, 869 ss.
60 La teologia di Paolo

le, il nostro esserci sia determinato principalmente dalla situa-


zione emotiva, ossia noi «ci troviamo», sotto l'aspetto esi-
stentivo e concreto, sempre e fondamentalmente in un certo
stato d'animo.2 3 In tal senso lo «stato d'animo» dominante in
I Tess., caratteristico di chi vive alle soglie della fine del mon-
do e della seconda venuta di Gesù, è un classico esempio del
contesto ontologico fondamentale dell'esistenziale della situa-
zione emotiva. Ma se tutta I Tess. è espressione genuina del-
1' attesa prossima che pervade tutto quanto l'esserci, allora non
si potrà più affermare con sicurezza estrema che nel suo «stato
d'animo» prettamente escatologico Paolo ha colto i messaggi
escatologici di Ez. 36 e 37 nel loro senso escatologico origina-
rio. Tuttavia lo possiamo supporre con un alto grado di pro-
babilità.
Comunque, Ez. 36 e 37 non promettono lo Spirito alla chie-
sa universale, ma «soltanto» a Israele. Dunque c'è nuovamente
da chiedersi se Paolo non sostenga la teologia della sostituzio-
ne cui si accennava prima, questa volta in prospettiva pneuma-
tologica. Tuttavia questo significherebbe che Paolo in un pri-
mo tempo avrebbe inteso i passi di Ezechiele nel loro senso
letterale come promessa per Israele, e che solo in un secondo
tempo li avrebbe deliberatamente estesi alla chiesa universale
facendo saltare completamente la dimensione nazionale. Certo
potrebbe aver letto subito la promessa espressa da Ezechiele co-
me promessa messianica. Che i due capitoli di Ezechiele lo
impegnassero fino alla stesura della lettera ai Romani, e che ri-
vestissero un'importanza primaria per il suo pensiero teologi-
co, lo dimostra Rom. 8. 24 Questo capitolo costituisce pur sem-
pre la conclusione di Rom. 3,21-8,39, dunque è l'obiettivo
pneumatologico ed escatologico di quella sezione della lettera
che illustra lo sviluppo della giustificazione e l'essere del giu-
stificato.
Ne risulta però il seguente stato di cose: mentre in Rom.
l'argomentazione teologica procede in modo tale che in 3,2r-

23. Heidegger, Essere e tempo,§ 29.


24. V. sotto, nonché Hiibner, KuD 36, 189 ss.
Le lettere di Paolo 6r

8,39 il processo di giustificazione e l'essere pneumatico del giu-


stificato vengono spiegati con un certo equilibrio, in 1 Tess.
solo il secondo aspetto sembra avere importanza, ossia la san-
tificazione grazie al dono dello Spirito santo. Questo significa
forse che al Paolo di 1 Tess., a differenza del Paolo di Gal. e
Rom., interessava teologicamente soltanto l'essere pneumatico
del credente, e che dunque all'epoca della stesura di I Tess.
egli non aveva ancora meditato sulla teologia della giustifica-
zione che successivamente avrebbe dominato il suo pensiero? 25
Di fatto è indiscutibile che la teologia della giustificazione
presentata in Gal. e Rom. - forse sarebbe meglio parlare di an-
nuncio della giustificazione o di teologia della giustificazione,
invece che di dottrina della giustificazione, perché quest'ulti-
ma espressione definisce un sistema oggettivizzato, che lascia
fuori colui che pensando oggettivizza - in 1 Tess. è assente. A
ciò si aggiunge che le differenze tra la teologia della giustifica-
zione di Gal. e quella di Rom., differenze che non è il caso qui
di approfondire, mostrano quanto poco al tempo della com-
posizione di Gal. il pensiero dell'apostolo possa essere consi-
derato un'entità già fissata. Ma se nell'intervallo di tempo in-
tercorso tra Gal. e Rom. questo pensiero ha continuato a svi-
lupparsi in modo notevole, giungendo addirittura a smentire
in parte affermazioni fatte in precedenza, allora c'è da chieder-
si se anche nel periodo tra I Tess. e Gal. il pensiero di Paolo
non si trovasse in una fase di sviluppo. L'interrogativo è dun-
que se la situazione storica relativa alla stesura di I Tess., per
quanto sia possibile ricostruirla, offra indicazioni pratiche ai
fini della questione in esame.
Se, come indicato nella sezione biografica, già al sinodo del-
la missione Paolo aveva propugnato la libertà fondamentale
dalla legge,2 6 allora già prima della stesura di I Tess., che come
è parere quasi unanime fu scritta solo dopo tale sinodo,2 7 so-
25. Così, ad es., Strccker, Befreiung und Rechtfertigung, 237: «Partiamo dunque dalla
considerazione ... che il primo Paolo non ha ancora presentato una dottrina della giu-
stificazione così come si è sviluppata dalle lotte giudaizzanti ed è stata elaborata nelle
lettere principali». 26. Maggiori particolari nella sezione dedicata a Gal.
27. V. le introduzioni al N.T. di uso corrente; pochissime quelle di parere opposto,
La teologia di Paolo

steneva gli elementi essenziali della concezione di legge mosai-


ca espressa in Gal. A sostegno di questa ipotesi vi è pure il fat-
to che anche il f actum Antiochenum si verificò prima della re-
dazione di I Tess. Non importa che Gal. 2,r6 sia una formula-
zione ad hoc, pensata al momento di concepire la lettera, o che
corrisponda più o meno parola per parola a ciò che Paolo può
aver rinfacciato a Pietro; in ogni caso bisogna tener conto che
le espressioni di Gal. 2,r 5 s. sostanzialmente riportano quello
che ad Antiochia Paolo ribatté polemicamente a Pietro. Di
fronte a queste considerazioni di ordine storico, basate sulla
successione cronologica degli eventi nella vita Pauli, è alta-
mente improbabile che la sostanza della teologia della giustifi-
cazione, così come la si incontra expressis verbis innanzitutto
in Gal., all'epoca della stesura di 1 Tess. non fosse ancora pa-
trimonio teologico di Paolo. Ci si può persino domandare se
addirittura l'dò6-re:c; in Gal. 2,r6 non segnali che Paolo si ri-
chiama a un'espressione (quasi) formulare già d'uso corrente
(al sinodo?) prima che accadesse il factum Antiochenum.2 8 Si
impone dunque la necessità di ascoltare con molta attenzione
le dichiarazioni di 1 Tess., allo scopo di scoprire se in esse non
sia espressa almeno subliminalmente una connessione tra fede
e giustificazione. Che in 1 Tess. Paolo non esponga la tesi po-
lemico-negativa della «giustificazione non attraverso le opere
della legge» è in relazione con il carattere teologicamente non
polemico della lettera; certo però l'equivalente positivo «giu-
stificazione per fede» potrebbe avere buon esito nel quadro
teologico della lettera.
Abbiamo così menzionato un'implicazione centrale del teo-
logumeno della giustificazione, ossia il coram Dea o coram
Domino escatologico (r,3; 2,r9; 3,9.r3). Il rimando alla parusia
ad es. Liidemann, Paulus, der Heidenapostel 1, 264. 272, che fa risalire 1 Tess. al 41 cir-
ca e il sinodo della missione al 47 (50).
28. Il modo in cui Paolo in Gal. 2,16 impiega, anzi addirittura cita, questa formula in-
duce a chiedersi se essa non abbia avuto un ruolo cruciale già nelle discussioni del si-
nodo della missione. Con d86o:eç - si tratta pur sempre del participio riferito a ~1.1.e(ç
del v. 15 - Paolo potrebbe alludere a un accordo raggiunto durante il sinodo? Natu-
ralmente non lo si può provare; tuttavia ritengo che sia possibile, dato che tale formu-
la non implica necessariamente la svalutazione teologica della legge in Gal. 3 e 4.
Le lettere di Paolo

imminente, dunque la prospettiva di trovarsi presto di fronte a


Dio, esprime al contempo anche il vicino giudizio di Dio. Il
coram Deo escatologico è dunque inteso principalmente in sen-
so forense. Al momento del giudizio universale il cristiano si
troverà per così dire faccia a faccia (etJ-npocr.S.e:v) con Dio e con
Cristo. E colto così un aspetto essenziale dell'antropologia teo-
logica dell'Antico Testamento. La disinvoltura con cui Paolo
lo fa dimostra quanto fosse calato nella tradizione del pensiero
biblico: per l'uomo veterotestamentario l'esistenza è sempre esi-
stenza davanti a Dio.2 9 Questo elemento personale, che per-
vade largamente tutti i libri dell'Antico Testamento, in 1 Tess.
diventa potentissimo. 30 L'uomo veterotestamentario non può
comprendere se stesso se non nel proprio responsabile essere
di fronte a Dio. L'esistenza è responsabilità coram Deo, di
fronte al Dio che lo ha chiamato all'esserci (ad es. Sal. 94,9);
chi ignora il Dio che esige una responsabilità sempre vigile è
uno sciocco. Solo i pazzi affermano nel loro cuore che Dio
non c'è (Sal. 14,1), e questo «ateismo» definisce il non curarsi
di Dio.
Israele riteneva di essere colui che risponde all'azione salvifica di Dio. A
questo riguardo Gerhard von Rad ha osservato che in tale risposta, so-
prattutto nella preghiera del salterio, si evidenziano i tratti fondamentali
di un'antropologia teologica; «affiora l'immagine dell'uomo davanti al
Dio vivente». 11 Con lui c'è da ricordare che «il modo in cui Israele si
vedeva davanti a Dio e in cui si rappresentava davanti a lui è teologica-
mente di altissimo rilievo». 12 «Solo davanti a Dio e con Dio l'uomo è
uomo, e dove egli ha smarrito questo riferimento diventa inevitabilmen-
te un mostro».ll Hans-Joachim Kraus, con buoni motivi teologici e in
modo tipico per la sua concezione, ha intitolato «L'uomo davanti a
Dio» l'ultima sezione veterotestamentaria della sua Teologia dei Sal-
mi.34 E, di fatto, nei salmi si parla di continuo dell'uomo davanti a Dio.
Il suo postulato è appropriato: «L'antropologia (dell'Antico Testamen-
29. V., ad es., E. Best, BNTC, 70, a proposito di / Tess. 1,3: « ... egli (se. Paolo) 'pensa'
davanti a Dio tanto quanto agisce davanti a lui; tutta la sua vita si svolge continua-
mente alla presenza di Dio•.
30. Si può, ad es., menzionare Y, 89,8: I è'..Sou i:àç cho1J.tetç ~JJ.Wv Èvwm6v crou I b ettwv
~!J.wv ek, rpwi:tcr!J.Òv i:ou 7tpocrw7tou crou. 3 I. von Rad, Theol. 1, 367 (tr. it. 1, 402).
32. /bid. 33. von Rad, Gottes Wirken in Israel, 142 (corsivo mio).
34· BK.AT xv/3, § 6, 171 ss. (tr. it. Teologia dei Salmi, Brescia 1989, 222 ss.).
La teologia di Paolo

to) deve perciò avere fin dall'inizio un orientamento teologico, deve


cioè studiare a fondo come si presenti l'uomo in Israele di fronte a ]ah-
vé».35 Così, «è precisamente nel vivere e camminare di fronte al Dio di
Israele che l'uomo diventa uomo, scopre il suo proprio essere». 36 Se nei
salmi si parla più di una volta di Israele come popolo che sta davanti a
Dio, o ancora del singolo in situazione analoga, è nel libro di Giobbe
che viene espressa con maggiore efficacia l'esistenza coram Dea del sin-
golo. Heinrich Gross commenta la disputa tra Giobbe e Dio in Giob.
I 3,2 3 ss., in cui il sofferente, sapendo di essere nella ragione (v. I 8), ac-
cusa Dio perché se ne sta in silenzio: «Questo tocca la sua esistenza.
L'israelita infatti vive del volto di Dio rivolto verso di lui». 37 Ma è pro-
prio il libro di Giobbe a situare in ambito forense l'esistenza coram Dea.
In questo contesto è ancora indicativo il fatto che nel capitolo «L'uomo
di fronte a Dio» Kraus intitoli il quarto paragrafo «La fede dei giusti».38
Dunque anche per la teologia veterotestamentaria, per quan-
to differente sia la sua impronta nei singoli libri, l'essere da-
vanti a Dio è essere davanti al Dio giudicante. Nell'Antico
Testamento questo concetto non è solitamente espresso come
teorema teoretico-teologico, tuttavia è inserito nell'autocom-
prensione dell'uomo religioso veterotestamentario. Ed è pro-
prio l'orante veterotestamentario ad ambire all'essere-giusto da-
vanti a Dio - qualunque sia la forma: il peccatore vuole ridi-
ventare giusto, !'ingiustamente perseguitato vuole riavere la
giustizia che gli è stata tolta. L'autocomprensione dell'uomo
religioso dell'Antico Testamento trova espressione teoretica
nella terminologia teologica veterotestamentaria, in particola-
re nel concetto di giustizia. 39
Questa digressione veterotestamentaria era necessaria, per-
ché nelle pubblicazioni di uso corrente si trascura l'interpre-
tazione esistenziale dell'espressione «davanti a Dio e Padre no-
stro» in 1 Tess. 1,3 e nei passi paralleli corrispondenti. Proprio
3 5. Op. cit., 179 (tr. it. 232; corsivo nel testo).
36. lbid. (tr. it. 233); v. anche p. 185 (tr. it. 241): «L'inclusione di Sa!. 139 tra gli
'aspetti dell'antropologia' doveva servire a dimostrare come, e in quale misura, ogni
visione dell'uomo faccia parte della relazione della vita e dell'essere di quest'uomo di
fronte ajahvé•. 37. H. Gross, ljob, Leipzig 1986, 53.
38. Kraus, BK.AT, 193 ss. (tr. it. 251 ss.).
39. V. in particolare l'eccellente voce ~dq di Koch, THAT 11, 507-530. Riguardo all'e-
sistenziale voler-essere-giusto davanti all'istanza riconosciuta come normativa, dun-
que riguardo all'uomo come essere forense, v. voi. r, 2 56 ss.
Le lettere di Paolo

questa dichiarazione dell'apostolo è teologicamente più rile-


vante di quanto comunemente si ritenga. Qui, come in uno
specchio ustorio, troviamo le concezioni veterotestamentarie
dell'uomo come esistenza davanti a Dio e dell'uomo come es-
sere forense inteso in senso teologico; dunque la concezione
dell'uomo sicuro del fatto che sia Dio l'istanza giuridica mas-
sima, e consapevole di essere responsabile proprio davanti a
questo Dio. In poche parole, si tratta di un concetto di esi-
stenza determinato dal personalismo dell'incontro tra Dio e
uomo. Di conseguenza, in questo contesto preciso non si po-
trà trascurare il fatto che Paolo vive nel mondo di preghiera
dei salmi, e che questi ultimi, con il loro coram Deo spesso di
matrice forense, sono la sua patria religiosa. Il significato teo-
logico degli enunciati forensi di I Tess. si svela dunque soltan-
to se diviene chiaro in quale pensiero teologico globale di Pao-
lo essi siano stati formulati.
Un raffronto tra antropologia dell'Antico Testamento, in particolare
quella dei Salmi, e antropologia di Paolo mostra la grande affinità teolo-
gica tra le due. Benché Hans-Joachim Kraus si rifiuti di ricorrere a una
antropologia non teologica, 40 mentre Rudolf Bultmann nel presentare
la teologia paolina inizia volutamente con le strutture formali dell'essere
umano, 4' entrambi concordano a volte perfino nelle formulazioni nel
definire concetti antropologici. Kraus, ad esempio, interpreta il termine
veterotestamentario leb/lebab, «cuore», come centro della vita umana.
«Questo 'cuore' è la sede di ogni pensiero, progetto, riflessione, discus-
sione e ricerca ... È il punto centrale, in cui la gioia ... e il dolore, l'ango-
scia e la paura ... , l'amarezza ... e la speranza ... sono vissute o sofferte in
tutto il loro peso che condiziona l'uomo». 42 Colpisce l'affinità con Bult-
mann: «Come nei LXX leb è tradotto con x.apò[a o con vou::;, così Paolo
usa ampiamente x.apòia nello stesso senso di vouç, cioè per designare l'io
come soggetto volente, tendente, progettante». 43 Come Kraus attribui-
sce al cuore nel senso appena definito la colpa, il dissidio, ma anche la
purezza operata da Dio,44 espressioni che concretizzano il progettare e
l'aspirare, così avviene anche per Bultmann: la x.apò[a è soggetto del dub-

40. Kraus, BK.AT, 179 (tr. it. 232 s.).


41. Bultmann, Theol., 192 ss. (tr. it. 185 ss.).
42. Kraus, BK.AT, 181 (tr. it. 236).
43· Bultmann, Theol., 221 (tr. it. 2u); da «per designare ... » in avanti, in corsivo nel
testo. 44. Kraus, BK.AT, 182 (tr. it. 236).
66 La teologia di Paolo

bio come della fede (Rom. ro,6-ro). «Come l'incredulità è l'indurimento


del cuore ... , così l'accesso alla fede avviene quando Dio fa spuntare nel
cuore la luce ... È Dio che può rinsaldare i cuori ... ; ai cuori egli elargisce
il dono dello Spirito ... ; il suo amore è riversato nel cuore dei credenti me-
diante lo Spirito ... xapòia è sempre sinonimo di 'io' ... ». 45 I due teologi
non sono concordi sull'interpretazione esistenziale, entrambi però in
fondo la praticano in maniera almeno affine.
Ma se l'elemento forense può essere collegato a quello di critica alla
legge individuato nella biografia di Paolo, ed è inoltre orientato al giu-
dizio universale ( r Tess. r '3) per mezzo della stretta connessione tra fe-
de e speranza della fede come situazione emotiva di fondo 46 del!' esisten-
za cristiana, allora comincia a prender forma l'idea che il sussistere del cri-
stiano davanti a Dio avviene al momento della parusia di Cristo in base
alla fede. Rom. p con il suo Òtxmw.SÉnEc; Èx TCtcr'tEWç ha dunque in r
Tess. Ii} un preludio almeno tematico.
Concludendo: abbiamo mostrato che quanto Paolo espone
in I Tess. solo in minima parte è strutturato mediante espres-
sioni veterotestamentarie ed esteriormente definito in modo
riconoscibile. Questo dipende anche dal carattere della lettera,
essenzialmente esortativo, come ha stabilito l'analisi. Qui Pao-
lo non aveva bisogno di contrapporre polemicamente espres-
sioni dell'Antico Testamento a coloro che con intento sedi-
zioso miravano a ostacolare e mettere in difficoltà la sua mis-
sione. Al tempo stesso, tuttavia, è chiaro anche che le spiega-
zioni elogiative e parenetiche di r Tess. hanno una profonda
sostanza teologica, e che questo pensiero teologico è permeato
della comprensione fondamentale di esistenza dell'Antico Te-
stamento. Per quanto possa suonare contraddittorio e parados-
sale, r Tess. non è ancora interamente Paolo, ma al tempo stes-
so lo è già. Comunque è indiscutibile che le idee esposte in que-
sta lettera sono talmente pregne di contenuto teologico da per-
mettere di tracciare una linea che porta alle dichiarazioni teo-
logiche espresse successivamente da Paolo.47 A tale riguardo, la
45. Bultmann, Theol., 221 s. (tr. it. 212). 46. Holtz, EKK, 44.
47. Solo dopo aver ultimato questa parte su I Tess. è uscito lo studio di Thomas
Soding, Der E rste Thessalonicherbrief :md die fruhe paulinische Evangeliumsverkiin-
digung. Zur Frage einer Entwicklung der paulinischen Theologie (BZ 3 5, 180 ss.). In
questa analisi, eccellente in punti essenziali, e in questa interpretazione teologica di I
Tess. l'autore ha evidenziato in maniera convincente che in essa compaiono già alcune
delle idee teologiche centrali delle principali epistole paoline, in particolare la libertà
Le lettere di Paolo

lettera più antica di Paolo pervenutaci merita da parte del teo-


logo un'attenzione maggiore di quanto di norma sia avvenuto
. 8
sino ad oggi. 4

b) La lettera ai Calati
Argomentazione e teologia nella lettera ai Calati
Per l'argomentazione teologica di Gal. 1 sono fondamentali le citazio-

dalla legge: l'invito all'agape non viene fatto perché trova sostegno nella legge, ma
perché corrisponde alla realtà della chiesa, realtà nuova, escatologica, creata da Dio.
Anche se la libertà dalla legge non diventa un tema vero e proprio, I Tess. è «una
chiara prova dell'annuncio dcl vangelo libero dalla legge, portato dall'apostolo», op.
cit., 198. Ma se Paolo non vede ragione per difendere e motivare la libertà dalla legge,
tuttavia la dà per scontata. «È decisivo che (già) I Tess. veda nella morte e risurrezio-
ne di Gesù la manifestazione escatologica della volontà salvifica di Dio, impostando
su di essa tutta la teologia». Già nella teologia della giustificazione e in quella battesi-
male precedenti a Paolo sono poste le basi per negare un'importanza salvifica della
legge, op. cit., 199. Soding ha visto giusto soprattutto quando afferma che la differen-
za fondamentale tra le lettere principali consiste nel fatto che l'azione del kyrios e
quella del pneuma non vengono messe direttamente in relazione l'una con l'altra, e
che anche indirettamente il loro legame è pressoché inesistente, op. cit., 191, con Thii-
sing, Gott 1md Christus in der paulinischen Soteriologie 1, 291. Con Thiising e Soding
bisogna riconoscere anche che il primato della teologia è caratteristico dell'annuncio
paolino di I Tess. (e delle lettere principali), Thiising, op. cit., passim, e Soding, op.
cit., 189. V. anche Horn, Das Angeld des Geistes, 119-160, spec. 147 ss. A proposito
di Peter Stuhlmacher, Bibl. Theol. des NT I, 333: non è un equivoco da poco quello
di classificarmi tra i sostenitori dell'opinione secondo la quale solo in seguito alla con-
troversia in Galazia Paolo è giunto all'annuncio della giustificazione dell'empio. Per-
sonalmente, a varie riprese ho confutato proprio tale concezione, respingendo di con-
tinuo l'equivoco, che qui incontro di nuovo, riguardante la mia ipotesi sullo sviluppo
della teologia paolina. Già nel 1980, in NTS 26, 445 ss., avevo tentato di dimostrare
come Gal. vada intesa nella continuità di I Tess., ossia come configurazione polemica
della sostanza teologica già racchiusa in I Tess. (op. cit., 458).
48. A dire il vero dovrebbe sorprendere quanto poco sia presa in considerazione pro-
prio nei commenti a I Tess. l'espressione è:p.r.pocr-BEv -roii &oii xal r.a-rpÒç 'iiiJ.ttJ'I. Agli
esegeti interessa principalmente la correlazione logica tra le parti della proposizione;
ed è proprio questo l'aspetto su cui riflettere. James Everett Frame, ICC, 77, riman-
da, ad es., al suo significato escatologico, ma non degna della minima attenzione la
sua profonda dimensione teologica. Traugott Holtz, che per il resto interpreta il testo
in modo eccellente e informa sui problemi esegetici, nel suo commento non si cura
affatto di un'interpretazione contenutistica di questa parte di I Tess. 1,3. Lo stesso
Ernst von Dobschiitz, KEK, 67, ne dice tanto poco da risultare insoddisfacente.
I. Una trattazione separata di argomentazione e teologia come per I Tess. non è ne-
cessaria per Gal., perché presentando la struttura argomentativa della lettera si evi-
denzia al contempo anche ciò che è importante della sua teologia.
68 La teologia di Paolo

ni formali, in gran parte introdotte da una formula quotationis. Per il


suo messaggio teologico le citazioni veterotestamentarie sono basilari per
la struttura dell'argomentazione e per la definizione dei temi. Ma al tem-
po stesso proprio Gal. è la lettera per la quale l'analisi retorica è di gran-
de rilievo ai fini della comprensione dell'intento teologico di Paolo.
L'opinione espressa da Hans Dieter Betz,2 a parere del quale Gal. an-
drebbe classificata come lettera apologetica, o più precisamente come una
requisitoria apologetica in forma di lettera e dunque come versione epi-
stolare del genus iudiciale, 3 è stata sì contestata da una serie di autori, 4 tut-
tavia grazie a Betz si è giunti perlomeno a un ampio consenso tra gli ese-
geti sul fatto che l'analisi retorica, consentendo di individuare con mag-
gior precisione la struttura degli enunciati in Gal., è assolutamente indi-
spensabile. Comunque, sia che con Betz si consideri l'epistola ai Galati
una lettera apologetica appartenente al genus iudiciale, sia che con Ken-
nedy la si attribuisca al genus deliberativum, è indiscutibile che essa pos-
segga carattere apologetico 5 e che intenda provocare un cambiamento di
idee nei galati. Ci si può domandare se, nel quadro di un «discorso» di di-
fesa, Paolo non sia inavvertitamente passato ali' «attacco», con l'intento
di ricondurre i galati alla ragione con l'aiuto della sua argomentazione po-
lemica.6
2. H.D. Betz, NTS 21, 353 ss.; Idem, Der Galaterbrief Ein Kommentar zum Brief
des Apostels Paultts an die Gemeinden in Galatien (Hermeneia-Kommentar), Miin-
chen 1988; originale americano «Hermeneia», Philadelphia 1979.
3. V. sopra, p. 51 n. 4.
4. Così tra gli altri Kennedy, NT Interpretation through Rhetorical Criticism, 144-
152, spec. 146, il quale classifica Gal. nel genus deliberativum: Paolo vuole indurre i
galati a comportarsi in un certo modo. V. anche Smit, NTS 35, 1 ss. VerenaJegher-
Bucher, Der Gal auf dem Hintergrund antiker Epistolographie und Rhetorik, non si
presta a proseguire la discussione sull'analisi retorica di Gal.; questo è dovuto sia alla
bizzarra argomentazione - a quanto pare provocata dalla decisione ideologica di ve-
dere nel Paolo di Gal. un difensore della torà (sottotitolo: «Un'altra immagine di
Paolo») -, sia a una scelta bibliografica parziale (indicazioni bibliografiche in parte
strane, in parte addirittura false). E un vero peccato, tanto più che l'autrice ha ricono-
sciuto il problema del rapporto tra antica epistolografia e retorica. Ecco qui un breve
accenno alle sue concezioni: il tema di Gal. è la dimostrazione di Paolo che il cosid-
detto decreto apostolico è vincolante per giudeocristiani ed etnicocristiani. ~ àì.~8rn.t
-.ou EÙayyùlou (Gal. 2,14) intenderebbe questo decreto apostolico, denominato
'emuna. Gal. 2,1-10 illustra una riunione speciale svoltasi dopo il factum Antioche-
num di 2,11 ss.
5. Sandcrs, Paul, 54: «La passione e l'ardore mostrano che Paolo, l'apostolo dei gen-
tili, deve difendere sia la propria teologia che la propria persona ... »; Schoon-Janssen,
Umstrittene «Apologien», 66 ss., vede in Gal. 1,10-2,14 un testo apologetico; tuttavia
non tutta la lettera avrebbe un'impostazione apologetica.
6. Hiibner, ThLZ 109, 249 s. Relativamente alla discussione con Betz e alla critica che
lo riguarda, oltre alle pubblicazioni fin qui citate cfr. anche D.E. Aune: RclStRev 7
Le lettere di Paolo

In Gal. si possono chiaramente distinguere come singole sezioni re-


toriche innanzitutto l'exordium l,6 ss., poi la narratio l,13 ss. e l'argu-
mentatio 3, l ss. Se in 2, 15-21 si individua la propositio, allora là narratio
comprende l, 13-2,l4. La fine dell' argumentatio è controversa. 7 La sezione
parenetica ha inizio al massimo in 5,13, e si conclude in 6,10. Questa
sezione, come ammette anche Betz, non rientra nello schema del genus
iudiciale. In quanto prescritto l,1-5 è parte integrante di una lettera e, a
motivo di questa suddivisione epistolografica, non può essere sottoposto
a un'analisi retorica diretta. Le cose stanno diversamente per il poscritto
di 6, l l-l 8. In quanto tale esso è classificato epistolograficamente, però
Betz vi vede anche una funzione retorica, quella della «peroratio o con-
clusio, ossia fine e conclusione del discorso di difesa che costituisce il
corpus della lettera». 8
Ma già il prescritto per alcuni spunti fa parte anch'esso del-
1' argomentazione teologica della lettera, come mostra soprat-
tutto la specificazione del v. 4 che colpisce rispetto ad altri pre-
scritti paolini. L'accento soteriologico che qui compare ha una
importanza programmatica per l'intera lettera. 'tou ò6noç Èau-
'tÒv unè:p 'twv ap.ctp't~wv ~p.wv richiama ls. 53, x.a~ x.upwç napÉ-
òwx.ev ctÙ'tÒV 'tct'i'ç ap.ctp'ttct~ç ~fl-W\I ricorda in particolare 53,6,
e ò~à 'tàç ap.ctp'ttctç ctÙ'tW\I 7tctpeò6-8ri 53,12. 9 E controverso se
si tratti di un'allusione consapevole,1° tuttavia è ipotizzabile
almeno un'influenza di carattere indiretto. Secondo Karl Ker-
telge l'idea portante di Is. 52,13-53,12 per cui il servo di Dio
soffre per i molti deve aver influito fin dall'inizio sull'inter-
pretazione della morte di Gesù sviluppatasi nel primo cristia-
nesimo, e in misura molto maggiore di quanto può essere di-
mostrato sulla base dei testi neotestamentari più antichi. 11 Se
(1981) J23-338; W.D. Davics, op. cit., 310-318; P.W. Meyer, op. cit., 818-823; Hester,
JBL, 103, 223 ss.; Lategan, NTS 34, 411 ss.
7. Hiibner, TRE XII, 5 s. 8. Betz, Herm., 530 s.
9. V. anche ls. 53,5: (J.E(J.CXÀclXt<r'\'CU òtà .à, a1J.ap•iaç ~(J.ÙJV.
ro. Così, ad es., H. Schlier, KEK VII, 32 (tr. it. La lettera ai Galati, Brescia 1965, 34):
«Vi si sente l'influenza dell'uso di r.apaòtò6vat nel passo di ls. 53,6.12, inteso in senso
cristologico»;]. Rohde, ThHK IX, 35; ma in particolare J. Jeremias, Zum Sendungs-
bewusstsein jem, 200. 206; sono incerti, ad es., F. Mussner, HThK IX, 51 (tr. it. La
lettera ai Galati, Brescia 1987, 110 s.); Bctz, Herm., 95 n. 49; non è d'accordo, ad es.,
Popkes, Christus traditus, 253 s. (senza menzionare Gal. 1,4; tuttavia qui tale passo è
implicito per via del contesto espositivo), v. spec. 2 54: •ls. 53 non costituisce la radice
della frase sulla donazione, che solo dopo ha tratto con sé il rimando a ls. 53».
I I. Kertelge, QD 74, 119; ma in questo contesto non menziona Gal. 1,4.
70 La teologia di Paolo

dunque Paolo in Gal. 1 ,4 non dovesse aver pensato principal-


mente a Is. 53, allora è più che probabile che alla formula di
saluto abbia fatto seguire una delle prime formule cristiane che,
come ben sapeva, accoglieva nel proprio orizzonte cristologi-
co anche I s. 53. Se ci si raffigura il rapporto concreto tra i pri-
mi cristiani e la sacra Scrittura, tutto lascia pensare che già in
uno stadio molto precoce tale capitolo veniva letto e recepito
in chiave cristologica. Dato che i primi cristiani provenivano
dal giudaismo e dunque conoscevano bene Is., è un postulato
alquanto improbabile ritenere che leggendo o ascoltando la let-
tura di questo capitolo non vi associassero la passione, morte e
risurrezione di Gesù. 12 Chi volesse argomentare sulla base di
tale postulato dovrebbe anzitutto dimostrare che questi primi
cristiani, provenienti dal giudaismo, non conoscevano Is. 13
Se dunque Paolo già nel prescritto ha posto come titolo l'enunciato so-
teriologicamente fondamentale di /s. 53, anteponendolo all'argomenta-
zione soteriologica della lettera, non lo ha fatto soltanto ponendo un se-
gno cristologico davanti a /s. 53, ma anche facendo propria la tradizione
a quanto pare già esistente della donazione del messia da parte di Dio
come autodonazione del messia. 14 Che così facendo non intendesse ne-
gare la particolare attività soteriologica di Dio è dimostrato da enunciati
come 2 Cor. 5,21; Rom. 3,25; 4,25 o Rom. 5,6 ss. 15

12. Anche Bultmann, Theol., 49 (tr. it. 40), ritiene che già all'interno della chiesa
primitiva, «e neppure della primissima», in Is. 53 si fosse trovata una profezia riguar-
dante la passione di Gesù.
13. Ai fini di questa discussione è irrilevante se nella primissima epoca cristiana ls. 53
fosse già interpretato in senso messianico da parte giudaica, come più tardi è lettera-
riamente documentabile in Tg. Is. in un marcato messianismo della gloria. Che nel
servo di Dio del Deutero-Isaia si scorgesse una figura messianica o meno, per la no-
stra ricerca è irrilevante, dal momento che per noi la questione cruciale è un'altra: i
primi cristiani riconoscevano nella figura sofferente e gloriosa di Is. 53 quel Gesù di
N azaret venuto a portare la salvezza? Per la nostra problematica il titolo di messia in
quanto tale è secondario.
14. Così ad es. Conzelmann, Theologie des Neuen Testaments, 55 n. 6 (tr. it. 83 n. 6);
Deichgraber, Gotteshymnus und Christushymnus, 113 n. 2; Popkes, Christtts tradi-
tus, 197; Roloff, NTS 19, 43; Betz, Herm., 94 s.; B. Corsani, Lettera ai Calati (Com-
mentario storico ed esegetico all'A. e al N.T., NT 9), Genova 1990, 59 s.
15. Se anche questi passi sono stati composti dopo la redazione di Gal. e dunque bi-
sogna tener conto di uno sviluppo teologico di Paolo non irrilevante, tuttavia non vi
sono serie ragioni per supporre una elaborazione che dal messaggio di un'attività so-
teriologica di Gesù giunga a quello di un'attività soteriologica di Dio.
Le lettere di Paolo 71
In Gal. l,4, l'enunciato conclusivo successivo all'allusione a Is. 53, «al
fine di strapparci dal secolo presente», può essere inteso come indizio
della situazione dei destinatari? Forse Gal. 4,8-1 l fornisce un'indicazio-
ne al riguardo: accettando il vangelo di Cristo i galati hanno sperimenta-
to, hanno conosciuto, la libertà da quegli elementi del mondo che ridu-
cono in schiavitù (Gal. 4,J.8 s.). Se questo dovesse essere vero, allora il
titolo soteriologico del prescritto non resterebbe chiuso nell'ambito di
una teoria teologica speculativa. In tal caso, infatti, in l ,4 Paolo avrebbe
molto semplicemente iniziato a parlare della situazione esistentiva dei
destinatari. Comunque, qualunque sia qui il giudizio, in ogni caso già
nel prescritto Paolo ha fatto una dichiarazione teologicamente fondamen-
tale che, evidenziando il tema della lettera come soteriologicamente
definito, fa ricorso ali' Antico Testamento.
Ma allora, perché Paolo non riporta le parole di Is. 53 come citazione
formale? Solo perché dal punto di vista formale questo non rientra in
un prescritto? Certo è possibile, dato che procede allo stesso modo an-
che con quello di Rom. Ma è possibile anche un'altra supposizione sul
motivo per cui in Gal. r,4 Paolo non cita formalmente Is. 53, supposi-
zione che è importante proprio ai fini della nostra argomentazione: la
formula cristologica di Gal. I,4 con la sua ricezione di Is. 53 era in mi-
sura tale patrimonio comune dei primi cristiani che Paolo non ha avuto
nessun bisogno di richiamarne l'attenzione sul testo. 16 Poiché la formula
soteriologica composta con parole tratte da Js. 53 era comunemente ac-
cettata, in particolare dai contromissionari giudaizzanti e certo anche
dai galati, Paolo poté inserirla abilmente nel prescritto della lettera. Il
carattere di formula è particolarmente adatto proprio dove un'argomen-
tazione viene sviluppata di fronte a un pubblico, anche religioso.
Ma mentre affermazioni molto probabilmente centrali di Is.
53 riguardanti l'enigmatico servo di Dio confluivano in una
formula cristologica, 17 il kerygma cristiano attribuì loro un
nuovo punto di riferimento. Ora Is. 53 diventava un messag-
gio relativo al messia Gesù di Nazaret. In questo modo Is. 53
si colloca nel definitivo sistema teologico di coordinate della cri-
stologia neotestamentaria. Il giusto sofferente di Is. 53 ora è
16. V. anche H. Lietzmann, HNT xo, 4: «I vv. 4-5 offrono un ampliamento singolare
rispetto a ciò che di solito è l'indirizzo di saluto standard, e in questo ricordano Rom.
1,2-4: in modo molto conciso riportano infatti il contenuto dell'annuncio evangelico.
Poiché, per quel che ne sappiamo, questa formulazione non è stata contestata neppu-
re dagli avversari, qui non si potrà supporre un intento polemico diretto».
I!· Riguardo alla questione ancora non dcl tutto risolta relativa alla comprensione
giudaica di allora relativa al servo di Dio nel Deutero-Isaia cfr. Haag, Der Gottesknecht
bei Dt-]es, 34 ss.
72 La teologia di Paolo

diventato definitivamente un personaggio storico preciso. Da


questo momento in avanti la discussione teologica sull'identi-
tà del servo di Dio non è più libera. L'evento Cristo stabilisce
l'unico modo in cui /s. 53 può essere interpretato.
Ma se in questo senso ls. 53 è forzatamente inserito nel-
1' orizzonte cristologico come Vetus Testamentum in Novo re-
ceptum, il capitolo viene tirato fuori dal suo sistema di coordi-
nate veterotestamentario. 18 Infatti, non ha importanza chi sia,
nel senso letterale, la persona descritta in Is. 53: non è il messia
neotestamentario. 19 Ma ciò che del messaggio teologico di que-
sto capitolo viene ripreso nel Nuovo Testamento è l'idea di e-
spiazione vicaria. 20 E anche, a seconda dell'interpretazione, un
pensiero universale circa l'espiazione, individuato in I s. 53. 21

Nella narratio Paolo racconta di quando ancora non era cri-


stiano, della sua vocazione, del sinodo della missione e del f ac-
tum Antiochenum. 22 Prima di convertirsi l'apostolo era un ri-
gorista della torà, per cui l'evento della conversione ebbe con-
seguenze rilevanti per la sua concezione di torà e dunque an-
che per la propria autocomprensione. Quanto Paolo scrive a
proposito della propria vocazione in Gal. 1,15 s. è quindi da
interpretare a partire dalla contrapposizione fra il tempo pre-
cedente e quello seguente a Damasco.
Alla formulazione autobiografi.ca di Gal. r, r 5, b àcpopicraç 1J.e: Éx xoL Àiaç
µ "f]'rpoç (J.OU xal xaÀÉcraç ÒLcX Tijç xapi'roç aù-rou corrisponde Is. 49, I tx
xoiÀiaç tJ·"fJ"Poç µou ÉxaÀe:cre: '!Ò ovo1J.a µou. In Zva e:ùayye:Ài'çwµai aÙ'!Òv
18. Per questo motivo è anche secondario dal punto di vista filologico, nonché irrile-
vante sotto l'aspetto teologico, chiarire se a causa dell'ùr.:e'.p in Gal. 1,4, preposizione
assente in ls. 53 LXX (ove troviamo al suo posto nei vv. 5 e 12 Òta, e al v. 6 un sem-
plice dativo), alla base non si debba vedere il testo ebraico o se la formula non sia da
attribuire ai LXX.
19. È controverso se già in epoca neotestamentaria Is. 53 fosse interpretato in senso
messianico; riguardo alla discussione cfr. Haag, op. cit., 34 ss. Se dovesse risultare ef-
fettivamente così, comunque questa comprensione messianica non significa ancora
che la comprensione cristiana del carattere messianico sia congruente.
20. V. soprattutto quanto esposto a proposito di Rom. 3,25.
21. Haag, op. cit., 1 8 5 s.

22. L'exordium di Gal. offre ben poche informazioni sulla questione della ricezione
dell'Antico Testamento da parte di Paolo, e dunque può essere qui trascurato.
Le lettere di Paolo 73
b "to'iç Wvc.cnv di Gal. l,16 è certo lecito vedere un parallelo a Is. 49,2:
xcd Wrixc. "tÒ a"totJ.Ct p.ou wad tJ.axaipav òl;c.'iav. È da osservare in parti-
colare il contesto di 49,1 nel v. 6; con certezza ancora maggiore rispetto
al v. 2 si può supporre che qui Paolo lo avesse bene in mente: lòoiJ "t"É:-80.i-
xa <J'E dç cpci>ç Wvwv "t0 1J dva[ <J'E dç <J'W"tr]pta\I EWç Èa'X,tX"tOU "t'f)ç yYjç.2 3
Paolo dunque articola la sua nuova autocomprensione, ora apostoli-
ca, ricorrendo a parole della Scrittura. Sono parole del grande profeta
Isaia, quelle a cui allude (o addirittura cita?) applicandole a se stesso. Se
questo personaggio, grazie alla sua vocazione, era già luce per i gentili,
tanto più Paolo (a minori ad maius). Il ministero di profeta è sostituito
da quello di apostolo. Paolo è qualcosa più d'Isaia (v. Mt. 12,6.41). E lo
è perché il suo messaggio, il vangelo, annunzia la venuta di Cristo come
salvezza del mondo. Ciò che Isaia aveva predetto come salvezza futura
(Js. 53) Paolo lo annunzia nella promessa apostolica come salvezza av-
venuta, come realtà salvifica.2 4 2 l
23. È vero che nel corpus Paulinum non è citato da nessuna parte Is. 49,6 (a differenza
di Atti 13,47, ove tale versetto è messo sulla bocca di Paolo e Barnaba). A mio avviso,
tuttavia, è alquanto improbabile che Paolo, il quale conosceva particolarmente bene il
libro di Isaia, scrivendo parole tratte da I s. 49, 1 non avesse davanti agli occhi 49,6.
Chi contesta questa circostanza deve supporre che il cap. 49 nel suo complesso non
fosse noto a Paolo. Ma come ritenere probabile una tale ipotesi? dç cpwç iHhwv in Is.
49,6 articola in modo chiaro la coscienza apostolica di Paolo, dç crw't'f)ptav è di stam-
po paolino, i:wç foxchou Tijç y'i)ç corrisponde alla comprensione paolina di missione.
24. Paolo non deve aver visto subito il suo apostolato come superamento della fun-
zione profetica. Non sappiamo nemmeno se già all'epoca della sua chiamata la inten-
desse come chiamata ad essere apostolo dei gentili. Forse non fu che la conseguenza
di una successiva riflessione teologica sull'evento di Damasco (Hiibner, Die Theol.
des Paulus im Lichte seiner Berufung, 28 ss.). Ma qui poco importa il giudizio: dal
punto di vista teologico conta il fatto che Paolo abbia visto la propria vocazione in
continuità con quella del profeta Isaia, considerando dunque quest'ultimo un testi-
mone del vangelo libero dalla legge. Questo però implica, da parte di Paolo, un giudi-
zio teologico in base al quale il vero messaggio della Scrittura non è quello della torà.
Forse qui in un certo senso si anticipa quanto afferma Gal. 3,10 ss., in cui la legge vie-
ne presentata come una mortale parola di condanna, mentre la parola profetica (Ab.
2,4) è quella che rende vivi?
25. Si sta ancora discutendo se Paolo, in Gal. 1,15, alluda anche (o forse soltanto) a
Ger. 1,5: ;rpo "COU IJ.E ;rÀaO'Clt O'E Èv XOtÀt~ È;ttO'"CClJJ.Clt O'E xal ;rpo "COU O'E il;eÀ"9eiv ix
IJ. ~'tpaç Yjylaxa cre, npocp~'t'f)V elç è'.8v1) 'tÉ·.9etxa cre. Si contesta addirittura che Paolo
abbia conosciuto realmente il libro di Geremia (Wolff,]er im Friihjudentum und Ur-
christentum; Holtz, ThLZ 91, 326; Koch, Die Schrift als Zeuge, 45 ss.). Sebbene que-
sta tesi poggi su basi piuttosto fragili (v. a 1 Cor. 1,18 ss.), si dovrà tuttavia convenire
con Traugott Holtz che, per l'autocomprensione di Paolo, è di importanza cruciale la
parte del libro di Isaia denominata Deutero-Isaia (op. cit., J2I ss.). Elezione evoca-
zione in Paolo e Deutero-Isaia sono strettamente correlate (p. 325)· Paolo si sente in-
viato alle nazioni per portare la salvezza; un tale universalismo salvifico nel!' Antico
Testamento è presente solo nell'annuncio del Deutero-Isaia (p. )28). E in questa figu-
74 La teologia di Paolo

Nella narratio Paolo parla anzitutto dcl sinodo della missione (2, I-IO),
in occasione del quale si giunse all'accordo di rinunciare alla circonci-
sione per la missione agli etnicocristiani. Tuttavia sorprende che non si
faccia parola di questa concessione neanche al momento dell'accordo di
Gerusalemme, «noi verso i pagani ed essi verso i giudei» (Gal. 2,9), e
neppure si parli di libertà dalla legge, un principio teologicamente così
fondamentale per Paolo. Tutto fa pensare che Paolo, il pensatore teolo-
gico per principio che valutava tutte le singole questioni relative alla pras-
si missionaria da una prospettiva teologica partendo dal vangelo, abbia
frainteso la concessione ottenuta. Per i gerosolimitani essa implicava il so-
lo esonero dalla circoncisione, mentre Paolo la interpretò come assenso
alla sua convinzione teologica della fondamentale libertà dalla legge mo-
saica, contribuendo così anche lui al tragico equivoco e alla successiva in-
comprensione. 26 Che Paolo di fatto credesse di aver riportato la vittoria
teologica 27 sui suoi avversari, soprattutto sui «falsi fratelli che si erano
intromessi» (Gal. 2,4), è dimostrato dalla strategia dell'argomentazione
in Gal. Scopo della lettera è infatti la dimostrazione teologica della li-
bertà dalla legge, principio irrinunciabile per i cristiani, tanto più che la
legge rappresenta il mondo della schiavitù. L'obiezione che Paolo inten-
da sostenere la libertà dalla legge solo per gli etnicocristiani non si appli-

rava ricercato il modello per la comprensione paolina della sofferenza (p. 329). Certo
(p. 330): «Così appare fondata la supposizione che egli si sia identificato in generale
con il servo di Dio deuteroisaiano, pur applicando Is. 53 esclusivamente al Cristo e in
questo modo separando tale capitolo dalla sua relazione con gli altri canti dcli' ebed di
Jahvé». Anche a detta di Franz Mussner, HThK 82 (tr. it. 153 s.) Paolo intende la pro-
pria coscienza apostolica di vocazione alla luce della coscienza di invio propria dci pro-
feti veterotestamentari, principalmente di Geremia e dcl Deutero-Isaia. Nella sua in-
terpretazione di Gal. 1,15 rimanda espressamente ai LXX, in base a à.qiopl~Etv: Num.
8,11 (Aronne presceglie i leviti per il loro servizio), 15,20 (pane dell'offerta per Jah-
vé), Is. 29,2 (la casa di Giacobbe), Ez. 45,1+9 (la terra per Jahvé e i sacerdoti) (op. cit.,
82 S. (tr. it. I 53 s.]).
26. V. anche Dunn, The lncident at Antioch, 132: «La questione discussa alla confe-
renza di Gerusalemme non fu principalmente quella se Paolo (e Barnaba) fossero apo-
stoli, ma se, in quanto apostoli di Antiochia, dovessero perseverare nella prassi di non
circoncidere le persone che convertivano ... ». Il punto su cui differiscono le opinioni
mia e di Dunn è la visione che degli apostoli di Gerusalemme aveva Paolo. Secondo
Dunn, all'epoca del sinodo della missione Paolo li accettava come autorità da cui di-
pendere, mentre successivamente, in Gal., cercò di dissimulare tale fatto. A mio pare-
re, però, già allora Paolo si sentiva in linea di principio indipendente da Gerusalem-
me. Tuttavia bisogna forse riconoscere con Dunn che i gerosolimitani pretendevano
di essere le autorità in diritto di prendere decisioni anche per la comunità di Antio-
chia. Anche in tal caso Paolo avrebbe comunque frainteso la situazione.
27. Dunn, op. cit., 133: «La vittoria, o piuttosto la concessione ottenuta dalla delega-
zione di Antiochia... ». Dunn prosegue però: « ... non mise in discussione l'autorità
degli apostoli di Gerusalemme nel fare questa concessione».
Le lettere di Paolo 75
ca alla concreta dimostrazione teologica della lettera. Paolo infatti non
afferma affatto che la legge esercita la sua funzione schiavizzante solo
per gli etnicocristi.an~.2 8 Stan.d~ a ~ome ~aolo J?resenta l~ sua. ~rgumen­
tatio da Gal. 3,r, 1 gmdeocnstlam sono 1nclus1 almeno 1mphc1tamente,
talvolta addirittura esplicitamente. La narratio, dunque, servendosi della
narrazione argomentativa introduce l'ordine tematico mirante all'espo-
sizione teologica del!' argumentatio.
La difficoltà oggettiva nell'interpretare la lettera ai Galati consiste prin-
cipalmente nel riuscire a spiegare in che modo Paolo potesse aver inteso
l'accordo di Gerusalemme in modo tale che, se da una parte ci si doveva
aspettare anche in futuro la pratica della circoncisione da parte dei giu-
deocristiani, dall'altra egli vide una vittoria teologica personale nell'as-
senso di Gerusalemme alla sua teologia della libertà di principio dalla leg-
ge. Supporre che solo in un secondo tempo Paolo abbia interpretato il
proprio successo a Gerusalemme come totale e fondamentale libertà dal-
la legge, opponendolo dunque polemicamente e con questo esatto signi-
ficato ai suoi avversari in Galazia, vuol dire tacciarlo di opportunismo o
di smemoratezza nel punto più spinoso.
È dunque evidente che con Gal. 2,1-10 Paolo intende dimostrare nien-
temeno che l'accordo teologico tra lui e i gerosolimitani: quanto dirò nel-
la mia argumentatio è precisa convinzione anche di quelli di Gerusalem-
me. Quando i contromissionari giudaizzanti si richiamano all'autorità
di Gerusalemme vi ingannano. Ed effettivamente questi contromissio-
nari erano in contrasto coi gerosolimitani. Certo anche Paolo lo era, pur
senza averne allora il sospetto e senza riuscire a scorgere la tragica situa-
zione in cui si trovava, e questo perché aveva continuato a riflettere teo-
logicamente proprio dove i suoi ex interlocutori agivano (o forse pro-
cedevano solo strategicamente?) in modo esclusivamente pragmatico. 29
Ilfactum Antiochenum, riferito anch'esso nella narratio, fornisce ul-

28. Riguardo a Hahn, ZNW 67, 5 l ss., dr. Hi.ibner, Das Gesetz bei Paulus (a partire
dalla 2' ed.), l 34 ss. (tr. it. 268 ss.).
29. Hi.ibner, Das Gesetz bei Paulus, 21 ss. 53 ss. (tr. it. 43 ss. 107 ss.) Nello stesso an-
no (1978) è uscito Paul and Power di Bengt Holmberg, che perviene a un risultato
analogo, op. cit., 22 (corsivo mio): «Per i capi di Gerusalemme si trattava di una con-
cessione fatta ad Antiochia e di un riconoscimento che tale chiesa aveva una propria
'sfera di interessi e di mandato'. Si trattava di una concessione ampia, ma non cambia-
va la loro situazione. Paolo, che era un pensatore più accurato e logico, vide che que-
sto accordo avrebbe potuto e dovuto avere conseguenze fondamentali di vasta porta-
ta perfino per gli stessi giudeocristiani, almeno nei loro rapporti con gli etnicocristiani.
Così com'era, tale concessione ebbe conseguenze immense per il futuro (Mussner
chiama tale esito una 'vittoria teologica di Paolo'). Ma neanche Paolo è in grado di ri-
assumere il risultato degli incontri in una frase tipo 'la libertà dalla legge è stata con-
cessa in modo fondamentale e generale'».
La teologia di Paolo

teriori indizi, Gal. 2, l l ss. 30 Le circostanze più precise si possono de-


durre solo in via ipotetica. Ma lo scontro con i seguaci di Giacomo, che
seppero tirare dalla loro parte addirittura Pietro e Barnaba, dimostra chia-
ramente che la questione della comunione dei pasti, e dunque l'intero
complesso della legislazione mosaica riguardante i cibi e la purità, al si-
nodo non era stata teologicamente chiarita. Quando scoppiò lo scanda-
lo di Antiochia probabilmente le due parti misero in campo una versio-
ne diversa dell'accordo di Gerusalemme. La fragilità della formula assai
imprecisa elaborata a Gerusalemme ora non poteva più essere ignorata.
Nonostante lo scontro, però, a quanto pare Paolo non dovette avere
dubbi su come intendere quanto aveva ottenuto al sinodo. In caso con-
trario non avrebbe potuto scrivere Gal. 2,1 l ss. così com'è.
Il forte biasimo con cui rimprovera Pietro davanti a tutti è
collegato in 2, r 6 a un'asserzione teologica ancora una volta di
principio, che in base all'analisi retorica di Gal. costituisce la
propositio: la giustificazione - anche per il giudeo - non si ot-
tiene mediante le opere della legge, ma soltanto per la fede in
Cristo. L'èx 7tta"'t'e:wç prelude all'ot Èx 7ttcr't'e:wç -c1lecomparirà
solo in 3,7. Coloro la cui esistenza è fondata sulla fede, sono
quelli che esistono esclusivamente per la fede.
In Gal. 2,16c'è una concordanza in parte letterale con ~ 142,2: où Òt-
xaiw.S~cre:'t'at Èvwmov crou 7taç ~wv. Tuttavia, in Paolo manca Èvwmov
crou, che figura però successivamente in Rom. 3,20 come Èvwmov m'.i't'ou.
Invece di 7taç ~cliv scrive 7tacra crap~. Ma soprattutto aggiunge i~ E'.pywv
vop.ou. È controverso se l'apostolo intendesse citare ~ 142,2. 3 I Tuttavia,
30. Op. cit., 21 (corsivo mio): «Ma il successivo conflitto ad Antiochia riguardante la
comunione dei pasti tra giudei e pagani ha messo in chiara evidenza che questa con-
cessione aveva subìto un 'ampia reinterpretazione da parte di Paolo, per il quale essa
comportava l'abrogazione della legge». Non posso condividere l'opinione di Gerd Lii-
demann, Paulus I, ror ss., secondo il quale il factum Antiochenum avvenne prima del
sinodo di Gerusalemme; v. la mia recensione su ThLZ ro7 (1982), 741-744.
3 r. F. Sieffert, KEK (71886), 141, lo contesta con il duplice argomento della diversità
dei passi e della mancanza di una formula di citazione; ci sarebbe «soltanto un'invo-
lontaria reminiscenza». A. Oepke: ThHK 9 (•1979), 91, parla della prova scritturistica
che sarebbe ripresa da Sal. 143,2; comunque Paolo aggiungerebbe di suo pugno le pa-
role per lui sostanziali il; epyw'I 'IOIJ.ou; tuttavia «Paolo coglie esattamente il più pro-
fondo senso religioso delle parole del salmo». Il suo successore J. Rohdc: ThHK 9
(1989), 112, invece, riprende quasi alla lettera la concezione di F. Mussner, HThK,
174 s. (tr. it. 283), secondo il quale non ci troveremmo affatto davanti a una citazione
riflessa, bensì a una cosiddetta citazione contestuale, e ciò solo considerando il lessi-
co. Mussner, op. cit., 174 s. (tr. it. 283; corsivo mio): «Appunto l'inserimento, fatto di
propria iniziativa, di il; epyw'I 'IOIJ.ou ... cambia totalmente il senso della 'citazione'>>.
Le lettere di Paolo 77
discutere se si tratti di una citazione inserita volutamente o meno di-
stoglie dal vero problema. Infatti gli autori, se si esclude il parere estre-
mista di Sieffert, sono concordi nel sostenere che formulando Gal. 2,r6
Paolo doveva comunque aver avuto in mente <f r42,2, non importa se le
parole siano state effettivamente pronunciate in occasione del factum An-
tiochenum oppure no. La questione per noi fondamentale è se Paolo, im-
piegando in senso teologico l'espressione del salmo, le renda giustizia.
La sostituzione di mie; ~wv con r.iicra crap~ può essere forse vista in re-
lazione con Gen. 6, q, xa't'acp.Se~pm r.iicrav crapxa: già ali' epoca del dilu-
vio tutta la carne era corrotta, ed è quindi solo in conseguenza di ciò che
«nessuna carne» può essere giudicata giusta in base alle sue opere della
legge. 32 Il fatto che Paolo, diversamente da quanto farà successivamente
in Rom. 3,20, ometta Èvwmov crou è irrilevante se si considera che in Gal.
2,r6, a differenza di <f r42,2, non è Dio ad essere interpellato direttamen-
te. Tuttavia è importante l'aggiunta di È~ è:pywv vorwu. In questo modo
si è avuta una modifica sostanziale nel significato del versetto del salmo?
Per Franz Mussner tale modifica c'è stata, e radicale. Questa «perform-
ance» deriverebbe da una «competenza» teologica diversa da quella del
salmista, ossia dalla competenza cristiana dell'apostolo. Per questo mo-
tivo non punterebbe neanche a motivare la dichiarazione immediatamen-
te precedente servendosi della Scrittura, ma di fatto sarebbe «solamen-
te» una ripetizione mirata a sottolineare ciò che è stato già asserito nella
tesi di base di Gal. r,r6a.H Si può convenire con Mussner che di fatto
l'allusione a <f r42,2 proviene dalla «competenza» teologica del kerygma
cristiano, tuttavia questo non può comportare una totale trasformazio-
ne di senso. Ora, tutto dipende dalla comprensione di Sa!. r43 o <f q2.
Se in altre lamentazioni individuali del salterio l'accusato e il persegui-
tato ribadiscono la propria innocenza e sperano nella giustizia, ~e daqa,
in Sai. r43 l'orante riconosce di non poter sostenere il giudizio di Jah-
vé.34 Nessuno tra i viventi è giusto di fronte a Dio! Dunque l'orante im-
plora la giustizia di Dio. Chi vuole salvarsi nel giudizio di Dio, mispat,
xplcrtç (v. 2), ha bisogno del dono della giustizia di Dio. Hans-Joachim
Secondo H.D. Betz, Herm., 221 s. (corsivo mio), Gal. 2,16d cita ]'«argomento teolo-
gico di base» per rigettare la dottrina delle opere meritorie della legge: «Questa af-
fermazione è costituita da un'interpretazione paolina della Scrittura, Sai. 143,2 (=
142,2 LXX). Essa viene introdotta da una specie di formula di citazione (o'n ... ).
L'affermazione stessa comprende sia una citazione scritturistica, sia l'interpretazione
di Paolo, che compare come parte della citazione facendo diventare il tutto una di-
chiarazione teologica dottrinale». B. Corsani, Gal., 170, in Gal. 2,16d vede «una spe-
cie di prova biblica», ma appunto, come sottolinea egli stesso, solo «una specie»: «So-
no piuttosto un'allusione o una citazione libera».
32. A Gal. 6,13 (!)rimanda ad es. Corsani, Gal., 170.
33· Mussner, HThK, 174 s. (tr, it. 282 ss.); v. anche n. 134.
34· Kraus, BK.AT xv/2, 937.
La teologia di Paolo

Kraus vede qui preannunciarsi la iustificatio impii a motivo del destino


di colpa di tutti gli uomini qui espresso; sostiene che solo nel contesto
di Sa!. 51,6 s. può chiarirsi cosa intenda l'orante di Sai. 143,2. 35
L'antitesi espressa in Gal. 2,16 «per mezzo della fede - non per le
opere della legge» dunque in questo salmo è assente; tuttavia vi è corri-
spondenza tra le strutture antitetiche della dichiarazione, circostanza di
rilevanza teologica considerevole. All'antitesi paolina corrisponde l'an-
titesi di una giustizia carente dell'uomo e di una giustizia di Dio fiducio-
samente implorata. Paolo e l'orante del salmo concordano dunque nel-
l'affermare che l'uomo peccatore ha bisogno della giustizia di Dio se
vuole salvarsi dal suo giudizio. Certo, il salmo non implica la visione mes-
sianica di Paolo, e dunque non ne avalla contenutisticamente la 7ticr'ttç
'I "Y]crou Xptcr'tou, cioè la fede in Gesù come messia. Tuttavia in esso è
espressa la giustizia di Dio come sua azione potente e al tempo stesso
come suo dono, elargito ai peccatori da lui giustificati. I due elementi
della Òtxmocruv"YJ .Swu paolina elaborati da Ernst Kasemann, dono e po-
tenza, sono dunque già abbozzati in~ 142. 36
Ma constatando l'assenza di giustizia in tutti gli !JOmini il
salmista parte dal presupposto che nessuno riesc~are ciò che
Dio pretende dall'uomo. Se si colloca il Sal. 143 nella tarda epo-
ca dell'Antico Testamento, datazione condivisa da gran parte
degli esegeti, 37 ciò implica la trasgressione generale da parte di
tutti contro la torà. Dunque, almeno implicitamente, si affer-
ma che nessuno è mai diventato giusto compiendo le opere
che la legge esige. Se invece, come Henning Graf Reventlow,
si contesta l'origine tardiva di questo pensiero, 38 allora ciò
implica che la mancata menzione delle opere della legge in Sa!.
143,2 è comprensibile per motivi cronologici. Comunque sia,
è convinzione del salmista che nessun uomo è diventato giu-
sto agendo secondo i comandamenti di Dio. Almeno in linea
di principio, dunque, già in Sal. I 43 è espressa l'antitesi paolina
di Gal. 2,16. 39 Sia nella sua versione ebraica sia in quella greca
35. Op. cit. xv/2, 937; xvf3, 196 s.
36. Kasemann, La giustizia di Dio in Paolo.
37. Riguardo a un' «epoca relativamente tarda» Kraus, BK.AT xv/2, 936.
3 8. Graf Reventlow, Rechtfertigtmg, 100.
39. Queste riflessioni dovrebbero dimostrare che non è convincente l'argomentazio-
ne di Liebers, Das Gesetz als Evangelium, 47-49, il quale ritiene che in Gal. 2,16 l'ac-
cento sia posto non su Epyo. ma su v61J.oç, e quindi rigetta l'interpretazione centrata
sulla polemica contro l' «auto-giustizia» o «giustizia delle opere».
Le lettere di Paolo 79
è innegabile che questo salmo non ammette che con le opere
della legge si possa diventare, e di conseguenza essere, giusti.
Dal canto suo Paolo ha inserito questa concezione all'interno
di un orizzonte messianico-soteriologico, precisando in senso
cristologico quanto il salmo afferma.
In questo modo però avviene proprio ciò che Franz Mussner definisce
competenza cristiana dell'apostolo, dalla quale ha origine la «perform-
ance» dell'affermazione paolina di Gal. 2,16. Contrapponendo la com-
petenza teologica dell'apostolo a quella del salmista, con i termini di
«performance» e competenza Mussner ha dato espressione allo slitta-
mento del sistema di coordinate. Tuttavia ciò non spiega del tutto la com-
pleta trasformazione di senso di tJi 142,2. Proprio qui, infatti, emerge in
modo lampante la dialettica di discontinuità e continuità propria della
ricezione dell'Antico Testamento nel Nuovo, in relazione alla differen-
za teologica tra Vetus Testamentum in Novo receptum e Vetus Testamen-
tum per se.
Questo emerge in particolare dal testo greco del salmo. È piuttosto
strano che negli studi si sia dato poco risalto al contesto di tJi 142,2. 40 È
però un dato di fatto evidente - evidente solo se ci si fa caso - che il
campo semantico di Gal. e quello di tJi 142 mostrino coincidenze singo-
lari. In occasione del factum Antiochenum Paolo rinfaccia a Pietro di
non percorrere il retto cammino della verità, à.À~.Sc.ta., del vangelo, Gal.
2,14. In tJi 142,l l'orante supplica Dio perché ascolti la sua preghiera, Èv
"TI à.Àryi9dq, O'OU. In Gal. 2,21 Paolo contesta che la Òtxa.WO'IJ'l'Y] avvenga
per mezzo della legge; in tJi 142, l, in parallelo con la preghiera appena
citata, vi è l'implorazione di ascolto, Èv 't'TI Òtxmocruvri 0'0 J. E in tJi 142,l l
1

leggiamo: Èv "TI ÒtxmoO"U'IYJ O"Ou t!;a!;c.tç Èx iJ.À[tJic.wç -t~v tJiux~v µou. Pao-
lo vive per Dio, l.'va. .Sc.cf> ~~O'W, Gal. 2,19; poiché Cristo vive in lui, egli
vive nella fede nel Figlio di Dio, 2,20. In tJi 142,1 l il salmista riconosce
che il Signore lo farà vivere, ~~O"c.tç µc.. Paolo si sente XptO"-tou òouÀoç,
Gal. l,10, certo nel più ampio contesto di Gal. 2,16. tJi 142 termina con
le parole òouÀoç O"ou dp.i tyw, v. l 2.
40. Uno dei pochissimi autori che vi fece caso fu Anthony T. Hanson, il quale, come
è noto, era tra quanti sostenevano energicamente il metodo che dedicava un'attenzio-
ne maggiore alle citazioni veterotestamentarie; per Gal. 2,16 cfr. Idem, Studies in
Paul's Technique and Theology, 28: «Dunque in Gal. 2,16 Paolo spiega la sua com-
prensione di Sai. 143,2; che l'uomo sia indegno davanti a Dio non è un'affermazione
generale, ma sottolinea specificamente che la legge non può giustificare l'uomo da-
vanti a Dio. Presumibilmente Paolo trovò suggerita questa verità nel salmo stesso. Nei
LXX esso inizia così: Signore, ascolta la mia preghiera, porgi orecchio alla mia suppli-
ca nella tua verità (àì.~·9eta), ascoltami nella tua giustizia (òtxatocrUVl]); e non entrare
in giudizio con il tuo servo. In Gal. 2,14 Paolo preferisce 'la verità del vangelo', e cer-
tamente tutta la sua argomentazione riguarda la natura della giustizia di Dio>>.
80 La teologia di Paolo

I paralleli tra Gal. 2 e y; 142 sono allora significativi e hanno


grande importanza teologica. Certo, nessuno può dimostrare
che scrivendo Gal. o addirittura già in occasione del f actum
Antiochenum Paolo avesse in mente tutto il contesto di y; 142,
2, tuttavia il campo semantico in comune tra i due passi è tal-
mente evidente che nessuno può sostenerne l'irrilevanza teo-
logica. Tanto più che qui abbiamo una citazione, o perlomeno
una consapevole allusione al versetto di un salmo e indiretta-
mente a tutto il salmo, quindi l'allusione a una preghiera. E di
fatto è ben diverso se nel Nuovo Testamento si rimanda a una
preghiera veterotestamentaria oppure a un altro testo dell' An-
tico Testamento. È pur vero che la maggior parte degli autori
neotestamentari ha dimestichezza con il testo di un salmo in
quanto testo di preghiera. Mentre viene pregato, un salmo non
viene spezzettato, non viene preso versetto per versetto, ma
viene recitato per intero. E proprio Paolo, un tempo fariseo ze-
lante e pio, avendo frequentato assiduamente il culto sinago-
gale certamente conosceva a memoria i testi del salterio. Biso-
gna dunque supporre che per lui un versetto richiamasse im-
mediatamente tutto il salmo. In fondo, il familiare testo di pre-
ghiera è la patria religiosa dell'uomo che vive religiosamente.
Così anche Paolo, citando in Gal. 2,16 y; 142,2, potrebbe aver-
vi inserito un pezzetto di se stesso.4' E lo stesso accade nei
versetti successivi di Gal. 2, come evidenzia in particolare l'a-
pice spirituale raggiunto dalla pericope in Gal. 2,20. 42 Dunque
Gal. 2 mostra chiaramente la lettura in chiave cristiana di y;
142 fatta da Paolo. Anche come cristiano dovrebbe aver reci-
tato regolarmente questo salmo. Ed è scontato il tipo di com-
prensione con il quale deve aver pregato locuzioni come Èv "TI
à:À lJ'8d~ crou o Èv "TI orn.cuocruv11 crou. Se poi la preposizione Èv
ha un significato sia causale sia locale, per cui possiamo tra-

4r. Koch, Die Schrift als Zeuge, 18, nega il carattere di citazione di <ji 142,2 in Gal.
2,16, però parla giustamente di «acquisizioni indipendenti ... grazie alle quali ogni pas-
so biblico non solo è diventato un'affermazione prettamente paolina, ma è anche per-
fettamente integrato nel nuovo contesto».
42. Questo è vero anche in considerazione del fatto che noi oggi non possiamo più
parlare di mistica di Paolo.
Le lettere di Paolo 81
durre «Ascolta me, che so di essere entro la sfera di potere del-
la tua verità e giustizia», allora ne consegue che il «Cristo in
me» corrisponde all' «essere nella fede, nell'àmbito della fede
nel Figlio di Dio». Nella argumentatio, infine, l'«essere nella
verità e nella giustizia di Dio» diventa «essere in Cristo Ge-
sù», Gal. 3,26.28.
Ora, poiché con Paolo si è giunti ad esprimere questo esistenziale di
luogo, qui reso P.erfi~o più comi:l~cato dal.la relazion~ reciproca ~<Paolo
in Cristo» - «Cnsto m Paolo», s1 impone il dovere d1 esplicarlo m fun-
zione delle sue strutture di pensiero. L'analisi dell'argumentatio di Gal.
a questo riguardo evidenzierà già aspetti sostanziali. Tuttavia solo par-
tendo da alcuni testi di I Cor. e di Rom. 8 emergerà il pieno significato di
questo esistenziale.
ì, controverso cosa intendesse Paolo con !'.pya vop.ou. James Dunn
rifiuta l'opinione comune per cui si tratterebbe genericamente di tutte le
norme della torà mosaica. Secondo lui, invece, l'apostolo contesterebbe
che la giustificazione dipenda dalla circoncisione o dall'osservanza della
legislazione giudaica sugli alimenti e la purità. In questo senso, con pra-
tica delle opere della legge egli intende «la particolare osservanza della
legge riguardante la circoncisione e i precetti sul cibo». 43 In quanto tali
non dovrebbero tanto meritare il favore di Dio, quanto avere la funzio-
ne di servire come segno distintivo, come badges: «sono semplicemente
ciò che il far parte del popolo dell'alleanza comporta, ciò che contrasse-
gna l'impiego di popolo di Dio». 44 Con questo presupposto si contesta
ora la comprensione usuale di Gal. 2, l 6a tl; !'.pywv vop.ou tà.v p. ~ òtà. TIL(J-
't'e:wç Tricrou Xpwrnu come antitesi. Nella visione del giudeocristianesi-
mo, la fede nel messia Gesù sarebbe una qualifica della giustificazione
mediante le opere della legge: «Dalla prospettiva del cristianesimo giu-
daico di quel tempo, il significato più ovvio è che l'unica limitazione alle
opere della legge è costituita dalla fede in Gesù come messia». 45 Così fa-
cendo interpreta con Ed P. Sanders il giudaismo come «nomismo del-
l'alleanza», 4 6 concezione che sarebbe stata condivisa anche dal punto di
vista giudeocristiano. Tuttavia, in Gal. 2,16 si avrebbe secondo Dunn un
capovolgimento, dalla originaria giustapposizione tra «per le opere della
legge» e «mediante la fede» alla brusca antitesi, da lui definita «logica
della giustificazione mediante la fede»: «... al v. l 6 Paolo fa diventare una
diretta antitesi ciò che era cominciato come qualificazione del nomismo
d.ell'alleanza». 47 Come fa notare Dunn, in Gal. 2,16 abbiamo dunque il
smgolare privilegio di assistere ad uno sviluppo assolutamente decisivo
43· Dunn, The New Perspective on Paul, 191; nel testo originario Dunn sottolineava
queste parole con il corsivo. 44. Op. cit., 194. 4 5. Op. cit., 19 5.
46. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese. 47. Dunn, op. cit., 196.
La teologia di Paolo

nei primi anni di storia del cristianesimo, sviluppo che si svolgerebbe


addirittura davanti ai nostri occhi. Sarebbe «il passaggio da un'auto-
comprensione fondamentalmente giudaica del significato di Cristo a
una comprensione caratteristicamente diversa». 48 La successiva presen-
tazione della teologia di Gal. mostrerà se l'ipotesi di Dunn sia plausibile
o meno.
La discussione teologica vera e propria è proposta dalla argumenta-
tio. Questa consiste in passi argomentativi progressivi, che però non
vanno considerati come unità indipendenti le une dalle altre. Esse for-
mano piuttosto una sequenza articolata di singoli argomenti legati l'uno
ali' altro. 49
Per Betz il primo è Gal. 3,1-5; si tratta di «un argomento di
evidenza incontestabile», questo partendo dall'esperienza dei
destinatari. 50 Ma ancora non si tratta di un argomento teologi-
co vero e proprio. Tuttavia può essere teologicamente inter-
pretato, anche con riguardo all'Antico Testamento., Infatti,
quando qui si parla di Spirito ricevuto grazie a un as4olto di
fede, È~ àxo-Yjc; Tiicr-re:wc;, 3,2, ad affacciarsi è un pensieto vete-
rotestamentario talmente centrale che la sua portata teologica
è stata fin troppo spesso trascurata per la sua ovvietà. Si tratta
di un dato di fatto teologico-trascendentale evidenziato nei
prolegomeni: l'ascolto, costitutivo dell'esserci dell'uomo, è il
presupposto esistenziale perché la parola - qui Tiicr-rlc; come
parola di fede - faccia parte del dono salvifico principale; la
salvezza si verifica nell'arco tracciato dalla parola di Dio pro-
nunciata ed ascoltata. È proprio questo l'orizzonte teologico-
trascendentale all'interno del quale si sviluppa il pensiero teo-
logico anche e soprattutto di Paolo.
L'argomentazione teologica vera e propria ha però inizio
solamente con la citazione di Gen. 15,6 in Gal. 3,6. 51 Il xa-8wc;

48. Op. cit., 198. Particolareggiate prese di posizione critiche rispetto a Dunn: Hiib-
ncr, Was heisst bei Paulus « Werke des Gesetzes»?. Qui Dunn è citato secondo BJRL
65, 95-122 (prima edizione).
49. Questa circostanza è stata presa troppo poco in considerazione da Bctz nel suo
commento. 50. Betz, Herm., 61 s.
5 1. A differenza di Nestle-Aland, ove tra Gal. 3,5 e Gal. 3,6 viene vista una cesura
(nella 26' ed. sottolineata in modo ancora più accentuato rispetto a edizioni prece-
denti), in The Greek New Testament il v. 6 è visto come conclusione dell'unità 3,1-6.
F.F. Bruce, NIC, 153, nel v. 6 scorge sia la conclusione di 3,1-6 sia l'inizio di una
Le lettere di Paolo

ha la forza argomentativa di un xa-8wc; yÉypa7t-rat. 52 Il primo


elemento dimostrativo dell' argumentatio vera e propria è
dunque una citazione scritturistica presentata con autorità. 13
Apparentemente i contromissionari giudaizzanti argomenta-
vano ricorrendo a Gen. 17: sta scritto che Dio impose l'obbli-
go-o~a-8~K"YJ 54 della circoncisione ad Abramo come padre di
molti popoli - dunque anche dei galati. 55 È difficile pensare
che i giudaisti all'opera in Galazia non abbiano utilizzato que-
sta affermazione di Gen. per i loro scopi agitatori. 56 Dunque
anche Paolo si richiama a ciò che afferma la Scrittura a propo-
sito di Abramo, e cioè all'affermazione di Gen. r 5,6 che ben si
adatta alla sua concezione. 57 All'obbligo della circoncisione e
quindi all'obbligo di osservare l'intera legge (Gal. 5,3) con-
trappone la citazione che esprime la promessa. Gen. I 5 contro
Gen. 17 - questo rispecchia l'opposizione, tematizzata in Gal.
nuova pericope; tuttavia, sotto il titolo «The primacy of faith over law» interpreta la
pericope 3,1-6 come unità, op. cit., 147-153. Ma in base alla struttura argomentativa
che presenta, 3,6-9 dovrebbe evidenziarsi con tanta chiarezza come unità, che il v. 6
va di necessità unito a 3,6-9. È evidente che per via dell'ibdcr-rEucrE'J del v. 6 si ha l'u-
nione contenutistica con l'elemento di alternativa ì:x ;;{crnwç di 3,1-5. Ma con l'argo-
mentazione teologica che ha inizio al v. 6 l'accenno all'esperienza dei galati deve rice-
vere fondamento teologico. 52. Così, ad es., Betz, Herm., 256.
53. Secondo Rohde, ThHK, 136, «la citazione conclusiva impiegata da Paolo, tratta
da Gen. 15,6 LXX, ... non è caratterizzata come tale», quindi egli non baserebbe la
propria dimostrazione «sul testo di una citazione della Scrittura, bensì sul contenuto
della storia di Abramo». Una tale differenziazione può aiutare a cogliere meglio la
struttura del pensiero paolino. È il caso, ad es., di Rom. 9,6 ss., v. sotto; dr. anche Hiib-
ner, Gottes Ich, 23 s. Per Gal. 3,6, però, questa distinzione non calza. Naturalmente
Paolo si richiama all'evento di Gen. 15, ma Gal. 3,8 mostra quanto a Paolo stia a cuore
anche l'essere-scritto. C'è da supporre che nel quadro dell'argomentazione teologica
di Gal. Paolo non avesse in mente la distinzione caratteristica di Rom. 9.
54. V. voi. r, cap. 2.

55. In Gen. 17,4 non si parla solo della diatheke di Dio; è scritto anche: xaì fon ;;a-
"~P T>À~·.9ouç Ww)J'J. In Gen. 17,10 ss., però, con le parole introduttive «questa è la
mia diatheke» ad ogni neonato maschio viene imposta la circoncisione ali' ottavo gior-
no di vita.
56. V. Hiibner, Das Gesetz bei Paulus, 17, e la bibliografia citata, op. cit., 17 n. 2 (tr.
it. 33 ss. e 33 n. 2).
57· Il testo dei LXX di Gen. 15 ,6 viene ripreso da Paolo con lievi modifiche. Invece di
l<aÌ ì:r.lcr-rwcrEv 'A~pa[J. Paolo scrive 'A~paà[J. bdcr-rEucrEv. È ingiustificato considerare
'A~paaµ come non facente parte della citazione, ad es. in Nestle-Aland - anche nella
26• ed. - e in parecchi commentatori. Bene, ad es., E. de Witt Burton, ICC, 153 s.
La teologia di Paolo

3,1 5 ss., tra promessa/diatheke e legge, È1ta"("(EÀia/òia.f).~xYJ e


v6µ.oç. All'Abramo della diatheke della circoncisione viene con-
trapposto l'Abramo della diatheke della fede e della promessa.
Il contesto teologico-trascendentale del Dio che parla e dell'uo-
mo che ascolta viene dunque esplicato come relazione tra il Dio
che promette e l'uomo che crede. È molto significativo che l'a-
postolo inizi la sua argomentazione teologica con questo to-
pos teologico centrale. Al principio della sua argomentazione
si trova dunque l'enunciato decisivo «su» 58 quel Dio che si è
rivelato ad Abramo.59 All'inizio dell'argomentazione teologi-
ca di Paolo c'è la rivelazione. Di conseguenza la teologia di
Gal. è per sua natura una teologia della rivelazione. Il v. 7 è la
conseguenza teologica tratta da Gen. r 5,6: sono figli di Abra-
mo soltanto quelli che esistono «dalla» fede, la cui esistenza
perciò è interamente fondata sulla fede. Il peso teologico prin-
cipale cade dunque sull'Èx in ol Èx Tiicr't"ewç, che spiega prove-
nienza e origine dell'esistenza del cristiano. L'èx 7ticr,;'Jwç però
rimanda, se la fede viene intesa come disponibilità ficluciosa a
lasciare che Dio agisca in noi - ed è la comprensione che ci vie-
ne anche dalla tradizione veterotestamentaria - all'agire salvi-
fico di Dio sull'uomo. In tal modo l'èx 7ticr't"ewç ricava il pro-
prio significato originario da un quasi sinonimo Èx 't"ou .f).r:;ou,
che però in fondo lo supera di molto. L'origine dell'esistenza
cristiana, che è la 7ticr't"tç, in fin dei conti è Dio stesso. Come mo-
stra l'imperativo rivwcrxe't"e, Paolo coinvolge anche i galati nel-
la propria argomentazione teologica. 60 Se prima, in Gal. 3,r-5,
si era appellato alla loro esperienza, ora si rivolge alla loro ca-
pacità - teologica - di giudizio.
È stato Joachim Rohde a richiamare l'attenzione sul contesto di Gen.
I 5,6. 61 In Gen. I 5,5 Dio promette ad Abramo una discendenza nume-

58. La preposizione «su» è tra virgolette per evitare anche solo di far sembrare che
Dio sia considerato oggetto.
59. Se si considera attentamente il contesto di Gen. I 5,6 si dovrebbe prestare atten-
zione anche alla terminologia relativa alla rivelazione, Gen. I 5, I: ÈyEv~·.9'1] irii1J.a xu-
ptou 7tpoç 'A~pà1J. iv opa1J.a't'~ ì.Éywv.
60. y~ vùicr><E't'E potrebbe essere inteso con la maggioranza degli esegeti non come un
indicativo, ma come un imperativo. 6r. Rohde, ThHK, 136.
Le lettere di Paolo
rosissima. E l'argomentazione paolina riguarda proprio questa discen-
denza. Infatti, in Gen. r 5, 5 la figliolanza abramitica viene promessa an-
che ai galati. Quindi dove si parla della giustizia per fede di Abramo si
parla anche della figliolanza abramitica dei galati. Ma allora l'obbligo
della circoncisione imposto dai giudaisti - che poi comporta non solo la
totale obbedienza alla torà (Gal. 5,3) ma anche l'inserimento dei galati,
un tempo pagani, nel complesso del popolo giudaico, dunque il passag-
gio alla condizione di proseliti - è una pista teologica falsa perché, come
sta per illustrare Paolo, porta alla schiavitù della torà, cd è anche un vi-
colo cieco perché significa minimizzare la volontà di Dio. Eppure Dio
intende estendere la sua salvezza oltre i confini del popolo giudaico.
Paolo non esprime proprio così quest'ultimo concetto, che però è chia-
ramente implicito. Chi dunque vuole limitare la sfera della realtà sal-
vifica operata in Cristo all'Israele come nazione (inclusi i suoi proseliti)
si oppone alla volontà universale di Dio, conferendo alla categoria di na-
zione una dignità teologica che da dopo Cristo non le compete più. Per
dirla in termini moderni, il cristianesimo o è religione universale o non è
cristianesimo. Nel quadro dell'argomentazione paolina - e fino alla con-
clusione della lettera, dove il «Dio di Israele» (Gal. 6,r6) non è affatto
inteso in senso nazionale - dopo la «venuta della fede» (Gal. 3,23) non
vi è più spazio per una priorità salvifica del popolo Israele.

La conseguenza teologica di Gal. 3,7 tratta da Gen. r 5,6


viene motivata e precisata al v. 8 con un'ulteriore citazione dal
libro della Genesi. È la Scrittura stessa che, quasi ipostatizzata,
prevedendo che Dio avrebbe giustificato i pagani «per fede»,
preannunziò ad Abramo il vangelo, 7tpOEU"'fJ)')'E:À(cra'to, ossia
l'opera salvifica di Dio: «in te» Dio benedirà tutti i popoli pa-
gani (passivum divinum Ève:uÀoy"'f)-8~cronai). 62 E come al v. 7
Paolo traeva le conseguenze da Gen. r 5,6, così ora, al v. 9,
dalla citazione del v. 8 trae la conclusione che quelli che esi-
stono dalla fede vengono quindi benedetti insieme ad Abramo
che credette. L'èv ero~ del v. 8 viene interpretato come crùv 'tcfl
mcr'tcf> 'A~pai:xµ. 63 Se dunque Abramo è il prototipo della fede,
62. Questa citazione mette insieme alcuni passi di Gen. quasi identici nel contenuto:
Gen. 12,3: xal ÈveuÀoyTj·9~crov'\"at Èv eroi r.iicrat a( 9uÀal •iJç yiJç. Gen. 18,18: xal Èv-
euÀoyT}..9~cronm Èv aù•0 mina •à E..9vT} •iJç yiJç. Gen. 22,18: xal ÈveuÀoyT}..9~cronat
Èv •0 cr7tÉpp.a•t crou mina •à WvT} •iJç yiJç.
63. È sbagliata la concezione di Rohde, ThHK, 139, secondo il quale la benedizione
espressa in Gal. 3,8 s. non sarebbe la giustificazione; sarebbero benedetti solo quelli
che sono giusti davanti a Dio. In 3,8, infatti, non è espressa alcuna distinzione tra Òt-
Xatot o ..9e6ç e il passivum divinum ÈveuÀoyT}·9~cronat. Con Betz, Gal., 26 1, ci sareb-
86 La teologia di Paolo

e se inoltre la salvezza universale, quindi anche quella dei ga-


lati, è legata a questa figura di credente, allora è evidente che la
salvezza dipende dalla fede e soltanto dalla fede, a patto che la
salvezza - e qui Paolo concorda con gli avversari giudaisti -
presupponga la figliolanza abramitica. Una cosa è chiara: ciò
che nell'Antico Testamento è detto di Abramo e ciò che Paolo
ha da dire sul tema della giustificazione viene espresso in lar-
ghissima misura con la medesima terminologia teologica: 7tlcr-
-ric;, mcr-re:ue:iv, òixaiouv, (Èv )e:uÀoye:Icr.Sai, (7tpo )e:uayye:Àlt:e:cr.Sai.
Certo, quanto esposto sinora a proposito di Gal. 3,6-9 presenta una lie-
ve contraddizione. Come si accorda la fede giustificante di Abramo con
la venuta della fede di cui si parla nella argumentatio di Gal., che avver-
rà solo in epoca messianica, Gal. 3,2 3? Come si pone Paolo il problema
dcl tempo, quando addirittura anticipa la fede nella storia della vita di
Abramo? Possiede forse un proprio concetto di tempo, gra,zie al quale è
in grado di far coincidere ingegnosamente presente e passato? Oppure
qui siamo semplicemente di fronte a una negligenza logica? O ancora,
Paolo intende forse affermare che il presente di salvezza si irradia in un
certo modo sul passato, cosicché il passato di Abramo sperimenta la
propria realtà di salvezza dal presente di Cristo? D'altra parte la figura
salvifica di Abramo non è forse costitutiva per il presente, e la figliolan-
za abramitica non è persino conditio sine qua non per la salvezza in
Cristo? E ancora: la figliolanza abramitica non è addirittura equivalente
a salvezza? Paolo infatti prosegue nella dimostrazione iniziata in 3,6 con
una serie di singoli elementi di prova e con una digressione sulla legge
(3,19 ss.), sino a giungere alla dichiarazione di intenti di Gal. 3,28 s.: se
siete tutti uno in Cristo, e dunque appartenete a Cristo come al discen-
dente di Abramo tout court, allora siete proprio discendenti di Abramo,
siete proprio credi secondo la promessa. La figliolanza abramitica sem-
bra dunque essere effettivamente irrinunciabile per la teologia paolina.

Essendo essenziale per coloro che credono in Cristo la fi-


gliolanza abramitica espressa nell'Antico Testamento, allora
l'autorità della Scrittura veterotestamentaria è incontestabile,
come Paolo sottolinea in modo assai caratteristico. Infatti, ci-
tando la Scrittura attribuisce ad Abramo le parole che secondo
Gen. gli rivolge Jahvé stesso. Dunque l'autorità della Scrittura
be da chiedersi se Paolo al v. 9 non dica EÙÌ,oyolincu invece di ÒtlCcuoli~'tcu perché im-
piega tale espressione per la dimostrazione scritturistica successiva (v. ro). Ma forse
l'eùÀoyolino:t del v. 9 si spiega nel modo più naturale col fatto che Paolo riprende sem-
plicemente il verbo della citazione che per lui è sinonimo di ÒtlCo:tolicn9o:t.
Le lettere di Paolo

coincide con l'autorità di Dio. La Scrittura è per così dire la


bocca di Dio. Ma ciò che essa annunzia ad Abramo è il vange-
lo, definito subito dopo come promessa, È::rta·ryeÀ[a. Con una
formula brevissima, secondo Gal. 3,6-9 la Scrittura è il vange-
lo. Il vangelo di Dio, che al tempo di Paolo era annunziato o-
ralmente, è dunque per lui identico alla Scrittura dell'Antico
Testamento, che a quel tempo per la chiesa nascente era la
Scrittura tout court. Quando in Gal. Paolo inserisce nell'argo-
mentazione teologica la Scrittura expressis verbis, allora essa
perlopiù non è legge ma vangelo. In questa sua funzione di
promessa e vangelo essa si contrappone alla legge mosaica, vi-
sto che, come evidenzierà Gal. 3,15-18, Paolo ritiene che pro-
messa e legge siano due entità antitetiche. Ci troviamo così di
fronte al paradosso per cui la Scrittura non è legge, benché con-
tenga la legge. Essendo per sua intima natura vangelo, la topi-
ca ampiamente diffusa secondo la quale l'Antico Testamento è
legge e il Nuovo Testamento è vangelo, almeno in Gal. non ha
alcun sostegno, ed è inconciliabile con l'impostazione teologi-
ca di questa epistola.
In Gal. 3,6-9, comunque, dell'antitesi menzionata in 3,1-5 è:ç Epywv v6-
µou - è:ç àxoijç Titcr-re:wç è spiegato solamente il secondo elemento, ossia
quello positivo. La legge come elemento negativo verrà trattata temati-
camente solo nel successivo elemento dimostrativo, Gal. 3,10-14. Rien-
tra dunque nella strategia argomentativa di Paolo presentare, per svelare
la falsa pista della legge, innanzitutto la sostanza dell'esistenza cristiana
come esistenza di fede. La sequenza «fede - legge» in 3,6-14 mostra pe-
rò anche che a questo riguardo si tratta di un procedimento dimostrati-
vo omogeneo e indubbiamente binario, in cui nel primo membro si ha il
fondamento dcl secondo. 64

L'affinità dei due passaggi argomentativi emerge innanzi-


tutto nel contrasto tra o[ Èx 7ttO''rEWç in 3,9 e OO'ot È!; Ep"'(WV VO-
!J.OU in 3,10. In un'antitesi contraddittoria Paolo oppone due
tipi di esistenza. Parallela a questa vi è anche una seconda op-
posizione contraddittoria: benedizione e maledizione. Esserci
dalla fede, essere radicati nella fede, significa benedizione. Ma

64. Betz, Herm., 62. 250 ss., individua in Gal. 3,6-14 il secondo argomento per la ar-
gumentatio, e precisamente «Un argomento tratto dalla Scrittura».
88 La teologia di Paolo

esserci per le opere della legge significa maledizione, esistenza


sotto la maledizione, U7tÒ xa't"apav dvat. Questa opposizione
- ecco di nuovo il principio del tertium non datur - mostra
ancora una volta quanto Paolo nel suo pensiero teologico sia
condizionato dalle categorie veterotestamentarie fondamenta-
li. Difatti, benedizione e maledizione sono le due principali
modalità di esistenza dell'Antico Testamento. Certo, il modo
in cui Paolo ne fa uso mostra al tempo stesso il radicale capo-
volgimento della convinzione di fondo veterotestamentaria. 65
In Gal. 3,10 Paolo cita Deut. 27,26 LXX, anche se vi mescola parole
tratte da Deut. 28,58 e 30,ro. La variazione di questo versetto rispetto al
testo originale ebraico fornisce il significato richiesto dall'argomenta-
zione teologica di Gal. 3, grazie all'inserimento di miç e micrtv: è male-
detto chiunque non si attenga a tutto ciò che sta scritto nel libro della
legge per metterla in pratica. Bisogna completare con: .tutti sono male-
detti, poiché de facto nessuno compie tutto ciò cbe~là legge impone di
fare. 66 Gal. 3, I I rinnova le motivazioni per cui sono maledetti tutti quel-
li la cui esistenza poggia sul compimento delle opere della legge, stavolta
con la citazione di un profeta (Ab. 2,4): è evidente (5YjÀov) che mediante

65. In Gal. 3,10 Paolo ha modificato il suo modo di argomentare. Se in 3,6-9 aveva
tratto per due volte la conseguenza teologica dalle citazioni veterotestamentarie ad-
dotte in precedenza, ora presenta prima la tesi, e solo poi la prova scritturistica, in-
trodotta con la formula quotationis yéypa;;-rai yap. Ciononostante però, nulla risulta
modificato rispetto a 3,6-9, tanto più che anche adesso un'affermazione veterotesta-
mentaria è il motivo per il giudizio teologico.
66. La maggior parte degli esegeti esagera interpretando: perché nessuno riesce a
compiere ciò che la legge impone. Paolo tuttavia si limita a constatare il non adem-
pimento. O almeno, non fornisce qui una spiegazione di questo dato di fatto. Si po-
trebbe forse valutare se dall'intero complesso di Gal. non si debba dedurre una simile
possibilità interpretativa. Contro l'interpretazione qui sostenuta cfr. in particolare H.
Schlier, KEK vn, lJ2 s. (tr. it. 137 s.): il peso maggiore della citazione poggia sul
r.;oiijcrat; così negli intenti di Paolo il passo scritturistico non deve fornire il motivo
per cui la maledizione è su coloro che vivono delle opere della legge, ma deve solo ri-
badire che gli uomini della legge sono sotto la maledizione. Ma la citazione è così
palesemente segnata dal duplice miç, che il significato più ovvio è un ulteriore ter-
tium non datur: o un'obbedienza incompleta della torà, e dunque maledizione, op-
pure - e purtroppo non è questo il caso - un'obbedienza totale, e quindi benedizio-
ne. Ed P. Sanders, Paul, the law, and the jewish People, 26 (tr. it. 61 s.), misconosce
affatto il significato argomentativo di questa citazione quando ritiene che Paolo l'ab-
bia addotta solamente perché Deut. 27,26 è l'unico passo nei LXX in cui v61~oç è col-
legato a «maledizione». «Propongo, dunque, che il punto di forza di Gal. 3,10 si fon-
di sui termini v61~oç e 'maledetto', piuttosto che sulla parola 'tutti', che pure vi s'in-
contra» (21; tr. it. 49 s.). Contrario anche Raisanen, Paul and the Law, 95 n. 13.
Le lettere di Paolo 89
la legge (èv \IO[J-qJ) 67 nessuno viene giustificato davanti a Dio; infatti «il
giusto per fede vivrà». 68 o"tL è qui sinonimo di xa-&wç yÉypa7t"taL. 69
Il richiamo alla Scrittura avviene comunque in un modo che non ren-
de giustizia al senso letterale di Ab. 2,4 T.M.: we~addìq be'emunato jib-
jeh, il ~iust?. vi:'rà J?e.r la su~ fedeltà. C:?n questo si in~ende che il mol~i­
plicars1 dell mgmst1z1a, motivo per cm 11 profeta sta discutendo con Dio
(Ab. 1,2 ss.), non continuerà per sempre. Il giusto, ossia l'onesto, il pro-
bo, sopravviverà, e questo grazie alla sua fedeltà. 70 È errata la conseguen-
za che Wilhelm Rudolph ne trae, e cioè che l'utilizzo di Ab. 2,4b da par-
te di Paolo in Rom. 1,17 e Gal. 3,1 l sarebbe «non un capovolgimento
ma solo (!) un approfondimento». 71 Infatti, mentre Rudolph intende il
giusto di Ab. 2,4 come persona che si distingue per iustitia civilis, Paolo
ne ha un'altra concezione. Con Rudolph si può sicuramente osservare
che il testo del T.M. è più vicino alla citazione paolina di quello dei LXX,
per il quale il giusto vive per la fedeltà di Dio: o ÒÈ òixawç Èx 7ttcr"tewç
fJ-OU ~~cre"tm. Ma la 'emuna del giusto menzionata nel T.M. ha assai po-
co in comune con la 7ttcr"tLç della citazione paolina di Abacuc.
Il senso letterale di Ab. 2,4 in Gal. 3,1 I si distingue dunque
sostanzialmente da quello del T.M. e dei LXX. Ciò ha un peso
incisivo, tanto più che Paolo con questa citazione profetica pro-
duce per la sua argomentazione una sentenza che è d'impor-
tanza ancora maggiore rispetto all'affermazione del v. ro. Per
principio infatti si stabilisce che la fede è l'unica forma possibi-
le di esistenza di chi è giusto davanti a Dio. Ma allora, in base
alla versione paolina di Ab. 2,4 non sussiste più l'alternativa,
non effettiva ma certo in linea di principio ancora possibile,
offerta dalla citazione di Deut. 27,26. Le due citazioni in Gal.
3,10 s. dunque presentano dichiarazioni su piani differenti.
67. Forse traducibile anche con «nell'ambito della legge». Tuttavia il senso è analogo
a quello dalla traduzione citata per prima, dal momento che la sfera della legge è l'am-
bito in cui essa è efficace, e dunque è corretto interpretare anche «mediante la legge».
68. La traduzione «il giusto vivrà per fede», che si incontra talvolta, contraddice la se-
quenza dell'argomentazione di Gal. 3. Così, ad es., Rohde, ThHK, 127; bene Betz,
Gal, 250.

69. Di parere diverso Rohde, ThHK, 142: Paolo non designa la citazione di Abacuc
come parola della Scrittura. «Egli dunque non si richiama al fatto che i galati debbano
riconoscere il carattere vincolante di questa parola perché si trova nella Scrittura, ma
presuppone che ne ammettano senz'altro la verità».
70. W. Rudolph, KAT xm/2, 216; A. Deissler, Zwolf Propheten u/m, Leipzig 1990,
94: il giusto erediterà la vita grazie alla sua 'emuna, cioè il suo mantenersi fedele a
Jahvé e al suo insegnamento. 71. Rudolph, KAT, 216.
La teologia di Paolo

Deut. 27,26 è inteso solo in senso «teoretico»: se gli uomini


avessero messo in pratica una totale obbedienza alla torà, ma
non è questo il caso, allora per loro la maledizione non sareb-
be divenuta una realtà. Ma poiché tutti sono sotto questa ma-
ledizione, non resta che l'unica strada possibile proposta da
Ab. 2,4. Qui la 7tic:r't~ç è intesa nel senso di Gen. I 5,6, ossia co-
me fede grazie alla quale Dio accredita al peccatore la sua giu-
stizia divina. Ab. 2,4 può dunque essere coerentemente ritenu-
ta una massima valevole in linea di principio soltanto se di fat-
to tutti gli uomini sono peccatori. Ma poiché non sussiste più
l'alternativa implicita in Deut. 27,26, adesso ha valore solamen-
te Ab. 2,4.
Ma se lo ~~cre:-raL di Ab. 2,4 fondamentalmente va bene solo per colui
che è diventato giusto per fede, come può Paolo al v. l 2 con la citazione
di Lev. l 8, 5 ripetere ancora una volta ~ ~cre:>raL, e proprio riguardo al
compiere quanto ordina la legge: b TIOL~craç aù-rà ~~cre:'!m Èv aù-ro"iç? Ma
poiché questa citazione è preceduta dall'introduzione tematica del v.
12a, la soluzione risulta dall'argomentazione di Gal. 3,10-12: la legge
non è Èx. 7ttcr-re:wç. Poiché, come si è visto, Èx. 7ttcr-re:wç è un enunciato
esistenziale, b vo11-oç è la forma abbreviata di -rò Èx. -rou vo11-ou dvaL: chi
esiste dalla legge, non esiste dalla fede; per colui che adempie totalmente
la legge, ma non per chi ha fede, resta vero che vivrà chi compie quanto
la legge ordina.7 2 Ma se parafrasiamo in questo modo il v. l 2, viene a man-
care la presunta contraddizione tra i due ~ ~cre:'tm. 73

Excursus.
L'ermeneutica della teologia paolina
Essendo Gal. 3,13 continuazione immediata dell'argomentazione di
3,6-12, è meglio tornare a dare uno sguardo a questa pericope. Essa rive-
la una tematica coerente, che col v. 13 non viene abbandonata ma piut-
tosto ampliata. Si è ripetutamente evidenziato che il pensiero teologico
di Paolo parte dall'esistenza del peccatore e del giustificato. Certo, ha
trattato anche il tema dell'agire di Dio, ma il tema che finora lo ha ve-
ramente impegnato è stata la riflessione teologica sull'esserci umano. Il
motivo per cui l'uomo è soggetto alla maledizione, il motivo per cui
esiste come giusto: ecco gli elementi con cui Paolo al v. 6 dà inizio alla sua

72. Analogamente Ebeling, Die Wahrheit des Evangeliums, 241 ss.


73. V. anche Hiibner, Das Gesetz bei Paulus, 19 s. (tr. it. 37 ss.).
Le lettere di Paolo
argomentazione teologica. Il soggetto menzionato per primo è un uo-
mo, Abramo. Ed è nominato come rappresentante di quegli uomini che
esistono «dalla» fede. Di Dio Paolo parla perché intende illustrare cosa è
/'uomo davanti a Dio. Di Dio Paolo parla perché gli preme chiarire la
relazione «Dio - uomo» e «uomo - Dio». E della legge Paolo parla per-
ché intende spiegare il fallimento dell'uomo davanti a Dio.
Qui Paolo compie allora quella che con un'espressione tanto discus-
sa può essere appropriatamente definita «interpretazione esistenziale».
Quest'espressione, introdotta nella discussione teologica da Rudolf Bult-
mann, si è screditata agli occhi di molti perché considerata una resa di
quello c.he è i~ carattere pr~prio della t~ologi~ alla ~loso~a dell'esistenza
di Martm He1degger. Ma 1mterpretaz1one es1stenz1ale, m quanto meto-
do che si prefigge di interrogare un testo partendo dalla comprensione
di esistenza che ne è alla base, non presuppone necessariamente la filo-
sofia di Heidegger. Questi, infatti, con interpretazione esistenziale in-
tendeva l'analisi ontologica fondamentale delle strutture dell'essere nel-
l'esserci umano. Se dunque il filosofo di Friburgo mirava all'individua-
zione di contenuti ontologici, il teologo di Marburgo non puntava tanto
a questo quanto al chiarimento della situazione concreta, dunque anti-
ca, di ogni singolo autore biblico. Mentre il filosofo in quanto fenome-
nologo intendeva mostrare la struttura ontologica formale dell'esserci
umano tout court, il teologo si chiedeva come il singolo autore biblico
si comprendesse nel suo esserci davanti a Dio, creatore e redentore. Co-
sì, mentre Heidegger interpretava l'esistenza umana come esistenza fon-
damentalmente storica, condizionata dall'esistenziale della storicità, Bu!t-
mann ricercava la storicità concreta e dunque differente di ogni singolo
autore biblico da lui preso in esame. Se anche per la sua ricerca storica e
teologica ha utilizzato un concetto della filosofia dell'esistenza di Hei-
degger, tuttavia la questione filosofico-fenomenologica in quanto tale è
di importanza piuttosto secondaria per la sua interpretazione del Nuo-
vo Testamento. Per un giudizio sulla teologia di Bultmann è forse di
maggior rilievo il fatto che il concetto di storicità, così come da lui im-
piegato, fondamentalmente era già stato utilizzato prima di Heidegger
nel senso indicato da Bultmann (v. la corrispondenza tra Wilhelm Dil-
they e il conte Paul Yorck von Wartenburg). 74 È inoltre poco noto che
lo stesso Bultmann, prima di entrare in contatto con la filosofia di Hei-
degger, aveva già ripreso il concetto di storicità nel senso inteso da Dil-
they.75
74· Cfr. Heidegger, Essere e tempo, § 77; v. anche von Rcnthe-Fink, Geschichtlich-
keit, in HWP m, 406.
75 · Hiibner, Was ist existentiale lnterpretation?, spec. 19 ss.; v. il recentissimo Sinn,
Christologie und Existenz, 142, che cita una lettera di Bu!tmann a F.W. Sticht nella
quale afferma: «La filosofia di W. Di!they mi interessava già prima di incontrare Hei-
degger».
92 La teologia di Paolo

Per noi è di grande importanza chiarire in base a Gal. 3,6-


12 che già Paolo in quanto teologo interpreta in modo esisten-
ziale. Ma la sua maniera di praticare l'interpretazione esisten-
ziale si differenzia da quella di Bultmann perché non interroga
principalmente come esegeta dei testi scritturistici dati in base
alla comprensione di esistenza degli autori biblici, bensì l'esi-
stenza del singolo uomo in base alla sua origine teologicamen-
te rilevante. Concretamente questo significa: o in base al suo
essere È~ epywv v6µou, o in base al suo essere Èx 7tLcr'te:wç. Ma
poiché nel corso di questo procedimento interpreta anche e-
nunciati della Scrittura, vi sono strette affinità con l'interpre-
tazione esistenziale così come la intende Bultmann. Tuttavia
nel confronto Paolo-Bultmann occorre tener presente che
l'apostolo, partendo dalla sua esperienza di Damasco e dun-
que dalla sua fede nel kerygma, nella Scrittura ricerca per pri-
ma cosa quei passi in cui essa conferma le sue personali con-
vinzioni di fede, per poi «interpretare in modo esistenziale» i
passi trovati. Il neotestamentarista Bultmann, invece, ha a di-
sposizione il Nuovo Testamento come un tutto di cui può fa-
re un'esegesi in linea con il proprio metodo ermeneutico. In
questo modo diventano palesi sia l'affinità di fondo tra Paolo
e Bultmann, sia la differenza nel loro approccio teologico alla
Scrittura.
Per Bultmann la teologia è «in ogni caso un'iniziativa scientifica», tutta-
via per lui «in fondo teologia ed esegesi, oppure teologia sistematica e
storica, coincidono». 76 Per quanto affermasse frequentemente di voler
esaminare metodologicamente i testi del Nuovo Testamento in base alla
comprensione di esistenza che ne è alla base, tuttavia lo asseriva soltanto
perché come teologo era convinto che nel Nuovo Testamento ha una
profonda importanza l'esistenza coram deo, e che dunque l'interpreta-
zione esistenziale dei testi neotestamentari è di rilevanza teologica per-
ché porta a risultati teologici.
Ma quale enunciato esistenziale viene dato con Gal. 3,10 /
Deut. 27,26, e quale con Gal. 3,1 l /Ab. 2,4? Stando a Gal. 3,
IO, Ot È~ Ep"(WV VOfJ-OU sono coloro per i quali un'esistenza ap-
pagata è quella che compie proprio tutte le opere che la legge
76. Bultmann, Das Problem einer theol. Exegese des NT, 68 s. (tr. it. 470).
Le lettere di Paolo 93
esige. Di conseguenza, l'esistenza di colui che è giustificato in
base alle opere è un'esistenza che si compone di una determi-
nata quantità di opere della legge da compiere.L'esistenza è da-
ta dalla quantità. Paolo dunque prende le distanze da un es-
serci che si vuole costituito a mo' di mosaico da un certo nu-
mero di azioni da compiere. Respinge un'antropologia teolo-
gica per la quale l'uomo si forma sinteticamente in base a un
numero ben preciso e assolutamente non riducibile di singole
opere, presentando tale compositum sintetico come l'io davan-
ti a Dio che rivendica il diritto di sussistere nel giudizio esca-
tologico di Dio. Di conseguenza per Paolo colui che crede di
poter essere giustificato per le opere della legge compiute, in
realtà respinge con orgoglio prometeico la grazia di Dio.
Certo, questo giudizio sull'esistenza dalle opere della legge
- secondo una dizione dogmatico-teologica e non paolina -
vale per lo status post lapsum, ossia per l'uomo che, già pecca-
tore, non si accorge di quanto avvilisca se stesso riducendosi a
un meccanismo di adempimento quantitativamente spiegabile.
Nella condotta dei galati Paolo scorge dunque il tentativo no-
mista di creare un homunculus costruito quantitativamente da
opere. Dietro l'homunculus goethiano vi è il diabolico Mefi-
stofele, dietro quello della giustificazione per le opere della
legge vi è il potere demoniaco del peccato, che per Paolo è una
potenza ipostatizzata, quasi personificata (v. Gal. 3,22). 77 Al
contrario l'O:x Tilcr'tewç, dunque colui che è stato reso giusto da
Dio, non è affatto un essere sinteticamente autocreato. Ciò
che lo rende importante come persona integra, sana, sarà tut-
tavia rivelato completamente solo in Gal. 5,14 e 5,22 ss. Qui
Paolo dimostrerà che il cristiano non è una quantità autopro-
dottasi sinteticamente, bensì la nova creatura nata da un atto
creativo di Dio, l'uomo che è esistenza che ama, frutto dello
Spirito di Dio.

77. Hiibner, KuD 24, 181 ss.


Proseguimento:
argomentazione e teologia nella lettera ai Galati

Con Gal. 3,13 l'«interpretazione esistenziale» di Paolo pra-


ticata in 3,6-12 si apre a un nuovo orizzonte, che si potrebbe
definire orizzonte «dogmatico». Ora, infatti, per la prima volta
nel corso dell'argomentazione Paolo nomina Cristo come «sog-
getto» dell'azione salvifica. È stato lui a riscattarci dalla situa-
zione di maledizione di 3,10, e lui stesso, in funzione vicaria, è
diventato maledizione per noi, u7tÈ:p ~1-1-wv. Se anche in Gal. 3,
10 si pensava anzitutto al giudeo che intende autocostruirsi
sinteticamente con le opere della legge, tuttavia l'intento del-
l'enunciato si estende a tutti gli uomini. Questo emerge anche
solo dal fatto che in Gal. 3, quando parla alla prima plurale,
Paolo non lo fa assolutamente per distinguersi dagli etnico-
cristiani e per unirsi ai giudeocristiani.7 8
Quando dunque Paolo parla di Cristo come di chi è stato
maledetto «per noi», intende dire che è stato lui a trarci fuori
da un tipo di esistenza che stava sotto la maledizione. Ora per-
ciò non ci troviamo più in quella sfera di dominio in cui stava-
mo «sotto la maledizione». Cristo si è recato vicariamente
«per noi» in quel luogo, e adesso è a sua volta «sotto la male-
dizione» essendo diventato - che parole dure! - egli stesso ma-
ledetto «per noi». Si è allora verificato uno scambio di luoghi
che però, poiché in Gal. 3 si parla innanzitutto di esistenza, è
uno scambio di esistenza. Tale scambio conferma dunque che
il messia ha preso su di sé la nostra esistenza, maledetta perché
peccaminosa. 79
Alla duplice affermazione dell'esistenza sotto la maledizione e dell'uo-
mo e del messia corrisponde il relativo duplice riferimento a una cita-
zione biblica sull'imxa't'aparçoç. Per tutti gli uomini vale Deut. 27,26
(Gal. 3,10), per Cristo Deut. 21,23 (Gal. 3,13): bnxarçaparçoç miç ò xpe:-
1.1.a(J.e:voç bd ~uÀou. 80 I due passi ben si adattano alla concezione paolina,
78. Hiibner, Das Gesetz bei Paulus (a partire dalla 2' ed.), r 34 s. (tr. it. 270 ss.).
79. Successivamente, in 2 Cor. 5,21 Paolo dirà in modo simile che Dio ha reso pecca-
to Cristo u;;Èp ~iJ.ci'iv, per noi che siamo sotto il dominio del peccato. L'immagine è la
stessa.
80. In Deut. 2 I ,2 3 LXX è scritto xtxct'l''Y]pct1J.~'llO~. Ai fini del parallelismo con Deut.
Le lettere di Paolo 95
sebbene Deut. 21,23, stando al senso letterale, non abbia un significato
. . 81
mess1amco.
Gal. 3,14 mostra ancora una volta con grande chiarezza che l'argo-
mentazione di Gal. 3,10 riguarda anche gli etnicocristiani, e che dunque
dal punto di vista teologico giudeocristiani ed etnicocristiani si trovano
in una medesima situazione amartiologica e soteriologica: Cristo è di-
ventato maledizione per noi affinché la benedizione di Abramo divenis-
se realtà per i pagani in Cristo Gesù, affinché noi mediante la fede rice-
vessimo la promessa dello Spirito. Nel v. 14 sono dunque ripresi tanto il
nome di Abramo quanto i concetti portanti dell'argomentazione a par-
tire da 3,1: 'A~paaµ. (3,6-9), -rò 7tve:uµ.a (3,2-5), ~ 7ttcrw; / mcr'te:iJe:tv (3,2.5.
6-9.1r.l2), -rà Wvri (3,8), ~ È7ta'{'Ye:Àta (sostanzialmente 3,8). La temati-
ca riguardante Abramo trova una prima conclusione, provvisoria, nella
duplice sentenza finale di 3, 14.
Quanto Paolo in Gal. 3,14 ha portato a una conclusione teologica
temporanea, in Gal. 3,15-18 riceve nuova luce da una prospettiva diver-
sa, con un argomento xa-rà av,.9pw7tO'I/. La convinzione di fondo teologi-
ca, che vede la promessa di benedizione ad Abramo come dato soterio-
logico fondamentale e la legge come dimensione addirittura antisoterio-
logica, è ora approfondita mediante il concetto di eredità, xÀYJpovo1J.ia.
Per Paolo la promessa acquista un peso decisivo poiché è interpretata
come Òta.S~xYJ di Dio, termine che qui significa testamento. 82 E dato che
una volta scritto un testamento non è più possibile apportarvi modifi-
che, anche alla promessa fatta ad Abramo non si può più togliere né ag-
giungere nulla. 83 Proprio in questa chiave è pronunciata la frase cruciale
di 3,16: le promesse sono state fatte ad Abramo e alla sua discendenza.
Questo xat -rcjJ crm:p1J.a'!t aù-rou, 84 che Paolo riferisce a Cristo con un'e-
segesi originale che rimanda al singolare, unisce l'elemento argomentati-
vo della benedizione di Abramo estesa ai pagani, 3,8 s., all'elemento ar-
gomentativo cristologico di 3,13 s. Questo modo di argomentare ricor-
rendo al concetto di promessa come testamento di Dio punta al conte-
sto cronologico: la priorità temporale costituita da 430 anni comporta
una priorità obiettiva e teologica.
27,26 Paolo sostituisce questa parola con Èmxa'tapa'toç. In Deut. 21 ,23 T.M. manca la
corrispondenza con Èr.l ~uÀou, corrispondenza che però ricorre in Deut. 21,22 T.M.
8 I. La disposizione mira a evitare la contaminazione del paese. Per questo motivo nes-
sun impiccato(!), essendo maledetto da Dio, deve restare appeso all'albero di notte.
82. Diversamente da Gal. 4,21-31, v. sotto.
83. Per la tematica qui trattata non ha importanza chiedersi quale concezione di dirit-
to avesse in mente Paolo. Poiché il tertium comparationis del testamento di un uomo
e di quello di Dio consiste nell'incontestabilità delle disposizioni testamentarie, è so-
lo un problema fittizio quello di domandarsi come mai il testamento di Dio non può
più essere modificato visto che Dio non è certo morto.
84. V. Gen. 22,18 a Gal. 3,8.
La teologia di Paolo

Ecco dunque l'intento di Paolo: la legge, che nella digres-


sione di 3,19 ss. viene definita esplicitamente come ordina-
mento promulgato dagli angeli e non (non direttamente?) da
Dio, non può annullare la promessa pronunciata da Dio stes-
so. L'inferiorità della legge, che in 3,ro ss. era stata motivata
antropologicamente, in 3,19 ss. viene motivata teologicamente
con la superiorità di Dio rispetto agli angeli. Insomma: dalla
legge non viene alcuna eredità. v6p.oc; e xÀ ripovop.lcc sono realtà
assolutamente inconciliabili. Per l'argomentazione paolina è di
importanza cruciale che in Gal. la legge non sia un'entità so-
teriologica; nella lettera se ne illustra anzi in modo argomen-
tativo il contrario. L'accento antinomista dell'argomentazione
paolina in Gal. 3 è evidente.
Con Gal. 3,19 ha dunque inizio la digressione sulla legge mosaica. 8 l In
fondo Paolo ha già raggiunto con 3,14 lo scopo della sua argomentazio-
ne: la vostra salvezza, o galati, risiede esclusivamente nella promessa di
Abramo che avete già accolto, e non nel mettere in pratica la legge mo-
saica. Ma siccome di quest'ultima sino a questo momento si è detto sol-
tanto che non ha un'importanza soteriologica e anzi ha effetti persino
antisoteriologici, non è ancora chiaro a cosa serva. Ecco dunque l'inter-
rogativo sulla sua funzione: a cosa serve la legge? 86 La risposta, per noi,
è univoca solo in parte. È chiaro che la legge è stata aggiunta (alla pro-
messa), 7tpocre:'t'É.S.YJ, - un'affermazione di carattere spregiativo e sfavore-
vole.87 In un primo momento non è molto chiaro cosa significhi l'espres-
sione «per le azioni peccaminose». In base al valore finale della preposi-
zione y../xp~v e anche alla comprensione del termine mxpa~acr~ç come tra-
sgressione di una legge data, si giunge alla seguente interpretazione: la
legge è stata aggiunta alla promessa allo scopo di provocare le azioni di
peccato. 88 Con ciò è esplicitamente escluso lo scopo naturale di una leg-
ge, che è quello di ottenere un tipo di comportamento conforme alle sue
disposizioni. La funzione menzionata in Gal. 3,19 ovviamente non è ve-
terotestamentaria, se si escludono analogie isolate con certi oracoli pro-

85. Così, a ragione, Betz, Herm., 289 ss.; op. cit., 291: digressio.
86. Per una motivazione più precisa delle affermazioni su Gal. 3,19 ss. che saranno
presentate in seguito cfr. Hiibner, Das Gesetz bei Paulus, 27 ss. (tr. it. 54 ss.).
87. Rohde, ThHK, 154.
88. Così anche op. cit., 154: «Infatti dovrebbe provocare le trasgressioni. La 7tapii~a­
cnç è ... il peccato come trasgressione di un determinato comandamento divino». Dun-
~ue n~n coi;ie success!vai;nente Rom. 7,7: per conoscere il peccato che già esiste: --~'V
ap.ap·nav ... qvwv ... Òta 'VOIJ.OU.
Le lettere di Paolo 97
fetici (ad esempio Is. 6,9 s.). È altrettanto in contraddizione con il raccon-
to veterotestamentario del Sinai l'idea di Paolo che la legge sia stata pro-
mulgata da angeli, non importa se egli li intenda come mediatori di Dio,
il vero legislatore, o come autori della legge stessa. 89 Comunque a Paolo
preme fare in modo che Dio sia assente almeno al momento dell'atto di-
retto della consegna della legge, dimostrando in tal modo l'inferiorità
della legge. 9° Così anche Mosè viene coinvolto in questo processo mi-
rato a rendere inferiore la legge: se questa fosse stata consegnata diretta-
mente da Dio non ci sarebbe stato bisogno di mediatori; infatti, se c'è
un'unica persona (dç ./)goç, 3,20), non è necessario che vi sia un media-
tore. Ma se gli angeli con la loro moltitudine rendono necessaria la pre-
senza di questa figura, allora, proprio grazie all'inferiorità della legge
che essi hanno reso palese, diventa evidente che Mosè come mediatore
della legge inferiore partecipa di questa inferiorità. A tutto ciò va ad ag-
giungersi anche la limitatezza temporale della legge. Essa fu consegnata
ben 430 anni dopo la promessa fatta ad Abramo, e oltretutto ha scaden-
za prematura. Il compimento della promessa comporta dunque la fine
dell'infelice funzione della legge. Con l'era salvifica inaugurata da Cristo
essa ha cessato di avere una funzione.
La funzione di provocare azioni di peccato viene definita
schiavizzante in 3,21 ss. La Scrittura ha rinchiuso tutti 91 sotto
il potere del peccato, u7tÒ ap.ap'tiav, affinché ai credenti venisse
data la promessa in virtù della loro fede in Cristo Gesù. Que-
sto però vuol dire che l'intenzione degli angeli, comunque Pao-
lo possa aver concepito questi esseri, è inserita nell'intenzione
di Dio. 92 Il carattere di prigionia insito nella legge è espresso
al v. 23: unò v6p.ou Ècppoupoup.i::-Ba. Quelli che sono schiavi sot-
89. V. i commentari. In Das Gesetz bei Paulus, 27 s. (tr. it. 55), mi sono espresso a fa-
vore della seconda alternativa. A tutt'oggi sono della medesima opinione, poiché a
mio parere lo esige il processo argomentativo di Gal. 3,19 s. Dato però che l'argo-
mentazione qui presentata è indipendente da una presa di posizione su tale questione,
rinuncio qui a esporre il mio punto di vista al riguardo per non appesantire il conte-
sto con discussioni superflue.
90. Se rcpocre·n:.STJ dovesse essere un passivum divinum, allora potrebbe indicare che è
Dio stesso il vero datore della legge. Tuttavia non è possibile postulare un passivum
divinum e da questo postulato individuare in Dio il reale legislatore. Si tratterebbe di
unapetitio principii. 9i. 'tà Tiano: nel senso di rcav'\"Eç &v·9pwrcot.
92. Riguardo alle tre intenzioni rispetto alla legge - l'intenzione immanente della leg-
ge, così come espressa in Gal. 3,12 / Lev. 18,5; l'intenzione degli angeli e l'intenzione
di Dio - cfr. Hiibner, Das Gesetz bei Paulus, 27 ss. (tr. it. 55 ss.). Anche su questo
punto resto dell'opinione espressa allora, rinunciando però a farne l'elemento portan-
te delle considerazioni che seguiranno.
La teologia di Paolo

to la legge sono gli immaturi, come indica Ù7tÒ 7ta~òa:ywy6v


nel v. 25 (v. anche, oltre alla digressione, 4,2: Ù7tÒ Èm-rpo7touç
xat o1xov6p.ouç). L' «essere-sotto» designa l'esistenza miserevo-
le di chi non è stato giustificato.
Con Gal. 3,2 5 la digressione si conclude, e i versetti 3,26-29 si riallaccia-
no alle affermazioni che la precedevano. In questi versetti viene presen-
tata in una nuova variante la conclusione che sostanzialmente compari-
va già in 3,9. 14. r 8, stavolta però con un significativo passaggio alla secon-
da persona plurale.
Viene ora menzionato il luogo teologico di quanti sono
stati liberati dalla schiavitù: in Cristo Gesù. 93 I galati sono figli
di Dio nella sfera salvifica del Figlio di Dio. All'interno di essa
le differenze terrene non hanno più alcun senso. È detto: m:X:v-
-re:ç yà.p Ùp.e:Iç dç Ècne: Èv Xp~cr-rtj) 'I Y)crou. Quindi: se voi ap-
partenete già interamente a Cristo, allora siete quell'unico di-
scendente di Abramo, dunque eredi della promessa a lui fat-
ta.94 La conclusione teologica di benedizione e libertà è stata
presentata ai galati con la massima efficacia: se tenete vera-
mente alla salvezza, se vi preme davvero la libertà, allora non
fatevi ridurre nuovamente in schiavitù.
Riassumendo: la Scrittura è, per sua intima natura, promes-
sa. Se ciononostante include la legge, non è per farsene condi-
zionare nella sostanza. La legge, infatti, all'interno della Scrit-
tura intesa come promessa è solo un episodio, per di più carat-
terizzato negativamente. La legge non sarà mai il fine della

93. La dimensione locale dell'«essere in Cristo» e la sua rilevanza teologica verranno


spiegate meglio nel seguito. La vecchia discussione sul significato di Èv Xptcr'tti> non
viene più tematizzata nella nostra esposizione. Come indicazioni bibliografiche ci li-
mitiamo a segnalare Deissmann, Die ntl. Forme! «in Christo ]esu» (1982); Schwcitzer,
Die Mystik des Apostels Paulus (1930); Biichscl: ZNW 42 (1949) 141 ss.; Ccrfoux, Le
Christ dans la théologie de saint Paul (1951), 361 ss. (tr. it. Cristo nella teologia di san
Paolo, Roma 1969, 403 ss.); Neugebauer, Das paulinische «in Christo» (1957), 124 ss.;
Bouttier, En Christ (1962); Schnelle, Gerechtigkeit und Christusgegenwart (1983), 59
ss.; Umbach, In Christus getauft (1992), 180 ss.; inoltre i passaggi corrispondenti nel-
le teologie del N.T., e in questo secondo volume quanto si dice di Sanders.
94. Se dovesse corrispondere al vero che Gal. 3,26-28 è una tradizione battesimale pre-
paolina - così tra gli altri Schnelle, Gerechtigkeit und Christusgegenwart, 58 s. - allo-
ra Paolo a partire da 3,6 avrebbe impostato risolutamente la propria argomentazione
su un brano di tradizione.
Le lettere di Paolo 99
Scrittura. L'obiettivo del Dio che nella Scrittura ha manifesta-
to la sua promessa, del Dio che nella promessa ha espresso se
stesso, è l'abrogazione definitiva della legge che rende schiavi,
per la salvezza che consiste nella libertà dei figli di Dio. Lad-
dove la promessa di Dio raggiunge il suo scopo, ossia dove
Dio stesso giunge alla meta, la legge viene annullata. Dunque
Cristo è essenzialmente la negazione, ['«annullamento» della
legge. Anche se per Gal. 3,19 si vedesse in Dio il datore indi-
retto della legge, questa non sarebbe la sua vera parola. L'esse-
re della legge di conseguenza è un «essere per il nulla» che tra-
scina con sé, nel nulla, quanti ricercano in essa la salvezza. La
legge è dunque una potenza nichilista per colui che a lei si affi-
da. Poiché la sua funzione consiste nel provocare azioni di pec-
cato, spingerà il peccatore nel nulla.
Ciò che è stato appena detto a proposito della torà non è però l'ultima
parola di Paolo nel corso del suo sviluppo teologico. Per questo motivo
le nostre considerazioni erano solo una parafrasi del ragionamento al-
l'interno dell'argumentatio della lettera ai Calati. Pochi anni dopo l'a-
postolo, in seguito a una riflessione teologica nuova, ritirerà le provo-
cazioni più accese. Non parlerà mai più di una legge data dagli angeli.
La connotazione antitetica di circoncisione e carne, crcl:p1;, in Rom. 4 ver-
rà «tolta» congiungendo circoncisione e fede. Nella lettera ai Romani,
in particolare in Rom. 2, 95 Paolo introdurrà nell'argomentazione la leg-
ge proprio come legge di Dio. Ad essa attribuirà persino l'aggettivo «san-
ta», &ywç, Rom. 7,12. Nell'argomentazione di Gal., dove potrebbe tro-
vare collocazione teologica tale appellativo?
Hans Dieter Betz concepisce Gal. 3,26-4,11 come un'unità, e preci-
samente come argomento tratto dalla tradizione cristiana. All'interno di
questa pericope definisce «dimostrazioni» i vv. 4,1-7. 96 Tuttavia, poiché
con 3,26-29 l'argomentazione riguardante Abramo, che iniziava in 3,6 e
si strutturava poi in più tappe argomentative, ha raggiunto il suo obiet-
tivo - in considerazione di 4,21-31 si potrebbe anche parlare di obietti-
vo solo provvisorio - in 4,1 bisognerà necessariamente individuare un
nuovo inizio all'interno dell'argumentatio. Tuttavia vi è una linea argo-
mentativa che può essere tracciata partendo dalla digressione sulla legge,
3,19 ss., fino alle considerazioni di 4,1 ss., dato che entrambe le pericopi
sono tematicamente collegate da frasi introdotte da um:l. La sequenza
U7tÒ àµap-dav, Ù7tÒ vop.ov, •J7tÒ 7taiòaywyov ha la sua continuazione e al
95. Anche se in Rom. 2 non si incontra l'espressione v61J.oç 8wu.
96. Betz, Herm., 63 s. 320 ss.
100 La teologia di Paolo

tempo stesso la sua interpretazione nella sequenza Ù7tÒ Èm't"po7touç xa~


o1xovoµ.ouç, Ù7tÒ 't"à cr't"OtX<.ia 't"(Jj xocrµ.ou, Ù7tÒ voµ.ov. Allo stesso modo an-
che il pensiero espresso in Gal. 3, secondo il quale noi tutti siamo uno
in Cristo in quanto figlio di Abramo (e di Dio!), ha un corrispondente
in 4.4 s., per cui con l'invio di colui che è il Figlio in assoluto noi tutti
riceviamo l'adozione a figli; scopo di tale invio e dunque della redenzio-
ne è l'va 't"~v u[o.fhcrtav &7toÀa~wµ.r;;v. Proprio in questo contesto anche il
termine xÀYJpovop.ia costituisce un legame tematico tra le due pericopi,
perché essere figlio significa essere anche erede. Ed essere figlio e al tem-
po stesso erede significa essere libero. Contemporaneamente la tematica
dello Spirito unisce anche il cap. 3 al cap. 4: l'invio del Figlio implica l'in-
vio dello Spirito nei nostri cuori. Così, anche Gal. 4,r-7 termina con una
conclusione di tipo soteriologico, che si rivolge direttamente a colui che
ha ricevuto il dono dello Spirito: tu non sei più schiavo, adesso sei figlio,
adesso sei erede - ed erede di Abramo in quanto nel Figlio di Dio sei il
libero figlio di Abramo e di Dio.

Ma cosa c'è di nuovo in Gal. 4,1-7 rispetto al cap. 3? In


3,26-29 si affermava già che i galati erano figli di Dio nell'uni-
co Figlio di Dio, e che dunque erano anche eredi della pro-
messa dello Spirito fatta ad Abramo. Tuttavia nel cap. 3, a pro-
posito del Cristo che è il Figlio di Dio nel quale la figliolanza
di tutti i credenti possiede la propria ragion d'essere, ancora
non si dice che egli è preesistente. Tutti gli enunciati che lo ri-
guardano, fino a 3,29 incluso, sono comprensibili e sensati an-
che senza l'affermazione della sua preesistenza. Per essere plau-
sibili e possedere forza argomentativa, le idee cristologiche e
soteriologiche espresse in Gal. 3 non hanno bisogno dell'ele-
mento relativo alla preesistenza del redentore Figlio di Dio.
Comunque è indiscutibile che Paolo colloca le idee riguardan-
ti Cristo espresse in Gal. 1-3 nell'orizzonte della sua preesi-
stenza.
Il verbo Èça7tocr't"ÉÀÀw, che Paolo impiega sia per il Figlio (4,4) sia per lo
Spirito del Figlio (4,6), di per sé non esprime preesistenza. Nei LXX ri-
corre di frequente con Dio come soggetto, senza che ciò implichi tale
concezione. Così il Signore invia ad es. Geremia, profeta (Ger. r,7) la
cui «preesistenza» prima dell'invio risale a non oltre l'epoca della con-
dizione prenatale (Ger. r,5). 97 Il Signore invia Mosè, Es. 3,12. Scopo di
tale Èça7tocr't"ÉÀÀ<.tv è la liberazione di Israele dall'Egitto. I due temi del-
Le lettere di Paolo 101

l'invio e della liberazione qui coincidono, come in Gal. 4. 98 In Es. 3,8 si


parla di i::çe:ÀÉcr-8m come azione liberatrice di Dio, dunque di ciò che Mo-
sè deve eseguire su suo mandato. 99 Ma in Gal. I,4 questo verbo compa-
re come espressione dell'agire liberatorio del Figlio di Dio. 100
Che Gal. 4,4 vada inteso nel senso di una cristologia della preesisten-
za, tuttavia, - a prescindere dal fatto che Paolo nomina anche altrove la
preesistenza di Cristo (ad es. in Fil. 2,6 ss.) - lo dimostra il parallelo di
4,6 relativo all'invio dello Spirito del Figlio di Dio. Alla luce di paralleli
veterotestamentari, ad es. Sap. 7,27 s.; 9+10, in cui troviamo la preesi-
stenza della Sapienza pneumatica e l'invocazione perché essa sia inviata
ad abitare nelle anime sante, 101 è indiscutibile la preesistenza del pneu-
ma che secondo Gal. 4,6 è stato inviato. Sulla stessa linea di questa af-
fermazione si trovano principalmente immagini molto particolari nei
Salmi, ad es. tJi 42,J: i::ça7tocJ'mÀov 'tÒ cpwç crou xal 't~v èù~-8wb crou o tJi
56,4 s.: i::çam'.cr'te:tÀe:v i::ç oùpavou xat fowcrÉv µe:, ... i::ça7tÉcr'te:tÀe:v b -8e:Òç
'tÒ ÉÀe:oç aÙ'tou xal 't~v à.À ~-8e:tav aÙ'tou xal Èppucra'to 't~v tJiux~v p.ou Èx
µfoou crxup.vwv.

Se dunque l'orante supplica Dio perché invii la sua luce e la


sua verità, dunque la sua fedeltà e la sua misericordia, l'invito
è per così dire a «uscire da sé». Se Dio manda la sua miseri-
cordia all'uomo, allora l'uomo diviene partecipe del mondo di
Dio, viene addirittura accolto in questo mondo divino. Così
però il centro dell'uomo non è più l'uomo stesso, bensì Dio.
L'esistenza umana diventa allora un'esistenza circondata da
Dio, sostenuta da Dio. Questa comprensione dell'esserci nei
versetti del salmo citati riceve poi approfondimento esistenzia-
le dalle immagini personificate che si incontrano in Sap. 7,27 s.
e 9,4.10. Infatti, mandando la sua Sapienza e il suo Spirito nel-
l'uomo, infondendoli in lui, in fondo è Dio stesso a farsi pre-
sente nell'uomo; la praesentia dei in homine costituisce la di-
gnità umana.
Questa «interpretazione esistenziale» esige un ulteriore pas-
so avanti: il radicamento dell'esserci di fede nella presenza di
98. Ad ogni modo questo verbo in Es. ricorre molto più di frequente per la liberazio-
ne del popolo reso schiavo dal faraone, ad es. Es. 6,10: \'va Èça7tOO"'tEtÀTI 'tOÙç u!oùç 'fo-
pa~À Èx 't"i]ç y"i]ç aÙ'tOU. In parte però nça7tOO"'tÉÀÀEtV può avvenire solamente con il
pretesto di una celebrazione cultuale, ad es. Es. 4,23: Èça7tocrntÀov -.òv Àaov IJ.ou, \'va
p.ot Àa-.peucrn. 99. V. anche Es. 18,4 ss.
100. Cfr. § 4 (sulla problematica della teologia della liberazione latino-americana).
101. V. anche Sir. 24,1 ss. e Prov. 8,22 ss.
I02 La teologia di Paolo

Dio, infatti, è stabilito per mezzo dell'immagine teologica


della preesistenza della Sapienza o dello Spirito in questo pas-
sato preesistente. L'uomo, nel quale la Sapienza ha posto la
sua dimora, possiede da sempre il proprio sostegno assoluto e
incrollabile nella fedeltà, nella Sapienza e nello Spirito di Dio.
L'attuale agire salvifico storico di Dio a favore dell'uomo ha
dunque fondamento nella volontà d'amore pre-storica di Dio.
Di conseguenza l'esserci storico dell'uomo è sostenuto e pro-
tetto dall'eternità di Dio, ha in essa il proprio fondamento.
Questa idea trova approfondimento cristologico in Gal. 4;
l'autocomprensione appena illustrata, che è alla base di~ 42 e
56, Sap. 7 e 9, viene ora espressa nell'orizzonte della fede cri-
stiana. Dato però che Paolo, in particolare in Gal., ha concepi-
to la propria cristologia come soteriologia fondata su basi di
tipo forense, la sua cristologia della preesistenza acquisisce ora
il suo significato più vero e profondo grazie alla teologia della
giustificazione. Certo, in Gal. Paolo ancora non si esprime in
modo così esplicito, ma lo farà poi in Rom. 8,29 s., una delle
affermazioni centrali dell'argomentazione complessiva che svi-
lupperà in questa lettera. E sulla scia della scuola paolina, in
Ef r ,4 è scritto: x.a.-8wç È!;e:ÀÉ!;a."t'o -fi1.1.cic; Èv a.Ù"t'cfl 7tpÒ x.a."t'a.~oÀ-fiç
x.ocr1.1.ou.
Ma se nella sua argomentazione, fino a Gal. 3,29 incluso, Paolo se l'è ca-
vata senza ricorrere all'idea di preesistenza, questo dimostra che era in
grado di esprimere l'essenziale dell'idea portante di Gal., la giustifica-
zione per sola fede, senza ricorrere a tale concetto oggettivizzante. Se-
condo F.F. Bruce, per Gal. 4 la preesistenza è persino irrilevante per
l'argomento che tratta. 102 Ma questo è vero soltanto finché si resta nel-
l'ambito della concezione teologica. Se però si fa un passo avanti e si in-
terpreta l'idea di preesistenza in base all'autocomprensione che in essa si
esprime, allora diventa evidente la grande importanza di tale concetto
proprio per questa autocomprensione. Certo, Paolo avrebbe potuto ri-
nunciare all'idea di preesistenza, ma proprio inserendola nella sua argo-
mentazione teologica ha conferito a quest'ultima un'enfasi maggiore. ' 03
102. Bruce, NCI, 195·
103. Cogliendo nel segno Franz Mussner, HThK, 273 (tr. it. 422), afferma che «l'apo-
stolo non introduce la cristologia del Figlio» - a ragione vede implicita in essa la cri-
stologia della preesistenza - «di per se stessa o per ragioni speculative, ma seguendo
intenzioni soteriologiche».
Le lettere di Paolo 103

All'ancorarsi dell'esserci credente nel suo pre-«tempo», e di


conseguenza nell'eternità di Dio, corrisponde la visione del-
l'eschaton. È vero, in Gal. non si ritrova la stessa atmosfera
escatologica che pervade ad esempio r Tess. 104 Ma essendo la
giustificazione per sola fede centrale per l'intento teologico di
Gal., anche il giudizio escatologico di Dio si pone al centro
dell'attenzione. Infatti, il giudizio che proclama giusto il cre-
dente da parte di Dio in fondo è anticipazione del giudizio e-
scatologico. Dio compie ora nel credente ciò che nel giorno
del giudizio universale riceverà il suo significato definitivo e
irrevocabile. Il presente del cristiano è dunque definito in base
al pre-«tempo» di Dio, al passato storico della maledizione
che Cristo si è addossata, e al futuro mediante l'assoluzione
sostanziale da parte di Dio. A questo riguardo, nel presente
del giustificato coincidono passato e futuro, e insieme tempo ed
eternità. Temporalità e storicità dell'esserci hanno origine nel
pre-«tempo» protologico e nel post-«tempo» escatologico di
Dio, temporalità e storicità in quanto dati esistenziali fonda-
mentali dell'esistenza umana posseggono nell'eternità di Dio
l'origine che li fa essere. La dimostrabilità fenomenologica del-
l'esserci viene teologicamente qualificata da enunciati di fede
fenomenologicamente non più dimostrabili. «Concetti» come
pre-«tempo», post-«tempo» ed eternità, infatti, non sono più
definibili positivamente, ma essendo negativamente limitati a
concetti definibili vengono introdotti in un ambito che va al
di là di una competenza umana di espressione. Alla fin fine es-
si esprimono in maniera inadeguata un dato di fatto: l'agire di
Dio sull'uomo può trovare espressione solamente nell'ambito
linguistico di questo stesso uomo. Con essi si ha l'ammissione
che, riguardo a ciò che è realmente l'agire divino, noi non sia-
mo in grado di dire assolutamente nulla; tuttavia, impiegando
tali «concetti» ammettiamo che la base esistenziale di ciò che
può essere dimostrato in modo fenomenologico-esistenziale
deve rimanere oscura. Tuttavia l'adeguatezza della via ne-
gationis viene relativizzata, in quanto con la cristologia del-
104 La teologia di Paolo

l'incarnazione espressa in Gal. 4 il Dio eterno, in suo Figlio, si


è fatto esserci storico nella storia degli uomini. L'espressione
cristologica «vero Dio e vero uomo» nell'intento dell'afferma-
zione di Gal. 4 assume questa forma: eternità e storicità a un
tempo. In Cristo confluiscono l'eternità di Dio e la storicità
dell'uomo; anzi, Dio, colui che ha creato la storia, in quanto
suo creatore si avventura egli stesso nel flusso della temporali-
tà di questa storia, nella storia che come elemento costitutivo
ha non solo il divenire ma anche il trascorrere: ecco ciò che, in
un paradosso estremo, costituisce il nucleo della fede cristiana.
La storia però, caratterizzata dal divenire e dal trascorrere,
proprio nell'elemento del trascorrere e della transitorietà di-
venta mondo del peccato e della morte, mondo dell'inimicizia
con Dio, degli «elementi del mondo», 't"à cr't"o~xe:ia 't"ou x6cr-
p.ou, Gal. 4,3.
Ma con l'accenno a questi elementi del mondo ecco comparire il tratta-
mento più aspro riservato al pensiero e alla religione giudaica. Per
quanto nella ricerca attuale l'essenza degli O"'rOtXe:ia 'rOÙ xocrµou sia anco-
ra dibattuta, 105 tuttavia dalla struttura argomentativa di Gal. si può rile-
vare chiaramente che per Paolo si trattava di potenze pagane la cui pre-
tesa di divinità era solo usurpata, dunque potenze con un potere sì limi-
tato - per via di questa loro limitatezza Paolo ne parla in Gal. 4,9 come
di 'tà àcr.S.e:v'ij xal rt'twxà cr'totxe:ia -, ma comunque tanto spaventoso da
essere sufficientemente tremendo e temibile per coloro che vi sono sog-
getti. Tornare ad essere schiavi di queste potenze significa giocarsi il be-
ne prezioso della libertà, mettere in gioco e perdere la propria esistenza.
Probabilmente tali potenze andranno classificate tra i Àe:yop.e:vot .S.e:oi,
che per Paolo esistono onticamente, tra i .S.e:ol 7tOÀÀot xal xuptot TCOÀÀoi
di I Cor. 8,5, dunque tra le potenze che esistono di per sé ma non per
colui che ha fede. 106 È pur vero che in Cristo questi idoli hanno perso
tutto il loro potere per il credente, sono divenuti «deboli e miserabili»,
come afferma Gal. 4,9; sono divenuti precisamente o! ?ucre:t 11· ~ ov'te:ç
.S.e:oi, Gal. 4,8.
Per ogni giudeo e per la maggior parte dei giudeocristiani -
certamente anche per Giacomo e i capi della chiesa a Gerusa-
105. V. i commentari; inoltre in particolare Delling, ThWb VII, 670 ss. (GLNT XII,
1226 ss.); Cramer, STOICHEIA TOU KOSMOU; Bandstra, The Law and the Ele-
ments of the World; Vielhauer, Gesetzesdienst und Stoicheiadienst im Gal.
106. Cfr. H. Conzclmann, I Kor, KEK v, 177 s.
Le lettere di Paolo 105

lemme - doveva apparire estremamente blasfema l'equipara-


zione che fa Paolo tra la schiavitù sotto gli elementi del mon-
do, pagani e simili a idoli, e la schiavitù sotto la legge mosaica,
come pure il suo elevare a criterio di misura proprio il potere
schiavizzante di tali elementi per definire l'essere sotto la leg-
ge. Se Giinter Klein, a proposito di Gal. 3,19, ha parlato di
Mosè come dell' «incaricato di potenze contrarie a Dio», 107 a
buon diritto la stessa cosa si può affermare anche a proposito
di Gal. 4,3. Se Gal. 3,22 era stato formulato ancora con tanta
cautela che anche un giudeo poteva interpretare alla maniera
giudaica il «rinchiudere» tutti gli uomini sotto il potere del
peccato - il parallelismo tra u7tÒ àp.ap'dav e u7tÒ v6p.ov poteva
forse essere enunciato persino da una posizione di tipo deute-
ronomista -, tuttavia il tentativo qui intrapreso di identificare
la funzione di u7tÒ votJ.ov con u7tÒ -rà cr-ro~x.Eia -rou x6crp.ou do-
veva risultare per lui assolutamente inaccettabile. !0 8
107. Klein, Individualgeschichte und Weltgeschichte, 210.
108. L'argomentazione di Paolo con gli elementi del mondo va comunque a sfociare
nell'alternativa tra la loro potenza o impotenza, caratteristiche che però sono loro at-
tribuite come un'entità ipostatizzata. Perciò esse sono certo concepite come potenze
di tipo personale, soprattutto se si prende come parallelo I Cor. 8,1-6. Il r.aÀLv del v.
9 mostra molto chiaramente che queste potenze, concepite come personali e capaci di
rendere schiavi, sono di natura pagana. E a noi qui interessa solamente questa con-
nessione concreta. Per la nostra linea di ricerca è perciò irrilevante sapere se possano
essere viste come potenze astrali - contro questa ipotesi si sono avute serie obiezioni
da parte della maggior parte degli autori - o se debbano essere altrimenti intese come
potenze funeste di tipo personale. Se la questione sulla natura degli clementi del
mondo viene vista in relazione a Gal. 4,10, e se questo versetto viene considerato come
motivazione dell'affermazione che precede al v. 9, allora con Franz Mussner, HThK,
297 ss. (tr. it. 457 ss.), bisogna forse mettere in conto la prossimità tra devozione alla
torà e devozione al calendario, rintracciabili nel giudaismo. Tra i passi dcl giudaismo
della stessa epoca che Mussner presenta come dimostrazione di questa tesi citiamo
~ui I QS 9,26-10,8; l QM 14,12-14; lub. 3,27; 6,14; Ps. Sal. 18,ro; Hen. aeth. 80,7. Al
riguardo scrive Mussner, op. cit., 302 (tr. it. 463): «Dunque per i galati il passo dagli
astri che regolano il calendario agli 'dèi che in realtà non sono dèi' era breve. Per i
giudei e i giudeocristiani - a causa del loro rigido monoteismo - questo pericolo c'era
~difficilmente c'era, ma esisteva certamente per gli etnicocristiani, tanto più per quel-
li che non molto tempo prima erano stati pagani, per i quali 'elementi' o 'dèi' sono
spesso identici, il che comporta un culto degli elementi e un culto degli idoli». Op.
ci.t., 303 (tr. it. 465): «Poiché nella 'religiosità calendaristica' e legalistica vede una ma-
nifestazione di 'adorazione degli elementi', l'apostolo può scrivere ai galati che essi
5 ?no in procinto di 'ritornare nuovamente agli elementi deboli e miseri', benché non

ritornino al loro paganesimo d'un tempo, ma vogliano darsi al 'giudaismo'. Secondo


106 La teologia di Paolo

Nell'analisi argomentativa svolta, Gal. 4,12-19 può essere omesso, dato


che in questa pericope vi sono alcuni particolari confusi che invece di
chiarire finirebbero per rendere più oscuro il riferimento alla tematica
della teologia biblica del Nuovo Testamento. 109 Tuttavia è di importan-
za notevole !'«allegoria» di Gal. 4,21-31(5,1).
La nota tesi di Albrecht Oepke riguardo a Gal. 4,2 I-JI, secondo il
quale la «prova scritturistica che riprende faticosamente da zero avreb-
be dovuto essere collocata nel cap. 3'» e dunque «sarebbe venuta in men-
te all'apostolo solo in un secondo tempo», forse in seguito a una nuova
lettura dei LXX," 0 non può risultare convincente.rn In 4,12-20 Paolo
interpella direttamente e in modo decisamente personale i galati. Dun-
que l'argomentazione che riprende nuovamente Abramo - o più esatta-
mente le mogli e i figli di Abramo - si inserisce splendidamente nel cor-
so della argumentatio. Infatti, l'efficacissima apostrofe del v. 21, come
pure la rassicurazione categorica del v. 28 - voi siete come Isacco figli
della promessa e dunque anche figli di una donna libera, v. 3 l - mostra-
no che Paolo, proseguendo da 4, l 2, enfatizza l'apostrofe che aveva già ini-
ziato in quel versetto. In 4,2 l-3 l, allora, l'apostolo presenta una varia-
zione del tema di Abramo, che dominava già al cap. 3, per chiarire ulte-
riormente ai galati una condizione salvifica già raggiunta. In base a tutto
ciò l'elemento della «posteriorità» può essere visto solo come sapiente
mossa retorica: interpellando i cristiani della Galazia con il richiamo al
rapporto così personale che un tempo avevano con lui, al tempo stesso
Paolo prepara psicologicamente il terreno per metterli di nuovo a con-
fronto con quanto afferma la Scrittura, ossia con la caratteristica doman-
da oòx. àx.oue:-re:; E se in 5,1 si dovesse individuare la conclusione di 4,21
ss. (v. sotto), allora il nuovo argomento si concluderebbe con l'esorta-
zione ai figli della donna libera affinché siano consapevoli della libertà
preziosa che posseggono e la difendano.
La comprensione paolina della Scrittura emerge in tutta evi-
denza in questa pericope nella comprensione ambigua di v6µoc;
nell'interrogativo iniziale. I galati «vogliono» essere sotto il
l'apostolo essi vanno così a finire di nuovo in una 'schiavitù' religiosa». L'argomenta-
zione di Paolo lascia poco spazio ali' opinione di Gerhard Delling, ThWb VII, 68 5, r 5
ss. (GLNT XII, 1226 ss.), per il quale l'espressione CT'\"OtX,Eta '\"OU x6cr1J.ou indicherebbe
ciò «su cui si basa l'esistenza di questo mondo e che costituisce anche l'essere dell'uo-
mo». Riassumendo si potrà dunque affermare con Hans Dieter Betz, Herm., 358, «che
queste 'potenze naturali del mondo' rappresentano potenze demoniache, le quali
costituiscono e dominano 'questo mondo malvagio' (1,4)».
109. V. i commentari. r re. A. Oepke, ThHK 9, Berlin •1976, 147.
r r r. Contrario, ad es., Mussner, HThK, 316 (tr. it. 484 s.), il quale tuttavia concede a
Oepke che Gal. 4,21-3 r desti tale impressione. In linea con Oepke anche E. Stange,
ZNW 18, 115, e U. Luz, EvTh 27, 319.
Le lettere di Paolo rn7
nornos. Qui il termine sta innanzitutto per legge normativa
con le singole disposizioni: i galati vogliono porsi sotto di essa
per compiere tali prescrizioni. Ma quando nella seconda parte
della frase si chiede loro se non sentono cosa dice il nomos,
qui il termine indica la Scrittura, concretamente il Pentateuco
nel suo primo libro. Di conseguenza anche l'cixoue:tv richiede
un'attenzione particolare. Si intende espressamente l'ascolto,
non la lettura. E l'ascolto comporta qualcosa di più della sem-
plice comprensione del senso letterale. Come ribadisce l'alle-
goria evidenziata espressamente nel v. 24, ascoltare significa
prestare ascoltd attento alle stratificazioni di senso più profon-
de del nomos. Ma cosa significa questo in realtà?
Tralasciamo in un primo momento la questione controversa se qui Pao-
lo parli allegoricamente o tipologicamente, o magari in un miscuglio sin-
golare di allegoria e tipologia. E più importante vedere quanto e se ri-
spetti il testo veterotestamentario dal punto di vista di contenuto e teo-
logia, vedere cioè come proprio qui vada considerato il rapporto tra Ve-
tus Testamentum in Novo receptum e Vetus Testamentum per se. Per il
momento resti ancora in sospeso se alla fine sarà possibile formulare il
risultato ricorrendo ai concetti consueti di allegoria o tipologia.
In 4,22 Paolo inizia subito con la formula quotationis 1É-
"(pct7t'tett 1àp o'tt, senza però «citare» nel senso stretto della pa-
rola. Egli «fornisce una specie di riassunto di Gen. r 6, r 5; 2 r ,2-
3.9 (LXX) definendo ciò 'legge' (vo[J-oç) (dr. Gal. 4,2r)».'' 2
Tale riassunto concorda all'incirca con ciò che è narrato nella
Genesi. '' 3 Ricorrendo in 4,22 a ciò che sta scritto, Paolo qui
non intende necessariamente il testo in quanto tale, ma il con-
tenuto espresso dal testo. E il contenuto è che Abramo ha
avuto un figlio da una schiava e uno da una donna libera. Ed è
esattamente questa circostanza ad essere chiaramente riferita
in Gen. Per il v. 22 è quindi inconfutabile che le due dimen-
sioni Vetus Testamentum in Novo receptum e Vetus Testamen-

I 12. Betz, Herm., 416.


II3. Che Paolo non prenda in considerazione il secondo matrimonio di Abramo,
quello con Chetura, né i figli nati da esso (Gen. 25,r s.), non è da interpretare come
una violazione del senso letterale di Gen. All'argomentazione di Paolo, infatti, inte-
ressano solamente i figli di Agar e di Sara. Dunque òuo utouç non va interpretato co-
me «solo due figli».
108 La teologia di Paolo

tum sono identiche. Qui Paolo parte da avvenimenti che sono


narrati nella Scrittura, da persone che hanno vissuto. A lui in-
teressano le figure di Abramo e di Sara, né ci si può aspettare
diversamente stando a Gal. 3,6-9. È infatti la benedizione im-
partita da Dio all'Abramo storico quella a cui hanno parte i
galati etnicocristiani. In qualche modo - e il come andrà ulte-
riormente precisato - per il pensiero di Paolo la storia di
Israele è teologicamente determinante. Ciò che accadde allora
è storia teologicamente rilevante, e di un'importanza tale che
la condizione salvifica di oggi dipende sostanzialmente anche
da quell'evento. La categoria della storia dunque non può es-
sere rimossa dal pensiero di Paolo. Attraverso il passato, il
presente del cristiano è qualificato teologicamente in più mo-
di. Riceve la sua qualificazione in virtù di Abramo, ma soprat-
tutto in virtù della morte e risurrezione di Cristo. Il presente
del cristiano è perciò il suo presente salvifico, poiché è radicato
nel passato salvifico. Fondamentalmente Paolo prova interesse
per la storia come strumento di salvezza, ma questa storia non
è un continuum di salvezza. E proprio in quanto storia del
popolo di Israele non è un continuum salvifico. La realtà stori-
ca, implicando categorie puramente terrene come, ad esempio,
popolo, continuità etnica, nazione, è teologicamente insignifi-
cante. Ma per il pensiero paolino sviluppato in Gal. resta co-
stitutivo il fatto che già a quel tempo, nel corso della storia di
Israele, vi furono eventi di grande portata salvifica.
Ciò che era solo abbozzato nel v. 22 diventa ancora più chiaro dopo
quanto Paolo afferma nel v. 23 con concettualità prettamente teologica.
I fatti cui si accenna nel v. 22 con termini «sociologici» vengono qui ri-
presi e descritti mediante l'opposizione teologica Xc.t't'à crapxc.t e Òt'bcc.ty-
ye:Àtc.tç. Xc.t't'à crapxc.t non è qui inteso in senso spregiativo, ma non fa che
riportare un fatto puramente immanente: il figlio di Agar nasce in modo
umano, come qualsiasi altro uomo sulla terra. L'elemento peggiorativo,
così come espresso, ad esempio, in Rom. 8,4 con Xc.t't'à crapxa contrap-
posto a xa't'à Ti:ve:up.a, in Gal. 4,23 non è contemplato. L'elemento teolo-
gicamente spregiativo viene espresso invece con l'interpretazione «alle-
gorizzante» a partire dal v. 24. Il concetto teologico centrale e più im-
portante è òt'e'Ti:ayyùiaç: ciò che conta è che Isacco - il cui nome appa-
re solo al v. 28 - è figlio della promessa. Ma è proprio questa stessa idea
ad essere estremamente significativa anche per l'intento teologico che
Le lettere di Paolo
anima i racconti della Genesi intorno ad Abramo. 114 Se dunque Paolo
utilizza le affermazioni di Gen. riguardo alle nascite di Ismaele e Isacco
prendendo il senso letterale del testo veterotestamentario, se allora per
Gal. 4,22 s. c'è da registrare la coincidenza tra Vetus Testamentum in
Novo receptum e Vetus Testamentum per se, ciò significa che il punto di
partenza dell' «allegoria» Sara-Agar è stato scelto in modo tale da non
scandalizzare né i giudei né i giudeocristiani. A dire il vero, neanche gli
oppositori giudaiz~anti di Paolo po~rebb~r~ ri~a~tere a qu~sti. versetti,
poiché l'apostolo nconosce le propne rad1c1 cnstiane propno m quella
stessa parte della storia di Israele, ossia la storia del padre Abramo, alla
quale anch'essi fanno risalire la loro esistenza. Tuttavia, al v. 24 avviene
la separazione netta tra Paolo e i suoi avversari, quindi tra il cristianesi-
mo e il giudaismo. Stando all'intento vero e proprio, dunque «allegori-
co» del nomos, a proposito delle due madri con i loro figli esso pronun-
cia un giudizio sulle òuo Òta.S~xcu, ove Òta.S~xYJ assume qui addirittura
il significato di religione. 115 Paolo mette qui in opposizione - non solo
contraria ma anche contraddittoria - la religione giudaica e quella cri-
stiana: le due donne raffigurano le due diathekai. La disposizione reli-
giosa rappresentata da Agar è quella del monte Sinai: essa «genera» den-
tro un'esistenza di schiavitù. Comunque si decida di risolvere il proble-
ma estremamente spinoso di critica testuale del v. 25, 116 Agar rappre-
senta pur sempre il monte Sinai, dunque anche la legge consegnata su
tale monte, inclusa la Gerusalemme attuale (crucr'totxe:i ÒÈ Tfl vuv 'Ie:pou-
crctÀ~fJ-), ossia il popolo di Israele, che da questa legge è condizionato.

Con ciò si ha però un'affermazione mostruosa, assoluta-


mente blasfema sia per le orecchie di un giudeo sia per quelle
di un giudeocristiano. Far derivare l'esistenza giudaica da Agar,
presentare il giudaismo come religione della schiavitù e dun-
que fondamentalmente come antireligione, non può essere in-
I 14. Con Betz, Herm., 417: «Le espressioni 'secondo la carne' (xcxi:à crapxcx) e 'in vir-
tù della promessa' (òtà i:Yjç Èr.cxnù[cxç) sono indubbiamente paoline. Sono adeguate
al contesto della lettera ai Galati, ma anche ai racconti della Genesi. È interessante no-
tare come qui Paolo non contrapponga 'secondo la carne' all'espressione 'secondo lo
Spirito' (xcxi:à r-vEu1J.cx), ma si limiti a 'in virtù della promessa', in quanto tale termine
si adatta alla sua argomentazione nei capitoli 3 e 4». Tuttavia resta incomprensibile il
perché Betz, op. cit., 418, parli dell'«allegoria riguardante i due figli di Abramo nei vv.
22-2p, mentre nel v. 24a vede introdotta «un'ulteriore (!) interpretazione allegori-
ca». No, ]'«allegoria» ricorre solo nel v. 24.
II5. Hiibner, EKLl 1, 569. I significati «testamento» (così Gal. 3,15-18) o «patto»
non sono adeguati, o lo sono in minima parte. La diatheke una volta è l'ordinamento
religioso del giudaismo, così come stabilito dagli angeli (Gal. 3,19), un'altra volta è
!'_ordinamento salvifico in Cristo, posto mediante la promessa di Dio e la sua succes-
siva realizzazione. 116. V. i commentari.
110 La teologia di Paolo

teso da giudei e giudeocristiani se non come la dimostrazione


che quel Dio che sul Sinai si è rivelato come Dio della torà è
stato trasformato in diavolo. Ai loro occhi la teologia antino-
mista di Paolo - anche se alla luce di Gal. 3,19 questo non de-
ve stupire - viene qui smascherata come teologia antidivina,
dunque come antiteologia. Per Paolo è diabolico quanto af-
fermano i giudaisti; viceversa per i giudaisti è satanico ciò che
sostiene Paolo. Voler minimizzare la portata di queste affer-
mazioni, tentare una mediazione tra Paolo e i giudaizzanti, si-
gnificherebbe qui defraudare l'una e contemporaneamente an-
che l'altra parte di ciò che costituisce la sostanza della propria
convinzione di fondo.
Per la strategia dell'argomentazione complessiva all'interno
della argumentatio va fatto osservare che l'accenno esplicito
alla libertà o all'essere-liberi non ricorre prima di 4,21 ss. Del-
la esistenza in schiavitù, di òouÀe:ue:iv, di essere-òouÀoc;, Paolo
ha già parlato prima (Gal. 4, 1. 7-9 ), come pure di essere-u7to
(
e \ I'. I e: \ f ò C:
3,22: u7to ap.ap't'w.v; 3,23: U7to voµ.ov; 3,25: U7to 7tat aywyov;
\ I

4,2: u7tÒ Èm't'po7touc; xal o1xovop.ouc;; 4,J: u7tÒ 't'à cr't'oixe:'i'a 't'ou
x6crµ.ou; 4,4 s.: u7tÒ voµ.ov), ma prima di 4,21 nella argumenta-
tio non ha accennato né a ÈÀe:u.a.e:poc; né a ÈÀe:u.a.e:pta o a ÈÀe:u&-
pouv. 117 Ora invece Paolo afferma che libertà significa libera-
zione dalla schiavitù imposta da legge e peccato: come sposa
di Abramo, Sara è la donna libera; Isacco è figlio della donna
libera, e con Isacco i cristiani sono uomini liberi. Ma allora
Gal. 4,21 ss. costituisce l'apice dell'argomentazione teologica
di Paolo. " 8 Liberazione come libertà: l'apostolo sostiene que-
sta tesi solo dopo la parentesi molto personale della argumen-
tatio, 4,12-20. Solo adesso nomina il concetto teologico chiave,
non soltanto un concetto di grande dignità teologica ma an-
che, almeno per lo stesso Paolo, di notevole efficacia emotiva.
117. Solo nella narratio, in Gal. 2,4, è menzionata la ÈÀw!hpia. Dunque la narrati o fa
da preludio al tema della libertà sviluppato nella argumentatio.
I 18. Di parere un po' diverso Ebcling, Die Wahrheit des Evangeliums, 3 I 5. Anch'egli
osserva che prima di Gal. 4,2 I ss. di ÈÀw8Epia si parla solo in 2,4. Tuttavia, in 4,21 ss.
il tema fondamentale non riguarderebbe ancora tale espressione. Poiché, insieme a
Betz, ritiene che la parenesi abbia inizio già in 5,1, a suo giudizio «l'astratto È),Eu&-
pia ... sorge come astro splendente solo in 5, 1, all'inizio della sezione conclusiva».
Le lettere di Paolo I I I

Per Paolo è inevitabile che chiunque senta la parola «libertà»


se ne sente subito attratto irresistibilmente. E dato che i galati
non capiscono, o non vogliono capire, che i contromissionari
giudaizzanti vogliono trascinarli in una schiavitù indegna del-
l'uomo, egli perde la fiducia che nutre in essi: à7topoup.m Èv u1J.i"v,
Gal. 4,20. Per questo li scongiura. Possiamo esprimere tale con-
cetto trasformando un detto di Anselmo di Canterbury: Non-
dum considerastis, quanti ponderis sit libertas. 119 Come potete
intendere la liberazione come schiavitù invece che come liber-
tà. Se si considera questa tendenza argomentativa in relazione
con le affermazioni sulla libertà di Gal. 4,2 r ss., si potrebbe
dire che 5,r con il suo indicativo e l'imperativo che lo segue
costituisce la dichiarazione cui puntava 4,2 r ss. 120 Solo chi è li-
bero è cristiano! La lettera ai Galati come magna charta liber-
tatis raggiunge dunque il suo culmine retorico e teologico in 4,
21-5,r.
L' «allegoria» Sara-Agar è arricchita da un'ulteriore idea, quella della con-
trapposizione tra la Gerusalemme attuale come luogo di schiavitù, e la
Gerusalemme di lassù, ~ avw 'lEpoucraÀ~iJ., come simbolo della libertà,
4,25 ss. È questa la nostra madre, proprio come la donna libera Sara - i
due concetti confluiscono l'uno nell'altro nell'argomentazione di Pao-
lo. 121 A dire il vero, alla Gerusalemme attuale Paolo dovrebbe contrap-
porre la Gerusalemme futura. Joachim Rohde afferma giustamente: «Nel-
le parole vuv e avw, al concetto temporale 'ora' viene contrapposto il con-
cetto locale 'di lassù'». 122 I paralleli extrabiblici giudaici, come pure quel-
li neotestamentari, mostrano la nuova Gerusalemme in entrambe le im-
magini. 123 Questa indeterminatezza palese dell'argomentazione teologi-
ca di Paolo richiede di essere interpretata. Si è già detto che il pensiero
paolino predilige le immagini spaziali: noi viviamo «in Cristo», mentre
capovolgendo l'immagine Cristo vive nell'apostolo (Gal. 2,20). Già l'in-
coerenza di queste due immagini «spaziali» mostra che ad essere impor-
tanti non sono le immagini in quanto tali, dunque l'oggettivazione rap-
II9. Cfr. Anselmo di Canterbury, Cur deus homo 1,21.
120. Al contrario di Nestle-Aland (27' ed.), The Greek New Testament riporta Gal.
5,1 come conclusione di Gal. 4,21 ss.

121. Si osserva comunemente (v. i commentari) che nella dimostrazione di Paolo


manca un elemento, ossia che come Agar corrisponde alla Gerusalemme attuale, così
Sara corrisponde alla Gerusalemme di lassù. L'idea, tuttavia, è espressa in modo ab-
bastanza chiaro ancorché implicito. 122. Rohde, ThHK, 200 (corsivo mio).

123. Esempi in quasi tutti i commentari.


II2 La teologia di Paolo

presentabile. Si tratta piuttosto di interrogare l'immagine sul suo reale


contenuto. In ciò che segue, questo avverrà con una certa provvisorietà,
in quanto la problematica nel suo complesso verrà sviluppata solo con
l'interpretazione di alcuni passi di I Cor.
Le espressioni relative alla spazialità «in Cristo» e del Cristo «in noi»
non riguardano uno spazio con un suo proprio significato, indipenden-
te dall'esistenza del credente. Martin Heidegger spiega l'esserci attri-
buendogli una dimensione che è anche essenzialmente spaziale. L'esi-
stenziale della spazialità è qualcosa che è parte essenziale dell'esserci
umano. 124 Se dunque del cristiano si afferma che egli si trova «in Cri-
sto», è dell'intima determinatezza del suo esserci che si parla. Ciò che il
cristiano è, lo è «in» Cristo. Se dunque s'intende I' «essere in Cristo» co-
me specificità del cristiano, allora il reciproco «Cristo in noi», visto il suo
intento reale, ossia esistenziale, non è più una vera contraddizione.
Allora anche la Gerusalemme di lassù, secondo l'intento teo-
logico centrale di Paolo, esprimendo la rappresentazione del-
l'origine dell'esistenza cristiana, esprime il cristiano nel suo es-
sere-al-sicuro in Dio. Se poi questa Gerusalemme di lassù è in
contrapposizione con la Gerusalemme attuale, ciò significa an-
che che la Gerusalemme «posta» in alto non prende parte al-
1' esserci adesso della Gerusalemme attuale. Niente di ciò che è
sulla terra ci condiziona e ci determina nel nostro vero essere.
Il modo singolare di giustapporre e intrecciare asserzioni di ti-
po temporale e spaziale trova dunque volta per volta la sua u-
nità di contenuto teologico nel relativo valore esistenziale.
Questo modo paolino di esprimersi, tuttavia, non va assolutamente fra-
inteso in senso individualistico. Quando si parla di valore esistenziale
delle rappresentazioni e dei concetti teologici di Paolo, non si tratta di
asserzioni relative ali' esistenza isolata. Da un simile equivoco dovrebbe
preservare anche solo il significato ecclesiologico dell'espressione «in Cri-
sto».125 Ma questa dimensione ecclesiologica dell'esistenza cristiana va
vista al contempo in orizzonte escatologico: «Poiché la comunità in cui
il battesimo introduce è quella escatologica, la formula ha un significato
tanto ecclesiologico quanto escatologico: d ·ne; Èv Xptcr't"cj), xcxtv~ x't"tcrtc;
(2 Cor. 5,17)». 126
Anche dalle due citazioni dell' «allegoria» (vv. 27.30) emergono ele-
124. Heidegger, Essere e tempo,§§ 22-24.
r 2 5. Bultmann, Theol., 3 12 (tr. it. 295): «Èv Xptrr't'cj>, lungi dall'essere una formula di
unione mistica, è prima di tutto una formula ecclesiologica, e designa l'inserimento
nel rrc;ip.a Xptrr't'OU mediante il battesimo ... ». 126. lbid.
Le lettere di Paolo 113

menti teologicamente significativi. Consideriamo dapprima la citazione


di Js. 54,1 LXX in Gal. 4,27. Chiedersi se qui Paolo stia seguendo il
metodo rabbinico, che a una citazione tratta dalla torà fa seguire una
citazione profetica, non porta molto lontano, dato che al v. 22 non si ha
una citazione formale della torà. Tuttavia non occorre certo discutere
sul fatto che probabilmente la metodologia rabbinica traspare comun-
que nonostante que~ta che, misurata con crite;i rabbinici, ~ una c~renza.
Se ciò fosse vero, s1 sarebbe ottenuto poco, m quanto ne una nsposta
positiva né un.a ne~ativa ~g~iungerebbe ~~lto alle nostr~ considerazio-
ni. Solo una nfless1one d1 tipo contenutistico consente d1 fare un passo
avanti.
In Is. 54, 1 viene interpellata Si on, ovvero Gerusalemme. 127 Il Deute-
ro-Isaia la invita a gioire ricorrendo a un motivo che è caratteristico pro-
prio della topica relativa a Sara: la sterilità prodigiosamente vinta da Dio
(Gen. 18,10 ss.). 128 Per Joachim Rohde, Paolo ha interpretato questo
annuncio profetico di salvezza come un'asserzione riguardante Sara, e
lo ha applicato alla comunità cristiana. 129 Ma non si dovrebbe piuttosto
presumere che Paolo abbia riconosciuto l'apostrofe a Sion-Gerusalem-
me in Is. 54, e che poi nella fusione di Sara e Gerusalemme abbia svilup-
pato la propria comprensione? La tesi di Gal. 4,25, che ci appariva tanto
bizzarra, non potrebbe addirittura avere una delle sue radici in ls. 54,1?
È lecito constatare addirittura che Paolo, con la sua prova scritturistica
di Js. 54,1, non era poi tanto distante dalla fusione tipologica di Sara (e
Rebecca ecc.) e Sion del Deutero-lsaia? Nonostante la forte deviazione
dal senso letterale di Gen. in Gal. 4,2 5, Paolo non è poi così lontano dal
senso letterale di Is. 54,r. Certo, egli pone ogni cosa sotto il segno cri-
stologico: ciò che in Gen. veniva riferito a proposito di Sara, che egli
equipara implicitamente alla Gerusalemme di lassù, viene da lui messo
in relazione con questa Gerusalemme superiore. Come i cristiani sono i
figli liberi della donna libera Sara, così sono anche figli della Gerusalem-
me di lassù, in piena coerenza con l'argomentazione presentata in Gal.
4,21 ss.
E forse non è sbagliato leggere ancora qualcosa tra le righe del ragio-
namento di Paolo: l'apostolo invita la sterile a rallegrarsi perché diven-
~erà madre di molti figli - dunque di molti credenti in Cristo. Ma se si
invita la madre a gioire, tale invito vale certo anche per i figli. Quando
Paolo vuole che i galati si rendano conto del bene grandissimo che è la
libertà, li esorta a gioire. Libertà e gioia: due dimensioni inscindibili
l'una dall'altra. Solo chi è libero può essere lieto. Solo chi è libero è lie-
127. B. Duhm, Das Buch }esaja. Con prefazione di W. Baumgartner, Géittingcn
1 1968, 407: «Sion viene interpellata, ma non nominata ... Sion è sterile, non ha genera-
to ... ,..
1 ~8. Il termine 'aqara ricorre sia in Gen. 11,30 per Sara (Sarai), sia nel passo di Is. 54,
11n esame. 129. Rohde, ThHK, 201.
114 La teologia di Paolo

to. Nel v. 28 Paolo si rivolge nuovamente ai galati, non più col tono am-
monitore che aveva al v. 21 ma con l'appellativo «fratelli» che aveva usa-
to in 4,12. Come un tempo Sara in virtù della promessa di Dio era stata
liberata dalla sua sterilità diventando madre di molti figli, così anche i
galati sono figli di questa promessa. La chiesa è il luogo in cui la pro-
messa di Dio si realizza nella fertilità, ossia con la moltitudine dei cre-
denti provenienti da tutte le nazioni.
Ma dopo l'invito alla gioia Paolo si affretta a tornare alla grave situa-
zione presente. Come allora colui che era stato generato xai;à crapxa ave-
va perseguitato quello nato xai;à 7t\IEUfJ.a, così succede anche adesso (4,
29). Carne contro Spirito: un'opposizione che Paolo svilupperà tra poco
(5,17) nella parenesi, con un significato diverso, ma che per ora resta
limitata al piano della chiesa. Qui l'apostolo potrebbe aver visto l'agita-
zione provocata dai giudaisti in connessione con la persecuzione della
chiesa - che un tempo lui stesso aveva praticato - (òiwxw in l, l 3 e 4,29).
Così facendo ha praticamente scomunicato i giudaisti. Di fronte a una
situazione tanto rischiosa è meglio dare nuovamente ascolto alla Scrittu-
ra. E questa afferma proprio ciò che per Gen. 21,10 veniva pronunciato
innanzitutto da Sara, ma che per il v. 12 è proferito da Dio stesso.' 30 Sa-
ra ordina di scacciare la schiava, e insieme anche il figlio di lei. Tuttavia
in Gen. non si accenna a una persecuzione di Isacco da parte di Ismae-
le.131 Ecco dunque una differenza tra l'Antico Testamento e la sua
comprensione da parte di Paolo. Ma ancora più importante è chiedersi a
che cosa miri l'apostolo citando Gen. 21,10. A quanto pare, implicita-
mente esorta i galati a scacciare dalle comunità i giudaisti in contromis-
sione. Hans Dieter Betz potrebbe aver ragione quando ritiene che «scac-
ciare» (Èx~aÀÀEtv) vada preso alla lettera: «Con i giudei Paolo agisce
esattamente come i suoi avversari giudeocristiani vorrebbero agire con
lui». 132 Nel senso inteso da Betz, qui «giudei» starebbe per giudaisti. 133
Con il òi6 riassuntivo di Gal. 4,3 l Paolo torna al suo intento originario,
che è quello di ricordare con la massima chiarezza ai galati che essendo
figli della donna libera sono liberi essi stessi. Ecco dunque la conclusio-
ne in 5, l: «Cristo ci ha affrancati per la libertà; state dunque saldi (in es-
sa), e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù».
I contorni teologicamente rilevanti di Gal. 4,21-5,1 qui sono stati
tracciati senza che sia stata data una risposta alla vecchia questione spi-
nosa: si tratta di una tipologia, di un'allegoria o di un mixtum composi-
tum di entrambe? Se anche si specificano questi due concetti nella ma-
niera consueta - intendendo con tipologia una corrispondenza tra due

130. V. sopra a Gal. 3,8 / Gen. 12,3.


13 I. V. i commentari. lJ2. Betz, Herm., 430.
133· Op. cit., 430 n. 120. In complesso per Gal. 4,29 s. cfr. soprattutto Mussner, HThK,
329 ss. (tr. it. 502 ss.), che con Zahn pensa ai giudaisti infiltrati.
Le lettere di Paolo I I 5
eventi o due persone in cui si ha o un superamento del «tipo» da parte
dell'«antitipo», o un'antitesi di entrambi, e con allegoria l'enucleazione
di un significato più profondo che di norma ignora il senso letterale - ta-
le distinzione è di ben poco aiuto nella comprensione di 4,21 ss. Ciò di-
pende tra l'altro dal fatto che qui si ha un riferimento all'Antico Testa-
mento ripetuto eppure differente. Certamente anche in Is. 54,1 si ha un
elemento allegorico, poiché quando il Deutero-lsaia prende in conside-
razione le asserzioni di Gen. sulle donne sterili vede in tali racconti un
significato più profondo. Tuttavia neanche qui si può trascurare del tut-
to un elemento tipologico. Certo, formalmente non si ha né un'allegoria
esplicita né una tipologia esplicita. Tratti indubbiamente tipologici si ri-
scontrano in Gal. 4,29, anche se ancora una volta non è propriamente la
tipologia a pre>jalere. Infatti, già allora si era verificato un evento xa'tà
7t\IEU!J-a! E il p1euma non può certo essere superato. ' 34 Neppure Sara
viene «superata», poiché in quanto libera è madre di liberi. E la nostra
madre libera, così come la Gerusalemme superiore, baluardo della liber-
tà, è nostra madre. La stessa cosa si può dire a proposito dell'impiego da
parte di Paolo di Gen. 21,ro in Gal. 4,30.
Ancora una volta si evidenzia che Paolo è interessato al-
l'evento storico di allora. La figura storica di Sara e le altre fi-
gure menzionate da Paolo in questo contesto non divengono
affatto schemi allegorici destoricizzati, né perdono la loro
realtà storica. Ma neanche vengono ridotte a semplici typoi nel
pensiero tipologico, al punto che la vera realtà storica viene
attribuita solamente all'antitipo ad esse superiore. Si tratta di
una visione d'insieme tipologica specifica. Sara e la Gerusa-
lemme di lassù vengono pensate e viste insieme. In qualche
modo formano un'unità spirituale. Come si è visto, già il pas-
sato è un passato salvifico. In prospettiva teologica, passato e
presente sono nuovamente intrecciati insieme in maniera sin-
golare. Infatti, come la fede di Abramo, già allora giustificante
(3,6-9), nel pensiero di Paolo stranamente si interseca con l'af-
fermazione per cui solo con Cristo è venuta la fede (3,2 3), così
anche adesso in 4,21 ss. emerge un modo di pensare che ha
una struttura simile. Si è davanti a una visione singolarmente
spezzata del passato: esso è già tempo di salvezza, eppure an-
cora non lo è. ' 35 La storia dei patriarchi è presa in seria consi-
134. Qualcosa di simile emergerà anche in / Cor. 10,1 ss.
135. È soprattutto Ebeling, Die Wahrheit des Evangeliums, a riflettere approfondita-
116 La teologia di Paolo

derazione per noi nella sua storicità e insieme nel suo signifi-
cato storico. Ogni argomentazione che ricorra all'espressione
usuale «storia della salvezza», tuttavia, sarebbe inopportuna.
Qui infatti - come anche nelle altre epistole paoline autentiche
-, non si ha una storia della salvezza nel senso di un continu-
um storico. Dove la storia nella sua storicità è teologicamente
importante, lo è solo perché già allora Dio era intervenuto in
determinati eventi. Solo dove il Dio trascendente è intervenu-
to di tanto in tanto nella storia immanente essa è storia della
salvezza, repraesentatio nel senso stretto del termine - il farsi
presente -, rilevante per il presente. Emerge dunque che con-
cetti ermeneutici consueti come tipologia o allegoria applicati
a Gal. 4,21 ss. possono fornire un aiuto solo molto parziale
alla comprensione.
Con Gal. 5,2 ss. Paolo riprende il tema della circoncisione. Se nell' argu-
mentatio che prendeva le mosse da 3,r ss., in una sequenza di tappe ar-
gomentative concatenate, aveva presentato l'opposizione contradditto-
ria esistente tra i due modi di esistenza dalle opere o dalla fede, e in que-
sta argomentazione ben articolata non aveva affatto inserito il tema del-
la circoncisione expressis verbis - neanche lapropositio di 2,16 è formu-
lata con espressioni che riguardino tale tema -, ora, concludendo la se-
zione argomentativa vera e propria della sua lettera, vi fa nuovamente
ritorno. E proprio questo movimento dell'argomentazione dalla legge
alla circoncisione, dunque dal problema teologico fondamentale alla que-
stione che aveva dato il via alla controversia, mostra che almeno 5,2-6 è
ancora parte integrante della argumentatio. ' 36

Dopo aver spiegato in 5,2 che con la circoncisione si ha la


perdita dell' «utilità» di Cristo, in 5,3 Paolo presenta la sequen-
mente sul problema dcl tempo in Gal., anche se non in riferimento a Gal. 4,21 ss. In-
terpretando Gal. 3,15-25 afferma (p. 272): «Il tempo vissuto non è semplicemente -
se mai - un continuo presente nel flusso temporale, bensì passato e futuro resi pre-
senti ... ». È il grande pregio ermeneutico di questo commento a Gal. l'aver enucleato
l'importanza teologica della problematica temporale. Ebeling, op. cit., 273 s., vede la
dimensione profonda del tempo come un acutizzarsi dell'assoluto nel relativo, del
definitivo nel provvisorio. Se in tal senso la dimensione profonda del tempo è l'eter-
nità, la dimensione profonda del male è il peccato.
136. Betz, Herm., 66. 433, fa terminare l'argumentatio con Gal. 4,31, e fa iniziare la
exhortatio con 5,1, come già NTS 21, 375. Contrario in particolare Merk, ZNW 60,
83 ss., il quale giustamente vede in Gal. 5, 12 la conclusione dell'argumentatio e di
conseguenza in 5,13 l'inizio della parenesi.
Le lettere di Paolo I 17
za teologica «circoncisione - torà»: chiunque si faccia circonci-
dere (mbrn [!] àv-8pwmp) è obbligato a compiere tutta la leg-
ge, oÀOV 'tÒV v6p.ov 7tO~Yjcrcu. Ma, alla luce dell' argumentatio pre-
cedente, ciò significa che chi si fa circoncidere si avventura per
un falso cammino di salvezza. Fino a questo momento tutti
hanno fallito nella legge, perché nessuno ha compiuto tutta la
legge (Gal. 3,10). Chiunque si faccia circoncidere, con ciò ha
elevato eo ipso la legge invece della fede a principio della giu-
stificazione. Farsi circoncidere equivale dunque a ignorare
sprezzantemçnte la fede, a disprezzare Cristo. Qui il pensiero
di Paolo rico)rre nuovamente alle vecchie categorie giudaiche,
e perciò egli /non può vedere la circoncisione se non nella sua
relazione con la legge. Una volta ammessa questa visione teo-
logica, non resta che trarre la conseguenza espressa al v. 4:
chiunque si faccia circoncidere si separa ostentatamente da
Cristo, in quanto la circoncisione implica essenzialmente l'idea
della giustificazione in base alla legge, ossia al compimento di
quanto la legge prescrive. Chi compie questo passo ha per for-
za rinnegato la fede ed è quindi destinato alla corruzione. In
breve, in linea di principio la circoncisione è il cammino che
conduce all'empietà. Gal. 5,3 s. tira dunque le somme dell' ar-
gumentatio. 137
Tale conclusione è espressa nell'argomentazione di Paolo in modo tal-
mente categorico, talmente apodittico che - come si è già accennato -
non si può fare a meno di chiedersi in che modo l'apostolo al sinodo di
Gerusalemme abbia potuto tenere ancora in piedi la comunione eccle-
siale con i giudeocristiani, che pure continuavano a praticare la circon-
cisione. Perché non valeva anche per loro il «no» così sostanziale alla
circoncisione, che pure per definitionem costituisce l'obbligo, sul cam-
mino verso la salvezza basato sulla legge, teologicamente squalificato?

137. È proprio questa circostanza a rendere infondata l'obiezione di Sanders, Raisa-


nen ecc. contro l'interpretazione «luterana» o «luterano-esistenziale» della teologia
paolina. Questi esegeti hanno ragione a richiamare l'attenzione sulla distinzione tra
ciò che è cristiano e ciò che è giudaico in Paolo. Ma non sono solo condizioni socio-
logiche, come ad es. la circoncisione, a caratterizzare e definire il giudaismo, e ad es-
sere state teologicamente considerate da Paolo in questo senso. È sì merito di Watson
l'aver ricordato nuovamente la dimensione sociologica, ma è un errore scientifico-
teoretico fondamentale quello di mettere in gioco gli aspetti sociologici contro quelli
teologici. È il 7tpùii:ov <JiEuÒoç del pensiero monocausale.
II8 La teologia di Paolo
Gal. 5,3 s. non è certo formulato in modo tale da far valere un giudizio
teologico così apodittico solo per gli etnicocristiani. A mio parere, la
questione che qui si pone è la crux interpretum vera e propria per l'ese-
gesi di Gal.
Il v. 5 motiva ancora una volta il giudizio teologico espresso in pre-
cedenza. L'accento è posto chiaramente su èx 7ttcri:ewç. La frase è for-
mulata con grandissima densità teologica: vengono nominati insieme lo
Spirito, la fede, la speranza e la giustizia. Al v. 6 ricorrono invece le e-
spressioni essere-in-Cristo-Gesù, fede e carità. Questi due versetti co-
stituiscono addirittura un'intera dogmatica in nuce. Già in 3,r-5 Paolo
aveva espresso l'intima connessione tra Spirito e fede, affrontando così
all'inizio e alla fine dell' argumentatio la tematica dello Spirito: iniziando
e concludendo si rivolge ai galati parlando della loro esistenza di fede
nello Spirito. Tale tematica si ritrova anche al centro dell'argumentatio:
chi possiede lo Spirito del Figlio di Dio è egli stesso figlio di Dio, dun-
que libero, 4,5-7. Ma in 5,5 vi è la novità dell'accento escatologico: noi,
che esistiamo nello Spirito per la fede, attendiamo la speranza della giu-
stizia. Con ciò non è affatto relativizzato, o addirittura negato, il tempo
presente della giustizia ricevuta nella fede, ma il presente è espresso co-
me essenzialmente riferito al futuro escatologico. Stando a 5,6, in un pri-
mo tempo pare che - contrariamente all'argomentazione svolta sino a
questo momento - le due condizioni della circoncisione e della non cir-
concisione siano àòtai:popcx, ossia elementi irrilevanti, del tutto seconda-
ri.''8 Ma forse quest'affermazione è in grado di gettare un ponte teolo-
gico che unisca ai giudeocristiani già circoncisi: il fatto che siano stati
circoncisi è una circostanza irrilevante ai fini della salvezza (anche se co-
sì resta irrisolto il problema relativo alla circoncisione, che i giudeocri-
stiani continuano a praticare). A Paolo, comunque, preme ribadire che
solo «in Cristo» la fede ha un'importanza spirituale e teologica. Ma la
fede si esplica nella carità. Ciò significa che la fede non è tale se non ge-
nera carità. 7ttcri:tç Òt 'àyaTI'YJç èvepyou1J.É'l'YJ di fatto è un'espressione che
teologicamente porta l'esistenza cristiana al punto critico.
In Gal. 5,!3 il tono è analogo a quello di 5,r: voi siete stati chiamati a
libertà, dunque custodite la vostra libertà. Ma, al contrario di 5,r, grazie
al yap causale ( 5, r 3) è strettamente legato anche dal punto di vista for-
male a quanto lo precede. Contemporaneamente però, con l'accenno al-
i'agape il versetto è già orientato alla parenesi che segue subito dopo. È
sorprendente che ora l'esortazione alla carità venga motivata proprio da
un comandamento della legge. Più che strano, è addirittura sbalorditivo.
Fino a questo momento, infatti, Paolo ha parlato della legge
solo in termini negativi. Quando l'ha menzionata l'ha fatto
I 3 8. Analogamente rispetto a come pone la questione, ad es., Rohde, ThHK, 218 s.
Le lettere di Paolo l l 9

sempre con l'intento di sottolinearne l'inferiorità. Le «opere


della legge» ai suoi occhi sono espressione di un'autogiustifi-
cazione spregevole. Anche soltanto il campo semantico in cui
di volta in volta era inserito il VO[J.O<; ne sottolineava chiara-
mente la connotazione negativa. In Gal. 5,14, tuttavia, con
Lev. I9,18 Paolo cita l'invito a comportarsi secondo il coman-
damento dell'amore della legge mosaica per non giocarsi la li-
bertà - libertà dalla legge. Ma allora invita a compiere quanto
prescrive la legge per sfuggire al suo dominio di schiavitù?
Secondo Gal. 5,14, tutta la legge trova pienezza nel coman-
damento delliamore. Ma questa formulazione, che presentan-
dosi come fotmula quotationis documenta il proprio carattere
programmatico, fa spostare immediatamente l'attenzione sul
parallelo di Gal. 5,J s.: chiunque facendosi circoncidere si as-
sume l'obbligo di compiere tutta la legge, è separato da Cristo
e dunque dalla salvezza di Dio, e perciò ha rinnegato la fede.
La conseguenza non può essere che una sola: non bisogna as-
solutamente compiere tutta la legge. Ma ecco improvvisamen-
te 5,14: per non giocarsi la libertà (libertà dalla legge che rende
schiavi), alla fin fine bisogna proprio compiere tutta la legge,
consistente nel precetto dell'amore?
La contraddizione evidente tra 5>3 s. e 5, 14 permane finché
non sia riconosciuta la differenza tra «tutta la legge» di 5>3 e
«tutta la legge» di 5,14. È soprattutto questa traduzione (in ita-
liano come in varie altre lingue) a impedire in larga misura di
riconoscere la differenza. Ma la contraddizione scompare non
appena si presta la massima attenzione al testo greco origina-
rio e alle sfumature che danno origine alla differenza di conte-
nuto. Infatti, oÀoç 6 VO[J.O<; di 5,3 e 6 7taç VO(J.oç di 5,14 non so-
no espressioni equivalenti. Con il rifiuto di oÀov 'rÒv votJ.ov
7t'Otijcrat non è assolutamente vietato fare ciò che si intende
con 6 7t'aç v6tJ.o<;. IJ9
È chiaro ciò che intende Gal. 5,3 con oÀov -ròv VOiJ.OV norrjcrat: l'uomo de-
ve compiere tutto ciò che la legge prescrive. L'elemento decisivo è allora
quello quantitativo. Era già stato evidenziato a proposito di Gal. 3,ro:

139. V. però Betz, Herm., 470.


120 La teologia di Paolo

solo chi osserva la legge in tutti i suoi singoli precetti, senza eccezioni,
non è maledetto. Nel contenuto, Gal. 5,3 s. si trova dunque molto vici-
no al principio dcl tertium non datur di Gal. 3,10.' 40 Ma le cose stanno
diversamente per quello che riguarda 6 r.:iiç vop.oç in Gal. 5,14. Qui non
si afferma affatto che il cristiano deve compiere tutte quante le singole
prescrizioni della legge. Tant'è vero che non deve farsi circoncidere. Né
deve osservare le norme riguardanti i cibi (factum Antiochenum). Se
dunque si volesse interpretare r.:iiç in senso quantitativo, questo sarebbe
in contraddizione effettiva con l'argomentazione teologica complessiva
di Gal. Ora, r.:iiç in posizione attributiva definisce, secondo l'uso lin-
guistico greco, una totalità rispetto a una certa quantità, che costituisce
appunto tale totalità e consiste in una pluralità. In Gal. 5, 14, però, il r.:iiç
attributivo viene contrapposto a una unità, ossia a tutta la legge a sua
volta contrapposta all'unica parola, il comandamento unico dell'amore
per il prossimo.' 4 ' Ma se il 7tiiç attributivo, per essere convenientemen-
te espresso, esige di essere contrapposto a una pluralità, allora con l'ef-
fettiva contrapposizione Èv Èvl Àoycp Paolo intende provocare un certo
effetto linguistico di straniamento: la totalità dei presunti molti logoi a
cui voi galati ambite consiste in un unico logos. L'espressione 6 7tiiç vo-
p.oç con la sua affermazione qualitativa del comandamento dell'amore
deve dunque portare ad absurdum il postulato oÀoç 6 voµoç, inteso quan-
titativamente. 142 Maestro in lingua greca, con ciò Paolo intende dire che
tutta la legge di Mosè non è quella stessa legge di cui dice che «tutta»
vale per il cristiano.' 43 Ma allora quel «tutta» di Gal. 5,14 non com-
prende le innumerevoli prescrizioni della torà mosaica. ' 44 Quel «tutta»

140. Diversamente Liebcrs, Das Gesetz des Evangeliums, 78 ss. Questo è dovuto già
alla sua esegesi di Gal. 3,10: al 7tciç e al 7tcitnv «non si dovrebbe attribuire importanza
eccessiva», p. 78. Con tale concezione Liebers si avvicina a Sanders, Paul, the Law,
and the jewish People, ad es. 20 s. (tr. it. 49 ss.)
141. Hi.ibner, Das Gesetz bei Paulus, 37 ss. (tr. it. 76 ss.); Idem, KuD 21, 239 ss., non-
ché la bibliografia di p. 241 n. 1 l, soprattutto Ki.ihner-Gerth, Grammatik u/1, 632.
l 42. La differenza concreta non è tanto nella diversità fonetica tra oÀoç e 7tciç, quanto,
come si vedrà, nel fatto che 7tciç, a differenza di oÀoç, è utilizzato in senso attributivo.
143. In Das Gesetz bei Paulus, 38 (tr. it. 78) (v. anche KuD 21, 246), di fronte a que-
sto dato linguistico ho parlato di locuzione critico-ironica. Tale definizione è statari-
fiutata da certuni come non attinente, tuttavia la differenza teologico-contenutistica
tra oÀoç b vop.oç e b 7tciç vo1J.oç viene ampiamente ammessa e ripresa. Questo assenso
di fatto, tuttavia, per me è ben più importante di quello relativo a una formulazione
che a quanto pare è stata a volte fraintesa. Rinuncio perciò a riportare tale espressione
anche qui, nell'argomentazione esegetica, pur restando dell'opinione che essa esprima
esattamente quanto anche qui sostanzialmente non ho fatto che ripetere.
144· È quindi falsa la concezione di Andrea van Di.ilmen, Die Theol. des Gesetzes bei
Paulus, 60, secondo la quale b 7tciç vo1J.oç intenderebbe tutta la legge «Senza escludere
nessun gruppo di prescrizioni». Quando poi la studiosa afferma (p. 61) che tutta la
Le lettere di Paolo 121
riferito alla legge è contemttisticamente un'inaudita riduzione della torà;
al contempo, il comandamento della legge è tratto fuori dal contesto 145
delle opere della legge e quindi della giustificazione, o più esattamente
dell'autogiustificazione. Da tutto ciò, tuttavia, non bisogna assolutamen-
te concludere che le opere della legge che Paolo rifiuta contemplino so-
lamente determinate prescrizioni della torà, come, ad esempio, la circon-
cisione o i precetti alimentari. 146
Dunque Paolo gioca con il termine vop.oç, come con la parola 7taç. Il
significato di vop.oç viene così stabilito con connotazioni diverse me-
diante un campo semantico nuovo, sinora mai incontrato in Gal. Contem-
poraneamente anche òouÀe:ue:tv in 5,13 viene impiegato in senso positivo,
sebbene nel medesimo versetto stia insieme al termine ÈÀe:ufJe:picx. espres-
so con enfasi. Poco prima (4,24; 5, r) òouÀe:icx. era stato presentato come
quintessenza della sventura. La possibilità di esprimere VO(J.Oç in senso
positivo è fornita anche in Gal. 6,2 dalla definizione al genitivo wu
Xptcr't"ou riferita a vo1J.oç. Si può discutere sul fatto che b Ticiç VO(J.oç di 5,
14 equivalga a b vop.oç 't"0 j Xptcr't"oli. 147 In ogni caso, le due espressioni
1

sono perlomeno affini nel contenuto. Quando Paolo parla della legge di
Cristo non intende comunque la legge di Mosè.
Paolo dunque - certo solamente nel contesto parenetico -
può parlare in termini positivi della legge. Ma allora intende
quell'imperativo, originato dalla libertà dalla legge mosaica,
che impone di compiere ciò che è realmente scontato per il cri-
stiano. La «legge» di Cristo, dunque la «legge» messianica, di
conseguenza è sì una norma, ma una norma che dovrebbe
originarsi autonomamente dall'essere del cristiano in quanto
essere pneumatico (Gal. 6,r). Ma poiché nel suo esserci terre-
no il cristiano ha facoltà di peccare (6,1: f.v 'tt'Jt 7tapa7t'!WfJ-CX'tt),
l'obbligo di preservare e dimostrare l'essere pneumatico è irri-
nunciabile. La cosiddetta legge, dunque, per il cristiano è sola-
mente un'esortazione a compiere ciò che egli in realtà dovreb-
be già fare autonomamente in base al proprio essere di già giu-
stificato; non lo invita invece a compiere qualcosa ai fini della
propria giustificazione. 148
legge è compiuta nel momento in cui viene rispettato il solo comandamento dell'a-
more per il prossimo, tutta la sua concezione risulta viziata. Ad esempio, come viene
compiuto il precetto della circoncisione, pratica da evitare assolutamente, mediante il
compimento del comandamento dell'amore?
145. «Contesto• inteso ovviamente non come concetto letterario.
146. Così Dunn; per la sua ipotesi v. sopra. 147. V. i commentari.
148. In accordo con l'interpretazione qui proposta cfr., ad es., Rohde, ThHK, 230 n.
I 22 La teologia di Paolo

La questione è dunque perché Paolo giochi con il termine v61J.oç. È pos-


sibile che con lo straniamento linguistico di nciç voglia dire questo ai
galati: se proprio volete adempiere tutta la legge, allora con il comanda-
mento dell'amore avete «tutta» questa vostra legge. Ma potrebbe anche
essere che egli intenda v61J.oç come quintessenza di tutto ciò che gene-
ralmente comporta un modo di vivere vincolato, e che quindi, per poter
dichiarare nulla la legge mosaica, da Gal. 5'14 passi alla legge di Cristo in
Gal. 6,2. Non è la legge in quanto tale ad essere abolita, ma è la legge di
Mosè. Paolo infatti anche nella terminologia si attiene alle espressioni cru-
ciali dell'Antico Testamento, per esempio con ÒtcvS.~>n] (v. sopra). Allo-
ra parole come legge o diatheke sarebbero espressioni generiche per sus-
sumere la legge mosaica o la diatheke di Abramo.
Se fino a questo momento abbiamo preso in considerazione la pare-
nesi avviata in Gal. 5, I 3 dal punto di vista della problematica inerente
alla legge, nel seguito verrà trattato il tema del rapporto tra carne e Spiri-
to, crap~ e r.ve:up.a, espresso in Gal. 5. Che il cristiano, per quanto con-
duca un'esistenza da libero nella sfera di Cristo in virtù dello Spirito di
Dio, viva sotto la perenne minaccia della sua condizione salvifica, lo e-
videnzia già l'intento di fondo di Gal. I galati stessi stanno correndo il
rischio di perdere la libertà e dunque la salvezza. Ma Paolo non lotta
soltanto contro il pericolo principale, che è quello di giocarsi la salvezza
apostatando dal vangelo. Che per «tutta la legge» egli menzioni il co-
mandamento del Pentateuco dell'amore per il prossimo potrebbe essere
certo determinato da una situazione concreta all'interno della comunità.
La citazione in Gal. 5,14, infatti, fornisce la motivazione per l'esortazio-

28; Bruce, NCI, 241. Betz, Herm., 468 ss., ha riconosciuto distintamente la differenza
tra Gal. 5,3 e Gal. s, 14; nella sua interpretazione di 5, 14 si avvicina anch'egli, nel con-
tenuto, a ciò che affermo io, ma individua la differenza principale nei due verbi 7tOttiv
e r.À·IJpouv. Certamente Paolo ha ben ponderato la scelta di entrambi. Tuttavia in r.h1-
pouv è espresso anche l'elemento dcl «fare». Betz (op. cit., 470) ha visto giusto quando
definisce la vita cristiana un «frutto dello Spirito» (Gal. 5,22) e tale frutto un adempi-
mento della torà. La distinzione tra 7tOttiv e 7tÀ"f]pouv sottolineata da Betz è ripresa
espressamente da John Barclay, Obeying the Tmth, 139, per giudicare come «dead-
end», senza uscita, la mia «distinzione linguistica» tra Gal. 5,3 e Gal. 5,14 (op. cit.,
136 s.). La soluzione da lui proposta suppone in Paolo una consapevole «ambiguità»
nella scelta di r.À"f]pouv. Poiché nei LXX tale verbo non è mai stato usato in connes-
sione con la legge, e poiché esso non equivale all'ebraico ml', Paolo avrebbe potuto
impiegarlo in questo senso (op. cit., 140; corsivo mio): «Affermare che 'tutta la legge è
compiuta in un unico comandamento' lascia non chiarita la posizione dei comanda-
menti restanti. Descrivere la legge come 'ricapitolata' nel precetto dell'amore darebbe
l'impressione che essa debba essere osservata tutta (come un'espressione di amore),
mentre dire che è stata 'ridotta' al precetto dell'amore implicherebbe una rinuncia
esplicita al resto della legge, forse più di quanto Paolo intenda concedere a questo
punto della sua argomentazione». Così facendo, però, Barclay presume in Paolo, al-
meno tendenzialmente, una tattica di camuffamento.
Le lettere di Paolo 123
ne di 5,13 a non ridurre la libertà a semplice base operativa per la carne.
Il v. r 5 illustra vividamente cosa questo significhi: mordersi a vicenda,
divorarsi l'un l'altro. A quanto pare nelle chiese della Galazia si era da-
vanti a situazioni alquanto scabrose. È chiaro che qui crap~ indica nuo-
vamente l'esistenza peccaminosa, come in 3,3. 149 Ma con questa espres-
sione l'elemento che caratterizza tutte le proposizioni riferite alla crap~
nella parenesi di Gal. non è ancora espresso esaurientemente. Il termine
«carne» riceve in 5,13 il suo orientamento enunciativo vero e proprio
grazie alla connot~~ione assu~ta dal contes~o, in particolare con il ter~
mine opposto «Spmto». Con 1accentuato Àqw Òe:: m 5,16 Paolo esorta 1
galati a camminare nel~o Spirito, e ne!l'_espr~ssi?n1e 07tve::up.a:n _7te::pma't"e::t't"e::
il 7tve:up.a starebbe ad md1care lo Spirito di Dio. 5 Che qm Paolo non
abbia in mente1lo spirito dell'uomo è evidenziato da Gal. 3,2-5 ('t"Ò 7tve::u-
p.a eÀa~e:'t"e::, 6 em·x.oPli'wv up.iv 't"Ò 7tve::up.a) e 4,6 (e~ar.:Écr't"e::tÀe::v 6 .fJ.e::òç 't"Ò
7tve:up.a -çou •J[ou ai'.nou). Lo Spirito è dono di Dio ai credenti. Cammina-
re nel suo ambito d'azione è ciò che tout court si chiede ai cristiani. 151
7te:pma't"e::t v è espressione del pensiero veterotestamentario e giudaico. 1 52
Secondo Hans Dieter Betz, tale espressione esprime uno dei concetti più
importanti dell'antropologia e dell'etica antica, dei giudei quanto dci
greci: l'uomo deve scegliere tra due differenti strade di vita. l5 3
Ciononostante, nei LXX il verbo r.:e::pma't"e::tv di rado ricorre con que-
sto significato. In Prov. 8,20 ev Oòoiç ÒtxmoO"Ul]ç 7te::pma't"w non è il giu-
sto a parlare, ma la Sapienza preesistente; che poco dopo però, in 8,34,
afferma: p.axaptoç àv~p, oç e::1craxoucre::'t"at p.ou, xaì av.fJ.pw7toç, oç 't"àç ep.àç
6òoùç qiuÀa~e::t. Dci malvagi è detto in lji r r ,9: xux Àcp o[ àcre::~e::iç r.:e::pma-
't"OUO"t v. Per la halaka del giusto, in 1ji r, 1 ricorre il verbo r.:ope::ue::cr.fJ.at: iJ.a-
xaptoç àv~p, oç oùx er.:ope::u.fJ.l] Èv ~OUÀTI àcre::~wv. Tale verbo ha sovente
significato etico, ad es. Deut. 8,6: xaì qiuÀa~Tl 't"àç ÈnoÀàç xupiou 't"0 J 1

.Se:ou crou, r.:ope::ue::.fJ.ai ev 't"atç Oòoiç aÙ't"ou xaì qio~e::icr·.9m aiJ't"ov e lji 2 5, 1:
xpivov p.e::, xupte::, O't"t Èyw Èv àxaXtCf p.ou bt0pe::u.fJ.Yj'I.

149. Che crap~ possa definire in senso anche neutro l'esistenza terrena dell'uomo è pu-
re consuetudine linguistica di Paolo in Gal., ad es. Gal. 2,16; 2,20; 4,23. Quanto alla
problematica della carne in Paolo, ma anche nel!' Antico Testamento e nel giudaismo,
v. soprattutto Sand, Der Begriff «Fleiscl1» in den pa11linischen Hauptbriefen; op. cit.,
208 ss., per Gal. 51 13 ss.; v. anche Idem, EWNT III, 549-557, spcc. 550-552 (DENT
II, 1300-1309, spec. 1302-1304).
l 50. Così, ad es., Sand, Der Begriff «Fleisch», 211; Rohde, ThHK, 233; Corsani, Gal.,
351 s.
l 5 l. Betz, Herm., 473: «L'imperativo 'camminate nello Spirito' (r.veu1J.a'n r.eptr.a-cfr•e)
riassume la parenesi dell'apostolo definendo la concezione paolina di vita cristiana».
l 52. Per il pensiero giudaico rimandiamo qui a Test. I ss. 5,8 s. e in particolare a hlk in
l QS e l QM (v. Q11mran-Konkordanz). Per la contrapposizione tra carne e Spirito a
Qumran cfr. Hiibner, NTS 18, 268 ss. 153. Betz, Herm., 473.
124 La teologia di Paolo

Già le prime parole di Gal. 5,16 mostrano dunque come


Paolo formuli la propria parenesi seguendo le linee di pensiero
dell'Antico Testamento. Per lui, camminare nello Spirito si-
gnifica tutelarsi dal ricadere nella carne. Colui che esiste nella
sfera d'azione dello Spirito, che si lascia coinvolgere in questo
agire agendo a sua volta in linea con l'orientamento dello Spi-
rito, in fondo 154 non può assolutamente riprendere il cammi-
no della carne. Lo Spirito di Dio e la carne dell'uomo vanno
in direzioni opposte. Questa immagine viene addirittura indot-
ta dalla metafora delle due vie. Il termine «carne», nel senso in
cui viene impiegato da Paolo, potrebbe però essere già presen-
te nella tendenza enunciativa dei LXX riguardo alla crap~. Qui
tale parola indica tra l'altro la caducità dell'esistenza umana
(ad es. Is. 40,6-8: 7tacra cràp~ xop'rnc,, ... È~YJpav'8YJ ò x6p-roc,, ...
-rò ÒÈ p·~1J.a -rou -Dwu -fi1J.wv iJ.~VE( dc, -ròv a1wva), o piuttosto la
malvagità dell'uomo che affonda le sue radici in tale caducità
(ad es. Gen. 6,3, ove anche crap~ rientra nel contesto dello
Spirito divino: où IJ. ~ x.a-raµdvn -rò 7tVEUIJ.a µou Èv -roiç àv-8pw-
7tO(C, -rothO(C, dc, -ròv a1wva O(à -rò dvm aù-roÙç crapx.aç). 155
L'immagine presentata in Gal. 5,16 trova ulteriore concre-
tizzazione in 5,17. Spirito e carne non solo vanno in direzioni
diametralmente opposte, ma sono addirittura in lotta tra di lo-
ro. Se al v. r 6 si parla solamente di Èm-8u1J.la della carne, per
cui in un primo momento si ha l'impressione che Paolo inten-
da tale termine solo sensu malo, nel v. 17 Èm-DuµEI è soggetto
sia di crap~ sia di 7tvEuµa. Franz Mussner parafrasa il verbo con
l'azzeccata definizione «scuotersi di dosso un dominio». 156 So-
no due le potenze che qui mirano l'una a soggiogare l'altra.
L'essere umano è il luogo in cui per così dire il cielo e gli infe-
ri lottano tra loro. Tutto sommato sembra trattarsi di una lot-
ta impari: lo Spirito di Dio contro la carne dell'uomo. Cosa
può fare l'uomo contro Dio? Ma questo interrogativo retorico
l 54. Ma appunto solo «in fondo».
155· Cfr. però anche E. Schweizer, ThWb VII, 131,22 ss. (GLNT xr, 1347): «Il 7'i:veu-
IJ.et ... compare in dativo o col Òta strumentale, ciò che Paolo non fa col contrapposto
crcipç. La crcipç quindi non è una forza che agisce alla stessa stregua del 7'i:veu1J.a».
l 56. Mussner, HThK, 376 (tr. it. 569).
Le lettere di Paolo I2 5
maschera la situazione. 157 Lo Spirito di Dio, infatti, lotta su un
terreno che gli è sconosciuto. La carne sembra avere il «van-
taggio» di giocare in casa. Ma, soprattutto, lo Spirito di Dio
non combatte con la sua onnipotenza divina. Penetrando den-
tro l'uomo, realmente è già «Spirito» dell'uomo esistente sot-
to la sua direzione, e l'uomo si trova così a combattere contro
la propria carne. Dunque Paolo significativamente parla a più
riprese del pneuma dell'uomo. 158
Con Bultmann, tale concetto definisce «semplicemente l'io» dell'uomo,
certo «in un'ottica particolare ... , l'io che vive nell'orientamento, nella
direzione della ~olontà». 159 In tale contesto rimanda anche a Gal. 5,17.
«Ii 7tve:ii[J-a divino non è presentato da Paolo come una potenza che
opera in maniera, per così dire, esplosiva; al contrario, la sua attività è
guidata da una determinata tendenza, da un volere, così che ... gli si può
addirittura attribuire un è:m.Sup.e:Lv (Gal. 5,17)». 160 Allora Gal. s,r8 po-
trebbe persino essere parafrasato così: e:1 oÈ 7t'IEUIJ.(.("tL 7t'IE'JIJ.(.("t(.( UIJ.W'I
,, ' ' \ t \ , 161
aye:"taL, oux ECJ'"tL 'I U7t0 'IOIJ.0'1.

cr&:pç e 7tve:uµa 162 non esprimono un'antropologia dualistica.


I due termini definiscono ogni volta l'intero essere umano, in
primo luogo in quanto sede individuale della hamartia, in se-
condo luogo perché la persona è intesa come essere vivente e
volente. Si dovrà tener conto del fatto che qui Paolo non si-
stematizza utilizzando una terminologia antropologica perfe-
zionata. Quando Paolo parla dell'uomo, lo fa con intenziona-
lità teologica. Di conseguenza, la sua terminologia antropolo-
157. Op. cit., 377 (tr. it. 570): «Ma l'uomo è il campo di battaglia su cui si scatenano i
conflitti tra pneuma e sane. O meglio: ambedue lottano nell'uomo per contendersi
l'uomo».
158. Dietz Lange, Ethik in evang. Perspektive, 435-438 1 illustra il problema partendo
da una frase del teologo americano Daniel D. Williams (The Spirit and the Forms of
Love, 120): «L'essere amati crea una persona nuova»; op. cit., 436: «Williams inter-
preta giustamente questo rapporto affermando che Dio rende l'uomo partecipe della
potenza creativa dcl suo amore. Poiché l'amore di Dio vuole l'uomo come tale, e poi-
ché l'amore vuole la libertà dell'altro, nella fede l'uomo impara ad accettare se stesso
in quanto accettato da Dio, diventando così un soggetto libero». Lange non afferma
ciò direttamente a proposito della parenesi di Gal., però ne coglie appieno l'intento.
159. Bultmann, Theol., 207 (tr. it. 199), con rinvio, tra altro, a Fil. 1,27; I Cor. 1,10.
Riguardo a Gal. è da ricordare 6,18. 160. Op. cit., 208 (tr. it. 20).
161. Le cose stanno diversamente per I Cor. 5,3-5; v. op. cit., 209 (tr. it. 201).
162. Qui r.vtup.Gt ovviamente in senso antropologico.
126 La teologia di Paolo

gica, non del tutto equilibrata, è intesa in senso profondamen-


te teologico e non si lascia inserire in un sistema concettuale
teologico. In tal senso, dunque, in Gal. 5 Paolo punta ad e-
sprimere la dinamica della disputa tra volontà conforme e vo-
lontà contraria a Dio. Secondo una tradizione spiccatamente
veterotestamentaria, Dio e l'uomo sono esseri marcatamente
dotati di volontà; il volontarismo veterotestamentario - termi-
ne qui adeguato se lo si prende non nel senso propriamente fi-
losofico - diventa chiarissimo con la comprensione di realtà di
Paolo in Gal. 5.
John Barclay si interroga sulla funzione del materiale parenetico in Gal.
e, partendo da questo, intende giungere a una nuova valutazione della
teologia della lettera. Vede in modo diverso dal solito la situazione delle
comunità della Galazia, che indusse Paolo a redigere l'epistola. La cir-
concisione e l'osservanza della legge, in Galazia, non sarebbero state in-
tese semplicemente come «simboli teologici», bensì come «attività dalle
implicazioni sociali considerevoli». Ai galati stava a cuore la loro identi-
tà, oltreché un adeguato modello di comportamento come cristiani ( «their
appropriate patterns of behaviour» ). 163 È evidente la vicinanza alla po-
sizione di Watson, anche se Barclay emette giudizi alquanto differenzia-
ti a suo riguardo, individuando con chiarezza e criticando alcuni dei suoi
punti deboli più palesi. Ma, come in Watson, anche in lui si riscontra
una svalutazione della realtà teologica rispetto a quella sociologica, an-
che se non così radicale. È evidente una certa affinità scientifico-teoreti-
ca tra i due esegeti.
Secondo Barclay, proprio l'argomentazione teologica di Gal. eviden-
zia che ai galati interessava sapere come debbano vivere coloro che ap-
partengono al popolo di Dio. 164 Dunque, riprendendo il titolo della sua
opera, « ... Paolo è preoccupato di concludere la sua argomentazione in-
dicando come bisogna obbedire alla verità». 165 Ma il cristiano può ob-
bedire alla verità soltanto se è guidato dallo Spirito di Dio. Per questo
motivo Gal. 5,3-6,10 è «un'assicurazione che lo Spirito è in grado di
fornire vincoli e direttive morali adeguati». 166 Nel contesto di questa teo-
logia dello Spirito, Barclay vede la dipendenza della vita eterna dall' «o-
perato» 167 del credente (Gal. 5,4.21; 6,6-10). 168 L'etica di Paolo è dun-
que basata principalmente sulla sua teologia dello Spirito. Barclay non

163. Barclay, Obeying the Truth, 73 s.


164. Op. cit., 216: « ... la questione di come debbano vivere i membri del popolo di Dio».
165. Op. cit., 216 s. 166. Op. cit., 219. 167. In Barclay tra virgolette.
168. Op. cit., 227.
Le lettere di Paolo 127

nega che la teologia della giustificazione della lettera possieda implica-


zioni morali notevoli, 169 ma per lui essa è secondaria.
Nonostante le molte ottime osservazioni, le riflessioni e i singoli ri-
sultati, la tesi di fondo di Barclay si rivela sbagliata per via dell'errata in-
terpretazione di Gal. 3,ro ss., già ricordata in precedenza, 170 con il con-
seguente fraintendimento della teologia della giustificazione dell'apo-
stolo. Perciò - per usare le categorie euristicamente efficaci di Ed P. San-
ders - Barclay non è stato in grado di cogliere teologicamente la relazio-
ne reciproca tra categorie forensi e di partecipazione, e quindi di defini-
re il luogo della parenesi in Gal. Comunque ha saputo cogliere che que-
sta parenesi non viene sviluppata in generale, ma si riferisce alla situa-
zione concreta ~elle chiese in Galazia. 171
I
La teologia della lettera ai Calati:
essere davanti a Dio ed essere in Cristo
Se illustrando l'argomentazione teologica di Paolo in Gal. tutto som-
mato si è evidenziato il nucleo essenziale della sua teologia - accompa-
gnare Paolo nella sua argomentazione, condividendone la riflessione,
dimostra che nonostante tutti gli elementi polemici e dialogici la lettera
possiede un certo piano sistematico-, quanto è stato detto sino a questo
momento spinge ad approfondire ulteriormente la nostra personale ri-
flessione teologica sulla riflessione teologica di Paolo. A ciò si presta in
modo particolare l'esistenziale della situazione emotiva, carattere fon-
damentale individuato da Martin Heidegger nella sua analisi dell'esser-
ci.172 Tale espressione è forse un po' originale, ma quanto essa definisce
è essenziale per ogni giudizio su ciò che un uomo pensa e dice. Con essa
si intende che l'esserci umano esiste pur sempre in una determinata to-
nalità emotiva, in un determinato stato d'animo. Proprio per quelle af-
fermazioni che trattano di questioni fondamentali dell'esserci umano -
di cui fanno parte in particolare le questioni dell'esserci in relazione a
Dio - è indispensabile prestare attenzione al fenomeno della «situazione
emotiva».
Questa considerazione si adatta in modo particolare alla no-
stra comprensione della teologia di Paolo. E la sua consapevo-
lezza di aver rifugio «in Cristo», la sua autocomprensione co-
me «essere in Cristo»; ed è al tempo stesso la sua consapevo-
169. Op. cit., 223. 170. V. n. 143·
171. Per l'etica di Gal. cfr. anche Merk,Handeln aus Glauben, 66 ss.; Schrage, Die kon-
kreten Einzelgebote, passim.
172. Heidegger, Essere e tempo,§ 29: «L'Esser-ci come situazione emotiva».
128 La teologia di Paolo

lezza dell'essere in lui di Cristo e dello Spirito a dargli quel


forte sostegno che gli viene da Dio, consentendogli di supera-
re situazioni di crisi come nelle comunità della Galazia o a
Corinto. Da questa consapevolezza Paolo trae la forza per di-
re ciò che va detto, senza paura e con chiarezza. Tuttavia, essa
gli permette anche, nonostante tutte le polemiche, di accostar-
si con amore ai galati, di essere dunque capace di polemica e
amore a un tempo. Dal canto nostro, riflettere sulla teologia di
Paolo e riportarne solamente il contenuto teoretico significhe-
rebbe non considerarla in una dimensione essenziale.
Mal' «essere in Cristo» si basa sull' «essere davanti a Dio», o
più precisamente sull'essere davanti a quel Dio che giudica e
giustifica. L' «essere in Cristo», dunque, senza il contesto fo-
rense è teologicamente privo di fondamento. Senza l'esisten-
ziale della storicità appena ricordato, non è comprensibile nep-
pure il coram Dea forense che determinava già la tendenza di
fondo di 1 Tess. Chi sa di essere giustificato è diverso da colui
che nel suo essere non giustificato vive in qualche modo una
crisi di identità. Davanti all'ultima istanza che per lui ha valo-
re, infatti - qualunque essa sia-, egli non è quello che vorreb-
be essere. Ma colui che è giustificato davanti a Dio per mezzo
di Cristo possiede la propria identità in Dio, in Cristo. Perlo-
più non si tratta di un processo cosciente, di una riflessione
sulla propria identità espressamente compiuta. La «situazione
emotiva» nel senso illustrato perlopiù non è «oggetto» di au-
toriflessione critica. Ma se l' «essere davanti a Dio» e l' «essere
in Cristo» si incontrano in modo esistentivo, ciò assume un
grande valore per l'autocomprensione del cristiano.

In 1 Cor. Paolo approfondirà ulteriormente la sua riflessio-


ne sull' «essere in Cristo». Così, solo la presentazione della
teologia di questa lettera mostrerà come lo sviluppo teologico
prenda le mosse da 1 Tess. con il suo motivo dominante
dell' «essere davanti a Dio (e a Cristo)», per passare poi in Gal.
alla compenetrazione tra «essere davanti a Dio» (giustificazio-
ne) ed «essere in Cristo» (esistenza cristiana) per giungere al-
1' «essere in Cristo» teologicamente meditato (battesimo, cena
Le lettere di Paolo 129
del Signore). Nel significato profondo del verbo «com-pren-
dere», di fatto l'affascinante sviluppo teologico del pensiero di
Paolo può essere compreso solo da chi abbia egualmente com-
preso il suo proprio esserci come «essere davanti a Dio» ed
«essere in Cristo». Da un punto di vista ermeneutico è impos-
sibile una comprensione imparziale, «oggettiva», della teolo-
gia paolina. Ma allora, quanto fin qui si è detto di Paolo vale
anche per chi lo accompagna nella riflessione in modo com-
prensivo. Un modo più semplice non c'è. A meno che la teo-
logia non sia più - teologia.

e) La prima lettera ai Corinti


1 Cor. viene qui considerata uno scritto unitario, ritenendo altamente
improbabili le ipotesi relative a una sua frammentazione. 1 Tale giudizio
esegetico non è senza conseguenze per l'interpretazione di alcune peri-
copi della lettera, soprattutto I Cor. 8 e lo,14 ss. Per il carattere dell'ar-
gomentazione 1 Cor. si distingue notevolmente da Gal., non essendo
un'unità argomentativa teologica con una propria struttura. In essa Pao-
lo affronta una serie di singole questioni, dando a ciascuna una risposta
a sé. Visto come è concepita, non è necessario procedere a un'analisi re-
torica dettagliata della lettera nel suo complesso. Conviene invece ana-
lizzare più approfonditamente il procedere argomentativo delle singole
unità dell'argomentazione, e partire da qui per comprendere la conce-
zione globale che ispira la lettera. Verranno trattate le seguenti sezioni,
naturalmente con intensità e ampiezza assai differenti: 1 Cor. l,18-31; 2,
6-16; 3,18-23; 5; 6,12-20; 7; 8; 9,8-12.19-23; lo,1-13; lo,14-22; l l,2-16;
II,23-26; l 5. Inoltre, come consegue necessariamente dalle sezioni di 1
Tess. e di Gal. riguardanti lo Spirito, andrà presa in considerazione la
sezione dei capp. 12-14 relativa ai doni dello Spirito. 2

I. Per I Cor. come compositum di più lettere o di vari frammenti di singole lettere v.
soprattutto Schenk, ZNW 60, 219 ss.; Schmithals, ZNW 64, 263 ss.; Schenkc-Fischer,
Einleitung, 92 ss.; a mio parere vi sono motivi convincenti a favore dell'unitarietà di I
Cor. in Merklein, ZNW 75, 15 3 ss.
2. M. Bunker, Briefformular rmd rethorische Disposition im I Kor, presenta delle sud-
divisioni retoriche per I Cor. 1, 10-4,21 e I Cor. 15. Ma tentativi simili non riescono a
convincere. È molto difficile, ad esempio, riuscire a vedere nelle argomentazioni teo-
logiche(!) di 1,18-2,16 la narratio di 1,10-4,21. Solo 3,1-17 deve essere laprobatio.
l Cor. l-4: theologia crucis - theologia verbi crucis

Con l Cor. l,18-3 l ha inizio l'argomentazione teologica


importante ai fini della nostra trattazione. Essa affronta il mo-
tivo teologico centrale relativo alla parola della croce, 6 Àoyoc,
'rOU cnaupou, ma al tempo stesso mira a dimostrare che evento
e importanza di questa parola salvifica sono radicati nell' Anti-
co Testamento. La pericope mostra come poche altre la strut-
tura fondamentale del pensiero teologico di Paolo come intrec-
cio di soteriologia ed ermeneutica.>
La struttura di 1,18-31 è delimitata all'inizio dalla tesi motivata da una
citazione scritturistica, e alla fine dalla citazione riassuntiva. All'inizio,
Is. 29,14 fa parlare l'io di Dio; alla fine, Ger. 9,24 è l'esortazione rivolta
all'uomo, conseguente all'agire di Dio di cui si parla nella citazione isa-
iana. L'opposizione «Dio - uomo» dichiarata all'inizio, espressa nell'af-
fermazione che «la stoltezza divina in realtà è sapienza divina - la sa-
pienza umana in realtà è stoltezza umana», si trasforma in una relazione
positiva di corrispondenza tra Dio e l'uomo. Subito dopo la citazione
isaiana, Paolo pone tre interrogativi retorici facendoli seguire a formula-
zioni tratte da Is. I 9, I I s. e 33, I 8 s. LXX. L'intera pericope, tuttavia, è
stata scritta anche avendo presente Bar. 3,9-4,4, passo che mira alla cita-
zione di Geremia di 1 Cor. I ,3 I, la cui riduzione potrebbe essere attri-
buita allo stesso Paolo.

La struttura ermeneutica fondamentale del pensiero teolo-


gico paolino si evidenzia già nella tesi di fondo di l Cor. I, I 8.
A dominare è il pensiero esistenziale. Infatti la parola della cro-
ce è di natura differente a seconda di come viene recepita. Per
coloro che vanno alla perdizione è stoltezza, per coloro che
vengono salvati è potenza di Dio. 4 Ciò che il Àoyoc, 'rou cr'rau-
pou di volta in volta è, lo stabilisce l'atteggiamento dell'uomo,

3. Uno degli studi più interessanti sulla teologia della croce in Paolo è l'opera di Hans
Weder, Das Kreuz bei Paulus. Nell'ambito che interessa a noi non è possibile dilun-
garci nella discussione di questo studio, che è anche sistematico-teologico.
4. Anche l'argomentazione successiva mostra quanto siano impiegati in senso «dialet-
tico» p.wpla e òuvap.tc;. Secondo il v. 23, per i giudei si tratta di uno scandalo, e solo
per i greci di una follia. Ma tale distinzione non va applicata al v. 18. Qui si vuol dire
che tutti quelli che rifiutano la parola della croce, dunque anche i giudei, la conside-
rano espressione di massima stoltezza e dunque vanno incontro alla rovina per colpa
della loro ignoranza.
Le lettere di Paolo I 3I
in virtù del quale il logos divino diventa o stoltezza che rende
stolti i «sapienti» ( 1 ,20: è:p.wpave:v 6 .fhòç -r~v crocpiav -rou x6cr-
µou 5 ), 6 e dunque parola di condanna che ne fa dei perduti, o
potenza di Dio, òUvaµ&ç -8e:ou, che salva quelli che credono.
Certo, al v. 18 manca ancora mcr-re:ue:&v, ma già dopo il v. 21
piacque a Dio ò&à -ri)ç µwpiaç 'tOU XYJpU"([J-CX'tO(, crwcra& 'toÙç mcr-
'tE:UOV'tCXç.7 Se dunque la parola della croce è parola che una
volta giudica e condanna, e un'altra salva e assolve, con l' e-
spressione òuvaµ&ç -8e:ou si intende solo il suo opus proprium.
La vera, particolare potenza di Dio è di conseguenza la nuova
creazione escatologica, come Paolo ha già messo precedente-
mente in luce con xm v~ x-ricr&ç (Gal. 6, 1 5). Dunque Dio, es-
sendo colui che pronuncia la sua parola della croce, è il nuovo,
potente creatore escatologico. Ma solo se questa parola viene
accolta con fede e comprensione Dio, in virtù appunto di tale
parola, agisce in modo escatologicamente creativo. Insomma,
solo se si accoglie con fede la predicazione della croce Dio di-
venta operatore di salvezza nella sua dynamis. Soltanto laddo-
ve la predicazione, che esteriormente sembra una stoltezza,
viene compresa come sapienza di Dio, e dunque laddove vie-
ne compresa la parola di Dio, Dio è potente. Ma il non creden-
te inevitabilmente vede la croce come un evento assurdo; con
Albert Camus si potrebbe affermare che egli ascolta la parola
della croce come una semplice asserzione, riferita in modo so-
lo tetico a un significato globale presunto. 8 Almeno per quan-
to riguarda I Cor. 1,18 ss., Lutero ha avuto ragione con il suo
sub contrario. 9
La citazione di Is. 29,14 riporta il testo dci LXX ad eccezione di à.·lkt~­
aw (ivi xp .Jljiw). Siccome Paolo, a quanto pare, nel proprio testo dei LXX
1

5. Successivamente (Rom. 1,21 s.) Paolo definirà in maniera analoga quanti miscono-
scono il creatore con il pass. div. ÈtJ.t1)pav·9ricrav, parallelamente ÈtJ.ai:atùi-Bricrav (= ven-
gono ridotti a niente, «annientati•).
6. Un parallelo al positivo otxawiiv: Dio rende giusti gli ingiusti.
7. Qui tJ.opta viene impiegato in senso lievemente ironico, traducibile con «quella che
si dice stoltezza», in quanto tale termine è usato in riferimento ai credenti, ossia colo-
ro che appunto non considerano la parola della croce una follia.
8. Camus, Il mito di Sisifo, passim.
9· Al riguardo cfr. von Loewenich, Luthers theologia crncis, passim.
132 La teologia di Paolo

ha letto xpuqiw, ' 0 per ragioni di contenuto lo ha consapevolmente so-


stituito con à-&e:-r~crw. È difficile dire se abbia intenzionalmente ripreso
questo à-&e:-r~crw da qi 32,ro à-&e:-re:i ÒÈ Àoyicrµ.oùç Àawv xaL à-&e:-re:i ~ou­
Ààç àpxov-rwv; tuttavia, il passo si innesta talmente bene nell'intento di-
chiaratorio di Paolo che un tale modo di procedere va perlomeno preso
in considerazione."
La citazione introdotta dalla formula quotationis yÉypa7tWL
yap motiva certo solo l'opus alienum di Dio, il suo giudizio:
Dio annienta crocpla e cruve:crLç I l di «sapienti» e «intelligenti».
Per la prima volta in questo passo, in I Cor. r, r 8 ss., ricorre il
termine sapienza, che qui però è inteso come la sapienza degli
uomini messa sotto accusa; l'argomentazione, tuttavia, punta a
coordinare la sapienza e la potenza di Dio in un'unica imma-
gine del suo agire, v. 24. La sapienza di Dio consiste nella con-
cezione, stolta secondo il criterio umano di sapienza, per la qua-
le la parola di Dio è appunto una parola della croce. 13 Diet-
rich-Alex Koch osserva giustamente che la citazione isaiana
non solo conferma l'asserzione del v. r 8, ma descrive anche
l'efficacia del Àoyoç 'tou cr't"aupou come agire attivo di Dio. 14
Va anche annotato che già in questa prima citazione di I Cor.,
citazione che ha una funzione teologicamente costitutiva, Dio
manifesta in modo accentuato il proprio io. 15 Per Paolo questo
io in choÀw, a cui aggiunge un secondo io divino in à.S.e:'t"~crw,
è l'io di Dio che interviene a parlare nel tempo della sua azio-
ne evangelica. Certo, la formula quotationis rimanda a quan-
to scritto nella citazione isaiana, ma Hans Conzelmann ha
opportunamente osservato che non si tratta soltanto di una
«prova scritturistica»: «Il Dio dell'Antico Testamento parla
10. Solo i mss. 301 (rx sec.) e 564 (x sec.) leggono à&i;~crw. Johannes Weiss, KEK 9
(1910), 27 n. 1, ritiene tuttavia possibile che Paolo disponesse di un differente testo
dei LXX; certo non potremmo affermarlo. Giustamente Koch, Schrift als Zeuge, 15 3
n. 20, sostiene: «Il ricorso a una variante di traduzione prepaolina non è possibile ...
Per questo motivo non corrisponde al vero quando TNGr'' e NTGr' 6 ••• ritengono
à·/ki;~crw una parte del testo disponibile».
11. Così, ad es., H. Lietzmann, HNT• 9 (1949), 9.
12. Le due espressioni vanno considerate sinonimi.
13. V. anche Mc. 8,33. 14. Koch, Schrift als Zeuge, 274.
15. Qui Paolo compie già ciò che successivamente sarà costitutivo per la sua argo-
mentazione teologica di Rom. 9- 11; Hiibner, Gottes I eh und Israel, passim.
Le lettere di Paolo 133
oggi in modo diretto tramite questo libro». 16 La situazione
storica presupposta da Is. 29 è vista da Paolo come se si trat-
tasse del suo tempo. 17 Con l'io che manifesta nel libro di Isaia,
Dio parla ai sapienti testardi di Corinto, che nella loro cocciu-
taggine si rivelano ignoranti. Anche qui si evidenzia una volta
di più che in fondo la Scrittura nel suo messaggio è escatologi-
ca, ovvero riferita a quel tempo ultimo in cui vivono Paolo e i
destinatari della sua missiva. Qui però è Paolo in persona, in
quanto apostolo di Dio, ad articolare l'io di Dio e a scagliarlo
contro quanti, a Corinto, rifiutano la teologia della croce. Co-
me avversari di questa teologia individua «giudei» e «greci»,
ma naturalmente anche la controversia tra fazioni che si svolge
nella città. Tale disputa implica perlomeno il pericolo che la
theologia crucis venga scalzata. Dunque è in senso program-
matico che al v. 23 Paolo afferma: «Ma noi predichiamo Cri-
sto crocifisso». E dopo la frase che parla di scandalo e di stol-
tezza, nel v. 24 è detto - ricorrendo nuovamente a un linguag-
gio esistenziale -: «Per i chiamati, invece, sia giudei sia greci,
(predichiamo) Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio». Ma
per coloro che riescono a vedere solamente ciò che hanno da-
vanti agli occhi, la .Se:ou croqiia. è solamente 't"Ò µwpòv 't"ou .Se:ou,
e la .Se:ou òuva.µ~ç semplicemente 't"Ò àcr.Se:vÈ:ç 't"ou .Se:ou, v. 2 5.
Ma se i credenti sono i chiamati, allora i non credenti sono
necessariamente i non chiamati, e la condizione priva di sal-
vezza degli IÌ:7toÀÀuµÉvo~ è il risultato di una praedestinatio ge-
mina? 18 Da un punto di vista prettamente filologico, tale do-
manda è destinata a rimanere senza risposta. Ma se si conside-
ra seriamente l'accento ermeneutico-esistenziale del passo, al-
lora è proprio l'incontro storico con la parola della croce, con
il vangelo, a porre il singolo individuo di fronte alla scelta di
accogliere o rifiutare la predicazione missionaria. 19

r6. H. Conzelmann, KEK v, 61.


r7. Di fatto, così viene ad essere negata la situazione storica di Is. 29.
I8. Tale interrogativo si porrà nuovamente per Rom. 9; v. sotto.
r9. A favore di un'interpretazione non predestinaziana vi è forse anche il fatto che i
due participi del v. 1 8 sono al presente.
134 La teologia di Paolo
Al v. 20, con le reminiscenze bibliche cui si è già accennato, viene spie-
gato quanto affermato al v. 19 con la citazione isaiana. Non vi sono cita-
zioni in senso stretto, ma è chiaro che qui Paolo si esprime basandosi su
una grande familiarità con il linguaggio del libro di Isaia. Questa circo-
stanza tra l'altro induce a chiedersi se l'apostolo, citando formalmente
Is. 29,14, non avesse presente anche Is. 23,r r. Poiché sapienza e potenza
appartengono al medesimo campo semantico di I Cor. r,r8 ss. e Is., ma
con Is. 29,14 Paolo esprime solamente la distruzione della sapienza dci
«sapienti», con à:7toÀÉcrat a&rijc:; (se. Xavaav) 't~v icrxuv Is. 23,r r si trova
pur sempre in un punto centrale dello svolgimento dell'argomentazione
paolina. Comunque, questo oracolo profetico fa parte anch'esso della co-
incidenza tra i due campi semantici di /s. e di I Cor. r, r 8 ss.
In r,26-3 l Paolo mette in relazione l'idea dialettica di l
Cor. l,18-25 con la chiesa di Corinto. Questa è esempio viven-
te del fatto teologico appena menzionato: i corinti devono
guardare alla loro chiamata, 20 perché tra di loro non vi sono
"'l "'l
I I I I "'l "\
, '1' I "'l "'l > I I
7tO/\/\O~ crocpo~ xa-ta cra.pxa., ne 7tO/\/\ot ouva.-to~ e 7tO/\/\O~ e:uye:-

ve:i'ç. Il triplice E~e:ÀÉ~a.'to ò .{)e:6ç è ripreso da Bar. 3,27. 21 A fa-


vore di tale ipotesi gioca non soltanto il sorprendente campo
semantico comune al Cor. l,18-3 l e Bar. 3,9-4,4, ma anche e
soprattutto l'idea teologica fondamentale comune ai due bra-
ni, per cui Dio ha capovolto i criteri di misura e gli ordini di
grandezza di questo mondo. Certo, soltanto Paolo offre una
dialettica teologicamente meditata in base alla croce, ma è la
struttura del pensiero teologico in Bar. 3,9-4,4 a raggiungere,
nel pensiero teologico di Paolo, il proprio culmine teologico
basato sulla croce. Il sub contrario di Lutero, dunque, non
solo è basato sulla theologia crucis di Paolo, ma ha un presup-
posto linguistico e concreto nella pericope di Baruc. Tutta- 22

20. Anche 't~v ><Àijcnv up.ù1v al v. 26 consente il collegamento con quanto lo precede,
ossia con aÙ'totç 'totç ><Àl]'tOtç del v. 24.
2 r. Una dettagliata documentazione per questa e per le successive affermazioni è for-
nita da Hiibner, StNTU 9, 161 ss.
22. Solo en passant ci si può chiedere se nel triplice itou ... di 1 Cor. 1,20 non risuoni
anche il ripetuto r.ou ... di Bar. 3,14-16 (accanto al riecheggiare-indiscusso- di Is. 19,
12 e 33,18 s.). Agli argomenti menzionati in Hiibner, StNTU 9, 161 ss., andrebbe ag-
giunto anche Bar. 3,23: OU'tE u[ol 'Ayà.p oì È><~l]'tOUV'tEç 't~V auvEatv Èr.l 'tijç yijç, o[ EtJ.-
;;:opot 'tijç MÉppav ><al 8at1J.à.v ><al o[ tJ.u·.9oMyot ><al o[ È><~'l]'t'l]'tctt 'tijç auvÉaEwç, oòov
òè: aocp{aç oÙ>< Ì:yvwaav oùòè: ÈiJ. v~a-ll'l]actv 'tà.ç 'tfJt~ouç aÙ'tijç. Questa frase pesa for-
se come indizio a favore dell'ipotesi secondo la quale Paolo avrebbe tenuto conto di
Le lettere di Paolo 1 35

via, è decisiva la subordinazione dell'allusione a Baruc alla ci-


tazione di Ger. 9,24 in I Cor. r,3 r.
In r Cor. 1,3 r tale citazione è riportata in forma molto ridotta: 6 x.a.uxw-
(J-EVOç èv x.upicp x.a.uxaa·f:Jw. Se dovesse rivelarsi giusta l'ipotesi di H.St.J.
Thackeray, per il quale Bar. 3,9-4,4 è un'omelia su Ger. 8,13-9,23 per il
nono giorno del mese di Ab, giorno della distruzione del tempio, allora
«Baruc» e Paolo predicherebbero sul medesimo testo.2 3 Sullo sfondo
della ricezione di Baruc in I Cor. r, r 8 ss. e in considerazione del campo
semantico comune tra Ger., Bar. e I Cor., ecco dunque comparire sotto
una nuova luce il testo di Geremia presentato da Paolo in versione ri-
dotta. Si tratterebbe infatti di un compendio di tutti e tre i testi. Il testo
di Ger. 9,22 s. LXX riportato sotto mostra in modo evidente la coinci-
denza linguistica e oggettiva fra i tre testi:
M~ x.a.uxacr-f)w 6 crocpòç èv "TI crocpi~ a.ùwu,
x.a.i !J- ~ x.a.uxaafJw 6 lcrxupòç èv "TI icrxuL a.ù't"ou,
x.a.i (J- ~ x.a.uxaafJw 6 TIÀoucrwç èv 't"tj) TIÀou't"cp a.ù't"ou,
àÀÀ,~ Èv 't"OU't"q.> x.a.uxéx.crfJw 6 x.a.uxwp.e:voç
crUVtEL 'i x.a.i YL vwcrx.EL 'i O't"L
èyw d!J-L x.upwç 7tmwv EÀe:oç
x.a.i x.pt(J-a. x.a.i ÒLx.a.wcruVTJ'I Èltt 't"ijç yijç ...
In questo testo trovano corrispondenza le tre dichiarazioni di elezio-
ne di I Cor. r,27 s.: all'affermazione paolina secondo la quale è stato
scelto colui che nel mondo è stolto corrisponde che il sapiente non
debba vantarsi della propria sapienza; all'asserzione della scelta di colui
che nel mondo è debole corrisponde che il forte non debba vantarsi del-
la propria forza; all'affermazione della scelta di colui che nel mondo è
privo di valore corrisponde che il ricco non debba vantarsi della propria
ricchezza. Proprio qui emerge ancora una volta che il contesto di una
citazione scritturistica va interrogato ogni volta per scoprire se non ab-
bia potuto avere un'importanza decisiva per l'argomentazione teologica
dell'autore neotestamentario. Ci è lecito dunque supporre che Paolo citi
Geremia in forma ridotta, ma sfruttando prima l'intero contesto della ci-
tazione. Non solo, ma dal «segretario» del profeta prende in prestito an-
che idee ed espressioni. 24
Bar., tanto più che l'apostolo già in Gal. 4,21 ss. aveva sfruttato ai fini argomentativi
la figura di Agar come madre dello schiavo - e dunque di colui che non capisce.
23. Thackeray, The Septuaginta and jewish Workship, 95 ss.; Idem, Baruch, in A New
Cornrnentary on Holy Scriptures including the Apocrypha (ed. Ch. Gore et al.), Lon-
don 1928, 102-111.
24. Secondo Koch, Schrift als Zeuge, 3 5 s.42, si tratterebbe di una citazione ripresa
dalla tradizione orale, tutt'al più dalla predicazione sinagogale ellenistica o del primo
cristianesimo ellenistico, prepaolino. Ma Koch non si è curato di Bar. 3,9-4,4.
La teologia di Paolo

Si potrebbe far notare che la teologia di Paolo differisce notevolmen-


te da quella di Baruc, tanto più che questi espone le concezioni appena
riportate, affini a I Cor. l,18 ss., proprio nella cornice di una parenesi
sulla legge (Bar. 4,1: b vop.oç b urcapx.wv dç 'tÒV a1wva). Ma per quanto sia
d'obbligo tener conto del contesto veterotestamentario per citazioni e
allusioni cieli' Antico Testamento riportate nel Nuovo, tuttavia bisogna
anche considerare che Paolo poteva benissimo ignorare tale contesto
qualora non si prestasse ai suoi intenti teologici. 25
Di nuovo, rispetto a Gal., vi è la concezione espressa chiara-
mente per cui non possediamo alcun diritto di vantarci davan-
ti a Dio, dato che è da lui che abbiamo il nostro essere in Cri-
sto. Infatti, egli ha chiamato 'tà µ. ~ ona - non potrebbe esser-
ci modo più incisivo di esprimersi. In Gal. il tema del vanto
compare solo al cap. 6. Inoltre, l'affermazione in Gal. 6,4 è
piuttosto vaga; qui non trova ancora espressione la pretesa co-
sì apodittica dell'assoluta rinuncia a vantarsi davanti a Dio,
come accade in I Cor. r,29. In Gal. 6,4 è comunque implicita
la possibilità che un individuo, in base al proprio operato - è'.p-
yov al singolare - possa avere un xaux.11µ.a non di fronte a
qualcun altro, ma di fronte a se stesso. In Gal. 6, 14, ove Paolo
parla certo solo per sé, si afferma tuttavia che egli intende van-
tarsi solamente nella croce del suo Signore Gesù Cristo. Que-
sto passo, dunque, rispetto a Gal. 6,4 si colloca già un po' più
oltre sulla strada che conduce a I Cor. 1,29 per poi proseguire
sino a Rom. 3,2 7 ss. In I Cor. r ,29 la tematica del vanto è già
collegata a quella della giustificazione. Infatti, noi che siamo
«in Cristo» ci troviamo in colui che è diventato per noi oltre
che crocpla anche Ò&xawcruv11 (e ay&acrµ.6ç e cbt0ÀU'tpwcr&ç), I, 30.
Accettando dunque la parola della croce, se siamo «in Cristo»
siamo «in colui che è nostra giustizia». Paolo, tuttavia, nel suo
vocabolario teologico non ha ancora introdotto il concetto di
«giustizia di Dio», benché affermi già che per opera di Dio,
à7tÒ -8c.ou, Cristo è diventato giustizia per noi. Manca però an-
cora tutta la riflessione teologica relativa al «come» si arrivi a
questo essere-giustizia.
Al termine della pericope 1, r 8-3 r ricorre nuovamente il da-
2 5. Quanto fosse capace di trasformare nel suo contrario il carattere legalista di un te-
sto pentateuchico è mostrato dall'interpretazione di Deut. 9,4; 30,12 s. in Rom. 10,6.
Le lettere di Paolo I 37
tivo esistenziale ~tJ.iv, così caratteristico del pensiero teologi-
co paolino; contemporaneamente però, con à7tÒ -8e:ou si ha an-
che l'indicazione dell'origine della nostra esistenza. Questa di-
chiarazione «su» Dio, tuttavia, non viene espressa senza il ri-
ferimento simultaneo a colui al quale essa si riferisce. Non si
tratta dunque di una comunicazione relativa a una cosiddetta
verità generale su Dio. Espressioni come potenza di Dio, sa-
pienza di Dio, stoltezza di Dio, giustizia di Dio e simili sono
asserzioni «sull'»opera di salvezza o di sventura di Dio, affer-
mazioni riguardanti l'azione di Dio in relazione alla storicità
dell'uomo. Dio stesso è fatto parlare come essere storico, ov-
viamente in affermazioni solo teologiche. Di Dio si può parla-
re soltanto in termini di storicità da parte dell'uomo storica-
mente esistente.2 6 Ma questo parlare di Dio comporta neces-
sariamente un'autocomprensione ben precisa, che si esprime
nella citazione di Geremia in 1 Cor. r,3 r. La pericope 1 Cor.
1,18-31 ha dunque inizio con una tesi ermeneutico-soteriolo-
gica centrale, la cui spiegazione comincia con un pronuncia-
mento di Dio e si conclude con una citazione scritturistica
sull'autocomprensione cristiana. Il pronunciarsi dell'io di Dio
conduce dunque, con un'argomentazione teologica, all'affer-
mazione relativa all'uomo, introdotta tutte e due le volte da
yÉypa7t'tai. Questo arco, che dall'affermazione su Dio giunge
a quella sull'uomo, racchiude in nuce un compendio di teolo-
gia (teo-logia intesa in senso stretto), cristologia, soteriologia,
ecclesiologia ed ermeneutica - e tutto questo in un linguaggio
teologico estremamente audace, persino pericoloso.
Se ora ci interroghiamo sul rapporto tra Vetus Testamentum e Vetus Te-
stamentum in Novo receptum in questa «dogmatica in nuce», per prima
~osa emerge che nel v. 19 Paolo è riuscito ad esprimere meglio il proprio
Intento teologico ricorrendo non tanto al testo originario quanto piut-
t~sto alla traduzione dei LXX, che rispetto al testo ebraico presenta l'io
d1 Dio alla prima singolare. Il passo originale, certo un oracolo isaiano
autentico,2 7 mette in luce la lotta del profeta contro una devozione cul-
tuale ostentata. 28 Ma in Is. 29, r 3 s. Isaia non intende parlare in generale

2 6. Questa idea di fondo di Paolo si ripresenterà più volte.


2 7· H. Wildberger, BK.ATx/J, 1119. 28. Op. cit., 1123.
La teologia di Paolo

dell'ipocrisia di Israele; quello che ha in mente è piuttosto un evento


concreto al quale, tuttavia, si può accennare al massimo per supposizio-
ne. 29 Le persone di cui si parla in Is. 29,14, dunque, non sono in genera-
le i sapienti che vivevano allora a Gerusalemme, bensì coloro che in una
determinata situazione politica sostenevano una certa posizione nello
scontro con l'Assiria. 30 In r Cor. 1,18 s. con il testo dei LXX si esprime
l'attività diretta di Dio. La differenza tra T.M. e LXX, dunque, per certi
aspetti è maggiore rispetto a quella tra i LXX e Paolo. Chi effettuò la
traduzione greca non aveva certo più sott'occhio la situazione storica
che aveva indotto il profeta a pronunciarsi. La generalizzazione dell'o-
racolo profetico potrebbe quindi essere avvenuta già per la versione dei
LXX di Is. 29, 13 s. Ma allora tale testo, nei LXX, si troverebbe già sulla
linea che conduce all'affermazione di principio di Paolo. Ecco dunque
presentarsi nuovamente un caso in cui i LXX, con il loro messaggio teo-
logico, sono più vicini al Nuovo Testamento di quanto non lo sia la Bi-
blia Hebraica. 3' In ogni caso possiamo dare per certo che Paolo, per
quanto possa avere unito Is. 29,14 LXX alla propria tematica della cro-
ce, in linea di massima procedeva nella stessa direzione del testo vetero-
testamentario greco.
Anche per Ger. 9,22 s. dovrebbe trattarsi di un oracolo profetico au-
tentico.32 Citando tale oracolo in versione abbreviata e tenendo conto
di Bar., Paolo ha qui mantenuto una volta ancora e in misura maggiore
rispetto a quanto era avvenuto per Is. 29,14 LXX il tenore del messag-
gio veterotestamentario, anche se lo ha enfatizzato con il ricorso alla teo-
logia della croce. La visione teologica dell'antropologia profetica corri-
sponde comunque a quella di Paolo, per quanto l'apostolo possa aver ra-
dicalizzato la concezione veterotestamentaria. Concludendo, in r Cor. 1,
18-3 1 egli riporta all'inizio un oracolo profetico che mantiene almeno so-
stanzialmente l'intento enunciativo veterotestamentario, e alla fine un al-
tro oracolo profetico per il quale la stessa cosa vale in misura ancora mag-
giore. Per quanto riguarda I Cor. 1,18-31 va dunque osservato che, con
le citazioni di Is. 29,14 LXX e Ger. 9,23 s. e con l'allusione a Bar. 3,9-4,
4, lo scarto tra Antico e Nuovo Testamento non si è allargato poi di mol-
to; Vetus Testamentum e Vetus Testamentum in Novo receptum qui, per
alcuni aspetti essenziali, sono equivalenti, per quanto nelle affermazio-
ni veterotestamentarie sia ancora assente la specificità della teologia del-
la croce.
In I Cor. 2,1-5 Paolo parla di se stesso in modo tale da applicare alla
propria persona e al proprio operato missionario le caratteristiche della
29. Op. cit., 1119 s. 30. Op. cit., 1122 s.
31. Per la valutazione teologica dei LXX questo porta alle conseguenze a cui si è già
accennato nei prolegomeni del primo volume. Cfr. anche le osservazioni di Wildber-
ger su Mc. 7,6 par., Mt. 11,25 e 1 Cor. 1,19, op. cit., 1123 s.
32. W. Rudolph, HAT r/12, 69.
Le lettere di Paolo 139
figura teolo~ica concettuale ~laborata in P.r7ced~nz~. Ma, dal punto di
vista teologico, con la menz10ne dello Spmto s1 spmge ancora oltre a
quanto ~veva afferm~to in ~,18-3r. La questione dello Spirito, tuttavia,
diventera un tema a se solo m 2,6 ss.

Per 1 Cor. 2,6-16, 33 l'esistenza cristiana è essenzialmente


esistenza pneumatica. Certo, in 1 Cor. r,18-31 Paolo ha sapu-
to abbozzare la sua «dogmatica in nuce» senza la tematica del-
lo Spirito. Ora però, la digressione sull'ermeneutica cristiana
per eccellenza diventa al tempo stesso digressione sullo Spirito
di Dio. Non importa come si intendano i perfetti, -rÉÀe:w~, in
2,6, 34 in ogni caso in ciò che segue Paolo parla almeno ideali-
ter di coloro che in quanto perfetti comprendono ciò che è
importante per Dio e dunque anche per loro. Chi parla di
comprendere deve parlare dello Spirito. Paolo si esprime una
volta di più per antitesi: croqi(a -rou a1wvoç -rou'rou o croqila 'rwv
àpx6nwv 'rou alwvoç -rou-rou 'rwv xa'rapyouµÉvwv 35 - -8e:ou ao-
qila, 2,6. Paolo si esprime qui in modo apocalittico? Di apoca-
littico adotta comunque il tipo di linguaggio: noi parliamo -8e:ou
croqila Èv µucr-rriplcp -r~v à7toxe:xpuµµ€vriv, ~v 7tpowp~cre:v o -8e:Òç
7tpÒ 'rWV alwvwv e:k ò6~av -fiµwv, v. 7. Rientra nella natura di
questa sapienza, celata nel mistero fin dai primordi, l'essere
sostanzialmente sottratta alla conoscenza terrena.
Il modo in cui qui Paolo si esprime ricorda principalmente Dan. 2. A Da-
niele Dio rivela il mistero visto in sogno da Nabucodonosor. 36 La ter-
minologia di Dan. 2 è strettamente affine a quella di I Cor. 2,6 ss., oltre-
ché a quella di I Cor. 1,18. In I Cor. 2 ad essere trattato è il tema della
crotp[a, di cui è sinonimo la cruve:crtc; ( l, l 9). Secondo Dan., il Signore dona
crotp[a e cruve:crtc; ai (veramente) sapienti; dunque Daniele lo ringrazia per
33. Non convince M. Widmann, ZNW 70, 44 ss., per il quale I Cor. 2,6-16 sarebbe
una glossa piuttosto lunga aggiunta dal gruppo di entusiasti della chiesa di Corinto
come replica a quanto Paolo affermava in 1 Cor.
34. In senso ironico? O serio? Nella fede sono tutti dei progrediti? O si tratta di un
circolo esoterico? Cfr. i commentari, nonché Winter, Pneumatiker und Psychiker in
Korinth. A mio parere Paolo pensa a tutti i destinatari, non solo a un gruppo esoterico.
35. Che si tratti nuovamente di una allusione a Bar.? V. Bar. 3,16: 7tou dcnv o! &pxov-
't'Eç 't'wv Uìvwv ... ;
36. È vero, in Dan. 2,19 LXX (·9': 't'o !J.Ucr't'~pwv) si parla di !J.ucn~ptov 't'OU ~acrtÀÉwç;
ma naturalmente si tratta del mistero che in quanto mistero di Dio è stato dato al re
di vedere in sogno. E come tale è certamente iJ.Ucr't'~pwv 't'oli &ou.
140 La teologia di Paolo
averla donata anche a lui, al fine di poter rivelare il mistero al re, Dan.
2,2 I -2 3. Dio viene definito àvctxctÀU7t't'WV 't'à ~aiJia xctl O'XO't'Et va, Dan.
2,22 LXX (.{}': ctÙ't'Òç ànoxaÀun't'e:t ~aiJÉa xal ànox:purpa). Paolo sostiene
che Dio «a noi l'ha rivelato (il mistero)», àne:x:aÀu<fe:v, per mezzo del
suo Spirito; che lo Spirito scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio,
't'à ~aiJY) 't'oli iJe:oii, 1 Cor. 2,10. Anche il termine yivwcrx:w1 ricorre in
entrambi i testi, Dan. 2,22 ecc.; 1 Cor. 2, 11. In entrambi i campi seman-
tici compaiono ò61;a e lcrxuç. Dopo che Daniele ha svelato il mistero al
re, questi glorifica il Dio di Daniele e dei suoi amici, Dio degli dèi e Si-
gnore dei re, con le parole b Èx:rpal vwv p.ucr't'~ptct x:pun't'à iJ.Ovoç, Dan. 2,
47 LXX (iJ': ànoxaÀu<fm 't'Ò p.ucr't'~pwv 't'oii't'o).

La terminologia apocalittica di Dan. 2 pervade dunque la


digressione ermeneutica di I Cor. 2,6 ss. Con ciò, non è detto
che tra i due testi si dia una dipendenza letteraria diretta. Tut-
tavia entrambi hanno familiarità con il medesimo linguaggio
apocalittico. E poiché Paolo vive nell'attesa imminente - ben-
ché questa sia meno sentita all'epoca della stesura di I Cor. di
quanto lo fosse quando fu scritta I Tess. 4 -, non soltanto il
linguaggio e le immagini di I Cor. 2,6 ss. andranno considerati
apocalittici, ma anche l'intento stesso, per quanto nel passo in
questione non si percepisca nulla che faccia pensare ad un'at-
tesa prossima. In ogni caso, stando a I Cor. 2 è lo Spirito ari-
velare le profondità di Dio, poiché, essendo finalmente giunto
il tempo del disvelamento del piano salvifico divino, opera nel-
1' eschaton. Ecco cos'è il tempo escatologico. Tale accento esca-
tologico, però, corrisponde in tutto alla visione escatologica di
Dan. 2,44 ss. In linea con la digressione di I Cor. 2,6 ss., l' er-
meneutica è essenzialmente un'ermeneutica escatologica. In
questo contesto teologico la comprensione del mistero coinci-
de con la condizione di salvezza. Comprendere la salvezza e-
quivale a riceverla in dono da Dio.
È dunque indubbio che qui Paolo pensi in termini apoca-
littici. Ma l'elemento decisivo è l'importanza di questa apo-
calittica cristologica, che va ancora rilevata mediante l'inter-
pretazione. Come si pone l'apostolo nel quadro di questo com-
plesso di concezioni? Innanzitutto si colloca in una situazione
intermedia originale. Poiché la salvezza decisa da tempi imme-
morabili si è realizzata ora, e poiché essa è divenuta realtà ec-
Le lettere di Paolo

clesiale nel processo storico della fede, si tratta di un «g1a


adesso». Ma poiché la seconda venuta del Signore deve ancora
avvenire, è anche una situazione di «non ancora». Per dirla
con termini apocalittici che Paolo non usa, il vecchio e il nuo-
vo eone si sovrappongono nella situazione delle comunità cri-
stiane.37 Questa situazione «intermedia», tuttavia, non è una
caratteristica specifica cristiana, come mostra anche soltanto
l'analoga autocomprensione dei religiosi di Qumran. Ma se il
mistero ora rivelato è la nostra salvezza, realizzata in Cristo e
colta grazie alla fede, se in altre parole noi, in quanto salvati
perché credenti nella parola della croce, siamo per così dire la
realtà di questo mistero; se al tempo stesso questa realtà è di-
ventata la nostra doxa, predeterminata da Dio prima di tutti
gli eoni,3 8 allora ci è dato il sostegno più saldo che si possa im-
maginare. Noi stessi siamo in certo qual modo coloro che da
tempo immemorabile esistono nella salvezza, siamo celati e
protetti da secoli e secoli nel consiglio di Dio.39 Nessuna me-
raviglia che neppure tutte le potenze maligne di questo eone
riunite insieme ci possano fare del male. Il Dio della doxa da
sempre ci ha voluti come coloro che saranno glorificati pro-
prio con questa sua doxa, come coloro che ne saranno resi par-

37. In Paolo ricorre l'espressione ò cdwv oli'toç; ma «questo eone» non è da lui formu-
lato come contrario dell'eone futuro (ò alwv 1J.iÀÀwv). Paolo dunque non articola le
sue affermazioni teologiche ricorrendo alla terminologia che gli deriva dal classico
schema apocalittico dei due eoni. «Questo eone» per lui non è tanto un concetto tem-
porale quanto principalmente l'entità che si contrappone all'esistenza cristiana. È sim-
bolo della malvagità del mondo irredento, che si sta precipitando verso la propria
fine; v. Gal. 1,4: 37twç È~e'.À7J'ta1 -IJ1J.aç Èx 'tou alùivoç 'toii Èvecr'\"ÙJ'toç 7tOV7Jpou. Che nel-
l'espressione «questo eone» si celi anche un elemento temporale è inevitabile, vista
l'attesa prossima, e lo si può cogliere nel termine Èvecr'twç. Per questo Traugott Holtz,
a proposito di Gal. 1,4, può giustamente parlare di una storia presente descritta come
«cattiva»; in Paolo, il mondo presente non sarebbe più il mondo proprio del credente
(EWNT r, 109 s. [DENTI, 120 s.]).
38. La doxa, perduta per colpa del peccato (Rom. 3,23), ci è stata restituita come do-
no della redenzione avvenuta in Cristo. La doxa, come dimostra anche 2 Cor. 3,18 -
redatta poco tempo dopo I Cor. - è presenza. È partecipazione alla doxa di Dio (He-
germann, EWNT r, 838 [DENT r, 920)). Anche l'aoristo ÈÒo~acrev di Rom. 8,30 va in-
terpretato in tal senso (con E. Kasemann, HNT4 12a, 236 s.; H. Schlier, HThK VI,
273-275 [tr. it. La lettera ai Romani, Brescia 1982, 449-452)).
39. Quest'idea verrà ripresa più tardi nella scuola paolina: Ef 1,4.
La teologia di Paolo

tecipi. 40 Se dunque il fondamento della nostra esistenza pog-


gia su Dio, e questo da molto tempo, anzi da prima del tempo,
allora questo è il massimo che si possa mai dire a proposito
dell'uomo. La nostra esistenza salvifica presente è basata sul
«passato» di Dio! Ma davanti al mondo non è ancora stato ri-
velato tutto ciò che di meraviglioso è avvenuto per noi: il vero
e proprio eschaton, il giudizio universale, deve ancora venire.
Questa autocomprensione viene illustrata dalla citazione del v. 9. 4 ' La
crux interpretum riguarda il passo che Paolo riporta come citazione scrit-
turistica - sempre introdotta da xa-&.wç yÉypa7t't'at. Secondo Conzel-
mann, tale citazione non è riscontrabile né nell'Antico Testamento né
nella letteratura giudaica non canonica.42 Tuttavia, è palese il riferimen-
to a Is. 64,4 LXX e 65,16 s. LXX. È possibile che abbia ragione Anthony
T. Hanson, secondo il quale la fusione dei due testi sarebbe avvenuta in
epoca prepaolina. 43 Anche per Dietrich-Alex Koch si tratterebbe di una
forma prepaolina, la cui creazione però non sarebbe avvenuta indipen-
dentemente da Is. 64,J; a suo parere si tratta di un logion trasmesso a par-
te, di origine orale. 44
Prima di redigere la lettera ai Romani, Paolo potrebbe aver studiato
(ancora una volta?) molto approfonditamente Is. LXX, modificando
radicalmente la propria visione relativa a Israele in seguito a tale stu-
dio.45 Poiché con molta probabilità scrisse 1 Cor. non molto tempo pri-
ma di Rom., bisogna prendere seriamente in considerazione l'ipotesi che
già ali' epoca della stesura di 1 Cor. egli avesse familiarità con Is. 64,4 e

40. Per il concetto di partecipazione v. sotto.


41. Si potrebbe obiettare che la citazione, in quanto continuazione immediata del v.
8, deve motivare il perché i capi di questo mondo - sia che si tratti di esseri cosmici
ultraterreni (come sostiene, ad es., Otto Merk, EWNT I, 403 s. [DENTI, 446], in ap-
poggio a Conzelmann) sia che si tratti di dominatori terreni, eventualità che a mio
parere è la più probabile anche solo per via dell'fo-raupwcrav - non hanno riconosciuto
il Signore della doxa divina. Ma se davvero con questa citazione Paolo dovesse aver
inteso dare innanzitutto questa motivazione, allora alla fin fine non ha fatto altro che
esprimere la conoscenza dei -réÀ&wt del v. 6.
42. Conzelmann, KEK, 88. Giustamente Hofius, ZNW 66, 140 ss., ribatte a von
Nordheim, ZNW 65, 1I2 ss., che potremmo presumere nel nucleo originario giudai-
co del Testamento di Giacomo la fonte della citazione paolina; la sua dimostrazione è
evidente. Cfr. anche Sparks, ZNW 67, 269 ss. 43. Hanson, lnterpretation, 60.
44. Koch, Die Schrift als Zeuge, 41: «Dunque, anche tenendo conto del rapporto con
Is. 64,3 è evidente che Paolo conosce il logion da un impiego orale. Che lo consideri
una citazione scritturistica e come tale lo citi è comprensibile, considerata la vicinan-
za a Is. 64,3, tanto più che gli elementi che divergono da Is. 64,3 sono volutamente
formulati con un linguaggio biblico». 4 5. V. sotto, a Rom. 9-11.
Le lettere di Paolo 143
6 5,1 s. Non stupisce allora che egli faccia confluire assieme i due testi,
soprattutto pensando ad altri passaggi dove si ha lo stesso procedimento
_anche se non di tali dimensioni. 'totç àycmwoTv a1hov (terza riga della
citazione) è forse un'allusione a Sir. 1,10; tale eventualità diventa ancora
più proba~ile se siyensa ,che d,a Sir. 1'.1 in poi è d~lla crocpla ~?e si parla.
Sir. 1,1, 7tacra croqna 7tapa xupwu, ha m quella cnstolog1ca l mterpreta-
zione migliore. L'interrogativo che pone Sir. 1,3, crocplav 'tLç èl;tX,vtacrm,
si inserisce ottimamente nel contesto di r Cor. 2,6 ss. Secondo Paolo,
tale interrogativo per l'autore veterotestamentario di Sir. dovrebbe rice-
vere una risposta ancora negativa, che dovrebbe invece essere assoluta-
mente positiva per lo pneumatico cristiano. La stessa cosa si può dire di
Sir. 1,7. In Sir. 1,10, in relazione a 'toiç àya7twcrtv aÙ'tov si parla della òo-
crtç di Dio. Per certi aspetti, il campo semantico di Sir. 1 coincide con
quello di Paolo.
Prese singolarmente, tutte queste circostanze non sono altro che mo-
tivazioni di convenienza. Ma che siano in gran numero induce a chie-
dersi seriamente se Paolo non abbia letto i due brani di ls. insieme a Sir.,
facendone un'unica citazione. Il xa.Swç yÉypa7t'tat fa supporre che nella
citazione di r Cor. 2,9 Paolo abbia combinato insieme alcuni pensieri
della Scrittura fino a formare una frase intera che ne riprende ampia-
mente il linguaggio. La legittimazione teologica per lui sta nel fatto che
nella Scrittura egli vede l'unica voce dell'unico Dio.
Più importante è chiedersi quale obiettivo formale e conte-
nutistico intendesse raggiungere Paolo con questa citazione.
Una prima risposta potrebbe essere che servendosi della cita-
zione intendesse dire che solo noi, in quanto perfetti, com-
prendiamo cos'è la sapienza nascosta di Dio, e che di conse-
guenza la stessa cosa non avviene per quanto riguarda gli stolti
signori di questo eone. 46 Tuttavia, con la citazione Paolo in-
tende forse motivare il fatto che Dio ci ha reso accessibile ciò
che esiste al di là della sfera di quanto vediamo e percepiamo
concretamente?
Ora, la sequenza logica dell'argomentazione paolina dipende non da
ultimo dalla risposta che si dà alla questione di critica testuale relativa al
v. 10: bisogna leggere ~fl-t\I òé, oppure ~(J.t\I yap? Se si legge ÒÉ, allora il
v. 10 allude ai cristiani che posseggono lo Spirito di Dio; sarebbero loro
a vedere e a udire il mistero, al contrario degli stolti sovrani; «ma a noi»,
non a loro, Dio ha mandato la rivelazione per mezzo dello Spirito. Data

46. È ovvio che il testo della citazione non può essere forzato fino ad affermare che,
poiché amiamo Dio, egli ci ha fatto conoscere questa sua sapienza.
1 44 la teologia di Paolo

la sua collocazione, la citazione scritturistica innanzitutto affermerebbe


semplicemente che i carismi in essa menzionati non sono stati conferiti
ai capi. Solo il v. IO chiarirebbe che siamo «noi» le persone cui allude la
citazione. Ma se bisogna leggere yap, allora i vv. 9 e IO sono più stret-
tamente legati di quanto non appaia nelle altre lezioni. Si ha quasi l'im-
pressione che il «noi» sia già incluso nella citazione, e che non compaia
di nuovo solamente al v. IO. Tale versetto, che perciò ha valore causale,
asserirebbe dunque un dato di fatto che da parte sua non necessiterebbe
più di motivazione. Infatti, anche gli altri due yap dei vv. 10b e I I non
intendono certo motivare il v. Ioa, bensì dare continuazione alle sue as-
serz10m.
Comunque, quale che sia la posizione di critica del testo che si assu-
me riguardo al v. IO, in nessuno dei due casi la citazione del v. 9 compa-
re come motivazione del dato di fatto dell'esistenza pneumatica dei cri-
stiani. A quanto pare, parlando di condizione di grazia Paolo intende non
tanto motivare quanto illustrare. Nella sua argomentazione, perciò, la ci-
tazione non serve come dimostrazione scritturistica in senso stretto.
Nella premessa dell'argomentazione presentata in I Cor. 2,
6-16, la condizione di salvezza dei cristiani- intesi come pneu-
matici - è dunque, concretamente, anche la condizione di sal-
vezza dei corinti.47 In linea generale e di principio, due sono
gli aspetti da considerare:
1. Dio ha rivelato il mistero della sua natura più profonda,
't'à ~a-811 't'oli -S.wu, per mezzo dello Spirito, òià 't'oli nve:uµ.a't'oç,
V. IO.
2. Noi possediamo lo Spirito di Dio. Ma poiché lo Spirito
di Dio comprende ciò che è Dio, 't'à 't'oli -S.e:ou, anche noi com-
prendiamo ciò che Dio ci ha elargito, 't'à t.mÒ 't'OU -S.e:ou xccptcr-
-S.Éna.

47. Costituisce certamente un problema il fatto che al cap. 3 i corinti siano interpella-
ti come crcxpxixol e non come r.veup.cx'ttxoL Ed è comprensibile che Widmann, ZNW
70, 44 ss., qui scorga un elemento probatorio della propria tesi, che considera I Cor.
2,16 una glossa. Tuttavia non si può trascurare il carattere di riprovazione di I Cor. 3,
1 ss.: veramente voi siete ciò che ho affermato in 2,6 ss., ossia pneumatici. Ma nella
vostra battaglia tra fazioni non dimostrate affatto di essere pneumatici, bensì sarchici.
Il tono è ironico. Per spiegare la differenza tra I Cor. 2,6 ss. e 3,1 ss., quindi, è certo
superfluo ipotizzare che Paolo distingua nella comunità di Corinto due gruppi, i per-
fetti o pneumatici, e gli ancora imperfetti o sarchici (così, ad es., Conzelmann, KEK
v, 83 ss.). A ragione J. Kremer, EWNT III, 292 (DENT II, 1023) sostiene: «Secondo
Paolo, sono spirituali tutti i cristiani, anche se talvolta si comportano da 'terreni' (crap-
xt voç) e 'minorenni' (r Cor. 3,1), e non da 'perfetti' ('tÉÀetoç) (cfr. anche Gal. 6,1)».
Le lettere di Paolo 145
Ma affermando che noi comprendiamo solo -rà u7tÒ -rou
.{)e:ou "f,p..p~cr.{)f.vw., e non -rà -rou -a.e:ou, Paolo non opera una ri-
duzione? Questo interrogativo merita una risposta negativa,
perché Paolo non attenua l'affermazione secondo la quale noi
avremmo «ricevuto», ÈÀa~oµe:v, lo Spirito di Dio. Infatti, noi
possediamo Io Spirito di Cristo; enfaticamente 2,6-16 conclude
così: ~µe:i'ç ÒÈ vouv Xp~cr-rou è:xoµe:v. Se dunque Paolo asserisce
che noi possiamo comprendere ciò che Dio ci ha misericordio-
samente elargito, questo equivale a comprendere le «profondi-
tà di Dio», dato che contenuto della sapienza di Dio è la paro-
la della croce. 48 Per l'apostolo quindi le profondità di Dio e
l'agire di Dio nella croce di Cristo sono un tutt'uno. In altre
parole, la natura di Dio si rivela nel suo operato. Paolo non fa
differenza tra essere e fare. Perfetto, -rÉÀe:wç, è allora colui per
il quale nella parola della croce si è rivelata la natura di Dio. 49
Detto questo, non vi è neanche più motivo di chiedersi se
anche noi, quando abbiamo ricevuto lo Spirito di Dio che ci
consente di comprenderne le profondità, siamo diventati di
natura divina; in altri termini, se si dà un'unità di natura in
senso gnostico tra Dio e l'uomo pneumatico. È possibile che
Paolo abbia ripreso, inconsapevolmente o addirittura voluta-
mente, concetti (proto)gnostici per combattere gli avversari
gnostici con le loro stesse armi. 10 Il linguaggio paolino è no-
toriamente audace in quanto, nella terminologia che adotta,
sospinge talora l'uomo redento in una posizione paurosamen-
te prossima a Dio; ma il tenore generale della teologia paolina,
per il quale Dio resta Signore della sua creatura, stronca da su-
bito tale ipotesi. Dunque, il fondamento teologico-pneumati-
co dell'ermeneutica paolina è che noi «possediamo» lo Spirito
di Dio e che, secondo il principio per cui «il simile si conosce

48. Bene F. Lang, NTD 7, 41, per il quale la sapienza di 1 Cor. 2,6 non è «una sapien-
za superiore, che porta al di là del crocifisso». Contrario Conzelmann, KEK, 79, per
il quale si tratta di contenuti ulteriori del sapere che Paolo sino ad allora ha tenuto
nascosti ai corinti.
49. Chi voglia differenziare i pneumatici di 1 Cor. 2,6 ss. come gruppo a sé, contrap-
posto ai sarchici, deve dunque anche supporre che vi siano due diversi livelli di cono-
scenza spirituale. 50. Ad es. Winter, Pneumatiker und Psychiker,passim.
La teologia di Paolo

dal simile»/' in virtù di tale dono divino comprendiamo le


profondità di Dio come parola della croce. Se a proposito di 1
Cor. 1,18 ss. avevamo parlato della struttura fondamentale del
pensiero teologico di Paolo come intreccio tra soteriologia ed
ermeneutica, ora possiamo aggiungere che di questa struttura
fondamentale fa parte anche l'intreccio tra pneumatologia ed
ermeneutica. In Paolo si incontra dunque il triangolo teologico
«so terio logia-pneumatologia-ermeneutica».
1 Cor. 2,6-16 si conclude con la citazione di /s. 40,13, che con l'inseri-
mento del yap sembra avere funzione causale. Ma questo yap sostitui-
sce veramente una formula quotationis, magari yÉypa7t-rcu yap? Che Pao-
lo intenda addurre una citazione formale della Scrittura come prova scrit-
turistica? Innanzitutto colpisce che riporti il testo in forma abbreviata.
Che Paolo intenzionalmente voglia rendere più conciso il testo con un
«atto di appropriazione interpretativa»? 52 Di fatto il testo omesso, xaì
-rlç crup.~ouÀoç aù-rou èyÉve:-ro, non ha alcun significato per l'argomenta-
zione di I Cor. 2,6-16. Ma allora perché ha citato le parole di /s. 40,13 oç
crup.~t~acre:t aù-rov? Questa proposizione relativa non ha una funzione
specifica nell'argomentazione paolina, proprio come il testo omesso. 53
Se dunque Paolo, alla domanda su chi sia a possedere lo
Spirito del Signore, ossia lo Spirito di Cristo, risponde che «noi
abbiamo lo Spirito di Cristo», allora la sua argomentazione
punta a tale risposta, mira alla convinzione enfaticamente
espressa di 2,16c. Il breve interrogativo su chi possieda lo Spi-
rito del Signore presuppone una domanda più ampia e precisa,
come mostra l'argomentazione di 2, 10- 15 esposta precedente-
mente: «Chi possiede lo Spirito del Signore, così da compren-
dere le profondità di Dio, ossia la sua parola della croce?». E
quando Paolo risponde che «noi abbiamo lo Spirito di Cristo»
intende ribadire che siamo appunto «noi» a possedere questa
conoscenza. Chi crede veramente e dunque è indiscutibilmen-
te uno pneumatico, ha lo Spirito di Cristo e conosce ciò che
questo Spirito conosce delle profondità di Dio. Chi ha lo Spi-
5I. Per lo sfondo filosofico v. i commentari.
52. Koch, Schrift als Zeuge, 115 s.
53. ls. 40,13 LXX riporta il presente cru1J.~t~~, mentre Paolo cita il verbo al futuro,
O"UIJ.~t~acret. A lui preme solamente l'interrogativo o;(ç eyvw VOU'I xup(ou, intendendo
vouv come sinonimo di 7tvEU[J.a. Solo una speculazione che tiri a indovinare è in grado
di spiegare perché Paolo abbia omesso Is. 40,13b LXX citando invece 40,13c.
Le lettere di Paolo 147
rito sa ciò che sa Dio! Se dunque nel conclusivo v. 16 l'accento
non è posto tanto sull'interrogativo quanto su una risposta
che suona così trionfante, allora Paolo, nonostante il yap cau-
sale, potrebbe non aver proposto una dimostrazione scritturi-
stica in senso stretto. Le dichiarazioni cruciali sono presentate
in 2,6- r 6 con un linguaggio tetico, in particolare 2, r oa. r 2, ver-
setti il cui contenuto corrisponde al v. l6c. Paolo argomenta
partendo dalla fede; le due citazioni scritturistiche hanno più
una funzione decorativa che causale.
Colpisce la discrepanza tra il senso che ha Is. 40,13 nel contesto vetero-
testamentario e quello che ha il versetto nella citazione paolina. Inoltre,
i LXX si distaccano dall'originale ebraico. Il T.M. viene così tradotto:
«Chi ha diretto lo Spirito di Jahvé, e 'chi' è il suo consigliere che egli
istruisce? Con chi si è consigliato perché gli desse discernimento? ... ».54
Ma i LXX hanno: «Chi ha conosciuto il pensiero del Signore ... ?». Pro-
babilmente il traduttore ha letto hebfn invece di tikken, rendendo tale
termine con eyvw. 55 Ma ancora più importante è che Paolo ignori del
tutto il contesto di Is. 40. Alla domanda «Chi ha conosciuto lo Spirito
del Signore?» risponde con un enfatico «noi!». In Is. 40,13 invece, sia
nel T.M. sia nel testo dei LXX che da esso differisce, si tratta di un in-
terrogativo retorico a cui bisogna rispondere «nessuno». È l'assoluta su-
periorità di Jahvé sul mondo ad essere in gioco. Quando qui si parla di
Spirito di Jahvé, non lo si fa in stretto senso pneumatologico, ma s'inten-
de piuttosto «ciò che rende persona la persona di Jahvé; ciò che Duhm,
anche se in modo un po' troppo riduttivo, definisce 'organo della cono-
scenza del consiglio e della decisione divina', mentre per Volz, a suo mo-
do, è 'la sostanza spirituale di Jahvé che tutto comprende', nella quale si
trovano evidenziati soprattutto 'i tratti della volontà e della sapienza';
per W estermann infine, che pur essendo un po' parziale tuttavia centra
il punto cruciale, si tratta della 'potenza di Dio che opera in modo pro-
digioso'». 56

Se si considera quanto il significato veterotestamentario del-


la citazione differisca dal senso che gli attribuisce Paolo, ci si
dovrebbe seriamente chiedere se qui egli intenda veramente
citare Is. 40,13, oppure se non voglia tirare le somme di quan-
to ha esposto in 1 Cor. 2,6-16 servendosi di termini tratti dal
54. La traduzione è ripresa da K. Elliger, BK.AT xr/1, 40.
55. B. Duhm, Das Buch Jesaja, Gottingen 5 1968 (= •1922), 294.
56. Elliger, BK.AT, 50.
La teologia di Paolo

libro di Isaia insieme alla risposta da lui fornita. Indifferente-


mente dal giudizio che si può emettere, dal punto di vista teo-
logico è comunque importante che l'oracolo di Is. 40,13, inte-
so dal Deutero-Isaia in senso non strettamente pneumatologi-
co, è invece preso in tal senso da Paolo. Se davvero dovesse trat-
tarsi di una citazione formale, allora l'accento pneumatologico
sarebbe ancora più forte che non se si trattasse solamente di
un'allusione.
Se anche a un primo sguardo si dovesse avere l'impressione che I Cor. 3
abbia poco peso per ciò che si propone una teologia biblica del Nuovo
Testamento, un'occhiata più da vicino evidenzierebbe la grande portata
teologica di questo capitolo, soprattutto da un punto di vista ecclesio-
logico e in prospettiva ecclesiologica, per quanto riguarda il complesso
comprendente annuncio, giustificazione e giudizio. In tale contesto non
sono tanto le due citazioni veterotestamentarie - introdotte addirittura
dalla formula quotationis xa..Swc; rirpa.7t'ta.t (e xa.l 7taÀiv)- a determina-
re il rapporto tra affermazioni paoline e Antico Testamento, quanto il
contenuto teologico che, pur prendendo le mosse da concezioni vetero-
testamentarie, tuttavia in aspetti sostanziali se ne distacca.
A Paolo preme principalmente sottolineare la sua parità di rango, co-
me annunciatore del vangelo, rispetto ad Apollo, che una parte della co-
munità di Corinto considera la vera e propria autorità spirituale della
città. Di fronte a questo fatto, Paolo svaluta sia la propria posizione sia
quella di Apollo, ponendosi con lui su di un unico piano: entrambi sono
ministri, òiaxovoi. E poiché i frazionisti di Corinto non l'hanno capito,
non sono poi un granché come pneumatici; sebbene la loro sia in realtà
un'esistenza da pneumatici, di fatto si comportano come esseri carnali.
È evidente la linea argomentativa che aveva il suo punto di partenza al-
l'inizio di I Cor.

Dietro questa discussione sull'autorità apostolica del fonda-


tore della comunità e sull'autorità spirituale di colui che edifi-
ca sull'opera di fondazione della comunità, vi sono questioni
fondamentali di tipo ecclesiologico. Laddove Paolo si sente
costretto a difendere il proprio apostolato - le dispute tra fa-
zioni riguardano in ampia misura la sua autorità apparente-
mente in calo - per lui è il fondamento della chiesa ad essere
minacciato.
Chiedendosi «che cos'è mai Apollo, che cos'è Paolo?», egli sminuisce se
stesso e Apollo, attribuendo a Dio l'azione vera e propria a cui entrambi
Le lettere di Paolo 1 49

hanno solo collaborato come cruve:pyoi, limitandosi a piantare e innaffia-


re. Ma così facendo riesce comunque a dare maggior risalto alla propria
autorità rispetto a quella di Apollo, come si legge chiaramente tra le ri-
ghe: l'azione di piantare è ben più importante di quella di irrigare. E con
il verbo piantare, in fondo, è parafrasato l'annuncio del vangelo come fon-
dazione della comunità. Ancora una volta la sua posizione apostolica ri-
spetto ad Apollo risulta avvantaggiata. Se mediante l'annuncio Paolo ha
fondato la comunità di Corinto, allora la sua azione costituisce pur sempre
la dimensione esteriore, oggi diremmo storica, dell'agire di Dio. L'ope-
rato del!' apostolo chiamato ad essere tale, I Cor. r, r, è azione di Dio. Cer-
to, anche l' «irrigare» da parte di Apollo è in egual misura opera di Dio.
Ma Paolo, conformemente alla xaptc;, la grazia conferitagli (v. Gal. I,I 5;
i.,9 e l'autocomprensione apostolica ivi espressa), ha posto il fondamen-
to, che è Gesù Cristo stesso. Quell'altro, aÀÀoc;, vi edifica - sta a noi ag-
giungere un «soltanto» - sopra, bt-otxoòop.e:i:.
Con le immagini del piantare, innaffiare, porre un fondamento, edifi-
care su un fondamento, il linguaggio di Paolo si muove all'interno di
concezioni veterotestamentarie. Nel canto della vigna, ls. 5,Jahvé stesso
si è piantato una vigna, simbolo dell'Israele indocile (ls. 5,7). In ls. 5,2,
È:cpu-te:ucra ap.7te:ÀOV, ricorre il parallelo sia linguistico sia figurativo di I
Cor. 3,6, è:yw è:cpu-re:ucra. Alla tendenza negativa delle dichiarazioni in ls.
5 corrisponde la negazione di I Cor. 3,5 «Apollo ha irrigato» in ls. 5,6
«io proibisco alle nubi di far piovere sulla vigna». Colpisce in Paolo la
mescolanza tra l'immagine riferita al piantare e all'irrigare, e quella rela-
tiva al costruire. Ma a prescindere dal fatto che il collegamento tra le due
immagini ricorre di frequente, 57 è importante osservare che in ls. 5,2 ac-
canto a è:cpu-re:ucra ap.7te:Àov figura xal cjJxoòo1J. 'Y]O"Cl 7tupyov è:v iJ.Écrcp m'.rco.J.
È vero, qui le due immagini non sono intrecciate insieme come in Paolo,
ma sono menzionate all'interno di un'allegoria riferita a due attività tra
loro collegate. Tuttavia, se Paolo avesse dovuto aver presente ls. 5,2 - e
a mio avviso è un'eventualità da prendere seriamente in considerazione
- sarebbe ben strano che per il proprio linguaggio metaforico abbia inca-
strato i due motivi l'uno nell'altro, trasformando ciò che Isaia aveva e-
spresso in modo allegorico in un intreccio di metafore dalle immagini
contraddittorie. 58
Si è fatto riferimento innanzitutto a ls. 5 perché, per il pensiero teo-
logico di Paolo e per la sua esistenza teologico-missionaria in generale, il
57. Fridrichsen, ThStKr 1922, 185 s.
58. Anche qui si evidenzia una volta di più che Paolo, come è noto, talora non fa un
impiego felice delle immagini che sceglie. Per Johannes Weiss, KEK V (1970 = 91910),
82, l'insuccesso di Paolo è dovuto a un accumulo artificioso di metafore. Philipp Viel-
hauer, Oikodome, 79, obietta tuttavia che, nel linguaggio figurato, gli orientali prefe-
riscono proprio ciò che è esagerato, inopportuno, appariscente e grottesco, nonché il
passaggio ambiguo dall'immagine all'indovinello, dalla parabola all'allegoria.
La teologia di Paolo

libro di Isaia insieme a quello della Genesi e, più ancora, a quello dci Sal-
mi hanno avuto grande importanza. Qui tuttavia bisognerà ricordare an-
che Geremia, specialmente la pericope relativa alla chiamata, Ger. 1,4-
10, i cui vv. 9 s. sono di particolare rilievo: il Signore ha posto le sue pa-
role sulla bocca dcl profeta, il cui compito tra l'altro consiste nel à'J0txo-
òo1J.E~\I xaì xa-raq>U'tEUEt\I - i popoli, W\IYj, sono specificamente menzio-
nati. 59 Che per Paolo la propria vocazione fosse in continuità con la chia-
mata dci profeti veterotestamentari lo mostrava già Gal. r, r 5. 60
Un tempo era Israele la piantagione di Dio, e l'annuncio
profetico faceva da mediatore; adesso è la chiesa la nuova e de-
finitiva piantagione di Dio, ed è l'annuncio apostolico del van-
gelo a consentire la mediazione. Obiettivo è l' autocomprensio-
ne di questa comunità davanti a Dio. Nel caso di Israele si trat-
ta della minaccia di giudizio, ma in quello della chiesa si tratta
principalmente dell'annuncio del vangelo; da qui l'efficacia del
vangelo come potenza di Dio, che significa proprio salvezza
dal giudizio. Se Paolo ha piantato e Apollo ha innaffiato, se
dunque entrambi compiono l'opera di Dio in quanto suoi
ministri - è comunque Dio con la sua parola potente l'artefice
vero e proprio -, allora la chiesa creata da questa parola rap-
presenta il rifugio sicuro dell'individuo, al riparo nella pianta-
gione di Dio. Per il singolo questo significa sentirsi parte del
campo di Dio, .{).wu ye:wpywv, I Cor. 3,9. Il testo di I Cor. 3 è
dunque eminentemente soteriologico, e tale soteriologia è di
natura kerygmatica: dove la parola della croce viene creduta, lì
l'azione di Dio compiutasi nella croce di Gesù opera la salvez-
za. Ovviamente si tratta di un testo la cui soteriologia non può
in alcun modo essere interpretata in senso individualistico. Tut-
to il capitolo, infatti, mira a enucleare la dimensione ecclesiolo-
gica del compito kerygmatico di coloro che, in quanto ministri
e collaboratori di Dio, -Be:ou cruve:pyol,6 annunciano il vangelo
1

come parola della croce, «producendo» così la fede. L'ecclesio-

59. V. anche Ger. 12,14-16; 24,6.


60. Se anche l'allusione dovesse riguardare non tanto Ger. 1,5 quanto piuttosto ls.
49,1, tuttavia per Paolo la vocazione di un determinato profeta non è modello vetero-
testamentario della propria chiamata; per lui è teologicamente di rilievo la chiamata
profetica in quanto tale.
61. Certo non nel senso «sinergetico» della controversia sinergista del XVI secolo.
Le lettere di Paolo I 5I
logia messa in luce da Paolo in I Cor. 3 - la dimensione eccle-
siologica della soteriologia risuona già nel cap. 1 - esprime dun-
que l'autocomprensione collettiva della comunità.
Nell'argomentazione di I Cor. 3, la metafora dell'edificio,
olxoòoµ ~' ha un peso maggiore rispetto a quella della pianta-
gione. Mira infatti alla dichiarazione cruciale dei vv. 16 s. Con
questa seconda metafora Paolo ribadisce la propria posizione
di superiorità rispetto ad Apollo (e quindi rispetto a tutti gli
altri «concorrenti»), e questa volta senza neanche tentare di
compiere un certo livellamento tra la propria posizione e quel-
la di Apollo come nei vv. 6-9. Ora afferma con chiarezza ine-
quivocabile che è stato lui - riferendosi a /s. 3,3 con crocpòç à.p-
x~'t'Éx't'wv62 - a porre il fondamento della chiesa di Corinto:
-Bi::µÉÀwv Wrixa. E lo afferma alludendo palesemente alla pro-
pria chiamata.Una seconda persona - anche se si trattasse nien-
temeno che di qualcuno con funzione di ò~axovoç e di .fhou
cruvi::py6ç pari alla sua - non può far altro che costruirci sopra,
ÈTio~xoòoµi::t, senza la minima possibilità di modificare il fon-
damento posto da Paolo. E tale fondamento è Gesù Cristo me-
desimo. 63 Come ha formulato chiaramente Philipp Vielhauer:
«Con l'immagine della posa delle fondamenta Paolo esprime,
per la propria attività apostolica, 1. la preminenza cronologica;
2. l'importanza obiettivamente decisiva del proprio lavoro per
ogni opera successiva; 3. la propria superiorità assoluta, la pro-
pria autorità e posizione particolare». 64 Ma allora è un postu-
62. Secondo Is. 3,1 ss., Dio punisce Gerusalemme e Giuda sottraendo loro tutti gli uo-
mini di cui hanno bisogno per sopravvivere, anche il «saggio architetto». Se, com'è
probabile, nella stesura di 1 Cor. 3, 10 Paolo aveva presente questo passo isaiano, allo-
ra c'è da chiedersi se, prendendone a prestito le parole, non volesse affermare che con
la sua chiamata Dio ha restituito al nuovo Israele questo architetto nella persona del-
l'apostolo. Per quanto sia poco dimostrabile, questa ipotesi si inserisce perfettamente
nell'autocoscienza apostolica di Paolo, così come articolata anche in 1 Cor. 3.
63. È sbagliato discutere se il fondamento sia Cristo o il suo insegnamento (v. Vicl-
hauer, Oikodome, 80 s.), visto che tale opposizione è costruita in modo errato. Ciò
che Paolo ha fatto a Corinto è stato fondare la comunità con la predicazione del van-
gelo in quanto parola della croce. Questa, però, come parola di Dio è anche ouva1.1.tç
·9eou. Se dunque Paolo grazie a tale predicazione ha fondato la chiesa di Corinto,
questo fondare è l'agire di Dio che era presente nella predicazione dell'apostolo. Ri-
guardo a I Cor. 3,5-17 v. anche Kitzberger, Bau der Gemeinde, 64 ss.
64. Vielhauer, Oikodome, 80.
I 52 La teologia di Paolo

lato teologico fondamentale che la predicazione apostolica sia


il criterio assoluto, il metro di misura per ogni annuncio suc-
cessivo nella chiesa. La theologia crucis così come espressa da
Paolo in I Cor. 1 rimane incontestabilmente il criterio della
predicazione ecclesiale per ogni epoca. La realtà ecclesiale, se
veramente è Èxx.À 11crla "t'ou .{)wu, è determinata nella sua so-
stanza da questa predicazione. Anche l'ecclesiologia di Paolo è
essenzialmente teologia della parola, e in quanto tale è teolo-
gia della croce. Paolo non si discosta mai da questa causa pri-
ma dell'esistenza ecclesiale. In qualche punto la sua teologia
ha subìto delle modifiche nel periodo intercorso tra la stesura
di I Tess. e quella di Rom., ma la theologia crucis è rimasta sem-
pre invariata. 65
Lo sguardo sul giudizio in l Cor. 3,12-15 è una breve digressione all'in-
terno del capitolo. Nell'argomentazione di l Cor. 3 essa serve semplice-
mente a far presente che l'accenno al fuoco del giudizio finale, in cui
può bruciare non tanto colui che annuncia il vangelo quanto l'opera sua,
rappresenta un serio monito a rispettare il mandato di predicazione. I
riferimenti veterotestamentari, come a Is. 66,15 s.; Mal. 3,19; Am. 4,1 l,
hanno un'importanza secondaria per il tipo di argomentazione di l Cor.
3, perciò non è necessario approfondirli ulteriormente.
Nel v. 16 lo sguardo, che in precedenza si era appuntato su
chi annunciava il vangelo, torna sulla comunità, che viene in-
terpellata direttamente come già al v. 9. L'immagine della co-
munità come edificio di Dio, già incontrata in quel versetto,
viene ora delineata dal punto di vista teologico, o meglio pneu-
matologico: la comunità in quanto oikodome di Dio è il tem-
pio di Dio, vaòc; .{)wu. Ma il tempio, secondo la concezione ve-
terotestamentaria, è il luogo dove Dio abita.
Tale concezione viene espressa esemplarmente soprattutto in l Re 8. 66
Per la questione che qui interessa non ha molto peso sapere quali tradi-
65. Con l'idea dell'edificio e dell'edificare Paolo, come si è detto, si muove nell'ambi-
to delle concezioni veterotestamentarie. Con l'immagine specifica del fondamento e
della costruzione successiva ha seguito la diatriba (per i particolari v. i commenti, ad
es. Conzelmann, KEK, roo n. 58). Tuttavia, anche qui il punto fondamentale è che,
con la metafora dcli' edificio con tutte le sue implicazioni, ad essere affrontata è anco-
ra una volta l'autocomprensione «collettiva» della comunità cui si è già accennato.
66. V. in particolare M. Noth, BK.AT 1x/1, 168 ss.; E. Wiirthwein, ATD II/1, 84 ss.
Le lettere di Paolo 153
zioni storico-religiose portarono a formulare il cosiddetto discorso di
consacrazione del tempio, I Re 8,12 s., né come risolvere i problemi di
critica letteraria che esso pone. Basti qui far presente che, con ogni pro-
babilità, alla base vi è la concezione che contrappone J ahvé, il quale vuo-
le dimorare nell'oscurità della nube, ba'arafel, come «Dio del tempo» al-
le divinità astrali, che però in questo modo vengono demitizzate.67
Sotto l'aspetto teologico è molto più importante, per il rapporto teo-
logico fra i due Testamenti - a prescindere dal fatto che il v. l 2, nella sua
storia degli effetti, è stato inteso quasi esclusivamente come il dimorare
di Dio nell'adyton del tempio-, che secondo il v. 13 Salomone abbia
edificato a J ahvé una casa potente nella quale egli dimorerà in eterno,
'8/amlm. Di conseguenza il tempio di Gerusalemme è concepito come
dimora, e non come luogo di apparizioni. 68 Ma per I Re 8,20 la dimora
è stata costruita per il nome di Jahvé, lesem jhwh, quindi in conformità
all'affermazione deuteronomista di fondo per cui Jahvé si è scelto il luo-
go in cui far abitare il proprio nome, Deut. l 2, 5 ecc. Per Gerhard von
Rad si tratta di un correttivo teologico apportato alla concezione secon-
do cui la presenza di Jahvé dimora nel luogo di culto, sostituita dalla
concezione, teologicamente sublimata, che ad abitarvi è «soltanto» il
nome di Jahvé. 69 Con Roland de Vaux, Ernst Wiirthwein replica giusta-
mente che rientrava nella «teologia del nome» «di fronte alla trascen-
denza di Dio ovviamente riconosciuta tutelare l'importanza del tempio
quale luogo della presenza efficace di J ahvé». 70 La letteratura profetica,
in particolare la polemica di Geremia, mostra quanto forte fosse sentita
a Gerusalemme la presenza di Jahvé entro il tempio, presenza che indu-
ceva a confidare fermamente nel fatto che nessuna sventura avrebbe mai
potuto abbattersi sul luogo in cui Dio stesso aveva posto la sua dimora
(ad es. Ger. 7). Anche la teologia di Sion elaborata da Isaia si colloca
nella scia di questa concezione. Il profeta poté perciò esprimere la pro-
pria dura critica profetica ancora nel quadro del teologumeno di Sion,
mentre Geremia su questo stesso punto aveva un'opinione molto più
radicale. L'inespugnabilità della città di Dio è espressa anche nei salmi
di Sion.
Tuttavia, numerosi sono gli esempi che illustrano la concezione se-
condo la quale ]ahvé ha il suo trono nel cielo; li troviamo in particolare

67. Noth, BK.AT, 181 s.; spec. 182: «Così facendo Jahvé viene fatto entrare nell'am-
bito delle concezioni, molto diffuse nei paesi di antica cultura orientale, che pongono
la dimora della divinità in case (della città). Questo concetto del 'dimorare' si è fissato
nella 'teologia del tempio' della Gerusalemme di epoca regale, e di tanto in tanto riaf-
fiora in qualche oracolo profetico (ls. 8,18b~; cfr. anche Am. 1,2a) e nella poesia cul-
tuale (ad es. Sa!. 76,3b; 132,13 s .... )»; Wiirthwein, ATD, 88 s.
68. Wiirthwein, ATD, 89. 69. von Rad, Deuteronomium-Studien, 42 s.
70. Wiirthwein, ATD, 103.
154 La teologia di Paolo

in una serie di salmi, come ad es. Sai. 2,4; 102,20; 103,19; 123,r; 144,5. Nel
suo studio sulla storia della presenza di Dio, intitolato significativamen-
te Il mistero del tempio, Yves Congar ritiene che al più tardi all'epoca di
Amos e di Osea si sia affermata la concezione per cui «il vero tempio è
il cielo». Perciò «il senso sbalorditivo della grande visione di Isaia, e già
delle percezioni di un Osea (r 1,9)», è che il Dio superiore a tutte le cose,
il Dio della trascendenza assoluta, è il Santo di Israele. Per questo Con-
gar parla di una «tensione, avvertita con angoscia dalle anime più reli-
giose, tra la trascendenza celeste di Dio e la sua presenza quasi familiare
in mezzo ad Israele, tra la sua santità e le comunicazioni che faceva al
popolo, tra la sua separazione e la sua vicinanza»;7 1 per questo anch'e-
gli, nella teologia del nome di Deut., scorge l'espressione che sottolinea
appunto tale tensione. 72 Tuttavia ribalta il dato storico-religioso. Le due
concezioni relative alla presenza di Jahvé dovrebbero essere in tensione
più che altro a motivo della nostra logica, avvezza a sistematizzare tut-
to. Vi sono tantissimi passi in cui le due concezioni sono liberamente af-
fiancate, senza per questo suscitare l'impressione che si debba primari-
muovere una tensione preesistente. Così, ad esempio, in Sai. r 1,4 si tro-
vano giustapposte le affermazioni per cui J ahvé è nel suo santo tempio,
e il suo trono è nel cielo. 73 In Sai. r 8 la giustapposizione delle due con-
cezioni si ha in un'unica sequenza, se si presuppone che hékal designi il
tempio: 74 Jahvé ha ascoltato l'orante dal suo santuario, ossia nel tem-
pio, v. 7;7 5 Jahvé ha abbassato i cieli ed è disceso, v. ro.
Comunque s'intenda la relazione tra i due modi di Jahvé di
essere presente, due punti sono chiari: che il tempio come sua
dimora e quindi come sua «localizzazione» appartiene fonda-
mentalmente alla fede veterotestamentaria, e che l'idea del tro-
no nei cieli è espressione del suo dominio e della sua superio-
rità sul mondo. Che poi entrambe le concezioni potessero co-
esistere, sottolineando in questo modo più il loro aspetto pu-
ramente ideale che non ciò che veramente intendevano, rientra
nella legge universale per cui ciò che è stato pensato e detto
una volta, ciò che è diventato una volta oggetto di riflessione
umana, continua poi a vivere. Così la concezione di Jahvé che
ha il suo trono nei cieli implica naturalmente la propensione
71. Congar, Il mistero del tempio, u2.
72. Op. cit., 112 s. 73. H.-J. Kraus, BK.AT xv/1, 90 s.
74. Così a quanto pare Kraus, BK.AT, 136 ss.; di opinione diversa Gesenius, Wiirter-
buch, 179·
75· tji 17,7 interpreta chiaramente hekal come «tempio»: Èx vcxou ay[ou cxù-.ou.
Le lettere di Paolo I 55
per il concetto di trascendenza di Dio. Certo, c'è da chiedersi
se il concetto non biblico di trascendenza sia adeguato alle af-
fermazioni bibliche, e soprattutto veterotestamentarie, riguar-
danti Dio. Se si pensa nelle categorie filosofiche dell'essere tra-
scendente e immanente, bisognerà prendere in considerazione
soprattutto il messaggio biblico centrale per determinare con-
tenutisticamente trascendenza e immanenza: il Dio della tra-
scendenza, superiore al mondo come suo creatore, redentore e
giudice, è anche il Dio che agisce nell'immanenza di questo
mondo.7 6 Per la questione relativa a una teologia biblica è di
grande importanza che, con la presenza di Dio in un luogo
che essendo geografico è anche storico - ossia nel tempio di Ge-
rusalemme e in Sion -, si sia avuto il preludio teologico all' a-
gire storico di Dio, così come espresso nel Nuovo Testamento.
Se anche si fa presente la spiritualizzazione della concezione
di tempio avvenuta già in epoca precedente il Nuovo Testamen-
to, in particolare a Qumran (ad es. CD 3,19), tuttavia il fattore
decisivo è che Paolo ha modificato la presenza di Dio nel tem-
pio, espressa in categorie storiche, in modo tale da far apparire
la comunità cristiana in quanto tempio di Dio come luogo del-
la presenza del Dio redentore. Qui dunque viene espresso in
termini ecclesiologici quell' «essere-in-Cristo» che, già noto da
Gal., è garanzia della presenza di Dio. Anticipando il cap. 12,
ove nel corpus Paulinum ricorre per la prima volta, in termini
cronologici, l'idea di corpo di Cristo, crwµ.a Xp~cr't"ou, si può af-
fermare che la chiesa di Dio in quanto tempio nuovo di Dio e
in quanto corpo di Cristo, è anche, in quanto essere-in-Cristo,
luogo della presenza storica nuova di Dio. 77
La soteriologia kerygmatico-cristologica sfocia per esigenze
teologiche nell'ecclesiologia. Una soteriologia senza ecclesiolo-
gia è lontana dalla realtà, priva di fondamento. E ancora, un'ec-
clesiologia senza la dimensione kerygmatica è vuota, mentre la
76. Cfr. voi. r, cap. 3.3. Ciò che lì si affermava in termini di teologia fondamentale a
proposito del concetto di rivelazione vale, mutatis mutandis, anche per la questione
relativa al rapporto tra i due modi di essere presente di Jahvé, nel tempio e nei cieli.
77. Qui il concetto di storicità, applicato a Dio, viene impiegato sulla scorta di quan-
to affermato nei prolegomeni nel già citato cap. 3.3.
La teologia di Paolo

dimensione kerygmatica priva di ecclesiologia è senza scopo.


La differenziazione in questi ambiti parziali della teologia pao-
lina complessiva è una necessità astratta, ma appunto solo a-
stratta. Ciò che è indispensabile in ratione, non è possibile in re.
Se, come si è visto, la concezione veterotestamentaria del Dio che ha il
suo trono nei cieli porta a una accentuazione eccessiva della trascenden-
za di Dio che non è più avallata dall'Antico Testamento, lo stesso acca-
de per l'idea della presenza di Dio nel tempio. A questo proposito Yves
Congar parla a ragione di «ideologia del tempio», individuandola soprat-
tutto nella concezione giudaica postbiblica della 5ekina nonché nella con-
cezione cosmica del tempio. 78 Queste idee andranno approfondite ulte-
riormente: dove, da parte giudaica, si mantiene saldamente e in prospet-
tiva nazionalistica la concezione del legame tra Dio e il tempio di Geru-
salemme, bisognerà senz'altro concedere al giudeo che egli vi si attiene
dalla propria prospettiva. Da un punto di vista neotestamentario, invece,
tale concezione può essere giudicata solo un'ideologia di tipo nazionali-
sta. Ecco il punto cruciale su cui la teologia giudaica e quella cristiana non
sono conciliabili. Non è certo di aiuto al dialogo tra cristiani e giudei ma-
scherare i diversi punti di vista.
In I Cor. 2,6 ss. ci si era chiesti se il cristiano, in virtù del
suo «possesso» dello Spirito di Dio, sia giunto o meno all'u-
nione di natura con Dio. Come tale domanda meritava unari-
sposta negativa relativamente al singolo individuo, così anche
sul piano ecclesiologico a proposito della comunità come tem-
pio di Dio. Anche la comunità, e al di sopra della singola co-
munità la chiesa nel suo complesso, non partecipa dell'essere
divino. Una risposta negativa è suggerita già dalla concezione
veterotestamentaria della presenza di Jahvé nel tempio di Ge-
rusalemme. Anche questo, infatti, pur essendo considerato luo-
go della presenza di Dio non partecipa del suo essere. Per quan-
to riguarda Paolo stesso, anche solo le due immagini incoeren-
ti che presenta, ossia l'essere in Cristo e l'essere di Cristo o
dello Spirito in noi, sono indice che il reciproco «essere-in»
non può esprimere l'unione di natura tra Dio e uomo. Paolo
non sostiene la «mescolanza delle due nature» per Dio e per
l'uomo, così come definita, sotto l'aspetto cristologico, dal
concilio di Calcedonia del 4 51 contro i monofisiti: Èv Mo cpu-
78. Congar, Il mistero del tempio, r r 3 ss.
Le lettere di Paolo I 57
creaw àrruyxu"t"wç. L'essere-in di Dio e uomo per Paolo si basa
sulla theologia crucis, e da questo fondamento non può e non
deve portare a un monofisismo soteriologico. Secondo la logi-
ca interna della soteriologia di Paolo e della sua dottrina della
giustificazione, una dottrina della divinizzazione è impossibi-
le, benché la terminologia che egli impiega sia talora pericolo-
samente vicina a una dottrina di questo tipo. 79
1 Cor. 3,18-23 riconduce all'idea espressa da l,18 ss., ossia alla dialettica
tra sapienza e stoltezza. Una duplice prova scritturistica deve ribadire an-
cora una volta che la sapienza di questo mondo è stoltezza agli occhi di
Dio (yÉypamat yap). Tuttavia, la prima citazione tratta da Giob. 5,13 è
alquanto singolare. Che il testo differisca da quello dei LXX è uno dei
problemi minori.so Il fatto più rilevante è che la citazione è ripresa dal
primo discorso di Elifaz in cui a Giobbe viene contrapposta la dogmati-
ca della retribuzione, dunque proprio la dogmatica che, nella sua impo-
stazione di fondo, è inconciliabile con la theologia crucis (ad es. Giob.
4,7), benché vi siano altri passaggi, nel discorso di Elifaz, che possono
essere accostati alla teologia paolina.s' Forse, con queste affermazioni
non si dovrebbe parlare troppo presto di esegesi atomistica a proposito
della citazione di Giobbe. Per quanto riguarda la seconda citazione, a
quanto pare si tratta di una modifica deliberata di lji 9 3, l l, poiché Paolo
nei LXX dovrebbe aver letto 't'oÙc; ÒtaÀoytcr(J.oÙc; 't'wv à.v.fJpwnwv, mentre
ha scritto wùc; ÒtaÀoytcr(J.oÙc; 't'W\I crocpwv. Si Ai suoi occhi, tuttavia, non si
tratta di una modifica vera e propria, in quanto per lui i sapienti di que-
sto mondo non sono che ... uomini. S3 La prova scritturistica non porta
oltre quanto è stato già detto. Ai fini dell'argomentazione teologica è
dunque di carattere ridondante, quindi piuttosto secondario. Tale ipo-
tesi è suffragata dal fatto che Paolo non si limita a sminuire la sapienza
mondana, ma al v. 21 riprende il tema del vantarsi che aveva affrontato
in r ,3 r. Qui però la sfumatura è alquanto specifica: nessuno si vanti di
un uomo,s4 né di Paolo, né di Apollo (stavolta non menzionato), né di
Pietro.si
79· V. a2 Cor. 3,18.
80. A Berndt Schaller si deve che la citazione di Giobbe in 1 Cor. 3,19 (come anche in
Rom. 11,3 5) sia probabilmente ripresa da una versione riveduta del libro di Giobbe
nei LXX, ZNW 71,21 ss.
8 I. Ad es. Giob. 4, 17: Tl yap; IJ. ~ xcx..9cxpòç to"tctt ~po't'Òç Èvcxv·dov xuplou I ~ à.;;Ò '\'Wv
tpywv ctÙ'\'ou èi1J.EIJ.7''\'oç à.v~p; 82. Così quasi tutti gli esegeti.
83. V. 1 Cor. 3,3 s.
84. Per via del legame con il v. 22, con Lietzmann, HNT, 18, lv à.v..9pwr.otç va tradot-
to «perciò nessuno si vanti di un uomo». In italiano il singolare rende perfettamente
il senso di ciò che si intende in greco con il plurale. Conzelmann, KEK, I05, traduce
La teologia di Paolo

7tav'ta yàp ÙfJ-WV ÈO"'ttv è probabilmente il ricorso a una massima stoi-


ca; 86 rimane da chiedersi se Paolo labbia impiegata come argomento stoi-
co perché a Corinto sarebbe stata accettabile. Con Friedrich Lang: «La
massima stoica non viene ridotta come estensione, ma viene fissata in
modo totalmente diverso». 87
Dal punto di vista teologico è estremamente significativo il
modo in cui Paolo, nello sminuire sé, Pietro, Apollo - che,
pur non menzionato, tuttavia è comunque compreso -, vada a
sfociare in un'esclamazione addirittura innica: tutto è vostro ...
la vita, la morte, il presente, il futuro, tutto. È un preludio a
Rom. 8,3 8 s., anche se lo scopo è un altro. Mentre in Rom. si
tratta di assicurare che nulla potrà separare dall'amore di Dio,
dato che questo è garantito in Cristo - la teologia trova dun-
que attuazione nella cristologia -, qui il tema è la sequenza
«voi - Cristo - Dio». Per Wilhelm Thiising, I Cor. 3,21-23 co-
stituisce uno degli apici di I Cor. 1-4, se non addirittura l' api-
ce conclusivo del ragionamento svolto sino ad ora. 88 Nell'in-
terpretazione di questo passo si riflette il suo intento di fondo,
che è quello di subordinare la cristologia di Paolo alla sua teo-
logia, e dunque di evidenziare il teocentrismo del suo pensiero
cristologico. E, di fatto, I Cor. 3,21-23 sostiene questa inter-
pretazione della teologia paolina. 89 Ciò però ha conseguenze
per la presentazione della teologia di I Cor. fatta sinora: l'esse-
re «Ìn Cristo» dei cristiani e della comunità viene qui interpre-
tato come «appartenere a Cristo», Xpicr't'ou dva.t. Riguarda
l'appartenenza del credente a Cristo, il legame strettissimo
con lui, e non l'essere identico a lui. Ed essendo Cristo «di
Dio», anche noi, che siamo «in Cristo», siamo strettissima-
«Dunque nessuno tra gli uomini si vanti», ma stando a quanto afferma a p. 107 n. 15,
in realtà dovrebbe convenire con Lietzmann.
85. Nel cap. 3 Pietro viene menzionato solamente al v. 22 in relazione al v. 21, dopo
che in precedenza Paolo aveva parlato solo di sé e di Apollo. Ma la menzione di Pie-
tro si ha nella frase conclusiva, quella più incisiva, dell'unità argomentativa di 3,1-23.
È discutibile che ciò rispecchi una polemica antipetrina, o magari addirittura contro
una visione di Pietro così come è attestata letterariamente in Mt. 16,16 (v. l l), ipotesi
a volte presa in considerazione e persino sostenuta nella ricerca, ma che a mio parere
è assai poco probabile. 86. Esempi in Conzelmann, KEK, 107 n. 17.
87. Lang, NTD, 58. 88. Thiising, Gott und Christus I, l r.
89. Nella medesima lettera v. anche I Cor. l 5,28, Zva fi b ·!'hòç ['t'à] mina èv micnv.
Le lettere di Paolo 159
mente uniti a Dio stesso. Ancora una volta: nessun Èv.fJ.oucrw.cr-
.fJ.Yivcu, nessuna deificazione. Proprio I Cor. 3,21-23 mostra
chiaramente che la teologia paolina non può essere definita
«mistica».
Con I Cor. 4 si ha la conclusione della sezione relativa alla divisione in
fazioni. Sia sotto l'aspetto argomentativo, sia sotto quello teologico,
questo capitolo non va essenzialmente oltre ciò che Paolo ha già espo-
sto nei capp. l-3, perciò ci limiteremo a fornire poche altre indicazioni.
Sino a questo momento la funzione ecclesiastica era stata presentata co-
me il compito di annunciare il vangelo in quanto parola della croce. In
tal senso va anche compreso il passo di 4,1, in cui Paolo parla dei mini-
stri di Cristo e degli amministratori dei misteri di Cristo, U7tl)pÉ-raç Xpw·-
-roi.i xal o1xovop.ouç iJ.UCT'tl)ptwv .S.e:.ou. Contrariamente a 2,7, qui si parla
di misteri al plurale, sottintendendo però comunque la parola della cro-
ce. La teologia della parola di Dio ricorre nuovamente in 4,14 s., quan-
do Paolo, di fronte ai corinti, si definisce loro padre, colui che li ha ge-
nerati mediante il vangelo, òtà -rou e:.ùayye:.Àtou. Impiegando tale espres-
sione, ancora una volta Paolo sottolinea il proprio primato apostolico
rispetto ad altri annunciatori, che sono semplici «pedagoghi». In tale ter-
mine si avverte il tono sprezzante, in quanto il 7tatòaywyoç, a differenza
del òtMcrxaÀoç, è spesso uno schiavo.9°
Che il v. 20, où yàp Èv Àoyq.i ~ ~acrtÀda -rou .S.e:.ou à.ÀÀ,Èv òuvap.e:.t, non
si esprima contro la teologia della parola esposta in 1 Cor. l-4 è eviden-
te; il logos, infatti, qui non è il Logos di Dio. Di conseguenza, il v. 20 po-
trebbe essere così parafrasato: où yàp Èv Àoyq.> -rwv à.v.S.pw7twv ~ ~acrtÀda
-rou .S.e:.ou à.ÀÀ'Èv òuvap.e:.t, -rou-r'fo-rtv Èv Àoyq.i -rou .S.e:.ou.
Una trattazione a parte meriterebbe la caratterizzazione degli apo-
stoli, coloro che Dio ha reso ultimi, facendone dei condannati a morte
da esibire come uno spettacolo davanti al mondo, agli angeli e agli uo-
mini, dr. v. 4,9 - affermazione che rientra nuovamente nel contesto del-
la dialettica tra sapienza e stoltezza. Ma la presentazione dell'autocom-
prensione apostolica, specialmente in relazione all'indigenza dell'esserci
dell'apostolo, si avrà solamente con l'interpretazione dell'apologia del
ministero apostolico di 2 Cor.

Sguardo retrospettivo su I Cor. 1-4


Per l'intento che la anima, la sezione di I Cor. l-4 non è
una trattazione teologica, bensì una parenesi. Tuttavia essa ap-
partiene a quanto di più teologicamente significativo e pro-
90. V. i commentari e le voci corrispondenti nei vari dizionari.
160 La teologia di Paolo

fondo abbia scritto Paolo. 9 ' Si tratta di una parenesi su base so-
teriologica; è la dimostrazione che la parenesi è cristiana quan-
do ha basi teologiche. E in tale contesto la teologia è una teo-
logia della parola, ermeneuticamente responsabile, che in quan-
to theologia crucis possiede necessariamente una dimensione
sia cristologico-soteriologica, sia pneumatologica. La concre-
tezza di questa theologia crucis, tuttavia, è necessariamente an-
che ecclesiologica. In breve: nella teologia che sostiene la pare-
nesi di I Cor. r-4 si ritrovano pressoché tutte le sfaccettature
dei vari «ambiti» teologici.
Certo, nella concezione teologica di questi capitoli è assente la dottrina
della giustificazione, in quanto non ricorre il topos «giustificazione non
mediante le opere della legge, ma [solo] per fede». Tuttavia, ciò non de-
ve necessariamente essere elevato a criterio per ritenere le lettere ai Co-
rinti cronologicamente precedenti la lettera ai Galati. Il motivo per cui
si fa presente questo fatto è che il tema della giustificazione non median-
te le opere della legge ma [solo] per fede è una formula polemica che
perde di significato nello stesso momento in cui viene a mancare il presup-
posto per una polemica di questo tipo. E che la formula polemica ap-
pena ricordata di per sé non sia chiara, lo dimostra il contesto differente
e a volte contraddittorio in Gal. e in Rom.; nelle due epistole, infatti, il
concetto di legge non è affatto identico. Per questa ragione non è possi-
bile valutare in modo convincente una prossimità cronologica in base a
una frase che riceve di volta in volta connotazioni diverse. Per Paolo, a
Corinto era necessario discutere polemicamente la questione della sa-
pienza. Il punto nevralgico, qui, non era affatto la questione delle con-
dizioni della giustificazione.
Gli elementi positivi del teologumeno comune a Gal. e
Rom. della giustificazione per fede, tuttavia, sono espressi chia-
ramente in I Cor. r-4. È sulla croce, e dunque sulla parola del-
la croce, che si basa la salvezza. Croce e vangelo sono gli ele-
menti fondamentali di salvezza, da parte di Dio, mentre lari-
sposta dell'uomo è la fede - sulla base di r Cor. 1, 18 ss., si può
persino affermare: solamente la fede. Come in Gal. e in Rom.,
vi è espressa la triade x.~puyfJ.Gt - cr0~etv - mcr'teuetv, ove il ke-
91. Per una più profonda comprensione esegetica e teologica di r Cor. 1-4 v. anche
Best, The Power and the Wisdom of God; Hanson, The Paradox of the Cross; Kertel-
ge, Das Verstandnis des Todes]esu bei Paulus; Merklein, Die Weisheit Gottes und die
Weisheit Der Welt (sul problema di una •teologia naturale»).
Le lettere di Paolo 161

rygma comprende la dynamis di Dio e la croce di Cristo, 1


Cor. 1,23. La precedenza assoluta spettante all'agire salvifico
divino è chiaramente sottolineata. E quando al v. 30 Cristo è
definito la ò~xmocruv'Y'l che viene da Dio, ecco far capolino an-
che l'aspetto forense fondamentale. Ciò che, rispetto a queste
affermazioni di 1 Cor., è il superadditum presente in Gal. e
Rom. in relazione alla giustificazione, può essere definito co-
me impianto sistematico esposto in maniera differente nelle
due lettere, grazie al quale l'argomentazione teologica punta
in modo diversificato alla situazione in cui si trovavano le due
comunità della Galazia e di Roma. In 1 Cor. 1,30 si accenna
persino per la prima volta a un'intuizione teologica che in Gal.
ancora non è presente e che solo in Rom. avrà un ruolo teolo-
gicamente centrale, ossia la giustizia di Dio: Cristo è per noi la
giustizia proveniente da Dio. 92
Ciò che colpisce, dunque, sia nelle lettere ai Corinti sia in
Gal. e in Rom. è la gravità soteriologica con cui Paolo argo-
menta teologicamente. Nonostante le differenze dovute alla
singola situazione da lui presa in considerazione, e nonostante
le diversità palesi tra i vari modi di argomentare in maniera
teologica e addirittura tra determinati fatti teologici, in tutte
queste lettere Paolo sostiene il suo intento di fondo originario:
la nostra giustizia e la nostra salvezza sono solamente opera di
Dio. Soltanto Dio ci strappa dal regno del peccato trasf eren-
doci in quello della salvezza.
Sorprendente è la scelta delle citazioni in I Cor. l-4. Anzitutto vanno ri-
cordate le citazioni tratte da Is. L'argomentazione teologica ha inizio
con la tesi di l, l 8, motivata in l, l 9 da Is. 29, l 4. E qui rientra nel caratte-
re polemico dell'esposizione che Paolo cominci con una citazione in cui
oggetto dell'affermazione non sia la sapienza di Dio, ma la sapienza de-
gli uomini respinta da Dio. Lo stesso dicasi a proposito delle allusioni a
ls. 19,11 s., 33,18 e 44,25 nel v. 20. In 2,9 si ha forse una citazione com-
posta, in cui sono utilizzati elementi tratti da Is. 64,4 e 65,16 s. Tuttavia,
la sapienza ha solo indirettamente a che vedere con ciò che Paolo inten-
de affermare con questa citazione. In 2,16 è citato Is. 40,13, in cui si par-

92. Anche se sintatticamente àrcò ·.'kou va riferito innanzitutto a ao9ia., stando all'in-
tenzione si riferisce certo alla triade OLKa.toaUV"t], ayta.a1.1.6ç e àrcoÀU'tpù)t;Lç. Questi tre
termini hanno per così dire carattere epesegetico per la ao9ia. ~1.1.i v àrcò 8wu.
162 La teologia di Paolo

la dello Spirito di Dio -vouç è qui sinonimo di 7t\/EUJJ.<X -; questi rende l'uo-
mo capace di comprendere la sapienza di Dio come parola della croce. E
con ogni probabilità, in 3,6 Paolo aveva presente Is. 5,2.
Anche per 1 Cor. si può già dire ciò che più tardi si affermerà in par-
ticolare a proposito di Rom.: quanto Paolo asserisce evidenzia la sua
familiarità con i contenuti e il mondo linguistico del libro di Isaia. Vice-
versa, citazioni e allusioni tratte da altri testi veterotestamentari sono
piuttosto sporadiche, se si eccettua un unico enunciato (v. sotto). In 3,
20, lji 93,1 l in fondo non fa che ribadire un concetto divenuto ormai già
abbastanza chiaro nell'argomentazione teologica. Al contrario, Giob. 5,
12 s. in 3,19 potrebbe far supporre che il pensiero di Paolo fosse già in
un certo modo segnato anche dal contesto di questo passo. Ma nessuna
delle due citazioni ha una funzione realmente portante nel quadro del-
l'argomentazione di 1 Cor. 1-4. Di particolare importanza teologica po-
trebbe essere però Ger. 9,23, in 1,JO, citazione preparata da alcune allu-
sioni a passi di Bar. Sebbene questa citazione di Ger. consista in un invi-
to ai cristiani, ed abbia perciò carattere parenetico, proprio Bar. 3 s., let-
to con gli occhi di Paolo, consente di riconoscere in Dio quella caratte-
ristica che ribalta completamente la sapienza umana.

Riassumendo in un'unica formula teologica tutto il conte-


nuto di I Cor. r-4, theologia crucis est theologia verbi crucis.

I Cor. 5-7: l'esistenza corporea del cristiano


I capp. 5-7 possono essere raccolti sotto un'unica tematica, dato che
in essi Paolo prende posizione su questioni riguardanti l'esistenza cor-
poreo-sessuale. 1 Cor. 5 tratta del rapporto sessuale con la moglie del pa-
dre, presumibilmente la matrigna. In 6,12-20 Paolo attacca la libertà sfre-
nata che, fatta passare per cristiana, troverebbe la sua espressione natu-
rale nella relazione con una prostituta. 1 Cor. 7, infine, riguarda questio-
ni fondamentali inerenti al matrimonio e al celibato. Da questo contesto
è escluso solamente 6,1-11, in cui Paolo prende posizione sulla questio-
ne della liceità o meno per i cristiani di appellarsi a tribunali pagani.
È controverso come vada rettamente intesa la relazione tra un corin-
zio e la «moglie di suo padre», relazione incriminata in 1 Cor. 5,1-12. 93
Tuttavia, comunque la si giudichi, resta pur sempre una trasgressione di
Lev. 18,8 in cui, con formulazione apodittica, il rapporto sessuale con la

93. Si tratta della madre naturale o della matrigna? La seconda ipotesi è la più proba-
bile (v. anche Ps.-Focilide 179). Riguarda una relazione extraconiugale con la moglie
legittima del padre, oppure il matrimonio con la moglie vedova o divorziata del pa-
dre? V. i commentari.
Le lettere di Paolo
«moglie di tuo padre» è esplicitamente vietato. 94 Stando a Lev. 20, I I, chi
abbia rapporti sessuali con la moglie dcl padre va punito con la morte.
Deut. 17,5-7 prescrive come debba essere eseguita la pena di morte per
apostasia - le trasgressioni di Lev. I 8 qui non vengono menzionate -,
ossia mediante lapidazione. Di tale norma Paolo cita l'ultima frase: «To-
gliete il malvagio di mezzo a voi, È~apcne: -ròv 7tOVYJpÒv È~ ùp.wv ai.J-rwv». 95

Con la sua presa di posizione Paolo dimostra dunque di


poggiare saldamente su Lev. r 8. Queste prescrizioni della leg-
ge mosaica per lui sono vincolanti. Ma allora la legge ha anco-
ra validità? Paolo ha presente addirittura Lev. 20,r r? Citando
con Deut. r 7,7 un testo il cui senso letterale è un'ingiunzione
di morte, esige forse che sia messo a morte chi trasgredisce la
legge mosaica? 96
A questi interrogativi risponde 1 Cor. 5,3 ss. Stando a que-
sto testo, all'interno di un rito liturgico doveva svolgersi qual-
cosa di simile a una scomunica: Paolo, presente in spirito, in-
sieme alla comunità - è questa infatti ad essere accusata di tol-
lerare al proprio interno il grave peccato, v. 2 - e nella dyna-
mis (!) del Signore vuole che il colpevole sia consegnato a sata-
na per la rovina della sua esistenza terrena, dc; oÀe:-8pov 't'YJc;
crapx6c;, affinché il suo vero io sia salvato nel giorno del giudi-
zio universale, ?va 't'Ò 7tve:uµa crw-8fi. In accordo con Hans Con-
94. K. Elliger, HAT 1/4, 239 s., afferma giustamente che, in considerazione dell'anti-
chità del decalogo contenuto in Lev. 18 (che risale all'epoca prestatuale, se non addi-
rittura a quella dell'esodo o prejahvista), è a relazioni poligame che ci si riferisce; l'ap-
plicazione alla matrigna poté aversi solo nell'epoca della monogamia. In epoca neote-
stamentaria, con la «moglie di tuo padre» potrebbe essere stata intesa la matrigna; ciò
vale naturalmente anche per "(UV~ 7ta'tpoç in Lev. 18,8 LXX. È errato ritenere che il
divieto espresso in Lev. 18,8 riguarderebbe la proibizione di un legame coniugale tra
figlio cd ex-moglie del padre; il divieto si riferisce soltanto all'attività sessuale (v. an-
che M. Noth, ATD 6, 116 [tr. it. Levitico, Brescia 1989, 169)). Al contrario, in De11t.
23,1 (De11t. 22,30 LXX) è espresso il divieto di contrarre matrimonio tra chi ha lega-
mi parentali di questo tipo. Lev. 18,8 ha continuato ad essere interpretato in base a
De11t. 23,1, come accade ancora oggi, ad esempio, nella Bibbia di Zurigo.
95. LXX come T.M.: sing. è:l;apEtç invece del plur. La forma maschile -.òv 7tOv'l'}p6v
traduce hara', inteso come «il male» (così anche Gesenius, Worterbt{ch, 764); tutta-
via, poiché qui abbiamo un abstractllm pro concret11m, a senso dovrebbe essere cor-
retta la traduzione dei LXX.
96. Kasemann, Sdtze hl. Rechtes, 73 (tr. it. 73): «Questa punizione comporta in modo
del tutto naturale ... la morte del colpevole». Dello stesso parere Ellis, lnterp. 44, 136;
v. anche gli autori citati da Schrage, EKK, 376 n. 51.
La teologia di Paolo

zelmann, potrebbe trattarsi di un «atto giuridico sacrale-pneu-


matico».97 Rimane da chiedersi se la comunità fa solo da pub-
blico, mentre Paolo compie l'atto giuridico vero e proprio. 98
Comunque, indifferentemente da come la si pensi, è chiaro
che Paolo non prescrive né una lapidazione, né un'uccisione
in senso fisico. Ciò che importa dal punto di vista teologico è
che qui egli si reinserisca in pieno nella scia del pensiero vete-
rotestamentario. Tutto è subordinato a benedizione e maledi-
zione, le categorie veterotestamentarie fondamentali che indi-
cano o la preservazione o l'annientamento dell'esistenza (in
particolare Deut. 27-29). Homo aut benedictus aut maledic-
tus! Chi è maledetto ha perduto la propria vita, è distrutto, ab-
bandonato al nulla. In questo modo la maledizione di Dio alla
fine colpisce anche con la morte fisica.
Di conseguenza Paolo potrebbe aver inteso l'atto religioso della scomu-
nica, da lui disposto, come una solenne consegna liturgica del peccatore
a satana, consegna che avrebbe avuto irrimediabilmente conseguenze an-
che a livello fisico - così come accadeva nella liturgia di Deut. 27 con la
maledizione di colui che trasgrediva una delle proibizioni del dodecalo-
go sichemita. E proprio tra questi divieti troviamo in Deut. 27,20: «Ma-
ledetto chi giace con la moglie di suo padre, poiché ha sollevato l'orlo
del vestito di suo padre. E tutto il popolo risponderà e dirà: Amen». 99
Nei LXX il testo inizia così: è:mxa't'apa't'oç ò xoq.1.wµe:'loç µe:'t'à yu'lmxÒç
't'o0 Tia't'pÒç aiho0. E ancora Deut. 27,23: «Maledetto chi giace con sua
suocera. E tutto il popolo risponderà e dirà: Amen». 10° Come dunque a
quel tempo la maledizione di Deut. 27,20 aveva effetto nel momento
stesso in cui veniva pronunciata, così avviene ora per la consegna a sata-
na, che si attua mentre viene pronunciata.
A differenza della maledizione veterotestamentaria, che
comportava la distruzione, anzi, il definitivo annientamento,
provocato verbalmente, di chi veniva maledetto, l'abbandono
a satana disposto da Paolo avviene unicamente allo scopo di
salvare con la rovina della sarx il pneuma del peccatore, ossia
il suo vero io. Se il rito si svolge 't'ii òuvaµe~ 't'oli xuplou -fiµwv
'I 'Y)O'OU, significa che la dynamis del Signore viene invocata
97. Conzelmann, KEK, 124. 98. Così op. cit., 124.
99. Traduzione di G. von Rad, ATD 8, 117 (tr. it. Deuteronomio, Brescia 1979, 182).
100. Traduzione sempre di G. von Rad, ibid.
Le lettere di Paolo

affinché produca la salvezza escatologica del peccatore. Anche


qui la parola pronunciata durante il rito è, pur se in un modo
che a noi risulta strano, parola della dynamis di Dio che pro-
duce salvezza. In I Cor. l, l 8 sta scritto -roiç ÒÈ: cH.p~o(J-Évotç TitJ-I v
òuvap.tç -8e:ou Ècnt v, in 5, 5 Zva -rò 7tve:up.a crw-8Yi Èv -rii +i1J.ép~ -rou
xuplou.
D'importanza teologica ancora maggiore è l'immagine se-
guente, parimenti presentata nel contesto di ripresa di catego-
rie veterotestamentarie fondamentali: se in Israele un singolo
individuo si macchiava di una colpa grave, tutto Israele ne era
caricato. La colpa del singolo ha conseguenze sovraindividua-
li. L'individuo non è soltanto «individuo»! Il peccato del sin-
golo membro ha effetto contaminante per la comunità intera.
Quindi anche la giustizia, ~cdaqa, della comunità è turbata do-
ve in mezzo ad essa Vi sia Un ingiusto, Un empio, rasa'. IO!
Un esempio particolarmente efficace è quello del furto compiuto da Acan,
Gios. 7. Jahvé incolpa l'ignaro Israele della colpa commessa da Acan.
Per il suo peccato moriranno trentasei persone, «soggettivamente» in-
nocenti ma «oggettivamente» colpevoli, v. 5. Poi Israele, su comando di
Jahvé, allontanerà da sé il peccato lapidando Acan, eliminandolo total-
mente, v. 2 5. «E tutto Israele lo lapidò» corrisponde al comando di
Deut. 17,5-7. Il peccatore di I Cor. 5 è dunque l' Acan neotestamentario.
E la sua colpa macchia l'intera comunità di Corinto.
Friedrich Lang ha perciò mirabilmente interpretato I Cor.
5,6 s.: «Il grave peccato di un singolo individuo», tollerato dai
corinti, ha «leso la santità della comunità intera». Al tempo 102

stesso Lang ha a ragione evidenziato la differenza rispetto al-


1' Antico Testamento: l'impurità cultuale del lievito - che per
Es. 12,15.19; 13,7 rappresenta la concezione di purità cultuale
veterotestamentaria che in fondo sta alla base di Gios. 7 - è sta-
ta trasferita da Paolo sulla condotta etica. ' 03 Qui, sullo sfondo
vi è già quella concezione di comunità e di chiesa come corpo
di Cristo che ricorrerà ancora nella prima ai Corinti, e la cui
terminologia del tempio è stata già presa in esame, I Cor. 3,16
s. La comunità come tempio di Dio è santa, non può tollerare
alcun tipo di empietà profanatrice. La tolleranza nei confronti
ror. V., ad es., Koch, THAT II, 513. 102. Lang, NTD, 73. 103. Ibid.
166 La teologia di Paolo

del peccatore e dunque nei confronti del peccato è a sua volta


peccato. 104
Alla base di l Cor. 6,1-1 l, in particolare al v. 2, troviamo concezioni ve-
terotestamentarie. Che i santi giudicheranno il mondo rientra forse nel-
l'orizzonte di Dan. 7,22, dunque nell'orizzonte di un enunciato che ri-
corre nel fondamentale capitolo 7 del Daniele apocalittico. Può darsi che
Paolo avesse presente anche Sap. 3,8, altro testo escatologico che illustra
il giudizio finale pur esprimendosi con le immagini tipiche dell' Alessan-
dria ellenistica. E da registrare che Paolo, come è sua caratteristica, met-
te subito in relazione con il giudizio universale fatti della vita quotidia-
na, magari addirittura banali come possono esserlo controversie giudi-
ziarie. La gravitas del giudizio universale viene tirata in ballo per banali-
tà. Ma dietro questa insolita esagerazione si cela l'attenzione che ha l'a-
postolo per tutto ciò che rientra nell'ambito forense. E quando riflette
sull'uomo in quanto essere che per natura è forense, ha in mente l'uomo
come essere responsabile. Il dispregio, oggi così diffuso, per ciò che sa
di forense, in fondo è dispregio per la responsabilità. Chi parla di respon-
sabilità deve anche pensare all'eventualità che essa non sia presa sul sc-
rio. Il concetto di responsabilità implica anche il suo fallimento. Dove è
in gioco la responsabilità dell'uomo si ha la situazione forense. Chi dà
poca importanza al forense, dà poca importanza all'uomo. 105
Non è più possibile sapere se il peccatore incriminato ai vv. 5,1 ss.,
iniziando la sua relazione con la «moglie di suo padre», si fosse richia-
mato alla libertà dalla legge pur sempre predicata da Paolo, magari ap-
poggiato in questo da certi settori della comunità. ' 06 Se davvero Gal.,
che esigeva la libertà dalla legge, è stata scritta prima di l Cor., come si
presume, allora c'è da chiedersi se Paolo, di cui gli oppositori giudaiz-
zanti si affrettarono a diffondere la reputazione di propugnatore della
libertà dalla legge, 107 non abbia acquistato fama di sostenere una fede

104. L'immagine dcl lievito ricorda per associazione quella di Cristo agnello pasqua-
le. Quando però in I Cor. 5,7 Paolo afferma che «anche Cristo, il nostro agnello pa-
squale, è stato immolato», l'evento della croce è ricordato solo in modo atematico.
Riguardo a I Cor. 5, l-l l v. anche Goldhahn-Miiller, Die Grenze der Gemeinde, l 2 1
ss.; Umbach, In Christus getauft- von der Sunde befreit, 86 ss.
105. Il v. 1 l contiene anch'esso una intera dogmatica in nuce; non richiede tuttavia di
essere spiegato adesso, visto che dcl suo contenuto si è già parlato a sufficienza nell' e-
sposizione fin qui condotta della teologia di r Cor. Ciò che al v. l l si afferma a pro-
posito del battesimo verrà trattato più avanti più approfonditamente.
106. Lietzmann, HNT, 27: «Il reiterato mina 1J.ot è:l;Ecr"rtv (v. lo,23) ... era forse uno
slogan antigiudaizzante di Paolo, come mina ù1J.wv È<r"rt in 3,21 s., che ora i corinti
gli rinfacciavano per giustificare il rapporto sessuale extraconiugale».
107. La fazione di Pietro a Corinto potrebbe essere stata sfruttata come punto d'ap-
poggio per la propaganda giudaizzante?
Le lettere di Paolo

cristiana equivalente a libertà sfrenata. 108 Se poi dovesse corrispondere


a realtà che la chiesa di Corinto seguiva addirittura tendenze protogno-
stiche, 109 allora lo slogan paolino della libertà dalla legge potrebbe aver
stretto un pericoloso legame con l'atteggiamento protognostico di fon-
do, trovando espressione in comportamenti come quello del peccatore
di 1 Cor. 5. Che a Corinto lo slogan «Tutto mi è lecito» corrispondesse
all'autocomprensione di almeno un determinato gruppo di etnicocristia-
ni, è chiaramente indicato da 1 Cor. 6,12, ove con questa parola d'ordi-
ne si giustifica la frequentazione delle prostitute. 11 ° Fondamentale è il mo-
do in cui Paolo, nel tentativo teologico di smascherare il libertinismo dci
corinti come falsa pista di una libertà assolutamente malintesa, pone il ter-
mine «corpo», crwµa, al centro della propria argomentazione teologica.

Nel campo semantico del concetto proposto come tema,


<ifornicazione», 7topvda, troviamo i termini portanti x.o~Àia
(ventre), crwµa (corpo) e 7t'JEU[J.IX (spirito); in questo caso crwµa
si trova in antitesi sia con x.o~Àia sia con 7tve:uµa. A questa
triade di elementi costitutivi dell'esserci corrisponde la triade
delle persone coinvolte: il kyrios, la prostituta e il cristiano, il
quale o è schiavo in forza della sua «libertà», o è veramente li-
bero in virtù della libertà donata in Cristo.
Il ventre, se esiste solamente per i cibi e i cibi per esso, è considerato quel-
la parte dell'uomo che non è specificamente umana. Per quanto riguar-
da il ventre, non c'è alcuna differenza tra animale e uomo." 1 Alla mas-
sima «il ventre appartiene al cibo», " 2 certamente uno slogan corrente
108. Ovviamente questo non sarebbe stato visto come una diffamazione negli ambien-
ti etnicocristiani di Corinto, ma sarebbe invece stato valutato positivamente.
109. Non bisogna pensare che la gnosi fosse poi così diffusa a Corinto, come ritiene
invece Schmithals, Die Gnosis in Korinth. Per quanto mi convinca poco la sua tesi ri-
guardante i contromissionari in Galazia, tuttavia per Corinto vorrei poter ipotizzare
concezioni gnostiche, o meglio, per essere più prudenti, protognostiche.
l 10. Resti qui in sospeso la questione su quanto il linguaggio dei corinti rimandi a una
prestoria stoica e su quanto questo colga nel segno a proposito di crup.;:>ÉpEt nella rela-
tivizzazione dello slogan operata dal paolino où mina crup.qiÉpEt (così Conzclmann,
KEK, 138).
II 1. Le questioni che riguardano la cultura alimentare non rientrano nell'orizzonte
di Paolo; perciò non gli viene neanche in mente che esse non sono fenomeni soltanto
naturali ma anche culturali, e che come tali fanno parte della storicità dell'uomo.
I 12. Questa massima ricorda fatalmente lo slogan odierno «la mia pancia è solo mia»,
che mescola piani di realtà anche diverse. Lo si intende come un'affermazione riguar-
dante il piano puramente biologico, trascurando quello etico - la «pancia» appartiene
anche al bimbo non nato - che a sua volta va distinto da quello giuridico. Il caso con-
creto pone ogni volta di fronte a una scelta di tipo etico.
168 La teologia di Paolo

negli ambienti della comunità di Corinto e ripreso positivamente da Pao-


lo ai fini della sua argomentazione, si oppone antiteticamente la sua mas-
sima, «il corpo non appartiene alla fornicazione». Così, mentre il ventre
esce addirittura dal campo di rilevanza teologico-antropologica, lo stes-
so non accade per il corpo. In senso astrattamente stretto dunque, il ven-
tre non fa parte del corpo. 113 Per il v. 13, il corpo è qualcosa di più del-
l'insieme formato dalla sua sostanza biologica concretamente disponibi-
le. Qui già si può riconoscere un elemento essenziale dell'antropologia
paolina.
Per Paolo, il corpo è l'uomo stesso nella sua costituzione fi-
sico-storica in quanto essere responsabile, dunque l'uomo nel-
la sua interezza. Rudolf Bultmann ha definito a ragione il crw-
tJ.a paolino come «la persona nella sua globalità». 114 Con lui
bisogna anche convenire che l'uomo è detto crwfJ.a «in quanto
può fare di se stesso l'oggetto del proprio agire o in quanto si
esperisce come soggetto di un avvenimento, di qualcosa che
egli subisce. Può dunque essere chiamato crwtJ.a in quanto ha
un rapporto con se stesso, può prendere in qualche modo le
distanze da sé ... ». 115 Tuttavia questa definizione, che in fondo
si rifà più a Kierkegaard che a Heidegger, andrebbe completa-
ta tenendo conto dell'ontologia fondamentale di quest'ultimo:
inteso come «persona nella sua globalità», il crwµ.a è anche
l'uomo in quanto essere-nel-mondo, e dunque anche 116 «con-
esserci con gli altri». 117 Dell'essere somatico è dunque parte
113. Niederwimmer, Askese und Mysterium, 77, afferma opportunamente: «La dimo-
strazione dell'apostolo finisce per decretare una distinzione di principio tra xoiÀtcz e
crùip.cz, da cui consegue che i precetti alimentari (che si riferiscono alla xoiì.icz) per il
cristiano sono divenuti adiaphora, mentre lo stesso non avviene con la purità sessuale
richiesta (che ha a che fare con il crwp.cz)».
114. V., ad es., anche Ellis, Interp. 44, 138: « ... Paolo considera l'individuo come un es-
sere unitario, che può essere visto da varie prospettive ma che esiste totalmente all'in-
terno della creazione naturale presente. In tale contesto Paolo raffigura il corpo come
la persona fondamentale considerata da un particolare punto di vista» (corsivo mio).
Di diverso parere Gundry, crùi1.1.cz in Biblica! Theology, 51 ss., per il quale ventre e
corpo sono pressoché identici. 115. Bultmann, Theol., 196 (tr. it. 189).
116. Heidegger, Essere e tempo,§ 26; 199: « ... il con-essere è un costitutivo esistenzia-
le dell'essere-nel-mondo ... L'esserci, in quanto è, ha il modo di essere dell'essere-as-
sieme».
117. A questo proposito è bene accennare alla controversia tra Rudolf Bultmann ed
Ernst Kasemann sul concetto paolino di crw1.1.cz. Tutto sommato, però, non si tratta di
uno scontro vero e proprio, con posizioni contrapposte chiaramente delineate, come
Le lettere di Paolo

costitutiva la relazione con altre persone. In questo modo an-


che la frase O xupwç -rcf> O'W(J.Cfit acquista il SUO senso pieno:
poiché il corpo non è qualcosa di esteriore, qualcosa di solo
aderente al vero io, ma anzi rappresenta questo io nel suo mo-
do storico di esistere, non può neppure essere abbandonato a
una prostituta come sostanza separabile dall'io. Se di fatto è
vero che 6 xoÀÀwp.e:voç -r'fl 7topvri EV crwp.a fo-rt v, V. I 6, allo- l lS

ra colui che vuole dimostrare di essere libero frequentando i


bordelli in realtà è assolutamente schiavo, perché nella sua esi-
stenza più intima e vera viene dominato dall'essere uno con la
prostituta; per dirla col v. I 2, È~oucrw:cr./J.~cre:-ra.t. La lib~rtà go-
duta all'eccesso si trasforma in schiavitù catastrofica. E l'illu-
sione spaventosa di chi si autodistrugge perché, commettendo
l'errore fatale di credersi dalla parte della salvezza, in realtà si
trova dalla parte della rovina. " 9 Proprio questo dato di fatto -
la reificazione dell'esistenza somatica e di conseguenza la sper-
sonalizzazione dell'uomo -viene dimostrato col ricorso alla ci-
tazione di Gen. 2,24.
Tale dimostrazione presenta tuttavia un piccolo difetto: proprio il ter-
mine crwµa è sostituito da crap!;, considerato in modo tanto negativo da
Paolo (v. I Cor. 3, r-3): 120 dç crapxa p.iav. È indiscutibile che qui crap!;
sia sinonimo di crwµa. Ab xoÀÀwp.e:voç "TI 7topvn si contrappone al v. 17
oÒÈ: xoÀÀW(J.e:voç "t'cfl xup[cp. Con il xoÀÀiicr.SaL viene riespresso il legame
strettissimo tra il credente e il kyrios. E proprio qui Paolo non propone
alcuna dimostrazione scritturistica. Ancor più colpisce che, nonostante
l'alto valore antropologico di crw1.1.a nel pensiero di Paolo, qui l'apostolo
accade invece per la questione del significato di otxatocruvì') -~hou. Kascmann è nel giu-
sto quando ritiene che per l'apostolo non valga il concetto odierno di persona o addi-
rittura di personalità; ha egualmente ragione quando nell'cssere-crw1.1.a vede concre-
tizzata la possibilità di comunicazione (Anliegen und Eigenart der pln. Abendmahls-
lehre, 32). Ma considerando che Bultmann aveva definito il crci'J1.1.a struttura ontologi-
ca dell'esserci umano, l'obiezione di Kasemann non era giustificata se avveniva in li-
nea di principio, ma solo in quanto sfumatura. Pressappoco nella stessa direzione va
anche il giudizio di Erhardt Giittgcmanns, Der leidende Apostel, 206 ss., riguardante
il dissenso tra Bultmann e Kasemann.
II 8. Alla lettera la frase suona estremamente cruda: chi è «incollato» alla prostituta
forma con lei un'unica persona.
119. La medesima struttura di pensiero si ritroverà in Rom. 7.
Come già illustrato, in
1 20. 1 Cor. 5, 5 la salvezza del r.vEu1.1.a viene contrapposta alla
rovina della crap~.
La teologia di Paolo

non dica «Egli è [con lei] un unico crwµcx», come ci si aspetterebbe dallo
stile dell'argomentazione, bensì ev 7tve:uµa fo·nv. E questo nonostante
l'espressione crwp.cx Xptcr-ro0, che ricorrerà più avanti in I Cor. l 2. 121
Proprio l'affermazione di 6,15 riguardo ai µÉÀl] -rou Xptcr-rou, che non
devono diventare r.opvl]ç iJ.ÉÀl], 122 avrebbe fatto pensare che in qualche
modo, nel v. 17, sarebbe comparso il termine crw1J.cx.
Così però si pone la questione di come intendere il senso
dell'affermazione secondo la quale chi ha un legame stretto
con il Signore è con lui «un unico Spirito». Anche qui ci si po-
trebbe chiedere nuovamente se tale formulazione vada intesa
come identità d'essere tra il cristiano e il suo Signore. Che la
consustanzialità sia data dalla natura spirituale comune al cri-
stiano e a Cristo? Forse in questo modo - che la si chiami mi-
stica oppure no - l'individualità del singolo cristiano va addi-
rittura perduta? Già a proposito di EV crwp.a, concetto applica-
to a chi frequenta i bordelli e alla prostituta, Erhardt Giittge-
manns dichiara: «Essi non sono più due individui distinti, ma,
insieme, un unico essere». 123 In quanto unico soma, fornicato-
re e prostituta sono strumento di fornicazione, la 7topvda, pre-
sentata in modo addirittura ipostatico. 124 Dunque il cristiano
che appartiene al Signore (dat. di appartenenza: -rò crwp.a -refi
xuptq.>) conclude con lui un'unione ipostatica fondata dal pneu-
ma? La formulazione proposta da Paolo al v. 17 suggerirebbe
una tale interpretazione, che però risulta inconciliabile con la
concezione teologica di fondo dell'apostolo così come esposta
fino ad ora a proposito di I Cor. Contro un'interpretazione
consustanziale di questa e di altre dichiarazioni paoline vi è il
dato di fatto che per Paolo Gesù in quanto Figlio di Dio è il
kyrios, intendendo kyrios stricto sensu, ossia colui che sta di
fronte a chi è sotto il suo dominio. Anche in I Cor. 6, 13.17 si
parla marcatamente del kyrios. Un'unione di natura tra òouÀoç
e xupwç di fatto costituirebbe una maxima contradictio in se-
metipso. Il pensiero paolino può essere facilmente sondato per

121. V. anche Conzelmann, KEK, 141 s. e 142 n. 28.


122. Riguardo a questa formulazione, Johannes Weiss parla di ossimoro quasi bla-
sfemo, KEK, 163. 123. Giittgemanns, Der leidende Apostel, 234.

124. Similmente anche op. cit., 234.


Le lettere di Paolo

quanto riguarda le sue strutture ontologiche, ma - e qui ha ra-


gione Giittgemans - per quanto attiene alle categorie relative
alla natura è impossibile stargli dietro. 121
Karl-Adolf Bauer ha interpretato in modo appropriato l'e-
spressione ev nvEUfW. partendo dal comunicare e dal partecipa-
re dello Spirito. 126 Secondo Bauer, nello Spirito in quanto tem-
po-spazio della sua presenza il kyrios si rivolge a noi corporal-
mente e al tempo stesso ci impegna corporalmente. 127 Certo
non è sufficiente quando, richiamandosi a Kurt Stalder/ 28 di-
chiara che l'essere ev nvEu[J-a con il Signore comporta «un' ap-
partenenza per così dire giuridica al kyrios». 129 Che Paolo non
intenda affermare alcuna consustanzialità è evidente anche da
6,19; ciò che diceva in 3,16 s. a proposito della comunità tem-
pio di Dio viene ora trasposto su un piano individuale: il vo-
stro soma è tempio dello Spirito santo che dimora in voi e che
avete da Dio.
La considerazione soteriologica di 6,20, «infatti siete stati comprati a ca-
ro prezzo, fiyopacr.S~'tc. yà.p "'CLµYjç», detta quasi per inciso, motiva l'af-
fermazione di 6, 19, «voi non appartenete a voi stessi (bensì al Signore)».
Questa osservazione di tipo soteriologico, tuttavia, mostra ancora una
volta quanto la parenesi paolina ricavi senso solo dall'indicativo soterio-
logico. Anche Ger. 9,24, impiegato in I Cor. 1,31 all'imperativo, presup-
pone l' «indicativo» ciTcoÀu'tpwcrLç menzionato in 1,30. Può essere che per
6,20 Paolo abbia presente ~ 48,8 s.: Àu"'Cpwcrc."'CaL av.Spwr.:oç; où Òwcrc.L "'CcjJ
.Sc.tjJ È!;tÀacrp.a aù'tou xal 't~v "'CLIJ. ~v 'tijç Àu'tpwcrc.wç 'tijç ~ux'i)ç aùwu.
Ma se dovesse aver scritto 6,2oa solo incidentalmente come motivazio-
ne, ciò significherebbe che con i corinti poteva dare per scontato l'inte-
ro complesso della soteriologia, e che dunque non riteneva più necessa-
rio fornire una spiegazione a parte per un'osservazione come questa.
Quando poi in 6,2ob, concludendo, esclama «Glorificate Dio nel vostro
corpo», si potrà allora parafrasare: «In tutti gli ambiti della vostra esi-
stenza vivete in modo tale da rendere onore a Dio».

Le dichiarazioni di Paolo in I Cor. 7 a proposito di matri-


monio e celibato, che in parte sono decisamente di principio
nonostante siano legate alla situazione contingente dei corin-
ti che gli hanno posto la questione, non contengono neppure
125. Op. cit., 235. 126. Bauer, Leiblichkeit, 76 s. 127. Op. cit., 77.
128. Stalder, Das Werk des Geistes, 433 n. 32. 129. Bauer, Leiblichkeit, 77.
La teologia di Paolo

una citazione veterotestamentaria. Tuttavia, è proprio in que-


sto capitolo che trova significativamente espressione la posi-
zione di Paolo rispetto all'Antico Testamento. 130
La chiave che consente di comprendere questo capitolo in parte si ha già
col fatto che al v. r la nota e famigerata espressione xa.ÀÒv àv.Spùmcp yu-
va.ixÒç JJ.~ aTI't"e:o-.Sa.i viene considerata o come gnome paolina o come ci-
tazione di una concezione proveniente da gruppi ascetici all'interno del-
la comunità di Corinto. 131 Questa seconda interpretazione è la più pro-
babile. Se infatti con questa massima Paolo esprimesse la propria convin-
zione personale, tutti i suoi enunciati ne ricaverebbero subito una con-
notazione negativa per quanto riguarda il matrimonio. Questo infatti ri-
sulterebbe posto su una posizione di inferiorità rispetto al celibato,
mentre l'invito del v. 2, secondo il quale ciascuno dovrebbe avere il pro-
prio coniuge per scongiurare il pericolo della fornicazione, quella TCOp-
vda. già osteggiata al cap. 6, ridurrebbe il matrimonio a un puro reme-
dium concupiscentiae. Ma se al v. r Paolo dovesse citare uno slogan in
voga a Corinto, allora vi si opporrebbe al v. 2 con il chiaro imperativo
txhw. Certo, resterebbe pur sempre la motivazione con il remedium con-
cupiscentiae, ma il ÒÉ all'inizio del v. 2 renderebbe palese l'opposizione
alla massima circolante a Corinto. Comunque, qualunque sia il giudizio,
qui si percepisce egualmente un certo disprezzo per il matrimonio. E
nelle due ipotesi tale disprezzo differisce solamente per intensità.
Comunque si giudichi il v. r, non soltanto è palese che è la
motivazione del remedium concupiscentiae a determinare l' ar-
gomentazione di Paolo, ma anche e soprattutto che, come sot-
tolineano parecchi commentatori di l Cor., in l Cor. 7 l'apo-
stolo non cita né Gen. 1,27 s. né Gen. 2,18. All'inizio del cap.
7, dunque, la necessità del matrimonio per la maggior parte
delle persone viene motivata solo nel suo aspetto negativo. Ai
contenuti positivi del matrimonio, come per esempio la co-
130. Non può rientrare nei compiti di una teologia neotestamentaria quello di seguire
senza lacune il ragionamento da 7, 1 a 7,40, anche se essa, come la presente, intende ri-
calcare per meglio comprenderla la teologia di Paolo nella sua argomentazione teo-
logica. Per questo motivo vengono esaminate approfonditamente solo poche affer-
mazioni, quelle particolarmente importanti ai fini del compito che ci proponiamo, e
in particolare 7,1-9 e 7,25-40.
13 1. Si tratterebbe di una convinzione paolina ad es. per Weiss, KEK, 169 s.; Conzcl-
mann, KEK, 147; Niederwimmer, Askese und Mysterium, 80 n. 3; per Lang, NTD,
89; Schrage, Ethik des NT, 217 (tr. it. 271 s.); più cauto in precedenza in ZNW 67,
215; Merklein, «Es ist gut fur den Menschen, eine Frau nicht anzufassen», 389-391, si
tratterebbe invece di una concezione sostenuta a Corinto e solo citata da Paolo.
Le lettere di Paolo 1 73

munione coniugale tra uomo e donna e la discendenza, espres-


samente sottolineati nell'Antico Testamento, qui non si accen-
na nemmeno.
Al tempo stesso, tuttavia - e senza questo simul quanto è
stato appena detto risulterebbe parziale e inappropriato -, è
anche da ricordare che sotto un altro aspetto Paolo non incri-
mina il matrimonio così come invece fa la legge mosaica con la
sua concezione dell'impurità cultuale. Paolo non è più prigio-
niero di una comprensione della realtà simile a quella che si leg-
ge, ad esempio, in Lev. I 5. Per lui, il mondo non è più diviso
in due settori, quello di chi è cultualmente puro e quello del-
l'impuro. Lo stereotipo àxa-&ap'toç/-oi fowi/foovwi di Lev.
1 5 per lui è diventato privo di significato. Lo formulerà suc-
cessivamente e in modo programmatico nella lettera ai Roma-
ni (Rom. 14,14), forse sulla base della tradizione su Gesù e-
sposta in Mc. 7,15; 132 nel Signore Gesù egli è persuaso che
nulla sia impuro per se stesso, oùòÈv xoivòv òi'fou'tou. A ciò
corrisponde positivamente Rom. 14,20: «Tutto è puro, r.ana
µÈv xaiJ.apa». Ciò che Ernst Kasemann afferma a proposito di
Mc. 7,15 - che Gesù «elimina la distinzione, fondamentale per
tutta l'antichità, tra il temenos, la sfera del sacro, e la profanità,
e può quindi porsi tra i peccatori. Per Gesù all'origine del-
l'impurità del mondo c'è il cuore dell'uomo» 133 - vale anche
per Rom. 14,14.20 nonché per il cap. 7 di 1 Cor., che è inserito
nell'orizzonte delle affermazioni programmatiche di Rom. 14.
Per Paolo, dunque, il matrimonio non ha nulla a che vedere
con l' àxa-8apcrla. Tale termine per lui è (quasi) equivalente a
r.opvda; entrambi i termini ricorrono nell'elenco di vizi di Gal.
5, 19, ove r.opvda e àxa-8apcrla vengono nominati come primi
due k:pya TYJC, crapxoç. Come Gesù con Mc. 7,15 134 aveva tra-

132. E. Kascmann, HNT 8a, 361 s.


133. Kasemann, Il problema del Gesù storico, 50.
134. Considero questo logion parola autentica di Gesù, nonostante attualmente vi sia-
no tendenze a ritenerlo espressione della riflessione teologica postpasquale; v. Hiib-
ner, Das Gesetz in der synoptischen Tradition, 157 ss. Il giudizio di Karl Elliger sotto
il profilo della storia della tradizione (HAT 1/4, 196), secondo il quale il v. 18 in Lev.
15 sarebbe un'aggiunta, potrebbe essere appropriato; esso semplicemente non rientra
174 La teologia di Paolo

sferito il concetto di impurità dall'ambito cultuale a quello eti-


co, così anche Paolo. Per un enunciato come quello di Lev. r 5,
r 8 non avrebbe avuto alcuna comprensione. IJ 5 Questo getta
una luce particolare sulla comprensione paolina di matrimo-
nio, espressa anche in I Cor. 7: il matrimonio è senz'altro in-
serito nel consueto ambito della responsabilità umana. Anche
qui l'esistenza cristiana dev'essere messa alla prova. Ernst Ka-
semann lo ha ribadito con molta chiarezza (nella sua polemi-
ca con Bultmann, che non ebbe gran successo): la relazione
della corporeità «non si riferisce all'esistenza isolabile,' 36 ma a
quel mondo in cui le potenze e le persone e le cose si scontra-
no con violenza, si verificano amore e odio, benedizione e ma-
ledizione, servizio e distruzione, inoltre sessualità e morte con-
dizionano l'uomo in misura essenziale e nessuno mai, nel pro-
fondo, appartiene unicamente a se stesso»; ' 37 egli definisce la
corporeità «l'essenza dell'uomo in quanto ha necessità di par-
tecipare a ciò che è creaturale, e nella sua capacità di comuni-
care nel senso più lato, e cioè nel suo rapporto con un mondo
che di volta in volta gli preesiste». ' 38 Ed è proprio in questo
senso che Paolo mette in evidenza anche l'obbligo coniugale
reciproco che lega i coniugi tra loro (vv. 3 s.). L'essere sessuale
dei coniugi per lui fa parte dell'essere somatico, dato che l'uo-
mo in quanto crwµa è la persona responsabile nel proprio mon-
do storico. L'essere somatico implica dunque anche l'essere ses-
suale. Ovviamente la questione è quale posizione abbia l'esse-
re sessuale all'interno di quello somatico. E a questo punto non
gli si potrà certo attribuire una posizione superiore nella com-
prensione di Paolo. Resta comunque di fondamentale impor-
tanza che Paolo non elabora il suo pensiero nell'ontologia dei
due ambiti ontici di purità cultuale e impurità cultuale, e nep-
nell'impianto sistematico di Lev. I 5, che riguarda i casi di emissione seminale patolo-
gica per l'uomo, e le mestruazioni per la donna.
I 3 5. Lev. I 5,18: xal yuv~, iàv xot1J.71-8fl à.v~p iJ.E't"aù•"iiç xot"!l]v crnÉpiJ.<X"!oç, xal Àou-
aov't'cu Uòa't't xcd àxcl:i9ap't'ot Ecrov't'at Ewc; ÈcntÉpaç.
136. Neanche per Bultmann.
137. Kasemann, Zttr paulinischen Anthropologie, 42 s. (tr. it. 38).
138. Op. cit.,43 (tr. it. 39).
Le lettere di Paolo 175
pure accetta un 'ontologia della scissione in un ambito cultuale
e uno profano. 139 Tipico dell'atteggiamento di fondo di Paolo
è il desiderio, espresso al v. 7, che tutti gli uomini siano come
lui, dunque non sposati, e che però ciascuno abbia il proprio
carisma, «chi in un modo, chi in un altro»; lo stesso vale per il
v. 8, ove, a proposito della situazione di non sposati e di vedo-
ve, osserva che sarebbe bene - xaÀov come al v. r - che restas-
sero come lui. E ancora, quasi come parallelo al v. 2: se però
non ci riuscissero, che si sposino. È certo meglio sposarsi che
«ardere», v. 9.
Come comandamento del Signore (v. Mt. 5,32) 140 intima poi l'assoluto
divieto di divorziare, mettendo così da parte, come Gesù prima di lui,
l'istituzione della lettera di divorzio di cui si parla in Deut. 24,r-4. A
questo riguardo Paolo, come Gesù, abroga dunque la torà. Tuttavia il co-
siddetto privilegium Paulinum del v. r 5 attenua in parte il carattere as-
soluto del divieto di divorzio in Gesù.
La decisione definitiva relativamente alla comprensione di I Cor. 7
potrebbe aversi con l'interpretazione di I Cor. 7,25-40, in cui Paolo ri-
sponde all'interrogativo riguardante le vergini. 141 La sequenza dell'ar-
gomentazione è la seguente: innanzitutto Paolo ammette di non posse-
dere alcun comando da parte del Signore, bwtay~v xuptou, e che perciò
dà (solamente) il suo consiglio personale, yvw1J.riv ÒÈ ÒtÒWtJ.t. Tale con-
siglio verrebbe comunque da uno che ha sperimentato la misericordia
del Signore e in quanto tale merita fiducia. 142 In tal senso, alla fine del
capitolo sottolinea di essere persuaso (òoxw) di possedere anch'egli lo
139. Per questa ragione non posso condividere il giudizio di Niederwimmer, per il
quale I Cor. 7,1, che egli intende come espressione della convinzione paolina, non
formula solamente in generale un'avversione nei confronti del rapporto sessuale - e
questo per paura della contaminazione rituale che ogni contatto sessuale comporta,
dunque per paura dell'infezione demoniaca contratta con l'atto sessuale-, ma al tem-
po stesso esprime anche un'avversione timorosa nei confronti della donna in genere
(Askese und Mysterium, 8 5).
140. A prescindere dall'aggiunta matteana mxpEX't'Oç Myou 7topvdaç, certo la forma più
antica del logion autentico di Gesù, tramandato più volte e in modo differente; Hiib-
ner, Das Gesetz in der synoptischen Tradition, 42 ss.
141. 7tEpt ÒÈ: -;:wv ;;:ap.Sivwv: sono giustamente contrari all'opinione che con ;;:ap·%vat
siano intese le cosiddette virgines sttbintroductae (Weiss, KEK, 193 ss.; Lietzmann,
HNT, 36 s.; Delling, Paulus' Stellung zu Frau und Ehe, 86 ss.), tra gli altri Conzel-
mann, KEK, 164; Niederwimmer, Askese und Mysterium, 106: le fanciulle non sposa-
te; Lang, NTD, 98: giovani fanciulle prima dcl matrimonio, non necessariamente fi-
danzate.
142. Così Lang, NTD, 98, traduce mcr't'oç; Conzclmann, KEK, 162: uomo di fiducia.
La teologia di Paolo
Spirito di Dio (v. I Cor. 2,16). Quello di Paolo è dunque un consiglio
pronunciato nello Spirito di Dio (espresso in 7,26-28 con VO(J.tl:w). Il v.
26 chiarisce qual è il presupposto della situazione: le tribolazioni escato-
logiche sono imminenti (Ève:cr'twcrav = µÉÀÀoucrav) 143 oppure sono già
cominciate (Èvrn'twcrav =presente). 144 Il pericolo di cui parla Paolo in 1
Cor. r 5>3 2, 145 considerata l'attesa prossima 146 che si esprime anche in 1
Cor., potrebbe appoggiare l'ipotesi che Ève:cr'twcrav vada tradotto con
«presente». 147 Ed è proprio questa situazione di necessità, formulata con
linguaggio apocalittico, ad essere menzionata da Paolo come motivazio-
ne del xaÀov del v. 26. Per via di tale situazione sarebbe bene «rimanere
così», dunque non sposati. Tuttavia, chi è già sposato con una donna ri-
manga tale. Ma chi non è sposato, resti celibe. Se però si sposa, non pec-
ca. Neanche la vergine che si sposa commette peccato. Segue poi dacca-
po un accenno alla situazione: Paolo intende risparmiare quelli che an-
cora non sono sposati. Che non abbiano a soffrire -8-Àt~tc; - sinonimo di
à:vayxYJ del v. 26. In 7,29-3 r, Niederwimmer scorge una digressione do-
vuta a motivazioni di tipo apocalittico. Come apocalittico a cui siano
stati rivelati determinati misteri cosmici, Paolo li svela come una rivela-
zione: 6 xatpÒç cruve:cr'taÀµÉvoç Ècr'ttv. Tale rivelazione esige un atteggia-
mento vitale ben preciso, che sarebbe «delineato in cinque frasi, costrui-
te in modo simile, segnate dal pathos della distanza escatologica (vv.
29b-3 ra) ... ». 148 Col v. 32, tuttavia, Paolo torna al ragionamento che sta-
va sviluppando prima della digressione; dopo l'avvertimento relativo al-
la -8-Àt~tç vi è quello relativo al (J.Éptµva. 149 In 7,36-38 Paolo ripete, mo-
dificandolo lievemente, il consiglio che aveva già espresso in 7,26-28. Il
consiglio che dà alle vedove, vv. 39 s., è in linea con quanto affermato in
precedenza.
Quest'analisi della pericope 7,25-40 compiuta da Niederwimmer può
essere ampiamente condivisa. Si potrebbe esitare nel considerare i vv.
29-3 r una digressione, poiché l'affermazione del v. 29a, da lui definita
rivelazione, è in stretto rapporto tematico con il v. 26a, mentre l'atteg-
giamento vitale richiesto ai vv. 29b-3 ra è implicito, o almeno abbozza-
to, in quanto esposto immediatamente prima.
Quanto Niederwimmer afferma a proposito dell'intero ca-
143. Così, ad es., Lietzmann, HNT, 32 s.; Niederwimmer, Askese und Mysterium,
I08 n. 142.
144. Ki.immel, HNT, 178, come correzione a Lietzmann, op. cit., 33; Fascher, ThHK,
194; Strobel, EWNT 1, 188 (DENT r, 207).
145. V. anche 1 Cor. 4,9-13; 2 Cor. 1, in particolare 1,8ss.;11,23-33 ss.
146. Anche se percepita in modo non così pressante come in I Tess. 4,13 ss.
147. V. anche Gal. 1,4. 148. Niederwimmer, Askese und Mysterium, 109.
149. Op. cit., 111.
Le lettere di Paolo 177
pitolo è particolarmente appropriato per la pericope 7,25-40:
le varie possibilità presentate nel testo sono il «risultato della
motivazione contraddittoria». 150 La preferenza accordata alla
verginità verrebbe motivata in un primo tempo con l'accenno
alla catastrofe apocalittica, 151 ma poi all'avvertimento relativo
a tale catastrofe si sostituisce quello relativo alla preoccupazio-
ne: la preoccupazione per ciò che è del mondo toglie all'uomo
la possibilità di appartenere interamente al Signore. Chi è spo-
sato non è in grado di realizzare adeguatamente l'esistenza e-
scatologica. 152 Ma allora preoccuparsi di ciò che è del Signore
e preoccuparsi di ciò che è del mondo sono atteggiamenti
fondamentali in contraddizione tra loro. Di fatto si dovrà ri-
scontrare in Paolo un'argomentazione non del tutto coerente.
Se infatti la nubile, stando al v. 34, preoccupandosi di ciò che è
del Signore mira ad essere santa nel corpo e nell'anima, allora
e contrario chi è sposato non è in grado di raggiungere in mo-
do appropriato questa condizione di santità. Ma allora, può
appartenere a tutti gli effetti al gruppo dei xÀrytot &yiot chia-
mati in causa da I Cor. 1,2? Proprio in considerazione del fat-
to che, se prese stricto sensu, le dichiarazioni di Paolo presen-
tano una certa contraddittorietà, è evidente che non vanno
intese in senso strettamente letterale. Quando Niederwimmer
parla di ascesi sessuale, della sua motivazione cristologica,1 53 c'è
da chiedersi quale sia il significato del termine «ascesi». È la
motivazione presentata di volta in volta a conferirgli tale si-
gnificato. Se Paolo parla di questa cosiddetta ascesi sessuale in
riferimento a se stesso, è certo perché il suo ministero aposto-
lico lo impegna totalmente. E se, indipendentemente dalla pro-
pria esistenza, fa riferimento alla preoccupazione riguardante
le cose del Signore, è certo perché una persona che abbia tale
preoccupazione si dedicherà interamente a ciò che compete al-
la chiesa; e stando al cap. 12 non deve trattarsi necessariamen-
te della missione. In fondo, i compiti ecclesiali hanno a che fa-
re anche con la situazione escatologica. Dunque le due moti-
vazioni appena menzionate, ossia la tribolazione apocalittica e

150. Op. cit., 123. 151. Op. cit., 108. 152. Op. cit., 111 s. 153. Op. cit., 113.
La teologia di Paolo

l'elemento della preoccupazione, anche se non proprio coe-


renti l'una con l'altra, tuttavia non vanno del tutto separate in
riferimento alla situazione escatologica.
Ma soprattutto: se si intende veramente mantenere l'espres-
sione «ascesi sessuale», allora concettualmente bisogna stac-
carla del tutto dal tema dell'impurità legata al sesso. Il fatto
che il motivo apocalittico non appaia prima di 7,26 154 non di-
ce nulla sulla valenza di tale motivo. 155

1 Cor. 8- 10: la libertà e i suoi limiti


Già il cap. 6 trattava della libertà: lì Paolo attaccava lo slogan Tiav-ra
p.ot E~Ecr'ttv, certo pronunciato con arroganza, con il quale i corinti difen-
devano il loro possesso della libertà. Tuttavia, se nel nostro impianto
sistematico la pericope r Cor. 6,12 ss. non è stata intitolata «libertà», ciò
dipende dal fatto che vi si trattava la perversione della libertà sulla base
di una comprensione pervertita del corpo; Paolo dunque non aveva te-
matizzato la libertà in quanto tale bensì la questione del corpo. In r Cor. 8-
ro, 156 invece, il tema è la natura della libertà. Da questa natura derivano
pure i limiti della libertà, e quindi contemporaneamente anche il luogo
in cui è possibile, anzi necessaria, l'autorinuncia alla libertà.
Riguardo a r Cor. 8, in cui ci si interroga sulle carni immolate agli
idoli, 7tEpÌ -rwv dòwì..o-Bu-rwv, c'è da rilevare che a questo punto nel qua-
dro di I Cor. avviene qualcosa di veramente singolare. Nel cap. 6 si mo-
strava come i corinti intendessero considerare la questione delle prosti-
tute dal punto di vista della libertà, mentre Paolo riuscì a girare la que-
stione dal tema della libertà a quello del corpo. Ora avviene l'esatto con-
trario. I corinti pongono la questione relativa alle carni immolate agli
idoli, e Paolo gira l'interrogativo sul tema della libertà.
La strategia seguita dall'apostolo merita attenzione. Inizia riprenden-
do di nuovo in modo apparentemente positivo una massima dei corinti:
sappiamo - e dunque conveniamo con voi - che tutti hanno conoscen-
za, yvwcrtç. Ma questo che sembra essere un consenso diviene ben pre-
154. Op. cit., 108.
l 55. Non si dovrebbe parlare di protocattolicesimo - così Niederwimmer, Askese
und Mysterium, 124 -, poiché tale definizione mal si adatta all'attesa apocalittica. Nel
Nuovo Testamento il protocattolicesimo compare dove si apre la via a una lunga sto-
ria della chiesa.
l 56. Riguardo a 1 Cor. 8-10 cfr. Probst, Paulus und der Brief Posso convenire solo
parzialmente con i suoi risultati, benché egli riconosca chiaramente il problema dcl
rapporto tra retorica ed epistolografia.
Le lettere di Paolo 179
sto solo apparente. Ne! v. 1 b gnosis e agape vengono menzionate in an-
titesi, e alla seconda si attribuisce l'olxoòop.e:iv, forse anche in riferimento
alla olxoòop. ~ del cap. 3. E nell'uso tipicamente paolino dei vari concetti,
è poi decisiva l'improvvisa affermazione che si è conosciuti da Dio. La
vera gnosis è la gnosis di Dio (genitivo soggettivo), in cui consiste la no-
stra salvezza. Una volta relativizzata la gnosis umana, a cui non viene at-
tribuita quasi nessuna importanza - ha infatti un brutto difetto: rpucnoi
(v. l) - ora Paolo, specificando qual era stato l'interrogativo (7te:p~ 't-fjc;
~pwcre:wc; oliv 'twv e:lowÀo./J. 1.J'twv, v. 4), può riagganciarsi alla scienza dci
corinti con un rinnovato, ora però decisamente relativizzato, oYòap.e:v.
«Sappiamo che non c'è alcun idolo, alcun e:YowÀov, nel cosmo. Sappiamo
che non c'è alcun dio all'infuori dell'unico Dio, oùòdc; ./J.e:òc; e:l p.~ dc;».
Un mondo privo di idoli. E questo proprio perché c'è solo l'unico Dio.
In una Corinto politeista, spicca l'ammirevole monoteismo cristiano dei
cristiani ivi residenti.

Fino a questo momento nulla lascia supporre che la strate-


gia argomentativa di Paolo punti a evidenziare quali sono i li-
miti della libertà. Alla fine del v. 4, tuttavia, ci si può certo a-
spettare che anche il consenso espresso da Paolo possa essere
nuovamente ridimensionato. E, di fatto, le parole sulla cono-
scenza di un certo fatto religioso, che in un primo tempo suo-
nano tanto univoche, vengono poi relativizzate da Paolo, che
pone la salda conoscenza monoteistica - si osservi che fino a
questo momento, nel cap. 8, di fede non si parlava - al di fuori
della prospettiva del reale, elevandola al piano esistentivo: cer-
to, vi sono cosiddetti dèi, sia nel cielo sia sulla terra, come pure
vi sono molti dèi e molti signori, dunque molti esseri con po-
teri ultraterreni: dcrtv, esistono. Ma per noi, ~µ.iv,ll 7 esiste so-
lamente l'unico Dio, il Padre. Il dogma dell'dç -8e:6ç non è dun-
que una proprietà intellettuale di cui disporre. L'unico Dio è
piuttosto quella realtà che determina l'esistenza della comuni-
tà cristiana. Perciò della sua esistenza possiamo parlare solo se
sentiamo di essere quelle persone totalmente e interamente de-
finite da quest'unico Dio. Già parlare di Dio è un atto esisten-
tivo. Di lui, o si parla in questo modo, oppure l'dç -8e:oç - non
soltanto fede veterotestamentaria fondamentale, così come su-
blimamente espressa nello Shema' ]ifrael di Deut. 6,4, ma an-

I 57. Dat. commodi come espressione del pensiero esistenziale.


180 La teologia di Paolo

che, da dopo Senofane,ll 8 superba formula greca - è una for-


mula vuota, priva di realtà divina. Chi parla di lui in modo
soltanto teoretico, ne parla, anche se involontariamente, come
di un semplice dòwÀov, di un mero idolo, esprimendosi dun-
que in modo privo di fede.
L'elemento esistentivo citato compare anche nella parola
che Paolo colloca come apposizione all'e:lç -8-Eoç della formula
confessionale 159 da lui ripresa: egli è il Padre. Anch'essa, tut-
tavia, può essere enunciata come sterile asserto teoretico. 6 Tia-
-r~p è anzitutto tradizione veterotestamentaria; 160 ma che anche
il mondo greco conoscesse il teologumeno di Dio come pa-
dre 161 indica che il richiamo all'Antico Testamento in quanto
tale non è sufficiente. Paolo aggiunge altre due apposizioni: 162
l!; oi'.> -cà. mina e ~p.Et<; dç aù-r6v. L'espressione «ogni cosa vie-
ne da lui» può anche suonare poco esistentiva, ma lo diventa
nel momento stesso in cui il credente «sa» di essere compreso
nel -rà. 7tana. Il «noi in funzione di lui» evidenzia ancor più
chiaramente che con l'e:lç -8-Eo<; è espresso il Deus pro nobis.
Egli è la meta dell'uomo che crede. E vero, qui di fede non si
parla; ma essa è implicita nel modo in cui Paolo parla di Dio
come della realtà fondamentale che determina l'esistenza. Infat-
158. V. voi. 1, 280 s.
159. Cfr., ad es., Conzelmann, KEK, 178 e n. 38: al v. 6 compare una formulazione
che Paolo non ha creato ad hoc, il cui contenuto non è «paolino»; qui, infatti, l'apo-
stolo va ben oltre il contesto. V. anche Ch. Wolff, ThHK vn/2, 7 ss.: excursus «Das
Bekenntnis 1 Kor 8,6»; secondo Wolff, op. cit., 8, questa professione potrebbe essere
stata formulata in gruppi ellenistici giudeocristiani, per via del tema della mediazione
durante la creazione. Anche Wilhelm Thiising, Gott und Christus I, 22 5, è del parere,
come Conzelmann, che / Cor. 8,6 a proposito di Dio e di Cristo dica più di quanto
sarebbe necessario nel contesto. Tuttavia ritiene più probabile «che la formulazione
esistesse sì ancor prima della stesura di / Cor., ma solamente come frase cruciale co-
niata dallo stesso Paolo e frequentemente impiegata nel suo modo di predicare e
istruire». Riguardo alla supposizione di Klaus Wengst, Formeln, 141, per il quale la
formula di / Cor. 8,6 sarebbe di origine etnicocristiana, è critico l'atteggiamento di
Wolff, ThHK, 8 n. 41; v. anche Hengel, Christologie und ntl. Chronologie. Riguardo
a / Cor. 8,6, v. anche Niederwimmer, KuD rr, 75 ss.; Langkammer, NTS 17, 193 ss.;
Kerst, ZNW 66, r 30 ss.
160. Ad es. Deut. 32,6; Sai. 2,7; ls. 63,16; Os. r 1,1 (cfr. però Os. 11,1 LXX)
161. V. la raccolta di materiale in Schrenk, ThWb v, 951 ss. (GLNT Ix, r 126 ss.).
162. In senso logico, non grammaticale.
Le lettere di Paolo I 8I
ti, soltanto il parlare con fede dell'unico Dio fa sì che la parola
«Dio» diventi un'affermazione del vero Dio. Qui Paolo mette
certamente in pratica una teologia monoteistica; ma teologiz-
zando da credente, contemporaneamente annuncia. Ecco ri-
spuntare il dato di fatto teologico fondamentale: la teologia non
è separabile dall'annuncio. E dunque I Cor. 8,4-6, grazie al mo-
noteismo esistentivo che vi è espresso, costituisce un altro de-
gli apici teologici di tutta la lettera.
Accanto all'dç -8Eoç troviamo l'dç xupwç 'lYjcrOuç Xpicr'toç.
La coordinazione grammaticale delle due formule con dç evi-
denzia come di questo kyrios non si possa parlare in termini
più elevati e divini. All'Èç o0 'tà mina dell'unico Dio corri-
sponde, per l'unico kyrios, òi'o0 'tà mina - solo le preposi-
zioni differiscono -, all'~1J.dç EÌç aÙ'tov corrisponde ~IJ.Eiç òi'
aÙ'tou. Con òi'o0 trova espressione l'idea del mediatore della
creazione, diffusasi verso la fìne della storia della tradizione
veterotestamentaria. Se anche ogni cosa proviene da Dio, tut-
tavia tutto esiste grazie al kyrios. In I Cor. 8,6 e nella tradizio-
ne paolina che vi si rispecchia, le speculazioni veterotestamen-
tarie sulla sophia sono divenute cristologiche. 163
Veterotestamentaria è la preesistenza della Sapienza, bokma/crorpia, idea
che in epoca neotestamentaria viene assorbita prima dal pensiero giu-
daico e poi di conseguenza anche dal pensiero religioso e teologico del
cristianesimo primitivo. Questa preesistenza è espressa anche nel conte-
sto della creazione. Innanzitutto va citato Prov. 8,22 ss.: Jahvé ha creato
la Sapienza come primizia delle sue vie, ossia - così traduce Otto Ploger
- «prima delle sue opere di allora». Essa è stata costituita prima dcl tem-
po, prima degli inizi della terra. Perciò gli uomini devono prestarle a-
scolto come testimone della creazione di Dio. Qui la Sapienza è palese-
mente personificata. Per dirla con Ploger, essa è immanente alla creazio-
ne, ma provenendo daJahvé non può perdere del tutto un elemento «crea-
turale». Dunque, «vista dalla creazione va accostata maggiormente a
Jahvé, mentre vista da Jahvé le rimane un'affinità piuttosto marcata con
la creazione». 164 A proposito di essa, però, non si parla solo di preesi-
stenza come di esistenza prima della creazione, o meglio: J ahvé l'ha crea-
ta prima di creare il mondo. In Prov. 3,19 le viene attribuita anche «una

163. V. in particolare Habermann, Praexistenzaussagen im NT, 159 ss.


164. O. Ploger, BK.AT xvu, 93.
La teologia di Paolo

compartecipazione demiurgica ... all'opera della creazione»: 165 «Jahvé


ha fondato la terra con sapienza, e ha consolidato i cieli con saggezza». 166
Stando a quanto afferma questo passo, dunque, se si presuppone l'inter-
pretazione citata la Sapienza è coinvolta nell'atto creativo. E presumibile
che l'idea della preesistenza della Sapienza e della sua partecipazione al-
la creazione del mondo da parte di Jahvé abbia una collocazione piutto-
sto recente nella storia della formazione dell'Antico Testamento. 16 7
La preesistenza della Sapienza è affermata anche da Sir. 24. Essa ha
origine dalla bocca di Dio, 24,3. Dio l'ha creata prima del tempo e per
tutta l'eternità, 24,9. 168 Tuttavia, non si accenna a una mediazione della
Sapienza nella creazione. 169 Ma anche se in Sir. 24 non si fa cenno alla
compartecipazione della Sapienza all'atto creativo, tuttavia è proprio la
creazione a costituire l'ambito di azione della Sapienza. Sebbene Dio le
abbia assegnato come dimora Giacobbe/Gerusalemme, v. 8, 170 il suo rag-
gio d'azione è di portata cosmica, tanto che, a proposito di Sir. 24,5-7,
Johann Marbi:ick può parlare di funzione della Sapienza nella creazione;
il suo agire rivelerebbe qui un aspetto privo di confini nazionali, che
includerebbe anche i pagani. L'azione della Sapienza lascerebbe dunque
presagire già «che questo suo dominio può essere solo espressione della
sua funzione divina, e cioè che nell'operato e nell'azione della figura del-
la Sapienza è Dio stesso a governare». 171 A dire il vero la Sapienza rive-
lerebbe anche il proprio duplice carattere, ossia il proprio essere da una
parte dimensione cosmologica, e dall'altra, in 24,8- 12, proprietà storico-

165. Op. cit., 92; v. anche op. cit., 37: «Qui infatti Jahvé ... viene messo in relazione con
la sapienza e l'intelligenza nel momento in cui se ne serve nella propria azione creati-
va, certo mediante il proprio sapere, che in senso lato intende la sua capacità. In que-
sto modo la preminenza di Jahvé è tutelata, mentre la sapienza e l'intelligenza non so-
no neanche da intendere puramente come caratteristiche diJahvé. Nel complesso, i due
versetti [se. 3,19 s.] appaiono come un succinto riassunto di ciò che la Sapienza perso-
nificata espone diffusamente nel suo discorso del cap. 8 sul tema della creazione ... ».
166. Tradotto sulla base di Pli:iger.
167. Ma v. Kayatz, Studien zu Prov 1-9, passim. Tuttavia, qui non può essere messo
in discussione l'influsso che le concezioni egiziane relative alla maat ebbero su quelle
della Sapienza nei Prov.
168. Sir. 24,9: 7tpÒ "!ou alwvoç à7t'àpx-YJç ~x"!t<rÉv iJ.E, I xal !:wç alwvoç où iJ.~ l:xÀt7tw.
169. Eduard Schweizer, Zur Herkunft der Praexistenzvorstellungen bei Paulus, I06,
cita Sir. 24,3 con un punto interrogativo. Ad essere inteso non può essere che il v. 3 b:
xal wç b1J.tXÀTJ KCX"!EKctÀu<jla y-Yjv. Ma in questa affermazione sarà ben difficile poter
individuare una mediazione diretta nella creazione. È incerta un'allusione a Gen. 1,2
o a Gen. 2,6, che può essere ritenuta possibile al massimo per Gen. 1,2; v. le conside-
razioni critiche di Marbi:ick, Weisheit im Wandel, 59. Purtroppo non siamo in pos-
sesso del testo ebraico originale di Sir. 24,3.
170. Sir. 24,8: xal d7tEV 'Ev 'Iaxw~ xa"!a<rx~vwcrov I xal Èv 'fopa~À xa"!aKÀTJpovo1J.~-
i9TJ"!t. 171. Marbi:ick, Weisheit im Wandel, 61-63.
Le lettere di Paolo

salvifica del popolo eletto. 172 Gerusalemme potrebbe anzi essere conside-
rata il vero e proprio ambito di potere della Sapienza all'interno del mon-
do. 173 Eckhard J. Schnabel parla dell'universalismo della Sapienza, 174 ri-
ferendosi tra l'altro a Sir. 1,9. 175 Che la Sapienza operi non solo a Gerusa-
lemme, ma nella creazione intera, egli lo interpreta giustamente come sua
manifestazione all'interno dell'ordinamento della creazione, evidente in
particolar modo in Sir. 16,24-17,14; 39,14-35; 42,15-43,33. 176
Ora, se il processo della creatio è teologicamente inteso come evento
che ha la sua continuazione significativa nella gubernatio del mondo crea-
to, dunque come creatio continua,1 77 allora l'agire della Sapienza di Dio
sarà visto come azione interna appunto a questa creatio continua, così
come intendeva Gesù Ben Sira. Dal punto di vista soteriologico, la
creazione del mondo è subordinata all'ordinamento salvifico presente,
anche nel pensiero paolino.
Nella Sapientia Salomonis si torna a insegnare la partecipazione della
Sapienza all'atto della creazione. Nella preghiera di Salomone Dio già al
principio viene invocato in modo significativo, 9,1 s.:
.fJeÈ 7ta-rÉpwv xal xupte -rou ÈÀÉouç
Ò 7tOt~craç -rà mxna Èv ÀO'(Cf crou
xal -riJ crocptCf crou xa-racrxeuacraç av.fJpw7tov,
t'va òecrTIO~TI -rwv tmÒ crou yevop.Évwv x-rtcrp.a-rwv.
Il parallelismo sintetico tra i vv. 1b e 2a fa presumere l'identità tra logos
e sophia. E di questa sophia, al v. 9 è detto:
xal µe-rà crou ~ crocpia ~ dòu~a -rà è:pya crou
\ - rr ' 1 \ I178
xai 7tapoucra, o-re e7totetç -rov xocrµov.

«Salomone» invoca da Dio questa sapienza per riuscire a dedicarsi re-

172. Op. cit., 63. 173. Op. cit., 66.


174· Schnabel, Law and Wisdom, 16: «L'universalismo della Sapienza».
I 75. Sir. I ,9: xuptoç aÙ'\"Òç EXWrev aÙ'\"~V I xat dòev xat È!;'J'jpl81J:r1crev aÙ'\"~V I xat i!;-
Éxeev aÙ'l"~v b:t TCav'\"a 'l"à È'.pya aÙ'\"oÙ. Sir. 1,10 come contesto immediato di Sir. 1,9
racchiude la formulazione particolare 'l"oiç àyaTCwcrtv aÙ'!"Òv (se. '!"Òv ./Je6v), che Paolo
riprenderà successivamente in Rom. 8,28; v. anche Sir. 2,15 s.
176. Schnabel, Law and Wisdom, 17.
177. Da parte cattolica v., ad es., Herman Schell, Kath. Dogmatik II, 147: «Il secondo
elemento parziale nel concetto di creazione è quello del mantenimento. Questo non
aggiunge efficacia ulteriore ali' opera creativa, ma mette in luce che la creazione, a
differenza della produzione creaturale, è affermazione non solo della produzione del
divenire, ma dell'esistere in tutta la sua continuità temporale». Da parte evangelica,
cfr. Wolfhart Pannenberg, Syst. Theol. II, 50 ss., spec. 50 (tr. it. 46 ss., spec. 46 s.): «Se
l'atto creatore di Dio motiva l'esistenza delle creature, queste rimangono riferite a Dio
anche e in prima linea nel sostentamento della loro esistenza».
178. V. anche Sap. 9,4: Òoç IJ.OL '\"~V '\"WV crwv {Jp6vwv mxpeòpov cro<piav.
La teologia di Paolo

spònsabilmente agli affari di governo. L'orante si esprime ricorrendo in


parte a una concettualità di tipo stoico. 179
Ora, il libro della Sapienza è composto da brani alquanto dispara-
ti, 180 e non stupisce dunque che, come in Sir., accanto a tendenze chia-
ramente nazionalistiche siano espresse anche concezioni universalisti-
che, come ad es. in r ,7 oltre che in 7,22 ss. 181 Anche i due elementi crea-
tio in principio e creatio continua sono messi chiaramente in luce, ben-
ché al secondo spetti chiaramente la priorità. Il fattore decisivo è che la
salvezza si realizza adesso - in primo luogo, com'è ovvio, per Israele,
che non viene mai citato in tutto il libro -: la Sapienza, attiva fin dal mo-
mento della creazione del mondo, che personifica e rappresenta l'agire
di Dio pur senza identificarsi con lui, è colei nella quale l'uomo incontra
Dio. Il punto cruciale è dunque che la Sapienza, partecipe della creazio-
ne, è la mediatrice della salvezza donata nel tempo presente.
Le proposizioni relative che Paolo, in I Cor. 8,6, fa seguire
alle formulazioni confessionali riguardanti l'unico Dio e l'uni-
co Signore, introducendole rispettivamente con V; ou o òi'ou,
ricorrono a una terminologia che, in ragionamenti di tipo stoi-
co, rende plausibile l'ipotesi di un pensiero largamente accetta-
to, senza però che tali formulazioni, che ricalcano delle formu-
le, siano dichiaratamente stoiche. La nota formula di Marco
Aurelio 4,2 3, dJ cpucriç, Èx crou mina, Èv croì mina, e:lç ÒÈ miv-
-ta, è sì molto più recente rispetto a Paolo, ma poggia su tradi-
zioni stoiche ben più antiche. 182 Quanto il «sincretismo» filo-
sofico condizionasse la situazione intellettuale del 1 sec. lo di-
mostra in modo particolarmente istruttivo Filone di Alessan-
dria. Se, come di recente è stato nuovamente sottolineato so-
prattutto da Gerhard Sellin, Apollo ha veramente contribuito
179. Riguardo alla singolare fusione di idee stoiche e platoniche, in particolare Sap.
7,22 ss., cfr. H. Hiibner, Die Sapientia Salomonis und die antike Philosophie.
180. Comunque, la forma del libro che ci è pervenuta non va considerata semplicemen-
te come un'accozzaglia di parti incoerenti, bensì come un'unità così concepita dal re-
dattore finale. Le interruzioni a livello di contenuto sono facilmente riconoscibili.
18 I. Sap. 1,7: o·n 1".IEUiJ.Gt xuplou 1tETCÀ~pcuKEV 't~V otxou1J.ÉV1JV, I KGtl '1:0 rruvÉy_ov "tà miv-
'tGt yvriirrt v E)'.Et cpwYijç.
182. Continua ad essere istruttivo Norden, Agnostos Theos, 240 ss. Per Norden, sia
Rom. 11,36; 1 Cor. 8,6; Col. 1,16 s. e Hebr. 2,10 da un lato, sia la formula di Marco
Aurelio dall'altro, si collocano all'interno della tradizione stoica, che si esprime, per
esempio, nella diffusa etimologia stoica di Zeus, SVF II, nr. 1062: òtà ÒÈ: etÙ'tov ),Éyou-
rrt v, o'tt mi.nwv Ècr'tlv ethtoç xetl òt'etù.-ov 1tcXV'tGt. V. anche gli esempi riguardanti Rom.
11 ,36 in H. Lietzmann, HNT 8, 107.
Le lettere di Paolo

in maniera determinante a porre la comunità di Corinto sotto


l'influenza teologica del pneumaticismo alessandrino-giudai-
co,'83 e se in questo le idee di Filone hanno avuto un ruolo de-
cisivo, allora non ci si può limitare ad annotare semplicemente
che qui ricorrono formule di tipo stoico.
L'integrazione delle discusse formulazioni all'interno del
pensiero teologico di Paolo è di importanza fondamentale.
Abbiamo già visto come questo, a sua volta, sia fortemente
condizionato da concezioni di preesistenza di stampo vetero-
testamentario. ' 84 Dal punto di vista della storia della tradizio-
ne, comunque si giudichino i presupposti della duplice formu-
la di I Cor. 8,6, li si dovrà sempre vedere in rapporto con le
concezioni giudaiche di allora relative alla preesistenza della
Sapienza e alla sua partecipazione alla creatio. In linea di prin-
cipio, si concederà a Conzelmann che la formulazione non è
stata creata ad hoc da Paolo, e che il suo contenuto, in quanto
«non 'paolino'», va molto al di là del contesto. 185 Contempo-
raneamente, però, questo «molto» deve essere anche ridimen-
183. Sellin, Der Streit um die Auferstehung der Toten, 290 e passim; per lo sfondo ales-
sandrino-giudaico della formula di I Cor. 8,6, in op. cit., 89 n. 42, si richiama a Hors-
ley, ZNW 69, 130 ss.
184. Horsley, ZNW 69, 130 ss., fa risalire r Cor. 8,6 a speculazioni di tipo platonico,
così come si ritroverebbero in Pilone. Per questo motivo, secondo lui, questo passo
non sarebbe la cristianizzazione di una formula stoica, bensì l'adozione di una for-
mula filosofica platonica, nella quale il principio causale del òt'ou (òpyavtxov) sarebbe
o
distinto da quello dcl 7'pÒç (7'apaÒEtyp.a, l'lòfo o il vouç di Dio). Per I Cor. 8,6 ciò
significherebbe che l'integrità originaria della duplice formula va mantenuta. Richia-
mando l'attenzione sulla distinzione delle due al·dm in Platone e poi nelle varianti
teologico-filosofiche di Filone, Horsley ha visto giusto. Tuttavia la contrapposizione
«platonico-filoniano - stoico» che egli sostiene è eccessivamente accentuata. Certa-
mente Filone ha recepito in modo sostanziale l'importante patrimonio ideale dcl me-
dioplatonismo, a noi poco noto, pur evitando di diventare, così facendo, un vero pla-
tonico o addirittura un vero filosofo. L'obiezione che Peder Borgen solleva contro la
valutazione che Inge Christiansen dà dell'allegoria in Filone è valida: Christiansen,
infatti, non ha preso sufficientemente in considerazione il fatto che il reale intento di
Filone era quello di «esprimere e servire la causa del giudaismo» (ANRW II, 21.1, 131).
Sotto l'aspetto filosofico, anche Pilone era un eclettico. Anche in lui c'è un patrimo-
nio di pensiero stoico. E perché una formula, originariamente stoica ma non più rece-
pita come tale, non avrebbe potuto servire ad esprimere idee «platoniche» in seno alla
comunità giudaica ellenistica di lingua greca? Riguardo al rapporto di Pilone con il
medioplatonismo cfr. in particolare Ursula Friichtel, Die kosmologischen Vorstellun-
gen bei Philo van Alexandrien. 185. Conzelmann, KEK, 178 n. 38.
186 La teologia di Paolo

sionato. Se infatti l'Èl; o0 e il ò~'o0 non sono fissati solamente


all'atto unico e irripetibile della creazione divina, se i passi
della letteratura sapienziale citati mettono tanto in risalto il
riferimento al presente dell'azione della Sapienza, e se inoltre è
proprio questa l'intenzione genuinamente paolina, 186 allora
qui non si tratta tanto di un rimando a una teologia della crea-
zione, altrimenti di poco rilievo per il pensiero paolino, quan-
to dell'importanza della creazione per l'intento di fondo della
teologia di Paolo. Nel concetto di «importanza» è incluso an-
che l'elemento esistentivo. Ed è proprio questo ad essere espres-
so nella frase riferita a Dio, xai ~fJ-Eiç dç a.Ù'tov: l'essere del-
l'uomo è orientato in tutto e per tutto a Dio. L'È!; a.Ù'tou è il
presupposto teologico per l'dç a.Ù'tov. E la frase seguente rife-
rita al kyrios, xai ~fl-Eiç ò~'aù'tou, è quindi intesa, molto proba-
bilmente, sia in senso protologico sia in senso soteriologico;
«per mezzo» di Cristo noi siamo creatio simul et nova creatio.
A questa interpretazione si avvicina la comprensione di 1 Cor. 8,6 pro-
posta da Wilhelm Thiising. Per quanto riguarda È!; oli egli rimanda a 1
Cor. r,30: È!; aù't'ou ÒÈ ùµ.e:ic; Ècne: Èv Xptcr't'cfi 'l'Y)crou. Qui si mostrerebbe
che ]'lx. 't'ou ./Je:ou non esprime soltanto «l'origine da Dio di tutte le cose
(intese in senso unicamente statico-ontologico)». 187 Inoltre, 2 Cor. 5, r 7
s. mostrerebbe che l'espressione 't'à 7tav't'a Èx. 't'ou ./Je:ou è collegata all'i-
dea di nuova creazione. 188 Egli interpreta in modo analogo anche la fra-
se riferita a Cristo, òi'ou 't'à 7tana. Vi sarebbe, implicita, la mediazione
di Cristo durante la creazione. Tuttavia esagera un po' quando asserisce
che l'idea di mediazione nella creazione non verrebbe «per così dire pre-
sa di mira per prima da Paolo»; ma si converrà in pieno con lui quando
afferma che Paolo intende «in modo così universale ... la mediazione di
Cristo nell'evento salvifico, perché per lui creazione ed evento salvifico
costituiscono un tutto inscindibile». 18 9

In I Cor. 8,6, dunque, Paolo ha intensificato il problema


della liceità o meno di mangiare la carne offerta agli idoli, fa-
cendone una questione riguardante l'essere dei cristiani: Dio
in quanto creator, e il kyrios in quanto creationis mediator, de-

r 86. Parallelamente a questo, come si è già più volte evidenziato sinora, vi è la consi-
derazione che non è il dato di fatto oggettivo della croce a giustificare, bensì la fede
nella croce. 187. Thiising, Gott und Christus, 228. r 88. Op. cit., 228.
r 89. Op. cit., 229.
Le lettere di Paolo

terminano entrambi protologicamente e soteriologicamente l' e-


sistenza cristiana della chiesa. In quanto nova creatura, però,
la comunità di Corinto si trova al di sopra del mondo demo-
niaco dei cosiddetti dèi e kyrioi, e di conseguenza non può es-
sere contaminata dalla carne dei sacrifici loro immolati. Se
qualcosa è consacrato a un nulla, certo questo nulla non può
più prendersela con chi mangia la carne che gli è stata offerta.
Un nulla non può fare proprio niente.
Ci sarebbe di che stupirsi: per chiarire una faccenda che a noi sembra di
poco conto, Paolo fa un grande spreco di teologia! Ma se si pensa che a
quel tempo la carne era cibo riservato ai giorni di festa, non certo un nu-
trimento quotidiano, allora si trattava di chiarire una situazione che solo
occasionalmente si faceva scottante. 190 Tuttavia, visto il massiccio ricor-
so alla teologia in questa argomentazione, bisogna credere che Paolo des-
se un peso maggiore a tale questione, e non solo perché essa creava delle
difficoltà ad alcuni corinti, ma perché egli stesso vi scorgeva un effettivo
problema teologico.
Visto il criterio teologico che propone, la risposta che for-
nisce è chiarissima: per noi esistono un solo Dio e un solo ky-
rios. I demoni, che per noi sono un nulla, in questa loro in-
consistenza non possono farci nulla di male, neppure attraver-
so la carne che viene loro offerta. La conseguenza si trovereb-
be propriamente nel credere che i demoni non possono nuo-
cere a una persona quando si presenta l'occasione di mangiare
a loro scherno la carne offerta agli idoli. 191 Ma è solo in linea
di principio che Paolo fa questa concessione ai corinti. Per lui
la discussione qui non riguarda tanto l'interrogativo di una
dogmatica quanto la situazione complessiva della comunità.
Infatti, quando un cristiano che dovrebbe essere veramente li-
bero da scrupoli si scandalizza in quanto «debole» per la liber-
190. Per i ceti inferiori, in determinate circostanze vi erano distribuzioni pubbliche e
gratuite di carni immolate. Il problema di coscienza, di fatto, nasceva perché i cri-
stiani appartenenti a tali ceti, mangiando di queste carni, da un lato temevano di esse-
re resi colpevolmente impuri dai demoni, mentre dall'altro non intendevano rinun-
ciare a tali distribuzioni solo perché erano cristiani.
191. Weiss, KEK, 212: «fino alla cosciente spavalderia»; per alcuni, è «addirittura una
dimostrazione di libertà, un mettere alla prova il potere del loro attuale Signore (lo,
22), osare accostarsi alla sfera dei demoni - senza il timore di poter ricadere in loro
dominio».
188 La teologia di Paolo

tà che si prende uno che è «forte», allora quest'ultimo, pro-


prio per via del debole, dovrebbe rinunciare alla propria liber-
tà. Solo al v. 9 Paolo propone il termine chiave di questa ar-
gomentazione: Èl;oucrla. 192 Dunque l'argomentazione prende le
mosse dalla gnosis passando solo successivamente al tema della
libertà. 193 Ma è proprio questo ad essere il tema fondamentale
per Paolo. Obiettivo di tutta l'argomentazione è stabilire che
la libertà del forte ha come limite la coscienza 194 del debole. Il
rispetto, e dunque l'amore per quest'ultimo, costituisce il cri-
terio di condotta, il metro di misura su cui il forte, nella situa-
zione concreta, può esercitare la propria libertà.
L'argomentazione teologica di 8,1-6 conduce così all'argo-
mentazione pastorale di 8,7-13. Ma sono proprio queste indi-
cazioni di tipo pastorale a stupire chi giunga a I Cor. 8 parten-
do dalla lettera ai Galati. In questa lettera Paolo non ha preso
minimamente in considerazione la debole coscienza dei desti-
natari. Ed è falso sostenere che in Gal. veniva trattata una que-
stione più basilare rispetto a I Cor. 8. Proprio il fondamento
teologico di 8, l -6 mostra che per Paolo il problema considera-
to era di natura teologica primaria. I deboli di Corinto - solo
in Rom. 14 e l 5 parlerà di «deboli nella fede»; anche qui, tut-
tavia, stando al contesto intende la medesima categoria - erano
192. V. r Cor. 6,12: i:çEcr"nv e oùx Èyw lçoucrtacr.O~croµat, poi lçoucrta oltre a 7,37 e 8,9
altre 6 volte nel cap. 9, accanto al termine ÈÀEu.f>epoç, che ricorre 2 volte in 9,1.19. Il
sostantivo ÈÀEu·5ÌEp[a s'incontra solo una volta in I Cor., e precisamente in 10,29, os-
sia all'interno della sezione dei capp. 8-10. Precedentemente però, nella lettera ai Ga-
lati, esso costituiva il concetto chiave con quattro esempi (principalmente 5,1), men-
tre ÈÀEu-5ÌEpoç ricorreva 6 volte e ÈÀEu-5ÌEpow un'unica volta. Stranamente in Rom., al-
l'interno della sezione «dogmatica» dei capp. 1-11, lçoucrta s'incontra soltanto in 9,21,
o altrimenti in senso strettamente politico in 13, 1-3; ÈÀEU-5ÌEp[a solo in Rom. 8,21, ÈÀEu-
·9Epoç solo in 6,20; 7,3, ed ÈÀEu.f>ep6w in 6,18.22; 8,2.21. i:çEcr"ttv, oltre che in 1 Cor. 6,
12, si ritrova anche in I Cor. 10,23, nonché in 2 Cor. 12,4 come participio (i:çov).
Queste concentrazioni specifiche della radice ÈÀw./J- in Gal. e di lçoucrta in I Cor. 8 e
9 sono caratteristiche della situazione argomentativa di ciascuna lettera.
193. Che i corinti, a proposito del cibarsi delle carni immolate agli idoli, non abbiano
argomentato tanto con la loro libertà quanto principalmente con la loro conoscenza
(benché, nella loro coscienza, le due non siano naturalmente disgiunte)? È forse indi-
cativo che, nel cap. 8, Paolo non citi affatto la massima miv'l'a (1J.ot) i:çEcr'l'tv (6,12;
10,23)? A questo riguardo non si possono azzardare che ipotesi.
194. Riguardo al concetto di coscienza in Paolo cfr. Eckstein, Der Begriff Syneidesis
bei Paulus; per 1 Cor. 8,7 ss., op. cit., 232 ss.
Le lettere di Paolo

comunque cristiani «per i quali» la realtà delle potenze demo-


niache era ancora una presenza minacciosa, «per i quali» dun-
que il «per noi» del v. 6 ancora non era determinante per la fe-
de. Si può dunque interpretare che il potere di Dio e del ky-
rios, «per loro», era ancora talmente fragile che essi, in quanto
deboli, facevano comunque conto sulla forza di potenze pur
spodestate. E tali potenze sono forti esattamente nella misura
in cui le vede l'uomo. Proprio l'-fiµiv del v. 6, che per Paolo
era tutto, per loro non era realtà viva.
Concretamente, la debolezza della loro fede si manifesta nel
fatto che giudicano il cibarsi della carne immolata agli idoli,
dòwÀo-8u'T:ov, 195 una communicatio in sacris blasfema, assoluta-
mente proibita dalla legge mosaica (così come afferma ad es.
implicitamente Deut. 12). 196 Allora i deboli, a Corinto, erano
tali perché ritenevano ancora determinanti per la loro esisten-
za alcune prescrizioni sostanziali della torà. Non possedevano
la libertà dei forti, perché la torà aveva ancora potere su di lo-
ro. Non possedevano la libertà dei forti perché non erano libe-
ri dalla legge. E mancando tale libertà, ecco che anche i forti
devono rinunciarvi. Bisogna riuscire a figurarsi la mostruosità
di quanto Paolo pretendeva dai forti di Corinto per riuscire a
misurare l'abisso che separa l'atteggiamento teologico del Pao-
lo di Gal. da quello del Paolo di 1 Cor. Un abisso teologico
smisurato, che si apre tra le due lettere.
195· Al riguardo cfr. Bi.ichsel, ThWb II, 375 ss. (GLNT III, 133 ss.); Hi.ibner, EWNT
r, 936 ss. (DENT r, I028 ss.).
196. Certo, il termine greco dòwÀ6'9u"tov ricorre, nei LXX, solo in 4 Macc. 5,2, dove
Antioco rv Epifane vuole costringere alcuni giudei a mangiare carne immolata agli
idoli. Indubbiamente, però, tale intimazione mira ad imporre l'abbandono della legge
mosaica. Infine è indicativo che, con tale disposizione, Antioco intenda anche soppri-
mere forzatamente la pratica della circoncisione (Èm0"7ta0"'9at). La circoncisione e le
prescrizione alimentari costituivano infatti l'elemento specifico della vita Iudaica. E
Paolo, ai galati, interdisse proprio la pratica della circoncisione. I suoi avversari, di con-
seguenza, dovettero identificare questa sua concezione con la condotta dell'odiato An-
tioco, illustrata da4 Macc. 5,2. Se i deboli, a Corinto, erano etnicocristiani, come per-
lopiù si ammette, allora la differenza tra Gal. e I Cor. acquista un peso ancora mag-
giore: in Gal. Paolo vieta a degli etnicocristiani di farsi circoncidere, in I Cor. con-
sente a degli etnicocristiani di seguire i precetti alimentari, cercando addirittura di in-
durre i forti a comportarsi come i deboli. Riguardo a questo tema cfr. Drane, Paul -
Libertine or Legalist?, passim.
La teologia di Paolo

La scottante problematica della libertà con la sua importanza esistentiva


è esemplificata da Paolo nel cap. 9 con l'esempio della sua libertà apo-
stolica, che si concretizza nel diritto ad essere mantenuto dalla comunità
e al contempo nella rinuncia a tale diritto. Se anche l'apostolo si vede
costretto a fare un'apologia della propria rinuncia al mantenimento, vv.
3 ss., 197 e se anche il motivo apologetico viene chiaramente alla luce nel
cap. 9, tuttavia la reale intenzione di Paolo resta l'insistenza sulla pro-
pria libertà apostolica. 198 Ma è meglio tralasciare i dettagli di queste af-
fermazioni, come pure ciò che ci sarebbe da dire riguardo alla àvayxYJ
del v. r 6. 199 Per la tematica della teologia biblica, solo I Cor. 9, r 9-2 3 tor-
na ad avere un certo peso contenutistico. Già Johannes W eiss aveva de-
dicato un'attenzione particolare a questa pericope, analizzandola dal pun-
to di vista retorico; 200 per lui si tratterebbe di un «piccolo capolavoro
dalla composizione estremamente ponderata».2° 1 Vollenweider vede in
esso il «cuore dell'insieme dei capp. 8-ro».2° 2 Ed è una definizione ap-
propriata, almeno per quello che riguarda l'aspetto teologico.

In 1 Cor. 9,19-23 Paolo formula il compendio teologico del-


la libertà in modo tale da affermare qualcosa di teologicamen-
te decisivo a proposito della libertà coinvolgendo essenzialmen-
te anche la propria esistenza in quanto esistenza apostolica. Es-
sendo la sua libertà «strettamente collegata alla sua funzio-
ne»,203 egli ha tutto il diritto di parlare «di» questa libertà, o
meglio: di parlare della libertà partendo da essa. Solo chi è li-
bero può discutere adeguatamente di libertà. L'esperienza
della libertà, ossia lo sbigottimento esistentivo che essa provo-
ca - ecco il presupposto assolutamente indispensabile per po-
ter comprendere quid sit pondus libertatis. Chi libero non è, al
massimo può sapere che la libertà fa uscire da una condizione
di non libertà, ma non ha la coscienza di ciò che costituisce la
197· Tuttavia, ci si dovrebbe chiedere se, nel marcato -ij Èf.L~ à7toÀoytot del v. 3, non sia
percepibile una frecciatina ironica; in fondo questa sua apologia ha l'unico scopo di
illustrare cosa significhi libertà. Inoltre non si può trascurare il fatto che, stando a 1
Cor. 4, Paolo rifiuta categoricamente di lasciarsi giudicare.
198. Vollenweider, Freiheit als neue Schopfung, 200; per il rapporto tra argomenta-
zione teologica di Paolo e filosofia popolare ellenistica, che qui non viene trattata,
cfr. op. cit., 199 ss.
199· Per àvayxl] cfr. in particolare Strobel, EWNT r, 185 ss. (DENT r, 205 ss.); Nie-
derwimmer, Der Begriff der Freiheit im NT, 3 l ss.; Schreckenberg, Ananke.
200. Weiss, Beitrdge zur Pln. Rhetorik, 32. 2or. Weiss, KEK, 242.

202. Vollenweider, Freiheit als neue Schopfung, 209. 203. Op. cit., 2or.
Le lettere di Paolo

dimensione di una libertà non ancora acquisita. Tutt'al più, se


vi è esperienza esistentiva di libertà, può percepirla come ne-
gazione della condizione di non-libertà che attualmente lo tur-
ba, quindi come negazione di una negazione.
Paolo ha fatto l'esperienza della legge che ora, retrospetti-
vamente, viene recepita come esperienza di non-libertà; come
apostolo del vangelo della libertà, vive ora nella sfera della li-
bertà, che sperimenta nuova ogni giorno e di cui ogni giorno
deve riappropriarsi in mezzo alle costrizioni della vita missio-
naria quotidiana. Sa cosa significa l'espressione u7tÒ v6µ.ov, co-
nosce la dimensione profonda di tale schiavitù, che può essere
misurata solo attraverso l'esperienza della libertà. Sa quanto
sia meravigliosa la libertà dell'è:vvoµ.oç Xp~cr'tou dvat, v. 2 r. Co-
sì e solo così può diventare tutto a tutti. A differenza di ciò
che prima, in Gal., poteva esprimere teologicamente solo in
modo antitetico, ora sente di poter comprendere, e soprattut-
to condividere, la situazione degli etnicocristiani che ancora
non sono sfuggiti agli artigli della schiavitù della legge. Quan-
to aveva già visto anche solo schematicamente in Gal. 6, r 5 sen-
za tuttavia poterlo inserire veramente nella propria concezio-
ne teologica, ossia la totale irrilevanza della condizione di chi
è circonciso: OU't"E: yà.p 7tE:pt't"OfJ- ~ 'ti Ècr'ttv OU't"E: &.xpo~ucr'tia, di-
viene ora affermazione teologica di punta. 204 Dato che l'essere
sotto la legge, che equivale all'essere circoncisi, è del tutto irri-
levante, egli può solo tollerare tale condizione, ma solamente
nella misura in cui la comunità intera ha compreso ciò e dun-
que è in grado di accettare i deboli condividendone la debo-
lezza. Ora Paolo accoglie tale debolezza nella propria teologia
della missione.
r Cor. 9,19-23 è dunque un'affermazione importante non solo dal pun-
to di vista teologico, ma anche biografico. In questa pericope si può per
così dire toccare con mano come l'apostolo abbia sperimentato nella pro-
pria autocomprensione apostolica una trasformazione significativa. N a-
turalmente non nel senso di modificare il suo vangelo della giustifica-
zione per fede. Questo vangelo, infatti, dall'evento di Damasco è e resta

204. All'epoca della stesura della lettera ai Romani Paolo ha fatto ulteriori progressi
nella riflessione teologica sul significato della circoncisione; v. a Rom. 4.
La teologia di Paolo

la costante immutabile nella sua vita e nel suo annuncio. Tale trasforma-
zione non significa neppure che ora intende in modo diverso il suo «es-
sere in Cristo». Ad aver subìto una trasformazione è stata piuttosto la
sua posizione rispetto a determinati fenomeni all'interno delle sue co-
munità missionarie, soprattutto in riferimento alla legge. D'improvviso,
partendo dal vangelo della libertà egli è in grado non solo di percepire
chiaramente l'essere sotto la legge come una terribile schiavitù, ma an-
che di condividere tale schiavitù proprio perché in qualità di apostolo è
l'uomo libero. Questa libertà- non a caso 9,19-23 ha inizio con le paro-
le èÀe:u.Se:poc; yàp wv èx. minwv, poiché sono libero da tutti 205 - lo rende
libero di condividere solidarmente la schiavitù della legge. Per questo
può rendere - e in modo assolutamente non paradossale - il .,Proprio es-
sere-libero un farsi-schiavo, v. 19: 7tacnv èµ.c.wtòv èòouÀwtJa. 20 E proprio
questa libertà gli spetta perché la sua identità non è più costituita dalla
legge,2° 7 ma è fondata sul Dio che rende liberi. Deus est Deus libertatis;
Deus libertate sua liberans est. Dunque: Sine libertate Deus non est no-
bis Deus!

Anche I Cor. 9,8-10 necessita di una spiegazione, perché


qui Paolo manifesta expressis verbis la propria comprensione
della Scrittura. Con la maggior parte degli esegeti si può cer-
tamente intendere come interpretazione allegorica il fatto che
nel v. 9 citi Deut. 25,4, applicando però la norma della torà,
che nel senso originario era una norma a tutela dell'animale, 208
a colui che annuncia il vangelo.2° 9 Ma proprio questa citazione
scritturistica indica che per Paolo l'esegesi allegorica non è che
un caso particolare d'interpretazione della Scrittura. Egli, in-
fatti, fa espressamente osservare che qui - in via del tutto ec-
cezionale - si parla del bue, dunque di un animale, e non di un
uomo, come solitamente accade nella Scrittura. Per l'interpre-
tazione di Deut. 2 5,4 in Paolo si potrà certamente ricorrere
alla metodologia dell'esegesi allegorica di Filone 210 e allo Pseu-
205. In accordo con Vollenweider, Freiheit als neue Schopfung, 209 n. 53.
206. Anche quest'idea è già espressa in embrione in Gal., e precisamente in Gal. 5, 13:
u1J.Eiç yàp ir.'iì.Eu·9Ep1~ ÈxÀ ~.SrrtE ... òtà 'tijç àyàr.riç òouÀEUE'tE àÀÀ ~Àotç. Certo essa
non è applicata specificamente ali' esistenza apostolica.
207. Così, molto appropriatamente, Vollenweider, op. cit., 214.
208. Conzelmann, KEK, 191.
209. Così, ad es., Lietzmann, HNT, 41; Conzelmann, KEK, 191; Koch, Die Schrift
als Zeuge des Evangeliums, 203 s.
210. Lietzmann, HNT, 41 cita Filone, Spec. leg. 1,260 (p. 251), e Somn. 1,93 (p. 634).
Le lettere di Paolo 1 93

do-Aristea.2 11 Nella Lettera di Aristea in particolare, la preci-


sazione che Mosè ha formulato con cura le leggi non certo per
via dei topi e della donnola costituisce un parallelismo eviden-
te all'interpretazione allegorica paolina della citazione di Deut.
Tuttavia, con il rimando ai paralleli giudaico-ellenistici la spe-
cificità paolina ancora non è colta. A ragione Christian Wolff
parla di comprensione escatologica della Scrittura da parte di
Paolo. La sua allegoria non sta ad indicare che il senso più
profondo, il senso allegorico, del bue è l'uomo per antonoma-
sia, ma più specificamente colui che annuncia la salvezza esca-
tologica.m Ma allora, l'allegoria di I Cor. 9,9 è solo uno degli
strumenti, ed anche piuttosto raro, di cui Paolo si serve per
mettere in pratica l'interpretazione escatologica della Scrittu-
ra. All'allegoria in quanto tale non è interessato. Il metodo in-
terpretativo di allora gli metteva a disposizione anche l'allego-
ria. Essa si prestava ai suoi scopi, e dunque egli vi ha fatto ri-
corso con gratitudine. Nel rapporto teologico complessivo del-
l'apostolo con l'Antico Testamento, l'allegoria non si è rivela-
ta come caratteristica dell'interpretazione paolina in nessuna
delle lettere considerate sino a questo momento. Al contrario:
per quanto egli, sulla scorta della propria esegesi escatologica,
scorgesse un senso più profondo nel testo della Scrittura, tut-
tavia di solito quello che gli premeva era riuscire a mettere in
relazione con il presente escatologico quanto era stato detto
un tempo, insieme al riferimento a quanto era accaduto allora.
Gli eventi e i personaggi di cui parla la Scrittura, proprio in
quanto eventi e in quanto personaggi, non sono affatto irrile-
vanti sotto l'aspetto teologico.2 13
i.11. Ep. Arist. 144.
2.12., Wolff, ThHK, i.5, in particolare (contro Lietzmann e Conzelmann): «Per questo
Òt'ljp.iiç non si riferisce agli uomini attivi, ma a coloro che proclamano l'avvento della
salvezza». V. anche op. cit., 46 ss., l'excursus «Das eschatologischc Verstandnis dcs Al-
ten Testaments».
i.13. È controverso se al v. 10, introdotto da Èypc:lcp'l'J O'l't, Paolo riporti una citazione
apocrifa, come ritengono parecchi autori unendosi aJ. Weiss, KEK, i.37, oppure se egli
sviluppi il senso della citazione da Deut. Per Wolff, ThHK, i.5, contro l'ipotesi di una
seconda citazione di origine apocrifa vi è il fatto che Paolo non introduce citazioni
nuove con iypacp'l'J, ma utilizza questa forma esclusivamente per far riferimento a ci-
tazioni precedenti.
194 La teologia di Paolo

Questo si evidenzia con molta chiarezza in I Cor. l0,1-13. Certamente


Paolo non ha scritto questa pericope con uno scopo fine a se stesso, ma
piuttosto in preparazione a lo,14-22 in cui, a quanto pare, mette in
guardia dall'idolatria, la e:ìòwÀoÀa-rpia, in singolare contraddizione con
il cap. 8. 214
Anzitutto Paolo si richiama ad avvenimenti di cui si narra in Es. 13,
21-22 e 14,2r-3r. Tuttavia egli stesso non li riferisce così come stanno
scritti, bensì presentandoli subito nella forma dell'interpretazione. Se co-
sì facendo sorgono incongruenze, ciò non lo preoccupa affatto. I padri,
dunque, sarebbero stati battezzati nella nuvola e nel mare, nonostante
l'Antico Testamento affermi che gli israeliti attraversarono il mare a
piedi asciutti. Poi, nel v. 3, Paolo si riferisce all'alimentazione a base di
manna, Es. 16,13 ss. (v. anche Deut. 8,J; ~ 77,23 ss.), e nel v. 4 al miraco-
lo dell'acqua compiuto da Mosè, Es. 17,1-7 (v. anche Num. 20,1-n; ~
77,r 5 s.). 21 5 Senza spiegarne il motivo, la manna viene chiamata cibo spi-
rituale, r.:ve:up.a't'txÒv ~pwp.a, l'acqua dalla roccia bevanda spirituale, r.:vw-
p.a-rtxÒv r.:op.a. In contrasto con il testo della Scrittura, la roccia addirit-
tura segue gli israeliti. Al v. 4, infine, Paolo enuncia l'affermazione teo-
logjca centrale: 1j r.:É't'pa ÒÈ ~\I b Xptcr't'oç.
E chiaro che qui Paolo non intende mettere in particolare evidenza
l'idea della preesistenza di Cristo. La introduce invece nell'argomenta-
zione teologica che sta sviluppando senza una qualsiasi motivazione, co-
me fosse qualcosa di ovvio. Christian Wolff attenua questa affermazio-
ne teologica di Paolo mettendo in discussione l'identità tra la roccia e il
Cristo preesistente, e riducendo ciò che vuole dire Paolo a una formula-
zione molto concisa: «Dalla roccia Cristo diede da bere l'acqua». 216 Al
contrario, Anthony T. Hanson sottolinea fortemente, anche in relazio-
ne a 1 Cor. IO,{, l'azione del Cristo preesistente nella storia veterote-
stamentaria di lsraele. 217
È consuetudine definire tipologia questo rapporto tra Paolo
e l'Antico Testamento. Qui avremmo l'interpretazione tipolo-
gica applicata a battesimo e cena del Signore.2 18 Per Friedrich
2 r 4. Questa tensione è stata presa a pretesto da alcuni esegeti (ad es. J. Weiss, W.
Schmithals) per formulare ipotesi di divisione di I Cor. Ma in I Cor. 8 Paolo giudica
una situazione che è diversa da quella prospettata da I Cor. 10. Mentre là si discuteva
della liceità del mangiare o acquistare carne immolata agli idoli, qui ci si chiede come
comportarsi in occasione dell'invito a un pasto cultuale pagano; contro Weiss si è e-
spresso in maniera convincente von Soden, Sakrament und Ethik bei Paulus, 358 ss.
2 r 5. Num. 20 è ovviamente solo uno dei paralleli a Es. r 7 che vanno registrati. La se-
quenza Es. 13, Es. 14, Es. 16, Es. 17 mostra come Paolo avesse presente la successione
degli eventi in I Cor. ro. 216. Wotff, ThHK, 43.
217. Ad es. Hanson, Studies in Paul's Technique and Theology, 149 s.
2 r 8. Conzelmann, KEK, 203 s.
Le lettere di Paolo 1 95

Lang, la novità che Paolo trasmette alla comunità di Corinto


risiede nell'applicazione tipologica del racconto dell'esodo alla
chiesa cristiana. «La comunità della nuova alleanza, per l'apo-
stolo, è in stretta relazione con la storia dell'antica alleanza;
perciò la fondazione dell'antico popolo di Dio mediante l'agi-
re divino (esodo e cammino nel deserto) costituisce un typos,
una 'pre-figurazione' della fondazione del nuovo popolo di
Dio, quello escatologico, mediante l'evento Cristo ... In Cri-
sto, la storia veterotestamentaria della promessa è giunta a
compimento (2 Cor. l,20). Le promesse veterotestamentarie
sono 'prototipi' dell'evento Cristo». 219 Questa interpretazione
dell'interpretazione dell'esodo in Paolo, tuttavia, è adeguata
solo in parte. Certamente il battesimo su, di:;, Mosè per Paolo
era per certi versi prefigurazione del battesimo cristiano. E si-
curamente la bevanda spirituale, in un certo senso, era prefi-
gurazione della cena del Signore cristiana. Sarà ben difficile
contestare che Paolo abbia attribuito all'evento Cristo nel bat-
tesimo cristiano e nella cena del Signore un valore soteriologi-
co maggiore rispetto all'essere battezzati e al bere nel deserto.
Tuttavia non è facile parlare di tipologia stricto sensu, dato che
comunque era Cristo stesso la roccia spirituale, 7tvwp.a-r~x~
7tÉ-rpa, che offriva la bevanda spirituale. L'evento Cristo del
deserto, dunque, ben difficilmente è mera prefigurazione del-
l'evento Cristo neotestamentario. Si può forse definire Cri-
220

sto la sua stessa prefigurazione, vederlo come typos del suo stes-
so antitypos? Può Cristo «superare» se stesso, se già il concet-
to di tipologia (e qui non si può certo parlare di tipologia anti-
tetica) necessariamente implica l'elemento del superamento? 221

219. Lang, NTD, 123 (corsivo mio).


220. Analogamente anche Koch, Die Schrift als Zeuge, 213: «D'altra parte, va esclusa
l'idea di una qualità eventualmente inferiore dci 'sacramenti' di un tempo, mentre an-
che per il prodigio di allora riguardante cibo e acqua viene affermata la medesima
presenza di Cristo che si ha nella cena eucaristica della comunità».
22 r. Koch, op. cit., 211 ss., tratta I Cor. IO, 1- 13 nel paragrafo Allegorische Schriftaus-
legung bei Paulus, op. cit., 202. Come molti altri esegeti, anch'egli colloca la pericope
nella corrente della tradizione relativa all'interpretazione giudaica contemporanea del
Pentateuco, e dunque come singolare mescolanza di allegoria e tipologia: l'applica-
zione paolina della roccia al Cristo preesistente è fornita dall'interpretazione allegori-
La teologia di Paolo

Ma, proprio per avere a portata di mano una definizione, per


il momento parliamo semplicemente di quasi-tipologia, pur
senza voler definire con esattezza il metodo interpretativo real-
mente adottato da Paolo.
Che la corrispondenza quasi-tipologica dei sacramenti veterotestamen-
tari e neotestamentari non costituisca il vero intento di Paolo lo dimo-
stra già il v. 5= sebbene «tutti» i padri fossero sotto la nube veterot_esta-
mentaria, «la maggior parte» di essi venne abbattuta (passivum divi-
num !). Per il v. 6, tali cose avvennero come -rur.ot ~p.wv, dunque come
fatti tipici in relazione a noi. Al v. r r Paolo ripete tale concetto: questi
fatti accaddero ai padri -rumxwç. Ciò che sta scritto, infatti, è scritto per
ammonimento nostro. èypaqrri ÒÈ: r.pÒç vou-8ecriav ~IJ.wv corrisponde al
òt '~1J.ciç yàp èypacpl'J in 9, r o.
Certo, il r.pÒç vou-8ecriav ~p.wv di r o, r r non esprime tutta la portata
della comprensione paolina della Scrittura. L'apostolo, infatti, nella ypa-
cp~ vede espresso principalmente l'indicativo salvifico. Il fatto che qui,
nella corrispondenza tra situazione veterotestamentaria e neotestamen-
taria, si ricorra all'imperativo, è in relazione con la condizione della co-
munità di Corinto. La quasi-tipologia di 1 Cor. ro, infatti, riguarda in
primo luogo la corrispondenza «tipologica» tra la condotta dei padri
neotestamentari e quella dei corinti. Ecco il perché degli imperativi ri-
portati in formulazione negativa, al cui apice Paolo pone, al v. 7, !J.l')ÒÈ:
dòwÀoÀa-rpai yivecr-8e. E proprio questo imperativo viene motivato da
una citazione scritturistica, introdotta dalla formula quotationis wcrrr:ep yÉ-
ypar.-rai; è significativo che si tratti di Es. 32,6, una citazione tratta dalla
pericope riguardante il vitello d'oro.
Con questo rimando a un passo chiave del libro dell'Esodo - anch'es-
so inserito nella sequenza che iniziava con Es. r 3 - Paolo getta una luce
particolare sulla situazione di Corinto: ciò che accadde a quel tempo ai
piedi del Sinai, testimoniato da Es. 32,r-6, potrebbe avvenire nuovamen-
te nella comunità di Corinto, e precisamente il cibarsi della carne offerta
agli idoli e la prostituzione cultuale, rr:ai~et v.2 22 In questo senso, a IJ. l')ÒÈ:
dòwÀoÀa-rpat yivecr-8e fa immediatamente seguito come secondo impe-
rativo negativo IJ.l')ÒÈ: rr:opveuw1J.ev. Anche in questo Paolo segue la tradi-
zione veterotestamentaria; la relazione tra idolatria e prostituzione è sta-
ca, attestata nell'esegesi giudaica di Es. 17,1-7, della 7tÉ'tpa. come aocpla o Àoyoc, (Filo-
ne, Leg. ali. 2,86). In Paolo l'allegoria si limita a quest'unico aspetto. D'altra parte, per
il sostrato prepaolino dell'unità complessiva di I Cor. I0,1b-5 occorre ipotizzare una
struttura di base fondamentalmente tipologica. Certo Paolo non interpreta in senso
tipologico la tipologia dei sacramenti.
222. Riguardo a 7ta.tl;E1v - T.M.: ipq; entrambi i vocaboli anche in Gen. 26,8 - nel sen-
so di danza cultuale e prostituzione cultuale cfr. Bertram, ThWb v, 628,36 ss. (GLNT
IX, 198 ss.); v. però Conzclmann, KEK, 205 n. 33; v. anche Billerbeck III, 410.
Le lettere di Paolo 1 97

ta profondamente inculcata nella coscienza giudaica in particolare da


Osea, Os. l-3. Qui non solo la prostituzione è ritenuta conseguenza
dell'abbandono di Jahvé, ma l'abbandono stesso è visto come prostitu-
zione. In I Cor. lo,8, in cui Paolo allude a Num. 25,9, il monito a guar-
darsi dalla prostituzione viene motivato ricordando la morte di 2 3 ooo
israeliti in conseguenza della prostituzione. 213 In precedenza si parlava
di prostituzione e di partecipazione ai sacrifici delle moabite, Num. 25,1
s. 224 Al v. 9 - i corinti non mettano alla prova il Signore 225 - Paolo pen-
sa agli israeliti ribelli, puniti con il morso di serpenti velenosi, Num. 21,
4-6,2 26 mentre al v. 10 - i corinti non mormorino - ha davanti agli occhi
Num. 17,6 ss. (16,41 ss. LXX), in cui si parla di 14700 morti. Da I Cor.
11,30 si capisce con quanta serietà Paolo intendesse questo rimando a
quelli che furono puniti. Il tema della tentazione viene ripreso ancora al
v. 13. Il l"i:E~pacrp.oç, agli occhi di Paolo, era certamente un pericolo che
minacciava da vicino i corinti.

Il tono di ammonimento quasi minaccioso di I Cor. rn,1-


13, con l'accento posto sull'idolatria e la prostituzione, potreb-
be anche essere in relazione con quanto affermato nei capp. 5
e 6 a proposito della 7topvda. Visto che in Os. 1-3 si diceva che
l'apostatare da Jahvé è prostituzione, in base al cap. 10 e te-
nendo conto dei capp. 5 e 6 c'è da chiedersi se viceversa la pro-
stituzione non sia idolatria. Se infatti colui che esiste in comu-
nione con il kyrios è un unico pneuma con lui, e se questo tipo
di esistenza si contrappone all'essere-una-sola-carne con la pro-
stituta; se inoltre Paolo sviluppa il suo pensiero partendo dal-
l'antitesi assoluta «essere in potere del Signore - essere in po-
tere di potenze nemiche di Dio», allora di fatto si può suppor-
re che intendesse l'essere sotto il potere della porneia equiva-
lente all'essere sotto il potere di kyrioi nemici di Dio. Già in

223. Stando a Num. 25,9, ne morirono 24000; che vi sia una sostituzione con Num.
26,62? Così ritiene Wolff, ThHK, 44.
o
224. Num. 25,1 s.: xaì È~E~'t)),w8't) ÀaÒç Èx;-;opveiicrat dç i:aç 8uyai:Épaç Mwa~. xaì
o
ÈxaÀecrav aùi:oùç È;-;Ì i:aç ·9ucr[aç i:wv dòÙiÀwv aùi:ùiv, xaì eqiayev ÀaÒç i:c;iv -9ucrtc;iv
aùi:wv, xaì ;-;pocrexuv't)crav i:otç dòÙiÀotç aùi:ùiv.
225. Certamente Cristo, con Wolff, ThHK, 44; Nestle-Aland 26 legge con p46 DG e
altri i:òv Xptcri:6v, Nestle-Aland 21 con ~BC e altri i:òv xuptov. Prendere posizione in
base alla critica del testo è difficile, benché per la nostra tematica non sia indispen-
sabile, visto che entrambe le lezioni concordano nel contenuto.
226. V. però anche <Ji 77,18.56: È!;rndpacrav i:Òv &6v - È;-;dpacrav xaì 7tctprn1xpavav
'tÒv "StOv 'tÒv Ul}tcr'tov.
l 98 La teologia di Paolo

Gal. Paolo identificava l'essere sotto l' hamartia con l'essere


sotto gli elementi del mondo (Gal. 3,22; 4,3). Forse si può ar-
rivare ad affermare che come nel volto di Cristo, con il quale il
credente ha una comunione strettissima, si incontra il volto
misericordioso di Dio, così nel viso della prostituta con cui il
peccatore ha una comunione strettissima si incontra la ma-
schera crudele della hamartia sotto forma di porneia.
Dunque è coerente che Paolo in 1 Cor. 10, 14-22 definisca
xotvwvia. -rou a.rfJ.a.'toç -rou Xpm-rou il calice della benedizione,
e xotvwvia. -rou <rWfJ.a.'toç -rou Xptcr-rou il pane, interpretando poi
in senso ecclesiologico il concetto soteriologico di pane come
l'unico pane e come l'unico corpo, ossia i molti: noi infatti, i
molti, partecipiamo dell'unico pane, fJ.E:'tÉ'X.OfJ.E:V. Allo stesso mo-
do il termine comunione, xotvwvia., è interpretato mediante il
concetto di partecipazione, fJ.E:'tOX,~. 227 Ecco che il pensiero di
Paolo si esprime nuovamente per contrasti: o si ha la comu-
nione, la partecipazione, al kyrios, o ai demoni. O si è in stret-
tissima relazione con Dio, o con il mondo demoniaco. Con il
rilievo ecclesiologico che ha la contrapposizione «o ... o ... »,
grandissimo è il pericolo per la comunità se alcuni dei suoi
membri partecipano del mondo demoniaco. Dunque: nessuna
idolatria! Nessuna porneia!
L'espressione iJ.E'!OX~ o µWE~tç naturalmente fa subito pensare a Plato-
ne. E poiché il pensiero dualistico platonico - certamente non l'antropo-
logia del Pedone - non è del tutto estraneo a Paolo (v. 2 Cor. 4,18), può
essere che si possa parlare a buon diritto di enfatizzazione teologica ec-
cessiva del concetto filosofico di partecipazione del filosofo greco. Il rin-
vio a Platone è giustificato in quanto si parla di essere dell'uomo deter-
minato da Dio o dai demoni. In Platone è l'essere del fenomeno del mon-
do percepibile con i sensi ad avere il proprio fondamento d'essere nel-
l'idea relativa. In Paolo è l'essere dell'uomo che sa di avere in Dio il fon-
damento della propria esistenza. Tuttavia non si può trascurare che pro-
prio per via delle notevoli differenze tra l'antropologia platonica e quel-
la paolina i presupposti ideali dei due sono estremamente diversi.
Ancora una volta torna ad essere importante Osea. Se prima si rinvia-
va a Os. l-3, ora è la volta di Os. 4. Il campo semantico di questo capi-

227. Per la koinonia in Paolo cfr. Hainz, Koinonia, per il quale (p. 175) questo termi-
ne è un concetto chiave della cristologia come dell'ecclesiologia paoline.
Le lettere di Paolo 199
tolo è analogo a quello paolino per quanto riguarda aspetti interessanti.
A volte le corrispondenze si presentano senza parallelismi linguistici di-
retti, ma per via del contenuto. In Os. 4 si parla continuamente di nop-
vda e di nopve:Ùe:tv, colpe di cui si macchiano gli israeliti. Tra di essi dun-
que non vi è à.À~-8e:ta né Èntyvwcnç -8e:o•j (dr. I Cor. 8,r), 4,r.6. Se Paolo
aveva veramente presente questo capitolo, allora ci sarebbe da chiedersi
se in xal a\'p.a'ta icp'a\'p.acrt p.icryoucrt, 4,2, non abbia magari scorto un'al-
lusione all'a\'p.a 'tOU Xptcr'tOU. In 4,8 sta scritto ap.ap'ttaç Àao•j p.ou cpa-
yonat, e in 4, lo cpayov'tat e Ènopve:ucrav sono paralleli; quindi: 'tÒv x•.'.i-
pwv iyxa'tÉÀmov. E poiché Israele è stato tanto ribelle (4,16: wc, oap.aÀtç
napotcr'tpwcra), in 4,17 s. è detto infine: p.hoxoc, e:lowÀwv 'Ecppaìp. Hh1xe:v
iau'ttj) crxavoaÀa, flpÉ'ttcre: Xavavaiouc, Tiopve:iJone:ç il;rn6pve:ucrav.
È quindi assai probabile che in 1 Cor. IO Paolo abbia fatto
un'allusione a Os. 4. 228 Anche il pensiero di Osea propone l'al-
ternativa esclusiva tra la comunione con Jahvé oppure con gli
idoli. In altre parole, vi sono due soli tipi di esistenza, o quella
nella sfera salvifica di Dio oppure quella nella sfera di perdi-
zione degli idoli. Ancora una volta ritroviamo in Paolo la vec-
chia alternativa di fondo proposta dall'Antico Testamento ed
espressa in maniera esemplare soprattutto in Deut. 27 e 28:
l'uomo esiste o nell'ambito della benedizione o in quello della
maledizione. O si ha il sì di Dio all'esserci dell'uomo oppure il
no divino come annientamento dell'esserci umano, prima che
il nulla fisico inghiotta definitivamente l'infame, l'annientato.
In 1 Cor. 10,23-11,1, tutto sommato, Paolo riporta solo un
compendio di quanto ha affermato sino a questo momento. Ma
proprio questa pericope, ricorrendo alla citazione di un salmo,
esprime in maniera programmatica il dominio del Signore (~
23,1): -tou xuplou lj ì'YJ xa.l -tÒ 7tÀ~pw(J-a. mhi)ç. Se anche Dio si
è rivelato nella folle parola della croce, tuttavia dietro questa
rivelazione soteriologica vi è l'adesione al creatore e al potente
Signore del mondo.

1 Cor. 11-14: il culto


È incontestabile che «vi sia una certa tensione tra la disposizione e-
sterna ed interna dei capp. l-l 4>>, poiché solo in l 2, l si ha l'indicazione
228. In ogni caso Paolo riporta due citazioni formali tratte da Osea: I Cor. I 5, 55; Rom.
9,25 s., nonché una citazione mista in Rom. 9,27 s. (con Is. 10,22 s.).
200 La teologia di Paolo
di un nuovo tema introdotto da 7te:pt, mentre il cap. r r tratta già di come
comportarsi durante il cu!to. 229 Pure, è bene non attribuire un'impor-
tanza eccessiva a questa circostanza prendendola a pretesto per interven-
ti di critica letteraria.
Il problema riguardante le donne, il cui capo deve rimanere coperto du-
rante il culto, l Cor. l l,2-16, indica chiaramente che la libertà dalla leg-
ge che Paolo sosteneva in modo tanto radicale precedeva in linea teorica
la prassi ecclesiale su cui rifletteva, così come a quell'epoca la teoria e la
prassi, la teologia e la convenienza, erano ben distanti l'una dall'altra.
Paolo stesso al tempo della stesura di l Cor. non aveva ancora elaborato
pienamente la propria concezione teologica fondamentale con tutte le
conseguenze che ne derivavano.
Che le donne dovessero pregare con il capo coperto era una
consuetudine giudaica, non un obbligo della torà. Ma come la
legge, anche la condotta generalmente tenuta dai giudei nella
vita di ogni giorno faceva parte della tradizione giudaica asso-
lutamente vincolante. v6µoç, ~-8oç ed Woç formavano un'uni-
tà di convenienza che veniva considerata norma divina obbli-
gatoria, oltre a fornire una certa identità. Trasgredire la legge,
l'ethos e la consuetudine giudaica equivaleva a ledere l'identità
personale. E la confortante consapevolezza della propria iden-
tità dà un senso di sicurezza e protezione. A ciò si aggiunga
che il confine tra queste tre entità, legge, ethos e consuetudine,
era piuttosto labile, per cui il complesso di convenienza nella
vita del singolo individuo e della comunità non era esaminato
nel caso specifico per vedere dove collocare i singoli obblighi.
Paolo predica la libertà dalla legge. Intesa come formula, que-
sta «libertà dalla legge» è indiscutibilmente pericolosa. Come
ogni formula, anch'essa è esposta a interpretazioni immorali e
inumane. Lo slogan corinzio «Tutto mi è lecito» lo evidenzia
chiaramente. Supponiamo che la massima di Gal. 3,28, «Non
c'è più uomo né donna», fosse nota anche a Corinto e fosse
interpretata da certi gruppi in modo estensivo, nella coscienza
dell'esistenza pneumatica: per le donne che - con Gal. - soste-
nevano con forza che l'esistenza cristiana è esistenza nella li-
bertà, la consuetudine giudaica di velare il capo durante il cul-

229. Conzelmann, KEK, 221.


Le lettere di Paolo 201

to era ridicola, segno di una schiavitù ben misera che in passa-


to pesava sulle donne giudee.
Ecco finalmente il punto in cui l'incoerenza di Paolo al-
l'improvviso diventa palese. Ora, infatti, è proprio lui a spez-
zare quell'unità tra legge, moralità e consuetudine, poiché abro-
ga la legge ma mantiene la consuetudine. In lui, i modelli com-
portamentali giudaici si erano impressi in modo tale che qual-
siasi comportamento diverso gli appariva solo come espressio-
ne di perversione pagana.
A dire il vero, da parte di Paolo ci si dovrebbe aspettare una
presa di posizione nei confronti delle donne di Corinto, così
consapevoli della loro libertà, analoga a quella del cap. 8, dato
che tutto sommato la loro condotta non era se non la conse-
guenza tratta dall'annuncio di libertà proclamato dall'aposto-
lo. Questi però, prigioniero com'era di strutture di convenien-
za sociale di stampo giudaico, argomenta ora in modo teologi-
co contro l' «immoralità», basandosi sull'Antico Testamento.
La sua argomentazione segue per certi versi una teologia della
creazione.
Ora, J acob Jervell ha dimostrato che la concezione secondo la quale Ada-
mo sarebbe stato creato a immagine di Dio, mentre Eva sarebbe stata crea-
ta da Adamo, bdnft, corrisponde a una convinzione rabbinica ben preci-
sa.230 Il problema riguarda solo la datazione che, come per molte altre
testimonianze rabbiniche, è estremamente ardua. Quindi, quando Jer-
vell sostiene che esistono dei paralleli per provare la dipendenza della vi-
sione paolina da concezioni rabbiniche contemporanee, in realtà non di-
mostra proprio nulla. I rabbi, infatti, possono aver ripreso in tempi suc-
cessivi tradizioni che erano state precedentemente sostenute all'interno
di gruppi giudaici non necessariamente di formazione biblica rabbinica.
Che la coincidenza concreta rilevabile tra enunciati paolini e rabbinici
sia in grado di provare ben poco, lo evidenzia la differenza formale: gli
esempi rabbinici non inseriscono l'affermazione su Adamo unica imma-
gine di Dio all'interno di una successione graduale. Questa si incontra
invece in Filone, che presenta due varianti: r. Dio - Logos - uomo; 2. Dio -
Logos = eikon di Dio - av./).pw7toç xcxù:!xovcx - uomo empirico.2 31 La se-
conda sequenza ha come presupposto che Dio, secondo Gen. r,27, ha
creato l'idea (pensata in termini quasi platonici) dell'uomo come dxwv
230. Jervell, Imago Dei, 109 ss.; vi sono riportati esempi approfonditi.
23 r. Eltester,Eikon im NT, 49 ss.
202 La teologia di Paolo

del Logos, il quale da parte sua è e:lxwv di Dio, e secondo Gen. 2,7 Dio
ha creato l'uomo terreno-somatico come riproduzione di quello di Gen.
l,27, creato come idea. Secondo I Cor. l l,3, comunque, la sequenza Dio -
Cristo - uomo corrisponde agli elementi principali delle due successioni
proposte da Filone. Potrebbe forse essere che Paolo, almeno per tramite
di Apollo, avesse familiarità con l'elemento formale delle successioni fì-
loniane, e che quindi questo modo di pensare per gradi venisse da lui
applicato alla differenza tra uomo e donna che aveva in mente? Magari
addirittura in relazione al pensiero fìloniano, o almeno alessandrino-
giudaico, riportato da Apollo nella comunità di Corinto?
Dunque, per I Cor. l l,2 ss. si dovrà presumere un influsso teologico
giudaico, quale esso sia. Si può anche supporre, ma senza poterlo prova-
re, che Paolo subisse l'influenza formale della teologia alessandrina, alla
quale però non necessariamente risale il contenuto concreto, ossia il pri-
mato teologico dell'uomo sulla donna, recepito da un diverso ramo del
giudaismo. Tuttavia, c'è da mettere in conto anche l'eventualità che sia
stato Paolo stesso a sviluppare quest'idea accomunando Gen. l ,27 e Gen.
2,18.22; se così fosse, allora avrebbe riferito al solo Adamo sia il singola-
re di l ,27 "L'ÒV av.fJpW7tOV, inteso Come "L'ÒV avÒpa, sia Soprattutto il Xa"L''e:l-
X.OVa .fJE0 1j È7to( ricn:v aÙ"L'ov, mentre avrebbe collegato apcre:v x.al .fJ"i]Àu È7to(-
ricre:v aÙ"L'ouc; ad Adamo ed Eva. 232 Creata come aiuto, ~ori.fJoc;, per la e:l-
xwv .fJe:ou-così si può leggere Gen. 2,18.22, alla luce da una parte di Gen.
l,27ab e dall'altra di Gen. l,27c. Inoltre, Gen. 5,1-3 LXX può essere be-
nissimo letto come esclusione di Eva dalla diretta somiglianza con Dio:
è Adamo, il padre, a generare il figlio Set xa"L'à "L'~V lòfov (forma) aùw1j
xal xa"L'à "L'~v e:lx.ova aÙ"L'ou.
Ma se si ritiene che per I Cor. l l vi sia l'influsso di un modo di pen-
sare per gradi, fìloniano o perlomeno alessandrino, allora colpisce che la
sequenza Dio - Cristo - uomo - donna, i cui ultimi tre elementi in Filo-
ne sono rispettivamente e:lxwv di quello che precede (sebbene invece di
Cristo si abbia Logos), in I Cor. l l,3 sia tenuta insieme dal concetto di
xe:q>aÀ~, mentre in l l,7-9 manca, nella sequenza, la persona di Cristo e
compare invece, con Filone, l'espressione e:lxwv. Dal canto suo, e:lxwv
riguarda il rapporto dell'uomo con Dio: l'uomo è e:lxwv xal òO~a .fJe:ou.
Sorprende che per quanto riguarda la donna scompaia il concetto di e:l-
xwv. Essa è semplicemente òo~a àvòpoc;.2 33 Ed ecco la motivazione: yuv~
È~ àvòpoc;, la donna è creata per l'uomo. Qui, senza che sia nominato il
concetto di ~ori.fJoc;, risuona Gen. 2, l 8.2 34
232.Jervell, Imago Dei, 300, quando Paolo combina Gen. l,27 e 2,18 ss. lo vede in-
serito nella tradizione delle concezioni rabbiniche, come pure quando nel plurale di
Gen. l ,2 7c non vede espressa una creazione a immagine di Dio.
233. Conzelmann, KEK, 227 e 227 n. 49: dxwv e òOl;a sono sinonimi; il significato
formale di ò6l;a è «copia».
234. Eltester, Eikon, l 56, a proposito di 1 Cor. l l così riassume: «Registriamo come
Le lettere di Paolo 203
A detta di Jervell I Cor. 11,7 s. non è una citazione diretta
tratta da Gen. 1,27 e 2,22, bensì una riflessione su questi passi
della Scrittura sulla base di un midrash giudaico. 235 Si può con-
venire con lui se si eccettua l'accenno al presupposto midra-
shico. Tenuto conto di questo, diventa teologicamente rile-
vante che in I Cor. 11 vi siano affermazioni tratte dalla Genesi
come prove scritturistiche di una semplice consuetudine. Così
facendo, un determinato comportamento sociale viene innalza-
to sul piano di ciò che è teologicamente irrinunciabile, e questo
in contrasto con la concezione originaria di Paolo riguardo a
una questione fondamentale. La consuetudine indotta da cir-
costanze di tipo storico-culturale non porta certo Paolo a sa-
crificare il principio che ha esposto in Gal. 3,28. Tuttavia egli
introduce una norma esecutiva che, almeno agli occhi dei de-
stinatari di sesso femminile, rappresenta una relativizzazione
intollerabile del principio teologico «né uomo né donna». Cio-
nonostante, se dovessimo farne una colpa eccessiva a Paolo il
nostro sarebbe un giudizio molto poco storico. Contempora-
neamente si deve tener conto di un fatto: soltanto queste cir-
costanze di tipo storico-culturale, che Paolo non seppe indivi-
duare, lo spinsero a sviluppare un'argomentazione scritturisti-
co-teologica «giusta», ma nel luogo sbagliato. A tale riguardo
le donne di Corinto avevano ragione, anche se forse non anco-
ra nel contesto storico.
A Paolo bisogna concedere anche un'altra cosa: se si prende la Genesi co-
me unità teologica, e a quell'epoca Paolo non poteva fare altro, allora ov-
viamente il testo Sacerdotale di Gen. 1,27 può essere interpretato dal te-
sto jahvista di Gen. 2,18.22 esattamente come ha fatto Paolo, senza po-
ter accusare di artificiosità una simile esegesi. Dunque Paolo ha inter-
pretato i passi di Gen., che non cita pur avendoli certo in mente, parten-
do coerentemente dai presupposti esegetici di cui disponeva. Ma pro-
prio questa esegesi coerente avrebbe meritato la sua critica in base al suo
fondamento teologico. 236
risultato che eikon è dovuto a Gen. r,27, e va compreso a partire dalla speculazione
ellenistica. Il giudaismo, a cui risale l'argomentazione in 1 Cor. r r,2-16, in molti pun-
ti denota una certa conoscenza della cosmologia ellenistica. L'idea dell'uomo fatto di-
rettamente a immagine di Dio, invece, è da attribuire a un influsso genuinamente giu-
daico». 235. Jervell, Imago Dei, 296.
236. Riguardo alla cronologia relativa delle lettere di Paolo: le nostre considerazioni
La teologia di Paolo

Il passaggio a I Cor. I r,r7 ss. è alquanto brusco. Qui Paolo rimpro-


vera ai corinti un altro malcostume, grave anche ai nostri occhi, ossia la
divisione che ha luogo durante la liturgia eucaristica tra ricchi che goz-
zovigliano e poveri che patiscono la fame. I ricchi, infatti, durante il XIJ-
p~axòv Òe:t7tvov si abbuffano, umiliando così i poveri. Unicamente a mo-
tivo di questa prassi vergognosa in I r,23 ss. Paolo fa riferimento all'isti-
tuzione della cena del Signore e ne riporta il racconto, pur senza voler
trattare il tema della teologia della cena del Signore. L'accenno a questa
tematica non avviene dunque ai fini della trattazione, bensì per scopi
puramente parenetici.
Di conseguenza non spetta a noi prendere qui in esame il difficile pro-
blema delle parole eucaristiche, che compete alla storia della tradizio-
ne.237 Qui dobbiamo limitarci a interrogare la tradizione eucaristica fa-
miliare a Paolo e da lui ripresa, per vedere come essa si inserisca nel suo
pensiero teologico e nello stile argomentativo della lettera. A questo sco-
po, è indispensabile anche gettare uno sguardo indietro a I Cor. r o, I4 ss.

È evidente l'orizzonte soteriologico in cui sono inseriti que-


sti enunciati. La teologia della croce di I Cor. 1,18 ss. ora di-
viene ben percepibile nel contesto sacramentale. Le parole in-
terpretative per il pane, 't'Ò crwµa 't'Ò u7tÈ:p uµwv, e per il calice,
~ xaiv~ Òia.S~x'Y] Èv 't'cfl ȵcf> aZp.a't'i, vv. 24 s., sono riferite al
significato soteriologico della morte in croce di Gesù. L'even-
to eucaristico rifà presente l'evento salvifico della croce.2 38 In
I Cor. 1,18 ss. la parola della croce accoglieva nel momento
presente l'evento della croce nella sua efficacia creatrice di sal-
sostengono la successione cronologica Gal. - r Cor. che avevamo ipotizzato. r Cor.
11, infatti, può ben essere compreso come precisazione contingente del principio
teologico espresso in precedenza in Gal. 3,28, che Paolo sicuramente espose anche a
Corinto indipendentemente dalla stesura di Gal. E tale precisazione comporta ap-
punto una limitazione. Al contrario, difficilmente ci si può figurare che Paolo possa
aver successivamente trasformato la sua presa di posizione di r Cor. 1 l nella massima
di Gal. 3,28. Per via di certe differenze a livello di contenuto (Lietzmann, HNT, 63,
parla di «inconcinnità») tra Gal. 3,26-28 e r Cor. 12,12 s., Merklein, Der paulinische
Leib-Christi-Gedanke, J24-27, in Gal. 3,26-28 non vede alcuna attestazione della
concezione relativa al corpo di Cristo. Se anche, sotto questo aspetto, il suo pensiero
differisce lievemente da quello qui presentato, tuttavia la sua tesi fondamentale, se-
condo la quale Paolo avrebbe sviluppato l'idea del corpo di Cristo solo in occasione
del confronto diretto con la comunità di Corinto (op. cit., J22), si avvicina abbastan-
za alla nostra. Secondo Merklein, op. cit., 336, in 1 Cor. 12,13 Paolo allude al noto
brano di tradizione di Gal. 3,26-28, probabilmente perché avrebbe avuto un certo
ruolo nell'argomentazione dei corinti.
237. V. al riguardo quanto esposto nel voi. III, 265 ss.
238. Per quanto concerne il concetto rifare presente, cfr. voi. l, 105 n. 54.
Le lettere di Paolo 205

vezza, e lo stesso accade qui per l'evento sacramentale. L' ele-


mento kerygmatico è espresso nel 'tÒv -Dava'tov 'tot.i xuplou xa-
'ta.yyÉÀ Àc.'tc.; il bere e il mangiare sacramentali costituiscono
l'atto di tale annuncio.
Le parole interpretative racchiudono rimandi ad espressioni veterote-
stamentarie. Rimane da chiedersi se Paolo, citando queste parole, com-
prenda anche tali rimandi. Se dunque nelle parole relative al pane, -rò ÙnÈp
Ù[J.WV, si ha molto probabilmente l'allusione a Is. 53, allora anche Paolo
potrebbe aver avuto presente questo capitolo. Infatti, già per Gal. 1,4 si
evidenziava che Is. 53 doveva essere un testo soteriologico dell'Antico
Testamento piuttosto importante per l'apostolo. Quando si parla della
nuova diatheke, come testo veterotestamentario di riferimento si pre-
sterebbe sia Es. 24,8 sia Ger. 3 1,3 I (3 8,3 I LXX). Se Paolo qui aveva in
mente Ger. 31,31 - ipotesi assai probabile - allora avrebbe interpretato
tale testo come promessa. Ma sicuramente aveva presente anche Es. 24,8.
Per questo testo si può parlare allora di comprensione tipologica nel vero
senso della parola.
Il problema teologico centrale si pone con il termine crwµa..
Ebbene, qui è il crwµa. Xp~cr'tou che, espresso in senso soterio-
logico, viene però analizzato dal punto di vista ecclesiologico
come già in I Cor. 10,14 ss. Per il cap. 11, il corpo di Cristo è
quello che ha sperimentato la morte in croce; per il cap. 10,
coloro che partecipano del corpo di Cristo (xo~vwvta.) forma-
no essi stessi un corpo, e precisamente l'unico corpo - un'idea
che in I Cor. 12, 12 ss. viene così interpretata: la comunità di
Corinto, se non addirittura la chiesa tutta, costituisce il corpo
di Cristo. Stavolta però questo concetto trova espressione nel
contesto della teologia battesimale (v. 13). Ma come è possibile
mediare in modo teologico-concettuale l'aspetto soteriologico e
quello ecclesiologico?

Excursus. Bilancio teologico provvisorio


Nella sua interpretazione esistenziale della teologia paolina,
Rudolf Bultmann ha posto attenzione principalmente alla tem-
poralità e alla storicità dell'esistenza di fede. 239 Il concetto di
239. Bultmann, Die Geschichtlichkeit des Daseins und der Glaube (1930); Idem, Neues
Testament und Mythologie (1941).
206 La teologia di Paolo

storicità non è stato da lui ripreso da Martin Heidegger, come


si è spesso sostenuto, poiché se ne era già occupato in termini
teologici ancor prima del suo confronto intellettuale con il
filosofo, probabilmente per tramite di Wilhelm Dilthey. 240 Ma
lavorando a stretto contatto con Heidegger dopo che questi fu
chiamato a Marburg, fu proprio la storicità definita come esi-
stenziale dal filosofo quella nel cui orizzonte Bultmann volle
far comprendere nel presente la teologia di Paolo. E, di fatto,
in Essere e tempo l'argomentazione punta con decisione alla
temporalità e alla storicità dell'esserci. Ma proprio in relazione
alla teologia paolina non si dovrebbe trascurare la relazione
strettissima tra la spazialità e l'essere-nel-mondo che Heidegger
individuò come costituzione fondamentale dell'esserci. Sareb-
be ingiusto voler rimproverare a Bultmann di aver ignorato la
spazialità dell'essere-nel-mondo; tuttavia, nel suo pensiero
teologico questo esistenziale ha un ruolo decisamente più ridot-
to rispetto a quello che riveste l'esistenziale della storicità.
Per trattare il problema della spazialità nel pensiero teologico di Paolo,
si potrebbe ricorrere con profitto a questo esistenziale enucleato in Es-
sere e tempo. 241 Ma a mio parere c'è un approccio molto più fecondo nel-
la storia della filosofia del primo xx secolo, ossia nella filosofia delle for-
me simboliche di Ernst Cassirer. Grazie a quanto egli afferma dello spa-
zio nella coscienza mitica, è possibile dare un buon fondamento concet-
tuale, in ambito preteologico-filosofico, a ciò che Paolo implica - ancora
una volta tacitamente - nella sua teologia riguardo alle concezioni di spa-
zio. È evidente che a un tale modo di fare si possa obiettare che proceda
ecletticamente in philosophicis. È mai possibile richiamarsi prima a Hei-
degger e subito dopo a Cassirer? Si può forse «completare» la fenome-
nologia di Heidegger 242 con la filosofia del neokantiano Cassirer? Di
fatto non è possibile. Tra i rappresentanti di due concezioni tanto diffe-
renti c'è però un'affinità filosofica. 243
Ernst Cassirer, infatti, si contrappone apertamente alla fenomenolo-
gia sia di Husserl sia di Heidegger. 244 La sua esposizione potrà essere al-
240. Hiibner, Was ist existentiale lnterpretation?, 14 ss.
241. Heidegger, Essere e tempo,§§ 22-24.
242. Riguardo a questa cfr. Herrmann, Der Begriff der Phanomenologie bei Heidegger
tmd Husserl.
243. Sulla differenza filosofica cfr. «Il dibattito di Davos» tra Cassirer e Heideggcr in
Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik, 246 ss. (tr. it. 219 ss.).
244. Per Husserl: Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen II, 16 n. 1 (tr. it. Fi-
Le lettere di Paolo
meno accostata a una presentazione fenomenologica, anche se il suo mo-
do di pensare e il compito che si ripropone si distinguono da quelli di
Heidegger anzitutto perché «non si fermano a questo grado del 'dato' e
alla sua specie di 'spazialità', ma, senza contestarla, estendono la questio-
ne al di là di essa». 245 Se, di conseguenza, intende «seguire la strada che
conduce dalla spazialità come elemento del dato allo spazio come forma
della semplice-presenza», 246 allora per noi le dichiarazioni interessanti
di Cassirer sono proprio quelle in cui egli enuclea il significato 247 di
«spazio mitico», che fa risolutamente uscire dallo «spazio della matema-
tica pura». 248 In ogni caso, per lui il§ 22 249 di Essere e tempo è un' «acu-
ta analisi» di quelle determinazioni che si «riferiscono ... all'esperienza pri-
maria della spazialità». 250 Egli constata non solo l'esistenza dello spazio
mitico, ma concretizza l' «orientamento» spaziale del mito, che sotto que-
sto aspetto resta legato a modi originari e primitivi del sentimento miti-
co del mondo. In questo sentimento del mondo, a determinazioni e di-
stinzioni spaziali si giungerebbe solo «in quanto a ogni 'regione' dello
spazio, al 'qui' e al 'là', al sorgere e al tramontare del sole, al 'sopra' e al
'sotto' viene dato un peculiare accento mitico». 251 Per le considerazioni
che seguono è particolarmente importante che Cassirer presenti l'oppo-
sizione fondamentale del 'sacro' e del 'profano'; non solo essa apparireb-
be intessuta in tutte queste opposizioni spaziali, ma sarebbe addirittura
ciò che le costituisce, che in un certo qual modo le provoca. Dunque, a
fare di una regione un qualcosa di spazialmente determinato e di parti-
colare, sarebbe la speciale atmosfera mitica. Tutto sta nell'opposizione e
nella distinzione: «L'augure che si traccia un templum, un sacro recinto,
e distingue in esso diverse zone, crea con questo il fondamento e la con-
dizione preliminare, crea un primo inizio e un primo spunto di ogni 'con-
templazione' in generale. Egli divide l'universo secondo un determinato
punto di vista; stabilisce un sistema spirituale di rapporti, secondo il
quale viene orientato ogni essere e ogni accadere». 252 Egli individua una
potenza reale e fatale, benefica o funesta, presente in ogni singola regio-
losofia delle forme simboliche II, Firenze '1966, 18 s. n. l); per Heidegger: op. cit. III,
173 n. l (tr. it. Filosofia delle forme simboliche III/I, Firenze '1967, 198 n. 1); 190 n. 1
(tr. it. 218 n. 2); 194 n. 2 (tr. it. 223 n. 2); 219 n. l (tr. it. 252 n. l).
245. Op. cit. m, 173 n. 1 (tr. it. 198 n. 1).
246. Op. cit. III, 174 n. 1 di p. 173 (tr. it. 199 n. l di p. 198).
247. Questo concetto, centrale per Heidegger e Bultmann, è impiegato anche da Cas-
sirer, ad es. op. cit. III, 175 (tr. it. 200), proprio a proposito della tematica spaziale.
248. Ad es. op. cit. 11, l 04 ss.
249. La spazialità dell'Utilizzabile Intramondano.
250. Cassirer, op. cit. III, 173 n. l (tr. it. 198 n. l); anche se certamente Heidcgger non
dovette approvare il termine «esperienza». 25 I. Op. cit., 175 (tr. it. 200).
252. Op. cit., 176 (tr. it. 201).
208 La teologia di Paolo

ne spaziale.2 53 In tali riflessioni coinvolge anche la forma simbolica del


linguaggio. 254
Se si ammette che Paolo parla dell'evento salvifico in modo tale da giu-
stificare il rimando almeno iniziale al concetto di mito di Cassirer, allora
l'importanza 255 dello spazio mitico da lui menzionata potrebbe condur-
re al cammino imboccato da Bultmann della demitologizzazione nel sen-
so di un'interpretazione esistenziale del mito, facilitando ulteriormente
l'accesso a ciò che Paolo voleva veramente dire. Forse bisognerebbe ad-
dirittura evitare il termine poco felice di «demitologizzazione», poiché
il mito non deve essere rimosso in quanto mito; 256 si tratta invece -d'ac-
cordo con Cassirer e con Bultmann - di comprendere il messaggio vero
e proprio del mito nonché, concretamente, la concezione mitologica di
spazio nel suo significato. Forse Cassirer è persino più efficace di Bult-
mann quando afferma che il linguaggio mitologico in fondo non può es-
sere del tutto sostituito da un altro linguaggio come può essere quello e-
sistenziale, ma che, proprio sottolineando l'accento esistenziale, non è
possibile rinunciare a elementi della visione mitica e del linguaggio miti-
co.257

Tuttavia, con un certo atteggiamento critico nei confronti


di Cassirer c'è da chiedersi se, con l'espressione «visione miti-
ca dello spazio», egli non intenda un po' troppe cose. Il ter-
mine «mito» non sta forse a indicare un qualcosa di più ridot-
to, rispetto a ciò che gli attribuisce Cassirer? C'è infatti da do-
mandarsi - come è evidente soprattutto in una teologia paoli-
na - se, nella coscienza religiosa e poi anche nel riflettersi di tale
coscienza sul rapporto dell'uomo con Dio, non emerga, quan-
to a spazialità, più di quanto avvenga in quell'ambito che può
essere definito indiscutibilmente come mito. Comunque sia,
in ogni caso il pensiero teologico di Paolo è pervaso in larga
misura dalla visione spaziale. E questo pensiero, dal canto suo,
nella visione spaziale risale a un'eredità veterotestamentaria.
253. /bid. 254. Op. cit., 177 ss. (tr. it. 202 ss.).
255. Op. cit., 175 (tr. it. 200): «La vicinanza e la lontananza, l'altezza e la profondità,
la sinistra e la destra hanno tutte il proprio carattere insostituibile, il loro particolare
modo di significato magico».
256. Anche Bultmann, come si sa, non intende eliminarlo, v. Bultmann, Neues Testa-
ment und Mythologie, 22. 25 (tr. it. 116. 120).
257. Forse sta qui il momento della verità nel contrasto tra Karl Jaspers e Bultmann
(Kerygma und Mythos 111); tuttavia, tale contrasto potrebbe essere in gran parte do-
vuto a una comprensione errata dell'intento di Bultmann (e certo anche dell'approc-
cio filosofico di Heidegger).
Le lettere di Paolo 209

Proviamo a immaginarci questa eredità veterotestamentaria. Dovendo


riparlare di questioni teologiche già trattate in precedenza, bastino qui
alcune indicazioni con un breve commento. L'uomo sta davanti a Dio,
davanti a Jahvé, lifne jhwh; l'essere uomo, dunque, è uno stare-davanti-
a-Dio. Questo modo di esistere specifico dell'uomo veterotestamentario,
in quanto essere spazialmente inteso acquisisce il proprio carattere par-
ticolare dalla coscienza che Dio è Dio proprio perché è giudice. Di con-
seguenza l'essere-davanti-a-Dio «spaziale» implica l'aspetto forense, già
più volte menzionato, come dimensione esistentiva di questo elemento
dell'esserci umano.
Vicino concettualmente all'essere-davanti-a-Dio, ma diverso nella sua
visione concreta, è ad esempio l'essere dell'uomo così come è espresso
in Sai. r 39. Quando si dice «mi circondi da ogni parte, e tieni su di me la
tua mano» (v. 5), allora diviene evidente che i complementi di luogo so-
no essenziali per comprendere il significato del salmo. Esso però non
tratta tanto dell'ubiquità di Dio, meditata in senso teoretico, bensì del-
l'esserci umano che è sempre e fondamentalmente un essere-circondati-
da-Dio. È, per così dire, un'enfatizzazione teologica dell'esistenziale del-
la spazialità presentato in Essere e tempo. E al tempo stesso è anche e-
spressione particolare di uno sbalordimento esistentivo ben preciso, che
però non può essere espresso da ogni uomo. Teologicamente il credente
può affermare che questo essere, questo «esistenziale», è adatto ad ogni
essere umano. Ma nella fede concreta si tratta «soltanto» di un'asserzio-
ne pia, fatta da chi sente di poter pregare il salmo. Ecco qui riemergere il
problema di fede e teologia. E, a chi pensa all'interno del sistema di co-
ordinate di una riflessione sull'esistenza umana, si presenta allora il pro-
blema che Bultmann ha lasciato in sospeso senza riuscire a risolverlo in
modo soddisfacente: la reciprocità di «interpretazione esistenziale» e sba-
lordimento esistentivo.2 58
Il pensiero religioso e teologico nella visione di spazio si evidenzia
anche nell'autocomprensione dell'antico popolo di Dio come Israele. So-
lo nello stare insieme degli israeliti (e naturalmente anche nello stare al
cospetto di Dio) è possibile la giustizia - ~edaqa è notoriamente un ter-
mine di relazione-; essa non è definibile a partire dall'individuo. Dun-
que l'essere-in-Israele degli israeliti è l'essere complementare rispettiva-
mente ali' essere-davanti-a-jahvé o ali' essere-circondati-da-Dio.
Secondo questo abbozzo di concezioni veterotestamentarie, ciò che
Cassirer afferma a proposito della comprensione mitica di spazio è ade-
guato alla concezione di spazialità che ci interessa dal punto di vista teo-
logico? A proposito di Antico Testamento, non si è ancora menzionata
l'opposizione fondamentale da lui fortemente sottolineata tra sacro e pro-

258. Hiibncr, Was ist existentiale lnterpretation?, 31 ss.


210 La teologia di Paolo
fano,2 59 ossia la distinzione che in un primo momento non sembra in-
tendere più che tanto l'aspetto fondamentalmente esistenziale appena e-
spresso nei concetti di essere-davanti-a-Dio ed essere-circondati-da-
Dio. Neanche l'idea dell'essere-in-Israele come essere-nell'ambito-della-
giustizia, idea importantissima per l'Antico Testamento, è molto conci-
liabile con l'opposizione fondamentale indicata da Cassirer. Se infatti
Israele è ambito di Jahvé, o più precisamente il suo ambito di dominio e
di grazia, che significato avrebbe un ulteriore ambito per la santità di Jah-
vé? Israele non è profano. Israele non può contaminarsi, non può essere
profano - perché Jahvé è santo.
Ora, colpisce che proprio nella legge di santità Israele venga esortato
ad essere santo perché Jahvé è santo, Lev. r9,2. Tuttavia, è stata proprio
la redazione Sacerdotale all'interno della quale ha avuto origine la legge
di santità a stabilire programmaticamente la distinzione tra sacro e pro-
fano, tra puro e impuro, Lev. lo,10 (bèn haqqodes ubèn ha~Ol ubèn
hattiime' ubèn hattiihor). Questa fondamentale differenza di condizione
viene fissata anche in senso locale, soprattutto nel miiqom qiidos o me-
qom haqqodes, ad es. in Lev. ro,17; 14,13; si traduca con «luogo sacro»
o - ancora più specificamente in relazione alla tematica qui trattata -
«spazio sacro». Ma il carattere singolare sta nella tensione tra la diffe-
renza di spazio sacro e profano da una parte, e di uomo/popolo sacro e
colpevolmente profano dall'altra. Prima, dunque, sacro rispetto alla re-
stante creazione di Dio, e poi sacro rispetto al peccato, che divide da
Dio. Ringgren fa a ragione osservare che stranamente a Lev. 19,2 non
fanno seguito precetti cultuali di purità, bensì prescrizioni etiche, il che
nell'Antico Testamento risulta piuttosto singolare. 260
Quindi, già all'interno della redazione Sacerdotale vi sono incoerenze
per quanto riguarda la concezione di sacro e profano. Ma una cosa è
chiara: se da una parte l'Antico Testamento condivide con il mondo co-
siddetto pagano che lo circonda il concetto di purità o impurità cultua-
le, dall'altra vi si ritrovano già evidenti abbozzi di un superamento etico
del pensiero cultuale, benché - paradossalmente - proprio nell'orizzon-
te del cultuale.
Con Cassirer è dunque lecito vedere intrecciata, in enuncia-
ti centrali dell'Antico Testamento, l'opposizione fondamenta-
le del sacro e del profano con le opposizioni spaziali che da es-
sa sono costituite; è insomma lecito vedere un «significato ma-
gico». 261

259. Cassirer, op. cit., 175 (tr. it. 200 s.).


260. Ringgren, ThWAT vr, 1192; cfr. Otto, Das Heilige; Zimmerli, VT 30, 493-512.
261. Cassirer, op. cit., 175 (tr. it. 200).
Le lettere di Paolo 2II

Uno degli esempi veterotestamentari più evidenti di una visione magica


dello spazio che offenda la coscienza etica moderna è l'ira di Jahvé con-
tro Uzza, il quale afferra con la mano l'arca perché non cada, 2 Sam. 6,6
s. Non soltanto il nostro pensiero teologico si ribella a un tale modo di
pensare magico; anche Gesù ha rigettato tale idea, come si vede soprat-
tutto nella controversia sulla legge di purità. 262 Torneremo ad occuparci
di questo tema con Rom. 14,14.20, dove la riflessione di Paolo si inseri-
sce all'interno di questa tradizione di Gesù, probabilmente con consa-
pevolezza.
Ma se anche il pensiero teologico di Paolo non è conciliabi-
le con quello di «significato magico» della spazialità, tuttavia,
con altrettanta chiarezza, occorre far presente che la sua teo-
logia, una volta messa definitivamente da parte la magia, pog-
gia fondamentalmente sul pensiero veterotestamentario di spa-
zialità. All'essere-in-Israele corrisponde l'essere-in-Cristo. Al-
1' essere-davanti-a-] ahvé corrisponde l'essere-davanti-a-Dio o
l'essere-davanti-al-Signore, in senso forense ed escatologico.
Se qui con Cassirer si possa parlare di visione mitica dello spa-
zio dipende dalla definizione del concetto di mito. Si potrebbe
forse parlare di coscienza religiosa di spazio, nella quale lo «spa-
zio» che sbigottisce il credente viene vissuto come spazio reso
significativo da Dio. Solo perché l'uomo è una creatura per la
quale la spazialità è costitutiva, una creatura il cui «essere-nel-
mondo» comprende anche un essere-in-uno-spazio, Paolo può
parlare appropriatamente dell'essere-in-Cristo, condizione esi-
stentivamente significativa per il credente. E poiché in questo
pensiero teologico riguardante la spazialità l'elemento princi-
pale è quello esistentivo, è anche irrilevante che vi si manifesti-
no incongruenze di tipo concettuale. L'importante è il sapersi-
al-sicuro-in-Dio, il sentirsi-nello-«spazio»-della-grazia. Ma
ciò che è stato appena esposto vale anche per l'oscuro contra-
rio, ossia per la hamartia, il temibile potere del peccato. Noi uo-
mini del xx secolo sappiamo anche fin troppo bene cosa signi-
fichi sentirsi «sotto» il dominio di tremendi dispotismi. La pre-
senza potenzialmente minacciosa e oppressiva di una spia na-
zista o di un delatore della Stasi era solo il sintomo di una con-
262. Hi.ibner, Das Gesetz in der synoptischen Tradition,passim, spec. 142 ss.; v. anche
Das Problem des historischen jesus, 207.
212 La teologia di Paolo

dizione nella quale, anche se la figura dello sbirro era assente,


ci si trovava costantemente «nello» spazio di una dittatura che
disprezzava l'uomo. Analogamente, ma in positivo, è sempre
presente il Dio che libera, e gli uomini vivono «sotto» la sua
grazia. Il sentirsi al sicuro presso Dio è dunque una condizio-
ne vissuta come senso di protezione nello spazio del Dio pre-
sente, che libera. C'è dunque lo «spazio» della sicurezza, lo
«spazio» della libertà, lo spazio-libero in cui l'uomo può libe-
ramente respirare, e c'è anche lo «spazio» angusto, soffocante,
in cui ciò non è più possibile. Parlando di spazio non s'inten-
de assolutamente una dimensione spaziale, un ambito misura-
bile stereometricamente, bensì qualcosa di ben diverso. In que-
sti termini si può esprimere la fede a proposito dello spazio de-
terminato dal Dio trascendente, senza che al contempo, teolo-
gicamente, si debba parlare per forza di mito. L'essere-in-Cri-
sto, dunque, non è una verificabilità immanentemente spazia-
le, né un'esistenza mitica, un'esistenza che possa essere espres-
sa solo in termini mitologici. L'intreccio di trascendenza e im-
manenza in quanto tale non è ancora mito.
Si tratta ora di illustrare e concretizzare tutto ciò applican-
dolo alle affermazioni sulla cena del Signore di I Cor. ro e r r.
In esse, ovvero nel collegamento che vi si coglie tra dimensio-
ne soteriologica ed ecclesiologica, è possibile vedere con parti-
colare chiarezza come Paolo introduca nel suo pensiero teolo-
gico l'esistenziale della spazialità. Infatti è la comprensione di
realtà che si manifesta nella concezione teologica di spazio a
creare quell'orizzonte in cui l'apostolo qui parla del crwµa Xpicr-
'tou. In un primo tempo, nel suo pensiero personale ha presen-
te il suo essere davanti a Dio e a Cristo. E poiché questo Cri-
sto è la nostra giustizia e redenzione, 1 Cor. r,30, l'espressione
paolina essere-in-Cristo è intesa in un primo momento in sen-
so soteriologico. Paolo si sente «in Cristo» come in colui che
ha dato se stesso per lui (!), Gal. 2,20. 263 Come in Gal. 2,20 è
sottinteso /s. 53,2 64 così anche nelle parole interpretative 265 per
263. V. il singolare u7tÈp È(J.Ou.
264. Anche per Gal. 1 ,4, come si è illustrato sopra, pp. 69 ss., si può ipotizzare I s. 53
come sfondo (stavolta però al plurale).
Le lettere di Paolo 213

il pane -rò crwp.a -rò U7tÈ:fl uµ.wv, I Cor. I r,24. Qui, crwµ.a sta per
il corpo offerto sulla croce «per voi», ossia la persona di Gesù,
che ha dato se stesso. Anche qui, perciò, crwµ.a indica l'essere
umano tutto intero, e non il corpo che può essere separato dal
vero io. Mediante il plurale «voi» viene certamente ampliato
quel singolare soteriologico di Gal. 2,20, con il risultato di sot-
tolineare chiaramente la dimensione ecclesiologica dell' enun-
ciato soteriologico. Analogamente, con il concetto di corpo di
Cristo offerto sulla croce e presente nell'atto sacramentale co-
me persona Gesù Cristo effettivamente presente in questo at-
to, lo spazio della redenzione viene espresso come realtà eccle-
siologica. Per questa ragione, in I Cor. 10,16 Paolo può parla-
re della comunione del corpo di Cristo, XOMù\ILCX 'rOU crwµ.a-roç
'rOU Xplcr'rOU. Nell'espressione -rò crwµ.a 'rOU XplO"'rOU si riuni-
scono dunque la dimensione soteriologica e quella ecclesiolo-
gica dell'evento salvifico. Si ha dunque redenzione laddove la
chiesa - rappresentata dalla comunità locale come pars pro to-
to ecclesiae - è esistente ed esprime questa realtà con efficacia
simbolica. 266 Lo spazio sacro della redenzione è ora la spazia-
lità salvifica dei redenti «in Cristo». Nella partecipazione al
corpo di Cristo, offerto in sacrificio per loro, essi sono l'unico
corpo di Cristo. L'unico pane è la loro koinonia del corpo di
Cristo; e l'unico corpo, che viene costituito attraverso il sacri-
ficio del corpo di Cristo, diviene concreto nei molti che par-
265. Otfried Hofius, Herrenmahl und Herrenmahlsparadosis, 205, in accordo con O.
Bayer parla di parole di donazione (Gabeworten); la definizione corrente per le paro-
le sul pane e sul calice, «parole interpretative» (Deuteworte ), sarebbe estremamente
discutibile, op. cit., 205 n. ro. Il termine «parole di donazione» è certamente appro-
priato; tuttavia diventa «estremamente discutibile» qualora il verbo «interpretare»
venga inteso solo in senso superficiale. Se tale verbo, però, appare nel contesto delle
«preghiere eucaristiche sul pane e sul calice» che hanno «carattere consacratorio»
(così, a ragione, Hofius stesso, op. cit., 229), allora le «parole di interpretazione», nel
senso inteso da Paolo, proprio per via della loro funzione interpretativa potrebbero
partecipare di questo «carattere consacratorio». Se anche esse non riguardano un' «i-
dentità di sostanza» (così con Hofius, op. cit., 227)- appunto perché Paolo non pen-
sava in termini «di sostanza» -, riguardano però, in accordo con Klauck, Herren-
mahl, 374, una «presenza reale somatica» (dichiaratamente contrario Hofius, op. cit.,
227 n. 136), in quanto rrwp.a è certamente inteso come persona.
266. Simbolo nel senso più profondo, ossia come qualcosa che concretizza, rende pre-
sente una certa realtà.
214 La teologia di Paolo

tecipano dell'unico pane: Ot "(tXp 7tcX\l'tE:ç Èx (!) 't'OU ÉvÒc; ap't'OU


I Cor. 10,17.
p.e:'t'Éxop.e:'I/,
Bisogna ammettere che questa logica dell'argomentazione
paolina, in particolare il rapporto concettuale reciproco tra I
Cor. 11 e I Cor. 10, non rientra nel modo di pensare «occi-
dentale». Solo trasferendosi nell'ampio spettro di significato
del termine crwp.a. è possibile pensare in chiave di spazialità so-
teriologica. Ma così facendo Paolo è riuscito ad esprimere in
maniera adeguata e teologicamente densa la realtà della reden-
zione, rendendo esplicita l'unica realtà, soteriologica e al tem-
po stesso ecclesiologica. Si tratta appunto della logica di quella
realtà che Cassirer ha definito con il concetto di concezione
mitica di spazio, e che noi, con modifiche terminologiche di
scarso rilievo, abbiamo ritenuto fondamentalmente appropria-
ta per il pensiero teologico di Paolo. E la profondità teologica
di tale pensiero non può certo essere messa in dubbio.
Le cose stanno in modo leggermente diverso per l'espressione parallela
di xot vwvlcx -roiJ crw1J.cx-roç -roiJ Xptcr-roiJ, ossia xoL vwvlcx -ro•j cxt'µcx-roç -roiJ
Xptcr-roiJ, I Cor. l0,16. Infatti, cxìµcx non esprime l'intera persona, come
è il caso di crwµcx. Ma già nell'Antico Testamento il sangue, dam, è sede
della vita, Lev. 17,1 ia: ki nefes habbasar baddam hf'; per questo moti-
vo, secondo la legge di santità e nella redazione Sacerdotale, Jahvé ha im-
posto come espiazione, l"kapper, il sangue, essenza della vita, Lev. 17,
l l b.2 67 Ora, difficilmente si potrà stabilire se nella paradosis della cena
Paolo avesse concretamente presente Lev. 17,1 l; tuttavia, potrebbe es-
sere che almeno il principio che qui trova espressione, e che era certo teo-
logicamente ovvio per il culto espiatorio ancora praticato al tempo della
stesura della lettera da parte di Paolo, costituisse anche l'orizzonte di com-
prensione di 1 Cor. 10,16 e l l,25, benché l'apostolo, per 1 Cor. l l,25,
dovesse avere davanti agli occhi Es. 24,8. 268

267. Cfr. von Rad, Theol. I, 275 ss. (tr. it. 301 ss.); Janowski, Suhne als Heilsgesche-
hen, passim; Hi.ibner, KuD 29, spec. 289 ss.; Hofius, Herrenmahl und Herrenmahls-
paradosis, 224 ss.; v. anche quanto segue a proposito di Rom. 3,2 5.
268. Di norma in Mc. 14,24 / Mt. 26,28 si scorge un riferimento a Es. 24,8, così, ad es.,
Merklein, Uberlieferungsgeschichte der Abendmahltraditionen, 164; Grasser, Der Al-
te Bund im Neuen, 123; Kutsch, NT- Neuer Bund?, r ro ss., mentre in 1 Cor. r 1,25
(e Le. 22,20) si individua un riferimento a Ger. 3 r ,3 r. Gese, Die H erkunft des Abend-
mahls, 123 (tr. it. 148); Hofius, Herrenmahl und Herrenmahlsparadosis, 226 n. 132,
propongono un riferimento anche di Mc. 14,24 a 1 Cor. r 1,2 5.
Le lettere di Paolo 215
Ecco allora la conclusione teologica: nella logica teologica di
Paolo si incontrano idee soteriologiche ed ecclesiologiche per-
ché alla base di entrambe vi è l'esistenziale della spazialità. Già
in Gal., anche se in maniera appena abbozzata, era stata espres-
sa la correlazione tra le due idee e il teologumeno - o dovrem-
mo piuttosto chiamarlo cristologumeno? - dell'unico discen-
dente di Abramo (3,16), nel quale tutti sono uno (3,28). Ma
l'esistenziale della spazialità offerto alla riflessione teologica è
stato trattato solo ora perché di fronte alla tematica eucaristica
e ai suoi elementi soteriologici ed ecclesiologici Paolo può
svolgere un'argomentazione teologica ben più approfondita: il
nostro luogo esistentivo è nel Cristo che è stato messo a mor-
te. Ma nello stesso momento in cui noi in quanto credenti ci
troviamo in quel luogo, ossia nella sfera salvifica dell'Èv Xp~cr­
'tcfl, e dunque per così dire l'esistenza di Cristo è divenuta la
nostra, noi siamo diventati in lui unità del crwµa. Xp~cr'tou, cioè
unità dell'èx-xÀYj-crta.. 269 In tal modo i sacramenti del battesi-
mo e della cena del Signore rendono presente - repraesentare
inteso come far diventare realtà nel presente - la nostra inesi-
stenza nell'esistenza del Cristo, che ha dato se stesso per noi
ed è presente come kyrios risorto. Ma proprio questo trasferi-
mento «spaziale» del credente in Cristo e il rendere presente
«temporale» dell'offerta di Cristo nel suo corpo sacramentale
e nel suo sangue sacramentale della cena del Signore si basa
sulla funzione vicaria esistenziale 270 di Cristo sulla croce per
noi, elaborata in particolare in base alle idee soteriologiche di
Is. 53. Quindi le concezioni riguardanti il trasferimento «spa-
ziale» e il rendere presente «temporale» hanno radici nel pen-
siero forense, ossia nel pensiero, ancora una volta elaborato in
termini spaziali, dell'uomo responsabile «davanti» a Dio. Que-
sto intreccio tra «terminologia da trasferimento» (Sanders) e
realtà da essa espressa da una parte, e realtà forense dall'altra,
solo a stento può essere incluso nel concetto di mito. È inne-
gabile che tutto questo complesso teologico racchiuda una

269. Naturalmente non nel senso che saremmo noi a costituire questo corpo di Cristo.
270. Gese, Die Siihne, 87 (tr. it. 106).
216 La teologia di Paolo

gran quantità di concezioni mitiche. Ma il carattere proprio di


questo complesso di concetti e idee non è affatto espresso in
termini mitologici. È la confluenza di enunciati riguardanti la
trascendenza di Dio e l'immanenza dell'uomo. Sanders ne ha
colto un aspetto importante, provocando un'ulteriore riflessio-
ne su tale passo. È certamente merito di Sanders aver enuclea-
to l'aspetto della soteriologia inerente ali'essere - certo in mo-
do un po' contorto, a causa della polemica con Bultmann e del-
l'interpretazione esistenziale da lui non compresa. Il suo erro-
re, infatti, è stato quello di non aver colto in misura sufficiente
la dimensione forense di tale aspetto, in questo modo svalu-
tandola.
Ciononostante, tutto questo acquista importanza ecumeni-
ca. Da una parte, infatti, con l'aspetto forense-personale viene
tutelato il principio luterano, evangelico, della dottrina della
giustificazione; dall'altra, con la terminologia da transfer trova
espressione l'essere del giustificato, così essenziale per la dog-
matica cattolica.

Proseguimento: I Cor. I I- I 4: il culto


Se già al cap. I I il messaggio propriamente teologico era totalmente
in funzione della parenesi, e dunque gli aspetti strettamente soteriolo-
gici non erano trattati come tali, al cap. 12 la scelta di menzionarli in
modo non tematico è ancora più appropriata in relazione alla tematica
parenetica. Le dichiarazioni di tipo pneumatico-ecclesiologico che vi
compaiono sono la risposta di Paolo a domande riguardanti certe prati-
che durante il culto. È a queste domande da parte dei corinti che l'apo-
stolo fa riferimento con l'espressione m:pl "rW'i 7tW:up.a"rtxwv.
r Cor. r2,r-3 è controverso. 271 Gli idoli muti del v. 2 potrebbero far
pensare a divinità pagane. Paolo qui è inserito nella tradizione della po-
lemica veterotestamentaria sugli idoli. Al "à dòwÀa "à acpwva corri-

271. L'ipotesi secondo la quale l'espressione «Gesù è anatema» vada interpretata co-
me formazione antitetica alla confessione già esistente «Gesù è Signore» è una costru-
zione artificiosa; così, ad es., Wolff, ThHK, 101. Ma se, come è altamente probabile,
la maledizione di Gesù avviene effettivamente durante il culto (nell'estasi?), allora c'è
da chiedersi se nella concezione pneumatica o almeno protognostica il Cristo terreno,
prepasquale, dunque quello «sarchico», non venisse davvero maledetto, e se non sia
questo l'elemento di verità nella tesi di Schmithals, Die Gnosis in Korinth, r 17 ss.
Le lettere di Paolo 217
spondono ad es. Ab. 2,18 7tÉ7tot./J.e:\I ò 7tÀacraç È7tt -d TIÀacrµa aÙ'toiJ 'toiJ
7tOtijcrat e:YòwÀa XW7tcX e Yi 113,12 s. 'tà e:YòwÀa ... è:pya xe:ipw\I rh./J.pw7tW\I
cr'to1.1.a è:xoucrt\I xal où ÀaÀ~croucrt\I. Che vi sia un nesso con I Cor. 10,14?
Il passaggio alla tematica principale del cap. l 2 compare al v. 3 con È\I
'
7t\IE:UiJ.1X'tt ' '
aytq>.

Se anche gli interrogativi dei corinti riguardavano i 7tve:u-


µ.a'tixo( o 7tve:uµ.a'tixa nel culto, la risposta di Paolo si estende
ben oltre l'evento liturgico quando, al v. l 1, stabilisce per così
dire un principio pneumatologico: tutto ciò che accade tramite
voi alla fin fine è operato dall'unico e medesimo Spirito, 'tÒ EV
xaì 'tÒ aÙ'tÒ 7tve:uµ.a. Tale principio, però, implicando tutti i ca-
rismi - linguaggio della sapienza, linguaggio di scienza, fede,
dono di operare guarigioni, profezia, distinzione degli spiriti,
glossolalia, interpretazione della glossolalia -, fa sì che nell' e-
sercitarli si manifesti la realtà della chiesa. Infatti, ciò che
272

accade durante il culto ha efficacia anche al di fuori di esso.


Chi è stato guarito continua ad esserlo anche dopo. La distin-
zione degli spiriti è importante anche nella vita quotidiana.
Quindi, il principio pneumatologico menzionato sopra è insie-
me anche un principio ecclesiologico. L'esistenza della chiesa e
delle sue comunità è essenzialmente esistenza nello Spirito san-
to. La chiesa è l'ambito, o meglio la sfera d'azione, dello Spiri-
to di Dio - ovviamente la chiesa come corpo di Cristo.
Dunque, lo Spirito di Dio come principio di efficacia in Israele: afferma-
zione valida in primo luogo per il re, che in certo qual modo rappresen-
ta Israele davanti a Jahvé. E secondo ls. l l,1 ss., è proprio l'atteso re di
salvezza colui sul quale si poserà lo Spirito di Dio, à\laTCaucre:'tat È7t'aù-
'tÒ\I 7t\le:iJ1.1.a 'tOÙ ./J.e:oiJ. È il 7t\le:u1.1.a croqi[aç xal cru\IÉ:cre:wç (r Cor. l 2,8: òià
'tou 7t\le:u1.1.a'toç ò[òo'tat Àoyoç croqi[aç), il 7t\le:u1.1.a y\lwcre:wç xal e;Ùcre:~e:iaç
(r Cor. l 2,8: Àoyoç y\lwrre:wç [ò[òo'tat] xa'tà 'tÒ aÙ'tÒ 7t\le:uµa). E sarà pro-
prio questo Spirito a rendere giustizia agli umili, ls. l 1,4: xpt\le:~ 'ta7te:t\IC}>
xpicrt \I xal ÈÀÉy!;e:i 'toÙç 'tc.t7tEt \IOÙç 'tijç yijç. In tale contesto si faccia il
confronto con 1 Cor. l,26 ss.
Insieme alla tematica del re viene affrontata anche quella riguardante
l'elemento carismatico. Saul è stato il condottiero carismatico sul quale
272. L'fo'l"E di r Cor. 12,27 è rivolto alla comunità di Corinto. Ma l'affermazione
up.Eiç ÒÉ Ècr'\"E crw1J.a Xptcr'\"OU, stando alla sua intima intenzionalità teologica, va oltre
la cerchia ristretta dei destinatari. In questo modo, però, alla fine il corpo di Cristo
viene equiparato alla realtà globale della chiesa.
218 La teologia di Paolo
lo Spirito discese per affidargli la funzione regale, I Sam. rr,6. Secondo
I Sam. 10,6.10-12, lo Spirito investì Saul portandolo addirittura all'estasi
(per i LXX, tuttavia, 7tpoipYJ'tEucmc;, v. 6).
Ma lo Spirito non viene elargito solamente al re. In epoca esilica e
postesilica esso viene concesso a tutto il popolo di Dio. Già in I Tess.
4,8 avevamo incontrato Ez. 36,27. Se anche Paolo non cita questo passo
in I Cor. l 2, tuttavia ne fa teologicamente proprio il contenuto. Chie-
dersi se nel òlòo'ta.i di I Cor. l 2,8 risuoni l'espressione xal 'tÒ 7t\/Eup.cl:
p.ou òwcrw Év up.iv di Ezechiele può anche essere una speculazione, in
ogni caso Paolo conosce Ez. 36 e 37 e applica alla comunità cristiana
l'immagine pneumatologica ivi espressa. A favore di tale interpretazione
vi è anche il fatto che non molto tempo dopo, in 2 Cor. 3,3, l'apostolo
allude a Ez. 36,26.

Ora, dal punto di vista metodologico sarebbe errato voler


sommare insieme i singoli elementi pneumatologici di l Sam.
ro e r r, di ls. l l e di Ez. 36, componendo così, come in un
mosaico, il quadro teologico di l Cor. 12. Al contrario, Paolo
ha fatto confluire le une nelle altre le concezioni veterotesta-
mentarie. Concretamente la pensava così: la comunità mes-
sianica è «nel» messia, «nel» Cristo, il cui Spirito non è soltan-
to lo Spirito di Dio ma anche il suo Spirito. Perciò, colui di cui
si può dire che è-in-Cristo, è anche «nello» Spirito. E poiché
lo Spirito, stando a quanto afferma l'Antico Testamento, è Spi-
rito creatore (ad es. Giob. 33,4), per mezzo suo egli diventa
nova creatura (Gal. 6,15; 2 Cor. 5,17). Dove vi è la chiesa, do-
ve essa è in maniera rappresentativa nella singola comunità, là
è lo Spirito, poiché là esso opera. E dove il vangelo viene an-
nunciato, là agisce ànche lo Spirito (ls. 61,1). La pneumatolo-
gia paolina è dunque pneumatologia dell'Antico Testamento,
enfatizzata in senso cristologico. E al contempo ne è anche ec-
clesiologia. Pneumatologia ed ecclesiologia, infatti, possono sì
essere distinte dal punto di vista concettuale, ma il loro «og-
getto» è un'unica e medesima realtà.
Questo emerge anche dal passo di l Cor. 12,12 s., a tutt'og-
gi controverso. In esso però non solo pneumatologia ed eccle-
siologia coincidono; anche il fondamento di entrambe, ossia la
cristologia, viene chiaramente evidenziato. L'immagine ben
nota nell'antichità del corpo e delle membra e la relativa con-
Le lettere dì Paolo 219

cezione di organismo, 273 nell'argomentazione di Paolo servo-


no solamente per essere applicate all'idea di identità tra il cor-
po di Cristo come comunità e Cristo stesso. Se 1 Cor. l 2, l 2c
o\hwç xal o Xpicr'toç sconvolge il contenuto da fissare anche
sociologicamente, in quanto proprio con queste parole il cor-
po con le sue molte membra viene equiparato direttamente a
Cristo, allora in questo modo, come deduce Udo Schnelle, di-
venta «chiara la struttura fondamentale di I Cor. 12,12-3 l, che
consiste nell'intreccio tra linguaggio per immagini e linguag-
gio vero e proprio».2 74 Riemerge anche qui la molteplicità di
strati del concetto «corpo di Cristo». Il fatto che noi, in quan-
to comunità o meglio chiesa, siamo il corpo di Cristo ha fon-
damento nel dato soteriologico del sacrificio del corpo di Cri-
sto sulla croce. Lo dimostra il v. 13, ove il battesimo, che Pao-
lo vede legato alla giustificazione, 275 viene definito l'atto attra-
verso il quale siamo battezzati nell'unico corpo di Cristo, dun-
que in Cristo. Il pensiero di tipo spaziale già incontrato 276
nelle dichiarazioni di Paolo a proposito della cena del Signore
- anche qui vi era coincidenza tra dimensione soteriologica ed
ecclesiologica - si ripresenta in contesto sacramentale: median-
te il battesimo abbiamo collocazione in colui che ha dato se
stesso, ossia il suo soma, per noi sulla croce. L'evento soterio-
logico presuppone che ora noi siamo corpo di Cristo, e quindi
che ci troviamo in Cristo, nel suo corpo: siamo «in» ciò che,

273. Livio, Ab urbe condita 2,32 s.: apologo di Menenio Agrippa.


274. Schnelle, Gerechtìgkeit und Christusgegenwart, 139 (corsivo mio). Riguardo a I
Cor. 12,13, v. soprattutto op. cit., 139 ss. Non risulta convincente Wolff, ThHK, 107
ss., che interpreta il v. 12 partendo dall'azione del pneuma nel v. l l: per lui bisogne-
rebbe parafrasare «così è anche dove Cristo agisce in modo salvifico mediante lo Spi-
rito», op. cit., 108. Anche ciò che afferma tanto chiaramente il v. 27, «voi però siete il
corpo di Cristo», viene attenuato, op. cit., l 10: «In quanto comunità, voi siete un or-
ganismo che deve la propria esistenza all'azione salvifica del Cristo per mezzo del
pneuma ... ». Già Ernst Kasemann, Leib und Leib Christi, l 59, aveva visto chiaramente
che l'idea vera e propria di I Cor. 12,12 ss. riguarda la chiesa come corpo di Cristo,
mentre l'idea di organismo sarebbe solo ausiliaria. Cfr. Conzelmann, I Kor, 257 s.
275. Schnelle, Gerechtigkeit und Christusgegenwart, passim.
276. In questo contesto Schnelle, op. cit., 144, parla appropriatamente del «nuovo es-
sere costituito nel battesimo nello spazio del Cristo pneumatico» (corsivo mio). Ana-
logamente anche Conzelmann, I Kor, 258 n. 13.
220 La teologia di Paolo

in quanto evento salvifico in Cristo, ci definisce fondamental-


mente. Solamente questo contesto teologico rende plausibile
la duplice dichiarazione, incoerente da un punto di vista logi-
co, per cui noi siamo corpo di Cristo e ci troviamo in lui. Ap-
punto in un contesto di questo genere è importante il pensiero
personale: I Cor. l 2, l 2 s. fa sì che l'evento personale Cristo, e
il nostro essere accolti dentro tale evento, non diventino un'as-
serzione priva di senso. Nel contesto di quanto espone in 12,
l-l l (soprattutto al v. II: Ève:pye:i'), Paolo dichiara che tale e-
vento è opera dello Spirito - nell'espressione Èv évl 7tve:u1J.a'n,
l'Èv è «strumentale» 277 - : tutti i carismi sono opera dell'unico
Spirito. In virtù di quest'unico Spirito noi siamo l'unico corpo
di Cristo. Ma lo Spirito è lo Spirito di Cristo, e poco dopo
Paolo lo ripeterà ancora più chiaramente quando, in 2 Cor.
3,17, affermerà addirittura che il Signore è lo Spirito.
Che lo «spazio» salvifico sia lo spazio in cui Dio opera la
salvezza, e dunque che la dimensione locale e quella energetica
vadano viste come unica realtà, lo dimostra nuovamente il v.
13, su cui si basa il v. 12. Mediante l'azione del corpo di Dio
avviene che noi siamo battezzati «dentro», «nell'»unico Spiri-
to, dunque in Cristo. In base alle strutture di pensiero della
teologia paolina presentate, l'dç può essere inteso in senso so-
lo locale.
Se invece, con Franz Mussner, si volesse intendere dç ì:'.v crwp.a come
espressione del momento in cui il «corpo» comunità comincia ad esiste-
re grazie al ricevimento del pneuma nel battesimo, se dunque il corpo di
Cristo fosse «il prodotto dell'unione a Cristo dei credenti, attuata nel
sacramento battesimale»,2 78 allora l'espressione 6 Xptcr'toç non sarebbe
presa veramente sul serio. E inoltre, il pensiero teologico di Paolo in
concezioni riguardanti lo spazio e la spazialità, pensiero altrove eviden-
te, qui verrebbe trascurato. A ciò si aggiunga che Mussner include la teo-
277. Strumentale tra virgolette, perché lo Spirito di Dio, a volerlo intendere come
strumento in senso stretto, costituirebbe una reificazione inadeguata di Dio.
278. Mussner, Christus, das Alt und die Kirche, 133 s.; v. anche op. cit., 127: «Dunque
nulla impone di prendere la preposizione Elç in senso locale. È anzi consigliabile in-
tenderla in senso finale oppure consecutivo: il battesimo ha come risultato una comu-
nione che può essere definita 'corpo', in analogia all'antica idea di organismo ... ». Muss-
ner si oppone in special modo all'interpretazione ecclesiologica che Bultmann dà del
passo.
Le lettere di Paolo 221
logia paolina nel concetto di mistica di Cristo, scorgendo così un nesso
tra ecclesiologia del soma e mistica di Cristo. 279 Nell'intento che egli per-
segue c'è di vero che, secondo la concezione paolina - così come la
espone soprattutto partendo dall'interpretazione di 1 Cor. lo,16-22 -, la
partecipazione, xotvwvia, non è identificazione tra colui che partecipa al
culto e Cristo. 280
Di fatto, il credente non va assolutamente identificato con
Cristo, magari in senso fisico. Tuttavia, occorre fare una di-
stinzione tra questa identità e la concezione che in Gal. trova
espressa la sua premessa ideale e a cui è propria una dimensio-
ne essenzialmente ecclesiologica: tutti noi siamo uno in Cri-
sto; perciò abbiamo tutti parte alla sua eredità, Gal. 3. Con il
suo dç inteso in senso locale, I Cor. I 2, r 3 fa pendant con Gal.
3,28: mxne:ç yà.p uµ.dç dç Ècr'tE Èv XpLcr'ttj) 'I ricrou. I Cor. I2,
r 3 dice dove va il credente in virtù dello Spirito di Dio nel bat-
tesimo, Gal. 3,28 invece precisa dove si trova il battezzato. 281
Con questo accenno al rapporto tra I Cor. 12,13 e Gal. 3,28 viene con-
temporaneamente presentata anche la relazione tra le due concezioni
teologiche, o meglio cristologiche e a un tempo ecclesiologiche, del
«corpo di Cristo» e dell' «essere in Cristo». Schnelle, pur riconducendo
la stretta connessione che lega questi due concetti alla concezione di spa-
zio che è alla base di entrambi, si esprime però sfavorevolmente se si
tratta di farne un parallelo. 282 Tra gli altri motivi riporta il fatto che pro-
babilmente, mentre scriveva I Tess., Paolo ancora non aveva elaborato
l'idea del crwµa Xpicr-rou, mentre l't:v Xpicr-rtj:> era stato da sempre e in mo-
do continuativo parte della teologia paolina. 283 Viene così precisato un
fatto biografico piuttosto importante, anche se tale argomento richiede
di essere ulteriormente ampliato. Non soltanto il Paolo di I Tess., ma
anche quello di Gal. non conosceva ancora l'idea del corpo di Cristo. In

279. Op. cit., l3I.


280. Op. cit., 122: dalla «partecipazione» al corpo e al sangue eucaristico di Cristo,
che secondo 1 Cor. lo,16b darebbe luogo alla comunione reale con il Cristo vivente e
pneumatico, non sarebbe possibile trarre la conclusione «che la 'partecipazione' al
corpo eucaristico di Cristo comporterebbe una 'equiparazione mistica' tra il parteci-
pante e il corpo di Cristo 'reale e individuale'. Anche quanti prendono parte ai pasti
cultuali demoniaci non si identificano con i demoni».
28r. Anche secondo Mussner, Christus, das Alt und die Kirche, 127, I Cor. 12,12 s.
non fa che ribadire Gal. 3,28 - certo con il presupposto che il corpo di Cristo sia
«prodotto del battesimo».
282. Schnelle, Gerechtigkeit und Christusgegenwart, 143· 283. Op. cit., 143·
222 La teologia di Paolo

Gal. 3,26-29 egli espone con ordine ciò che successivamente, nella /
Cor. e in Rom., esprimerà con tale immagine.2 84 Tuttavia, parallelamen-
te a questo fatto singolare lo sviluppo terminologico della teologia di Pao-
lo emerge anche dalla circostanza che in Rom. egli spiega la sua teologia
della giustificazione con l'espressione Òncawcruv'Y] .fJEou, di cui in Gal.
ancora non dispone. Sarà ben difficile riuscire a scoprire da dove Paolo
tragga l'idea del corpo di Cristo nella stesura di I Cor. Tuttavia, dopo
aver accolto tale idea nella sua concettualità teologica, egli la inserì nel
concetto dell'essere-in-Cristo, per lui di importanza nodale, come di-
mostra il fatto che per lui l'essere del singolo credente nel corpo di Cri-
sto, e il suo essere in Cristo, sono importanti in quanto unica e medesi-
ma realtà spirituale. Ancora una volta si evidenzia che per Paolo conce-
zioni e concetti - termini che spesso confluiscono spontaneamente l'uno
nell'altro - non sono entità puramente intellettuali, immaginabili e pen-
sabili, di cui disporre intellettualmente nell'immaginazione e nel pensie-
ro; sono piuttosto espressione astratta e immaginativa della realtà trascen-
dente che condiziona totalmente l'esistenza di fede dell'apostolo. Entram-
be le concezioni, o concetti, sono espressione della riflessione paolina
sulla sua esistenza di fede. Quando egli argomenta in modo astratto sul-
la base di tale riflessione, contemporaneamente si esprime partendo an-
che dalla propria esistenza di fede.
La tematica del culto viene ulteriormente sviluppata nel cap. 14. Pri-
ma però, in r Cor. IJ, si ha l'aggiunta dell'inno all'amore: non un'argo-
mentazione teologica, ma piuttosto un testo poetico, certo con intenti
parenetici.2 85 Non vi si riscontra un riferimento immediato ali' Antico
Testamento, benché rientri nella tradizione veterotestamentaria.
Scopo dell'inno all'amore è chiarire che, se l'amore vuole
essere vero e puro, deve essere smisurato e volto al bene del
prossimo. Che non debba ricercare il proprio interesse, v. 5, in
un certo senso riassume il tutto. Non è un atto isolato, ancor-
ché improntato al sacrificio (v. 3), a rendere la sostanza del-
l'amore, bensì l'intenzione intima e altruista: allontanarsi dal-
l'io per andare verso il tu. Con ciò si intende qualcosa di più
rispetto al comandamento dell'amore dell'Antico Testamento.
284. Argomento ulteriore a favore della priorità cronologica di Gal. rispetto alla cor-
rispondenza con Corinto; v. n. 236.
28 5. Ai fini della nostra tematica è irrilevante discutere se / Cor. 13 si trovi o meno
nella posizione originaria all'interno della lettera. Riguardo a tale questione v. i com-
mentari e la bibliografia ivi riportata. A mio modesto parere, l'inno si trova nella sua
collocazione originaria; della medesima opinione è anche Wolff, ThHK, 118. In ac-
cordo con Conzelmann, KEK, 266, va comunque interpretato a parte.
Le lettere di Paolo 223

Il comandamento dell'amore di Lev. 19,18, tuttavia, citato di


frequente anche nel Nuovo Testamento - anche Paolo l'ha ci-
tato in Gal. 5,14, prima ancora di scrivere I Cor., e lo citerà
nuovamente anche in Rom. 13,9 -, non esige affatto un amore
smisurato. La misura la dà il proprio io: «Amerai il prossimo
tuo come te stesso (kam8ka, LXX: wc; crEau'tov)».2 86 Nel senso
di questo comandamento dell'amore per il prossimo va inclu-
so, stando a Lev. 19,33 s. e Deut. 10,18 s., anche lo straniero,
ger,2 87 richiesta che viene ricondotta all'amore di Dio nei con-
fronti degli stranieri, di cui facevano parte anche gli israeliti in
Egitto: Dio ama - dunque anche voi dovete amare. È signifi-
cativo che a Lev. l 9, l 8 segua l'espressione che caratterizza la
legge di santità, «(poiché) io sono Jahvé, 'ani jhwh». Il coman-
damento dell'amore, dunque, non include lo straniero che non
risieda in Israele.
Ora, se anche l'amore che viene richiesto per il prossimo e
lo straniero è un amore «misurato», tuttavia non si tratta di un
atteggiamento puramente esteriore. Se con Viktor Warnach si
può anche affermare che l'amore per i propri connazionali non
nasce tanto da una disponibilità ideale a sacrificarsi per il pros-
simo quanto piuttosto da una naturale coscienza solidale che
segue il principio del do ut des,2 88 mentre con Gerhard Wallis
si può convenire che non venga richiesta nessuna rinuncia, nes-
sun genere di altruismo, tuttavia, sempre con Wallis, si può di-
re che ad essere richiesto è un atteggiamento per cui lo stato di

286. L'interpretazione, oggi citata piuttosto di frequente, di parte ebraica (ad es. Leo
Baeck, Das Wesen des judentums, 211 [tr. it. 178]), «Ama il tuo prossimo, egli è come
te», a mio parere è piuttosto discutibile. Si era pronunciato a sfavore già Johannes
Fichtner, Der Begriff des «Ndchsten» im A. T., 104: questa traduzione non è tanto
probabile nell'ebraico biblico, quanto nel linguaggio conciso della Mishna. «Ritenia-
mo adeguata la traduzione 'come te stesso', e vi scorgiamo un'appropriata parafrasi
della misura dell'amore che un membro dell'alleanza deve provare per l'altro». Anche
Fichtner, dunque, parla di misura. V. anche Mathys, Liebe deinen Nachsten, 19.
287. Lo straniero (a volte tradotto con forestiero), ger, è colui che si è stabilito per un
certo periodo di tempo nella terra di Israele; egli non gode di tutti i diritti di un israe-
lita, però deve attenersi in certa misura alle sue stesse prescrizioni religiose. Nel corso
dei secoli, stando ai testi giuridici dell'Antico Testamento, la sua posizione viene
sempre più equiparata a quella di un israelita. V. Martin-Achard, THAT I, 410 ss.;
Mathys, Liebe deinen Ndchsten, 11-5 5. 288. Warnach, Agape, 61.
224 La teologia di Paolo

benessere del prossimo corrisponda alla propria volontà di


affermazione. 289 Ma parlando di àya7tYj, in 1 Cor. 13 Paolo va
ben oltre quanto afferma l'Antico Testamento. 29 ° Ciò che esi-
ge l'Antico Testamento, in certi punti va sicuramente in dire-
zione di ciò che per Paolo è il massimo carisma operato dallo
Spirito, 1 Cor. 12,3 I. Tuttavia non riesce certo a raggiungere
ciò che in 1 Cor. l 3 viene presentata come possibilità aperta al
carisma dell'amore. Per quanto riguarda l'orientamento dell' ar-
gomentazione di Paolo in 1 Cor. 12-14, Wolfgang Schrage fa
giustamente osservare che per il cap. l 3 anche la sottolineatura
data alla «lingua degli angeli» (v. l) nel culto non può essere
spiegata semplicemente a partire da un dualismo crw(J-a-7t\1Eu-
fl-a, ma che l'alta considerazione attribuita alla glossolalia co-
me caratteristica dei 7t\IEUfl-a't'~x.a documenterebbe da una par-
te l'individualismo salvifico, dimentico dell'agape, e dall'altra
anche la tendenza ad ignorare il «carattere frammentario» di
tutti i carismi (13,9-13). 291
Da un lato, tuttavia, colpisce che Paolo non riprenda una
concezione veterotestamentaria della relazione tra amore e Dio.
Già in Deut. lo, l 8 s. l'amore umano era visto come risposta
all'amore di Dio. E in particolare in Os. l l l'amore di Dio per
il suo popolo viene illustrato in modo addirittura drammatico
quando, come ben fa rilevare Jorg Jeremias, si fa sentire il di-
sperato lamento di Dio e Jahvé esprime addirittura la sua inca-
pacità(!) a rigettare Israele. Queste parole segnano l'apice teo-
logico dell'annuncio di Osea. 292 È possibile che Deut. 6, 5, con
il comando di amare Dio con tutte le proprie forze, sia la con-
seguenza tratta da Os. l l. Ad ogni modo Paolo in Rom. trac-
cerà sotto il segno cristologico la sequenza «carità divina - at-
teggiamento umano», Rom. l 5,1-3.7-9.
I Cor. I 4 va interpretato come continuazione immediata del cap. r 2.
Quanto là si affermava a proposito dei carismi donati dallo Spirito, qui
viene ora illustrato diffusamente con l'esempio della glossolalia. Per co-
me procede l'argomentazione di Paolo basti ricordare alcune intuizioni
289. Wallis, ThWAT 1, 120(GLAT1, 237 s.).
290. Lo stesso vale anche per Prov. 17,17. 291. W. Schrage, EKK vn/1, 57.
292.]. Jeremias, ATD 24, l, 14 3. V. anche voi. 1, l 55 ss.
Le lettere di Paolo

di Dietrich-Alex Koch. Questi fa giustamente osservare che in I Cor. 14


Paolo, citando ls. 28, r r s., al v. 20 introduce la seconda parte del capito-
lo, ossia l' «effetto esteriore», mentre in precedenza aveva discusso l' «ef-
fetto interiore». 293 Il testo della citazione riportato da Paolo non con-
corda né con il T.M. né con i LXX. 294 Così come è presentata, la cita-
zione potrebbe aver subìto una rielaborazione da parte di Paolo stesso
per i suoi intenti: nel servizio liturgico l'intelligenza, il vouc;, ha una sua
funzione irrinunciabile. La prima parte del capitolo, quella riguardante
l'effetto interiore, si chiude con una constatazione significativa da parte
dell'apostolo: benché possegga il dono delle lingue, preferisce pronun-
ciare cinque parole con la sua intelligenza, "rcj> vot, che diecimila con la
glossolalia, e questo per istruire gli altri. Certo questo xaTYJX.Eiv come
istruzione catechetica non andrà eccessivamente distinto dall'annun-
cio.295 Al tempo della missione paolina le due cose saranno state stretta-
mente connesse. L'elemento missionario emerge nella seconda parte del
capitolo. Veramente, anche a partire dal v. 20 si tratta ancora di «effetto
interiore», ossia di edificazione della comunità, olxoòotJ.~, v. 26 (come al
v. 12). Ma nei vv. 23 ss. si parla dell'lòtWTY]c;, del laico (Conzelmann,
Wolff), e dell'amcr"roc;, del non credente, la cui colpevolezza è dimostra-
ta dalla profezia intelligibile e del quale viene resa manifesta la natura
peccaminosa, ÈÀf:'(X.E"rat. E se in questo modo sono manifestati '!à xpu7t-
'!à "r'i)c; xapòlac; aÙ'!ou, egli si converte. Quando Paolo formula questo
pensiero con le parole xal o(hwc; TCEcrwv ÈTCL 7tpocrw7tov 7tpocrxuv~crEL "rcj>
o
.SEcj>, à.TCayyÉÀÀwv O"rL OV'!Wc; .SEÒc; èv uµiv Ècr'!LV, probabilmente allude
a Dan. 2,47; ls. 45,14 oppure a Zacc. 8,23. 296 I Cor. 14, dunque, si collo-
ca pienamente al servizio dell'intento kerygmatico dell'apostolo. Ecco
dunque riaffacciarsi la òuvaµtc; -Srnu, che secondo il cap. r è già caratteri-
stica della parola di annuncio. Nel parlare profetico, che proprio perché
è reso possibile dallo Spirito è comprensibile, si manifesta la potenza di
Dio: gli uomini si convertono a lui. Ma allora forse non occorre più ri-
cercare con tanto scetticismo i motivi che hanno indotto Paolo ad inse-
rire la Scrittura nella sua argomentazione di I Cor. 14,2r.

293. Koch, Die Schrift als Zeuge, 268.


294. V. in op. cit., 63 ss., l'esatta analisi di T.M., LXX e Paolo.
295. xa-.1])'..Eiv è impiegato da Paolo solo a proposito dell'istruzione «dogmatica»
(Rom. 2,18; Gal. 6,6), Conzelmann, KEK, 292.
296. Wolff, I Kor, 137: «Così si compie la conversione escatologica dei pagani attesa
dai profeti veterotestamentari (ls. 45,14; Zacc. 8,23)».
ICor. I 5: Il finale escatologico.
Esistenza escatologica come esistenza corporea

Se si tralascia per un momento il cap. r6, I Cor. 15 costitui-


sce l'epilogo logico della lettera, il suo finale escatologico. 297 Il
cammino contenutistico di questo capitolo va dalla professio-
ne di fede del venerdì santo a quella pasquale per finire all' e-
vento del giorno del giudizio - e questo in modo tale da ren-
dere trasparente il collegamento teologico tra quanto accadrà
alla fine e la morte e risurrezione di Cristo. Ciò che vi è da di-
re in termini soteriologici, antropologici e - soprattutto - teo-
logici a proposito di quello che attende la comunità cristiana
alla fine dei tempi è fondato nell'evento del Cristo. In partico-
lare per 1 Cor., alla comunità cristiana si adatta il noto titolo
della rivista «Zwischen den Zeiten» [tra i tempi]. Anche per 1
Cor. r 5 vi è il problema del tempo come temporalità dell'uo-
mo, qui inteso come temporalità dell'esistenza cristiana.
Certamente fu un'esagerazione da parte di Karl Barth ritenere 1 Cor. r 5
la chiave di tutta la lettera. 298 Tuttavia, individuando in questo capitolo
uno dei punti cruciali della riflessione teologica dell'apostolo egli ha di-
mostrato di avere buon fiuto per ciò che è teologicamente sostanziale. Le
dichiarazioni di contenuto di I Cor. r 5 di fatto coincidono con quanto
affermato in precedenza. Che l'esistenza cristiana debba essere orientata
all'eschaton era elemento essenziale, più volte ripetuto, dell'argomenta-
zione teologica. La raccomandazione di non sposarsi era dettata dalle tri-
bolazioni escatologiche imminenti: il tempo si è fatto breve, si è ristret-
to, 7,29; la scena di questo mondo passa, 7'3 r. Alla «teologia» della pro-
stituzione all'interno della comunità di Corinto, Paolo oppone la risur-
rezione di Cristo e quella dei corinti, 6, 14. Si tratta di una risurrezione
somatica, che sarà trattata a fondo appunto nel cap. r 5. L'affinità tra l'ar-
gomentazione teologica in 6, r 2 ss. e nel cap. 15 si evidenzia se si ricer-
cano nella lettera le strutture fondamentali dell'argomentazione paolina.
Un'ulteriore considerazione nasce se si analizza 1 Cor. r 5 sotto la pro-
297. Riguardo allo sfondo storico-religioso di 1 Cor. v. soprattutto Brandenburger,
Adam und Christus; riguardo a 1 Cor. r 5,!2-28 sotto la prospettiva della cosiddetta
condizione intermedia cfr. Hoffmann, Die Toten in Christus, 239 ss.
298. Barth, Die Auferstehung der Toten; v. poi la recensione positiva di Rudolf Bult-
mann, Karl Barth, «Die Auferstehung der Toten», ad es. p. 39 (tr. it. 50): «Se Paolo
riuscì davvero a tener ben salde quella fede e quella speranza, tutto quello che egli di-
ce dell'uomo va posto sotto il titolo di 'resurrezione dei morti'».
Le lettere di Paolo 227

spettiva del Vetus Testamentum in Novo: se il credo citato ai vv. 3 s. è il


fondamento teologico delle riflessioni teologiche del capitolo, allora a ta-
le correlazione corrisponde il fatto che Paolo, nel credo, ricorra al som-
mario xa-rà -ràc; yparpac; sia per la morte sia per la risurrezione di Cristo,
e che poi, parlando degli eventi escatologici con relativa riflessione teo-
logica, citi ripetutamente la Scrittura. Tale correlazione non dovrebbe
essere sottovalutata, anche tenendo conto del fatto che il duplice xa-rà
-ràc; ypacpac; indubbiamente ha presente (anche?) passi della Scrittura di-
versi dalle citazioni riportate in seguito.
Riguardo alla struttura dell'argomentazione paolina, c'è anche un al-
tro aspetto da considerare. In Gal. Paolo, presentando narratio (inclusa
la propositio) e argumentatio in un 'unica direzione d'intenti, ha sottoli-
neato per la sua teologia il proprio accordo con Gerusalemme. Lo stes-
so avviene ora per I Cor. r 5. Paolo mostra dapprima che sia lui sia i ge-
rosolimitani hanno un medesimo credo, per poi presentare in modo ar-
g.oment~tivo, sullo sfondo di questa concordanza, la sua teologia della
nsurrez10ne.
Per quanto riguarda il contenuto: con il duplice xa-rà -ràc; ypacpac; si
intende il rimando alla Scrittura in genere, oppure a specifici passi? Le
due alternative non debbono per forza escludersi a vicenda. Se, in base a
quanto esposto a proposito di Gal. 1,4, nell'chtWave:v u7tÈ:p -rwv àµap-
-r~wv ~µwv del v. 3 si vuole comunque vedere un riferimento a Is. 53, al-
lora questo capitolo, nella formula «secondo le Scritture» (plurale), può
essere considerato uno dei tanti passi, ancorché prioritari, all'interno del
complesso della Scrittura. Infatti, per la chiesa nascente tutta la Scrittura
rimanda a Cristo. Se nell'ly~ye:p-rm Tfl ~µe'.pq: Tfl -rpi-rn del v. 4 si volesse
individuare un passo preciso, il compito risulterebbe più arduo rispetto
al v. 3. È ovvio che in un eventuale ballottaggio entrerebbe in gioco Os.
6,2 - LXX: Év -rn ~p.e'.pq: -rn -rpi-rn àvacrnicroµe:-Da xai ~Yicrop.e:-Da Évwmov
aù-rou -, e di fatto tale passo viene preso in considerazione per lo più in
tal senso. Certo, il collegamento interno tra Is. 53 e il v. 3 dovrebbe es-
sere più stretto rispetto a quello tra Os. 6,2 e il v. 4. Is. 53 propone pur
sempre l'idea dell'espiazione vicaria del giusto, del servo di Dio eletto, a
favore dci peccatori, mentre Os. 6,2 - un versetto che dev'essere strap-
pato a forza dal suo contesto per poter fungere da prova scritturistica
per la risurrezione di Cristo -, stando al suo senso letterale, riguarda la
dubbia certezza che il popolo nutre nel fatto che Dio lo salverà ancora
una volta da una situazione di nccessità.2 99 Se anche Paolo, o la comuni-
tà primitiva, aveva sott'occhio Os. 6,2, tuttavia concretamente bisogna
pensare piuttosto a quei salmi in cui l'orante, avendo esperito una mi-
299. Jorg Jeremias, ATD, 84, probabilmente a ragione si oppone alla caratterizzazio-
ne, intrapresa «erroneamente nella ricerca più recente», di Os. 6,1-3 come «inno peni-
tenziale». Dal punto di vista formale si tratterebbe di un'autoesortazione, completa
di motivo e scopo.
228 La teologia di Paolo

naccia mortale come una morte già avvenuta, ringrazia Jahvé per averlo
salvato da un pericolo paragonabile alla morte. 300
In l Cor. 15,12-19, una pericope dal carattere di premessa, Paolo non
porta alcuna motivazione tratta dall'Antico Testamento. Colpisce che
l'argomentazione si svolga al condizionale, con un reiterato «se ... allora
... ». Nel breve brano ricorre per ben sei volte e:1 (Oé/yap). Certamente
con il presupposto fondamentale della risurrezione di Cristo (v. 12) il
xa"'Cà "tàç ypacpaç è implicito. Se Cristo è risuscitato secondo le Scrittu-
re, allora la tesi di fondo dei corinti àvacr"tacrtç ve:xpwv oùx Ecr"ttv è erra-
ta. La discussione su questo punto non è ancora approdata a un'interpre-
tazione comunemente accettata, ma se si prende la tesi del v. 3 5 si arriva
a supporre che le questioni ivi espresse, relative all'impossibilità di con-
cepire una risurrezione corporea, intendono fondare l'opinione che non
vi sia alcuna risurrezione corporea dei morti. Partendo dal v. 3 5 si può
dunque parafrasare così: àvacr"tacrtç crwµ.a"ttx~ ve:xpwv oùx Ecr"ttv. Ma al-
lora Paolo intende affermare questo: se Cristo è annunciato come colui
che è risorto fisicamente, come possono certuni dichiarare che non esi-
ste la risurrezione corporea dei morti? Paolo presuppone dunque che i
corinti credano alla risurrezione di Cristo come a una risurrezione cor-
porea, e che perciò quanti mettono in dubbio la risurrezione corporea
dei morti sono stoltamente incoerenti. Certo si dovrà supporre che il
piccolo (?) gruppo (èv ùp.~v "ttve:ç) che sosteneva la falsa dottrina del v.
I 2 considerasse proprio la risurrezione di Cristo una risurrezione non
di tipo corporeo. Sulla base delle concezioni antropologiche di un pre-
ciso gruppo all'interno della comunità di Corinto, concezioni che rie-
mergono di continuo in l Cor., c'è da pensare che nell'enfatizzazione ec-
cessiva della loro esistenza pneumatica e del susseguente disprezzo per
il loro essere somatico, i componenti di tale gruppo intendessero anche la
risurrezione di Gesù come trasferimento in una dimensione di esistenza
puramente pneumatica. I "ttve:ç, dunque, a quanto pare non sono affatto
incoerenti. 301
Paolo potrebbe tranquillamente mettere il v. 29 subito dopo il v. I 2,
senza che vi sia un'interruzione del ragionamento. 302 Sarebbe sensato
300. Ch. Barth, Die Errettung vom Tode.
301. Wolff, ThHK, 195: «Gli interrogativi [del v. 35] mostrano che quanti negano la
risurrezione si scandalizzano all'idea di una risurrezione corporea. Da tale posizione
si evidenzia ancora una volta (v. 2) chiaramente che essi contestano anche la risurre-
zione corporea di Gesù», Ci sarebbe da discutere, ma non è qui il luogo, se questi
pneumatici intendessero la loro esistenza pneumatica attuale come condizione della
risurrezione già avvenuta nel senso di 2 Tim. 2,18, oppure se facessero conto su un'esi-
stenza pneumatica successiva alla morte, dunque sulla continuazione della vita dell'a-
nima dopo la morte fisica, ovviamente nella gloria pneumatica.
302. Ad ogni modo, nella pericope I Cor. 15 ,29-34 figura per ben tre volte l'd già no-
to da 15,12-19.
Le lettere di Paolo 229

anche collocare il duplice interrogativo del v. 3 5 immediatamente dopo


il v. r 9. La scena apocalittica universale, illustrata tanto vividamente da
Paolo in r 5,20-28 e alla quale egli, forse per motivi teologicamente argo-
mentativi, attribuisce un gran peso, deve dunque avere in qualche modo
a che fare con la situazione di Corinto, determinata dal fanatismo dei
suoi pneumatici. La correlazione tra l'argomentazione di r 5, r 2-r 9.29 ss.
e r 5,20-28 dimostra così di essere un problema interpretativo decisivo,
dalle implicazioni storiche.
Quando Paolo illustra gli avvenimenti escatologici serven-
dosi di immagini apocalittiche - e tale apocalittica per lui e-
sprime dimensioni cosmiche - a quanto pare non gli preme
tanto rappresentare una circostanza teologica nella quale al cen-
tro dell'interesse si trovi il singolo individuo. L'autocompren-
sione che può essere ricavata dal materiale qui documentato
relativo a concezioni di tipo apocalittico non è quella del sin-
golo, consapevole del proprio essere pneumatico. A riaffac-
ciarsi è invece l'aspetto ecclesiologico. Che a sua volta - con
una variazione singolare rispetto a quanto esposto sino ad ora
- è fondato su basi cristologiche: Cristo è risuscitato dai morti,
«primizia» 303 di coloro che sono morti, 1 5,20. Il concetto di
corporate personality, il cui sfondo specificamente intellettuale
in Paolo è già stato illustrato in relazione alla sua idea di
«spazio», viene riferito con tipologia antitetica ad Adamo e a
Cristo: come la morte è venuta attraverso un uomo, così attra-
verso un uomo verrà la risurrezione dei morti, v. 21. A questo
ò~ti causale corrisponde al v. 22 un Èv locale, sicuramente con
una certa sfumatura di tipo causale: come tutti muoiono (pre-
sente) in Adamo, così Dio vivificherà (passivum divinum: ~cpo-
7tO~YJ'8~crov't'm) tutti in Cristo. Chi dunque mette in dubbio la
risurrezione dei morti, contesta l'opera escatologica di salvez-
za di Cristo. Si distacca da Cristo come incarnazione della sal-
vezza, scegliendo la morte invece della vita. Nel giorno della
parusia di Gesù, non apparterrà più a Cristo, non farà più
parte degli o[ 't'ou Xp~cr't'ou, v. 23.
Stare dalla parte di Cristo significa però stare dalla parte del
vincitore escatologico, di colui che ha vinto tutte le potenze
303. Così suona la traduzione di uso più comune, anche se linguisticamente non bel-
la, di cì.rrapx.~.
2 30 La teologia di Paolo

cosmiche malvagie. Qui, l'idea centrale della cristologia è che


Cristo, prima di consegnare a Dio potere e dominio alla fine
dei tempi, regni egli stesso (~acrtÀde::tv, v. 25). Il Cristo, dun-
que, non è mera presenza dello Spirito nell'uomo pneumatico.
Appartenere a colui che rappresenta il dominio di Dio sul
mondo: ecco quanto intende esprimere Paolo con o[ -rou Xptcr-
'WU. Qui si chiarisce ciò che intendeva l'espressione incontrata
in precedenza in I Cor., èv Xptcr-rcf> dvat: il cristiano sta dalla
parte del vincitore, vale a dire del Cristo. O meglio: il cristia-
no è «in» lui e partecipa del suo essere-vincitore. La vittoria di
Cristo porta quindi alla vittoria della chiesa - ovviamente la
ecclesia triumphans può essere concepita solo in termini esca-
tologici. In questa ecclesia triumphans, persino la morte sarà
annientata.
La crux interpretum è esattamente quella citazione (o allusione, vedi sot-
to) del v. 25, in cui ricorre <f 109,1 leggermente modificato. 304 Stando al
senso originario di Sa!. 110, si tratta dell'intronizzazione del re di Geru-
salemme ad opera di Jahvé, il quale lo fa sedere alla propria destra ridu-
cendo i suoi nemici a sgabello per i suoi piedi. 305 Il salmo contiene una
antichissima tradizione di Gerusalemme, a sua volta derivata da una tra-
dizione pregiudaica e dunque gebusea (Melchisedek), 306 riguardante l'in-
tronizzazione solenne del re di Gerusalemme. Nelle affermazioni di que-
sto salmo Hans-Joachim Kraus scorge I' «evento della parola di Dio»,
che «conduce verso l'adempimento nel Nuovo Testamento». «Questa
parola di Dio eleva le singole asserzioni, determinate dal punto di vista
storico-religioso e della storia della tradizione, ad annuncio che trascen-
de ampiamente il re di volta in volta intronizzato a Gerusalemme, la sua
funzione e il suo operato». 307 Certo, resta da chiedersi se questo trascen-
dere è insito nel salmo e ne esprime la tensione interna verso l'evento
neotestamentario del Cristo, oppure se a costituire l'elemento arcaico dcl
salmo non sia piuttosto l'affermazione spregiudicata dell'evidente parte-
cipazione del re al potere sovrano di Dio - difficile trovare un'espressio-
ne più forte e concisa di questa. Naturalmente, questo testo liturgico di
intronizzazione con il suo possente linguaggio ricco di formule si presta
all'impiego orale nella cristologia neotestamentaria. E non senza ragione
ritroviamo il Sa!. r ro non soltanto in Paolo, che comunque lo cita sola-
mente qui, ma anche come citazione nei sinottici (Mc. 12,36; Mt. 22,44;
304. Gourgues, A la droite de Dieu, sfiora purtroppo solo di sfuggita r Cor. r 5,2 5 (v.
l'indice s.v.). 305. H.-J. Kraus, BK.AT xv/2, 762.
306. Op. cit., 755. 307. Op. cit., 763.
Le lettere di Paolo 231

Le. 20,42 s.; anche Atti 2,34 s.) nonché in Ebr. 1,3.13. Tuttavia bisogna
essere molto cauti per non rischiare di creare arbitrariamente una conti-
nuità ininterrotta da questo salmo regale alle affermazioni cristologiche
del Nuovo Testamento. Certo, anche il Sai. 2 mostra chiaramente che
già il re della dinastia davidica nell'Antico Testamento poteva essere vi-
sto come potenziale detentore di un potere universale. Ma la fede in
Sian come centro di potere del mondo, fede che stava alla base di questa
concezione, proprio nella theologia potestatis universalis politicae ad es-
sa legata è ben diversa dal potere attribuito al Cristo nel Nuovo Testa-
mento, potere che passa per la croce.
Rispetto a Sai. no, <f 109 non presenta modifiche nel contenuto.
Quindi tutto sta nel vedere con quale tipo di comprensione Paolo ha in-
serito <f 109,1 nella sua argomentazione teologica. La questione deter-
minante riguarda il soggetto di axpt oi'.i .e.n 7tav-taç -roùç ex.e.poùç tmÒ -roùç
7toÒaç aù-rou in I Cor. 15,2p: sarà Dio, oppure Cristo? La maggior par-
te degli esegeti ritiene che si tratti di Cristo, 308 solo pochi optano per
Dio.3°9 A favore della prima ipotesi vi è il fatto che dopo aù-ròv ~acrtÀe:u­
e:tv non è nominato b .e.e:oç come soggetto, per cui l'interpretazione lin-
guisticamente più semplice dovrebbe individuare in Cristo il re che re-
gna e assoggetta tutti i nemici, secondo il piano di salvezza divino (òe:i).
In tal caso, le parole che Paolo riprende dal salmo andrebbero ritenute
più un'allusione a <f 109,1 che non una citazione vera e propria. 310 Ma
se Paolo veramente intende citare, e precisamente <f 109 in quanto salmo
messianico, allora è più probabile che il soggetto sia Dio. Se, nel primo
cristianesimo, il salmo era noto come salmo messianico - cosa di cui si
può essere praticamente certi, anche nelle comunità etnicocristiane fon-
date da Paolo-, allora non risulterebbe affatto necessario menzionare e-
splicitamente il soggetto. In questo caso il senso del v. 2 5 suonerebbe
così: secondo il piano di Dio, Cristo deve essere re, e per questo motivo
Dio gli ha assoggettato i suoi nemici. Questo trova conferma nel v. 28:
quando Dio gli avrà sottomesso ogni cosa - u7to-rayfl come passivum di-
vinum -, allora anche il Figlio si «sottometterà» a colui che gli ha assog-
gettato ogni cosa. 311 L'apice teologico di questa affermazione cristologi-

308. Ad es. Weiss, KEK, 359; Lietzmann, HNT, 8I; Conzelmann, KEK, 334; Lang,
NTD, 226; Wolff, ThHK, I82; Wilcke, Das Problem eines messianischen Zwischen-
reiches bei Paulus, Io!.
309. In particolare Thiising, Gott und Christus I, 240.
3 Io. Nescle-Aland' 6 riporta in corsivo 8fJ i:ouç ix·.9pouç u-r;Ò i:ouç -r;oÒaç, mentre The
Greek New Testament non evidenzia in neretto queste parole. Secondo Koch, Die
Schrift als Zeuge, 244, «in 1 Cor. I 5,25 ... non vi è alcuna citazione di <li 109,1b».
3 I 1. Thiising, Gott und Christus r, 24 I: urrni:&.crcrw1 va qui tradotto con assoggettare,
non con sottomettere. Proprio per questo ho posto il verbo sottomettere tra virgolet-
te. Certo, al V. 28 u-r;oi:ayfJ andrà tradotto diversamente da i'.moi:ay~crE't<Xt e ur.oi:&.l;avi:t.
232 La teologia di Paolo

ca è chiaramente espresso con la frase di tipo finale del v. 28: affinché Dio
sia tutto in tutti.3!2 Ad ogni modo, alla fin fine l'interrogativo riguar-
dante il soggetto del v. 2 5b non può ricevere una risposta certa.
Anche il nemico più implacabile e tutto sommato più potente, la mor-
te, sarà annientato: nel v. 27 Paolo motiva questa asserzione ricorrendo
a lji 8,7. Il ycl.p potrebbe stare ad indicare il ricorso alla Scrittura per la
motivazione, e in questo caso sostituire una formula quotationis qui
inespressa. 313 Ancora più chiaramente che al v. 25, qui il soggetto è cer-
to Dio. 314 Forse, vista la naturalezza con cui Sai. 8 viene interpretato in
senso messianico, insieme a Conzelmann 315 si potrà presumere che tale
interpretazione fosse già familiare a Paolo. Resta da chiedersi se magari
l'interpretazione messianica del salmo non fosse indotta dal v. 5, u[Òç àv-
(l ' 316
vpwnou.

Vi sono alcuni elementi che colpiscono in modo particola-


re: il regno di Cristo che diventerà regno di Dio; l'idea stessa
di regno, tanto dominante in questo cap. 15; il fatto che oltre-
tutto è solo in questa pericope del capitolo che compaiono le
prime citazioni vere e proprie. Non è proprio possibile soste-
nere che 1 5,20-28 costituisce un corpo estraneo all'interno del
capitolo. Anche solo il v. 2oa scoraggia tale ipotesi. Ma se ci si
interroga sul motivo teologico che ha indotto a ricorrere al
grandioso quadro apocalittico e cosmico per la questione ri-
guardante la risurrezione corporea, allora bisognerà supporre
- e non è possibile andare oltre la supposizione - che in que-
sto modo Paolo voleva prevenire in modo argomentativo un
individualismo pneumatico per il quale tutti questi fenomeni
apocalittici in fondo erano irrilevanti. Forse ciò che Paolo in-
tendeva comunicare alla comunità di Corinto, per certi versi
immersa nel caos, era che l'evento salvifico ha certo qualcosa a
che vedere con l'ordine. Dunque esso avviene "t'cfl "t'cX/(J-CX."t'i, pe-
rò non nel caos.
3 l 2. Op. cit., 24 3 ss.
313. Rispetto ai LXX il testo ha subito scarse modifiche: invece di u7toxa'\'w '\'Wv 7to-
0Wv cxÙ'toU compare UitO 'toÙc; 1t60ac; aÙ't'oU.
314. Anche Weiss, KEK, 360, e Lang, NTD, 227, qui sono di tale parere. Per Cristo
come soggetto optano invece sempre Conzelmann, KEK, 336, e Wolff, ThHK, l 83.
3 l 5. Conzelmann, KEK, 335.
316. Così, ad es., Weiss, KEK, 360; Lang, NTD, 227. È invece critico Schade, Apoka-
lyptische Christologie, 3 5.
Le lettere di Paolo 233
Ma anche a partire dall'impostazione teologica di fondo di
Paolo non c'è da meravigliarsi per quello che in r 5,20-28 a
prima vista può forse apparire come un intermezzo. Nel suo
pensiero, l'apostolo ha sempre visto insieme l'evento salvifico
per il singolo individuo (Gal. 2,20) e l'idea di regno. Il suora-
gionamento prende le mosse dal funesto potere universale del
peccato, la cui conseguenza è il terribile dominio universale del-
la morte (Gal. 3,22; successivamente Rom. r,r8-3,20). Il suo
pensiero si dipana partendo dall'unità cosmica dei peccatori in
Adamo e dall'unità cosmica dei redenti in Cristo. La teologia
paolina è un tipo di teologia che si muove su scala cosmica, e
dunque in categorie cosmiche di dominio. E proprio quel do-
minio, ora nascosto, di Cristo nei giustificati, il dominio di
quel Cristo di cui Paolo è òouÀoç, negli avvenimenti apocalitti-
ci sarà un dominio manifesto, universale. Un'idea, però, non è
stata ancora espressa dall'apostolo: il regno di Cristo come con-
trodominio del potere del peccato è regno della giustizia di Dio,
ò~xawcru'J'Y] -Bwu. Quest'idea, o concezione, diventerà il con-
cetto chiave portante di Rom. Paolo non l'ha ancora elaborato
con chiarezza, ma in r Cor. r,30 esso comincia già a delinearsi:
voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è divenuto
per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione. Dun-
que noi ci troviamo in Cristo come nella nostra giustizia; Cri-
sto come kyrios è perciò la nostra giustizia. Con questo, sia in
r Cor. r 5 sia in Rom., la realtà salvifica come «spazio» di sal-
vezza costituisce la nostra spazialità, riconducendoci così nuo-
vamente a quel pensiero che era stato sviluppato in relazione a
I Cor. ro e r r. Allo stesso tempo, però, si evidenzia che que-
sto «spazio» è un ordinato (-rayµ.a) spazio-tempo. Infatti, pro-
prio per l'evento escatologico è costitutiva la prospettiva tem-
porale, lo ribadiscono espressioni come bmò~ o d-ra in r 5,
20-28. Tuttavia non si tratta di un flusso puramente esteriore
in un tempo misurabile. Tutta la tendenza della teologia paoli-
na inserisce l'uomo all'interno del tempo. Spazialità e tempo-
ralità dell'esistenza umana sono quindi sostanziali per il pen-
siero teologico paolino, anche in I Cor. r 5.
Si è già parlato dell'essere in Adamo e in Cristo come dei
234 La teologia di Paolo

due tipi di esistenza dell'uomo; ora c'è da interrogarsi sul rap-


porto tra Gen. 2 e J e l Cor. l 5,2 l s. Stando al «racconto della
creazione» jahvista - ma lo stesso vale anche per la redazione
Sacerdotale di Gen. 1 - quella di Adamo ed Eva non sarebbe
tanto la creazione dei primi uomini, quanto quella dell'umani-
tà. Per dirla con Claus Westermann: «Con ciò si afferma che
l'umanità, ossia ciascun uomo, riceve la propria esistenza da
Dio, né più né meno. L'uomo creato da Dio diventa Adamo
(nome proprio) solo perché abbia inizio la serie delle genera-
zioni (4,1.25; 5,1); l'uomo creato nei racconti della creazione
non è uno dei tanti in una serie determinabile».31 7 L'essere-
Adamo dell'uomo, di conseguenza, è un esistenziale teologico,
ossia un'affermazione di principio relativa a ogni uomo; ma,
per Gen. 3, anche il peccato è un esistenziale teologico. E dun-
que, anche la limitatezza dell'esistenza umana è basata su un
evento primordiale verificatosi tra Dio e l'uomo: la trasgres-
sione del comandamento di Dio e la punizione sono un even-
to primordiale, «colpa e castigo determinano l'uomo in quan-
to tale; non vi è esistenza umana che non vi abbia parte».31 8
Avendo Adamo peccato (come «primo uomo»), Adamo (ossia
ciascun uomo) pecca. Certo, solo in Rom. Paolo giungerà ad
affermare che il peccato è venuto nel mondo a causa di un uni-
co uomo perché(!) tutti hanno peccato (5,12). Ma quando in l
Cor. 15,21 s. spiega che a causa di un unico uomo la morte è
divenuta realtà e tutti muoiono in Adamo, ciò implica il pecca-
to di Adamo e dunque il peccato di tutti. Perciò, quando Pao-
lo dice «in Adamo» rispecchia esattamente l'obiettivo di Gen.
3. La storia delle origini, sia nelle sue parti jahviste sia nella
sua forma finale redazionale, è concrezione evidente del tre-
mendo peccato dell'Adamo collettivo, con tutte le sue terribili
conseguenze. In J, e in genere nel Pentateuco, Gen. 12,1-3 fa
da contrappunto positivo. In questo passo programmatico
(LXX), nel v. 3 ritroviamo l'èv che ci interessa: x.aì ÈveuÀO')'Yj-
-B~cronm Èv croì micrm a! cpuÀaÌ -t-fjç y-fiç. In questo modo, pe-
rò, all'èv 'tcfl 'AM!J- - formulato alla maniera paolina - di Gen.
3 corrisponde come «pendant» positivo in Gen. 12 non tanto
317. Westermann, THAT r, 46. 3 I 8. Op. cit., 48.
Le lettere di Paolo 2 35

un Èv "0 Xptcr't0 quanto un Èv "0 'A~paafJ-. Ma, per Paolo, è


proprio questo «in Abramo» ad essere fondamentalmente e-
quivalente a «in Cristo». Già prima della stesura di I Cor., in
Gal. 3,8, egli citava Gen. I2,J in tal senso. Nell'argomentazio-
ne di Gal. si afferma infatti che o[ Èx 7ttcr'te:wç sono figli di A-
bramo (3,7.29), quindi figli di Dio (4,5 s.). Dunque Abramo è
una figura salvifica, e questo in prospettiva della futura figura
salvifica per eccellenza, ossia di Cristo. Alla sequenza «umani-
tà peccatrice in Adamo - umanità benedetta in Abramo» cor-
risponde perciò in Paolo la sequenza «umanità peccatrice in
Adamo - umanità benedetta in Abramo e in Cristo». In tale
questione, così fondamentale per la teologia biblica, il pensie-
ro teologico di Paolo corrisponde dunque a quello dello Jah-
vista, come si era già evidenziato in Gal. Per questo passo c'è
da prendere atto della coincidenza tra Vetus Testamentum per
se e Vetus Testamentum in Novo receptum.31 9
In I Cor. 15,35 ss., Paolo intende portare ad absurdum gli
interrogativi posti dai corinti (v. 3 5). Sono interrogativi privi
di senso perché posti partendo da un presupposto piuttosto
sciocco, dalla prospettiva del corpo nel!'orizzonte di un'esisten-
za puramente immanente. Ma già in quest'ambito immanen-
te i crwfJ-a'ta sono differenti, I 5,3 7-4 I. E ciò che è vero per esso,
a maggior ragione vale per la differenza tra immanenza e tra-
scendenza. Infatti il risuscitare, Èydpe:tv, è atto divino nella tra-
scendenza. E Paolo per quattro volte contrappone cr7tdpe:'tat a
G - ' ., ()
e:ye:tpe:'tat, I 5,42-44a: e:v cpvop~
' I '
- e:v acpvapcrt~, e:v a'ttfJ-t~ - e:v
I ' ' I '

ò6çri, Èv àcr.{)e:vd~ - Èv òuvap.e:t, crwfJ-a Y,ux.tx6v - crwfJ-a 7tVE:UfJ-a-


'ttx6v. Qui, per l'esistenza somatica oltre questa vita terrena
ricorrono espressioni teologiche già note: ò6ça, 320 òUva[J-ti:;, 321
319. In I Cor. 15,29-34 si ritrova alla lettera Is. 22,13, dove Isaia cita gli abitanti di
Gerusalemme che per impenitenza non intendono seguire il suo messaggio: «Mangia-
mo e beviamo, perché domani saremo morti!». Paolo vede in questa massima una con-
seguenza della negazione della risurrezione. Qui però noi possiamo tranquillamente
tralasciare l 5,29-34 insieme alla menzione del battesimo vicario, privo di senso per
quanti negano la risurrezione.
320. I Cor. 2,7: dç ò6l;cxv -ii1J.wv, 2,8: '"COV xupwv "CYjç ò6l;11ç Ècncxupwcrcxv, lo,3 l: TCctV'"CCX
dç 06l;cxv ·9eou 7totot"CE, l l ,7: à.v~p ... dxwv xcxl ò6l;cx ·9eou Ù7tapx_wv -i) yuv~ òè: 06l;cx à.v-
op6ç Ècr"CtV, l l , l 5: yuv~ ÒÈ: Èà.v XO(J.éf Ool;cx CXÙ"CTI Ècr"CtV.
La teologia di Paolo

ma in particolare crw1J.a (cap. 6) e 7tVEUfJ.a. Ciò che preme a


Paolo è l'identità della persona come crwp.a nell'esserci terreno
e dopo la risurrezione. L'essere umano è fondamentalmente
essere somatico! Concludendo: criteri di tipo immanente non
potranno mai definire ciò che è il corpo che si ha da Dio.
La questione cruciale è ora definire ciò che si intende con crwp.a 7tve:up.a-
'mt6v. Non serve motivare il perché il concetto contrario terreno, il no-
stro crwp.a ~uxixov terreno, non è un crwp.a la cui sostanza sarebbe la ~u­
X~ - intesa nel senso ad es. dell'antropologia platonica come qualità pe-
culiare dell'esserci umano in contrapposizione al crwp.a. Perciò non sarà
neppure lecito interpretare il crwp.a 7tve:u1J.a't'tx6v come corpo la cui «so-
stanza» sarebbe il pneuma. 322
L'aggettivo nve:up.a't'txoç ricorre più volte in 1 Cor. La difficoltà di de-
terminarne adeguatamente il significato sta soprattutto nel fatto che non
è chiaro se nell'interrogativo posto dai corinti in 12,1 7te:pl 't'WV nve:up.a-
't'txwv sia una forma grammaticalmente maschile oppure neutra. Tutta-
via, almeno in 2,15 è evidente che 6 nve:up.a't'txoç è colui che possiede il
vouç Xptcr't'ou, ossia il 7tve:up.a Xptcr't'ou; si tratta dunque dell'uomo mor-
tale che esistendo Èv Xptcr't'tj) esiste al contempo Èv nve:up.a't't. Di conse-
guenza, l'&v.Spw7toç 7tve:up.a't'txoi:; non è l'essere di sostanza pneumatica.

Ma allora, d'accordo con Jacob Kremer si dovrà intendere


crwµa 7tVEU!J.CX't~XO\I come un «corpo spirituale» 323 appartenen-
te all'ambito dello Spirito di Dio e da lui creato. Come l' av-
-8pw7toç 7tvw1w.'t~x6ç è l'uomo che già esiste nell'ambito di po-
tere e di efficacia dello Spirito di Dio senza che il suo corpo
sia sottratto alle leggi terrene, COSÌ il crwµa 7tVEU!J.CX't~XO\I indica
l'esistenza somatica che dal punto di vista escatologico si trova
tanto intensamente immersa nella sfera di efficacia dello Spiri-
to di Dio, che anche il crwµa è sottratto alle condizioni terre-
ne, immanentemente verificabili. A dominare è ancora una vol-
ta il pensiero spaziale, o meglio il pensiero che si muove nel-
l'esistenziale della spazialità. Al tempo stesso, però, si tratta di
J21. Ad es. I Tess. l,5: -i;Ò e:ùayyÉÀtOV -fi1iwv ... Èye:v~·.911 dc; u1iaç ... Èv òuv0:1.m xat Èv
r.ve:u1ia-i;t O:yicp, / Cor. l,18: b Àoyoç yàp b -i;ou cr-i;aupou ... òuvap.tc; ·.9e:ou, l,24: Xptcr-i;Òv
.Stou òUva1itv, 2,5: -ii lttO"'ttç u1iwv ... Èv òuv0:1ie:t ·.9e:ou, 6,14: b ÒÈ ·.9e:òç ... ìi1iaç Èçe:ye:pe:i
òtà TrJc; òuv0:1ie:wç aù-i;ou. V. però anche / Cor. l 5,24.
322. Così a ragione Wolff, ThHK, 199, richiamandosi a K. Deissner, Auferstehungs-
hoffnung und Pneumagedanke, 34; analogamente anche Conzelmann, KEK, 346 s.
323· Kremer, EWNT III, 292 (DENT II, 1024).
Le lettere di Paolo 2 37

un pensiero che, essendo l'elemento tempo costitutivo del pen-


siero apocalittico, è determinato in base all'esistenziale della
temporalità, non certo da quello della storicità.
Anzitutto è singolare la motivazione del v. 44a fornita in 44b. Per il no-
stro modo di pensare, essa è tutt'altro che convincente: se c'è un crw1.1.a
q;ux.txo\I, allora c'è anche un crwµa 7t\le:u1.1.a'nxo\I. Forse Paolo, che ha in
mente il tipo di esistenza somatica dei risorti, intende dire che se il tipo
di esistenza «psichica» è somatico, e l'essere somatico costituisce il tipo
di esistenza specifica dell'uomo, allora è somatico anche il suo tipo di
esistenza ultraterrena, quella pneumatica? Certo è un significato che as-
sai difficilmente si ricava dal testo. O non si dovrebbe piuttosto, stando
alla formulazione paolina, interpretare così: se per l'ambito dell'esisten-
za terrena è costitutivo l'essere somatico, lo stesso vale anche per la sfe-
ra ultraterrena, pneumatica? Forse a questo punto sarebbe meglio am-
mettere apertamente il nostro imbarazzo. 324
Forse, però, la prova scritturistica fornita da Gen. 2,7 - ecco che in
questo contesto Paolo riprende nuovamente il racconto jahvista della
creazione, scomodando ancora Adamo - al v. 4 5 ci fa fare qualche pro-
gresso. La comprensione di quest'argomentazione che ricorre a Gen. 2,
tuttavia, è strettamente legata alla modifica introdotta da Paolo nella
citazione. Egli, infatti, amplia il testo di Gen. 2,7, ÈyÉ\le:'rn 6 a\l.Spw7toç
e:iç q;ux~\I ~wcra\I, proprio in relazione ali' anthropos, facendolo diventare
6 7tpW'tOç a\1'9pw7toç ,AMµ. q;ux~\I ~wcra\I potrebbe costituire il sostrato
biblico di crw1.1.a q;uxtxo\I. Ma proprio perché Cristo in quanto ultimo Ada-
mo non è q;ux~ ~wcra, bensì 7t\le:uµa ~cpo7totou\I - qui risuona già 2 Cor.
3,17 -, e poiché i risorti sono in Cristo come nel pneuma promotore di
vita, essi sono determinati dal Cristo pneumatico fin dentro il loro esse-
re somatico, come è certo lecito parafrasare. Ora, però, è soltanto il tipo
di esistenza terrena ad avere basi bibliche come crwµa q;uxtxo\I, mentre il
nostro modo futuro di esistere come crw1.1.a 7t\le:u1.1.a'ttxo\I, al contrario, si
basa sul kerygma della risurrezione di Cristo. Se, stando a I Cor. 6,14,
Dio ha risuscitato, o risusciterà, 325 rispettivamente e il Signore e noi per
mezzo della sua potenza, che equivale concretamente a dire «mediante
il suo Spirito», allora è proprio l'evento pasquale con la sua dimensione
pneumatica che non riceve qui fondamento biblico (ma v. I Cor. I 5,4). 326
Il duplice tipo di esistenza, terreno-«psichico» e ultraterreno-pneu-
matico, viene illustrato nei versetti successivi, ove sarà messo in grande

324. Imbarazzo che nella ricerca comune è percepibile in modo sufficientemente chia-
ro, ad es. Conzelmann, KEK, 347. 325. V. più avanti Rom. 8,II.
326. Riguardo all'interpretazione gnostica di Gen. 2,7 v. Conzelmann, KEK, 349 ss.;
Sellin, Der Streit um die Auferstehung, 79 ss., un'interpretazione a partire da Filone;
Fischer, Adam und Christus; Brandenburger, Adam und Christus.
La teologia di Paolo

evidenza anche l'elemento del flusso temporale (v. 46: 7tpw'to\I ... E7tffta).
-i;Ò Yiux.txo\I viene spiegato mediante è:x y"ijc; xo·ixoc;, -i;Ò 7t\IE:UfJ.CX'ttxo\I me-
diante è:~ oùpa\lou, v. 47. Quelli però che esistono è:~ oùpa\lou, ossia la cui
esistenza è fondata nel cielo, come Cristo saranno o[ È:7toupa\ltot, v. 48. Il
tutto mira all'idea di immagine del v. 49: come abbiamo portato l'imma-
gine del(l'Adamo) terreno (è:rpopÉcraµe:\I, aoristo), così porteremo anche
l'immagine del(!' Adamo) celeste (rpopfooµe:\I xaì 't~\I e:lxo\la -i;oii È:7toupa-
\ltou). A causa del verbo impiegato, molti esegeti ritengono che qui com-
paia la metafora della veste. 327
È strano che qui Paolo non si rifaccia al testo Sacerdotale di Gen. r,
26 s. Perlomeno, non si ha alcuna citazione formale. Che abbia inten-
zionalmente tralasciato il passo di Gen. r,26 s., collocato in prossimità
del passo jahvista di Gen. 2,7 che pure viene citato nella prova scritturi-
stica all'interno della pericope di I Cor. r 5,42-49, e questo benché pro-
babilmente vi alluda in I Cor. r r,7? L'espressione e:lxw\I in 15,49 non
sarebbe stato pretesto sufficiente? Sebbene con le parole"~" e:lxo\la -i;o•j
È:Trnupa\ltou Paolo si avvicini all'espressione e:lxo\la -Se:o•j di Gen. r,27, nei
commentari e nelle monografie di uso corrente ogni accenno a tale pas-
so viene quasi sempre trascurato. 328 Per il V. 49a, "C~\I e:lxo\la "COU xo'ixoù,
Wolff rimanda a Gen. 5,3: Adamo generò Set xa-i;à 't~\I lUa\I aù-i;où xaì
xa-i;à "~" e:lxo\la aù-i;oii. 329 Se tale rimando dovesse essere appropriato,
allora certamente si potrebbe ipotizzare che alla base del v. 49b vi sia
Gen. r,27. Poiché tale versetto non può essere interpretato in modo im-
manente al testo se non in misura insufficiente, preferiamo rimandare a
successive affermazioni paoline riguardanti l'e:lxw\I.

In r Cor. r5,50-57 figurano nuovamente immagini già no-


te da I Tess. 4,13-18. Ciò che Paolo vi aggiunge di teologico ri-
guarda il mistero del v. 5l: non tutti moriremo, ma tutti sare-
mo trasformati, àÀÀayricr6[J-e:.S.a (v. anche v. 52). Quest'affer-
mazione, tuttavia, in linea di principio equivale a quella secon-
do la quale il nostro essere somatico sarà pneumatico, tanto
più che i vv. 53 s. riprendono nel contenuto il v. 42b. L'idea

327. Ad es. Kasemann, Leib und Leib Christi, 70; secondo Wolff, ThHK, 203 s.,
Paolo unisce due concezioni, quella della veste e quella dell'immagine. Per Conzel-
mann, KEK, 3 55, l'unità delle due concezioni in Paolo è spezzata. Essa stessa non sa-
rebbe più oggetto della conoscenza portatrice di salvezza, ma verrebbe utilizzata per
interpretare l'opera salvifica storica.
328. Costituisce un'eccezione, ad es., W.F. Orr - ].A. Walther, AncB, 344.
329. Wolff, ThHK, 204; v. anche op. cit., 204: «Nella dx.wv si incarna la sostanza».
Tra l'altro rimanda a Brandenburger, Adam und Christus, 139. V. anche Eltester, Ei-
kon im NT, 22 ss.
Le lettere di Paolo 2 39

qui espressa diventa concetto teologico grazie all'espressione


«immortalità», à.S.avacrla. Tale immortalità viene poi trionfal-
mente espressa con la citazione mista di Is. 25,8 e Os. 13,14. 330
La morte viene inghiottita nella vittoria. Concretamente, però,
questo non viene ripreso all'infuori di I Cor. l 5,26. Paolo dun-
que conclude la sua argomentazione teologica con una citazio-
ne scritturistica che non ha tanto una funzione fondante quan-
to piuttosto emotiva. La Scrittura, in fondo, ha il compito di
esprimere entusiasticamente la fede.

d) La seconda lettera ai Corinti


L'integrità di 2 Cor. è controversa. Mentre ad es. Werner Kiimmel la
sostiene motivandola minuziosamente, 1 la maggior parte degli esegeti la
mette in discussione. 2 A mio avviso, vi sono ragioni più che fondate per
ritenere che si tratti di una raccolta di più lettere, la cui ricostruzione
ovviamente è confinata nel campo delle ipotesi. Tra queste, quella che
forse coglie maggiormente nel vero propone la seguente successione cro-
nologica di lettere o frammenti di lettera:
1. apologia dell'apostolato paolino: 2,14-6,13; 7,2-4;
2. uno scritto estremamente polemico («lettera scritta tra molte la-
crime»?): l 0-13 (redatta dopo la cosiddetta visita intermedia di Paolo a
Corinto);
3. lettera di riconciliazione: l ,( 1)3-2,13; 7,5-16 (scritta dopo la visita fe-
licemente riuscita di Tito a Corinto);
4. primo biglietto sulla colletta;
5. secondo biglietto sulla colletta. 3
Un'esposizione teologica nel senso stretto del termine si ha solamen-
te nell'apologia, per quanto anche le restanti lettere contengano afferma-
zioni di rilevanza teologica. Qui verrà trattata solamente l'apologia, e pre-
cisamente le pericopi particolarmente istruttive per il pensiero teologico
di Paolo.

330. Riguardo alla struttura testuale dr. Koch, Die Schrift als Zeuge, 175.
1. Kummel, Einleitung in das NT, 249 ss.
2. Ad es. Vielhauer, Geschichte der urchristliche Literatur, 150 ss.; Marxsen, Einlei-
tung in das Neue Testament, 96 ss.
3. La maggior parte degli esegeti ritiene che 2 Cor. 6,14-7,1 sia un'interpolazione non
paolina. Vi sono fondati motivi per supporne la non autenticità.
2 Cor. 3,1-4,6: L'apostolo e la sua comunità.
Libertà e Spirito
Già nei prolegomeni 4 ci si è soffermati a lungo su 2 Cor. 3. 5 Là si
trattava di esaminare il capitolo dal punto di vista della diatheke antica e
nuova, per poterne ricavare importanti aspetti del sistema di coordinate
all'interno del quale può essere convenientemente costruito un progetto
di teologia biblica. Si era allora evidenziato un singolare intreccio tra con-
tinuità e discontinuità, tra tipologia del superamento e contrapposizione
assoluta. Concetto portante della tipologia del superamento è la ò6~a: la
doxa dell'apostolo è ben più gloriosa di quella di Mosè. Ma il motivo di
questo superamento è la contrapposizione assoluta: Mosè è ministro del-
la condanna e dunque della morte, mentre Paolo è ministro dello Spirito
e della giustizia, dunque della giustificazione. Quando si parla di ÒLaxo-
vla -rYjç ÒLxawcrUYYJç che abbonda di «gloria»,6 ò6~a (v. 9 ), a spostarsi al
centro dell'esposizione teologica è la tematica che domina anche in Gal.
Dunque non si può assolutamente affermare che in 2 Cor. la problema-
tica della giustificazione di Gal. non era ancora così sentita.
Le affermazioni riguardanti le due diatheke in 2 Cor. 3 hanno intento
tematico. Tuttavia, esse sono subordinate alla tematica relativa all'apo-
stolato.7 Paolo parla di diatheke antica e nuova solo perché sta trattan-
do del suo ministero, 8 la sua ÒLaxovla. Al momento di scrivere l'apolo-
gia dell'apostolato era ancora convinto che, attraverso un'esposizione
teologica della sostanza del suo ministero apostolico, avrebbe potuto ri-
mediare alla situazione in cui si trovava la chiesa di Corinto, riportan-
dola sulla retta via.
4. Vol. r, pp. 107 ss.
5. Riguardo a 2 Cor. 2,14-4,6 si veda, oltre alle pubblicazioni citate nel seguito, anche
Lambrecht, Bib. 64, 344 ss.
6. òOl;cx come espressione della manifestazione del Dio trascendente è fondamental-
mente intraducibile, analogamente al kabod trattato nel val. r, p. 128. «Gloria» è per-
ciò un termine piuttosto debole per rendere rispettivamente kabod e ò61;cx. Per questa
ragione esso è stato messo qui tra virgolette, e in seguito si parlerà semplicemente di
doxa, senza traduzione.
7. Così fa osservare giustamente ad es. V.P. Furnish, AncB 32A, 237: «Non è la liber-
tà dalla legge in quanto tale ad essere il soggetto di 2 Cor. 3,7-4,6, ma piuttosto il mi-
nistero della nuova alleanza ... » (corsivo mio).
8. Il termine «ministero• va interpretato a partire dal concetto di Òtcxxovlcx, e dunque
non è assolutamente da intendere come espressione di una certa arroganza clericale.
V. Confessio Augustana v: «Per conseguire questa fede, fu istituito il ministero [Amt]
di insegnare il vangelo e di amministrare i sacramenti. Infatti, mediante la parola e i
sacramenti, come uno strumento, viene donato lo Spirito santo, che produce la fede
(come e quando è parso bene a Dio) in coloro che ascoltano il vangelo ... ». È indicati-
vo che dove il testo tedesco usa il termine Amt il testo latino ha ministerium (ministe-
ro ecclesiastico o ministerium docendi evangelii et porrigendi sacramenta).
Le lettere di Paolo

Certo, volendo si può vedere in dettaglio come in 3,1-3


Paolo combini le immagini della lettera, delle tavole e dei cuo-
ri, ricorrendo in modo persino giocoso a testi tratti da Es. Ma
proprio l'immagine delle tavole della legge nell'argomentazio-
ne paolina assume un carattere più illustrativo che fondante. A
Paolo qui preme principalmente far presente che, grazie al
proprio ministero apostolico, egli ha fatto dei corinti la pro-
pria «lettera». Grazie a questo ministero, ha annunciato il van-
gelo della giustificazione per opera di Dio, trasformando così
sostanzialmente i corinti. L'immagine subisce una modifica al-
l'interno del v. 2: la lettera è scritta nei cuori dei corinti, cosic-
ché tutti gli altri uomini possano leggerla. Ma la trasformazio-
ne del cuore rappresenta un topos centrale dell'Antico Testa-
mento, soprattutto in Ez. 36 e 37, ove si incontra pure il tema,
ricorrente nel contesto presente, di Dio che dona il proprio
Spirito agli uomini. Nella corrispondenza paolina, già in I
Tess. 4,9 si trovava un'allusione a Ez. 36,27; 37,14. Quando
dunque Paolo in 2 Cor. 3,1-3 parla del proprio operato apo-
stolico, e precisamente di annuncio del vangelo riguardante il
Dio che giustifica, come confermeranno le asserzioni successi-
ve, si riaffaccia la stessa situazione teologica di fatto che ricor-
reva con tanta frequenza nei prolegomeni: la rivelazione an-
nunciata è vera rivelazione di Dio soltanto se giunge presso gli
uomini, se li tocca e li trasforma. L'operato apostolico è quin-
di realmente apostolico, veramente autentico, se dimostra di
essere veritiero nella fede, e di conseguenza anche nella vita, di
quanti lo hanno vissuto. Perciò il fatto stesso che la comunità
di Corinto è lettera dell'apostolo, che i cuori dei corinti pos-
sono essere letti dagli altri uomini come una lettera, costituisce
la vera dimostrazione teologicamente rilevante che Paolo è
realmente apostolo. Senza la sua comunità, non sarebbe nulla
nel suo ministero. Per questo motivo la comunità deve stare a
cuore a Paolo. E sempre per lo stesso motivo il fallimento in
occasione della cosiddetta visita intermedia deve essere stato
tanto catastrofico per lui. In quel momento ne andava niente-
meno che della sua esistenza apostolica.
Senza la sua dimensione ermeneutica - si tenga presente I
La teologia di Paolo

Cor. 1,18 ss. -, l'esistenza apostolica è un assurdo. Infatti, com-


pito eminente dell'apostolo è annunciare il vangelo che giusti-
fìca9 (v. r Cor. 1,17). Ma la parola accolta nella fede è, come
già osservato più volte, parola compresa nella fede. E proprio
di questo comprendere tratta 3,7-11, contrapponendolo con
forte contrasto alla non comprensione degli israeliti. Prima,
però, Paolo ribadisce ancora una volta che, se Dio lo ' 0 ha reso
ministro della nuova diatheke, ciò non è «faccenda» che riguar-
di la lettera ma lo spirito (3,4-6)."
In 3,12 ss. e nel senso ermeneutico appena menzionato, si parla princi-
palmente dei corinti, della franchezza con cui Paolo li può incontrare
(v. 12: 7tOÀ):i'J 7tCXpp't)cr(Cf 'X.PWfJ.E-i9a), e della loro libertà (v. 17: ÈÀEU-i9Ep(a).
Se infatti degli israeliti si parla in senso negativo, è principalmente per
rendere lo sfondo oscuro sul quale si staglia luminosissimo il dono elar-
gito ai cristiani in Cristo. 12 Ciononostante, bisogna innanzitutto chiari-
re cosa dica esattamente Paolo in questo contesto a proposito degli israe-
liti. La sua dimostrazione si richiama a Es. 34, ma fa un uso piuttosto li-
bero del testo.
Tuttavia, con Es. 34 Paolo fa riferimento a un capitolo che non riguar-
da il solito decalogo di Es. 20 / Deut. 5, a cui egli stesso si è più volte ri-
chiamato. Il cosiddetto «decalogo cultuale» di Es. 34 non è di alcun ri-
lievo per lui. Se qui vi fa riferimento, si può supporre che lo faccia per
via di Es. 34,r.27 (v. 1: òuo TIÀiixaç Àt-S.lvaç e ypaljiw È7tt -rwv TIÀaxwv,
mentre al v. 27: ypaljiov crgau-rcj)). Infatti, dal v. 7 avrebbe potuto ricavare
una formulazione importantissima per il suo intento: è.v ypaµµacrtv èv-
'!E'!U7tW[J.ÉV't) ÀWotç. Una tale supposizione risulterebbe opportuna an-
che se, per la sua esegesi di Es. 34, Paolo avesse ripreso un qualche gene-
re di modello. ' 3 Si tenga anche presente che Paolo fa riferimento soltan-
9. L'espressione «vangelo che giustifica» è teologicamente legittima quanto «vangelo
della giustificazione», dato che il vangelo stricto sensu è parola di Dio pronunciata che
diventa operante nell'atto stesso in cui è pronunciata (v. quanto esposto per 1 Cor. 1,
l 8 ss. a proposito della theologia crucis come theologia verbi crucis). Perciò Paolo, po-
co dopo aver scritto 2 Cor., in Rom. 1,16 definirà il vangelo òuvo:1J.tç ·Seou, la medesi-
ma espressione usata precedentemente in 1 Cor. 1,18 per la parola della croce.
10. Tjp.iiç nel v. 6 nel senso di Èp.É.
11. Grammaticalmente non si riesce a stabilire se i due genitivi ypap.p.o:'toç e r.veu1J.o:-
'toç si riferiscano a Òto:x6vouç oppure a xo:tviJç Òto:.S~x11ç; tuttavia, dal punto di vista
teologico ciò è irrilevante perché tutto sommato finisce per esprimere teologicamente
il medesimo concetto, v. i commentari.
12. V., ad es., Wolff, ThHK, 71: «L'affermazione sulla r.o:pp11crio: (v. 12) viene svilup-
pata partendo dal contrario ... ».
lJ. Tuttavia ciò non è dimostrato. Riguardo a una possibile ripresa di una tradizione
Le lettere di Paolo 243
to al fatto che la doxa di Dio risplendeva sul volto di Mosè (v. 30: Òe:Òo-
~arr[J-ÉVYJ "ti o~ic;, v. 35: -rò 7tpoa-w7tov Mwua-i] o-ri òe:ò6~aa--rai), ma non al-
l'elemento essenziale di Es. 34, e cioè che Mosè riferiva agli israeliti la
parola di Dio (versetto 34). Che l'antica diatheke venisse citata o letta in
assemblea è ricordato da Paolo soltanto come processo durato inin-
terrottamente «sino ad oggi» (vv. 14 s.). Del velo, x.a).. U(J-(J-ct, si parla
diffusamente sia in Es. 34 sia in 2 Cor. 3. Ma ancora una volta Paolo,
come di consueto, gioca con tale immagine. Stando al v. 13, Mosè si ve-
lava il volto, espressione che coincide quasi alla lettera con Es. 34,
33.35.' 4 Ma per Paolo lo scopo di questo comportamento è ben diverso
da quello presentato da Es. 34. Per Es. 34,Jo, infatti, Aronne e gli anzia-
ni di Israele, vedendo il volto di Mosè risplendente per la doxa ebbero
timore - ma perché vedevano la doxa. Stando a 34'33 Mosè si poneva il
velo sul volto solo dopo aver parlato agli israeliti. Paolo invece dichiara
che Mosè si copriva il volto perché gli israeliti non potessero vedere che
risplendeva di una doxa solo effimera (v. 13 in relazione al v. 7). 15 Ma
per il v. 14 il velo non è più sul volto di Mosè, bensì sulla lettura dell'an-
tica diatheke (durante il culto sinagogale); le menti degli israeliti, infatti,
sono indurite. Ad essi non è stato svelato ' 6 che l'antica diatheke è eli-
minata «in Cristo».' 7 Per il v. 15, il velo è steso sui cuori degli israeliti
ogni volta che si legge Mosè. Ma se qualcuno si converte al Signore il
velo ne viene tolto. Il velo viene dunque collocato per tre volte in tre <<luo-
ghi» diversi.
Possiede un certo rilievo teologico stabilire se 7tpÒç -rò (J- ~ ihe:vla-at
-roùç u[oÙç 'fopa~À e:lç -rò -rÉÀoç -rou x.a-rapyou[J-Évou al v. 13 vada inteso
in senso finale oppure consecutivo: Mosè si è velato il volto affinché gli
israeliti non scorgessero la doxa effimera, oppure lo ha fatto in modo
tale che non la potessero vedere? Solitamente si propende per la prima
ipotesi. ' 8 Al contrario, Hofius interpreta 7tpoc; in senso consecutivo. ' 9
Per lui il v. 14a, laddove viene espressa l'idea di ls. 6,9 s., getterebbe una
luce sul v. 13: Dio ha imposto un «indurimento» alla stragrande mag-
gioranza di Israele, concetto che si ritroverebbe anche in Rom. 11,7 s.
Di fatto, l'i7twpw.SYJ in 2 Cor. 3,14 andrebbe inteso come un passivum
già esistente v. i relativi commentari e monografie. Wolff, ThHK, 65, presume che gli
avversari di Paolo argomentassero con Es. 34 per legittimare in questo modo la loro
autocomprensione sulla base di Mosè. Comunque si tratta solamente di un'ipotesi fra
le tante. 14. Paolo varia soltanto il termine btW-rpttv o 7ttptW·rpttv in i·d.Stt.
15. V. inoltre soprattutto Hofius, JBTh 4, lJ2 ss.; A. Plummer, ICC, 96 s.; Wolff,
ThHK, 71.
l 6. Si presti attenzione al gioco di parole xaÀuiJ.tJ.a - tJ. ~ àvaxaÀum:61J.tvov.
17. Lo osserva giustamente E. Grasser, Der Alte Bund im Neuen, 89 ss. Questa inter-
pretazione si avvicina nel contenuto a quella di Bultmann (KEK, 8 l. 89), per il quale
xa't'apyfrtat si riferisce alla 7taÀa[a Òta-8~K'YJ.
18. Ad es. Bultmann, KEK, 8 r. 88; Wolff, ThHK, 71. 19. Hofius,JBTh 4, 133 ss.
244 La teologia di Paolo

divinum. In tal caso - supposto che Mosè non sappia perché si debba
velare il volto (v. Es. 34,29: Mwucrijç oùx. fiòe:t o'n
òe:ool;acr-rm -fi otj;tç wu
xpw-ròç -rou 7tpocrwTiou aù-rou) - l'interpretazione in senso consecutivo
diventerebbe quella più ovvia e naturale.

Paolo dunque difende il proprio apostolato nell'orizzonte


di quella che è la sua teologia fondamentalmente ermeneutica.
E lo difende illustrandolo a partire dalla conversione al Signo-
re. Contrariamente alle sue abitudini, Paolo qui usa il verbo
«convertirsi» (brnrtpÉ~Yl) invece di «credere», v. r 6. Certo gli
è noto l'impiego tecnico di Èmcr-tpÉcpm1 come termine proprio
del linguaggio missionario sia dei giudei sia dei giudeocristiani
(v. I Tess. r,9). Comunque si possa spiegare la comparsa qui di
questo verbo, 20 è chiaro che l'apostolato di Paolo giunge al suo
compimento nella conversione di coloro ai quali il vangelo è
annunciato. Solo e soltanto a chi si converte, dunque a chi cre-
de, viene tolto il velo della non comprensione; solo e soltanto
costui in quanto credente diventa in grado di comprendere. E
Paolo può svolgere questo annuncio di fede con tutta fran-
chezza, 7tappricrtCf, di fronte ai corinti, che sono già pervenuti
alla fede. Non ha bisogno, anzi, non gli è lecito celare la sua
doxa come fece Mosè. Quindi, laddove Paolo in quanto apo-
stolo è annunciatore del vangelo, colui che è aperto all'apertu-
ra di questo apostolo passa dalla condizione di chi non com-
prende a quella di chi comprende. Ecco delinearsi il pensiero:
in quanto lettera di Paolo, i corinti sono aperti per poter esse-
re letti dagli altri uomini. In questa loro apertura sono loro ad
essersi dimostrati aperti nei confronti della franchezza di Pao-
lo. La parrhesia del v. 12, dunque, come contenuto va consi-
derata insieme all'espressione «voi siete la nostra lettera», v. 2.
Di conseguenza, dai vv. r 7 s. risulta anche il legame interno
di quanto è andato esponendo Paolo sino ad ora in 2 Cor. 3.
L'apostolo dei corinti vuole comunicare proprio ad essi che,
grazie allo Spirito di Dio, sono diventati uomini della libertà.
20. Il termine Èma'tpÉ<}TI non risale a Es. 34,34 - versetto a cui Paolo qui allude; forse
alla base vi è addirittura una citazione (v. Koch, Die Schrift als Zeuge, 114 s.) -, dato
che Eta7topEuE'tO Mwuaijç dei LXX fu sostituito da Paolo con Èma-rpé<}n, analogamen-
te alla sostituzione di 7tEPtTIPEt'to con 7tEptatpEt't1lt (presente).
Le lettere di Paolo 2 45

Tutto sta però nel cogliere più profondamente l'essenza di tale


libertà.
Quando Paolo in 2 Cor. 3 parla di libertà, lo fa - suppo-
nendo che sia fondata la cronologia relativa delle lettere di Pao-
lo da noi proposta - in un periodo successivo alla stesura di
Gal. In questa lettera, la magna charta libertatis paolina, egli
aveva spiegato la libertà come libertà dalla legge. Al tempo
stesso vi aveva descritto l'esistenza di colui che è libero in Cri-
sto come un'esistenza la cui dinamica interna è costituita dallo
Spirito di Dio. È libero colui che possiede lo Spirito. La dimen-
sione pneumatologica fa parte della natura della libertà. Lo af-
ferma anche la dichiarazione programmatica del v. r7: dove
c'è lo Spirito del Signore c'è libertà."
La questione è se Paolo anche in 2 Cor. 3 impieghi il con-
cetto di libertà come aveva precedentemente fatto in Gal. In 2
Cor. 3, la libertà operata dallo Spirito va intesa principalmente
come libertà dalla legge? È indiscutibile che la contrapposizio-
ne tra esistenza sotto la legge che uccide ed esistenza nello Spi-
rito datore di vita (v. 6: ypap.µ.a - m1e::uµ.a) nel contesto dell'an-
tica e nuova diatheke abbia un ruolo teologicamente di primo
piano per la comprensione complessiva del capitolo. Probabil-
mente, però, Samuel Vollenweider va un po' troppo oltre de-
finendo problema teologico della legge il ragionamento impo-
stato sul leitmotiv della doxa. 22 Tuttavia, la sua interpretazio-
ne va nella direzione giusta essendo la problematica inerente
alla legge di importanza cruciale per la questione dell'aposto-
lato, che è quella che fornisce il tema. Non si può parlare di
21. L'affermazione molto dibattuta di 2 Cor. 3,17a, o ÒÈ: xuptoç 'tO 1tVEÙp.a Ècr'tlV, non
intende dare alcuna definizione del kyrios come pneuma. Afferma giustamente W olff,
ThHK, 76: «Ècr'ttv non va inteso nel senso di un'affermazione logica di identità, ma
esprime un operato ... Il Cristo innalzato (kyrios) agisce sempre per mezzo dello Spi-
rito di Dio ... , del quale ... si parlava prima». In altre parole: ciò che il Signore compie,
lo compie in virtù del suo Spirito. Il pensiero di Paolo è talmente impregnato di ere-
dità veterotestamentaria (hjh ), che alla base della sua argomentazione teologica pone
l'identità, nell'Antico Testamento presente almeno come tendenza, tra essere e agire,
oppure la comprensione che vi si ritrova dell'essere a partire dal suo operato. Perciò
anche nel v. r7a può parlare come se kyrios e pneuma fossero equivalenti, mentre al v.
r7b distingue tra le due dimensioni teologiche.
22. Vollenweider, Freiheit als neue Schopfung, 269.
La teologia di Paolo

autocomprensione di Paolo come apostolo senza parlare con-


temporaneamente anche del suo annuncio del vangelo che giu-
stifica (2 Cor. 3,9: -fi òw. xovla -rljc; Òtxawcruv-r1c;) e dunque del-
l'abolizione della legge nell'evento del Cristo. Come si è già
visto, l'apostolo si rivolge alla sua comunità come a un insie-
me di persone che sono state strappate al potere del gramma
che uccide e trasferite nella sfera di potere del pneuma che dà
la vita. 23 Secondo Vollenweider, egli fa presente ai corinti la
loro storia, storia per cui debbono ringraziare il vangelo. 24 Ci
si potrebbe esprimere in questo modo: Paolo li rimanda a se
stessi come persone che grazie all'esperienza pneumatica della
doxa divina hanno sperimentato appunto tale doxa nella pro-
pria esistenza. Essi sono diventati ciò che sono adesso perché
hanno sperimentato l'azione potente del vangelo che rende li-
beri, predicato da Paolo. Sono stati liberati dal loro passato,
segnato dal peccato - e soltanto Dio può liberare veramente
dal passato; nel processo storico della mera immanenza non
esiste liberazione dal passato, poiché questo continua sempre
a raggiungere l'uomo -, ricevendo così il loro futuro inaugu-
rato da Dio. Ed è Dio il loro futuro. La conseguenza è inevita-
bile: ignorando il loro apostolo, i corinti perdono la propria
identità peculiare! Paolo dunque li responsabilizza ricorrendo
alla loro propria identità.
Bisogna convenire con Vollenweider anche quando interpre-
ta 2 Cor. 3 collocandolo «principalmente sotto il tema dell'in-
serimento nei tempi e quindi della contrapposizione tra legge e
Spirito». 25 Se già in Gal. 3 e 4 il pensiero storico-temporale si
era rivelato un elemento costitutivo irrinunciabile della teolo-
gia ivi presentata, mediante il quale era possibile interpretare
l'esistenza dell'uomo e degli uomini nella sua temporalità e sto-
ricità, qui Paolo presenta lo stesso pensiero in una nuova varian-

23. È appropriata la formulazione di Vollenweider, op. cit., 271: «Nell'antitesi gram-


ma e pneuma (v. 6) sono menzionate le potenze fondamentali che agiscono dietro l'an-
nuncio della legge e del vangelo: la morte e la vita, la condanna e la giustizia di Dio
(vv. 7 s.9)».
24. Op. cit., 270: «Storia» sottolineato da Vollenweider con il corsivo.
25. Op. cit., 277.
Le lettere di Paolo 247
te. In più rispetto a Gal. vi è ora che l'idea della doxa divina è
strettamente connessa alla tematica della giustificazione. 26
Tutta l'argomentazione del capitolo punta a 2 Cor. 3,18,
ove la doxa è nominata per ben tre volte. Ancora una volta
Paolo gioca con l'immagine del velo: noi tutti - e qui si inten-
de dunque l'apostolo e la sua comunità - guardiamo a volto
scoperto come in uno specchio la doxa del Signore, e in quella
medesima immagine siamo trasformati di doxa in doxa come
dal Signore dello Spirito. A dare tono a tutta la frase qui è àva-
xe:xaÀuµ.µ.Évq.i. L'apostolo ha annunciato con grande parrhesia
il vangelo ai corinti, «aperti» a tale vangelo, tanto che essi si
sono convertiti, è stato loro tolto il velo della non compren-
sione ed hanno creduto. Quindi essi vedono a viso scoperto la
doxa del kyrios. Stilisticamente si ha un aumento di tensione
dato dal fatto che essi vedono sì la doxa, ma solo come in uno
specchio; dunque non la vedono direttamente. 27 Questa visio-
ne indiretta significa forse che la doxa ci viene incontro nella
parola apostolica soltanto nel momento in cui, ascoltandola,
tale parola ci disvela la potenza di Dio (la dynamis di Dio e la
doxa di Dio sono infatti almeno in parte sinonimi)?
Per la comprensione del v. r 8 potrebbe essere di aiuto Fil. 3,2 I - suppo-
nendo che fossimo in grado di datare con una certa sicurezza questa let-
tera. Ma siamo in possesso di pochissimi elementi affidabili per inserirla
nello schema cronologico delle lettere paoline autentiche. Oltre a ciò, an-
che la sua unitarietà letteraria presenta dei problemi, per cui l'incertezza
non fa che aumentare. Tuttavia, forse è possibile dirne almeno qualcosa
che sia abbastanza probabile. Se si parte dal fatto che Fil. r,1-3,r e 4,2-
7.10-23 costituiscono la parte della lettera scritta durante la prigionia, e

26. V. però già / Tess. 2, 12.

27. Ad es. Jan Lambrecht, Bib. 64, 250, traduce X<X't'07t'tptl;6f.1.EVOL «Contemplando co-
me in uno specchio», intendendo con ciò più di una semplice attività visiva o intellet-
tiva; op. cit., 2 50 s.: «Dev'essere collegato con il confronto esistenziale con ciò che è rac-
chiuso nella predicazione dcl vangelo. Noi siamo così messi a confronto con ciò che
Dio ha operato in Cristo. Vediamo Cristo come in uno specchio, nel vangelo e in que-
sto tipo di vita specificamente cristiano ispirato dal vangelo». Jacob Kremer, EWNT
11, 677 s. (DENTI, 1978), traduce con «guardare»; ma per via di 't~V etÙ't~V dx6va in-
terpreta tale attività «non nel senso attenuato» (contrariamente a Bultmann). Wolff,
ThHK 69, traduce in modo simile: «guardare come in uno specchio».
248 La teologia di Paolo

che Efeso risulta essere il luogo di redazione più probabile,2 8 con tale
ipotesi non si è approdati ancora a nulla per quanto riguarda il periodo
di stesura della lettera polemica di 3,2-4,r.8 s. - ed è questo a interessar-
ci nel presente contesto. Tuttavia, io parto dal presupposto che anche
questo frammento all'interno di Fil. è stato redatto ancora prima di 2
Cor., e dunque che Paolo ha formulato Fil. 3,21 prima di 2 Cor. 3,18.
L'enunciato riguardante la partecipazione alla doxa di Cristo, Fil. 3,
21, è preceduto da quello di 3,10 in cui Paolo esprime la propria comu-
nione con le sofferenze di Cristo: xot vwviav ['t"W\I] 7ta./J.YJµ.a't"wv aÙ't"oCi.
Al tempo stesso egli è conformato alla morte di Cristo: cru1..1.p.opcpt~6p.e:voç
't"cfl ./J.ava't"cp aÙ't"oCi. Nel contenuto, questa affermazione è connessa alla
tematica della giustificazione per la giustizia per mezzo della fede in
Cristo, la giustizia derivante da Dio, 't"~\I Èx ./J.e:ou Òtxawcruv11v, 3,9. 29
Benché in 3,1 l Paolo esprima la speranza nella propria risurrezione, è in
3,21 che bisognerebbe vedere il vero corrispondente positivo all'espres-
sione xotvwviav x't"À. di 3,10. 3,2oa riguarda ancora il presente: la nostra
vera patria 30 è nei cieli. Ma in 3,2ob.2 I lo sguardo si volge al futuro: di
là Paolo attende il nostro salvatore. Questi conformerà il nostro corpo
di miseria 31 al corpo della sua doxa. Il termine 1..1.e:'t"acrx11µ.a't"icre:t indica
quindi chiaramente l'atto escatologico di Cristo nel giorno della paru-
sia.P Secondo Fil. 3, nella comprensione di esistenza di Paolo presente
salvifico e futuro salvifico coincidono. Se si getta in anticipo uno sguar-
do a Rom. 8,29, si vede che, diversamente da Fil. 3,21 ma analogamente
a 2 Cor. 3,18, l'idea dell'essere conformati a Cristo viene espressa come
presente salvifico: 7tpowptcre:v crup.µ.6pcpouç Tijç e:lx6voç 't"OÙ uioù aÙ't"où, dç
't"Ò dvm aÙ't"Ò\I 7tpW't"o't"oxov Èv 7tOÀÀoiç àòe:Àcpoiç. Anche l'ultimo anello,
menzionato al v. 30, della catena che ha inizio con 7tpowptcre:v, ossia ÈÒo-
1;acre:v, indica l'esistenza terrena del giustificato. 33 In Rom. 8,29 si ritro-
vano dunque gli elementi essenziali di 2 Cor. 3, I 8: dxwv, ò61;a, cru1..1.1..1.6p-

28. In accordo con Vielhauer, Geschichte der urchristl. Lit., 168 ss., ritengo questa
l'ipotesi più probabile.
29. Se Paolo qui scrive 't~V ix ·9eou 01xmocruvriv, ciò potrebbe far pensare che Fil. sia
stata scritta ancora prima di 2 Cor., in cui per la prima volta (2 Cor. 5,21) ricorre ex-
pressis verbis l'espressione otxawcruvri -Beou, che poi in Rom. diventerà formula teo-
logica saldamente coniata. Si tenga presente ancora una volta che precedentemente, in
Gal., aveva esposto la teologia della giustificazione senza tale formula.
30. E. Gnilka, HThK xf3, 202 (tr. it. La lettera ai Filippesi, Brescia 1972, 339), traduce
~!J.WV 'tÒ ;roÀ['tEU!J.Ct con «la nostra cittadinanza».
3 r. 'tÒ crwµ.a 'ti}ç 'tet7tEtvwcrewç ~!J.Wv è il corpo nelle condizioni attuali, terrene e dun-
que gravose.
32· In Fil. 3,2 1, poi, la frase u7to'ta!;at aù'tt;i 'ta ?tana ricorda 1 Cor. 1 5,27.
33. Così ad es. E. Kasemann, HNT Sa, 236; Balz, Heilsvertrauen und Welterfahrung,
I 14 S.
Le lettere di Paolo 2 49

rpouç/p.e:'tap.oprpoup.e:-Ba. Per entrambi i passi, perciò, c'è un campo seman-


tico comune, oltre all'intenzione contenutistica comune a entrambe le
affermazioni. I due capitoli esprimono sia la tematica della giustificazio-
ne sia, in maniera accentuata, la dimensione pneumatologica dell'esisten-
za cristiana.

L'essere conformati a Cristo come all'icona di Dio, dunque,


rispetto a Fil. 3,21 (ove però non compare il termine dxwv) in
2 Cor. 3,18, come successivamente anche in Rom. 8,29, è inte-
so come evento salvifico presente. Tuttavia, questo processo
di fJ-E'tafJ-opcpoucr-8m continua non è inteso come una trasfor-
mazione nell'essere di Dio, come indica in particolare Rom.
8,29 accennando al «primogenito tra molti fratelli». Non è af-
fatto un -8e:w-8-fivat neoplatonico. Cristo in quanto immagine
di Dio è infatti l'uomo, l'uomo tout court, così come lo vuole
Dio. Analogamente a I Cor. 15 ,49, qui Gen. r,26 s. non è af-
fatto citato, benché Paolo l'avesse certo presente. Anche qui
dovrebbe avere adeguata applicazione quanto più volte prece-
dentemente affermato a proposito di Is. 53: un'allusione così
ovvia a un testo della Scrittura non richiede una citazione for-
male. Paolo voleva mostrare che Gen. 1,26 s. vale in primo
luogo per Cristo come il Figlio di Dio; egli è l'immagine di
Dio per eccellenza, e in questo suo essere immagine di Dio ac-
coglie tutti i credenti. Soltanto chi è «in» Cristo è per questo
immagine di Dio nel vero senso della parola, e gli è restituita
la doxa di Dio che Adamo aveva perduta (come affermerà
successivamente Rom. 3,23). Essere immagine di Dio ed essere
determinati dalla doxa di Dio: per la teologia paolina queste
due condizioni sono strettamente connesse per colui che è
stato giustificato. Entrambe provengono dal kyrios, dal suo
Spirito, a prescindere dalla definizione sintattica che si può
attribuire ad à7tÒ xuplou 7tVEU[J-a'toç in 2 Cor. 3, 18. Ma poiché
l'essere trasforma ti nell'icona di Dio, nella doxa di Dio, è un
processo ininterrotto, allora diventa la storicità dell'esistenza
cristiana. «In Cristo» il cristiano vede la doxa di Dio con oc-
chi privi di velo, e in questo modo viene accolto sempre di più
in essa. Lo Spirito di Dio, lo Spirito di Cristo, è ciò che sgom-
bra il cammino trasformando l'esistenza cristiana in esistenza
La teologia di Paolo

di libertà. Gen. l,26 s. è così divenuta un'affermazione cristo-


logico-soteriologica; da protologica si è fatta escatologica.
2 Cor. 3 trova in 2 Cor. 4,1-6 la sua conclusione organica. 34 In 4,1, l'apo-
stolo trae innanzitutto le conseguenze da quanto ha esposto sino ad ora.
Torna a fare l'apologia del proprio ministero quando, al v. 2, afferma di
agire senza astuzia e senza falsificare la parola di Dio. Riprende poi il
tema delle lettere di raccomandazione di 3,1-3, mentre in 4,J s. ricompa-
re il motivo del velo. Inoltre, 4,3 ricorda I Cor. l, l 8, mentre in 4, 4-6 si
ritrova la tematica dominante della doxa, nuovamente connessa all'idea
di immagine di Dio ma approfondita con il topos della luce. E come il
cap. 3 si concludeva con l'allusione a Gen. l ,26 s., così 4, l-6 termina al-
ludendo a Gen. l,3.J5 Poiché è evidente che qui Paolo allude a questo
passo di Gen., dovrebbe risultarne rafforzata la nostra supposizione che
sullo sfondo di 3, l 8 si trovi Gen. l,26 s.
Che in 2 Cor. 4,6 Paolo si riferisca alla propria chiamata 36
rientra nel carattere della lettera in quanto apologia del mini-
stero apostolico. Se, come si è già evidenziato più volte, Paolo
vedeva il proprio apostolato come compimento e superamen-
to del ministero profetico veterotestamentario, allora compren-
de se stesso come apostolo chiamato dalla storia della creazio-
ne, quest'ultima considerata sotto l'aspetto cristologico. Ciò
che accadde stando a Gen. l ,3 - xal èyéve:>to cpwç -, avviene ora
per opera di Dio con intento soteriologico. Il concetto di nuo-
va creazione che compare in 2 Cor. 5,17, xmv~ x>tlcrtç, ha qui
il suo preludio. Così facendo, però, Paolo ha portato a un
nuovo apice teologico le affermazioni sulla sua chiamata. Se
con la creazione illustrata in Gen. l ha avuto inizio il primo
capitolo della storia della salvezza divina, che ben presto fu
trasformata dal peccato dell'uomo in storia della rovina uma-
na, ora, con la chiamata di Paolo, si è avuta una nuova creazio-
ne, è cominciata da capo una storia della salvezza divina.37

34. Che con 2 Cor. 4,1 abbia inizio un capitolo nuovo lo indica la struttura argomen-
tativa di Paolo.
3 5. Così è largamente accettato; rimane scettico, anche se non dcl tutto sfavorevole,
ad es. Martin, WBC, Bo s.
36. Così ad es. Bultmann, KEK, 112; Wolff, ThHK, 86 ss.; Lang, NTD, 278 s.
37. È ovvio che con ciò non debba certo essere negata la storia della salvezza della nuo-
va «alleanza», già inaugurata dall'evento del Cristo. Come risultava da quanto detto a
Le lettere di Paolo

Come problema ulteriore ricompare quello della predesti-


nazione. In 1 Cor. 1, 18 esso si presentava nell'opposizione
"t"oti:; ci7toÀÀuµ.Évoti:; - "t"oti:; crc.p~op.Évoti:; "YiiJ.tv. Ora in 2 Cor. 4,3
l'idea di 1 Cor. 1, 18 è collegata al motivo del velo. Esistono
due gruppi di persone, ma in 2 Cor. 4,3 s. si fa cenno solamen-
te a quelle che si perdono, Èv "t"oti:; ci7toÀÀuµ.Évoti:;. Per loro il
vangelo predicato da Paolo è velato perché il dio di questo eo-
ne ha accecato le loro menti, cosicché essi non sono in grado
di vedere la luce del vangelo della doxa di Cristo. Non sono
forse colpevoli essi stessi del peccato di incredulità? Dio non è
forse «non colpevole», poiché tale incredulità è effetto di mal-
vagità satanica? L'idea della predestinazione, tuttavia, era già
stata espressa prima, in 3,14. 38 Qui però è stato Dio, non sata-
na, a indurire il cuore dei giudei increduli. Ma allora, 3,14 e 4,4
(in entrambi i versetti ricorre "t"à vo~µ.a."t"a.) si contraddicono?
Le incoerenze che innegabilmente presenta l'argomentazione
paolina risultano però ridotte al minimo se si presta attenzio-
ne all'intento reale che di volta in volta anima Paolo. Questi,
infatti, intende inculcare ai corinti credenti che essi fanno parte
del gruppo dei salvati, che essi sono i predestinati, dato che
credono, che possono credere. E la loro predestinazione la si
può intuire dal successo ottenuto dal ministero apostolico di
annuncio di Paolo. Se davvero essi desiderassero svincolare la
loro esistenza di fede dall'apostolato di Paolo, si svincolereb-
bero dal fondamento della loro condizione di salvati. 39 Quan-
do dunque Paolo assicura ai corinti che, poiché credono, sono
predestinati, congratulandosi con loro come uomini di salvez-
za, allora, giocoforza, egli li lega al proprio apostolato. Si mo-
stra ancora una volta che non si parla della rovina degli incre-
duli per loro stessi, ma che, come già per il cap. 3, ciò costitui-
sce solo lo sfondo negativo per la praedestinatio ad salutem

proposito di 1 Cor. 1-4, lo ha evidenziato il rapporto che intercorre tra theologia


crucis e theologia verbi crucis.
38. Èrc(l)pw.SlJ èpassivum divinum.
39. Una piccola osservazione: Paolo non prende in considerazione l'idea in sé im-
possibile che essi in quanto predestinati possano non mettere assolutamente in dub-
bio la loro predestinazione e perciò possano non voler affatto separarsi da lui.
La teologia di Paolo

della sua comunità di Corinto. Ciò che si può interpretare con


praedestinatio gemina - tale possibilità di interpretazione non
può essere esclusa - in fondo, da un punto di vista retorico, è
al servizio della captatio benevolentiae missionaria.

2 Cor. 4,7-7,4: L'esistenza apostolica


Questa sezione piuttosto lunga presenta alcuni punti cruciali teolo-
gici che per quanto affermano richiedono una trattazione particolare,
mentre ad altre pericopi all'interno di questa stessa unità si potrà accen-
nare anche solo di sfuggita. 2 Cor. 6, 14-7, l si distacca dalla nostra inter-
pretazione come interpolazione non paolina. La pericope 4,7-15 unisce
affermazioni autobiografiche di Paolo riguardanti la sua esistenza apo-
stolica ad enunciati di tipo cristologico, sposando quindi autobiografia e
cristologia; ed è indicativo che egli concluda con dç 't~V ool;av 'tOU -8Eo0.
In 2 Cor. 4,16-5,10, iniziando con ÒtÒ oùx iyxaxoup.Ev, Paolo trae le con-
seguenze dalla situazione illustrata. 5, 1-5 appare come una specie di ex-
cursus escatologico, che tuttavia è strettamente connesso al tema di base
e perciò, quasi impercettibilmente, in 5,6 riprende nuovamente l'accen-
to di 4,16 ss. La pericope 5,11-21, che segue in maniera organica, espone
quello che è il contenuto del ministero apostolico. I primi versetti pre-
sentano ancora, è vero, un certo accento personale, ad es. 5, l 4: ~ yà.p
àycbtri 'to0 Xptcr'to 1::i cruvÉXEt ~p.aç. Tuttavia, nonostante la comparsa oc-
casionale della prima e della seconda plurale, con 5,14b il tutto diventa
una trattazione «dogmatica» sul rapporto tra ministero apostolico e ri-
conciliazione, e precisamente riconciliazione «oggettivamente» avvenuta
e riconciliazione annunciata. Comunque, anche in questi versetti alla fi-
ne è la comunità ad essere interpellata, v. 20: «Vi supplichiamo in nome
di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio». Poi, però, nella frase teologica
culminante di 5,21, questo «voi» ridiventa un «noi».
La prova scritturistica offerta da 6,2, tuttavia, ha ormai ben poco a
che fare con l'aspetto «oggettivo» di quanto affermato al cap. 5. Essa ri-
guarda infatti l'esistenza apostolica di Paolo prima di passare a un elen-
co di situazioni avverse. L'apologia del ministero apostolico si conclude
in 7,4 con l'invito alla consolazione: «Sono colmo di consolazione. La
gioia mi pervade sovrabbondante in mezzo a ogni tipo di tribolazione
che mi è capitata». 40
Senza che sia menzionato il motivo del vanto, è chiaro che
esso risiede nell'immagine dei vasi di creta di 2 Cor. 4,7. È de-
40. Wolff, ThHK, 155, unendosi a Furnish, AncB, 391 s., ritiene, a torto, che 2 Cor.
7,4 faccia già parte della pericope successiva.
Le lettere di Paolo 2 53

cisiva la comprensione di Dio che qui è espressa. L'apostolo,


infatti, «ha» il tesoro del vangelo in vasi di creta, perché 4 ' la
sovrabbondanza della òUvaµiç - qui affiora l'eco della parola
della croce come dynamis di Dio, I Cor. I, I 8 - appartiene alla
natura di Dio e non a quella dell'uomo. In altre parole, se il
vangelo predicato dall'apostolo produce il suo effetto creando
la chiesa, ciò è principalmente opera di Dio. La dynamis è un
attributo divino. Non per niente la òo~a di Dio appartiene allo
stesso campo semantico della òUvaµiç di Dio. E se l'apostolo
di Dio, così come appare all'esterno, non fa un effetto «dina-
mico» è proprio perché così rimanda alla dynamis spettante
solamente a Dio. Lo illustrano le opposizioni dei vv. 8 s. E ciò
che Paolo ha scritto ai corinti in I Cor. 1, 18 ss. già in prospet-
tiva cristologico-ermeneutica, ossia che Cristo stesso come
stoltezza eclatante, cioè in quanto crocifisso, è sapienza di Dio,
e che questo può essere compreso solamente da chi è salvato,
viene ora spiegato dal punto di vista della teologia dell'aposto-
lato: nella natura dell'esistenza dell'apostolo che annuncia il
kerygma della croce è insito che anche tale esistenza sia con-
traddistinta dalla meschinità delle angustie (.SÀt~oµe:voi). Per
questo motivo, secondo il versetto ro, l'apostolo porta sempre
(!) nel proprio corpo la morte di Gesù (vÉxpwcnç 'I ricrou) - so-
lo che questa morte non è fine a se stessa, ma fa parte dell'esi-
stenza apostolica, affinché la vita di Gesù, o meglio, la sua vita
pasquale, si manifesti in e per la doxa di Dio anche nel corpo
dell'apostolo. Il termine cpave:pw.S"fi, che è proprio della teolo-
gia della rivelazione, tradisce la tendenza teologica dell'enun-
ciato: nella sorte di Cristo come in quella del suo apostolo la
vÉxpwcriç costituisce uno stadio teologicamente indispensabi-
le, ma proprio perché non è che uno stadio esprime la realtà
del passaggio alla ~w~, il bene salvifico vero e proprio. La gra-
vità quasi terribile che la morte di Gesù riveste per l'apostolo
è evidente nel v. I 1, in cui la vÉxpwcriç giunge a un tremendo
compimento nel -8&.va'toç, ma al contempo il contesto soterio-
logico, appoggiandosi linguisticamente al kerygma cristologi-

4r. Perché= affinché si manifesti che.


254 La teologia di Paolo

co-soteriologico, esprime l'inclusione dell'esistenza apostolica


nell'evento soteriologico della croce: e:lc; -Ba:va-rov napaòiòoµe:-
-Ba. Questo napaòtòoµe:-Ba potrebbe riecheggiare il napaòtò6-
vat di Gesù - certo non nel senso che alla vÉxpwcrtç e al .fJava-
-roç di Paolo viene dato di aver parte alla morte espiatrice, uni-
ca nel suo genere, di Cristo.42 Inoltre il -Bava-roç non indica la
morte reale di Paolo; la sua esistenza come .fJ)..i~6µevoç rappre-
senta infatti «soltanto» la morte di Gesù portata sempre e
ovunque. Paolo prende parte all'azione soteriologica del Fi-
glio di Dio solo quando annuncia tale azione come vangelo,
rappresentando, in qualità di annunciatore, per mezzo del suo
essere in quanto .fJ)..i~6µevoç, il tipo di esserci adeguato al suo
ministero. Tuttavia, proprio questa esistenza apostolica nella
morte alla fin fine non è affatto orientata alla morte. Il v. 11
ripete l'affermazione del v. IO: ?va xal ~ 'çw~ 't'ou 'h1crou cpave-
pw.S."fl, questa volta però con la variante significativa che, inve-
ce di è:v -rtj) crwµa-rt ~µwv, Paolo ora dice è:v "TI .S.vri-r"fl crapxl
~µwv. Ma con il termine crapç risulta accentuata la caducità, ed
è proprio questa ad avere il compito, qui, di rimandare alla vi-
ta, quella che supera ogni caducità.
Siamo forse immersi ormai nel campo degli enunciati keryg-
matici neotestamentari in misura tale che in 2 Cor. 4,7 ss., so-
prattutto in 4,IO s., viene a cadere il riferimento all'Antico Te-
stamento? Assolutamente no! Che un messaggero di Dio sia
esposto ad aspre tribolazioni proprio per l'annuncio che da Dio
gli è stato affidato, ma che ciononostante sia certo di avere in
Dio il proprio saldo sostegno, è una situazione che sperimen-
tano anche alcuni profeti veterotestamentari. Si può ricordare
in particolare Geremia. L'esserci profetico in quanto esistenza
paradossale di una vita catastrofica eppure al tempo stesso non
catastrofica è, di conseguenza, quodammodo una sorta di pre-
figurazione dell'esserci apostolico riscontrabile in Paolo.
Certo è piuttosto singolare che questa circostanza in sostanza non emer-
ga nei commentari a 2 Cor. e negli studi relativi. Vi compaiono invece
42. Una tale idea potrebbe essere ricavata al massimo dalla lettura della valutazione
deuteropaolina sull'apostolato di Paolo in Col. 1,24 (v. il paragrafo riguardante tale
passo).
Le lettere di Paolo 255
ampie trattazioni di paralleli stoici ali' elenco di peristasi, in particolare al
concetto stoico di libertà 43 secondo il quale il sapiente è superiore, nella
libertà interiore, alla non libertà esteriore. 44 Spesso, ai giudizi consueti
relativi a questi paralleli si aggiunge poi a ragione che la radice del tipo
di esistenza, fondamentalmente paradossale, di Paolo e della stoa, nono-
stante affinità superficiali è assai differente.45 Nei commentari e nelle mo-
nografie si rimanda anche a paralleli veterotestamentari di 4,8 s., ad es. ai
sinonimi ./i.À~ljitç e cr'te:voxwpicx. o per iyxcx.'tcx.Àe:hmv. 46
Ora, bisogna riconoscere subito che non esistono quasi paralleli lin-
guistici tra le confessioni di Geremia e 2 Cor. 4,7 ss. Che il profeta, an-
che nella versione dei LXX, in queste lamentazioni parli della propria esi-
stenza segnata dall'angoscia, talvolta viene inoltre contestato, in partico-
lare da Henning Graf Reventlow. Per lui, Geremia le avrebbe declamate
in qualità di mediatore ufficiale tra Dio e il suo popolo, forse persino
durante il culto.47 Intanto però la ricerca è incline nuovamente a ritene-
re le confessioni una lamentazione autentica dell'uomo Geremia, che
egli pronuncia come accusa contro Jahvé a causa del ministero profetico
che gli è stato forzosamente imposto, in seguito alle ostilità e ai maltrat-
tamenti subiti per colpa di tale ministero. Si tratterebbe dunque di la-
mentazione individuale, non collettiva. 48 Ora, se anche si possono isti-
tuire paralleli alla comprensione antitetica di esistenza nel profeta e nel-
l'apostolo, ciononostante ha un'importanza certamente secondaria sta-
bilire se sia stato il Geremia storico a comporre le confessioni per dare
così espressione alla propria autocomprensione profetica. A noi, infatti,
preme innanzitutto vedere come l'autore neotestamentario abbia com-
preso il testo veterotestamentario. Se, di fatto, leggendo il testo dell' An-
tico Testamento egli si ritrovasse nella comprensione di esistenza ivi pro-
posta, e se inoltre riprendesse in maniera adeguata tale testo secondo il
suo significato letterale, allora si avrebbe un'identità tra Vetus Testamen-
tum e Vetus Testamentum in Novo receptum. Certo, per l'obiettivo che
ci proponiamo non sarebbe irrilevante riuscire a stabilire che entrambi i
personaggi considerarono quello di riferire la parola di Dio un compito
umanamente quasi impossibile, e che invece di rinunciarvi o di fallire lo
accolsero docilmente accettando di portarlo a termine. A questo propo-

43. Al riguardo, sempre esemplare è Niederwimmer, Der Begriff der Freiheit im NT,
28 ss.
44. Ad es. Plutarco, Moralia 1057: «Il crocp6ç non perde neanche in carcere la propria
libertà». Per altri paralleli, v. i commentari. 45. Ad es. Furnish, AncB, 280 ss.
46. Ad es. op. cit., 254 s.
47. Reventlow, Liturgie und prophetisches !eh bei f er, passim.
48. Così, qualche tempo fa, ad es. Wilhelm Rudolph, HAT 12, ad loca; recentemente
cfr. in particolare Norbert lttmann, Die Konfessionen f eremias. S. Herrmann, TRE
XVI, 578 s., potrebbe anche propendere per questa opinione.
La teologia di Paolo

sito, Paolo ha definito civciyxYJ l'incarico ricevuto da Dio di predicare il


vangelo, 1 Cor. 9,16. Né gli è consentito sfuggire all'inesorabilità di tale
dovere. Proprio per questo è in grado di compierlo nonostante tutte le
afflizioni e i pericoli mortali che incontra. E Geremia, che vuole sfuggi-
re alla derisione e allo scherno, non riesce a rinunciare al proprio manda-
to; non appena lo fa, nel suo cuore comincia ad ardere un fuoco. Di con-
seguenza finisce per lasciarsi sedurre da Jahvé, che è al suo fianco come
un prode valoroso, Ger. 20,7 ss. 49
Che l'autocomprensione apostolica di Paolo avesse radici
anche nella sua comprensione del profetismo veterotestamen-
tario era già emerso a proposito di Gal. 1,15 s. Nella chiamata
di Isaia ad essere profeta, e precisamente profeta delle nazioni
(Is. 49,1.6), Paolo vide un evento che trovava compimento
messianico nella propria chiamata ad apostolo. Tuttavia, Gal.
1 non riguardava la situazione profetica che coinvolge l'intera
persona, espressa così bene in 2 Cor. 4. Ma se tale passo è e-
spressione di tutta l'ampiezza dell'autocomprensione aposto-
lica - non è un superamento metodologico illecito dei limiti,
se prendiamo in considerazione anche fattori psicologici-, al-
lora bisognerà vedere in stretta connessione reciproca l'esisten-
za di un Geremia e quella di un Paolo, vissute entrambe con la
fede nella propria chiamata, ossia con la fede nel Dio che chia-
ma. 2 Cor. 4,7 ss. è allora una spiegazione di Gal. 1, 1 5 s. che si
spinge fin dentro la sfera psichica. Si cadrebbe tuttavia in er-
rore se si concentrasse l'attenzione sul fattore psicologico più
evidente. La tensione interiore tra angustia e gioia è espressa
nella dialettica di croce e risurrezione. Chi parla del ministero
apostolico in termini teologici deve al contempo parlare anche
di cristologia soteriologicamente determinata. In tal caso, tut-
tavia, proprio nella propria tensione esistentiva tra peso oppri-
mente e fiducia liberante data dalla fede, dalla prospettiva pao-
lina l'esistenza profetica di Geremia andrà vista come preludio
all'esistenza apostolica. Ministero ed esistenza del profeta Ge-
remia erano dunque, agli occhi di Paolo, protoevangelici. O
49. Stupisce un po' che Karl Olav Sandnes, che cerca di ricavare l'autocomprensione
di Paolo proprio dall'autocomprensione profetica nell'Antico Testamento adducen-
do per questo persino Ger. 20 (Paul - One of the Prophets?, r 26 s.), in questo conte-
sto non faccia ricorso a 2 Cor. 4,7 ss.
Le lettere di Paolo 257
non bisogna piuttosto affermare che il ministero apostolico, in-
clusa la sua dimensione esistentiva, è compimento del ministe-
ro profetico, e dunque è il ministero profetico tout court? Nel-
la concezione di Paolo, allora, la profezia è in certo qual modo
anticipazione del vangelo, mentre il vangelo stesso è compi-
mento dell'annuncio profetico. 50
Sorprende la conclusione che al v. 12 Paolo trae da quanto ha affermato
immediatamente prima, cioè la distribuzione di morte e vita: morte nel-
l'apostolo, vita solamente(!) nei corinti. 51 Questa evidente esasperazio-
ne, tuttavia, si ha solamente ai fini dell'intento retorico. Ai corinti va
spiegato - ancora una volta e, ora, in questo modo - che, se sono consa-
pevoli di aver già la loro vita da Dio, lo devono a Paolo, che porta la
morte sul suo corpo. È per via di questa retorica che la dialettica del-
l'esistenza teologicamente ricavata in precedenza viene ora trasformata
in modo tanto singolare in una «dialettica» suddivisa in due parti.
Come prova scritturistica a favore della sua esistenza apostolica, il cui
compito principale consiste nell'annuncio del vangelo, al v. r 3 Paolo ci-
ta~ r 15,1: bticr-reucra, òiò ÈÀaÀYJcra. 52 Dunque qui una citazione scrittu-
ristica formale non dimostra tanto, come forse ci sarebbe da aspettarsi
in un tale contesto, l'esistenza dell'apostolo contraddistinta dalla croce,
quanto la relazione tra fede e annuncio. Il «noi» del v. r 3, che lì indica
solamente Paolo e si riferisce all'e:lòO-re:i:; del v. 14 come participium co-
niunctum, viene talmente ampliato in questo versetto da includere an-
che i corinti: essi sanno che il kerygma pasquale vale anche per loro. 53 Il
v. 1 5 tira le somme: tutto quello che sopportiamo lo facciamo per voi.
Scopo di tutto questo è che aumentino la grazia e il ringraziamento alla
gloria di Dio.
Ma con ~ 115, r l'esistenza apostolica è forse intesa soltanto come esi-
stenza che crede e dunque annuncia, come sembrava poco fa? Ecco ri-

50. Questa interpretazione crea delle difficoltà soltanto se con Christian Wolff, ]ere-
mia im Friihjudentttm ttnd Urchristentttm, si presume che Paolo non conoscesse il li-
bro di Geremia. Ma l'esegesi da noi condotta su r Cor. 1,18 ss. dovrebbe aver dimo-
strato che tale supposizione è infondata.
p. Wolff, ThHK, 93 s. Bultmann, KEK, 122, interpreta in modo teologico questa si-
tuazione di fatto retorica: ne risulterebbe accentuato il paradosso per cui la rivelazio-
ne della vita ha bisogno proprio della morte; inoltre, in questo modo diventerebbe
chiaro che la ~w~ nel corpo di Paolo non è una condizione di cui ci si possa accorge-
re; essa sarebbe presente solamente nell'annuncio.
52. È singolare la formula quotationis xa•à •Ò yqpa1J.p.Évov, che nel Nuovo Testa-
mento compare solo in questo passo.
53. Ciò che Paolo aveva esposto ai corinti in maniera argomentativa in 1 Cor. 1 5, ora
lo dà per ammesso.
La teologia di Paolo
emergere la questione relativa al contesto. Nell'originale ebraico,~ l 14
e ~ 1l5 costituiscono un'unità, ossia Sai. l 16. Paolo, che si basava sui
LXX, sapeva di tale unità? Ma guardiamo prima di tutto al solo conte-
sto di ~ l I 5. In Rom. 3,4 Paolo allude evidentemente al V. 2b: miç av-
·.9pwr.:oç ~e:ucr't'YJç. In questa proposizione è implicito il bisogno di reden-
zione proprio di ogni uomo, ossia, in linea con il pensiero teologico di
Paolo, la necessità della croce e dunque della parola della croce; ~ l l 5
può allora essere letto da Paolo come testimonianza «profetica» della
theologia crucis - questo prima ancora che venisse concepita la lettera ai
Romani. Inoltre il v. l b, ossia il seguito immediato di la, può essere con-
siderato espressione dell'esistenza apostolica oppressa dalle tribolazioni:
Èyw oÈ: har.:e:tvw.Sriv cri:poopa. Si parla persino della morte preziosa dci fe-
deli, v. 6: 'ttfJ-Wç Èvav'ttov xupiou 6 .Savawç 'twv 6cr[wv aÙ'tou. L'orante si
definisce poi servo di Dio, V. 7: Èyw oouÀoç croç. Si accenna anche alla lo-
de a Dio, vv. 8-ro: crol .Sucrw .Sucriav a1vfoe:wç x't"À. (v. 2 Cor. 4,15). È dun-
que estremamente probabile che Paolo, citando il v. la, avesse in mente
l'intero ~ II 5. Che tale salmo fosse noto alla comunità di Corinto dalla
liturgia? 54
Se Paolo avesse conosciuto l'unità originaria di Sai. l 16, allora~ l 14
(=Sai. l 16,1-9) sottolineerebbe in maniera molto accentuata la circo-
stanza appena enucleata. L'orante alza il suo grido al Signore in un mo-
mento di grande tribolazione. Il campo semantico del v. 3 è prettamente
paolino: r.:e:ptfoxov IJ.E: wotve:ç -.9ava'tou, xivouvot 4oou e:upocrav IJ.E: .{))..i~tV
xal òouvriv e:0pov. Il v. 6b non ha bisogno di commenti: È'ta1mvw-8riv, xal
fowcrÉv 1J.e:, e neppure il v. 8: o'tt È~dÀa'to 't~v ~ux~v IJ.ou Èx -8ava'to J, x't"À.
1

Poiché durante la liturgia, che si svolgeva in lingua greca, ~ l 14 e~ l l 5


nelle solennità venivano certo recitati l'uno dopo l'altro, Paolo dovreb-
be aver associato a ~ l l 5, l non soltanto ~ l l 5, ma eventualmente anche
~ 114. Qualunque sia qui il giudizio, comunque c'è da tener conto che,
contrariamente alla prima impressione fornita dalla lettura di 2 Cor.
4, l 3, citando ~ l l 5, l Paolo aveva presente anche le affermazioni del sal-
mo che potevano ben esprimere la misera situazione della sua esistenza
apostolica.
Ai fini del!' esposizione del pensiero teologico di Paolo, la pericope
4,16-18 non produce granché di nuovo. Solo l'antitesi di 2 Cor. 4,18, 'tà
~ÀrnofJ-e:va - 'tà f!-~ ~ÀrnofJ-e:va, tradisce qualcosa della sua comprensione
di realtà. Questa antitesi non è direttamente veterotestamentaria: per un
certo aspetto, la sua formulazione si avvicina anzi al pensiero di Platone.
54. In quanto giudeo, Paolo conosceva particolarmente bene questo salmo, uno dci
cosiddetti salmi dell'hallel che veniva cantato durante la festa di pasqua e in altre
grandi solennità. Di conseguenza, al v. 1a dovrebbe aver immediatamente associato
l'intero salmo. La stessa cosa si può supporre per parecchi altri membri della comuni-
tà, come ad es. Aquila e Priscilla (Atti 18,2), che erano ex-giudei, proseliti o forse an-
che solo timorati di Dio.
Le lettere di Paolo 259
Ma con questo non è che Paolo debba essere considerato un platonico,
anche se è probabile che, come Filone in particolare, abbia recepito il pen-
siero platonico in forma eclettica. Tutto sommato, però, l'antitesi del v.
18 è interpretabile in modo veterotestamentario: l'orientamento di Pao-
lo (rrxo7to 1.Jv-rwv -fi1J.wv) mira alla realtà di Dio, che è quella dell'eternità. 55
Anche 3, l l potrebbe appoggiare tale ipotesi: -rò p.Évov Èv ò01;-n. Infatti, il
vangelo e la giustificazione operata dal vangelo sono «ciò che è duratu-
ro». -rò iJ.Évov corrisponde però all'a1ù.ma di 4,18.
Il difficile passo di 2 Cor. 5,1-10 56 è controverso. Da come Io si inter-
preta dipende il tipo di risposta che si dà all'interrogativo riguardante un
eventuale sviluppo insito nel pensiero escatologico di Paolo. Le sue epi-
stole documentano una riflessione continua relativa al problema escato-
logico. Tuttavia, non si è avuto uno sviluppo dal pensiero apocalittico
(la parusia imminente) a quello greco ellenistico (l'anima che continua a
vivere nella cosiddetta condizione intermedia). Riguardo alla panorami-
ca teologica su 2 Cor. 4,7-7,4 sotto l'aspetto dell'esistenza apostolica di
Paolo, basti dire che in 5,1 ss. quello che gli preme, anche di fronte alle
tribolazioni e all'eventualità che queste comportano di morire ancora
prima della parusia di Cristo, è annunciare «la sua certezza di fede nel
dono di un corpo nuovo, incorruttibile». 57 Per la tematica riguardante
l'apostolato, è invece di peso notevolmente maggiore quanto egli affer-
ma a partire dal v. 14 sul rapporto tra soteriologia ed esistenza apostoli-
ca, o meglio sul rapporto tra riconciliazione e ministero di annuncio del-
la parola di riconciliazione.
2 Cor. 5,r4 s. esordisce affermando in modo lapidario che
uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Questa raffi-
gurazione teologica ideale del concetto di funzione vicaria ri-
correva già, anche se in un contesto teologico differente, in
Gal. 3,13 58 nonché in I Cor. 15,22. Alla base vi è il presuppo-
sto della corporate personality, che dal canto suo si fonda sul-
1' esistenziale della spazialità. Il concetto di espiazione, che sta
anch'esso alla base - e che nel quadro della concezione di cor-
55. <J; 89 rende bene questa autocomprensione. Il v. 2c riguarda Dio: x.aì à;:Ò >"ou aìùi-
voç Eùlç -rou a1ùivoç crÙ d, mentre il v. 3 riguarda la parola di Dio rivolta all'uomo: Èm-
cr>"pÉ<J;a-rE, u!oì àv"9pw;:wv. Il v. 5 disillude, soprattutto p: -rà i!;ouÒEvw1J.a-ra aù-rwv h"YJ
foonat - una dichiarazione addirittura «nichilista». Più di ottant'anni di vita non so-
no concessi all'uomo, v. 10, e la maggior parte di tali anni non è che x.67toç x.aì ;:ovoç.
56. Per una panoramica sulle varie interpretazioni cfr. Wolff, ThHK, 101 ss.; Hiibner,
Paulusforschung seit 1945, 2787 ss. 57. Wolff, ThHK, 105.
58. La questione della legge, trattata polemicamente in Gal. 3, non ha alcuna impor-
tanza in 2 Cor. 5.
260 La teologia di Paolo

parate personality diventa concetto di espiazione vicaria -, in


Rom. avrà un ruolo ancora più importante, e per questo verrà
trattato diffusamente più avanti. Qui ci occuperemo princi-
palmente di quella problematica teologica fondamentale pre-
sentata in particolare da 2 Cor. 5,18. Otfried Hofius le ha at-
tribuito una formulazione precisa con le espressioni «azione
di riconciliazione» (v. rSb: Dio ha compiuto l'atto di riconci-
liazione) e «parola di riconciliazione» (v. r Se: Dio ci ha affida-
to la diakonia della riconciliazione). 59 Come elaborare armo-
niosamente insieme questi due concetti? Ecco uno dei proble-
mi teologici probabilmente più ardui ma al tempo stesso più
importanti: quando siamo, o siamo stati, riconciliati con Dio?
Tale riconciliazione, ossia il fatto che Dio ha posto fine al no-
stro rapporto negativo con lui, 60 è avvenuta sulla croce, dun-
que nel passato del venerdì santo? Oppure Dio ci riconcilia
con lui nel momento in cui noi crediamo all'annuncio della ri-
conciliazione, e in questo modo permettiamo a Dio di riconci-
liarci con lui? La discussione attorno alla dottrina della ricon-
ciliazione di Karl Barth - il verdetto di assoluzione di Dio che
ci giustifica sarebbe stato emesso «a metà del tempo, come
evento centrale di tutta la storia umana», sulla croce 61 - mette
chiaramente in evidenza le difficoltà che incontra il teologo af-
frontando tale problematica.
Hofius le si accosta traendo come conseguenza dalla pre-
senza di Dio nel crocifisso 62 e dal suo agire in lui che la morte

59. Hofius, Erwagungen, 2; v. anche il suo saggio Gott hat unter uns aufgerichtet das
Wortvon der Versi:ihnung(2Kor 5,19). 60. Op. cit., 4. 61. Barth, KD 1v/1, 634.
62. Egli prende come punto di partenza .[)eòç ~v i:v Xptcr'l'cji: infatti, Dio in Cristo ha
riconciliato a sé il mondo .. ., op. cit., 2. Personalmente propendo per l'opinione di H.
Windisch, KEK, 193, e di Hofius, secondo i quali è poco probabile la presenza di una
coniugatio periphrastica. Windisch ha ragione quando - a prescindere dal fatto che
questo tipo di costruzione era inusuale in Paolo - fa osservare che essa di norma de-
scrive un'azione incompiuta. Tuttavia, vista l'espressione singolare wç o't't, con Blass-
Debrunner-Rehkopf § 3 53 n. 7, andrebbe presa seriamente in considerazione la tra-
duzione «come è certo che fu Dio a riconciliare a sé l'umanità in Cristo». Se tale tra-
duzione dovesse essere adeguata, se dunque xa't'o:ÀÀacrùJV va considerato un partici-
pium coniunctum, tuttavia l'interpretazione di Hofius per cui Dio era presente nel
crocifisso non ne risulterebbe affatto modificata. Nel suo saggio su 2 Cor. 5, 19, citato
prima, il suo giudizio è un po' più cauto (p. 19 n. 19).
Le lettere di Paolo 261

di Cristo non è stata lo strumento di riconciliazione, bensì il


suo compimento, «non semplicemente ciò che l'ha resa possi-
bile, ma la sua realizzazione». 63 Di fatto, la morte come mera
possibilità di riconciliazione costituisce una grave distorsione
del messaggio neotestamentario. Come dovrebbe aver dimo-
strato r Cor. l,18 ss., la soluzione è che l'annuncio della croce,
insieme alla croce, costituisce l'unico evento escatologico. La
soluzione proposta da Karl Barth, a mio avviso, comporta una
perdita di storicità per il credente che vive nella storia. D'altra
parte, il trasferimento unilaterale sull'annuncio - così come
compiuto da una rigida «ortodossia» bultmanniana che, frain-
tendendo lo stesso Bultmann, ignora il fatto storico della cro-
ce - comporta una perdita di sostanza cristologica.
Hofìus critica quegli esegeti che considerano una cosa sola la «parola di
riconciliazione» e il «ministero della riconciliazione», perché con Àoyoç
't'ijç xa'tetÀÀay'ijç bisogna intendere strettamente il vangelo. Ma il vange-
lo sarebbe la parola propria di Dio. 64 È innegabile che il vangelo sia pro-
prio questo. Ma la «diakonia della riconciliazione» consiste nell'annun-
ciare appunto questa parola, che è parola di Dio. È la coincidenza tra
parola apostolica e parola particolare di Dio a far diventare l'annuncio
un evento escatologico. Per dirla con Rudolf Bultmann: «L'evento di
salvezza è presente nella parola». 65 Tutto sommato, però, anche Hofìus
arriva molto vicino a questa concezione, quando nell'annuncio vede
presente Dio stesso, quando dichiara che l'autorivelazione del risorto si
ripete ogni volta in modo nuovo nell'annuncio autorizzato da Dio. 66 Il
confine concettuale così netto da lui tracciato tra parola di riconciliazio-
ne e ministero della riconciliazione non rende giustizia al pensiero com-
plessivo di allora di Paolo. L'apostolo, infatti, concepisce il ministero del-
la riconciliazione come concretum, come annuncio di riconciliazione nel-
lo svolgimento del ministero. Quando noi facciamo, o addirittura dob-
biamo fare, una distinzione concettuale, non sempre questo corrispon-
de all'intento teologico consapevole di allora.
La parola di riconciliazione di 2 Cor. 5, l 9, equivalente alla
parola della croce (r Cor. l,18) e al vangelo come potenza di
Dio in cui si rivela la giustizia di Dio (Rom. l,16 s.), è evento
escatologico di Dio che trasferisce nel presente l'evento sal-

63. Hofius, Erwagungen, 3. 64. Op. cit., 6 s.


65. Bultmann, Theol., 308 (tr. it. 292). 66. Hofius, op. cit., 7.
La teologia di Paolo

vifico della croce; quindi è ciò che costituisce la chiesa. Nella


sua predicazione apostolica, l'apostolo rende presente - nello
stretto senso di repraesentare - Dio e Cristo. Per dirla con le
parole di Josef Hainz, l'annuncio di Paolo è «il farsi presente
dell'opera di riconciliazione di Dio in Cristo»; nel suo mini-
stero e nella sua parola, Paolo rende presente sia Dio che Cri-
sto, «il loro agire viene rivelato per mezzo di lui e del suo an-
nuncio».67 In tal senso Hofius afferma giustamente:
«Poiché, per mezzo della parola predicata, all'uomo viene assegnato ciò
che nell'evento della croce gli è già stato donato, Paolo concepisce il do-
no della salvezza come 'rivelazione' della salvezza, e il ricevimento della
salvezza come 'conoscenza' della salvezza. I due concetti non definisco-
no affatto circostanze semplicemente noetiche - come se la parola an-
nunciata non fosse altro che un'informazione formale riguardante l'a-
zione di riconciliazione di Dio ... La 'rivelazione' dell'azione di riconci-
liazione è piuttosto, in quanto tale, una 'conoscenza' dell'evento ope-
rante, e la 'conoscenza' stessa è l'orientamento a Dio, il riconciliatore,
che condiziona tutta la vita. Nella parola annunciata, Dio stesso disvcla
all'uomo ciò che egli ha aggiunto 'in Cristo' alla sua salvezza e ciò che
lui, l'uomo, è in base a questa azione 'in Cristo' ... La riconciliazione
non avviene in questo autorivelarsi di Dio nella parola, ma qui essa si fa
manifcsta». 68

La repraesentatio dell'evento della croce mediante l'evento


della parola è, per la teologia paolina, l'idea teologica fonda-
mentale in assoluto; riguarda per così dire l'incarnazione nel-
l'apostolo della giustizia di Dio incarnata in Cristo: xa.'ta.À-
Àa.y~, la riconciliazione degli uomini, si ha laddove il Logos
della riconciliazione viene pronunciato con l'autorità di Dio
nell'espletamento del ministero della riconciliazione, e viene
accolto con fede. Ogni altra cosa non è che spiegazione. Paolo
stesso riassume quest'idea soteriologico-cristologica, per lui
nodale, in 2 Cor. 5,2 I, un'idea che certamente non può essere
disgiunta dal suo contesto kerygmatico-ecclesiologico: «Colui
infatti che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da pec-
cato in nostro favore, perché noi diventassimo in lui giustizia
di Dio».

67. Hainz, Ekklesia, 277. 68. Hofìus, Erwagungen, 8.


Le lettere di Paolo

Per questo dato teologico Hofius rimanda con pieno diritto teologico a
quanto afferma Martin Lutero a proposito dello scambio. 69 Paul Al-
thaus ha così parafrasato e commentato Lutero: «La fede dice a Cristo:
il mio peccato è su di te, a me appartengono la tua innocenza e la tua
giustizia. Questo felice scambio si attua solamente per mezzo della fe-
de ... La fede è dunque una parte della riconciliazione stessa». 70 È ovvio
che l'ultima frase non va intesa in senso sinergetico. La riconciliazione,
infatti, è sempre riconciliazione compresa nella fede. È rivelazione di
Dio giunta al suo scopo. Rivelazione di Dio in Cristo è, come si è visto,
rivelazione capita, compresa, nella fede. Dove il Dio che riconcilia si ma-
nifesta ed è creduto, là si è avuta riconciliazione. Allora Lutero ha com-
preso in modo eccellente Paolo. E che il riformatore, nonostante l'orien-
tamento tutto personale della sua teologia, non pensasse la propria teo-
logia in termini individualistici, lo dimostra anche il fatto che alla sua teo-
logia dello scambio ne corrisponde un'altra: non soltanto il peccato e la
giustizia si scambiano di posto, ma sulla loro scia anche la morte e la vita:
Fu una guerra prodigiosa, quella che combatterono la morte e la vita;
la vita conseguì la vittoria, inghiottì la morte.
La Scrittura lo ha annunciato, come una morte divorò l'altra
la morte si trasformò in scherno. Alleluia. 71
Lo sfondo veterotestamentario di 2 Cor. 5, l 8 ss. è stato ancora una vol-
ta enucleato da Otfried Hofìus, del quale riprendiamo qui in gran parte
la documentazione. 72 Egli rimanda principalmente a Is. 52,13-53,12, e
precisamente in connessione con Is. 52,6-ro. Si avvicina così anche alla
nostra opinione, secondo la quale Paolo proprio nel periodo immedia-
tamente precedente la stesura di Rom. - e cioè mentre sta scrivendo 2
Cor. - riprende in mano il libro di Isaia. 73 Per cui non c'è da meravigliar-
si se per 2 Cor. 5, l 8 ss. Hofius può dimostrare l'influsso di Is. Egli ha
giustamente richiamato l'attenzione sul susseguirsi di azione e parola di
riconciliazione, sia nel v. l 8 sia nel v. l 9. 74
Ora, se si leggono Is. 52,6-10 e Is. 52,13-53,12 con gli occhi di Paolo,

69. In op. cit., 5 n. 4, cita WA 31/n, 435>11 e 40/1, 443,23. Ricorderemo qui il primo
dei passi riportati: «Vide mirabilem mutationem. Alius peccat, alius satisfacit. Alteri
debetur pax, et alius habet eam».
70. Althaus, Die Theol. Martin Luthers, 187.
71. Quarta strofa dell'inno luterano Christ lag in Todesbanden (Evangelisches Ge-
sangbuch n. IO!). 72. Hofius, Erwdgungen, 9 ss.
73. V. i paragrafi successivi riguardanti Rom. 9-11, nonché Hiibner, Gottes Ich und
lsrael, spec. 112 ss.
74. Qui si infrange, a mio parere, anche l'opposizione a Hofius da parte di Breyten-
bach, Versohnung, 110 ss. Nel cambio da aùi:oiç a Èv 1J1J.iv nel v. 19 Breytenbach può
certo scorgere un forte indizio per ipotizzare una tradizione prepaolina nel v. 19ab. Ta-
le tradizione, tuttavia, non intacca l'intento fondamentale di Hofius.
La teologia di Paolo

non si individueranno due pericopi diverse, ben distinte l'una dall'altra.


Al contrario, Paolo dovrebbe aver letto i due capitoli come un tutto
collegato. Per cui in 52,7 ha letto il passo sui piedi di colui che porta
l'annuncio della pace e il bene come vangelo (compare due volte il par-
ticipio di e:òayye:Ài~e:cr..9a~). Ma qui Dio parla di se stesso; dunque in Is.
52 è della parola propria di Dio che si parla, e tale parola è il vangelo. Di
se stesso Dio afferma: «Io annuncio la tua salvezza, 't~v crW'tYjptav crou».
Non c'è bisogno di spiegare che Paolo intendeva questa come una paro-
la di riconciliazione (2 Cor. s,r 9).7! Ed è evidente, dopo tutto ciò che è
già stato detto a proposito della sua comprensione di Is. 53, che nel
quarto canto del servo di Dio egli vedesse l'annuncio profetico della ri-
conciliazione in Cristo. 76 Hofius richiama l'attenzione anche su Is. 44,
22, in cui il pressante invito alla conversione è sostenuto totalmente dal-
la promessa di salvezza. 77 Uno stretto parallelo oggettivo di 2 Cor. 5,20
è presente in Is. 45,22, versetto collocato immediatamente prima dcl
passo che costituisce lo sfondo veterotestamentario dell'inno cristologi-
co di Fil. 2. 78
È estremamente significativo che subito dopo 2 Cor. 5,18-21, in 6,2,
Paolo inserisca una citazione tratta da Isaia, ossia Is. 49,8: «Al momento
favorevole ti ho esaudito, e nel giorno della salvezza, Èv 1](J.ÉpCf crw't·f]-
piaç, ti ho soccorso». Questo giorno della salvezza è adesso. 79 Malgrado
tutte le tribolazioni, che stando all'elenco di situazioni avverse di 6,4-10
fanno parte dell'esistenza apostolica, Paolo può parlare di momento fa-
vorevole, xa~pqi Òe:x'tqi.

Concludendo, dietro le affermazioni sulla teologia della ri-


conciliazione di 2 Cor. 5, I 8 ss. vi sono le affermazioni tratte
da Is. 52 e 53 sulla predicazione evangelica del vangelo e, in
stretta connessione, sull'agire riconciliante di Dio nel servo di
Dio. Ancora una volta l'aspetto soteriologico e quello keryg-
matico sono intimamente collegati. La salvezza però, come ri-
badisce Paolo anche in questa pericope, è la creazione nuova.

75. Poco tempo dopo, in Rom. 1,16 definirà l'eùayyÉÀtov òuva1i1ç ·9eou dç crw1..ripiav.
Di O'W't'YJpta (anche 'tÒ O'W't~ptov) si parla nel Deutero- e nel Trito-Isaia.
76. Hofius, Erwagungen, 11 s., ha enucleato i paralleli tra ls. 52,13-53,12 e 2 Cor. 5.
Anche Breytenbach, Versiihnung, 204 ss., individua chiaramente tale sfondo vetero-
testamentario, benché le conclusioni che trae siano differenti.
77 Hofius, Erwagungen, 13.
78. Qui non è il caso di approfondire la controversia tra Hofius, 2 Kor 5,19, 23 ss., e
Wolter, Rechtfertigung und zukunftiges Heil, 82 s., relativa a lji 104,23 ss. e lji 77,3 ss.
79. In Paolo, dunque, il termine crWTYJpta può avere significato sia presente che futuro
(Rom. 13,11).
Le lettere di Paolo
Per 2 Cor. 5,17, essa è costituita da colui che esiste «in Cri-
sto». Per 5,21, «in Cristo» noi siamo giustizia di Dio. 80 L'agire
salvifico riconciliante di Dio è dunque il suo agire escatologi-
co nella creazione. Poco dopo, in Rom. 4,17 egli esprimerà in
termini teologici la risurrezione di Cristo e la giustificazione
degli empi nel quadro del midrash di Abramo a partire dalla
creatio e nihilo: colui che è stato giustificato per fede è colui
che è stato creato dal nulla. L'uomo vecchio, infatti, morendo
nella morte di Cristo è diventato un nulla! Per dirla in termini
paradossali, consegnando l'indegno alla conseguenza estrema
del nichilismo - che per Friedrich Nietzsche è il più sinistro
fra tutti gli ospiti 81 - Dio lo ha contemporaneamente strappa-
to al nulla donandogli una vita nuova, che ricomincia da capo.
Nova creatio est vera creatio!

e) La lettera ai Romani
Il problema della lettera ai Romani
Riguardo a Rom., 1 molte cose importanti sono già state dette in ma-
niera implicita, dato che alcuni dei principali contenuti della teologia di
questa lettera, le sue basi veterotestamentarie di rilievo, i presupposti idea-
li fondamentali nonché l'ermeneutica di tale riflessione teologica sono
stati illustrati nella presentazione della concezione teologica di Gal. Tut-
tavia resta ancora da chiarire come ora, all'interno di un nuovo sistema
teologico di coordinate, si sviluppi la riflessione di Paolo sull'annuncio
della giustificazione da lui sostenuto. Gli aspetti di cui tener conto sono
sostanzialmente due:
1. Quali sono i retroscena storici che hanno spinto Paolo a modificare
la sua teologia della giustificazione, pur mantenendo inalterato il proprio
annuncio della giustificazione? Qui però ci ritroviamo in un - inevitabi-
le- circolo vizioso, dal momento che, per quanto possibile, possiamo get-
tare una luce su tali retroscena solo evidenziando le affermazioni teolo-
giche di Rom. e ponendole a confronto con quelle di lettere paoline pre-
8.o. èv XpLcr't'tj'J di 2 Cor. 5,17 e èv aÙ't'tj'J di 5,21 sono delle inclusio all'interno della pe-
ricope 5,17-21.
81. Nietzsche, Werke m, 881 (tr. it. in Opere di F.N., vm/1. Frammenti postumi
1885-1887, Milano 1975, 112).
I. Rimandiamo in particolare alla raccolta edita da Karl P. Donfried, The Romans
Debate, e a Wedderburn, The Reasons for Romans; v. anche Lampe, Die stadtromi-
schen Christen.
La teologia di Paolo

cedenti, soprattutto di Gal. Pertanto, alcuni dei risultati cruciali per la


problematica in questione sono di tipo ipotetico; in fondo, essi debbo-
no la loro probabilità e attendibilità alla mancanza di contraddizione ri-
scontrabile nella ricostruzione da noi azzardata. Dunque non è proprio
possibile evitare le ipotesi e le ricostruzioni storiche. Chi intenda conte-
stare l'ipotesi di fondo che presentiamo qui di seguito, dovrà offrire una
ricostruzione diversa - ma pur sempre di ricostruzione si tratta. Sarà poi
da vedere se la sua apparirà più «naturale» e disinvolta della nostra. Il
fatto è che nessuno è in grado di abbandonare il pensiero circolare di co-
noscenza letteraria e storica. Gli Atti degli Apostoli forniscono infor-
mazioni troppo scarse riguardanti la questione in oggetto per pensare di
trovarsi su terreno sicuro: si tratta pur sempre di un testo redatto una
generazione dopo le lettere paoline autentiche. Non è una fonte per
Paolo; al contrario, non solo c'è da chiedersi su quali fonti essi si basino,
ma anche da ricostruire - per l'appunto - tali fonti. 2
2. Cosa c'è di teologicamente nuovo in Rom. rispetto a quanto Paolo
ha scritto precedentemente in altre lettere, in particolare in Gal.? Vi so-
no concetti chiave teologici grazie ai quali egli possa ripensare in manie-
ra più approfondita affermazioni precedenti, modificandole nel conte-
nuto e collocandole in contesti nuovi? Tali modifiche potrebbero impli-
care anche la contraddizione con quanto affermato in precedenza? Quan-
to vi è di nuovo, e che è espresso con tanta chiarezza in Rom., è forse
dovuto alla retorica di Paolo?
La ricerca si è ripetutamente chiesta come spiegare le differenze tra le
affermazioni riguardanti la legge mosaica, perlopiù negative in Gal., e
quelle molto più positive in Rom. Sino a pochi decenni fa era largamen-
te opinio communis che fosse stata la situazione diversa in cui si trova-
vano i destinatari, rispettivamente in Galazia e a Roma, a indurre Paolo
a trattare da una prospettiva differente l'argomento teologico della leg-
ge. Al contrario, John W. Drane 3 e io stesso 4 abbiamo sostenuto con
motivazioni in parte diverse - Drane sottolinea maggiormente gli aspet-
ti pratici - l'ipotesi di uno sviluppo teologico della comprensione paolina
della legge, ipotesi presentata già nel secolo scorso per un certo periodo
da Albrecht Ritschl. 5 Questa interpretazione è stata accettata, perlome-
2. Un interessante tentativo in tal senso è stato fatto di recente da Gerd Liidemann,
Das fruhe Christentum nach den Traditionen der Apg. La sua opera procede per gra-
di: 1. struttura, 2. redazione, 3. tradizioni, 4. aspetti storici. Si potrà forse ribattere che
a volte lo schema è utilizzato in modo eccessivamente rigido, ma questo significhe-
rebbe discutere con l'autore i singoli casi. In linea di massima, tuttavia, la problemati-
ca è commisurata a tale compito. Quanto proprio lo studio dei testi di Atti necessiti
della verifica o meglio della falsificazione mediante le fonti, ossia le lettere paoline au-
tentiche, emerge già dal capitolo «Aspetti storici» su Atti 21,1-36, op. cit., 244 s.
3. Drane, Paul: Libertine or Legalist? 4. Hiibner, La legge in Paolo.
5. A questo riguardo cfr. op. cit., 17 s.
Le lettere di Paolo
no nei suoi elementi essenziali, da un gran numero di studiosi, 6 ma in par-
te è stata anche energicamente rifiutata, in particolare da Heikki Raisa-
nen, per il quale ci sarebbero contraddizioni non soltanto tra le varie epi-
stole di Paolo, ma anche all'interno delle singole lettere. Proprio a causa
delle sue molte incoerenze, se non addirittura contraddizioni, Paolo
non sarebbe poi quel gran teologo per cui di norma lo si vorrebbe far
passare. 7
Ora, c'è da chiedersi se le teorie citate sono necessariamente in con-
traddizione le une con le altre. Infatti, le differenti situazioni sia dei de-
stinatari sia della vita di Paolo potrebbero essere responsabili delle con-
cezioni diverse in ciascuna lettera nonché dello sviluppo teologico del-
l'apostolo. Spiegazioni di tipo monocausale perlopiù semplificano. Di
vero in Raisanen vi è indubbiamente che Paolo era in primo luogo apo-
stolo, missionario. Certamente non era uno al quale premesse fare innan-
zitutto della teologia, sviluppare una riflessione teologica fine a se stes-
sa. Ma, come è emerso di continuo nella nostra analisi, ha riflettuto in
modo teologico sul suo mandato apostolico e missionario, e questo svol-
gendo un'attività apostolica che lo appagava in tutto e per tutto. Ecco la
grandezza di quest'uomo: è spiritualmente agile. La sua riflessione teo-
logica forma un processo ininterrotto. A chi come Paolo non ha il tem-
po e l'agio di elaborare un'opera teologica punto per punto, sistematica-
mente, come un docente di teologia, ma anzi deve dar prova della pro-
pria esistenza teologica nell'accavallarsi delle sue molte attività (v. 2 Cor.
11,23 ss.), si potranno certamente perdonare alcune inconsistenze. Co-
munque, quanto Paolo presenta nelle sue lettere come progetto teologi-
co ogni volta nuovo -forse veramente come pro-getto - è contraddistin-
to da consistenze fondamentali sempre nuove. E queste, come si è già vi-
sto nelle lettere di Paolo sin qui esaminate, danno prova di essere senz'al-
tro concordanti. Occorre essere cauti. Paolo, infatti, sa procedere anche

6. Ad es. da Wilckens, A.T. Hanson, Bcst; nel senso modificato Schnelle.


7. Raisanen, Paul and the Law, 266 s.: «È un errore fondamentale di gran parte del-
l'esegesi paolina di questo secolo l'aver ritratto Paolo come il 'principe dei pensatori'
e il 'teologo' cristiano 'per eccellenza'. Paolo, infatti, era un pensatore originale e fan-
tasioso, e le sue lettere sono piene di intuizioni in germe e di proposte che inducono a
pensare. Tuttavia, egli è prima di tutto un missionario, un uomo di religione pratica,
che sviluppa una linea di pensiero per raggiungere un punto pratico, cioè influenzare
la condotta dei suoi lettori; il momento dopo è perfettamente capace di fare una di-
chiarazione che per logica contraddice quella precedente nel cercare di raggiungere
un punto diverso, o piuttosto di lottare con un problema differente»; op. cit., 268:
«Nel suo sforzo di definire cos'è la legge, tutto in Paolo finisce per contraddire se
stesso. Quel che è peggio, dà una visione distorta della religione ebraica che, contra-
riamente senz'altro alle intenzioni di Paolo, ha avuto una sua parte nella storia tragica
degli ebrei alla mercé dei cristiani». Riguardo alla monografia di Raisanen v. la mia
recensione in ThLZ 110 (1985) 894-896.
La teologia di Paolo
con astuzia retorica. Grazie alla sua abilità retorica, a volte attira i suoi
lettori su sentieri strani, sorprendenti; dapprima li confonde, e poi mo-
stra loro all'improvviso dove intendeva condurli veramente con le sue
argomentazioni. Persino gli esegeti, se non ne intuiscono la strategia re-
torica, possono lasciarsi fuorviare da lui.
Il compito di classificare Rom. in maniera retorica si presenta più ar-
duo rispetto a Gal. L'opera da pioniere di Hans Dieter Betz è consistita
nell'aver dimostrato la necessità dell'analisi retorica in Gal. È perciò op-
portuno richiamare ancora una volta alla mente la sua definizione di
Gal. come lettera apologetica, visto che la lettera ai Romani deve essere
considerata in misura ancora maggiore una lettera apologetica. Che al-
l'epoca della sua stesura Paolo si trovi in una posizione vulnerabile emer-
ge anche solo da Rom. I 5,2 5 ss. Egli si vede costretto a portare personal-
mente la colletta a Gerusalemme. Teme infatti che essa non risulti «bene
accetta», e:ùr.pocròe:xwç, ai santi della città, r 5'3 r. Questo termine potreb-
be essere un eufemismo: Paolo teme che la sua colletta possa essere ri-
fiutata. E sa anche perché. Sa di essere andato troppo oltre quando, nel-
la narratio di Gal., aveva attribuito alle autorità di Gerusalemme la sua
teologia di critica alla legge, che aveva esposto nella argumentatio, fa-
cendone in pratica dei testimoni di questa concezione antinomistica.
Nell'intervallo di tempo che intercorre tra l'accordo per la colletta pre-
so al sinodo della missione ai pagani, Gal. 2,10, e il previsto momento di
consegna della colletta, tra Paolo e la comunità di Gerusalemme si era
creata profonda discordia in seguito a vari fatti: lo scalpore suscitato dal
factum Antiochenum; l'infelice lettera ai Galati, che documenta quanto
Paolo si fosse illuso su ciò che pensava di aver ottenuto al sinodo; la
probabile diffusione della lettera a Gerusalemme; le distanze che in se-
guito a ciò furono presumibilmente prese nei confronti di Paolo da par-
te di Giacomo e di altri personaggi autorevoli di Gerusalemme, forse an-
che soltanto per riuscire a vivere in una Gerusalemme inquieta come
minoranza giudeocristiana in mezzo alla maggioranza di giudei. Di fat-
to, dopo questa serie di gravi dissensi Paolo doveva temere di essere re-
spinto, lui e la sua colletta.
Tutto dipende da come Paolo giudicava l'eventuale rottura
dell'unità della chiesa. Ma a questo riguardo Rom. fornisce una
chiara risposta: Israele appartiene in modo tanto costitutivo
alla chiesa di Gesù Cristo, che alla fine dei giorni giungerà a
Cristo addirittura nella sua interezza, Rom. r r,26. Per questo
nella colletta Paolo scorge un segno del legame spirituale che
unisce le comunità etnicocristiane e quella giudeocristiana di
Gerusalemme. In essa vede inoltre l'espressione di una grati-
tudine che si sente in obbligo per i doni spirituali che gli etni-
Le lettere di Paolo

cocristiani hanno ricevuto dai gerosolimitani. I popoli pagani


hanno partecipato ai beni spirituali di Gerusalemme, 'toi'ç r.ve:u-
f.1-Ct.'tixoi'ç aÙ'twv Èxoivwvricrav 'tà Wvri, e quindi sono tenuti a
una colletta che consiste in beni «carnali», òcpdÀoucriv xal èv
'toi'ç crapxixoi'ç Àe:i'toupy-Yjcrai 8 aÙ'toi'ç, 15,27.
Ma questo modo di vedere Gerusalemme è inconciliabile
con l'idea delle due Gerusalemme di Gal. 4,21 ss. Questo pas-
so, e ancora prima già I Tess. 2,14 ss., vede la città in tutt'altra
luce. Nel tempo intercorso tra la stesura di Gal. e quella di
Rom., Paolo deve aver riflettuto in modo nuovo su Israele. Né
in I Tess. né in Gal. la concezione teologica di Gerusalemme
che compare in Rom. r 5 avrebbe un luogo teologico. Ancora,
né in I Tess. né in Gal. Paolo avrebbe potuto esprimere il mi-
stero di Rom. r r ,2 5 s. senza contraddirsi sostanzialmente. In
altre parole, in Rom. Paolo ha una comprensione di sé in quan-
to giudeo differente da quella di I Tess. e di Gal. Per quel che
riguarda il suo essere giudeo, dunque, l'autocomprensione di
Paolo è sensibilmente mutata. Qui, però, non ci troviamo cer-
to davanti a un risultato ottenuto per via ipotetica, bensì davan-
ti al dato di fatto di un disaccordo quasi contraddittorio tra I
Tess. e Gal. da una parte, e Rom. dall'altra, un disaccordo, in-
somma, che è possibile cogliere dal punto di vista letterario.
Tuttavia, con questo tentativo di ricostruzione ipotetica della situazione
in cui si trovava Paolo al momento di scrivere ai romani, ancora non si
spiega perché egli scriva la lettera a Roma come se la scrivesse a Gerusa-
lemme.9 Ancora una volta siamo costretti a procedere per ipotesi. Ov-
viamente è spiacevole spiegare una situazione già ricostruita in via ipo-
tetica ricorrendo a un'ulteriore ipotesi. Tuttavia, quando si tenta di raf-
figurarsi situazioni storiche, specialmente a fronte della condizione di-
sastrosa delle fonti nell'antichità, è indispensabile dover procedere in que-
sto modo. Inoltre, c'è da valutare ogni volta in modo nuovo il peso dei
singoli fatti e ipotesi che vengono accostati per formare un quadro d'in-
• IO
s1eme.
Il quadro storico che si è delineato sulla base delle considerazioni ri-
guardanti Rom. r 5 fornisce forse una prima indicazione per l'interroga-
8. Espressione cultuale. 9. V. tra gli altri Jervell, The Letter to jerusalem.
10. Perciò non basta rimproverare a una ricostruzione globale di essere nata sulla base
di troppe ipotesi. Dipende sempre dal tipo di ipotesi, in altre parole: dal grado ipote-
tico, o meglio, dal grado di probabilità, che le singole ipotesi posseggono.
La teologia di Paolo

tivo posto: in Rom. r 5 Gerusalemme è nominata tre volte, la Giudea una


sola. Certo, questo dipende anche dal fatto che Paolo sta esponendo i
propri progetti di viaggio. Si può però presumere che dietro si celi qual-
cosa di più. Innanzitutto c'è da chiedersi se i cristiani di Roma fossero
in rapporto con la comunità primitiva di Gerusalemme. È un'ipotesi più
che probabile, come emerge anche solo dal fatto che l'emanazione del-
!' editto di Claudio (nel 49 ?), " con il quale (i) giudei venivano espulsi da
Roma a causa dei loro tumulti impulsore Chresto," colpì anche i giu-
deocristiani di Roma. In Atti r 8,2 si narra che Aquila e Priscilla giunsero
a Corinto in seguito a tale editto. 13 Dunque, già prima dell'editto a Ro-
ma vivevano dei giudeocristiani, benché non si possa affermare con cer-
tezza se dentro o fuori dall'ambiente sinagogale. Ma se i tumulti tra i
giudei di cui narra Svetonio dovessero riferirsi a scontri aventi per og-
getto Cristo, come generalmente si suppone, allora questo potrebbe sta-
re ad indicare che, di fatto, i giudeocristiani continuarono a considerarsi
inseriti all'interno della società sinagogale. E ciò significa senz'altro che
ritenevano il loro cristianesimo un giudaismo compiuto in senso messia-
nico. Dunque si può presumere che tra la comunità di Gerusalemme e le
sinagoghe di Roma vi fossero legami fin dal momento in cui nella città
vennero ad abitare per la prima volta dei cristiani; i giudeocristiani di
Roma, infatti, ovunque possano essersi convertiti, potevano richiamarsi
alla missione giudeocristiana partita da Gerusalemme (Gal. 2,9; 1 Cor.
9,4). Ma se in seguito all'editto di Claudio i giudeocristiani si recarono
in Oriente, e se alla revoca di tale editto gran parte di loro fece ritorno a
Roma - magari come Aquila e Priscilla, ora sotto l'influenza teologica di
Paolo -, allora non è difficile immaginare che tra i cristiani di Roma la
situazione fosse proprio come ce la descrive Rom. r 4 s. 14 Al tempo stes-
so, però, c'è da ritenere probabile che Paolo si sentisse particolarmente
legato a quelli che, a Roma, diffondevano la sua visione etnicocristiana
della chiesa, e per questo motivo entravano in conflitto sia con giudeo-
cristiani che forse non avevano lasciato la città sia con quanti, dopo l' e-
spulsione e il ritorno, erano rimasti giudeocristiani nel senso originario
del termine. Paolo, dunque, si sarebbe trovato in una situazione in cui,
pur dando teologicamente ragione ai propri sostenitori, cercava di te-
nerli a freno quanto a zelo teologico, nello Spirito di quella tolleranza

l l. Qui non c'è bisogno di dilungarsi nella discussa questione della datazione.
12. Svetonio, Claud. 25. Qui può anche rimanere in sospeso la questione se proprio
tutti i giudei (a mio parere supposizione poco realistica) siano stati espulsi da Roma.
l 3. Atti l 8,2 ne parla come di giudei, ma che in realtà fossero giudeocristiani è fuor di
dubbio, v. ad es. H. Conzelmann, HNT 7, l 14. Che essi al tempo della stesura di Rom.
si trovassero o meno nuovamente a Roma (Rom. 16,3) è questione che riguarda i
gravi problemi di critica letteraria di Rom. 16, problemi che non vanno trattati qui.
14. In tal senso v. ad es. Marxsen, Einleitung in das NT, l 13 ss.
Le lettere di Paolo

che aveva già trovato espressione in I Cor. 8. A loro adesso doveva spie-
gare che pur avendo approfondito ulteriormente la questione Israele,
tuttavia non toglieva sostanzialmente nulla alla libertà dalla legge. 1 5 Si
può seriamente ipotizzare una situazione di questo tipo: i giudeocristia-
ni che avevano abbracciato le idee di Paolo fanno ritorno a Roma, ma
hanno prima appreso dall'apostolo ciò che quest'ultimo affermava in I
Tess. e in Gal. a proposito della questione Israele; ora, a Roma, di fron-
te a giudeocristiani originari sono queste le idee che essi sostengono. È
evidente che ciò avrebbe provocato discussioni accesissime. E va da sé
che ora, a Roma, contro Paolo vengono mosse accuse simili a quelle pro-
venienti da Gerusalemme, forse persino altrettanto dure: egli disprezza
il proprio giudaismo parlandone male, rinnega la propria appartenenza
a Israele. Di fronte a tali accuse, è forse opportuno ritenere che il di-
scorso relativo ai 7tw:up.a't'txa che i poveri dei santi avrebbero concesso
agli etnicocristiani, Rom. r 5,27, miri a un obiettivo preciso: Paolo inten-
de raccomandare a coloro che hanno abbracciato le sue idee l'importan-
za religiosa di Gerusalemme, ma al tempo stesso vuole placare i suoi av-
versari. Dunque, quanto Paolo afferma nel cap. r 5 a proposito dell'im-
portanza teologica della metropoli giudaica può essere inteso benissimo
come apologia e al tempo stesso come revisione di affermazioni prece-
denti. Tuttavia occorre anche registrare che Paolo non presenta questa
revisione come tale. Ora parla dell'alta dignità teologica e religiosa di Ge-
rusalemme come se non avesse mai affermato nulla di diverso. Rom. r 5
è indubbiamente una retractatio, ma dal punto di vista contenutistico,
non certo formale.
Come già accennato, questa retractatio va compresa alla lu-
ce di Rom. 9- 1 1: è con Gerusalemme che gli etnicocristiani so-
no debitori di doni spirituali - ed è proprio il popolo di que-
sta città che alla fine dei giorni sarà salvato da Dio. Quanto si
afferma nella conclusione, al cap. 1 5, ed ha fondamento teolo-
gico nei capp. 9-11, viene già dichiarato programmaticamente
nel titolo teologico della lettera: la salvezza, la crw-rripla, è per
il giudeo prima, e soltanto poi per il «greco», Rom. 1,16. È evi-
dente il chiasmo «storico-salvifico»: Rom. 1,16 presenta la suc-
cessione «giudeo - greco», Rom. 9-11 invece «pagani - Israe-
le». La tematica d'Israele fa dunque da cornice alla lettera.
Eppure sarebbe un disconoscere l'intento teologico di Rom.

1 5. Se si considera la situazione da questa prospettiva, allora la «sospetta clausola di


non ingerenza» (G. Klein, Der Abfassungszweck des Rom, 139) non è assolutamente
più tanto in contrasto con Rom. r, r 5.
La teologia di Paolo

il voler considerare tale cornice il suo tema teologico vero e


proprio. Israele, infatti, nell'intenzione teologica di Paolo può
essere tematizzato soltanto se questo avviene a partire dal te-
ma principale della teologia della giustificazione. La priorità
cronologica del giudeo in 1,16, che comunque viene capovolta
in Rom. 9- 1 1, concretamente non significa affatto che la sua
giustificazione possa vantare una maggiore qualità rispetto a
quella del «greco». Anzi, la giustificazione di entrambi ha pari
valore. Dunque di Israele si può parlare solo se oggetto della
discussione teologica diventa il tema teologico vero e proprio,
ossia la giustizia di Dio, oixawcruvri .{).e:ou. E proprio di tale
giustizia si parla in 1, 16 s. con un'espressione insolitamente
densa che la associa al vangelo, alla salvezza o salvazione, crw-
't"'f]pta, e alla fede, 7ttcr't"iç, e questo sullo sfondo della prova
scritturistica fornita da Ab. 2,4. Per dirla con Hans Conzel-
mann, in Rom. 1,16 s. «si trova il nucleo condensato dell'inte-
ra la teologia di Paolo»,1 6 che necessita perciò di un'interpre-
tazione approfondita. Avendo appena studiato 1 Cor. non stu-
pisce che l'e:ùayyÉÀwv sia presentato come ouvap.iç .{).e:ou dç
crW't"r]ptav. Infatti, secondo 1 Cor. 1 la theologia crucis è fonda-
mentalmente theologia verbi crucis. Come questo pensiero vie-
ne marcatamente espresso all'inizio di 1 Cor., così anche all'i-
nizio di Rom.
Il titolo teologico di Rom. in 1, 16 s., tuttavia, non presenta
un concetto fondamentale, costitutivo dell'argomentazione
teologica della lettera, ossia quello della legge, v6µ.oç. Né lo si
incontra in Rom. 1, 1-15. Ma nel prescritto si parla del vangelo
in modo tale da metterne in luce il f andamento cristologico
partendo dal «pro-ep-angelium» (tutto sommato una specie di
o
«pro-ev-angelium» ), 1,2: 7tpOE:7tr]')'')'e:iÀa't"o oià 't"WV 7tp0qlr]'t"WV
aÙ't"ou Èv ypac:pai'ç ày[aiç. 17 Dunque Paolo, riprendendo una

16. Conzelmann, Theologie des Neuen Testaments, 223 (tr. it. 265).
17. Van der Minde, Schrift und Tradition bei Paulus, 45, nella promessa del vangelo
di Dio per mezzo delle Scritture veterotestamentarie vede concretamente la promessa
del Figlio; nel versetto in esame, tuttavia, si evidenzierebbe anche che «nonostante il
termine generico 'evangelo' l'Antico Testamento non si identifica con il vangelo. La
Scrittura parla del vangelo solamente in termini di 'preannuncio' e di 'promessa'».
Le lettere di Paolo 2 73

formula cristologica della sua tradizione e interpretandola, 18 si


richiama alla Scrittura, di cui si avvale a favore del vangelo ba-
sandosi non tanto sulla legge quanto sui profeti. 19 E con l' e-
spressione Èx cr7tÉpµa't"oç fiau{ò del v. 3 viene sottolineata l'esi-
stenza giudaica di Gesù, certo guardando ai membri giudeo-
cristiani della comunità di Roma. Questa dovrebbe conferire
peso teologico allo 'Iouòalq.i 7tpw't"ov del v. 16. Ma allora colpi-
sce ancor più che v6p.oç, termine portante per la discussione
teologica sulla giustificazione, non sia menzionato nel titolo
teologico della lettera.

L'analisi retorica della lettera ai Romani


Se anche Hans Dieter Betz aveva potuto sostenere la discutibile tesi
che Gal. fosse una «lettera apologetica», poiché di fatto in essa non si
possono non riconoscere tratti apologetici e inoltre presenta una certa
proporzione quantitativa tra narratio, propositio e argumentatio, per
quanto riguarda la lettera ai Romani quest'ultima caratteristica è da
escludere. 2 ° Forse in Rom. l,8(?)-15 si potrebbe individuare la narratio.
Anche l, l 6 s. può essere facilmente considerata una propositio, benché
emerga la difficoltà data dal fatto che l,18 in quanto affermazione anti-
tetica a l,17 sembra trovarsi sullo stesso piano espressivo di questo ver-
setto (ò~xatocrU'l"f] yàp .f)e;ou ... cX7toxaÀU7t"t'e:"t'at - cX7toxaÀU7t"t'e:"t'a~ yàp opy~
-Se:ou, con una costruzione persino chiastica). 21 Il v. l 8 sembra trovarsi
all'interno della sequenza di motivazioni (ycip ripetuto più volte) che ha
inizio al v. l 6. Ma lo è solo in apparenza. Infatti, à7toxaÀU7t"t'e:"t'a~ yàp
opy~ .f)e;ou introduce una sezione piuttosto lunga riguardante motivi e
circostanze della rivelazione dell'ira di Dio, quindi le disquisizioni sul
18. Al riguardo v. i commentari e le relative bibliografie, nonché sotto, pp. 369 ss.
19. Se Paolo nel prescritto di Gal. fa riferimento in maniera solo implicita alla Scrittu-
ra, concretamente a Is. 53, nel prescritto di Rom. la menziona invece esplicitamente.
20. Per l'analisi retorica di Rom. cfr. anche Hiibner, Die Rhetorik und die Theol. Sul-
la questione dell'analisi retorica di Rom. occorre considerare tra gli altri: Wiillner,
Paul's Rhetoric of Argumentation in Rom; Aune, Rom as a Logos Protrepticos; ma in
particolare Aletti, La lettera ai Romani e la giustizia di Dio. Tuttora stimolante e de-
gno di considerazione anche Melantone, Rom-Kommentar 1532, Disposition, 373 ss.
2 I. Tale difficoltà, tuttavia, non ha un peso particolare, anche a prescindere dalle
questioni specifiche che verranno trattate più avanti. Infatti lo stesso accade anche in
Gal. 2, 16, dove la propositio ha origine organicamente dalla narratio costituendo così
quasi una parte di essa. Dunque risulta inadeguato anche il tentativo di Glenn N.
Davies, Faith and Obedience in Rom, spec. 49 ss., il quale intende provare che Rom.
1,16-2,1 I costituisce un'unità.
2 74 La teologia di Paolo

peccato, mentre il v. r 7 (in connessione con il v. r 6) possiede carattere


di titolo. Così, però, si affronta già il problema vero e proprio dell'anali-
si retorica di Rom.: con r,r8 ha inizio l'argumentatio, che però si con-
clude solo in r I,J6 comprendendo in questo modo la maggior parte dcl
corpus della lettera. Il lavoro vero e proprio consiste dunque nel mettere
in evidenza il rapporto intercorrente tra i vari elementi dell'argomenta-
zione. Esistono elementi che denotino una struttura all'interno di que-
sta argumentatio, e che permettano di riconoscere con maggior preci-
sione la strategia retorica di Rom.? Di fatto, è proprio così. Infatti Rom.
è pur sempre, nel corpus Paulinum, una lettera che colpisce in modo
particolare per il gran numero di domande poste. A partire da Bult-
mann, 22 spesso esse sono considerate domande poste da un interlocuto-
re fittizio. Ma se Rom. viene vista in relazione con la biografia di Paolo
così come l'abbiamo ricostruita sino a questo momento, allora si capisce
facilmente come tutti questi interrogativi riflettano obiezioni mosse al-
l'apostolo e da lui riportate in forma di domanda. Essi, difatti, riguarda-
no soprattutto le conseguenze derivanti da quella comprensione di legge
documentata in Gal., e in misura minore questioni riguardanti la com-
prensione di Israele. Colpisce anche che tali interrogativi appaiano quasi
esclusivamente nella argumentatio. 23
Una panoramica sulle domande che sotto questo aspetto sono di ri-
lievo in Rom. è utilissima, e offre in anteprima elementi essenziali sul
contenuto dell'argumentatio. 24
Rom. 3,r Qual è dunque la superiorità del giudeo, e quale l'utilità del-
la circoncisione?
Rom. 3,3 Cosa significa se alcuni sono divenuti infedeli? La loro in-
fedeltà può forse annullare la fedeltà di Dio?
Rom. 3,5 Se però la nostra ingiustizia mette in risalto la giustizia di
Dio, che ne diremo? È forse ingiusto Dio, che decreta la
sua ira? (v. 6: controinterrogativo di Paolo)
Rom. 3,7 Ma se la verità di Dio per la mia menzogna porta alla glo-
ria sovrabbondante di Dio, come mai sono ancora giudica-
to come peccatore?
Rom. 3,8 (qui si parla addirittura apertamente degli avversari di Pao-
lo): È forse come alcuni, bestemmiando, dicono, afferman-
do che siamo noi a dirlo: facciamo il male, affinché venga il
bene? (v. 9: controinterrogativo di Paolo)
22. Bultmann, Der Stil der paulinischen Predigt, 64 ss.
23. Nella sezione parenetica conclusiva, soltanto in Rom. 14,10 compaiono domande.
24. Le domande in Rom. 2 (3 s.21 ss.) non rientrano in questo schema. In esse, Paolo
accusa i giudei di gravi trasgressioni contro la legge. Non rientrano nella tematica qui
trattata neppure le seguenti domande: 3,27; 4,1.9 s.; 7,1; 8,35; 9,24 (con Nesde-Aland' 1
considero il v. 24 una domanda); ro,14.
Le lettere di Paolo 275
Rom. 3,3 r Annulliamo dunque la legge mediante la fede?
Rom. 6,r Continuiamo a restare nel peccato perché si moltiplichi la
grazia? (vv. 2 s.: controinterrogativi di Paolo)
Rom. 6,r 5 Che dunque? Dobbiamo commettere peccati perché non
siamo più sotto la legge, ma sotto la grazia? (v. r6: contro-
interrogativo di Paolo)
Rom. 7,7 La legge è peccato?
Rom. 9,r4 C'è forse ingiustizia presso Dio?
Rom. 9,r9 Ora mi dirai: perché rimprovera ancora? Chi mai ha potu-
to contrastare il suo volere? (vv. 20-23[24?]: controinterro-
gativi di Paolo)
Rom. r r,r Dio ha forse ripudiato il suo popolo?

Questi interrogativi rivelano contro quali accuse doveva difendersi Pao-


lo: se tu elimini la legge, apri la strada all'anarchia, dunque all'immorali-
tà e all'empietà. Collegata a questa vi è anche una seconda accusa: to-
gliendo la legge a Israele, gli hai tolto il dono di Dio più prezioso, grazie
al quale Israele aveva ricevuto da Dio dignità e una posizione di supe-
riorità rispetto agli altri popoli. Così facendo hai tolto a Israele la possi-
bilità di vivere rettamente davanti a Dio.
Rom. è la raffinata struttura retorica in cui Paolo riprende tali accuse,
elaborando un'apologia brillantemente costruita. Inserisce i due capi d'ac-
cusa in un intreccio teologico di argomenti e controargomenti in cui pro-
prio gli interrogativi citati hanno un ruolo decisivo, e grazie a tale modo
di procedere porta ad absurdum quelle obiezioni contro la sua teologia
che inizialmente parevano tanto pesanti. Non è stato lui, Paolo, a rende-
re gli uomini esseri empi e privi di morale; tutti gli uomini, infatti, sono
sotto il potere del peccato, e a causa della propria colpa sono finiti nella
sventura della hamartia. Questo vale anche e soprattutto per il giudeo.
Perciò il potere giustificante della legge non ha alcun valore. Così, in r,
r 8-3,20 emergono già la questione di Israele e la questione della legge
nella loro correlazione. Il problema è come poter concepire nella loro
reciprocità l'atto responsabile di peccare e la sventura della schiavitù
sotto il potere del peccato, dunque aµ.ap'tct\IEL\I e a1J.ap'tla. Con tale pro-
blema si pone necessariamente anche la questione relativa alla giustizia
di Dio.
Tutta la problematica procede in crescendo fino a trasformare l'accu-
sa contro l'umanità intera dell'inizio del cap. 3 in accusa contro Dio. Pao-
lo «deve» difendere Dio e la sua giustizia. E tale difesa si risolve nuo-
vamente in condanna totale di tutti gli uomini. In Rom. 3,1 ss., infatti, la
giustizia di Dio è giustizia del giudice, giustizia che condanna. Paolo, dun-
que, inizialmente difende la propria teologia della giustificazione ponen-
do paradossalmente la giustizia di Dio nell'oscuro contesto della colpe-
volezza universale. Una lettura di Rom. che si limiti a 3,r-9 lascia quindi
La teologia di Paolo

percepire una singolare differenza tra ciò che otxawauvri .{).wu significa
in l,17 da una parte e in 3,5 dall'altra. Usando la terminologia di Martin
Lutero: perché in Rom. 3,5 Paolo argomenta con la iustitia activa, se stan-
do a l,17 si tratta di una iustitia passiva? 25
Avendo presente l'affermazione programmatica di l,16 s., la lettura
di l,18-3,20 in un primo tempo può dunque lasciare perplessi. Ma con il
\IU\11 di Rom. 3,2 I si ha il capovolgimento: con l'evento Cristo, la otxmo-
auvri .{).e.o!; si è rivelata giustizia da/la fede. Il perfetto 7tEtpc.t'1ÉpW'!c.tt riman-
da al tempo salvifico che ha inizio con tale evento, e che dura da allora.
Al tempo stesso, la giustizia di Dio viene espressa in Gesù Cristo come
manifestazione di quel Dio che giustifica mediante la fede, mentre in 3,1
ss. questo stesso concetto è presentato come realtà del tempo preceden-
te, tempo di sventura - non si tratta tanto di una discordanza dovuta a
trascuratezza da parte di Paolo, quanto di uno sfruttamento consapevo-
le e voluto della gamma di significati del «concetto». Dall'intreccio di
elemento «soggettivo» di fede e azione salvifica «oggettiva» di Dio, 26 si
giunge all'affermazione culminante di Rom. 3,28, per farne sorgere qua-
si necessariamente l'interrogativo di 3,3 l. Il paradosso resta: per la teo-
logia di Paolo, le opere della legge non giustificano - e ciononostante egli
sostiene di voler «porre» la legge, v6p.ov ÌO''!avo1J.E'I. Per colui che ne pren-
de atto per la prima volta si tratta di un guazzabuglio teologico. Paolo
lo motiva in cap. 4 ricorrendo all'esempio di Abramo, e riconduce il tut-
to al dogma di 4,24 s., noto anche ai cristiani di Roma: quella sua teolo-
gia che si dice sia così strampalata in realtà non fa che ripetere ciò che ha
già affermato la Genesi - un libro che i giudeocristiani di Roma in parti-
colare conoscevano benissimo. La teologia della giustificazione per fede
e non per le opere della legge è quindi affermata in primo luogo niente-
meno che dalla legge stessa. Proprio la legge afferma la propria incapaci-
tà di giustificare.
Se anche in Gal. 3 stranamente Paolo aveva di proposito sorvolato
sul precetto della circoncisione di Gen. 17, che certamente doveva esse-
re stato messo in pratica in Galazia dai contromissionari, appellandosi
invece a Gen. 15,6, ora si richiama a Gen. 17; di conseguenza, in Rom. 4
può valutare in modo positivo la circoncisione, sempre però in connes-
sione con la fede. 27 Questo cambiamento di idea, che dal punto di vista
teologico è estremamente significativo, si attaglia perfettamente a un at-
teggiamento conciliante nei confronti di Gerusalemme. Tuttavia Paolo
non dice che egli stesso in Gal. aveva posto la 7tEpt'!OfJ. ~ nella sfera della
aap~. E qui evita del tutto di farlo. 28
25. Per i termini iustitia activa e iustitia passiva nellapraefatio di Lutero all'edizione
integrale dei suoi scritti in latino del 5 marzo 1545 v. Lutero, WA 54, 185,17 ss.
26. È caratteristica l'interpretazione paolina lh<Ì ['!ijç] 7tii;nwç nella formula tradizio-
nale «oggettiva» di Rom. 3,25. 27. Hiibner, La legge in Paolo, 89 ss.
28. In Gal., come ammesso, solo in relazione agli etnicocristiani della Galazia. Ma - e
Le lettere di Paolo

Rom. 5,1-1 l colpisce sotto l'aspetto retorico perché Paolo per tutto il
capitolo impiega la prima plurale. Così facendo si associa ai suoi desti-
natari romani, e precisamente con la confortante conclusione (oi'.iv) trat-
ta da quanto afferma in 3,2 r: allora, se noi siamo giustificati per la fede,
siamo in pace con Dio. Dunque la giustificazione per fede dona il con-
forto mediante Dio, dunque procura quel bene salvifico cui aspira ogni
giudeo credente e che perciò dovrebbe essere sommamente prezioso an-
che per i giudeocristiani di Roma. In questo passo la strategia retorica di
Paolo è più che trasparente, senza che lo si possa tacciare di opportunismo.
Qui Paolo riprende anche il tema del vanto, ma impiegandolo in mo-
do veramente originale. Se per Rom. 3,27 la xaux"fJcnç è assolutamente e-
sclusa per il cristiano - con una retorica vivace, caratterizzata da un bre-
vissimo gioco di botta e risposta-, tutt' a un tratto eccola comparire, seb-
bene con un gioco linguistico totalmente diverso che esprime il vantarsi
nella speranza della doxa di Dio. In questo modo Paolo è tornato al te-
ma della consolazione: «noi ci vantiamo (persino) nelle tribolazioni, iv
't'atç -.~n.i~Ecrtv», 5,3. Quanto Paolo aveva affermato in 2 Cor. 4 a propo-
sito di sé come iJ.Àt~O(.J.Evoç in relazione alla propria esistenza apostolica,
ora lo afferma in rapporto a sé e alla comunità romana. 29 Questa viene
coinvolta sia nella dp~V"f] sia nella iJ.Ài'~tç. La dialettica dell'esistenza apo-
stolica qui diventa dialettica dell'esistenza escatologica tout court. La pa-
ce di Dio, dunque, non consiste affatto nell'eliminazione di tutte le tri-
bolazioni terrene. Che l'esistenza del cristiano sia un'esistenza nella spe-
ranza, ossia un'esistenza escatologica, significa che egli è certo di posse-
dere la propria patria presso Dio.3° L'afflizione, perciò, non è la vera vi-
ta del cristiano. Essa non può raggiungerne il cuore, poiché in esso si è
riversato l'amore di Dio (v. 5).
Per Paolo, affermazioni esistenziali e affermazioni soteriologico-« dog-
matiche» costituiscono un'unità interna, come dimostra il fatto che con
il v. 6 ha subito inizio una sezione quasi didattica sulla riconciliazione.
L'aggancio tematico è offerto dalla àya7t"f] di Dio, mentre la proiezione
verso il futuro è data da ÈÀTI(i; in 5,r-5 e crw.S"f]croµ.E.Sa in 5,6-r r. Infine,
nel v. r r ricorre nuovamente il tema del vanto. Colpisce il modo in cui
in 5,6-r r si affollano affermazioni soteriologiche 31 tutte già precedente-
mente illustrate da Paolo. 32
qui volutamente ripeto cose già dette - in Gal. Paolo sviluppa argomentazioni teo-
logiche tanto fondamentali, dirette agli etnicocristiani, che c'è da chiedersi come mai
non valessero anche per i giudeocristiani.
29. Anche in 2 Cor. 4, come in Rom. 5, ·.9ì.i<fiç (o il relativo participio) e òo~a rientra-
no nel medesimo campo semantico.
30. Probabilmente Paolo, al momento di comporre Rom. 5, aveva già scritto la frase
di Fil. 3,20, r.0Àtnu1~a Èv oùpavoiç.
3 r. Certamente anche xciptç del v. 2 ha carattere soteriologico. Gottfried Nebe, «Hoff-
nung» bei Paulus, 125, ha ragione quando (anche rinviando a Rom. 3,21) prende atto
La teologia di Paolo

Il v. 11 dà l'impressione che con esso si concluda l'argomentazione


teologica. Se dopo 5,1-II la lettera non presentasse altro che un poscrit-
to, la cosa non sorprenderebbe. Già Melantone aveva scorto in questi ver-
setti l' epilogus confirmationis della disputatio di 1, 18-4,2 5, distinguendo-
si in questo dalla maggior parte dei commentatori moderni. 33
Se consideriamo 5, 1-1 1 sotto laspetto teoretico-argomentativo, ne ri-
sulta un carattere ambiguo della sezione. 5,1 è chiaramente la conseguen-
za tratta dall'argomentazione teologica esposta sino ad ora. La sorite
che troviamo in 5,2-4 non è tanto dimostrazione nel senso stretto della
parola, quanto piuttosto spiegazione. Certo, la sezione soteriologica 5,6-
11 ha una certa funzione fondante, come mostrano il ripetersi di yap
(vv. 6.7.10) e l'oÒ\I del v. 9. Ma anche questa motivazione si legge più co-
me spiegazione teologica dell'affermazione di 5,1. Inoltre merita osser-
vare che in 5,1-1 l non è citato l'Antico Testamento, sebbene la concet-
tualità teologica abbia radici anche in esso 34 e l'esposizione non risulti
totalmente chiara senza la conoscenza di questi presupposti veterotesta-
mentari.
Rom. 5,12-21 si presenta innanzitutto come un excursus, abilmente
collegato a 5,6-11 mediante òtà -ro•jw. In questi versetti si parlava degli
empi e dei peccatori, nemici di Dio, ma anche dell'azione riconciliatrice
di Dio in Cristo. In 5,12-21, nella tipologia Adamo-Cristo vengono
trattati in maniera tematica il peccato e il peccare, creando così un certo
legame tra il v. 12 e 5,1-1 I. Ma la pericope 5,12-21 ha carattere di excur-
sus soprattutto perché qui l'orizzonte all'interno del quale Paolo argo-
menta in modo teologico è totalmente diverso da quello precedente: si
tratta infatti della storia universale, a sua volta suddivisa in era di Ada-

di strutture di pensiero per xap1ç e ;;:poaaywy~, che presentano aspetti di realtà tali da
«andare già oltre un significato forense in senso stretto». Dunque Nebe ha messo a
fuoco un dato di fatto che ricorre di continuo nelle nostre considerazioni. D'altra par-
te, riguardo a Rom. 5,1-5 cfr. op. cit., 123 ss.
32. Così l'idea della sostituzione vicaria, ad es. in 2 Cor. 5>14; il motivo della xa-ra),-
Àay~, ad es. in 2 Cor. 51 18 ss.; l'idea del sangue espiatorio di Cristo in Rom. 3,2 5.
33. Melantone, Romer-Komm., ad loca e 373 s. Schlier, HThK, 137 (tr. it. 239), in 5,1
individua l'inizio della seconda parte della lettera, 5,1-8,39: il dono di grazia della giu-
stizia per fede. Questa sarebbe «in certo senso la (parte) più importante di tutta la
lettera». A mio avviso, tuttavia, qui non si riconosce la funzione retorica di Rom. 5,1-
11, individuata invece chiaramente da Melantone. Anche Kasemann, HNT, 123, in 51
1-8,39 scorge l'unità più ampia successiva a 3,21-4,2 5. La sezione 3,21-4,2 5 è da lui in-
titolata «La giustizia di Dio come giustizia per fede», 5,1-8,36 «La giustizia per fede
come realtà di libertà escatologica»; similmente anche Cranfield, ICC. U. Wilckens,
EKK v1/2, 3, fa iniziare la seconda parte solo in 6,1 (6,1-8,39): la realtà della giustifi-
cazione nella vita cristiana. Duno, WBC, VIII, intitola la sezione 6,1-11,36 «The Out-
working of This Gospel in Relation to the Individuai and to the Election of Grace».
34. Così soprattutto dp~v'f}; per àya7t'f} v. Os.; ac\>(E1v; 7tVEUjJ.a come Spirito di Dio.
Le lettere di Paolo 2 79

mo, oltremodo oscura, ed era di Cristo, luminosissima. Il singolo indi-


viduo non viene preso quasi in considerazione. Il discorso si svolge in-
teramente in terza plurale. 3 ! In questa tipologia antitetica, tuttavia, vie-
ne sottolineata l'azione delle potenze malvagie - peccato e morte - in
contrapposizione al peccato che commette il singolo uomo; entrambe le
potenze sono state «autorizzate» a compiere la loro terribile opera a
causa di Adamo, che allora, pur avendo al v. 12 una figura individuale,
nel seguito è qualcosa di più. A differenza di I Cor. l 5, però, qui Paolo
evita l'espressione «in Adamo»; la sventura avvenuta su scala cosmica è
stata resa possibile «a causa di Adamo». Né qui si menziona l'essere-in-
Cristo. È dunque assente la concezione della corporate personality in
senso stretto. È singolare che il dominio del terrore instaurato da pecca-
to e morte non venga soppiantato dal dominio della giustizia di Dio, co-
me ci si sarebbe invece aspettati dall'argomentazione teologica svolta si-
no a questo momento. Invece regneranno, ~acnÀe:ucroucnv (futuro), colo-
ro che hanno ricevuto l'abbondanza della grazia e del dono(!) della giu-
stizia, v. l 7. E se poi al v. 20 è detto che la legge si è insinuata così, alla
chetichella, Tietpe:tcrY)À./J.e:v, allora è stato Paolo a lasciare che essa si insi-
nuasse alla chetichella nel suo excursus «storico-teologico», certamente
solo perché in questo modo la grazia potesse operare in sovrabbondan-
za, tme:pe:Tie:picrcre:ucre:v, dopo che aveva abbondato il peccato. 36 L'afferma-
zione conclusiva di tipo finale riprende la raffigurazione tipologica, v.
21: affinché, come il peccato ha regnato (aoristo) per mezzo della morte,
regni la grazia (stavolta non coloro che l'hanno ricevuta, con una modi-
fica sorprendente dell'immagine) per mezzo(!) della giustizia per la vita
eterna per mezzo (!) di Gesù Cristo. E se a òtà 'hicrou Xptcr•tou viene
aggiunto "t'oli xupiou 1Jµwv, in quest'ultimo vocabolo di 5,12-21 alla fin
fine è inclusa anche quella prima persona plurale che caratterizzava la
pericope di 5,1-11. Qui però questo 1JfJ.w\I tutto sommato ricorre sem-
plicemente come elemento di una formula prestabilita.
Ma permettendo alla legge, nel v. 20, di insinuarsi così alla chetichel-
la, Paolo ha creato il presupposto per porre l'interrogativo che viene ri-
volto a lui: resteremo nel peccato affinché 37 aumenti la grazia? Ma allo-
ra, in 5,12-21 Paolo ha ripercorso tutta la storia universale al solo scopo
di prevenire la questione con cui i suoi oppositori teologici lo accusano?
Certamente in questa supposizione vi è qualcosa di più di un briciolo di
verità. Ma per poter cogliere rettamente l'argomentazione di Rom. oc-
corre tener conto anche di un altro fattore: prima dell'esposizione posi-
tiva della sua teologia della giustificazione in 3,21-5,11 l'apostolo, in 1,
l 8-3,20, ha inserito una sezione in cui illustra approfonditamente il do-

3 5. Il commettere peccato della singola persona è implicito solo in i9'c~ .:a'l'tEç ~1.1.ap­
'tov, 5,12.
36 . .:apa7:'t{•)1j.a qui equivale ad a1.1.ap'tta; Hubner, La legge in Paolo, I 5 I.
37. \'va in Rom. 6,1 riprende dunque il duplice \'va di 5,20 s.
280 La teologia di Paolo

minio universale della hamartia. Analogamente accade per il passaggio


dell'argomentazione che ha inizio con Rom. 6,I - i capp. 6-8 vanno co-
munque considerati collegati tra loro quanto a contenuto. Anche a tale
passaggio viene fatta precedere una pericope che tratta della catastrofe co-
smica causata dalla hamartia. Tuttavia, a differenza di I, I 8-3,20 in tale pe-
ricope si parla anche di redenzione, illustrata su scala cosmica.
L'inserimento dell'excursus di «storia universale», allora, potrà essere
rettamente inteso solo vedendo come Paolo, per smontare l'obiezione
dei suoi avversari, nel cap. 6 ricorre a concetti che in 5,I2-2I hanno fun-
zione portante; si serve della teologia battesimale per smascherare l'as-
surdità dell'affermazione provocatoria - comunque evidente dalla posi-
zione dei giudeocristiani fedeli alla legge. Chi è stato battezzato in Cri-
sto Gesù,3 8 nella sua morte, e dunque chi «in Cristo» 39 cammina in una
vita nuova, è morto al potere del peccato ed è perciò libero dalla hamar-
tia. E proprio in tale contesto Paolo usa il termine xupieueiv, v. 9, che è
quasi sinonimo di ~acnÀeueiv: Cristo, risuscitato dai morti, non muore
più, su di lui la morte non regna più. Egli vive solo per Dio. E come al v.
4 era stata espressa una riserva escatologica - infatti non è detto «come
Cristo è risuscitato dai morti, così anche voi siete risuscitati con lui», ma
anzi il pensiero viene spostato sulla condotta dei cristiani - così avviene
anche nel parallelo del v. II: così anche voi consideratevi - in 6,I-9
Paolo riprende a parlare in prima plurale (come in 5, I -I I), ma dal v. r r
passa alla seconda persona plurale - persone che sono morte per la ha-
martia e che, trovandosi ora «in Cristo Gesù», vivono per Dio. Dun-
que, che la hamartia non regni (!) nel vostro corpo mortale. Ora, con
1.1.~ oi'.iv ~acriÀeuÉ'tw è nuovamente ripreso da 5,I2-2I il verbo fondamen-
tale. La concezione «storico-universale» di hamartia in 5,I2-2I di fatto
aveva dunque la funzione di preparare la tematica del cap. 6 relativa alla
hamartia. In tale capitolo ricorre per I 6 volte il termine a1.1.ap'tta, senza
contare i pronomi che lo sostituiscono.
La stretta relazione che lega 5,I2-2I al cap. 6 si evidenzia soprattutto
perché entrambi i capitoli non solo usano i termini ai.J.ap'tta 40 e .[)riva-
'toç, ma presentano un campo semantico comune in frasi equivalenti.41

38. Che dç vada inteso in senso locale consegue dalle riflessioni relative a I Cor. 12,13,
e in particolare a quanto esposto in I Cor. a proposito della «spazialità» dell'esistenza
cristiana. Obiettare che secondo I Cor. 10,2 ek 't'Òv Mwua1jv È~a7t't'ta·9'Y)aav non può
significare «furono battezzati in Mosè» non convince, dato che Paolo, come è emerso
ripetutamente, spessissimo impiega le proprie concezioni in differenti variazioni.
39. È vero che in Rom. 6,4 Èv Xpta't'cf> non compare, però tale espressione vi ha il pro-
prio luogo teologico.
40. In Rom. 5,12 ss. anche 7tapam;wp.a, che in parte equivale ad a1J.ap't'ta, ma che al v.
20 è suo sinonimo.
4r. Tenendo conto anche di àJto•9vfiaxw, a1J.ap'tavw e 7tapa7t'tWIJ.'1 di Rom. 5,12.14-17.
21; 6,r.7.10.16.20-23.
Le lettere di Paolo 28r
Rom. 5,12 espone questa tesi: a causa del peccato la morte. Il cap. 6 te-
matizza l'oltrepassamento di questa tremenda causalità, pur rinuncian-
do all'orizzonte storico universale tracciato in 5,12 s.: il cristiano è mor-
to alla hamartia che provoca la morte, morto alla morte per mezzo della
morte di Cristo. Da un punto di vista retorico, òtà Tijç ap.ap'rtaç o -8-riva-
-roç in 5, l 2 e -tà yàp o\j;wvta -t1Jç ap.ap-o(aç -8-ava'toç in 6,2 3 sembrerebbe-
ro un'inclusione.
E c'è da registrare ancora un parallelo, dal punto di vista contenuti-
stico e al tempo Stesso anche formale: in 5, l 2 SS. il 'IO[J-Oç non veniva
trattato come tema, ma, come si è visto, è scivolato senza parere nell'ar-
gomentazione. Lo stesso si può dire ora del cap. 6. In tutta la dimostra-
zione, sul cui sfondo vi è comunque l'obiezione del v. l formulata da
una posizione giudeocristiano-legalista, fino al v. l4a incluso non com-
pare il tema della legge. Dunque Paolo è in grado di parlare diffusamen-
te di peccato e di libertà dal peccato in termini teologici, senza spendere
una sola parola sul nomos. Le considerazioni riguardanti il kerygma so-
no molto più importanti. Per cui l'apostolo solo alla fine, in 14b, affer-
ma un po' di sfuggita: «Poiché non siete più sotto la legge, ma sotto la
grazia». Quindi, che i cristiani non siano più sotto la legge qui viene
presentato come un fatto ovvio che motiva l'affermazione precedente.
Poi però, al v. l 5, Paolo riprende dal v. 14 la parola-chiave «legge» per
presentare 6,15-23 come risposta all'obiezione: «Dobbiamo commettere
peccati perché non siamo più sotto la legge, ma sotto la grazia?». Tutto
il cap. 6 è dunque una replica teologica all'accusa mossa dalla parte giu-
deocristiana legalista, ed è perciò stato scritto pensando a questo gruppo
interno alla comunità romana.
Ciò emerge nuovamente nella pericope immediatamente successiva,
Rom. 7,1-6. Stando al v. l Paolo si rivolge a coloro «che conoscono la
legge». Si può presumere che queste persone esperte di legge siano i de-
boli di Rom. 14 s. Tuttavia bisogna ascoltare con molta attenzione per
riuscire a cogliere come Paolo, quasi inavvertitamente, prosegua nel sol-
co della problematica posta in 6,r. Dapprima il motivo della legge era
secondario, quasi irrilevante. Se in 6,14 emergeva nel suo ruolo retorico
marginale, allo scopo di introdurre l'interrogativo del v. l 5, ora, nel cap.
7, diviene improvvisamente tematico. Se fino ad ora si parlava della re-
lazione tra peccato e morte, adesso viene trattato il rapporto tra peccato
e legge. Nella menzione della legge che in 6,14 appare come un accenno
en passant - ma in realtà qui Paolo non dice proprio nulla en passant-,
è detto ùnò vop.ov. Chi presta molta attenzione alla formulazione si ac-
corgerà che l'essere dominati dal peccato equivale all'essere sotto la leg-
ge. E della legge, in Rom., Paolo finora non ha mai parlato in termini
così diffamatori. Stando a 6,14a, essere sotto la legge significa proprio
essere sotto il dominio di schiavitù della legge. Vien quasi da pensare
che si ripeta l'argomentazione antinomista di Gal. 3,22 s.: essere sotto il
La teologia di Paolo

peccato è essere sotto la legge. E di fatto, in 7,1 per VO(J.Oç abbiamo il


medesimo verbo che ricorre in 6,14 per cX(J.ap-ria: xuptEUEL. Ma il parallelo
va ancora oltre. Per Rom. 6, 11 i cristiani sono morti al peccato perché
vivono per Dio; per 7,4 essi sono stati messi a morte quanto alla legge,
xal U(J.Etç Wava-rwf;Yj'!E -refi VO(J.Cf>· E come l'essere morti al peccato av-
venne per mezzo della morte di Cristo, così anche l'essere morti alla
legge òtà '!OU crw1..1.a-roç '!OU Xptcr-roii, dove O"W(J.CX. indica nuovamente il
corpo di Cristo messo a morte sulla croce. Lo scopo è lo stesso del cap.
6: Elç -rò ygvfof;m U(J.cic; hÉpq>.
Così Paolo ha tirato tutte le fila del discorso in modo tale da far na-
scere quasi spontaneamente la domanda - che comunque è già stata pro-
vocata da Gal. 3,22 s. -, ossia l'accusa mossa all'apostolo dai giudeocri-
stiani legalisti e formulata in forma di interrogativo: la legge è peccato?
Ma questa, alle orecchie di un giudeo, sarebbe una delle bestemmie più
gravi che si possano concepire! Ed è proprio a questo punto che Paolo
dà una svolta alla propria argomentazione.
Se anche, seguendo lo svolgersi dell'argomentazione paolina a partire
da 6,14, a poco a poco si aveva l'impressione che le affermazioni relative
alla legge si avvicinassero a quelle negative di Gal. - malgrado Rom. 3'3 1
-, ora, con 7,7 ss., ha inizio l'apologia della legge. 42 L'apologia della
teologia paolina della giustificazione si trasforma in apologia della leg-
ge,43 che comunque, alla fin fine, è in funzione dell'apologia di Paolo e
della sua teologia. Ora l'argomentazione finisce per affermare che la
legge è santa, e santo, giusto e buono è il suo comandamento, 7,12; in 7,
14 si dice addirittura che essa è spirituale, 7tvw1..1.a-rtxoç. Chi conoscesse
Paolo solamente per aver letto Gal. penserà di trovarsi in tutt'altra real-
tà teologica. In Gal., infatti, si sottolineava fortemente la stretta correla-
zione tra circoncisione e carne, ossia tra legge e carne (Gal. 3,1-5); ma la
carne si oppone in modo contraddittorio allo Spirito. L'opposizione
crap~ e 7t\IEUIJ.a è costitutiva per l'argomentazione teologica di Gal. In
questa lettera non vi è passo in cui si possa parlare di legge santa, defini-
ta dal pneuma. Che qui non si possa argomentare con Gal. 5,14 emerge
dalla chiara differenza di oÀoç 6 \10(.J.O<; in Gal. 5,J, ove si intende l'inte-
rezza della torà in senso quantitativo, e Gal. 5,14, in cui 6 7taç VO(J.Oç non
può significare in alcun modo la legge in questa totalità quantitativa.
Tra tutte le affermazioni di Gal. relative al vo1..1.oç, solo 5,14 presenta una
connotazione positiva che ha a che fare col pneuma.
Se in Gal. 3 s. Paolo aveva asserito l'unità di funzione tra legge e pec-
cato (urcò ... ) cosicché il lettore poteva facilmente intenderla come unità
di sostanza, in Rom. 7,7 ss. non afferma più che il legame che innega-

42. Kiimmel, Romer 7 und die Bekehrung des Paulus, 9, che pur richiamandosi ad al-
tri esegeti si basa principalmente sulla propria esegesi.
43. Di opinione lievemente differente Kasemann, HNT, 184.
Le lettere di Paolo
bilmente intercorre tra le due grandezze è un'unità di funzione. La leg-
ge non ha più una sua propria funzione, ma è «in funzione di», viene
usata in maniera spregevole e avvilente dal peccato, presentato in modo
personificato, il quale ne abusa in senso contrario al suo compito origi-
nario (la morte invece della vita) finendo per profanarla. Ma se non vi è
neanche più un'unità di funzione in senso stretto - unità che però veni-
va quasi insinuata da 6,r4 - tantomeno un'unità di sostanza. Ecco per-
ché Paolo, alla domanda di 7,7, può rispondere soltanto: «Dio ne guar-
di! µ ~ yÉvot'to».
L'argomentazione si svolge in 7,7 s., in cui il nomos è citato come
comandamento del decalogo; tuttavia anche qui il punto di vista di Gal.
slitta lievemente grazie a una sfumatura. Se Gal. 3,r9, 'twv 7tctpcx.~acrEwv
xaptv, andava interpretato in senso antico come «per provocare trasgres-
sioni», ora, in Rom. 7,7, con la citazione di Es. 20,17 (Deut. 5,21) la leg-
ge in senso noetico deve produrre la conoscenza della trasgressione pro-
vocata dal peccato.
Gen. 3 non viene citato, benché in Rom. 7,8 ss. evidentemente vi si
alluda. 44 L'essere sotto la legge mosaica (v. 7) e l'essere sotto il coman-
damento dell'Eden (vv. 8 ss.) penetrano l'uno nell'altro. Ciononostante
è chiaro che qui Paolo si rivolge in primo luogo a dei giudei, e più con-
cretamente a quei giudeocristiani di Roma che si sentono innanzitutto
giudei. È ad essi che in 7,7 ss. deve apparire la dimensione profonda del-
1' essere sotto il peccato. 45 Ma se dalla retrospettiva essi capissero qual
era la loro situazione prima di essere in Cristo, allora comprendereb-
bero anche che l'essere in Cristo, redentore e liberatore, li ha strappati
dal dominio del peccato e quindi anche dal dominio della legge che ne
deriva. Chi ha compreso Rom. 7, e cioè chi se ne sente interpellato e
quindi ha una nuova comprensione di se stesso, allora sa anche di essere
libero dalla legge, che di per sé è una legge santa, ma nella sua efficacia è
stata pervertita dal peccato sino a diventare una legge che porta alla
perdizione.
Come contrappunto a Rom. 7, Rom. 8 presenta l'aspetto positivo
della risposta all'interrogativo se la legge è peccato. Ora ad essere tratta-
ta è l'esistenza pneumatica del giustificato, l'esserci secondo lo Spirito,
Xct'tà 7tVEUiJ.CX., in opposizione all'esserci secondo la carne, Xct'tà crapxct.
Ma questo esserci secondo lo Spirito viene illustrato nel quadro dell'apo-
logia della legge. Rom. 7,14 riassume in nuce l'opposizione tra Rom. 7 e
Rom. 8: in questo versetto la legge viene presentata nella sua sostanza

44. Kasemann, HNT, 188: «Non c'è nulla in questi versetti che non si addica ad Ada-
mo, e tutto si addice solamente ad Adamo ... ».
45. Rom. 7,14, r.e7tpc:tjJ.i-voç ur.Ò --~v ér.1J.ap"[av, nella sua atrocità non conosce rivali. Ne
troviamo la conseguenza al v. 15: !'«io» non sa neppure in quale terribile situazione si
trova a vegetare.
La teologia di Paolo
pneumatica - o'{òo:p.Ev ovviamente ha di nuovo la funzione retorica di in-
terpellare soprattutto quei giudeocristiani di Roma che tengono in gran
conto la legge, ma ricorrendo alla prima persona plurale Paolo si unisce
ad essi -, mentre l'uomo prima di Cristo e fuori di lui è di carne, crapxi-
voç, e in quanto uomo della crapl; è «Venduto come schiavo al peccato»,
dunque si trova in una situazione assolutamente disperata. A ciò corri-
sponde il contrasto tra i due capitoli: la descrizione dell'esserci dell'uo-
mo sarchico e il risalto dato al nomos pneumatico, quest'ultimo in stret-
ta relazione con la presentazione dell'uomo pneumatico.
Se con Bultmann si considera Rom. 8,r una glossa, 46 allora il v. 2 in-
dica un doppio capovolgimento: ora non si parla più della legge perver-
tita da hamartia e sarx, né dell'uomo sarchico, venduto come schiavo al-
la hamartia. Ora piuttosto è in gioco il rapporto tra legge pneumatica e
uomo pneumatico. La discussione riguardante Rom. 8,2 illumina questa
circostanza teologica e retorica a un tempo: è vop.oç 't'OU 7t\IEU[J.o:'t'Oç Tijç
~w~ç il nuovo ordine salvifico per mezzo di Cristo e in Cristo, 47 oppu-
re lo è la torà, ricondotta al proprio essere pneumatico autentico (Rom.
;> 48
7,ro.14 ) ·
Riprenderemo più avanti la riflessione teologica su questo problema
scottante. Per l'analisi retorica basti accennare che nella «legge dello
Spirito della vita» Paolo scorge la legge di Mosè sottratta al pervertimen-
to operato dall'hamartia. Teologicamente egli si salva la faccia ribaden-
do in 8,3 l'incapacità della legge per quanto riguarda l'aspetto soteriolo-
gico; solo grazie all'azione di Dio, che ha inviato il Figlio, è stato possi-
bile condannare il peccato togliendogli così ogni potere. Ma affermando
in Rom. 8 che la legge ha riguadagnato la propria sostanza spirituale, 49
l'apostolo accorda ai giudeocristiani di Roma che essa possiede di per sé
un alto valore spirituale, e che stando alla sua natura primitiva essa va
considerata a partire dallo Spirito di Dio. Essa ha persino un suo precet-
to ('t'Ò òixo:iwp.o: 't'ou v6p.0 1; , 8,4), adempiuto per mezzo di Cristo. Leg-
gendo questi versetti bisogna mettersi nei panni dei giudeocristiani per
comprendere con quanto impegno qui Paolo stia cercando di conqui-
starli con la teologia. E quando poi descrive l'esserci dei romani secon-
do lo Spirito, mettendo in luce la grandezza e la sublimità della loro esi-
stenza cristiana, è un grandissimo complimento religioso che fa a questi
suoi destinatari (8,9 ss.): voi siete gli uomini dello Spirito santo. Non

46. Bultmann, Glossen im Rom, 278 s.; la sua opinione si è ampiamente imposta tra
gli esegeti, ad es. Kasemann, HNT, 206.
47. Così la maggior parte degli autori.
48. Così principalmente Lohse, o v6p.oç '!ou 7tVEu1.1.a'!oç X'!À. Similmente anche von
der Osten-Sacken, Rom 8, 226-234; Hahn, ZNW 67, 47 ss.; U. Wilckens, EKK vr/2,
12 l ss.; Hiibner, La legge in Paolo, 249 ss.; Dunn, WBC, 416 ss.
49. Sostanza strettamente intesa come essentia.
Le lettere di Paolo

siete più nella carne, ma nello Spirito. In voi abita lo Spirito di Dio. E
prosegue sino a condurli al punto essenziale - qui si percepisce ancora
un qualcosa della passionalità che caratterizzava Gal., la magna charta li-
bertatis - (8,15): infatti (yap) voi non avete ricevuto lo spirito della schia-
vitù, per dover provare nuovamente paura. No, voi avete ricevuto lo spi-
rito della figliolanza. Pronunciando questa frase come motivazione,
Paolo si rivolge ai cristiani e in particolare ai giudeocristiani di Roma
come a persone che provengono dall'esperienza della libertà. In essa vi
è, inespressa, una constatazione: se voi avete fatto l'esperienza di perso-
ne libere, perché mai volete rimettervi sotto la legge rendendola in tal mo-
do nuovamente legge di schiavitù e di morte, invece di consentirle di re-
stare per voi legge dello spirito della vita? Rom. 8,16 s. richiama poi la
conclusione di Gal. 3: voi siete figli di Dio, siete eredi di Dio. Implicita-
mente: cosa volete di più?
Tuttavia sorprende che in Rom. 8,1-17 non vi sia un riferimento for-
male all'Antico Testamento. Paolo descrive l'essere nello Spirito dei
giustificati senza ritenere indispensabile addurre una qualche prova
scritturistica. Ma poiché proprio in Rom. 8 egli si inserisce in pieno nel-
la tradizione di concezioni pneumatologiche veterotestamentarie, c'è da
chiedersi perché proprio qui, dove si parla di esposizione positiva dell' e-
sistenza cristiana, egli pensi di poter rinunciare ad argomentare con la
Scrittura. È assolutamente improbabile che egli si collochi nel solco del-
la tradizione della pneumatologia veterotestamentaria, ma senza sapere
dove questa trovi la propria espressione letteraria nella Scrittura. Infatti,
in primo luogo Paolo in I Tess. 4,8 con ogni probabilità alludeva a Ez.
36,27; 37,14; in secondo luogo, anche per le sue affermazioni pneumato-
logiche in Rom. 8 avrebbe potuto ricorrere a una serie di passi tratti da
ls., che certamente conosceva. 50 Eppure non ha fatto neppure questo.
Quindi, che egli non vedesse motivo di scomodare la Scrittura per di-
mostrare che lo Spirito risiede nei cristiani - e questo proprio in Rom.,
in cui peraltro è alla Scrittura che fa continuamente ricorso per motivare
quanto va affermando - necessita di un'altra spiegazione, che non sia
quella della sua ignoranza per quanto riguarda gli enunciati pneumato-
logici dell'Antico Testamento, posto che siamo in grado di farlo. 51
Nel cap. 8, dopo il v. 4 il termine vop.oç ricorre solo nel v. 7; ciono-
nostante anche la descrizione positiva dell'esistenza cristiana è in con-
nessione tematica con l'apologia della legge. Secondo la concezione giu-
50. Ad es. ls. J2,15; contesto: Òt><atocruv'l'], elp~VYJ.
5I. Paolo sapeva che i cristiani di Roma si consideravano persone ricolme di Spirito, e
che erano a conoscenza di aver ricevuto il dono escatologico dello Spirito? È per que-
sto che non vedeva motivo di ripetere loro espressamente che possedevano lo Spiri-
to? Si tratta di una supposizione ovvia, che però non può essere verificata. Tuttavia,
8,9 fornisce forse un indizio: «Voi però esistete (già) nello Spirito, se veramente (d-
7tEp: se è vero ciò che date ad intendere) lo Spirito di Dio abita in voi».
La teologia di Paolo
<laica, la torà impedisce di peccare imponendo ai giudei di seguire sola-
mente la volontà di Dio, ossia di compiere ciò che essa ordina e di non
fare quanto essa proibisce. Invece di accennare ai comandamenti (e ai
divieti) della legge, Paolo fa riferimento all'indicativo dell'esistenza de-
terminata dallo Spirito. 52 Colui nel quale abita lo Spirito di Dio, esiste
xa'tà 7t\IEU(J-CX. Dunque in lui vi è il eppOV"t](J-l'X 'tOU 7t\IEU(J-CX'toç, l'aspirazio-
ne dello Spirito di Dio. Di conseguenza al cristiano interessa ciò che in-
teressa a Dio. Questo però non è così automatico. Infatti, anche il cri-
stiano può vivere xa'tà crapx.a. 53 Ma così facendo agirebbe soltanto con-
tro la propria natura interiore e la propria intenzione interiore, datagli
da Dio. Si tratterebbe di un atto autodistruttivo, suicida, di negazione di
se stesso, perché il eppoV"t](J.a 'tou 7t\IEU(J.awç significa vita e pace (salom)
(v. 6), mentre il xa'tà crapx.a ~Y]v ha come conseguenza la morte ((J.ÉÀÀe-
'té: à.7to-8vficrx.etv, v. l 3). Ecco dunque il succo: non c'è bisogno che vi
facciate dire per filo e per segno dalla torà quello che dovete fare, perché
avete in voi lo Spirito e il suo eppoV"t](J.CX. Perciò, se vi lasciate guidare
dallo Spirito di Dio e se siete per questo figli di Dio (v. 14), non trasgre-
dite ciò che la legge proclama in conformità al suo intento autentico in
quanto volontà di Dio, ossia- anticipando Rom. 13,8-10 - l'amore, à.ya-
7t1J. Né contravvenite al 7tÀ~pw(J-a VO(J.Ou. Dunque, chi adesso sostiene
ancora che la legge è peccato contravviene allo Spirito di Dio. Solo lo
spirito maligno può asserire che il nomos è hamartia.
Con Rom. 8,18 muta il carattere del linguaggio. Ora non è più in gio-
co l'argomentazione teologica come tale. Paolo pronuncia infatti parole
di conforto. Dunque la situazione dei cristiani di Roma non è caratteriz-
zata soltanto dai dissidi di cui si parla in Rom. 14 s., ma anche, e forse
persino soprattutto, da tribolazioni, i 7ta-8~(J-a'ta 'tou vuv x.atpou men-
zionati al v. 18. I cristiani di Roma possono vivere in modo conveniente
solo se vivono in funzione del futuro, e del futuro di Dio, v. 24: Tfl yàp
EÀ7ttOt fow-8"t](J-EV. L'esistenza cristiana, dunque, è esistenza nella speran-
za. Il motivo della sofferenza ricorreva già in 5>3 ss., ove si parlava della
situazione f.v 'tai'ç -8Àt~ecrtv. Forse per i destinatari della lettera questa
pericope di conforto aveva un maggior peso esistentivo rispetto alle pa-
role dell'apostolo circa la controversia sui «romani mangiatori di verdu-
ra».54 In tale conforto Paolo inserisce, in modo abbastanza organico,
52. Poiché in Rom. 8 ciò che interessa è la descrizione dell'essere del giustificato, è
principalmente il modo indicativo ad avere qui il proprio luogo teologico. Paolo usa
l'imperativo nella parenesi. Ma come si vedrà tra poco, è evidente che nella descrizio-
ne dcli' esistenza cristiana è proprio l'indicativo a rendere significativo l'imperativo.
53. Viceversa, colui che esiste È:v crcxpx( può vivere solo xcx-rà crapxcx, e non xcx-rà ;;vtii-
IJ.cx; v. Rom. 8,7: oùòì: yàp òuvcx-rcxt.
54. Così, in modo un po' mordace e insieme anche rispettoso, Karl Barth, Der Romer-
brief, Ziirich IJ1989 (= Miinchen 1922), 492 (tr. it. L'Epistola ai Romani, Milano
1962, 489 s.).
Le lettere di Paolo 287
anche la sua teologia della chiamata e della giustificazione (8,28-30).
Sempre in questa sezione di conforto si rispecchiano anche intuizioni
teologiche di Rom. 8,1-17; vi sono riprese idee e formulazioni che in
8, l- 17 erano già costitutive per il vero intento teologico della lettera, 55 e
che ora diventano feconde ai fini pastorali.
Ed ecco che Paolo con brillante retorica conclude il capitolo con le
splendide parole di Rom. 8,31-39, parole la cui forza consolatrice e in-
coraggiante ancora oggi è in grado di trattenere dalla disperazione
quanti si trovano nella prova. Ed è proprio in questa pericope che è pre-
sente l'unica citazione formale del cap. 8 introdotta dalla formula quo-
tationis xa.Swç yÉypa7t'tat, ~ 43,23: per causa tua siamo messi a morte ...
Quest'ultima citazione all'interno dell'unità Rom. l,l 8-8,J9 riguarda la
morte dei cristiani, sia pure come espressione iperbolica di una grave tri-
bolazione. Ma con tali parole Paolo esprime anche la fiducia manifestata
nel medesimo salmo, che si conclude con questa invocazione: «Sorgi, o
Signore, vieni in nostro aiuto! E salvaci per il tuo nome!». Ma Paolo
vuole dire ai romani che il Signore ha aiutato, ha salvato: neanche la
morte, il terribile .Sava'toç (v. 38), può più separarci dall'amore di Dio in
Cristo Gesù. In ogni .SÀL~tc;, cr'te:voxwpia, Òtwyp.oç ecc. (v. 3 5) Dio ha
operato la sua salvezza, la sua à7toÀu'tpwcrtç (v. 23), che verrà dispensata
anche a tutta la creazione, micra ~ x'ttcrtç (v. 22). Ma se nell'argomenta-
zione che si svolge da l,18 a 8,39 abbiamo registrato la cesura dopo il
versetto 5, l l, affiora una simmetria degna di nota: Rom. l, l 8-5,1 l finiva
con la tribolazione superata nella fede e nella speranza, e anche Rom.
5,12-8,J9 si conclude in maniera analoga. 56
È controverso se Rom. 9-1 l 57 costituisca il vero obiettivo della lette-
ra o se sia una specie di excursus. Cerchiamo dunque di cogliere il carat-
tere di questa sezione, riguardante un giudizio teologico su Israele, ana-

55. Ad es. il possesso del 7tVEUjL<X in 8,2 3 rispetto a 8,4 ss.; ÈÀw8Epw8~aE-.o:t/ÈÀwSEpto:
di 8,21 rispetto a 8, 15, ove 7tVEUjL<X u!o8Eato:ç è quasi sinonimo di 7tVEUjL<X ÈÀEu·.9Epto:ç;
u!o..9Eato: in 8,23 rispetto al passo appena ricordato di 8,15 (v. anche 8,14); la preghiera
di 8,26 rispetto a 8,15; i:Ò cpp6v'Y]IL<X -.ou 7tVEUjL<X-.oç di 8,27 rispetto a 8,5 ss. E quando
Paolo in 8,21 parla della libertà della ò6~o: dei figli di Dio come di un bene in cui spe-
rare, ciò corrisponde alla conclusione di 8,1-17: Et7tEp au1L;;aax.olLEV Iva xo:l auvòo~o:­
a8w1LEV.
56. A mio avviso si tratta di un ulteriore indizio dell'esattezza dell'analisi formale e
retorica qui intrapresa, che è comunque sostenuta dall'analisi retorica di Melantonc:
la cesura va posta dopo Rom. 5, I I, anche se naturalmente vi possono essere agganci
tra le due parti. Tali agganci non devono stupire, visto che comunque la seconda
parte è continuazione dell'argomentazione teologica della prima.
57. Per l'analisi retorica di Rom. 9-1 I non riporterò qui alcuna bibliografia. Nella mia
monografia su questi due capitoli, Gottes !eh und Israel, ne compare infatti una piut-
tosto vasta (che giunge all'incirca fino al 1982/83), ed è a questa che rimando. Nel pa-
ragrafo che segue vi saranno ogni tanto cenni bibliografici.
288 La teologia di Paolo

lizzandone la struttura retorica. Stando a quanto abbiamo scoperto sin


qui sulla strategia retorica dell'argomentazione paolina, c'è da aspettarsi
che qui sia proprio l'analisi retorica a indicarci la giusta via.
L'unità letteraria di Rom. 9-r r, di fatto, è un piccolo capolavoro di
abilità e raffinatezza retorica - raffinatezza non certo in senso peggio-
rativo - di Paolo. È nella natura della questione che egli in Rom. tratti
l'importanza teologica di Israele in modo particolarmente incisivo. Fino
al cap. 8 incluso, il nome Israele non compare neppure; non si parla che
di giudeo, spesso nella contrapposizione «giudeo e greco» (r,r6; 2,9 s.;
al plurale in 3,9.29). In 9,4, invece, Paolo definisce con l'appellativo
onorifico di israeliti non i giudei ma i suoi fratelli e consanguinei.
Rom. 9,1-5 presenta ciò contro cui Paolo si vede costretto a difen-
dersi. Ancora una volta si palesa il carattere apologetico delle sue affer-
mazioni. Egli ribadisce espressamente che sta dicendo la verità, e si ri-
chiama alla propria coscienza «nello Spirito santo». A quanto pare deve
difendersi dall'accusa che del suo popolo non gli importi nulla, né lo
tocchi il fatto che, non essendosi convertito a Cristo, questo popolo sta
percorrendo la via della perdizione. Mette allora in grande risalto la
realtà spirituale degli israeliti: la figliolanza (di Dio), la doxa (malgrado
3,23, secondo cui l'umanità ha perso proprio tale doxa già con Adamo,
prima ancora che il popolo di Israele esistesse), le alleanze, perfino la
legislazione, il culto e le promesse. Chi abbia appena letto Gal. prenderà
atto con stupore che uio.Secrta e vop.o.S.Ecrta sono nominate senza diffe-
renziazione l'una accanto all'altra, come pure vop.o.S.Ecria ed ÈrtayyeÀia~.
La discendenza di Cristo dai padri, dunque dal popolo di Israele, viene
sottolineata alla fine di 9,r-5 - perfettamente in linea con Rom. r,3: Èx
crm:p(J.11.'toç ~autò xa'tà crcX:pxa. E in 9,5 Paolo riprende precisamente que-
sto xa'tà crcX:pxa. L'amore che prova per il suo popolo culmina nel desi-
derio di essere maledetto in sua vece. L'apostolo non potrebbe essere
più chiaro nell'esprimere l'interessamento che prova per il suo popolo
Israele. Tuttavia è altrettanto evidente che chi abbia letto r Tess. 2,14 ss.
o Gal. non deve giungere alla conclusione che Paolo rimpianga la sal-
vezza che Israele si è lasciato sfuggire. E come l'apologia della legge al-
l'interno di Rom. costituisce la correzione contenutistica, anche se non
formale, di affermazioni antinomiste di Gal., così già l'introduzione di
Rom. 9-r r può essere letta come correzione di affermazioni precedenti
riguardanti il popolo giudaico.
L'argomentazione teologica che ha inizio in Rom. 9,6, ad ogni modo,
prende un'altra direzione. D'un tratto non si parla più del rapporto di
Paolo con Israele, bensì dell'affidabilità e della credibilità della parola di
Dio. Quando infatti Paolo esordisce sostenendo la tesi che la parola di
Dio - ovvero la promessa di Dio al popolo Israele - non è venuta meno,
sembra più un'apologia contro la contestazione che i giudei muovono al-
la pretesa messianica di Gesù Cristo, apologia che ha press'a poco que-
le lettere di Paolo
sto sviluppo: se la grande maggioranza di Israele non si è convertita a
Cristo e di conseguenza, secondo il convincimento cristiano, ha perso la
salvezza eterna, allora la promessa salvifica fatta da Dio a Israele non si
è adempiuta, e dunque la parola di Dio è «venuta meno». Ma siccome a
proposito della santità e della fedeltà di Dio non si può affermare nien-
te del genere, la pretesa cristiana di annuncio è nulla. Perciò Paolo si ve-
de costretto a difendere da una prospettiva cristiana l'incrollabilità del-
la promessa fatta da Dio a Israele: la parola di Dio non è «venuta meno»
perché occorre distinguere tra il popolo Israele, ossia l'entità etnica
Israele, e quella parte d'Israele a cui la promessa di salvezza di Dio era de-
stinata. In 9,6b si afferma a mo' di tesi: où yàp 7tanEç o[ Èç 'Icrpa~À, ou-
-rot 'Icrpa~À. Questo modo di agire scismatico di Dio è dimostrato da Pao-
lo con il ricorso alla storia di Israele e a citazioni profetiche. Quali sin-
gole implicazioni teologiche informino questa argomentazione sarà
esposto in maniera più dettagliata nella sezione riguardante la teologia
di Rom. Qui basti ricordare che Paolo mostra come Dio chiama nel cor-
so della «storia della salvezza» di Israele, e come solamente i chiamati di
Israele costituiscono il vero Israele. Chiamare, xaÀEtv, è il termine teo-
logico dominante in Rom. 9,6-29. E chiamare compete solamente a Dio.
Dunque in questa pericope si parla soltanto dell'agire di Dio; per 9,6-29,
ciò che fa l'uomo è del tutto irrilevante. Il v. r r evidenzia in modo par-
ticolarmente efficace quanto scarsa sia, per l'intento di salvezza di Dio,
l'importanza teologica dell'agire dell'uomo: Dio aveva già operato la sua
elezione prima ancora che i gemelli Giacobbe ed Esaù fossero nati, aman-
do il primo e odiando il secondo ancora prima della loro nascita. Dun-
que l'affermazione teologica cruciale è nel v. 12: oùx Èç è:pywv IÌÀÀ,Èx
-rot:i xaÀot:inoç. Paolo rimanda a questa «storia della salvezza» scismatica
per mostrare come anche nel «presente salvifico» sono solo pochi i chia-
mati del popolo di Israele. Anche oggi è esattamente come un tempo:
Dio ha chiamato solamente una minoranza di Israele. E nessuno può
giudicare ingiusto questo operato. Infatti, a chi è lecito disputare con
Dio? V. 20: «Chi sei tu, o uomo, per contraddire Dio?»
Dunque Dio ha chiamato non solo una minoranza del popolo di Israe-
le ma anche persone tra i pagani, Èç Wvwv. La conclusione, per Israele, è
dunque nelle parole di Isaia: «Dio salverà (solo) un resto, -rò UTi:OÀEqJ.p.a
crw.[)~crE'!ClL>>. Con ciò Paolo potrebbe anche concludere la sezione riser-
vata a Israele. Infatti ha dimostrato con le parole della Scrittura che Dio
ha agito secondo la sua parola. Ha mostrato che ogni decisione viene
presa sul piano dell'agire di Dio, che perciò l'uomo non ha nulla da dire
nelle questioni riguardanti la salvezza né gli è lecito contestare Dio. Sul
piano teologico scelto da Paolo per sviluppare la sua argomentazione in
9,6-29 tutto si è svolto in modo teologicamente ineccepibile, e sotto l'a-
spetto teologico tutto concorda. Cosa ci sarebbe ancora da aggiungere?
Ogni altra parola sarebbe pura bestemmia.
La teologia di Paolo
Eppure, Paolo non interrompe l'argomentazione relativa a Israele,
Rom. 9,30-I0,21 - pur spostandosi ora su un piano diverso, quello della
condotta dell'uomo. A un primo sguardo, Rom. 9,30-I0,2I appare in
netto contrasto con 9,6-29. In tale pericope, infatti, tutta la problemati-
ca inerente a Israele era presentata come se fosse determinante il decreto
di predestinazione divino. Non una sola volta si parlava di fede. Lo stes-
so vale anche per la legge: in 9,r2, l'alternativa tra l~ Epywv vop.ou - lx
7ttO''tEwc;, fondamentale per la teologia paolina della giustificazione, ap-
pare significativamente modificata in l~ Epywv (senza il genitivo vo1.1.ou)
- Èx 'tou xaÀouvwc;. Se perciò quest'ultima antitesi riguarda l'opposizio-
ne tra Dio e uomo, l'alternativa fondamentale per la teologia paolina del-
la giustificazione riguarda il contrasto tra condotta umana giusta o sba-
gliata. Dunque l'argomentazione di 9,6-26, che ricorre alla monocausa-
lità divina, ignora il campo semantico della teologia paolina della giusti-
ficazione. Di conseguenza tale pericope sembra affermare la praedesti-
natio gemina nell'espressione addirittura classica coniata da Calvino.
Tuttavia 9,6-29 e 9,Jo-ro,2r restano in contraddizione solo finché le
due unità dell'argomentazione vengono poste nel rapporto causale di
un unico piano di realtà, cioè finché l'operato divino e umano vengono
considerati eventi reciprocamente calcolabili. Ma questo non è assoluta-
mente il caso. Il comportamento divino e quello umano non possono es-
sere sommati in una struttura complessiva unitaria, astrattamente com-
ponibile, poiché ciò che si deve dire «su» Dio e sul suo agire non può
essere estrinsecato come con-elemento di un evento immanente.
Se si considera questo dato di fatto teologico fondamentale, allora ha
senso che in 9,30-r 0,2 r ricorra il campo semantico della teologia paolina
della giustificazione: 7ttO''ttc;/mcr'tEUEt v, ÒtxatoO'UV'Y] (.S.EOu), vo1.1.oc;, X'YJP'J(j-
(J'Et V. Ora ha senso parlare della colpa di Israele, del suo zelo errato per-
ché privo di comprensione. Israele è colpevole perché non conoscendo
la giustizia di Dio ha cercato di imporre la propria giustizia, l'ha addirit-
tura «pro-stituita» e perciò non si è sottomesso al potere della giustizia
di Dio. Ora ha senso parlare della fine della legge, 'tÉÀoc; voµ.ou.5 8 Come
in Gal. 3,I2, anche in Rom. ro,5 il passo di Lev. 18,5 viene visto come
realizzazione di vita un tempo possibile in forza della legge mosaica, ma
che adesso, vista la situazione nel frattempo venutasi a creare, non è al-
tro che finzione. Ma da quando tale possibilità è divenuta una finzione?
Dal momento della caduta di Adamo, o dal momento della venuta di
Cristo e della comparsa della giustizia di Dio?
In 9,26-r 0,2 r, dunque, la teologia della giustificazione è espressa nel
contesto della tormentata questione d'Israele. Adesso come nel cap. 2 al
banco degli imputati siede Israele. E a coloro tra i cristiani di Roma che

58. La traduzione •scopo della legge» contraddice lo svolgersi dell'argomentazione, e


ideologicamente nasce da un intento teologico non sostenibile.
Le lettere di Paolo

sono giudeocristiani viene così ripetuto con estrema chiarezza che l'au-
tentico essere giudeo, ossia l'esistenza dalla legge, è una modalità ormai
superata. Chi intenda ancora ottenere la propria giustizia dalla legge,
considerandola un dono di Dio in grado adesso di donare la vita, pensa
in modo reazionario nel vero senso della parola. Era molto tempo fa che
la legge dispensava la vita. La torà sta dalla parte dello Spirito e dunque
della vita solo nel senso di Rom. 8,2. Ai giudeocristiani di Roma è detto:
voi siete cristiani in quanto, anche in qualità di giudeocristiani, non cer-
cate più di vivere «per la legge». La parola di Dio (di giustificazione e di
vita) è vicina a voi, ma solo in Cristo. Stando a Deut. 30,14, è la torà
stessa - ovviamente intesa non più come legge che pretende e in questo
modo dispensa la vita, ma come parola profetica che promette - ad af-
fermare che la via per la salvezza, per la crW1"1]pta ( r o, r. r o), non passa
più attraverso di essa. A questo riguardo la torà si smentisce per così di-
re da sola. Come in Rom. 4, anche in Rom. ro la legge viene inserita nel-
l'argomentazione teologica in quanto si annulla da sé nella sua funzione
di legge che conduce alla vita per mezzo di precetti. Ma già Isaia lo sa-
peva, ed aveva dichiarato che Israele era rimasto ostinato e ribelle, seb-
bene la lieta notizia fosse stata annunciata a tutto il mondo, e dunque an-
che Israele doveva averla udita. Per questo motivo Dio, tramite Isaia,
aveva annunciato che si sarebbe fatto trovare da coloro che non lo ave-
vano cercato (Is. 65,r =Rom. ro,20). Quindi non dovrebbe sorprendere
che oggi la chiesa presenti un volto prevalentemente etnicocristiano. E
così, Paolo chiude la seconda parte della sua argomentazione relativa a
Israele con una conclusione di grande effetto. Non è Paolo ad accusare
Israele, ma Dio stesso. È l'accusa che si può andare a leggere nelle pagi-
ne della sacra Scrittura di Israele. Mai come in Rom. 9-r r Paolo ha fatto
un ricorso tanto massiccio a dimostrazioni scritturistiche. In nessun al-
tro scritto paolino la prova scritturistica è stata presentata in modo tan-
to serrato. Chiunque può andarsi a leggere nella Scrittura la misera sorte
riservata a Israele in relazione alla salvezza divenuta realtà in Cristo. Ri-
correndo alla sacra Scrittura, che è essenzialmente sacra Scrittura di
Israele, Paolo è dunque stato in grado di fare una duplice affermazione:
r. se qualcuno nel gruppo dei cristiani - naturalmente si intendono in
primo luogo i giudeocristiani - dovesse accusare Paolo di trovarsi teolo-
gicamente su una falsa pista, allora la Scrittura dimostrerebbe l'origine
divina della sua teologia della giustificazione; 2. se qualcuno del gruppo
dei giudei dovesse obiettare a Paolo che il vangelo falsifica la parola di
Dio, perché una comunità salvifica senza la maggioranza di Israele dimo-
strerebbe l'inattendibilità delle promesse di salvezza fatte ad Israele e di
conseguenza l'inattendibilità di Dio stesso, allora la sacra Scrittura stes-
sa contraddirebbe una tale concezione. Ed è proprio Paolo a soffrire per
questo modo di comportarsi della maggioranza di Israele (9, r -5 ).
Ora finalmente è spiegato in maniera sufficiente, sia sul piano del-
La teologia di Paolo
l'azione divina sia su quello della condotta umana, il perché la maggio-
ranza di Israele sbagli non credendo in Cristo. Perciò con Rom. 10,21
l'argomentazione relativa a Israele potrebbe essere definitivamente con-
clusa. Ma, sorprendentemente, Paolo ricomincia ancora una volta da ca-
po. Se con la seconda unità argomentativa avevamo scoperto quali sor-
prese teologiche ci può riservare in qualsiasi momento, così anche ora,
si può contare su una nuova svolta inaspettata visto che in Rom. I 1,1-
36 egli dà un nuovo indirizzo all'argomentazione. Paolo prende il via
con un interrogativo la cui risposta, secondo quanto ha esposto in pre-
cedenza, dovrebbe essere abbastanza ovvia: Dio ha forse ripudiato il
suo popolo? Stando alla distinzione operata in 9,6 tra entità etnica Israe-
le, alla quale non è destinata la promessa di salvezza, e Israele autentico,
chiamato, eletto in mezzo a tale entità etnica, dovrebbe essere evidente
che ad essere chiamato non può essere il popolo in quanto tale. Secondo
9,6-29, la risposta all'interrogativo posto in 11,1 può essere solo una: Dio
ha realmente ripudiato il suo popolo. Ma, apparentemente contro ogni
logica, Paolo asserisce: µ ~ yÉvot-ro! Al lettore allibito viene poi offerta
nei vv. 2 ss. un'ulteriore motivazione, che inizialmente gli fa senz'altro
dubitare della facoltà logica dell'apostolo. Questi, infatti, lo rimanda nuo-
vamente alla nota immagine del cap. 9, l' «Israele dentro Israele», per
dirla con le parole di Cranfield. 59 E riporta due esempi, il primo riguar-
dante la sua persona, e il secondo - stavolta con il rimando alla Scrittura
- che ripete l'oracolo di Dio, XPl]!J-CX'n<rp.oç,; Regn. 19,18: «Mi sonori-
servato settemila uomini che non hanno piegato il ginocchio davanti a
Baal». La conseguenza è dunque (v. 5): «Così anche al presente c'è un
resto, conforme all'elezione per grazia, Àe:ip.!J.CX Xtx't'ÈxÀoy~v xapt'tOç».
Àe:i1J.1J.cx corrisponde all'unoÀe:tµµcx di 9,27 (= Is. 10,22: xcx'taÀe:t!J.!J.cx).
Inoltre, con xcx't'ÈxÀoy~v xapt'toç la scelta è caduta su una formulazione
che si sarebbe magnificamente prestata a fare da titolo teologico a 9,6-
29. E ancora una volta sorprende che a oùxÉ'tt è!; È'.pywv del v. 6 non
venga contrapposto Èx ntcr'te:wç, bensì - in analogia di contenuto con 9,
l 2 - xaprn, dando così espressione antitetica all'azione di Dio e a quella
dell'uomo. Non resta allora che ripetere il «Che dire dunque?» del v. 7,
a cui dare una risposta dal tono rassegnato: ciò che agogna Israele - in-
teso qui come popolo - lo hanno ottenuto solo gli eletti. 60 Dio ha indu-
rito6' gli altri, ossia la maggioranza di Israele. È indubbio che qui ci
troviamo nuovamente sul piano dell'agire di Dio - come al cap. 9. An-
che stavolta Paolo può citare la Scrittura, ricorrendo a un singolare ora-
colo tratto dalla profezia veterotestamentaria. Mentre in 10,20 s. aveva
menzionato esplicitamente Isaia dopo aver citato Mosè al v. 19, qui la

59. e.E.B. eranfield, ree 16/2, 471.


60. L'astratto ÈxÀoy~ per il concreto ÈxÀEx·rnL
61. Passivum divinum È7cwpcMJ't)cra.v.
Le lettere di Paolo 2 93

formula quotationis dice semplicemente xa.S.wç yÉypan:'tw. La citazione


riguarda Deut. 29,4, ma il concetto fondamentale m1e:u11.a xa'tavu!;e:wç
non ricorre in questo passo della torà, bensì in ls. 29,10. Anche qui ri-
corre nuovamente ò9..9aÀ(J.O'.Jç come in Deut. 29,4. A questa citazione fa
seguito un passo attribuito a Davide (= ~ 68,23 s.) in cui compare di
nuovo un passivum divinum: crxo'ttcr.S.~'twcrav o! òrp..9aÀ1J.ot aÙ'twv "t"O'J
(J-~ ~ÀÉn:e:tv. È stato Dio a togliere loro la capacità di vedere in questioni
spirituali. Israele non deve comprendere la rivelazione di Dio. È Dio a
volere la cecità di Israele.
Secondo lo stile dell'argomentazione paolina che abbiamo presenta-
to, interpretandolo, sino a questo momento, le unità 9,6-29; 9,30-10,21;
l l, l - lo sarebbero ordinate secondo lo schema A B A, se non fosse per
la risposta di r l, l, apparentemente insensata, che stravolge tutto lo
schema. Ma è proprio questo ciò cui mira la strategia retorica di Paolo: a
quanto pare, prima di tutto vuole provocare turbamento nei suoi lettori.
In questa sua strategia rientra il nuovo interrogativo che pone al v. II:
«Inciamparono (gli israeliti) per cadere?», cui risponde con un ennesi-
mo 11-~ yÉvot'to! Facendo seguito a questo enfatico «no», Paolo comincia
- finalmente - a svelare la soluzione dell'angoscioso enigma Israele: a
causa della sua caduta i pagani riceveranno la salvezza per suscitare la
gelosia degli israeliti. Ma con l l,I la «storia della salvezza» viene ribalta-
ta, se si mette a confronto questo versetto con l'affermazione program-
matica di l, r 6. In essa la crw'tripia era destinata prima ( n:pw'tov) al giudeo
e poi al pagano. In l r, l, invece, la medesima crw'tripia spetta prima alle
nazioni e solo poi agli israeliti. Ma ciò che è svantaggioso per Israele in
termini di tempo, è tanto più vantaggioso ("t"Ò n:À~pw11-a aÙ'twv) in ter-
mini di quantità (n:ocrqi IJ.iiÀÀov). In questo n:À~pw1J.a è già contemplato
il miç 'fopa~À.
Ecco dunque la soluzione: bisogna che la salvezza dei pagani scateni
la gelosia di Israele. Il ripudio di Israele comporta la riconciliazione dcl
mondo. Di conseguenza la sua riammissione è «vita dai morti, ~w~ Èx
ve:xpwv», v. r 5. Se ad occhi umani lagire di Dio è paradossale anche solo
perché ribalta la cronologia della salvezza da lui stesso stabilita in l, r 6,
tanto più lo è quando realizza la salvezza per mezzo del peccato e del-
l'incredulità. Si riconosce qui nuovamente il topos della creazione nuo-
va: come in Rom. 8 l'immagine grandiosa della risurrezione dei morti
faceva da sfondo veterotestamentario alla nuova nascita di Israele, così
tale immagine si condensa nella formula incisiva della ~w~ Èx ve:xpwv -
immagine che riesce a non essere terrificante solo per chi ha molta fami-
liarità con essa. Ma Paolo ricorre qui a tale espressione per dar voce a
qualcosa di grandioso, ossia l'agire di Dio che non rientra in alcuno sche-
ma umano. Ai cristiani di Roma Paolo vuole comunicare che, secondo i
criteri umani, il modo di operare di Dio può essere accolto solo scuo-
tendo la testa.
294 La teologia di Paolo
Per un'argomentazione oggettiva, puramente teologica, a questo pun-
to Paolo potrebbe introdurre già il mistero di l l,25 s. Ma a lui un'espo-
sizione teologica «oggettiva» interessa poco. Parlare in termini teologici,
infatti, implica sempre il riferimento alla situazione e ai destinatari. E lo
stesso avviene anche qui. Ora Paolo si rivolge agli etnicocristiani di Ro-
ma. Non argomenta più come se si rivolgesse contemporaneamente an-
che a Gerusalemme. La città non è più la destinataria segreta, perché ad
essere interpellati apertamente sono ora gli etnicocristiani di Roma (quel-
li di idee paoline): UfJ-tV ÒÈ ÀÉyw 'totç Wwnv. Adesso Paolo parla uffi-
cialmente come apostolo dei gentili, v. 13. E a partire dal v. 17 si rivolge
all'etnicocristiano di Roma con il «tu». La similitudine dell'oleastro e
del ramo innestato deve trattenere l'etnicocristiano dal disprezzare i giu-
deocristiani che - purtroppo - pensano ancora in termini legalistici.
Rom. l I, I 7-24, che spesso è stato ingiustamente caricato di significato
teologico e trattato emotivamente, è una sorta di excursus, nato da stra-
tegia retorica. È evidente che in esso si comincia anche ad intravedere la
tematica della controversia che verrà trattata nei capp. 14 e l 5.
Ma quando Paolo in Rom. 11,25 s. confida ai cristiani di Roma il mi-
stero, [J-Ucr't~pwv, di come Dio salva tutto Israele, ossia per mezzo di un
indurimento parziale - à7tÒ iJ.Épouç è un eufemismo - fino al momento
in cui saranno entrate tutte le genti, l'espressione 7taç 'Icrpa~À crwiJ.~crc.­
'ta( va in una duplice direzione. In primo luogo ai giudeocristiani è
detto: il vostro popolo non è perduto. Agli etnicocristiani invece è det-
to: voi non siete gli unici eletti da Dio. E sulla scia di questa asserzione,
per motivarla Paolo riporta nuovamente una citazione, ovvero Is. 59,20
s. Dunque la Scrittura stessa afferma che il salvatore - il p1;01J.c.voç di
Rom. l l,26 è naturalmente il puo1J.c.voç di 1 Tess. l,10 - di Israele toglierà
i peccati. Più oltre vedremo come dietro il 7taç 'Icrpa~À crwiJ.~crc.'tm si
celi, inesP.resso, il passo di Is. 45,25 LXX. L'enigma Israele è dunque un
mistero. È un mistero di Dio talmente grande, che concludendo la se-
zione riguardante Israele Paolo può solo esclamare, l l,33: «O profondi-
tà della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono
imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!». Poi, ripetendo le
parole di Is. 40,13, si chiede chi mai conosca lo Spirito del Signore. E
poiché egli possiede questo Spirito, conosce il mistero di Dio, il mistero
d'Israele. Già in I Cor. 2, 16 aveva citato questo stesso interrogativo, spie-
gando che poiché egli possedeva tale Spirito era in grado di comprende-
re la theologia crucis. Dunque è lo stesso Spirito quello in cui sia il mi-
stero di Israele sia la theologia crucis divengono conoscenza spirituale del
cristiano. La forza retorica di questa domanda viene rafforzata in Rom.
l l,34 s. dai due interrogativi che seguono, tratti da Giob. l 5,8 e Ger.
23,18. E la sezione Rom. 9-11 riguardante Israele non può che conclu-
dersi con una lode a Dio. L'amen che chiudeva i versetti iniziali della se-
zione, 9,5, trova corrispondenza nell'amen di l 1,36. In senso retorico, en-
Le lettere di Paolo 295
trambi gli amen hanno persino funzione di inclusio. Con la dossologia
finale Paolo accoglie i cristiani di Roma nell'amen che egli stesso pro-
nuncia. Chi lo ha seguito lungo la sua argomentazione teologica non può
che unirsi a lui nell'esprimere il suo amen al mistero di Dio.

La teologia della lettera ai Romani


L'analisi retorica ha già fatto emergere intenti e contenuti teologici
principali della lettera ai Romani. Perciò, nel paragrafo che segue non
sarà più la lettera nel suo complesso ad essere interpretata quanto alle
sue affermazioni teologiche, ma sarà il contenuto teologico dei suoi pas-
si centrali ad essere enucleato dettagliatamente e con il dovuto approfon-
dimento.

Peccato e giustizia
Stando a Rom. r,14 Paolo intende annunciare il vangelo ai
romani, eùay-yeÀiaaa-8at. Ma finisce per parlare del vangelo.
Con una formulazione concisa, che un po' semplifica la strut-
tura retorico-argomentativa piuttosto complessa di Rom. r, si
può parlare di teologia del vangelo invece che di annuncio del
vangelo. Paolo vuole annunciare il vangelo perché non se ne
vergogna, cioè lo professa. Perché esso è potenza di Dio per la
salvezza di chiunque crede, per il giudeo prima e poi per il
«greco». A~ 67,12 come sfondo veterotestamentario abbiamo
già rimandato. 62 Paolo leggeva tale testo in termini escatologi-
ci, nel senso che il Signore darà molto potere a coloro che an-
nunciano il vangelo di Gesù Cristo: xupwc; òwaei p'ij!J.a 'tote;
eùayyeÀiso(J.Évoiç ÒUWX(J.Et noÀÀ fl. A dire il vero c'è da chie-
dersi se contasse sul fatto che, per associazione, i romani a-
vrebbero pensato al versetto del salmo (incluso il suo conte-
sto); tuttavia, visto che i salmi facevano parte del suo patrimo-
nio intellettuale e spirituale naturale, si può comunque ipotiz-
zare che almeno lui avesse in mente tale salmo. Il Dio di cui
l'Antico Testamento non si stanca di proclamare grandezza e
potenza, maestà e magnificenza, rende partecipi di questa sua
dynamis i messaggeri del vangelo, vangelo che fanno diventare
62. Voi. r, 197 su Rom. 1,16 s., a integrazione di Hays, Echoes of Scripture, 36 ss.
La teologia di Paolo

potenza di Dio nel momento in cui lo annunciano ai credenti


destando in loro la fede (cfr. 1 Cor. 1, 1 8). Così facendo, mes-
saggeri del vangelo e credenti partecipano insieme alla dyna-
mis di Dio. Paolo, dunque, parla del vangelo perché in questa
parola comprende sia Dio sia se stesso come apostolo e tutti i
credenti; il vangelo è la dynamis di Dio, l'apostolo esprime la
dynamis di Dio, e nel credente opera la dynamis di Dio. Dio,
la fede e la salvezza (crw-rripia.) nel vangelo si incontrano; esso è
per così dire il luogo teologico in cui si realizza l'evento che
vede l'uno accanto all'altro il Dio che salva e l'uomo salvato.
E poiché parla di ogni credente, questo luogo teologico è pre-
sentato al contempo nella sua dimensione ed esistenza eccle-
siologica: 63 l'essere della chiesa è un essere per la parola di
Dio. Ma l'agire della parola di Dio è l'agire di Dio stesso. Di
conseguenza, laddove la parola di Dio è pronunciata nell'an-
nuncio, Dio è presente come colui che parla e come colui che
parlando opera la salvezza escatologica.
L'opera di salvezza di Dio è spiegata nel v. 17 - ancora un
yap causale: nel vangelo, la giustizia divina - òixa.wcruvri -8e:ou
è precisamente il concetto chiave di Rom. - è manifestata ed è,
come bisogna completare, in lui manifesta. Nel vangelo e per-
ciò nell'annuncio della chiesa Dio stesso dunque si rivela co-
me il Dio che giustifica. Manifestandosi nel vangelo annuncia-
to, Dio crea la propria chiesa con coloro ai quali si manifesta.
Ma se l'uomo è essenzialmente di natura forense, ossia un es-
sere che necessariamente punta alla giustificazione, 64 allora la
promessa della giustizia che farà liberi, pronunciata nel com-
pimento della rivelazione della giustizia di Dio, è anticipazio-
ne del tribunale escatologico nel giorno del giudizio. Il futuro
di salvezza escatologico viene accolto hic et nunc nel tempo
presente, e analogamente colui che crede viene già trasferito
dal tempo presente nel futuro. Quanto strettamente il divenire
efficace del Dio che opera sia «legato» alla fede che accoglie il
vangelo come parola divina lo dimostra il marcato Èx 7ticr-re:wc;

63. La chiesa composta da giudei e pagani.


64. V. anche voi. I, 256 ss.
Le lettere di Paolo 297
dc; 7tlcr·nv - parafrasato: origine e scopo dell'uomo giustificato
è la fede, espressione che, unica, riceve una dimostrazione scrit-
turistica: Ab. 2,4. 65 Quello che nell' argumentatio di Gal. era
un passo biblico tra i tanti, diventa l'unico nella propositio di
Rom., ossia nel suo titolo teologico. Pertanto al passo di Aba-
cuc è attribuito un peso teologico ben maggiore rispetto a quel-
lo che ha in Gal. Se la ÒtxawcruVYJ -8e:ou rappresenta indiscuti-
bilmente il concetto chiave di Rom., essa tuttavia ricava un
profilo teologico solo dalla connotazione che le deriva dall' as-
sociazione con la 7ttcr-rtc;: ciò che è realmente la ÒtxawcruvYJ
-8e:ou si evidenzia in particolare dalla sua «dipendenza» dalla
7tLcr-rtc;. E poiché Dio, in quanto Dio che giustifica, «dipende»
dalla fede del credente, allora la sua dynamis così potente è
affidata alla debolezza dell'uomo. Questa condizione di dipen-
denza e abbandono di Dio è ovviamente circoscritta entro un
orizzonte storico, e solamente qui ha significato e concretezza.
Proprio perché in base a criteri puramente umani Dio opera in
maniera stolta (1 Cor. l,18 ss.) può, essendo lui il Potente, la-
sciare che l'azione della sua potente parola evangelica sia an-
nullata da coloro che vanno a perdizione - questo, tuttavia,
con la terribile conseguenza che quanti annullano il vangelo
diventano essi stessi vittime di questo processo di annienta-
mento, facendosi trascinare nel vortice di un realismo privo di
salvezza. 66 Comunque, qui Paolo non tratta il tema dei non
credenti. In questo passo programmatico gli preme piuttosto
ribadire che solo e soltanto il credente potrà partecipare della
giustizia di Dio perché ha prestato ascolto al vangelo. Dio
parla - l'uomo ascolta. Tutto dipende da questa reciprocità tra
Dio e uomo: il parlare di Dio modifica la realtà del mondo, e
l'ascolto dell'uomo prende parte al suo divenire efficace.
È evidente il motivo per cui Paolo nella propositio di Rom. supporti con
una dimostrazione scritturistica soltanto la fede e non anche la potenza
di Dio né la sua giustizia: che Dio sia il Potente, che la sua parola parte-
65. Per Ab. 2,4 v. a Gal. 3,11.
66. V. I Cor. l,18: "t'otç tJ.È:v chcoÀÀuiJ.Évotç. 1 Cor. 1,24 s.: "t'o à.rr.SevÈç "t'oli ·.9eou connota
·.9eou ouva1J.tv. Queste premesse ideali di 1 Cor., pur non essendo menzionate in Rom.
l, l 6 s., sono tuttavia implicite.
La teologia di Paolo

cipi della sua potenza, e infine che in tale parola si riveli la sua giustizia,
sono tutte affermazioni che, almeno in linea di principio, costituiscono
una convinzione di fondo dell'Antico Testamento, tanto radicata da con-
sentire a Paolo di fare a meno di dimostrare espressamente quelli che
erano fatti ovvi, su cui convenivano sia lui sia la sua comunità. Così al-
meno poteva evitare di appesantire ulteriormente il contenuto della pro-
positio programmatica.
Oggi, tuttavia, è il significato dell'espressione Ò&xa.wcruvYJ
.{)e:ou ad essere controverso. Che per essa l'elemento forense
sia costitutivo non ha certo bisogno di essere motivato. C'è pe-
rò da chiedersi se la giustizia sia da intendere con Rudolf
Bultmann come semplice dono di Dio all'uomo, oppure se
con Ernst Kasemann vada considerata sia dono di Dio sia po-
tenza di Dio. Nel contesto di l, l 6, il suo carattere di potere non
può essere ignorato. 67 Se infatti il vangelo è presenza in forma
di parola del Dio potente, e se Dio nel vangelo è colui che si
manifesta con potenza e proprio per questo è colui che giu-
stifica l'uomo in virtù della sua fede, allora la dynamis di Dio
e la giustizia di Dio sono teologicamente espresse in una cor-
relazione talmente stretta, che una definizione della giustizia
di Dio solamente partendo dal suo carattere di dono è inade-
guata. 68 Quanto era stato teologicamente illustrato in Gal. a
proposito di Ò&xa.&w.{)ljva.& e Ò&xa.wcruvYJ, 69 viene ora portato a
un livello ancora superiore. Là Dio era il soggetto marcato del
Ò&xa.wuv (Gal. 3,8; passivum divinum Gal. 2,16), e Ò&xmocruvYJ
era quanto spettava al giustificato. Ora, però, in Rom. l,16 s.
la giustizia viene presentata come giustizia di Dio in modo tale
da divenire sua presenza, suo agire presente nell'evento della
giustificazione. Se per Gal. Dio - per dirla in termini piuttosto
semplicistici - agisce in modo giustificante sull'uomo che cre-
de, per Rom. l,16 s. nell'annuncio del vangelo è espresso il ri-
67. V. l'ampia dimostrazione riportata in Hi.ibner, La legge in Paolo, 212 ss.
68. Ovviamente, solo sulla base della relazione logica tra il v. 17 e il v. 16 non è possi-
bile definire la Òntcxtocruv'Y) ·.9Eou a partire dalla òuvcxµ.tç ./)gou. Tuttavia, con questo ten-
tativo di definizione non ci si avvicina certo a ciò che Paolo intende dire. Al contra-
rio, egli combina insieme realtà diverse in un modo che non rispetta le leggi di una
logica strettamente aristotelica.
69. Per Gal. è possibile intendere Òtxcxtocruv-ri come dono. Ma qui ancora non si parla
affatto di ÒtXCXtOO"UV'Y) ·.9EOu.
Le lettere di Paolo 299
velarsi di Dio in colui che sta per essere giustificato. Paolo si
esprime in modo teologico riguardo a questo processo, ma in
questo suo parlare in termini teologici rimanda a una parola di
Dio, al -8Eou Àoyoc,, all'evento di Dio nei confronti di colui che
ascolta il vangelo. Dove l'uomo ascolta Dio, Dio stesso gli ac-
cade. Dio è dunque soggetto e al tempo stesso evento della
giustificazione. Così facendo, in Rom. Paolo ha spostato su un
piano tea-logico il suo discorso sulla giustizia così come ricor-
reva in Gal.
Ma parlare di giustificazione come di un evento è per certi versi ambi-
guo; si potrebbe infatti fraintendere e pensare che la giustificazione sia
un qualcosa che accade una volta sola.7° Invece l'uomo resta nell'ambi-
to di potere della giustizia di Dio. 71 Già la forma al presente di cbt0xa-
ÀU7t'!e:'!at richiama un evento che avviene gradualmente e in maniera con-
tinuativa. Mentre l'espressione appena ricordata e molto discussa, Èx 7ttcr-
-re:wç e:lç 7tLCJ'!tV, intende affermare che l'evento di rivelazione della giu-
stizia di Dio in favore dell'uomo ha inizio con la fede (lx 7ticr-re:wç), ma
che l'esistenza del giustificato resta pur sempre un'esistenza in funzione
della fede (e:lç 7tLCJ'!tv). 72 In questo senso, anche la citazione di Abacuc
può essere convenientemente interpretata: chi è giusto per fede - dun-
que chi esiste per la fede 73 -vivrà. Anche qui il futuro (logico), ~~cre:-rm,
non è espressione di un qualcosa che accade una volta sola.

70. Una simile interpretazione rafforzerebbe la tesi di Sanders, secondo il quale la fe-
de va intesa puramente come condizione di partenza.
71. Anticipando Rom. 3,21, facciamo presente che stando a tale passo la giustizia di
Dio ora si sarebbe manifestata senza la legge, 7tEcpavepw'tat. Questo perfetto afferma
che essa, fin dalla sua comparsa nella storia dell'umanità, è stata determinante per l'esi-
stenza. È giustizia di Dio per mezzo della fede, òtà 7ttO''!Ewç, in Gesù Cristo per tutti
coloro che credono. La forma al presente mxnaç "toÙç mcr'!Euov"taç sta a indicare che
resta credente chi è giunto alla fede.
72. Similmente ad es. Kasemann, HNT, 28, il quale, citando Fridrichsen (con enfasi,
«continuità ininterrotta» nel senso della sola fide) e Stuhlmacher («dimensione del
Mondo Nuovo»), così si esprime: «La rivelazione della giustizia di Dio, essendo lega-
ta al vangelo, si realizza sempre e soltanto nell'ambito della fede». J. Dunn, WBC, 43
s., tuttavia, richiamandosi a Karl Barth, si chiede se Paolo con Èx 7ttO''!Ewç non inten-
da la fedeltà di Dio e con dç 7ttO''!tv la fede dell'uomo. A mio parere si tratterebbe di
un'interpretazione eccessiva. Obiettivamente mi trovo però d'accordo con Dunn
quando dà quest'interpretazione di 7tani "tc\i mcrnuov'!t al v. r6 (p. 40): «... egli desi-
dera mettere a fuoco non soltanto l'atto iniziale della fede, ma la fede come orienta-
mento continuo e motivo di vita»,
73. Ovviamente qui Èx 7ttO''!Ewç come contenuto non è perfettamente equivalente a
èx 7ttcrnwç del v. r7a, ma corrisponde all'espressione o[ Èx 7ttO''!Ewç di Gal. 3,7.
300 La teologia di Paolo

Come già si è accennato, la propositio passa quasi inavvertitamente al-


i'argumentatio. Richiamandosi alla rivelazione dell'ira di Dio che dal cic-
lo si riversa su ogni empietà, Paolo introduce l'ampia sezione che ha per
oggetto la peccaminosità degli uomini. La conclusione viene tratta in
Rom. 3,9: tutti, giudei ed «elleni», sono sotto il dominio del peccato, ù?'
aµ.etp't'letv.
Certo è singolare che il termine ap.etp't'la, dominio del peccato, all'in-
terno dell'argomentazione che prende le mosse da l,18 ricorra solamen-
te a questo punto. Infatti, dove è detto nella dimostrazione portata in pre-
cedenza che gli uomini sono caduti sotto un dominio tanto tremendo,
o, per dirla in termini ancora più cauti, che si sono assoggettati a tale
dominio? Si diceva infatti che essi hanno peccato, coscientemente e de-
liberatamente peccato. Al massimo si potrebbe rimandare al triplice TCet-
pÉÒwxe:v etÙ't'oÙç b .Se:oç (1,24.26.28), laddove si dice che Dio abbandona i
peccatori a peccati ulteriori. Questo però vale tutt'al più per le afferma-
zioni riguardanti i pagani, non certo i giudei (inizio di 2,1 o, stando a
un'esegesi differente, 2,17). Dobbiamo dunque dedurre che in 3,9 viene
emesso un giudizio teologico che non necessariamente si basa sulla si-
tuazione descritta in l,18-2,29. Ciò che comporta l'essere sotto il do-
minio addirittura satanico della hamartia si palesa in tutta la sua terribi-
le portata, in tutta la sua catastrofica miseria, solo a colui che crede (cap.
7). Il giudizio di fede di 3,9 anticipa dunque l'argomentazione di Rom. 7
in cui, partendo da una retrospettiva di fede, è descritta la situazione di-
sperata e fatale dell'uomo prima di Cristo e senza di lui. E a questo pun-
to anticipiamo anche che in 3,20 - ove troviamo a conclusione di tutta la
sezione 1,18-3,20 ciò che in Gal. 2,16 costituiva lapropositio - Paolo di-
chiara che attraverso la legge si ha (solo) la conoscenza della hamartia,
òtà yàp vo1..t.ou bdyvwcrtç aµ.ap't'laç. Anche a questo proposito c'è dari-
levare che, per chi si trova ancora sotto la legge (v. 3,19: 't'otç èv [!] 't't~
vo1..t.cp), è assolutamente impossibile conoscere realmente la hamartia.
Anche qui Paolo anticipa quanto tratterà diffusamente nell'argomenta-
zione successiva di Rom. 7.
Rom. 1,18 inizia con un forte cbtoxaÀu7t-re:-rcu. È tipico del
pensiero teologico di Paolo l'uso ricorrente della forma pre-
sente. È al presente che si guarda; il passato è importante so-
lamente se condiziona il presente. A differenza di 5, 12 ss. non
vi sono riferimenti ad Adamo; tuttavia, per quanto riguarda
l'antropologia teologica 1,18 ss. è compatibile con le afferma-
zioni paoline riguardanti Adamo. Paolo, infatti, comprende
Adamo a partire da coloro che, in quanto peccatori, sono «in
lui» (1 Cor. 15,22). 74 Se dunque Adamo, senza metterne in di-
74· In Rom. 5,12 ss., però, non iv 't'cjl 'AM1~, v. sotto.
Le lettere di Paolo 301

scussione l'essere individuale, è una figura cosmica di cui uno


degli aspetti essenziali è la corporate personality, allora ad es-
sere tematizzata in Rom. l,18 ss. è proprio quest'umanità ada-
mitica, anche se senza riferimenti espliciti ad Adamo.
Certo, la perversione del genere umano è in misura pre-
ponderante di natura etica, o almeno così indica il primo àot-
xla di l, l 8, mentre in àcrÉ~e:ta potrebbe essere implicito. Tut-
tavia, l'essere immorale dell'uomo in fondo è semplicemente
un sintomo della corruzione vera e propria: gli uomini rinne-
gano Dio, e così facendo distruggono anche se stessi. 75 La com-
prensione pervertita di Dio ha come conseguenza la compren-
sione pervertita dell'uomo. Se gli uomini reprimono la «veri-
tà», àÀ~-Be:ta - e qui, come chiarisce 1,19 ss., la verità è il ma-
nifestarsi di Dio nella sua creazione -, allora fanno violenza
alla loro stessa realtà, voluta da Dio. Di fatto, dunque, perver-
sione nel senso stretto del termine significa che gli uomini mo-
dificano il loro orientamento fondamentale, stravolgono il lo-
ro essere orientati a Dio defraudandosi da soli della loro stessa
umanità. Ma se in tal senso l'uomo agisce in maniera autodi-
struttiva, Paolo già ora abbozza ciò che dirà apertamente solo
in 3,9, ossia che l'atto di peccare è ciò in cui il peccato si mani-
festa come potere.
Colui che reprime la verità è incredibilmente stolto. Con-
traddice infatti un'evidenza, e cioè che la verità in realtà è in-
commensurabile. E nell'impiego linguistico che Paolo fa del
termine àÀ ~.S.e:ta traspare in parte ciò che esprime l'etimologia
di questo vocabolo greco, ossia la disvelatezza.7 6 Il v. l 9 moti-
va il v. l 8 proprio in tal senso: esistono aspetti di Dio 77 che so-

75. Per Kasemann, HNT, 34 s., àa-É~rnt e àòtxio. costituiscono un' endiadi; dello stes-
so avviso anche H. Schlier, HThK VI, 50 (tr. it. 104). Secondo C.E.B. Cranfield, ICC,
r 12, i due termini sono «usati come due nomi per la stessa cosa». Non possono essere
determinati in modo semplicemente denotativo, ma il loro significato risulta dalla con-
notazione che hanno in Rom. 1. E dal modo in cui lì procede l'argomentazione è da
escludere un significato prevalentemente morale.
76. Questo vale anche se Heidegger, e Bultmann sulla sua scia, avrebbero sottolineato
forse eccessivamente questo aspetto; al riguardo v. Hiibner, EWNT I, 138 ss. (DENT
I, I 5 3 ss.); per Paolo, 142 s. (DENT 1, 156 s.).
77. Poiché -.:oli ·9wii può essere gen. partitivus, qui ci limiteremo a parlare di «aspetti».
302 La teologia di Paolo

no manifesti agli uomini, cpave:pov; Dio stesso li ha rivelati lo-


ro, ÈcpavÉpwcre:v. Dunque à.À ~-8e:ta rientra nel contesto della ter-
minologia della rivelazione, e di conseguenza consiste esatta-
mente in ciò che Dio ha creato nel mondo perché con la sua
evidenza rimandasse a lui. Ciò si palesa ulteriormente nel v.
20, anch'esso causale. Il pensiero, che in un primo tempo ap-
pare tanto paradossale ('tà àopa'ta - xa-8opa'tat),7 8 perde il suo
carattere paradossale se se ne riconosce la premessa di fondo:
l'uomo, con la sua mente, è in grado di andare oltre la sfera
dell'esistente. Pensare, voe:Iv, è appunto la facoltà dell'uomo di
non accettare la prima realtà che gli si presenta come un qual-
cosa di definitivo, di valido una volta per tutte, un qualcosa in
cui consolarsi, ma di ricercare il vero fondamento di questa
presunta realtà ultima. Il v. 20 è interamente formulato a parti-
re dalla teologia della creazione (à.7tÒ x'tlcre:wç, 'toiç 7tot~µ.acrtv).
Per Paolo, dunque, c'è un rivelarsi di Dio nella creazione, o
meglio un rivelarsi in quanto Dio della potenza e della divinità
eterne. Non si può negare che qui l'apostolo esponga le idee
di una theologia naturalis. Né si può ignorare che lo faccia in-
fluenzato dalla filosofia popolare ellenistica. 79
Questa circostanza, oggi, per molti versi può anche essere
scandalosa. Le obiezioni mosse dalla filosofia trascendentale
di Kant alle prove dell'esistenza di Dio sono divenute ormai
parte integrante dell'articolazione moderna delle plausibilità.
E ora più che mai una tale theologia naturalis non pare adat-
tarsi al dogma teologico della sola fide. Tuttavia c'è veramente
da chiedersi se la critica kantiana alle prove di Dio riguardi la
theologia naturalis che Paolo sostiene. Infatti potrebbe essere
che questa riprenda sì importanti elementi della filosofia po-
polare ellenistica, inserendoli però in tale misura in un nuovo
sistema teologico di coordinate, da provocare un sostanziale
spostamento di intenti. Ed è esattamente questo il caso.
Infatti, in Rom. 1, 18 ss. non si tratta tanto di dimostrare che
78. Per Schlier, HThK, 52 (tr. it. 107), saremmo di fronte a un ossimoro.
79. Kasemann, HNT, 3 5: «Indubbiamente i sostantivi astratti '\'a à6pcx'tcx cxÙ'\'ou, àiòwç
òuvcx1J.tç, 8-Eto'\'Yjç, e l'espressione vooutJ.Evcx xcx·9op<i'tcxt rimandano a un contesto di fi-
losofia popolare ellenistica»; v. anche le citazioni riportate in op. cit., 3 5 s.
Le lettere di Paolo

Dio esiste, quanto che coloro che qui sono accusati di empietà
hanno defraudato Dio della sua divinità, .SEtO't"YJç. Anch'essi
credono in Dio, o negli dèi; ma non venerando Dio in quanto
tale, pur avendo la capacità di conoscerne la divinità, e non ri-
conoscendolo nella sua doxa - in fondo è proprio questo che
significa Èool;a:cmv -, essi sono stati resi stolti da questo Dio
«disonorato», che ne ha ottenebrato il cuore ottuso. 80 Il v. 22
ricorda I Cor. 1, 1 8 ss. Il v. 2 3 presenta il terribile risultato del-
la situazione disperata provocata da Dio: gli uomini, pervertiti
nella forma più grave di stoltezza, pervertono ora la doxa del
Dio incorruttibile «con il contorno dell'immagine dell'uomo
corruttibile, e degli uccelli, dei quadrupedi e dei rettili». 81
Se anche, come si è visto, il concetto di hamartia non è an-
cora menzionato in Rom. 1,18 ss., tuttavia è evidente che Pao-
lo intende rivelare una correlazione spaventosa: il peccato por-
ta al peccato. Questa formulazione forse un po' troppo con-
cisa va precisata meglio: le azioni di peccato - qui non ricorre
neppure il termine specifico 7ta:pa:~acrEtç-liberano il potere del-
la hamartia e pongono in suo potere. Ma, stranamente, sono
proprio le colpe contro Dio a trascinare l'uomo nella catastro-
fe morale, con una specie di sanzione immanente. L'uomo di-
sonora Dio, e così facendo viene disonorato egli stesso fin nel-
la sua realtà corporea. Al 't"Òv .SEÒv oùx wç .SEÒv Èòol;a:cra:v di 1,
21 corrisponde la terribile conseguenza di 1 ,24: dç àxa:-8a:p-
crla:v 't"OU à't"tµa~Ecr-8a:t 't"à crwµa:'t"a: a:Ù't"W\I È\I a:ù't"oiç. 82 La natu-
ra dell'uomo, la sua qiucriç, è trasformata nel suo contrario, l'uo-
mo è divenuto perverso, 1,26 s.
Abbiamo parlato poco fa di sanzione immanente, ed ora è
necessaria una precisazione. Certamente è conseguenza del di-
sonore di Dio ad opera dell'uomo che questi disonori se stes-
so. Non riconoscendo Dio come tale, egli infatti ha perduto il
metro di misura essenziale per la sua vita. Sotto l'aspetto teo-
logico, tuttavia, se l'uomo è tale in senso stretto e sostanziale
solo quando sta in relazione corretta con Dio - è questa no-
So. È(J.cnmw·lh1crav, Ècrxo'ttcr.S'YJ ed ÈiJ.wpcl.v.S'Y]crav sono passiva divina.
8 r. Traduzione secondo Kasemann, HNT, 33.
82. V. anche Rom. 1,26: dç 7ta'9'YJ àmµiaç.
La teologia di Paolo

toriamente un'eredità già veterotestamentaria-, allora perde se


stesso quando stravolge tale relazione o addirittura la distrug-
ge. Tuttavia si può parlare solo con riserva di sanzione imma-
nente, visto che al centro di questa immanenza in fondo è Dio
ad operare. Se anche l'espressione «ha abbandonato, r.apÉ:-
òwxr::v» potrebbe far pensare che Dio non ha fatto altro che
permettere l'autodisonore dell'uomo, tuttavia una tale inter-
pretazione resta inadeguata. Giustamente Ernst Kasemann, ri-
chiamandosi a Taylor, afferma: «La connessione tra colpa e
destino come realtà dell'ira divina viene spiegata ... in modo er-
rato partendo da una causalità immanente (Dodd e i suoi di-
scepoli). A Paolo, tuttavia, preme sottolineare che in questo
evento apparentemente immanente è Dio stesso che di nasco-
sto agisce in modo vendicatore (Taylor)». 83 Come giustamente
fa notare Kasemann, qui occorre tener conto dello sfondo ve-
terotestamentario: Dio stesso provoca l'ottenebramento. Il già
ricordato èµ.a-ratw-Bricrav del v. 21 è probabilmente un'allusio-
)
ne a G er. 2, 5: a7tr::cr-rricrav
I
µ.axpav a7t r::µ.ou xat E7tOpEuvricrav
\ ' '' l(l - \ '

Ò7ticrw -rwv µ.a-raiwv xaì èµ.a-ratw-Bricrav. Qui Kasemann scor-


ge anche una reminiscenza di ~ 93,1 1. 84
Ma ciò che soprattutto è importante è che qui incidono an-
che idee tratte dalla Sapientia Salomonis. Come primo passo
va ricordato Sap. 13,1: µ.chaiot µ.Èv yàp mb-rr::ç &v-8pw7tot i;ou-
crEt, o[ç 7tapYjv -BEou àyvwcria. Ma se qui l'autore parla della man-
canza della conoscenza di Dio, ad interessarlo non è tanto un
rinnegamento di Dio in linea di principio. Quanti vengono
accusati di -Bwu àyvwcria non hanno affatto contestato l'esi-
stenza di un dio, ma nella loro stoltezza e nel loro accecamen-
to non hanno riconosciuto chi è il vero ed unico Dio. Se Pao-
lo, in Rom. 1, 18 ss., mette sotto accusa la perversione del culto
che venera come divinità uomini e animali, lo stesso avviene
anche in Sap. 13-15. 85 E come l'autore di Sap. individua nel
83. Kasemann, HNT, 39.
84. <} 93,11: xupwç YLVWO'XEL 'tOÙç Ota),oytcr1~0Ùç 'tÙJV av'9pùinc1JV O'tL dcrlv 1~a'tClLOL.
85. Che Paolo riprenda volutamente il libro della Sapienza è stato nuovamente dimo-
strato in maniera convincente da Timo Laato, Paulus und das ]udentum, I06 ss. Mol-
to utile è la sua elencazione delle analogie lessicali tra Rom. 1, 18~2,5 e Sap. (pp. 118 s.).
Le lettere di Paolo

falso culto le radici della depravazione morale (Sap. 14,12 ss.),


così anche Paolo. Tale corrispondenza è fondamentalmente
significativa per la comprensione di realtà che sta alla base dei
due aspetti. Il modo in cui un individuo vede Dio o i suoi dèi,
la maniera in cui si atteggia nei suoi o nei loro confronti, per
l'autore biblico non rientra affatto in una sfera religiosa priva-
ta. Che creatore e creazione siano strettissimamente correlati,
che la creazione permetta di scorgere il creatore solo se viene
riconosciuta nel suo essere in quanto essere-creato, quasi fosse
un diaframma trasparente tra noi e il creatore, tutto questo
dimostra come una visione della «natura» che sia «meramente
naturale» e non tenga conto del creatore, per questa radicata
comprensione di realtà della natura (natura ora intesa nel sen-
so stretto del termine come cpu-crtc;) 86 sia una perdita della real-
tà e dunque al tempo stesso anche deformazione, distruzione
della realtà. Un mondo senza Dio, per l'autore di Sap. come
per Paolo, è un mondo strappato alla propria origine, e dun-
que abbandonato alla rovina. Chi si avventura in una natura
senza Dio, stabilendosi in essa, diventa necessariamente un sen-
za patria, privo di radici. È un mondo, una natura che rende
estraneo l'uomo non solo nei suoi confronti, ma anche nei con-
fronti di se stesso. La visione pessimistica, presente in Sap. e in
Paolo, dell'uomo che non riconoscendo Dio getta il mondo
incluso se stesso in una condizione disperata, non può più es-
sere superata quanto a spaventosità e nichilismo: il mondo
privo di Dio è privo di salvezza; la natura vista solo in sé è in-
naturale.
Ma allora, se in Paolo e in Sap. il rapporto dell'uomo con
Dio e quello con il mondo sono posti in una relazione in-
scindibile, allora il mondo - e quindi anche il mondo dell'uo-
mo con la responsabilità irrinunciabile che ne forma l'essenza
- è dentro un ordinamento voluto da Dio. Malgrado la conno-
tazione negativa che ha assunto il termine «ordinamento della
creazione» a causa di determinate circostanze di cui, stando al

86. Stavolta qiuatç inteso etimologicamente partendo da qiuw o cpuo1J.m: la natura a


partire dal!' origine ontologica da cui è creata, tratta-fuori; v. Frisk, ad verbum.
La teologia di Paolo

suo significato originario, non gli si può far carico, tuttavia es-
so resta la definizione più adeguata a questa visione della real-
tà. 87 Abusus non tollit usum. Se qui si vuol parlare di teologia
naturale, lo si può fare senz'altro, a patto che con natura si
intenda quella definita dall'ordinamento della creazione. 88 Ma
allora, anche l'ordinamento etico costituisce un aspetto centra-
le dell'ordinamento della creazione - analogamente al rappor-
to tra ordinamento cosmico e torà. Martin Hengel ha parafra-
sato questa relazione ricorrendo al concetto di ontologia della
torà. 89 In base al nesso descritto, è dunque ovvio che una tra-
sgressione contro la torà o contro l'ordinamento etico incorra
nella condanna del tribunale di Dio. Ed è anche ovvio che sia
proprio il giudeo, colui che è in possesso della torà, a dover
impostare la propria vita in base alle sue prescrizioni. Parten-
do dunque dalle premesse di Rom. 1,18 ss., è solo una logica
conseguenza che Paolo in Rom. 2,6 riporti la citazione di Yi
6 1, 13: (\oç a7toowcret
' ~ I
ex.acr't'q.> x.a't'a 't'a epya au't'ou. Ed e' sempre
( I \ \ ,, ' -

una logica conseguenza che per lui quanti mettono in pratica


la legge sono quelli che verranno dichiarati giusti nel giudizio
escatologico, Rom. 2,13: ot 7tOt'Y]'t'at VO[J-OU Òtx.atw-8~cronat. Vi-
ceversa, è logico che per lui quanti commettono peccato sotto
la legge sono quelli che verranno giudicati con la legge, Rom.
2,12: òtà VO[J.OU x.pt-8~crovw.t. Ma quando l'apostolo asserisce
che quanti mettono in pratica la legge vengono giustificati, u-
sando esattamente lo stesso verbo che impiegherà successiva-
mente a proposito della giustificazione per sola fede, Òtx.mw-
-8Yjvm, ciò non comporta alcuna contraddizione all'interno di

87. In fondo, si è abusato politicamente non solo di tale termine, ma anche del termi-
ne «Dio» - eppure, chi se la sentirebbe per questo di stralciare la voce «Dio» dal vo-
cabolario teologico?
88. In questo contesto non manchi un accenno all'infelice discussione dogmatica sulla
cosiddetta natura pura, di cui Karl Rahner, Ober das Verhaltnis van Natur und Gna-
de, ha esposto quanto basta. Il modo in cui egli concepisce il concetto di natura for-
nisce le premesse indispensabili a un dialogo teologico per un'intesa tra cattolici e lu-
terani. Potrebbe quindi trovare nuova conferma il fatto che è possibile instaurare un
dialogo costruttivo dove le premesse teologiche sono fornite da Paolo (e anche da al-
tri autori del Nuovo Testamento).
89. Hengel,]udentum und Hellenismus, 309 ss.
Le lettere di Paolo

Rom. Infatti, Rom. 1,18 ss. non tratta la questione di come sia
possibile adesso la giustificazione, di come sia possibile ottene-
re la giustificazione, perché qui a Paolo non interessa certo l'a-
spetto finale della questione. Quello che gli preme evidenziare
è invece la situazione di fatto per cui tutti gli uomini hanno
fallito, in quanto si sono giocati quella giustificazione che Dio
avrebbe conferito loro nel quadro dell'ordinamento della crea-
zione già ricordato. Non è tanto l'aspetto finale della questio-
ne ad interessare, quanto quello consecutivo: peccato, e quindi
come consecutio il giudizio di Dio. 90
Se dunque Rom. 2,10-13, e in particolare la tesi del v. 13 per cui coloro
che mettono in pratica la legge sperimenteranno la giustificazione nel
giudizio escatologico, può essere compatibile con il concetto di giu-
stificazione per sola fede nel senso appena specificato, tuttavia ecco sor-
gere un'altra difficoltà. Se, infatti, la tesi della giustificazione di coloro
che mettono in pratica la legge, espressa al v. l 3, può essere interpretata
come dichiarazione teologica alla quale però, per via dell'inclinazione di
tutti gli uomini al peccato, non fa riscontro alcuna realtà storica, tutta-
via è dei popoli pagani, Wvri, che si parla, i quali, pur non possedendo la
legge (mosaica), agiscono per natura, rpucn:t, secondo la legge e in questo
modo sono legge a se stessi, Rom. 2,14. E dunque, giustificati senza l'a-
zione redentrice di Cristo? Non siamo di fronte a una contraddizione
clamorosa? Ancora una volta è Heikki Raisanen a rimproverare a Paolo
una grande contraddittorietà anche in questo passo della sua argomen-
tazione teologica. 91 Ora, però, egli stesso ammette che a questa affer-
mazione di Rom. potrebbe essere applicata l'interpretazione per cui «al-
cune prescrizioni della legge sono occasionalmente messe in pratica da
certi gentili». 92 Tuttavia essa sarebbe insostenibile, dal momento che in
Rom. 2,26 s. l'espressione -ròv voµov -re:Àoucra si riferisce alla totalità 93
della legge. Ora, bisogna riconoscere a Raisanen che, rinviando a 2,27,
evidenzia un problema relativo a 2,14 ss. che di norma, nei commentari
a Rom., non viene individuato con sufficiente acutezza. Vi accenna ap-
pena Ernst Kasemann quando osserva che l'asserzione dei vv. 26 s. si ri-
ferisce indubbiamente alla dichiarazione non ipotetica dei vv. 14 s., che
rafforza. 94 Neanche lui, tuttavia, mette in relazione -ròv voµov -re:Àoucra,
espressione che stando al significato delle parole definisce l'adempimen-
to della legge tutta intera e non l'adempimento di singole prescrizioni,

90. Per Paolo, la giustizia della legge non è giustizia delle opere.
91. Raisanen, Paul and the Law, 101ss. 92. Op. cit., 103.
93. Ibid.: totality è in corsivo. 94. Kasemann, HNT, 69.
308 La teologia di Paolo

con l'affermazione di principio della peccaminosità totale anche dei «po-


poli», Wv'Y). Certo c'è da chiedersi se qui per Paolo il verbo '!EÀELV, che
in lui ricorre in casi molto rari 95 e in relazione alla legge solo in Rom. 2,
27, vada realmente inteso nel senso di «mettere in pratica la legge nella
sua totalità- sia sotto l'aspetto quantitativo che qualitativo». 96 Non c'è
infatti un uso linguistico specifico dell'apostolo in tal senso, a cui questa
ipotesi possa rifarsi. Pertanto la sua affermazione può essere interpreta-
ta solo tenendo conto sia del contesto più prossimo sia del più ampio. E
dunque l'interpretazione potrebbe essere la seguente: laddove dei gentili
mettono in pratica di volta in volta l'intenzione della legge si ha un -ròv
VO[J-OV -rEÀEL v. 97 Così però, nonostante il «rafforzativo» '!EÀoucra, Rom.
2,27 si avvicina molto all'affermazione di 2,14 ss.

Dal punto di vista teologico, la legge scritta nel cuore dei gen-
tili è rilevante nel momento in cui, grazie alla relazione stabili-
ta da Paolo tra cpucrtç e \loµoç, trova nuovamente espressione
un elemento decisivo riguardante la legge mosaica e il suo rap-
porto con l'ordinamento del mondo in quanto ordinamento
della creazione. Se infatti i gentili sono legge a se stessi, dal
momento che la legge è scritta nei loro cuori o, in altre parole,
perché ciò è conforme alla loro natura, alla loro sostanza -
cpucrtç inteso ovviamente come ordinamento della creazione -,
allora anche la legge mosaica deve essere espressione dell'inte-
grazione dell'ordinamento religioso e morale nell'ordinamento
del mondo. Ma da ciò emerge anche che l'inclinazione al pec-
cato comune a tutta l'umanità non colpisce solamente il rap-
porto personale di ogni singolo individuo con Dio e con il
prossimo, ma provoca anche il disordine catastrofico in tutta
la creazione. L'uomo empio ha distrutto il mondo. Se dunque
Dio ha abbandonato l'uomo al nulla per colpa del peccato, lo
ha umiliato rendendolo incredibilmente stolto, come illustra-
no drasticamente le espressioni è:µa'tatw·thicra\I e è:µwpa\l-8"Y]cra\I
in 1,21 s., l'intera creazione è coinvolta in questo processo di
annientamento, 8,20: Tfl yà.p µa'tmO't"YJ'tt ~ x'ttcrtç u7te'ta'Y"YJ·
Paolo scorge non solo un'umanità distrutta, ma anche un mon-
95· Oltre che in Rom. 2,27 solo in Rom. 13,6 (pagare i tributi), 2 Cor. 12,9 e Gal.
5,16. 96. In questo senso Giac. 2,8.
97. Così ad esempio Luca può significativamente affermare (Le. 2,39): wç È'T:ÉÀecrav
7tct'l'ta -i;à xa-i;à -i;Òv v6p.ov xuplou. In tale espressione è implicito che vi sia anche un
nÀei v parziale della legge.
Le lettere di Paolo

do distrutto, una physis distrutta che, malgrado la giustizia di


Dio sia nel frattempo intervenuta (Rom. 3,21), attende ancora
con ansia la sua libertà escatologica, 8,21: 8·n xaì aÙ't'~ ~ x't'i-
cnç ÈÀEu-8Epw-8~crE't'at cbtò ,;Y)ç òouÀdaç 't'Y)ç i:p-8opaç dç 't'~V
ÈÀEu-8Epiav ,;Y)ç ò6h1ç ,;wv ,;Éxvwv ,;ou .{)gou. Al «già», nel
pensiero paolino (e in larga misura anche in quello neotesta-
mentario) corrisponde infatti un «non ancora». E che cosa si-
gnifichi un mondo distrutto è dimostrato oggi in modo signi-
ficativo dalle catastrofi ecologiche. «I gemiti della creazione
tutta» (Rom. 8,22) si alzano forte oggi (1992), sia nei bombar-
damenti assassini in Bosnia ad opera di un «esercito popola-
re», sia nello stridere delle seghe che abbattono gli alberi delle
foreste pluviali. È il presente che scrive brutalmente il crudele
commento alla lettera ai Romani, ma non sulla carta: si tratta
della realtà, della schiavitù perlopiù inconsapevole sotto il
dominio della hamartia.
In Rom. 1-3, dunque, Paolo illustra fedelmente la situazio-
ne del mondo. Giudei e «greci», ossia tutti gli uomini, si tro-
vano sotto il potere del peccato. Tuttavia sarà difficile sfuggire
all'impressione che «il» giudeo sia incriminato in misura mag-
giore. Come è già stato evidenziato nell'analisi retorica, egli è
il solo ad essere interpellato direttamente; gli viene spiegato be-
ne che la circoncisione senza l'osservanza della legge lo pone a
un livello ancora inferiore rispetto al pagano che è legge a se
stesso. Il giudeo è diventato un pagano, Rom. 2,25: ~ 7tEpt,;oµ~
crou cixpo~ucr't'ia yÉyovEv! A cosa servirà mai la circoncisione
fisica, ~ Èv 't'c{l i:pavEpc{l Èv crapxì 7tEpt't'oµ ~' 2,28, se non è - e
qui Paolo riprende l'idea espressa in Deut. 30,6 98 e Ger. 4,4 99
- circoncisione del cuore nello spirito, m:pt't'oµ ~ xapòlaç Èv
Jtvé:Liµa,;t, 2,29? Ma proprio con questa accusa rivolta al giu-
deo ora, per la prima volta dopo Rom. 1,18, Paolo offre una
speranza soteriologica quando, in 3,1, pone la domanda circa
la superiorità del giudeo e l'utilità della circoncisione (sarchi-
9~· Deut. ~.o,6: -:al 7;Eptxa.SaptEi xuptoç "~" xapòlav O'OU xal "~" xapòlav o:ou am:p1J.a-
o:oç aou .. ., tva ~ 11ç au.
99. Ger. 4,4: 7tEpn1J. ~·9'1'JO:E o:tj) &tj:i ù1J.wv xal 7tEptÉÀEa-8E o:~v àxpo~uao:lav o:ijç xapòtaç
ÙiJ.WV ...
310 La teologia di Paolo

ca). Tuttavia, inizialmente offre un'unica risposta: ai giudei 100

sono state affidate le promesse di Dio, "à Àoyw. 'rou -8e:ou. Ec-
co allora cosa distingue Israele dagli altri popoli: a lui e a lui
soltanto sono toccate le promesse di Dio, promesse che co-
munque, come si vedrà solo in seguito, non saranno riservate
a lui soltanto. Sono le promesse riguardanti il Cristo. Sarà in
lui che giudei e pagani saranno tenuti a credere in ugual misu-
ra. C'è dunque un'unica salvezza per tutti. Se anche le pro-
messe sono state affidate ai giudei, questo non comporta una
salvezza speciale per Israele. Allora, possedere le promesse di
Dio per l'umanità intera non significa avere da percorrere un
cammino verso la salvezza differente da quello dei popoli pa-
gani. L'dç crWTYjptav dei pagani e l'dç crwn;piav d'Israele sono
identici, a prescindere dalla successione cronologica di Rom.
1, 16 e dal capovolgimento chiastico di Rom. 1 1, 1 1 ss. Con la
venuta di Cristo, Israele resta comunque il popolo eletto, ma
deve percorrere lo stesso cammino dei popoli «verso la salvez-
za». «Per salvarsi» non resta a Israele che il cammino della fe-
de in Gesù Cristo. E la chiesa cristiana è tenuta a predicare an-
che ai giudei la salvezza in Cristo. Circa la rinuncia alla mis-
sione ai giudei, che si vuol far passare per teologicamente fon-
data e che ultimamente è postulata con veemenza da più parti,
non ci si può richiamare al Nuovo Testamento. 101

Lo spiraglio di luce soteriologico ben presto si richiude e


nel v. 3, sempre metaforicamente, cala di nuovo l'oscurità. Pas-
sando attraverso l'immagine di Dio che in un processo viene
giustificato - il Dio verace, o -8i::Òç à.À ri-8~ç, viene assolto con-
tro tutti gli uomini mentitori, v. 4; che immagine efficace! -,
Paolo esprime il giudizio riassuntivo: giudei e «greci», dunque
tutti senza eccezioni, sono sotto il dominio del peccato, miv-
( ,(
'raç ucp '
aµap'rtav r
Etvm, R om. 3,9.
100. La continuazione si trova in Rom. 9,1-5.
ror. Qui occorre introdurre una distinzione rispetto a un'altra questione, e cioè se,
dopo i tremendi crimini del regime nazionalsocialista che per quantità e qualità han-
no superato ogni limite immaginabile, in questo momento la missione ai giudei non
debba essere svolta proprio dai tedeschi. Ma chi, in quanto tedesco, trae un giudizio
teologico dall'infausta storia della Germania nel xx secolo, innalza la prospettiva te-
desca a criterio teologico. E questa non è forse la variante teologica del nazionalismo?
Le lettere di Paolo 3I I

Se fino ad ora Paolo ha tracciato la condizione dell'umanità


più dalla sua prospettiva personale, anche se punteggiata da
riflessioni di ordine teologico, ora, in 3,10-18, presenta la di-
mostrazione scritturistica come punto culminante della sua ar-
gomentazione teologica. La dichiarazione di 3,9 riceve ora il
giusto peso in base alla Scrittura: si tratta di una verità sugli uo-
mini rivelata da Dio. Che si tratti di un notevole peso è docu-
mentato da tutto uno spiegamento di passi della Scrittura. 102

Alla base di Rom. 3,10-12 vi è principalmente lji 13, anche se a quanto


pare le prime tre parole oòx Ecr't't\I òixatoç sono state prese a prestito da
Ecc!. 7,20: 8't't av.Spw7toç oòx Ecr't't\I òixatoç èv 't''fl y'fl, oç 7t0t~O'Et àya.Sòv
xaì oòx àp.ap't'~crE't'c.tt. Queste prime tre parole riassumono il senso del-
l'intera raccolta di citazioni: nemmeno uno è giusto davanti a Dio. Se si
va a controllare Sai. 14, o lji 13, si vede che effettivamente sta scritto che
nessuno compie il bene, veramente nemmeno uno, 'en gam-'e!Jad, oòx
Ecr't't\I ewç Évoç, V. 3· Ma questa dichiarazione esclusiva viene relativizza-
ta dal fatto che se anche nel senso letterale del salmo, al v. 3, trova
espressione il giudizio del giudice celeste, IOJ questo stesso giudizio ha la
sua collocazione all'interno di una lamentazione (originariamente indi-
viduale?) pronunciata da qualcuno della stirpe dei giusti, b"dòr ~addfq,
èv "(E\IE~ Òtxaiq., v. 5. Ma i giusti sono i miseri, v. 6. Per i vv. 4.7, questi
giusti e questi miseri sono il popolo di Israele. La preghiera è rivolta a
Jahvé affinché ponga fine alla sorte disgraziata del suo popolo.
Se si considera questo senso letterale del salmo, che emerge
nello stesso modo nel T.M. e nei LXX, allora Paolo ha isolato
il senso esclusivo che effettivamente trova espressione nel v. 3,
102. Qui non ci interessa valutare se Paolo si sia rifatto a una raccolta di testimoni (flo-
rilegium), come si è ripetutamente ipotizzato (ad es. Kasemann, HNT, 81; van der
Minde, Schrift und Tradition bei Paulus, 54 ss.). Ammetto di essere personalmente
assai scettico al riguardo, e vedo che anche Dietrich-Alex Koch, Die Sclmft als leuge
des Evangeliums, 179 ss., è di parere analogo. Ecco le sue affermazioni, che condivido
in pieno, op. cit., 183 s.: «È certamente giusta l'impressione che Rom. 3,10-18 non sia
tanto un prodotto casuale nato al momento della dettatura della lettera, quanto una
composizione che segue un certo piano. Certo, per quanto concerne la scelta dci testi,
l'ordine in cui sono messi e la loro trasformazione, Rom. 3,10-18 presuppone molto
più lavoro preparatorio di quanto sia necessario per la presentazione di una singola
citazione. Ma per l'ampiezza dei testi scritturistici impiegati corrisponde alle serie di
citazioni di Rom. 9,2 5-29; 10, 18-21 e 15,9-12. Se ci si distacca dall'ipotesi che le lette-
re di Paolo nel loro complesso siano nate nel momento in cui venivano dettate, e se
inoltre si presuppone un ricorso indipendente al testo della Scrittura da parte di Pao-
lo, allora anche una composizione di citazioni così ampia non sorprende più - in
ogni caso nella lettera ai Romani». 103. H.-J. Kraus, BK.AT xv/1, 106.
312 La teologia di Paolo

restituendogli così il significato che aveva in origine. E nello


stesso tempo, con una mossa parziale grandiosa, anzi geniale,
ha trasformato il salmo in un oracolo divino in favore della
tesi espressa in Rom. 3,9. Ha tuttavia conservato il senso lette-
rale del salmo, dato che effettivamente il v. 3 riporta un giudi-
zio del giudice divino.
Paolo ha adottato lo stesso procedimento anche in relazione a Ecci. 7.
Al v. 20 si afferma che non c'è un solo giusto: kl' 'adam 'én ?addfq ba-
'are? 'a5er ja'aseh-tob (per il testo dei LXX v. sopra). Ma come accadeva
per Sa!. 14 / Yi 13, anche qui l'affermazione risulta relativizzata dal v. l 5,
ove si constata con rassegnazione che anche un giusto può perire nono-
stante la sua giustizia. Che le due affermazioni siano contraddittorie di-
pende dallo stile compositivo di Ecci., che non è qui il caso di approfon-
dire.104 Gli altri passi scritturistici dell'unità Rom. 3,10 ss., contenutisti-
camente non aggiungono molte novità utili all'argomentazione di Pao-
lo, e quindi diventa superfluo il dilungarvisi.
C'è da costatare che Paolo presenta una dimostrazione scrit-
turistica concentrata, composta da una serie di citazioni vete-
rotestamentarie che, prese una a una - ma appunto solo una a
una-, documentano una depravazione generale di tutta l'uma-
nità. Ma tali citazioni non sono affatto un riassunto adeguato
dell'antropologia veterotestamentaria. 105 È vero, l'Antico Te-
stamento può trattare in modo anche piuttosto massiccio il
peccato umano, ma l'antropologia veterotestamentaria, se poi
si può parlare di una antropologia veterotestamentaria, non
possiede una concezione dell'uomo così radicalmente pessimi-
stica. Come Paolo in precedenza aveva tratteggiato a tinte piut-
tosto fosche il quadro morale del mondo pagano e giudaico,
dandone un'interpretazione che eccedeva in malam partem,
così accade ora nella dimostrazione scritturistica conclusiva.
Ma così, allora, viene forse a cadere l'affermazione amartiolo-
gica di fondo di Paolo? E la premessa fondamentale della sua
dottrina della giustificazione viene forse a mancare? È possibi-
le che abbia ragione E.P. Sanders quando definisce la sequenza
del pensiero paolino «dalla soluzione alla situazione»? !06 Di

104. V. i commentari. !05. V. Preuss, Theol. des AT II, !05 ss.


I06. Sanders, Paul and Palestinian judaism, 548; il testo italiano, Paolo e il giudaismo
Le lettere di Paolo

fatto non si può negare che Paolo dipinga la situazione a tinte


un po' troppo fosche. Ma l'intento reale di Rom. r,18-3,20,
per cui la realtà di ciascun uomo non corrisponde pienamente
a ciò che Dio si aspetta da lui, costituisce il vero punto crucia-
le della dimostrazione paolina. Né richiede ulteriore motiva-
zione il fatto che purtroppo il peccato dell'uomo raggiunge di
continuo una dimensione brutale.
In Rom. 3 ,2 I ss. Paolo contrappone la realtà della giustizia
di Dio, ò~xawcruv'YJ -Be:ou, all'immagine della realtà del peccato,
presentando dunque il contrasto tra i due ambiti di dominio
costituiti dal potere quasi personificato del peccato, la hamar-
tia, e dalla giustizia di Dio, ossia dal Dio giusto. In questo
modo si è evidenziato un elemento strutturale del pensiero
teologico paolino: l'uomo si trova sempre sotto un signore,1°7
e il «luogo» in cui egli si trova è sempre un luogo che ne con-
diziona interamente l'esistenza. A Paolo, dunque, con l'alter-
nativa inevitabile dell'essere sotto il dominio della hamartia
ed essere sotto la giustizia di Dio preme esprimere che l'uomo
non può mai esistere in isolata neutralità, e che resta sempre
un essere che esiste nella relazione. Le parole di Gesù «chi non
è con me è contro di me» trovano qui la spiegazione teologica.
Nell'antropologia paolina dunque rientra essenzialmente l' esi-
stenza di relazione. Nel contesto della presentazione della teo-
logia di I Cor. essa era già stata espressa ricorrendo all' esisten-
ziale della spazialità. Qui trova nuova conferma ciò che lì era
stato affermato. Ma nuovo è il concetto impiegato: l'essere-in-
Cristo viene ora interpretato teologicamente come essere-nella-
giustiz ia-di-Dio.
Se dunque il regno del male e quello del bene si contrap-
pongono in maniera inconciliabile, e se di conseguenza i cre-
denti vengono trasferiti dall'uno all'altro, allora ancora una
volta uno dei tratti dominanti della teologia paolina sembra ap-
palestinese, 751, è un po' più prolisso:« ... il pensiero di Paolo [si è sviluppato) dalla
soluzione alla condizione critica che la richiede ... ».
107. Nelle sue pubblicazioni, Ernst Kasemann non si è mai stancato di sottolineare in
modo sempre nuovo proprio questo dato di fatto. Qui cito solamente HNT, 39:
«Ciò che accade all'uomo dipende dal signore che ha ... Per Paolo, non esiste mai real-
mente un uomo privo di padrone, lasciato a se stesso».
La teologia di Paolo

poggiare la teoria del primato della categoria di trasferimento


e partecipazione così come viene concepita da E.P. Sanders. E
che l'esegeta americano sottolineando queste categorie abbia
visto giusto è stato dimostrato più volte nel corso della nostra
esposizione. Tuttavia è essenziale che questo aspetto indub-
biamente centrale della teologia paolina acquisisca la sua im-
portanza teologicamente genuina con l'essere inscindibilmen-
te unito ad altri aspetti sostanziali. Ed è proprio questa la con-
dizione che si può chiaramente cogliere in Rom. 3,21-26. In-
fatti, in questa pericope concettualmente fittissima colpisce in
particolar modo l'intrecciarsi di dimensioni teologiche diffe-
renti, ma complementari.
In Rom. 3,21 s. l' «espressione» centrale Òtxcuocruv'YJ .fJe:ou fi-
gura per due volte e ogni volta, come è caratteristica di Paolo,
con una connotazione differente; e proprio questo denota un
intento dichiarativo di contenuto diverso all'interno della gam-
ma di significati utilizzata. Nel v. 21 la giustizia di Dio è con-
cetto riferito alla rivelazione, come in Rom. 1,17. Nei prolego-
meni si era già dimostrato come secondo Rom. 1,16 s.; 3,21 la
giustizia di Dio che si rivela è parte costitutiva del sistema di
coordinate della teologia paolina. IOS Era emerso che 1, 1 6 s. può
essere così parafrasato, interpretandolo: «Dio si rivela nella sua
potente parola del vangelo come colui che crea la giustizia». ' 09
Con questo la teologia di Paolo ha dimostrato di essere per
sua stessa sostanza " 0 una teologia della rivelazione. E qui ri-
velazione non si riferisce alla rivelazione celeste di un fatto ri-
guardante Dio, bensì l'essere-divenuto-manifesto di Dio stes-
so nonché il suo sempre nuovo divenire-manifesto. Il termine
ci7toxaÀu7t't'E't'CXt, che compare in Rom. 1,17 ed è tipico della
teologia della rivelazione, con il concetto kerygmatico del «di-
venire un evento sempre nuovo» poggia sul 7tEi:pavÉpw't'cu di
Rom. 3 ,2 I. Il perfetto «è divenuto manifesto e perciò ora è
manifesto»'" esprime innanzitutto un evento temporale: la giu-
108.Voi. 1, 197 ss. 109. Op. cit., 204. 110. «Sostanza» intesa stricto sensu.

Il perfetto greco che voglia mantenere realmente la sua marcata forza espressiva
I 11.
può essere efficacemente reso in italiano solo con una duplice espressione, per quanto
questo possa essere stilisticamente poco elegante.
Le lettere di Paolo 315
stizia di Dio è divenuta manifesta, ovvero Dio, colui che rende
giusti, a un dato momento è intervenuto nella storia. Dio è per
così dire divenuto egli stesso storia; o, per dirla in termini esi-
stenziali: è divenuto storicità. Questo intervento di Dio nella
storia, tuttavia, costituisce un evento singolarmente parados-
sale quanto alla legge. Infatti è proprio la legge (insieme ai pro-
feti che la interpretano) a testimoniarlo. Ma questa legge testi-
monia che la giustizia di Dio è divenuta manifesta senza di es-
sa. La legge testimonia dunque che la propria fine sarà fonte di
giustizia, come sarà meglio illustrato nel midrash di Abramo
del cap. 4. Qui dunque si anticipa quanto si affermerà poi in
Rom. 10,4 - anche qui si tratta nuovamente di un'asserzione
programmatica-: Cristo è la fine della legge, -rÉÀoç voµou, e pre-
cisamente per tutti quelli che credono, ovviamente dal punto di
vista della giustificazione, dç Òtxcxwcruvriv.
L'antitesi tipicamente paolina tra legge e fede viene espressa
anche in Rom. 3,21 s. in relazione alla giustizia di Dio. Mentre
al v. 21, con riguardo alla teologia della rivelazione, si affer-
mava che la giustizia è stata rivelata senza la legge, xwtik voµou
- e dunque in questo versetto la giustizia è espressa in relazio-
ne all'opera di rivelazione di Dio -, nel v. 22 sta scritto ciò che
gli uomini devono affermare al suo riguardo: essa è giustizia
di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, òià ·dcr-rc.wç
'I ricrou Xtitrr-rou, e precisamente per tutti coloro che credono,
dç 7tancxç -roùç mcr-rc.uoncxç. Ma quando qui si parla di fede,
si intende l'atto individuale del credere da parte di tutti i cre-
denti di cui si parla al v. 22. Si tratta infatti dell'acquisizione
individuale della giustizia di Dio. Se al v. 21 l'essere-divenuta-
manifesta della giustizia di Dio indica la sua in-carna-zione
nella persona di Gesù Cristo - si tratta in parte della stessa
idea che ricorreva già in I Cor. 1,30: per opera di Dio Gesù è
diventato per noi giustizia, santificazione e redenzione -, se
dunque nel v. 21 è implicita l'idea del potere universale di Dio
nella storia universale, " allora nel v. 22 la giustizia di Dio ha
2

112. Al riguardo cfr. specialmente Kiisemann, HNT, 86 ss. Qui cito soltanto p. 87:
«La giustificazione dell'uomo è l'attualità del diritto di Dio sulla sua creazione, che si
rivela in quanto potenza di salvezza; e tale diritto rimane fondamento, forza e verità
316 La teologia di Paolo

piuttosto carattere di dono. Certo non si devono separare trop-


po questi due aspetti, poiché tra i due significati c'è una cor-
relazione intima originata dal fatto che, per usare le parole di
Ernst Kasemann, per Paolo con ogni dono è il donatore stesso
ad entrare in scena." 3 Per questo anche l'aspetto storico-indi-
viduale implicito nel v. 22 non si contrappone a quello stori-
co-universale del v. 21 come il suo contrario, ma vi è integra-
to. L'aspetto storico-universale emerge infatti con chiarezza
anche nell'espressione e:lç mxna.:ç 't'oÙç mcr't'EUO\l"t'a.:ç. Purtutta-
via non è la storia universale in quanto tale ad essere trattata,
bensì l'argomento concreto di discussione di Rom., ossia il
rapporto tra giudei e cristiani in relazione alla missione cri-
stiana. Tutti sono chiamati alla fede in Gesù Cristo, tutti i pa-
gani ma anche tutti i giudei. E che il giudeo, proprio il giudeo,
debba abbandonare la propria fiducia nell'efficacia giustifica-
trice della legge è ciò che qui si afferma con fermezza.' ' 4
Poi è anche detto che tutti vengono giustificati gratuitamen-
te, òwpeav, per mezzo della grazia di Dio, ossia in virtù della
redenzione in Cristo Gesù, v. 24. La IÌ.itoÀu't'pwcrtç viene «defi-
nita» da una formula dogmatico-«oggettiva» tratta dalla tradi-
zione: Dio ha pubblicamente esposto questo Gesù Cristo co-
me espiazione nel suo sangue, ov itpoÉ-8e't'o o .Seòç [Àa.:cr't'~pwv

della giustificazione, verità che trascende il singolo e punta a un mondo nuovo ... La
vittoria definitiva di Dio si manifesta invece adesso ... La rivelazione della giustizia è
stata resa nota pubblicamente e anzi con carattere giuridico vincolante. Tale infatti è
il significato dell'espressione forense 1~cxp-rupEtv». 113. Op. cit., 88.
114. Nonostante il carattere conciliante dell'argomentazione paolina, lo stesso vale an-
che per i capp. 14 s., ove l'apostolo esorta i forti a non disprezzare i deboli. Che non
debbano essere disprezzati non significa però che possano conservare la loro teologia
della legge. Paolo non ammette un giudaismo in cui la torà abbia un ruolo soteriolo-
gicamente costitutivo. L'energico livellamento teologico tra giudeo e «greco», espres-
so con forza in Gal. 3,28, in prospettiva soteriologica non è abbandonato neppure in
Rom. Né Rom. 9-11 cambia le cose. Paolo insiste nell'affermare che in prospettiva
soteriologica non c'è differenza alcuna tra giudeo e pagano: où yap Èa'-rtv ÒtcxcnoÀ~, v.
22. Tutti hanno peccato, tutti hanno perduto la doxa di Dio, v. 23. In questa dichiara-
zione trapela nuovamente un lembo dell'oscuro orizzonte offerto dall'argomentazio-
ne di 1,18-3,20. Il mondo senza Dio è un mondo privato della doxa di Dio. Un mon-
do senza questa doxa è un mondo abbandonato da Dio. Che la vita del giustificato
sia una crescita continua nella doxa è nozione che abbiamo appreso da Paolo in 2
Cor. 3,18.
Le lettere di Paolo 317
Èv 'tcj) aÙ'tou aZp.a't~.
Stando a queste parole, morendo sulla cro-
ce Cristo è stato strumento di espiazione per tutti gli uomini.
È controverso, né è possibile stabilire con sicurezza, se qui
[Àacn~pwv significhi strumento di espiazione oppure se indi-
chi la kapporet veterotestamentaria, ossia il coperchio dell'arca
dell'alleanza o propiziatorio.'' 5 A mio avviso si tratta comun-
que di una questione senza molta importanza. Il problema più
urgente è stabilire come sia pensabile un 'espiazione vicaria, in-
somma, se il teologumeno dell'espiazione vicaria possa essere
considerato teologicamente ammissibile da una riflessione teo-
logica che proceda in maniera responsabile, o se invece non deb-
ba essere eliminato da cristologia e soteriologia come enuncia-
to legato al proprio tempo storico. La questione si fa sempre più
spinosa: nucleo della fede cristiana, oppure relitto di un pensie-
ro teologico ormai superato?
Tutto dipende anzitutto dalla categoria che si attribuisce all'espiazione nel-
l'Antico Testamento. Si tratta infatti di un tema eminentemente vetero-
testamentario, benché l'idea di espiazione divenga dominante solo in età
esilica e postesilica (redazione Sacerdotale). Il focus classicus della que-
stione di come realizzare l'espiazione secondo la concezione veterote-
stamentaria è Lev. 11,1 I (legge di santità): «Poiché la vita della carne è
nel sangue. E io stesso ve l'ho concesso per l'altare, perché produca
espiazione per voi; perché il sangue espia mediante la vita (contenuta in
esso)». Stando a questo e ad altri passi (ad es. Deut. 12,23), il sangue
equivale quasi alla vita stessa. Quando dunque il sangue di una vittima
sacrificale viene asperso dal sacerdote sull'altare, allora, proprio perché
il sangue equivale alla vita, è la vita dell'animale che viene offerta in
funzione vicaria in cambio della vita del colpevole. Ha dunque ragione
Gerhard von Rad quando afferma: «Non è però il sangue in sé ad avere
effetto espiatorio, ma il sangue in quanto contenente in sé la vita». " 6
Anche per Bernd Janowski Jahvé ha dato a Israele, per l'ambito del sa-
cro, «il sangue come strumento di espiazione perché è portatore della
vita». " 7 L'antica, apodittica legge del taglione nefes tapat nefes, la vita
in cambio della vita, Es. 2 r ,2 3 par., ha qui la sua specifica concretizza-
zione. Dunque è Dio, non l'uomo, il soggetto dell'espiazione. Quando in
Deut. 21,8 Jahvé viene invocato perché procuri espiazione per il suo po-

l l 5. Sulla discussione a tale riguardo cfr. Hiibner, Paulusforschung, 2709 ss.


l 16. von Rad, Theol. I, 283 (tr. it. 310).

l 17. Janowski, Suhne als Heilsgeschehen, 246 (corsivo mio).


318 La teologia di Paolo
polo Israele, non è lui il destinatario di questa espiazione, bensì Israele.
E che, stando alla redazione Sacerdotale, il soggetto sia il sacerdote, non
cambia nulla a questo dato di fatto, poiché questi agisce in nome e per
conto di Jahvé. Se anche per la redazione Sacerdotale è il sacerdote a
compiere concretamente l'azione di espiazione, comunque alla fine è
Jahvé a operare o a negare l'espiazione. 118
Fino ad ora ci si è chiesti come avviene l'espiazione. Ma è ancora più
importante un secondo interrogativo: che cosa significa espiazione nel-
l'Antico Testamento? Per Klaus Koch, nell'azione di espiazione l'uomo
e il peccato vengono separati. Dunque per la redazione Sacerdotale il
«peccato» sembrerebbe essere un qualcosa di concreto, quasi di materia-
le.119 Un qualcosa che incombe sull'uomo e ne provoca la sventura. 120
Questo concetto addirittura materiale di peccato è elemento essenziale
nella tesi fondamentale di Koch relativa alla cosiddetta relazione tra ciò
che si fa e ciò che accade, ossia la sfera d'azione che determina il destino,
anche in prospettiva dell'espiazione: il peccato visto come un qualcosa
che grava sull'uomo e che con coerenza immanente esercita il suo in-
flusso sulla vita del peccatore. In conclusione: l'espiazione operata da
Dio per mezzo del sacerdote spezza la relazione tra ciò che si fa e ciò
che accade, strappando via il peccatore dalla sfera d'azione che determi-
na il destino; in essa nefes, ossia l'uomo, e il peccato vengono separati
l'uno dall'altro, cosicché il secondo non ha più il potere di condizionare
il primo.
Hartmut Gese parte invece da una concezione di fondo differente,
intendendo l'espiazione come sostituzione esistenziale. 121 E il suo allie-
vo Bernd Janowski ne segue sostanzialmente il cammino. Il punto di
partenza concettuale dei due veterotestamentaristi è dunque di tipo per-
sonale. Per Gese, tra le esperienze fondamentali dell'uomo può esservi
anche il constatare di aver gettato via la propria vita, ritrovandosi in una
condizione di sventura irreparabile cui non si può ovviare in alcun
modo. L'esigenza di una possibilità di vita nuova, al di là della condi-
zione di sventura, diviene allora desiderio di espiazione. 122 La sostituzio-
ne esistenziale è dunque concepita come azione di espiazione, come ko-
fer. «L'espiazione avviene così propriamente mediante una totale dona-
zione (sostitutiva), ed è quindi salvezza di vita, a cui l'uomo tende e che
Dio rende possibile». 123 Per Gese è fondamentale il gesto rituale dell'im-
posizione delle mani, s•mzka, gesto che nel quadro dell'azione espiatoria
esprime per così dire un trasferimento di soggetto, e non come ritiene
II8. von Rad, Theol. r, 283 (tr. it. 310).
119. Koch, Die israelitische Suhneanschauung, r 5. 120. Op. cit., 25.

121. Avevamo già accennato brevemente a questo nel contesto della teologia eucari-
stica di 1 Cor. 122. Gese, Die Suhne, 86 s. (tr. it. 105).

123. Op. cit., 87 (tr. it. I06).


Le lettere di Paolo

Koch uno scaricamento dell'oggetto. «Ai fini della comprensione dell'e-


spiazione ciò significa che essa avviene mediante l'offerta della vita del-
l'animale, che, con l'imposizione delle mani, viene a identificarsi con l'of-
ferente. Ciò è in accordo con la nostra precedente definizione dell'atto
espiatorio come un'offerta totale sostitutiva». 124
È evidente la contrapposizione tra l'interpretazione di Koch e quella
di Gese. I differenti punti di partenza possono essere riassunti in questa
formula: concettualità (categoriale) concreta - concettualità (esistenzia-
le) personale. 125
Bernd Janowski parla del rito di eliminazione del capro espiatorio in
Lev. r6,10.2 r s., i cui elementi caratteristici sono: a) l'imposizione delle
due mani sul capo dell'animale; b) il trasferimento della materia peccans
sul capro, che diventa portatore rituale della sventura; c) infine l'abban-
dono del cosiddetto capro espiatorio nel deserto. 126 Anche se quando par-
la di trasferimento della materia peccans sembra dare ragione a Klaus
Koch, tuttavia ne prende le distanze. Se infatti l'allontanamento del ca-
pro - gravato delle colpe di Israele e destinato ad Azazel - «va inteso
come rito eliminatorio la cui struttura fondamentale consiste nel trasfe-
rimento magico (magia contagiosa) e successivo allontanamento (elimina-
zione) della materia peccans per mezzo di un sostituto previsto a tale sco-
po», allora tale rito non va interpretato affatto come un sacrificio. 127
«Questa eliminazione della materia peccans costituisce l'essenza del 'ri-
to del capro espiatorio', e non dell'evento espiatorio cultuale». 128 L'atto
di poggiare le mani sulla vittima, come ad es. in Lev. r ,4b, sottende l' «i-
dentificazione tra colui che sacrifica e l'animale sacrificato». 129 Citiamo
Janowski per l'ultima volta: «Poiché, appoggiando la mano sulla vitti-
ma, colui che sacrifica partecipa realmente della sua morte perché con
tale gesto simbolico si identifica con l'animale sacrificato, nella morte
della vittima si ha in realtà la propria morte, la morte del peccatore, che
viene assunta (!) con funzione vicaria dall'animale offerto in sacrificio.
Per questo motivo nella sostituzione cultuale l'elemento essenziale non
è il trasferimento, I" allontanamento' della materia peccans su un porta-
tore rituale che viene poi eliminato, bensì la donazione vitale dell'homo
peccator che si compie in modo simbolico nella morte dell'animale sacrifi-
cato, nella quale il peccatore viene fatto entrare quando, con l'imposi-
zione delle mani, si identifica con questo essere vivente». 'J 0 Anche per
Janowski Lev. 17,r r è la summa della teologia cultuale dell'espiazione.

124. Op. cit., 97 (tr. it. 117).


125. L'opposizione categoriale-esistenziale è qui intesa nel senso di Martin Heideg-
ger, Essere e tempo. 126. Janowski, Suhne als Heilsgeschehen, 215.

127. Op. cit., 210. 128. Op. cit., 219 s. (tutta la frase è in corsivo nel testo).

129. Op. cit., 218 (in corsivo nel testo). 130. Op. cit., 220 s.
320 La teologia di Paolo

La sostituzione esistenziale e l'idea di trasferimento della


materia peccans sono espressioni che già interpretano certe con-
cezioni della comprensione veterotestamentaria di espiazione.
Tuttavia, la domanda è se le due cose possano essere distinte
così nettamente come ha mostrato la rapida panoramica sullo
stato attuale della ricerca. Certamente, una volta ammessa tale
distinzione in base all'analisi fatta, noi non possiamo più nega-
re tale risultato, e siamo costretti a tenerne conto nella nostra
interpretazione delle concezioni veterotestamentarie. Ma al
contempo c'è da chiedersi - e anche questo rientra nel compi-
to ermeneutico che ci siamo posti - se non dobbiamo conside-
rare che nell'Antico Testamento i due tipi di approccio intel-
lettuale sono confluiti in un'unica unità, almeno per quanto
riguarda il redattore finale della redazione Sacerdotale.
Le due concezioni sono estranee alla nostra comprensione
della realtà. Per la nostra concezione «moderna» dell'esistenza
umana, una materia peccans può apparirci soltanto come una
depravazione dell'uomo in quanto essere capace di scelta e
chiamato ad operarne di sempre nuove; per noi, essa consiste
necessariamente nella reificazione dell'uomo in quanto essere
sostanzialmente responsabile. E sostituzione esistenziale del-
l'uomo - uomo che il moderno impegno intellettuale ha pre-
sentato come un esserci insostituibile per quanto riguarda la
sua capacità morale di decisione - per mezzo di un animale, al
quale non può certo essere attribuita un'esistenza nel senso
dell'esserci umano, è comunque un'idea che in un primo mo-
mento appare inconcepibile, a prescindere dal fatto che l'ani-
male non pensa affatto ad offrire la propria vita a favore di chi
peccando ha sprecato la sua davanti a Dio. E che il sangue del-
l'uomo possa essere sostituito da quello dell'animale perché
entrambi equivalgono alla vita è un'idea che nessuno può più
concepire, anche solo sulla base di una visione antropologica e
zoologica moderna. Tutti gli strumenti interpretativi applicati
alla visione veterotestamentaria dell'espiazione sembrano dun-
que approdare a un'aporia.
Ma siamo stati un po' troppo precipitosi nel parlare di apo-
ria. Si tratta infatti di verificare prima se i concetti fondamen-
Le lettere di Paolo 321

tali presentati dai veterotestamentaristi con tutte le loro inter-


pretazioni non possano essere sondati in modo tale da dare
come risultato una comprensione dell'esistenza all'interno delle
concezioni di espiazione che possa mettere in discussione an-
che le possibilità odierne dell'esserci. Che le concezioni vete-
rotestamentarie di espiazione e le loro interpretazioni concet-
tuali siano aperte a un'interpretazione esistenziale, sì da rende-
re le risposte che ne risultano estremamente importanti, anche
oggi, dal punto di vista esistentivo? E che proprio l'intreccio
delle due interpretazioni citate sia aperto a un'interpretazione
di questo tipo?
Ora, la rozzezza stessa dell'idea di una materia peccans è
indiscutibilmente una reificazione dell'uomo. In quest'idea
vengono separati l'uomo e l'azione di cui egli deve rispondere.
L'uomo si trova per così dire accanto alla sua azione: può
prendere le distanze da essa, mentre per la nostra comprensio-
ne dell'esistenza l'uomo è addirittura ciò che compie. La colpa
non è separabile dall'esistenza. Tuttavia, può essere che nella
concezione arcaica di materia peccans reificata si celi un ele-
mento esistentivo. Per quanto la colpa sia un elemento costi-
tutivo dell'io, tuttavia questo io può ridurre tale elemento ad
oggetto «stabilendo» una relazione con la propria colpa. 131 Pos-
so stabilire una relazione con me stesso, anche con me in quan-
to essere colpevole. Solo così posso farmi responsabilmente
carico di me stesso in quanto esistenza colpevole. Io sono un
«qualcosa» che è in me, ma che è dato precedentemente alla
mia esistenza attuale, che è dato in precedenza al mio presente
come mio passato. Io sono dato a me stesso. E questo mio es-
sere dato trova chiara espressione nell'idea arcaica della mate-
ria peccans. Io sono qualcosa che non voglio essere. «ln» me
vi è qualcosa da cui voglio prendere le distanze, ma non mi è
possibile farlo in quanto questa cosa che è data «in» me è con-
temporaneamente me stesso. 132 L'esistenza umana consiste
inevitabilmente in questa dualità: essa ne determina la storici-
l 3 l. Vi è un certo parallelismo con l'interpretazione del concetto paolino di crùi1.1.a ela-
borata da Bultmann in Theol., 196 s. (tr. it. l 86 ss.).
lp. V. anche quanto successivamente esposto a proposito di Rom. 7.
322 La teologia di Paolo

tà, perché la storicità dell'esserci ha le radici nella temporali-


tà. 133 Perciò il peccatore trascina sempre con sé dal proprio
passato qualcosa che è lui stesso eppure non lo è: una schizo-
frenia esistentiva, per così dire. Si dà dunque un'interpretazio-
ne esistenziale della materia peccans, che rende consapevoli
della spietatezza del passato colpevole.
E la sostituzione esistenziale? Prima di tentare di interpre-
tarla dal punto di vista esistenziale, è necessaria una conside-
razione preliminare: vogliamo interpretarla come una reale pos-
sibilità di annullare i peccati perché Jahvé l'ha concessa al cul-
to veterotestamentario del tempio? Oppure la vogliamo inter-
pretare come una concezione escogitata in ambiente sacerdo-
tale, di cui perciò prendere atto come di un fenomeno pura-
mente storico-religioso e non come di un'istituzione messa ef-
fettivamente a disposizione da Dio ai fini dell'espiazione? Sot-
to l'aspetto teologico bisogna dunque chiedersi se l'io di Jahvé
in Lev. 17,1 l sia quello pronunciato da Dio, oppure se non sia
soltanto un io divino fittizio. Pronunciarsi a favore della se-
conda alternativa non significa mettere fondamentalmente in
discussione l'io di Jahvé nell'Antico Testamento in quanto ri-
velazione di Dio nella storia di Israele. Affermare che in Lev.
l 7, l l l'io di J ahvé è fittizio significa solamente considerare il
culto espiatorio veterotestamentario un fenomeno storico-re-
ligioso, e scorgere in altri passi la rivelazione di Dio nell' Anti-
co Testamento. In ogni caso è nel Nuovo Testamento stesso
che si parla di incapacità del sacrificio veterotestamentario di
rimettere i peccati, Ebr. 9,9.13. Certo, qui è comunque presen-
te l'idea dell' a minori ad maius, ma per Ebr. 9,9 i sacrifici vete-
rotestamentari non sono in grado di «rendere perfette» le co-
scienze degli offerenti, 134 mentre per Ebr. 9, l 3 essi possono
solo santificare con la purificazione della carne, ay~a~e::~ 7tpÒc;
-r~v -rijc; crapx.Òc; x.a-8apo't"fl'ta. 135 Ma se l'autore di Ebr. ha tolto
efficacia a Lev. 17,11, pur senza un riferimento esplicito a tale
versetto, negando implicitamente la possibilità di rimettere i
133. V. anche Heidegger, Essere e tempo, spec. §§ 72-77.
134. 'l"EÀw;icrm: H.-F. Weiss, KEK xm, 448: rendere perfetto; H. Braun, HNT 14,
260: consacrare. 13 5. Bra un, HNT, 262.
Le lettere di Paolo 323
peccati che nel passo di Lev. viene introdotta da Jahvé, allora
anche all'esegeta del Nuovo Testamento non può essere preclu-
so il giudicare in modo analogo. Qui dunque io interpreto una
concezione teologica della redazione Sacerdotale, e mi ritengo
autorizzato in questo dal Nuovo Testamento tramite Ebr.
Ma che cosa esprime l'idea di sostituzione esistenziale? Per
prima cosa la coscienza della colpa, o meglio, la consapevolez-
za di dover rispondere con tutta la propria esistenza della col-
pa commessa, che ha fatto appunto di tale esistenza un'esi-
stenza colpevole. È la coscienza non soltanto di «avere» colpa,
ma di «essere» questa colpa medesima. Ed è inoltre il sapere
che tale colpa oltrepassa la propria esistenza, che è colpa da-
vanti a Dio, peggio, colpa contro Dio. È caratteristico del pec-
cato che, quando l'uomo ne diventi consapevole, si accorge di
essersi scontrato con qualcosa di santo, scoprendo in tal modo
di essere in relazione con Dio. È proprio il peccato a rammen-
tare all'uomo il suo essere aperto a Dio. Il peccato diventa qua-
si una felix culpa, perché la consapevolezza di aver leso la san-
tità può dimostrare che tale santità c'è, quindi che Dio esiste.
Il peccato fa conoscere la grazia divina. Esagerando si può dire
che il peccato può diventare grazia, perché è in grado di strap-
pare l'individuo alla sua indifferenza nei confronti di Dio.
Il peccato, se percepito realmente come tale, può far capire
che per causa sua si perde la vita davanti a Dio. Ma quando
Dio, come in Lev. 17,r r, rende possibile sostituire la propria
vita con quella della vittima sacrificale - ovviamente stiamo
usando le categorie di pensiero di un tempo-, allora ciò signi-
fica che Dio prende sul serio il peccato, e di conseguenza il
peccatore in quanto uomo. Una pura e semplice remissione
del peccato potrebbe portare a credere che Dio minimizza il
peccato dell'uomo. Se dunque l'uomo «moderno» si ribella
alla soluzione della sostituzione esistenziale, impossibile per la
sua concezione di esistenza, tuttavia è proprio in essa che tro-
va espressione la reciprocità - ineccepibile quanto a coerenza
logica - tra la grazia divina e il prendere sul serio il peccatore
in quanto uomo. In ogni caso, nonostante gli arcaismi, in que-
sta sequenza teologica del pensiero veterotestamentario-sacer-
324 La teologia di Paolo

dotale si è evidenziato l'elemento esistentivo. L'esperienza del


peccato è un'esperienza di tipo esistentivo, come pure l'espe-
rienza della remissione dei peccati e quella di essere preso sul
serio da Dio come peccatore e quindi come uomo. Tutto que-
sto dimostra come la teologia veterotestamentaria dell'espia-
zione implichi delle possibilità di comprensione che potrebbe-
ro essere utilizzate anche per l'espiazione vicaria di Cristo. L'in-
terpretazione esistenziale della materia peccans e contempora-
neamente della sostituzione esistenziale offre dunque un po-
tenziale ermeneutico enorme per la spiegazione di questo teo-
logumeno neotestamentario.
Ma allora come va interpretata la formula dogmatico-«og-
gettiva» di Rom. 3,2 5? Quanto è stato detto sopra a proposito
della sostituzione esistenziale può essere applicato negli aspet-
ti sostanziali alla morte di Cristo. Da un lato, però, il concetto
di sostituzione esistenziale è più adeguato qui che non nel-
1' Antico Testamento. L'animale sacrificale dell'Antico Testa-
mento, infatti, non era esistenza nel senso di esistenza umana.
E, inoltre, non poteva neppure sostituire l'esistenza dell'in-
dividuo colpevole, in quanto non era affatto consapevole del
proprio ruolo vicario. Solo la concezione arcaica che identifi-
cava il sangue con la vita rendeva possibile applicare a un ani-
male l'idea della sostituzione esistenziale. Poiché per noi tale
idea non è più applicabile, Lev. 17,r r come affermazione teo-
logica in sé perde di significato, almeno dal punto di vista del-
l'immagine. Di tale definizione resta tuttavia valido il conte-
nuto esistenziale. Lev. 17,1 r è interpretabile dal punto di vista
esistenziale, ed è questo a costituire l'importanza teologica ed
ermeneutica di questa «istituzione» del culto espiatorio da
parte di «Jahvé».
Nel suo essere uomo Gesù Cristo ha compiuto espiazione
vicaria: homo pro homine, e proprio per questo Deus pro homi-
ne. Nella formulazione Deus pro homine, ovviamente Deus si
riferisce in primo luogo a Gesù in quanto Figlio di Dio, incar-
nazione della giustizia di Dio. Tuttavia è doveroso anche inten-
dere che Dio è visto come soggetto dell'azione espiatoria: egli
ha pubblicamente dato il Cristo in espiazione, lo ha «dato» al-
Le lettere di Paolo

la storia universale. Con ciò Paolo ha ripreso un'idea fonda-


mentale della teologia dell'espiazione propria della redazione
Sacerdotale: è Dio il vero datore dell'espiazione. Non è lui ad
essere riconciliato mediante l'espiazione, non è la sua ira ad es-
serne placata, ma Dio riconcilia l'uomo con se stesso. Non è Dio
ad aver bisogno dell'atto di riconciliazione, ma l'uomo. Che
questa idea nel corso della riflessione teologica sia stata ben pre-
sto capovolta fa parte degli spiacevoli sviluppi subiti dalla sto-
ria della dogmatica. '3 6
Con l'interpretazione testé offerta della formula di fede ri-
presa da Paolo in Rom. 3,25 ci troviamo già sulla buona strada
per giungere all'interpretazione che l'apostolo stesso ne dà gra-
zie all'aggiunta di ulteriori elementi interpretativi. Ecco in pri-
mo luogo l'espressione tipicamente paolina òtà ['t"ijc;] 7tlcr't"e:wc;,
che separa in modo veramente infelice il concetto chiave [Àacr-
't'~ptov dal complemento che ne fornisce una definizione più
esatta, Èv 't'cfl mhou a?µa't't. Grazie a quest'interpolazione, una
formula dogmatica inizialmente così «oggettiva» viene fatta
uscire da Paolo da questa sua «oggettività». In tal modo trova
espressione la strettissima connessione di quanto avvenuto un
tempo sul Golgota e l'accettazione di fede di tale evento. La
storia del venerdì santo diviene così storicità di colui che cre-
de. L'interpolazione della glossa «per mezzo della fede», tut-
tavia, ha evidenziato ancora una volta l'elemento individuale
che caratterizza l'avvenimento salvifico. Se anche «tutti quelli
che credono», come sono definiti nel vicino contesto del v. 22,
hanno trovato la loro unità «in Cristo» proprio grazie a que-
sta fede, comunque è ogni volta la singola persona a credere.
Dunque, a giustificare è il Cristo creduto strumento di espia-
zione. È la stessa struttura teologica fondamentale già eviden-
ziatasi in 1 Cor. 1, 18 ss.: la theologia crucis è theologia verbi
crucis, e il verbum crucis si riferisce al verbum crucis creduto.
136. Al riguardo, tra le pubblicazioni più recenti v. in particolare Pannenberg, Syst.
Theol. II, 447 ss. (tr. it. 445 ss.). A ragione egli scrive che «ciò che ha contribuito a con-
solidare questa reinterpretazione dell'idea paolina di riconciliazione, ora legata al sa-
crificio espiativo che con la sua morte Gesù offre ad un Dio adirato per il peccato di
Adamo, è stato il collegamento del concetto con la persona di Cristo mediatore tra
Dio e l'umanità» (449, tr. it. 453).
326 La teologia di Paolo

Ma se con l'interpolazione òtà ['tljç] 7ttcr'tEWç è il credente


stesso ad essere «inserito» nella formula, a voler fare un'ese-
gesi realmente storica di quest'ultima si tratta del credente di
volta in volta concreto, individuale. Ciò significa, però, che si
tratta della persona che dal proprio passato passa a un presen-
te di fede, intendendo con questo che dal passato riporta con
sé nel presente, come un'eredità, la propria - per dirla in ter-
mini arcaici - materia peccans. Se dunque Dio ha esposto il
Cristo in espiazione, allora questi rappresenta, nella sostitu-
zione esistenziale di cui si è fatto carico, sia il peccatore sia la
sua materia peccans. Non c'è quindi bisogno di spiegare per-
ché, citando l'[Àacr't~pto\I È\I 'tcj) aÙ'tou a?µa'tt, si è fatto ricorso
al pensiero cultuale dell'Antico Testamento. La questione è se,
con tale ricorso, il culto espiatorio veterotestamentario è stato
fatto diventare una sorta di istituzione precorritrice dell'even-
to espiatorio avutosi sul Golgota, oppure se, con il teologu-
meno di Cristo come strumento di espiazione prestabilito da
Dio, tale culto è stato dichiarato inefficace. Se la formula re-
cepita da Paolo è di origine giudeocristiana - e un indizio a fa-
vore di tale ipotesi potrebbe essere l'uso di [Àacr't~pw\I, nel ca-
so dovesse indicare la kapporet -, allora il significato origina-
rio della formula potrebbe essere stato il superamento tipolo-
gico: quanto era in grado di compiere il culto veterotestamen-
tario era typos del superiore antitypos Gesù Cristo. Paolo,
comunque, non dovrebbe aver inteso la formula in tal senso.
Se, con la prima interpolazione, ne aveva ampliato il significa-
to nella direzione della teologia di fede - infatti non intendeva
certo suggerirne ai cristiani di Roma il significato «dogmati-
co» originario, che dava per scontato -, con la seconda inter-
polazione la inquadrava all'interno della sua teologia della
giustizia di Dio: dç E\IOEtçt\I 'tljç ÒtxmocrU\l'Y)ç aÙ'tou òtà 't~\I
mipEcrt \I 'tW\I 7tpoyqo\IO'tW\I &µap't'Y)[J-(hw\I, tradotto: a dimo-
strazione della sua giustizia per mezzo della remissione dei pec-
cati commessi in precedenza. 137 Ma, a quanto pare, con la lo-
cuzione prepositiva introdotta da Òta l'apostolo ha nuova-
137. Questa traduzione dovrebbe essere ormai certa, dopo il saggio fondamentale di
Werner Kiimmel, Ilap&cnç und Évo&1~1ç.
Le lettere di Paolo 327
mente attinto al patrimonio della tradizione. Se dunque Dio 138

manifesta la sua giustizia condonando per mezzo di Cristo,


strumento di espiazione, anche tutti i peccati commessi nel-
l'eone antico, viene ad essere ignorata la possibilità di espia-
zione offerta dal culto veterotestamentario. Perché rimettere
per mezzo di Cristo i peccati commessi in passato, se questi
erano già stati perdonati mediante i sacrifici espiatori veterote-
stamentari? Con l'argomentazione teologica di Rom. 3,25 s. il
culto veterotestamentario viene perciò dichiarato inefficace, e
questo in un'epoca in cui il secondo tempio non era ancora
stato distrutto e in esso ancora si celebravano regolarmente i
sacrifici espiatori. Nella sua argomentazione teologica, dun-
que, Paolo ignora non solo ciò che afferma la legge cultuale
della redazione Sacerdotale, ma anche la pratica cultuale real-
mente esistente. Nel v. 26 riprende dal v. 25 l'e:lç EvÒe:~~~v ... ,
leggermente modificato in 7tpÒç 't~v EvÒe:~~~v, completando in
questo modo l'affermazione riguardante il tempo passato con
quella riguardante il tempo salvifico presente: È:v 'ttj) vuv xa~pcf>
(cfr. v. 21: vuv[). Riassume così: per essere giusto 139 e giustifi-
care colui che esiste per la fede in Gesù.
Nel v. 25 Paolo ha perciò definito Gesù hilasterion ricor-
rendo innanzitutto a una terminologia cultuale. Con l'annul-
lamento argomentativo dell'efficacia attribuita al culto vetero-
testamentario, tuttavia, l'apostolo non ha tanto indicato nel
Golgota il nuovo culto, quanto, in linea di principio, elimina-
to radicalmente il pensiero cultuale. Con Kasemann si potrà
dunque affermare che non è il linguaggio cultuale a dover es-
sere contestato; 140 Paolo ha invece negato energicamente ciò
che costituisce l'essenza del culto. 141 142
138. Lo si può già riscontrare nel plur. cip.ap·nl!.1.0:-rwv. Tuttavia Kasemann, HNT, 93,
in Rom. 3,25b scorge una concezione giudeocristiana, in 3,26 invece un commento
dello stesso Paolo.
139. òixa1oç qui non indica la giustizia come qualità propria di Dio; l'aggettivo, infat-
ti, viene spiegato con l'epesegetico ò1xawiina. Solo così Òtxmoç si inserisce nel corso
dell'argomentazione. 140. Kasemann, HNT, 9i.

141. Non sono qui entrato nel merito di interpretazioni relative a questo versetto di
Rom. contrarie a quella che ho qui fornito, per non sovraccaricare l'esposizione e l'in-
terpretazione teologica qui presentate. Le opinioni che divergono dalla mia possono
La teologia di Paolo

Dopo l'intermezzo di interrogativi vari di Rom. 3,27 143 Paolo inserisce


l'affermazione teologica culminante di Rom. 3,28: «È nostro giudizio
teologico (Àoyt~o1J.e:.Sa) che l'uomo è giustificato per mezzo della fede
senza le opere della legge». Ed ecco la motivazione: Dio è Dio non sol-
tanto dei giudei, ma anche dei pagani, e anzi è l'unico Dio, e:k 6 .Se:oç.
Certamente qui l'intento principale è quello di enfatizzare il pensiero
espresso in Rom. 3,20-22; al tempo stesso, però, non si deve assoluta-
mente ignorare quanto appena affermato a proposito della legge cultua-
le. Difatti, quella legge che è scritta nel cuore dei pagani e della quale è
detto che «i pagani sono legge a se stessi», Rom. 2, r 4 s., non contiene
affatto le prescrizioni rituali o, se si vuole, le possibilità rituali della torà.
Rom. 3'3 r mostra invece che Paolo si ribella energicamente all'idea di
aver distrutto la torà mediante la fede. 144 Egli anzi la conferma (lcr'tavo-
p.e:v) lasciandole dire la sua, ossia citando Gen. 15,6: il riferimento profe-
tico alla giustizia di fede. 145
Ma per la comprensione di realtà di Paolo cosa comporta la
negazione del pensiero cultuale veterotestamentario mediante
la cristologia? In Rom. 3,21-31 pare mancare quel pensiero teo-
logico che in 1 Cor. sembrava essere centrale per Paolo, ovve-
ro il pensare in termini di «spazialità». Fino a questo momen-
to non vi sono stati riferimenti espliciti all'essere-in-Cristo,
benché l'apostolo ne parli ampiamente in altri passi di Rom.
Ad ogni modo è presente anche qui, tra le righe, e lo può tro-
vare chi abbia ben presente i contesti teologici dei «concetti»

essere agevolmente ricercate nei più recenti commenti a Rom., dove, in particolare in
Kasemann e Dunn, si possono trovare anche indicazioni bibliografiche più estese.
142. Sulla questione dell'espiazione vicaria v. soprattutto Stuhlmacher, Versohnung,
Gesetz und Gerechtigkeit, passim; Idem, Bibl. Theol. des NT I,§ 21; inoltre Hofius,
Suhne und Versohnung; Kertelge, Das Verstandnis des Todes jesu bei Paulus; Idem,
Die paulinische Rechtfertigungsthese nach Rom 3