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Teatro e devozione

Carla Maria Bino*

A ll’alba del XVI secolo la pietà medievale non ha perso il suo


vigore, ma prolifera come non mai in forme di devozione che si
gonfiano e moltiplicano. La vita religiosa sembra svolgersi in equili-
brio tra la devozione dimostrativa dei «semplici» (come li definisce
l’agostiniano Johannes von Paltz nel 1504), per i quali le proces-
sioni e il culto delle reliquie o dei santi hanno la stessa importanza
di preghiera e sacramenti, e la pietà più intima degli «intelligenti»,
influenzati dall’ascolto dei sermoni, dalla lettura dei libri d’ore e
dei testi di opere spirituali. «Semplici» e «intelligenti», però, condi-
vidono lo stesso universo culturale, il cui oggetto principale è il
Cristo passionato da meditare e soprattutto «vedere» nella sua
carne piagata.1 Posta al centro di una religione della visione, la
passione costituisce il cuore dei tre principali misteri attorno ai
quali sono organizzate le devozioni del periodo (ossia l’infanzia di
Gesù, la croce e l’eucaristia), ed è soprattutto il fulcro della rappre-
sentazione, tanto figurativa quanto drammatica.2 Sovraccarico di

* Professore associato alla Facoltà di lettere e filosofia dell’Università Cattolica del Sacro
Cuore, membro della Société internationale pour l’étude du théâtre médiéval e della Medie-
val and Renaissance Drama Society.
1
Cf. P. DENIS, Il Cristo conteso. Le rappresentazioni dell’Uomo-Dio al tempo delle Riforme (1500-
1565), Morcelliana, Brescia 1994, 12-16.
2
Cf. C. BERNARDI, «Passioni, devozioni e drammi di Cristo nell’Italia della Controriforma», in
Sacra Scena 1(2005), 7-27.

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elementi spesso incongrui e per questo aspramente criticato anche
dai protestanti, il «teatro della pietà» tardomedievale è oggetto di
una lunga opera di riorganizzazione fondata sulla distinzione tra
sacro e profano, clericale e laicale. Si tratta di un percorso che
non va letto come reazione di difesa o di drastica rottura con il
passato: iniziato ben prima dell’entrata in scena di Lutero, è piut-
tosto un indipendente e parallelo rinnovamento del cristianesimo
che, in linea con le nuove necessità pastorali e spirituali, produce
la revisione delle forme liturgiche e cultuali, riordina le modalità di
comunicazione e formula nuovi dispositivi di rappresentazione.3
I fili di continuità che legano l’età medievale con quella moder-
na sono particolarmente evidenti nel caso della reinvenzione delle
forme in cui in epoca barocca i francescani riordinano il loro «tea-
tro della conformazione», da sempre centrato sull’imitazione della
vita di Cristo. La «drammatica francescana» era stata caratterizzata
da tre elementi strettamente annodati tra loro: la devozione amo-
revole per l’umanità crucisignata di Cristo, fulcro della maggior par-
te delle pratiche di pietà; il legame, quasi una sovrapposizione, tra
il corpo spezzato di Gesù e l’eucaristia; l’importanza della historia
nel racconto passionista, suddiviso in specifici episodi e costruito
dinamicamente secondo mappe locative e scansioni temporali che
consentono una partecipazione dell’evento quasi in «carne viva».
L’articolarsi di questi tre elementi comportò il passaggio dalla con-
templatio pietatis alla compartecipatio pietatis e il suo incarnarsi
nelle diverse forme devozionali di stampo mimetico-conformativo,
promosse dai francescani nel tardo medioevo.4
Nel Seicento la devozione drammatica francescana mantiene al
centro la passione di Cristo, vissuta sia nel suo aspetto sacrificale e
simpatetico – e perciò ancora legata all’identificazione mimetica di
cui Francesco è e resta il modello – sia nel suo significato salvifico e
sacramentale. Permane l’unione dell’istanza penitenziale – che di-

3
Cf. D. ZARDIN, «Crisi e metamorfosi. Il cristianesimo europeo tra Cinquecento e Seicento», in
Memorandum 12(2007), 46-60.
4
Cf. C. BINO, «Teatro francescano. “Fare come” per “farsi come”: il teatro della nudità e la
drammatica della conformazione», in M. BARTOLI – W. BLOCK – A. MASTROMATTEO (a cura di),
Storia della spiritualità francescana, 1: Secoli XIII-XVI, EDB, Bologna 2017, 277-294.

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viene molto forte e si fa più esibita – con un’affettività che mira alla
condivisione empatica. Contemporaneamente, viene reinventata la
devozione per l’umanità di Cristo e per il suo corpo, doloroso e
glorioso a un tempo, presente nell’eucaristia che si offre allo sguar-
do per essere pregato e adorato. Vengono rivisti i modelli retorici
della meditazione e della predicazione della passione che, pur non
dimentichi della tradizione risalente a Bonaventura, danno luogo a
nuovi dispositivi dell’azione e della rappresentazione. Viene rinno-
vata la pratica della conformazione che resta legata all’idea della
sequela ma viene agita palesemente e teatralmente, traducendosi
in cammini fisici e drammatici di penitenza e salvezza. È questo il
secolo di una spiritualità drammatica che si incarna facendo suoi i
dispositivi teatrali elaborati dall’epoca tardo rinascimentale e ba-
rocca, per servirsene in funzione sia catechetica sia moralistico-
apologetica, mirando cioè all’inculturazione del popolo e alla con-
versione e riconciliazione; non solo, dunque, in chiave anti prote-
stante e anti ereticale, ma anche e soprattutto per il rinnovamento
dei costumi e la rifondazione della società cristiana. Se a partire
dal concilio di Trento la fede, la carità e l’etica divennero in prima
istanza responsabilità d’ordine personale,5 anche nel caso dei fran-
cescani sembra avvenire quello che Claudio Bernardi ha definito il
paradossale spostamento da un teatro della pietà, che «mirava alla
conversione individuale per un agire collettivo e per una salvezza
sociale», a un teatro della gloria, fatto di azioni collettive, ma che
aspirava «alla conversione individuale o salvezza personale».6
Per illustrare questo spostamento mi soffermerò su tre esem-
pi del teatro della devozione francescana d’epoca barocca, vale a
dire il teatro della passione, ove accanto alla tradizione paraliturgi-
ca della deposizione si sviluppano processioni, vie e cammini che
commemorano l’itinerario del dolore di Cristo; il teatro delle qua-
rantore, invenzione che unisce la devozione passionista e quella
sacramentale; e, infine, il teatro spirituale, ossia la nuova dram-

5
Cf J. BOSSY, Dalla comunità all’individuo. Per una storia sociale dei sacramenti nell’Europa
moderna, Einaudi, Torino 1998.
6
Cf. BERNARDI, «Passioni, devozioni e drammi di Cristo», 7.

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maturgia, che, appropriatasi dei modelli compositivi coevi, tratta
argomenti scritturali, agiografici, dottrinali e ne fa un uso missio-
nario e edificante.

Il teatro della passione: la reinvenzione


della misericordia
Sin dal XIII secolo, i francescani avevano celebrato la memoria
della passione di Cristo con modalità drammatiche che riguarda-
vano la preghiera collettiva, la meditazione individuale, la predi-
cazione e i riti. Rispetto alla lettura benedettina della vicenda pas-
sionista (centrata sulla relazione fisica ed emotiva tra Maria e Cri-
sto), i minori svilupparono l’attenzione per l’umanità sofferente
del Crocifisso, declinandola nella devozione per la sua nuda umil-
tà e la sua carne piagata, vista e descritta nel «divenire» dolorosa.
Il racconto della passione, allora, si era configurato come quel
cammino da una violenza all’altra attraverso cui il corpo di Cri-
sto diviene confractus a causa dell’accumularsi delle piaghe sulla
carne. Il risultato della dettagliata descrizione di questo itinera-
rio fu la composizione dell’immagine dell’«uomo dei dolori» appe-
so alla croce, la cui evidenza realistica suscitava l’identificazione
mimetica richiesta dall’imitatio. Questo meccanismo compositi-
vo aveva fissato quelle scene e determinato quegli elementi che
sarebbero confluiti, oltre che nelle opere meditative più tarde,
nella poesia (sequenze, inni, laudi), nella predicazione, nell’arte
e nelle pratiche di pietà, divenendo i modelli per il «teatro della
misericordia» che si diffuse in Europa nel tardo medioevo.7 In Ita-
lia, questo teatro ebbe il suo maggiore esempio nelle «devozioni»
organizzate dalle confraternite di laici, sovente sorte per opera
degli ordini mendicanti – e in particolare dei francescani –, per
le quali alla fine del XV secolo la rappresentazione della passione
era una prassi.8 Nonostante la stagione del teatro confraternale si

7
Ho trattato l’argomento in C. BINO, Dal trionfo al pianto. La fondazione del «teatro della mise-
ricordia» nel Medioevo (V-XIII secolo), Vita e Pensiero, Milano 2008, in particolare 311-401.
8
Sul teatro confraternale in Umbria è fondamentale M. NERBANO, Il teatro della devozione.
Confraternite e spettacolo nell’Umbria medievale, Morlacchi, Perugia 2007.

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fosse conclusa entro i primi due decenni del XVI secolo, a ridosso
del concilio di Trento si era aperta una nuova fioritura di azioni
drammatiche la cui cifra era improntata piuttosto allo spettacolo
e alla meraviglia.9 Proprio lo spostamento verso la spettacolarità
– con i suoi eccessi e i suoi effetti emotivi – sembra la principale
ragione che determinò i divieti di messa in scena della passio-
ne da parte delle autorità ecclesiastiche; divieti che, pur non eli-
minando le precedenti pratiche, sortirono il graduale affermarsi
di nuove forme di rappresentazione, tra le quali le processioni
drammatiche e la predicazione, il dramma spirituale e gli oratori
musicali.10
Tra le declinazioni che ebbe questo rinnovato teatro della pas-
sione nel corso del Seicento, mi soffermo sui due esempi che credo
più significativi per l’ordine francescano, vale a dire la para-liturgia
della deposizione di Cristo dalla croce, promossa dagli osservanti,
e il teatro del cammino della croce, che ha il suo massimo esempio
nell’invenzione cappuccina della via crucis.

Un teatro d’amore:
la deposizione drammatica di Cristo dalla croce
Da Bonaventura in poi, il racconto passionista francescano si
era andato articolando nei quattro snodi di tradimento-cattura,
derisione-condanna, crocifissione-morte, deposizione-sepoltura e
secondo una precisa cronologia che coincideva con il tempo della

9
È il caso della rappresentazione di passione e risurrezione organizzata a Todi nel 1563 e
promossa dal predicatore cappuccino Stefano da Faenza, la quale ebbe tale successo da
essere replicata negli anni successivi fino a quando, nel 1600, il vescovo non l’autorizzò a
causa di abusi precedentemente verificatisi: cf. NERBANO, Il teatro della devozione, 61-62.
10
Le date che sanciscono la fine del teatro passionista in Europa sono: il 1539, quando Paolo
III vieta la rappresentazione della passione del Gonfalone nel Colosseo a Roma a seguito
delle ondate antiebraiche che aveva suscitato; il 1548, quando a Parigi il parlamento vieta
alla Confrérie de la Passion di mettere in scena drammi di argomento sacro, poiché in essi si
trovano ormai troppi elementi profani; infine, il 1565, anno del concilio provinciale milanese
nel quale Carlo Borromeo vieta la messa in scena della passione di Cristo, consuetudine
devota ma ormai degenerata, chiedendo che sia piuttosto esposta dai predicatori in modo
grave e tale da indurre lacrime e commozione, con l’ausilio del crocifisso e di pie azioni
(che, però, dovevano essere autorizzate di volta in volta dal vescovo).

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meditazione per le ore canoniche.11 Tale schema distingueva tra
ciò che prepara la passione (meditato al mattutino), i fatti violenti
e umilianti del processo sino alla condanna (previsti per l’ora pri-
ma e terza), l’esecuzione della sentenza sino alla morte (ora sesta
e nona), i fatti post mortem (vespro e compieta). Lo snodo deposi-
zione-sepoltura, poi, si divideva in due momenti diversi sul piano
drammaturgico: lo schiodamento dalla croce, che è una scena d’a-
more la cui cifra è quella relazionale del fare empatico e dell’ab-
braccio, alla quale corrisponde una funzione affettiva del pianto,
esemplata dalle lacrime materne; e la deposizione nel sepolcro,
che invece è una scena di veglia, la cui cifra è quella della con-
templazione (quasi un adorare), alla quale corrispondono l’umile
compunzione e la richiesta di misericordia propria del pianto di
penitenza, esemplato soprattutto dalle lacrime di Maddalena.12
Questa differenza aveva influenzato l’iconografia – che si fa nar-
rativa e si articola in scene relazionali come i gruppi di deposizione,
i Vesperbild, i gruppi di compianto –13 e i riti del Venerdì santo tra

11
Per una dettagliata analisi del racconto passionista francescano cf. BINO, Dal trionfo al
pianto, 354-381.
12
Nelle Meditazioni sulla vita di Cristo di Johannes de Caulibus la scena di deposizione, previ-
sta per il vespro, è costruita sapientemente come identica e contraria alla crocifissione: si
ripetono i medesimi gesti (le due scale, i due addetti ai chiodi, il dettaglio del ferro pene-
trato nella carne), ma con opposta intenzione. Il capitolo della compassionevole cura ha la
propria immagine in Maria con in grembo il capo del Figlio e in Maddalena ai piedi del suo
Signore. Questa icona drammatica chiude la meditazione dei vespri e introduce quella di
compieta dedicata alla sepoltura di Cristo, momento del pianto comune versato dalla madre
e dalla discepola. A sepoltura avvenuta, l’ora della meditazione di compieta prosegue con
la veglia d’attesa della risurrezione, preparando e preannunciando il mattutino del giorno
successivo. Sulle diverse funzioni del pianto cf. C. BINO, «Com-passione. Dalla Passione evan-
gelica alla Passione compatita», in EAD. (a cura di), Scene. Saggi sul teatro tra testi, sguardi e
attori, Educatt, Milano 2018, 105-131.
13
Tra il XII e il XIII secolo si diffondono in Europa centromeridionale i gruppi lignei di depo-
sizione che, collegando il momento della crocifissione a quello della sepoltura, rimandano
direttamente alla risurrezione e assumono una funzione quasi sacramentale, confermata
dal fatto che spesso la scultura di Cristo contiene l’ostia e le reliquie. Dall’inizio del XIV
secolo e a partire dalla Germania, si diffondono i Vesperbilder o immagini del vespro, scul-
ture per la meditazione e la preghiera in cui Maria regge il corpo del figlio e lo offre, come
un sacerdote, allo sguardo del fedele. Dal XV secolo, infine, hanno ampia diffusione i gruppi
di compianto che riguardano in modo preciso la sepoltura di Cristo. Sul tema cf. G. GENTILE,
«Testi di devozione e iconografia del Compianto», in G. AGOSTINI – L. CIAMMITTI (a cura di),
Niccolò dell’Arca. Seminario di Studi. Atti del convegno del 26-27 maggio 1987, Nuova Alfa,
Bologna 1989, 167-211; J.E. ZIEGLER, Sculpture of Compassion: The Pietà and the Beguines in the
Southern Low Countries, c. 1300-c. 1600, Institut Historique Belge de Rome, Brussels 1992.

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i quali, sin dal X secolo, era stato introdotto il rito facoltativo del-
la depositio crucis che andava a chiudere e completare l’adoratio,
prevedendo la sola azione di avvolgere la croce in un sudario per
poi accompagnarla al sepolcro, ove veniva vegliata sino al sabato.
La critica storica ha messo in evidenza il significato sacramentale
del rito di depositio, collegandolo non solo alla reposizione dell’o-
stia, ma anche al ruolo di res sacratae rivestito dalla croce in epo-
ca carolingia e dal crocifisso monumentale in epoca ottoniana.14
Con l’affermarsi del culto eucaristico, il rito perse questa valenza
e assieme il suo legame con l’adoratio; analogamente, il crocifisso
assunse il ruolo di imago agens, con la possibilità di venire usato
dai laici, oltre che dai religiosi. È in questo contesto che, a parti-
re dal XIV secolo, troviamo le prime attestazioni della scena dello
schiodamento di Cristo dalla croce realizzata grazie all’adozione di
sculture (lignee e polimateriche) con gli arti snodabili, ampiamen-
te diffuse in Italia e in Europa.15 Si tratta di una scena dal valore non
simbolico ma narrativo, la cui funzione è quella di rappresentare
la memoria della deposizione del corpo senza vita di Cristo e della
dolorosa cura di coloro che lo amano. Il suo carattere drammatico
sortisce para-liturgie differenti per tipologia, collocazione rituale e
officiatura: i primi documenti oggi noti ci dicono che poteva esse-
re agita sia dai religiosi e nel contesto degli offici di parasceve (è
il caso della deposizione attestata nel monastero benedettino di
Barking), sia dai laici riuniti in confraternite e all’interno del pro-
gramma delle celebrazioni pubbliche della passione (attestate co-
piosamente per l’Umbria e la Toscana).16
I francescani misero a punto un preciso schema di rappresen-
tazione della scena di deposizione di Cristo dalla croce, il cui mo-
dello sembra potersi ritrovare nei riti per il Venerdì santo che, se-

14
Sui mutamenti della depositio cf. C. BINO, «“Quasi presentialiter”. La croce-crocefisso nel
dramma della Passione tra meditazione e rito (IX-XI sec.)», in L. CANETTI (a cura di), Statue.
Rituali, scienza e magia dalla Tarda Antichità al Rinascimento, Sismel-Edizioni del Galluzzo,
Tavarnuzze-Impruneta 2017, 168-218.
15
Sui crocifissi con arti mobili cf. K. KOPANIA, ANIMATED SCULPTURES OF THE CRUCIfied Christ in the
Religious Culture on the Latin Middle Ages, Wydawnictwo Neriton, Warszawa 2010.
16
Cf. C. BINO, «Le statue del Cristo crocifisso e morto nelle azioni drammatiche della Passione
(XIV-XV secolo). Linee di ricerca», in Drammaturgia n.s. 13(2016)3, 277-311.

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condo quanto riferisce Lucas Wadding nel 1623, l’ordine officiava
a Gerusalemme, in sacello montis calvarij, già dal 1342.17 L’azione
della schiodatura, al tempo, non costituiva un rito a sé, bensì era
parte di quella che sembra una drammatizzazione della lettura
cantata della Passio di Giovanni. La descrizione, infatti, ci restitu-
isce una vera e propria «liturgia ri-presentativa della parola», nel-
la quale la lectio evangelica viene letteralmente «agita al vivo» ed
esattamente nei luoghi in cui i fatti storici erano avvenuti. I fra-
ti preparavano una croce nello stesso luogo dove era avvenuta
la crocifissione e lì, servendosi di un simulacro, presentavano di
nuovo la chiodatura di Cristo; poi, issavano in alto la croce serven-
dosi del medesimo foro che aveva ospitato il vero legno. L’effetto
era straordinariamente coinvolgente, poiché si trattava di un age-
re memoriam in senso stretto, vale a dire di una rappresentazione
non mimetica e finzionale bensì memorativa, volta a rievocare il
passato con il ri-presentarlo qui e ora, in una perfetta sovrapposi-
zione spazio-temporale.
È però molto significativo che, oltre alla dimensione riattuativa
della memoria, i francescani puntassero anche sull’identificazione
mimetica: quando il racconto evangelico giungeva al momento in
cui Gesù parlava dalla croce, il diacono che cantava il testo tace-
va e il padre guardiano, avvicinatosi al crocifisso, prestava la sua
voce al simulacro. Ne sortiva quello che viene espressamente de-
finito uno «spettacolo di pietà» e una simulazione «viva» della pas-
sione, in grado di provocare non solo il pianto di tutti i presenti,
ma anche la compartecipazione emotiva degli officianti, ben esem-
plati dallo stesso padre guardiano che si trovava a pronunciare le
parole di Cristo, in lacrime e con la voce rotta dai singulti. Il connu-
bio tra memoria e compartecipazione mimetica raggiungeva il suo
acme nel momento della deposizione del crocifisso dalla croce,
che avveniva in perfetta corrispondenza del racconto evangelico.
L’effigie veniva schiodata e deposta in un lenzuolo prezioso tessu-

17
L. WADDING, Annales Minorum in quibus res omnes trium ordinum a s. Francisco institutorum
ex fide ponderosius asseruntur, calumniae refelluntur, praeclara quaeque monumenta ab obli-
vione vendicantur, Lugduni 1635, III, 497-498.

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to di gemme e oro, il quale, impugnato per i suoi quattro angoli da
altrettanti sacerdoti, costituiva il supporto con cui – in una proces-
sione alla quale tutti partecipavano recando ceri accesi – il corpo
del Signore era portato dal monte Calvario alla pietra dell’unzione.
Qui, il padre guardiano e un altro frate lavavano con acqua profu-
mata di mirra e aloe la statua ad similitudinem Iosephi et Nicodemi,
per poi ungerla come era avvenuto con il cadavere di Cristo. Infine,
avvolto il crocifisso in una sindone pulita, lo deponevano nel sepol-
cro, il vero sepolcro, dove la cerimonia terminava in un momento
di nuova e tenera compassione.
Questa drammatizzazione del Vangelo giovanneo sembra co-
stituire la summa (o forse la matrice) delle diverse cerimonie con
cui i francescani commemorarono la passione di Cristo tra il XIV
e il XVII secolo in Europa. L’assenza di studi sul tema ci impedi-
sce di tracciare un quadro ancorché sintetico. Sappiamo, però,
che nel territorio dell’Italia centrale (tra Toscana, Umbria e Mar-
che) nella seconda metà del Quattrocento è probabile che i frati
fossero soliti ripresentare tanto il momento in cui Gesù parlava
dalla croce (l’Heptalogus) quanto quello dello schiodamento dal
legno. Ce lo lasciano ipotizzare le molte sculture di crocifissi do-
tati di meccanismo per il movimento della lingua, e per questo
detti «parlanti», attestate in prevalenza presso chiese e conventi
degli osservanti, e le statue del Crocifisso con gli arti snodati, più
diffuse, invece, presso i conventuali. Se questi manufatti venisse-
ro usati in azioni liturgiche o para-liturgiche non siamo in grado
di dirlo.18
Nella prima metà del Seicento il rito della deposizione è docu-
mentato per i conventi dei francescani osservanti dell’Aracoeli a
Roma e di Sant’Angelo a Milano, che lo celebravano il Venerdì san-
to. Tali documenti – il cui studio si deve a Claudio Bernardi – ci
parlano di una cerimonia non più legata alla liturgia, ma autonoma
e isolata, pensata per la fine del giorno in corrispondenza dei tempi
di vespro e compieta e limitata alla drammatizzazione dei due epi-
sodi di deposizione del corpo di Cristo dalla croce e della sua se-

18
Cf. BINO, «Le statue del Cristo crocifisso», 289-295.

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poltura.19 La forma della funzione doveva essersi imposta a Gerusa-
lemme già nei primi decenni del secolo, forse a seguito dell’opera
di riforma attuata da Tommaso Obicini da Novara;20 tuttavia, nella
città santa essa è ancora parte di più ampio rito, la processio fune-
bris stazionale che partiva dalla cappella dell’apparizione di Gesù
risorto alla madre e si concludeva al sepolcro, il quale includeva
sermoni in diverse lingue, il canto di salmi, responsori del Passio
giovanneo, ma nella sola parte relativa a deposizione e sepoltura
(Gv 19,38-42).21
Collocata dopo il mattutino delle Tenebre e separata dagli uffici
del giorno, la cerimonia degli osservanti di Milano segue un ordine
preciso e articolato in cinque momenti: lo schiodamento del simu-
lacro di Gesù dalla croce svolto da due «depositori» che si servono
di due scale opportunamente sistemate e compiono gesti debita-
mente fissati (prima viene tolto il titulus crucis, poi la corona di
spine, il chiodo della mano destra, poi quello della mano sinistra e
infine il chiodo dei piedi); la deposizione dalla croce del simulacro
che viene adagiato su un lenzuolo o «telaro» appositamente predi-
sposto; la processione del Cristo morto con gli arma Christi (o mi-
steri) e accompagnata dal canto del Miserere; l’unzione del Cristo
morto; la sepoltura e l’adorazione. Durante lo svolgimento del rito
era anche prevista la recita di un sermone sulla passione.22

19
A proposito cf. gli studi di C. BERNARDI, «La funzione della deposizione di Cristo il venerdì
santo nella chiesa francescana di S. Angelo a Milano (sec. XVII)», in Medioevo e Rinascimento
n.s. 3(1992)6, 235-249 (con trascrizione del testo rituale) e ID., «Il tempo sacro: “Entierro”.
Riti drammatici del venerdì santo», in A. CASCETTA – R. CARPANI (a cura di), La scena della gloria.
Drammaturgia e spettacolo a Milano in età spagnola, Vita e Pensiero, Milano 1995, 601-609.
20
Claudio Bernardi ha parlato di un preciso «modello francescano» del rito, ipotizzando che
fosse stato introdotto in Italia attorno alla prima metà del XVII secolo sull’esempio del rito
gerosolimitano.
21
Il riferimento è l’Ordo processionis: quae quotidie post Completorium sit Ierosolymis; per
ecclesiam Sanctissimi, & gloriosissimi Sepulchri Domini nostri Iesu Christi. Venetiis apud Misse-
rinum, 1623. Del rito secentesco cf. anche la descrizione redatta da padre Pietro Veniero in
un documento che risale agli anni tra il 1630 e 1640: P. VENIERO, Croniche ovvero Annali di
Terra Santa, IV, in Biblioteca bio-bibliografica della Terra Santa e dell’Oriente francescano,
IX, Quaracchi, Firenze 1936, 40. Cf., inoltre, Ordo processionis quae Ierosolymis in basilica
Sancti Sepulchri Domini nostri Iesu Christi a fratribus minoribus peraguntur, Typis Polyglottis
Vaticanis, Romae, 1925, 10 e 69-83.
22
Cf. BERNARDI, «Il tempo sacro», 602. Per il rito gerosolimitano cf. ivi, 605, nota 54, e per il rito
romano ivi, 608, nota 64.

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Quali siano le caratteristiche proprie della funzione francesca-
na lo si comprende dal confronto con le molte cerimonie per cele-
brare la morte e sepoltura di Cristo promosse, tra la fine del XVI
secolo e nel corso del XVII, da diversi ordini religiosi e confraterni-
te e che per la maggior parte sono processioni con simulacri, cata-
falchi, misteri, personaggi in costume, sermoni drammatizzati.23 Gli
osservanti, pur eseguendo la processione di sepoltura con gli arma
Christi, non rinunciano all’azione dello schiodamento dalla croce
che costituisce invece la parte più importante del rito. Così facen-
do, conservano l’articolazione dei fatti post mortem (deposizione/
sepoltura) propria della più antica tradizione dell’ordine e dell’of-
ficio gerosolimitano, mantenendo oltre che il senso della historia
passionis anche l’unione tra l’intentio affettiva e quella penitenziale
sottese alle due diverse scene. Non è un caso allora che nella Mi-
lano della seconda metà del Settecento – dove è in atto un lento
processo di secolarizzazione della città che ri-descrive le relazioni
tra individui e gruppi e sostituisce alla «comunità» orizzontale e re-
sponsabile dei cori devoti la civitas verticale e regolata delle istitu-
zioni – la cerimonia dei frati in Sant’Angelo venga riformata proprio
con l’abolizione del momento della deposizione del crocifisso dalla
croce.24 Ad essere eliminata è la scena cardine del teatro francesca-
no dell’identificazione mimetica che, rappresentando le relazioni
affettive e di cura verso il corpo di Cristo, aveva declinato in modo
operativo l’amore di Dio e reso la compassio un sentimento oriz-
zontale, gratuito e generativo. Quella scena non solo aveva sposta-
to il piano della rappresentazione passionista dalla visio all’actio,
ma era stata anche il cuore della drammaturgia della misericordia.

Il «teatro del cammino»: processioni, itinerari, vie


Come è noto, tra tutte le metafore della condizione umana, quel-
la del cammino o del viaggio è la più legata al cristianesimo poiché

23
Per una rassegna delle diverse tipologie cf. C. BERNARDI, La drammaturgia della Settimana
Santa in Italia, Vita e Pensiero, Milano 1991, 279ss.
24
Cf. Diario Borrani, anno 1774, BAMi, N 33 suss, c. 20.

BINO, Teatro e devozione 287

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rende molto bene l’idea del percorso che, esule e animato dalla
nostalgica necessità del ritorno, l’uomo deve compiere dalla civitas
terrena alla civitas celeste. Nel corso dei secoli, su questa idea, che
fu anzitutto spirituale, si innestarono i cammini rituali, quali le pro-
cessioni, gli itinerari di meditazione e preghiera, i viaggi nei luoghi
della vita di Gesù con cui si cercava la tangibile realtà della storia
e la dimensione memorativa della presenza. Ritualizzato, lo spazio
inglobava il tempo e andava a configurare un tragitto verso la re-
denzione, di cui Cristo era la via da seguire. Il concetto di sequela,
prima di Francesco e poi del francescanesimo, declinò la metafora
del cammino in termini mimetici e conformativi, facendone un se-
guire le orme di Cristo nella marcia verso Dio: la vita francescana,
allora, fu intesa come un percorso dinamico che si compie «facen-
do come Cristo» per «farsi come Cristo».
Questa particolare accezione fu sempre sottesa alle devozioni
drammatiche promosse dall’ordine lungo i secoli, ma caratteriz-
zò soprattutto l’epoca barocca, quando la processione divenne la
forma dominante della ritualità – riguardando tanto i tempi della
gioia quanto quelli del dolore – e si moltiplicarono gli itinerari e i
percorsi dedicati alla commemorazione della vita e della passione
di Cristo.25 Processioni e percorsi nel loro insieme sembrano con-
figurare quello che possiamo definire un vero e proprio «teatro del
cammino», la cui peculiare cifra francescana è ancora una volta
tutta giocata tra la compartecipazione mimetica e il senso espe-
rienziale della historia pietatis. Ne porto due esempi.
Il primo si riferisce alle processioni penitenziali organizzate dal-
le diverse famiglie dell’ordine, e soprattutto dai cappuccini, in oc-
casioni liturgiche diverse (dalla Quaresima, alla celebrazione delle
quarantore), oppure in caso di eventi perniciosi per la comunità
(epidemie, guerre, calamità naturali). La pia pratica coinvolgeva
religiosi e laici, parrocchie, canonici, conventi e confraternite: i fe-
deli sfilavano scalzi, «vestiti» dei signa passionis e cantando salmi

25
Cf. B. DOMPNIER – D.O. HUREL – D. DAVIY-RIGAUX (a cura di), Les cérémoniaux catholiques en
France à l’époque moderne: une littérature de codification des rites liturgiques, Brepols, Tuno-
hout 2009. Sulle feste di gioia francescane cf. il caso francese studiato da F. HENRYOT, «Rèjou-
issances franciscaines au XVIIe siècle», in Les Cahiers du Littoral 12(2013)2, 205-218.

288 Parte seconda: Profezia e politica nell’età dell’Assolutismo

Bartolomei-Block-Mastromatteo.indb 288 05/03/21 12:46


e litanie. Non erano escluse le donne, le quali facevano di sacco,
corda, spine e croce i monili con cui ornare il proprio corpo. Il
carattere penitenziale del corteo era reso ancora più marcato dal-
la disciplina pubblica, spesso molto aspra e praticata in comune.
Rispondenti al dovere dei frati di predicare la necessità di pentirsi
per prepararsi al regno dei cieli e accedere alla salvezza (poeniten-
tiam agite, appropinquabit enim regnum coelorum) (Cost. 1536, n.
118), le processioni penitenziali erano «teorie performate» di tipo
mimetico attraverso le quali si ri-presentava un ideale cammino in
riparazione dei propri peccati.
Ben lontani dal rappresentare un puro ornamento o un appa-
rato macabro frutto di superstizione, l’abito e l’azione penitente
rispondevano alla logica dell’umile richiesta di misericordia, ma
anche – e qui sta la prerogativa francescana – a quella dell’identifi-
cazione e dell’empatia con cui i devoti «conformavano» se stessi al
Cristo passionato. Lo si può cogliere in modo chiaro dal fatto che i
cappuccini usavano sfilare carichi della croce e in modo così grave
da sembrare «tanti ritratti del Signore quando andava per gli nostri
peccati […] al Calvario».26 Analogamente, alla necessità di versare
insieme lacrime di contrizione e di amorevole condivisione mira-
vano anche i frequenti sermoni che i frati erano invitati a tenere
lungo il tragitto, sermoni che sempre ruotavano attorno al Cristo
crocifisso, del quale si evidenziavano i dolori della carne e dello

26
Cf. l’esempio della processione di Milano nel 1613, dove i fedeli venivano con funi al collo,
«con catene di ferro, con corone di spini, colonne, croci pesanti, con altri misteri, teste di
morti o l’imagine della morte appesa alle torchie che portavano in mano», in Il maraviglioso
profitto spirituale della sacrosanta oratione delle quarant’hore. Esposte solennissimamente
nel duomo dell’inclita città di Milano la Domenica delle Palme l’anno 1613. Per opera del
M.R.P. Giacinto da Casale predicator capuccino. Narrato brevemente in una lettera scritta da
un gentil’huomo milanese ad un suo amico absente, in Milano, appresso Iacomo Como, 1613,
4. Quattro anni dopo, a Piacenza, «alcuni venivano scalzi, coperti di sacco, […] con pesantis-
sime croci in spalla […]. Altri più bramosi di patire si vedevano con gravissimi sassi appesi
al collo. Altri s’erano serrati i piedi in ceppi di ferro, appresentandosi a guisa di rei innanzi al
tribunale della divina misericordia, per muovere le paterne viscere di Dio, altri s’erano legati
i piedi con grosse catene di ferro che rodendo la carne facevano piovere il vivo sangue», in
F. MARCHETTI, Trasformatione di Piacenza operata da Dio col mezzo delle prediche quaresimali,
e sermoni della settimana santa all’oratione delle quarant’hore fatti nel duomo l’anno 1617.
Dal R.P.F. Giacinto da Casale predicatore cappuccino; aggiontovi una relatione della solennis-
sima incoronatione della Madonna del Popolo, seguita nella medesima città e chiesa, il giorno
dell’ottava di Pasqua, Brescia 1617, 12-13.

BINO, Teatro e devozione 289

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spirito, le ferite, le umiliazioni, la nudità, rimandandole ai peccati
dell’uomo e al suo essere lontano e dissomigliante dal proprio Cre-
atore.27 Grazie ai dispositivi retorici di composizione delle imma-
gini, il sermone offriva una scena mentale che, oltre a muovere gli
animi a commozione, dava voce alla scena mimetica in atto e nello
stesso tempo la motivava: cammino, habitus, azione, parola con-
tribuivano a tradurre in visibilia gli invisibilia in una performance
conformativo penitenziale, non narrativa ma esperienziale. Carat-
teristica del dispositivo processionale è il suo essere un fenomeno
collettivo: l’impeto devozionale di ciascuno si esplicita e si rende
visibile nel gruppo che cammina e agisce. Ma la salvezza richiesta
attraverso penitenza e conformazione è personale; a differenza di
ciò che accadeva nel teatro della misericordia medievale il percor-
so è del singolo, la conversione individuale.
Oltre che nella processione, il modello francescano del cammi-
no era alla base dei percorsi fisico-esperienziali in memoria della
realtà storica della vita di Cristo, in particolare della sua passione,
quali i Sacri Monti (prima gerosolimitani e poi controriformisti) e
le varie forme di devozione stazionale dei dolori patiti da Gesù che
precedevano la fissazione della via crucis. Tanto nel caso dei Sacri
Monti quanto della via crucis – tra cui, come ha ben argomenta-
to Guido Gentile, correvano connessioni culturali, modelli comuni
e reciproche integrazioni – i francescani svolsero un ruolo princi-
pale, essendone inventori e propugnatori indefessi.28 L’impronta
francescana è evidente soprattutto in due elementi. Il primo era la
modalità di fare memoria della vita di Cristo e della sua passione
che, lo abbiamo già accennato, rispondeva a uno schema preciso

27
Cf. S. VACCA, «La spiritualità della Passione nel vissuto dei cappuccini tra Cinquecento
e Seicento», in ID., Momenti e figure della spiritualità dei cappuccini in Italia, Collegio San
Lorenzo da Brindisi, Roma 2007, 79-105.
28
Cf. G. GENTILE, «Sacri Monti e Viae Crucis: storie intrecciate», in A. TEETAERT, Saggio storico
sulla devozione alla Via Crucis: evocazione e rappresentazione degli episodi e dei luoghi
della passione del Cristo, Atlas, Ponzano Monferrato 2004, 31-43. Figure di minori, osser-
vanti o cappuccini, sono coinvolte nei Sacri Monti come ideatori (Bernardino Caimi
a Varallo, Tommaso da Firenze a Montaione e Michelangelo da Montiglio a Belmonte),
progettisti (Cleto da Castelletto Ticino a Orta), predicatori (Giovan Battista Aguggiari a
Varese, Fedele da San Germano a Oropa, Gioacchino da Cassano e Andrea da Rho a Domo-
dossola).

290 Parte seconda: Profezia e politica nell’età dell’Assolutismo

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di luoghi, tempi ed episodi fissato sin dai tempi di Bonaventura.
In questo schema aveva avuto una parte importante l’immagine di
Cristo ducitur et reducitur, ossia condotto in giro da un luogo all’al-
tro e deriso, disprezzato, umiliato pubblicamente come uno stolto,
un ladro, un imbecille, un malfattore. Invenzione francescana, la
ductio Christi diviene sempre più articolata – un caso particolare è
quello di Ubertino da Casale che tratteggia un Gesù circumroratus
come se fosse una pila delusionis, vale a dire sbattuto di qua e di
là in cerchio come una palla da gioco – e costituisce il trait d’union
narrativo tra i vari episodi, traducendolo nella forma del cammino
per tappe.29
Il secondo elemento è il particolare legame dei francescani con
la Terra santa – rafforzato dall’esserne divenuti custodi dalla metà
del XIV secolo – che ne fece i maggiori promotori della costruzione
di riproduzioni topomimetiche dei luoghi santi. Anche per questo
motivo essi favorirono la diffusione in tutta Europa di devozioni
locative e di cammino come i Calvari, i Sepolcri o i Sacri Monti e
le molte vie (captivitatis, dolorosa ecc.) che andarono lentamente
fissandosi nel modello a 14 stazioni.30 Il tradurre le immagini del-
la memoria in rappresentazioni figurative scandite stazionalmente
consentì una profonda e intima esperienza della vita e del dolore
di Cristo fatta con il corpo oltre che con la mente in tempi in cui
era sempre più complesso recarsi nei luoghi storici di persona. Le
diverse proposte francescane di pratiche su base locale ebbero

29
Sulla ductio Christi cf. BINO, Dal trionfo al pianto, 360-370 e L. TUCCILLO, «La Croce e la Città.
Mappe per la memoria della Passione tra meditazione e arte nel tardo Medioevo», in BINO,
Scene. Saggi sul teatro, 133-154.
30
L’erezione delle quattordici croci nella strada verso San Miniato al Monte a Firenze, il
14 settembre 1628, può essere considerato l’atto che segna la nascita della via crucis nella
forma che poi si diffuse, grazie soprattutto alla progressiva concessione di indulgenze da
parte del papato, ma che restò marcatamente dipendente dall’ordine dei minori per tutto
il Seicento. È solo attorno agli anni ’30 e ’40 del Settecento che, in seguito alla predicazione
di Leonardo da Portomaurizio, l’ottenimento delle indulgenze si estende anche ai luoghi
non soggetti alla giurisdizione francescana, sino a quando, il 27 dicembre 1750, la via crucis
venne agita per la prima volta a Roma, nel Colosseo. Sulla via crucis la bibliografia è assai
vasta e specifica. Cf. almeno TEETAERT, Saggio storico sulla devozione alla Via Crucis e U.
MAZZONE, «Nascita, significato e sviluppo della Via Crucis», in A. CERBONI BAIARDI (a cura di),
Viae Crucis. Espressioni artistiche e devozione popolare nel territorio di Pesaro e Urbino, Bono-
nia University Press, Bologna 2006, 11-22.

BINO, Teatro e devozione 291

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molto successo anche perché, grazie alle concessioni papali, per-
mettevano di ottenere gli stessi effetti di indulgenza e suffragio dei
pellegrinaggi reali.
Se il dispositivo del viaggio doloroso dietro a Cristo scandito
per luoghi e immagini non era nuovo,31 certamente tanto nel caso
dei Sacri Monti quanto della via crucis la definizione di una formu-
la locale risultò utile per la pratica devozionale francescana, che
dalla mozione degli affetti faceva procedere il pentimento, la pur-
gazione e la conversione delle azioni concrete, per un radicale mu-
tamento tanto spirituale quanto sociale. Nel caso della via crucis,
inoltre, la sua esportabilità in ogni parrocchia rappresentò una
novità che la rese una devozione dall’ampio coinvolgimento popo-
lare. Pensate come un cammino reale,32 queste devozioni in forma
di percorso legavano la pratica concreta del movimento a quel-
la mentale e affettiva della memoria, propria della meditazione e
dell’orazione. Se, come è stato osservato, i complessi scenografici
dei Sacri Monti, soprattutto in epoca secentesca, divenivano siste-
mi di configurazione dell’immaginario dei principali misteri della
redenzione cristiana con finalità devozionali e catechetiche,33 la
via crucis era espressamente intesa come un «pensare e ripensa-
re agli affanni ed agli spietatissimi tormenti, che per amor nostro
soffrì il buon Gesù», acciocché nel cuore del fedele avvenisse la
conversione.34 Praticare il cammino memorativo equivaleva a con-

31
Sulla scansione per episodi divisa tra via captivitatis e via crucis – che insieme compon-
gono una complessa via dolorosa – e sul suo sviluppo storico cf. M. OLPHE-GALLIARD, «Croix
(chemin de)», in Dictionnaire de spiritualité ascétique et mystique, Beauchesne, Paris 1953,
II/2, 2576-2623.
32
Nel Seicento l’esercizio della via crucis prevedeva che nella richiesta per ottenere l’ere-
zione e la benedizione di quadri o cappelle si specificasse la presenza di uno spazio adeguato
a un percorso effettivo. Cf. F. RONCHI, «La “Via Crucis seu Calvarii” nella Diocesi di Milano
(1734-1893)», in Ricerche storiche sulla Chiesa ambrosiana 25(2007), 17.
33
Cf. a proposito D. ZARDIN, «“Scolpisci in me divota imago”. Libri di pietà figurati e medi-
tazione della passione nel Cinquecento», in Terra ambrosiana 40(1999)2, 57-63; P.G. LONGO,
Memorie di Gerusalemme e Sacri Monti in epoca barocca, Atlas, Ponzano Monferrato 2010;
D. POMI, «Itinerari dello sguardo e dello spirito: esperienze di visualizzazione interiore e
percorsi spirituali di meditazione al Sacro Monte di Varallo», in Archivio italiano per la storia
della pietà 28(2015), 97-139.
34
C. VAIANI, La Via Crucis di san Leonardo da Porto Maurizio, Glossa, Milano 2003, 45s:
«Emerge […] con molta chiarezza che per san Leonardo la Via Crucis è uno strumento per

292 Parte seconda: Profezia e politica nell’età dell’Assolutismo

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templare con «tenerezza di cuore» tutti gli strazi e i dolori da lui
patiti.35
Nell’opera Via sacra, Leonardo di Portomaurizio considera l’e-
sperienza della via crucis una «divota rappresentazione di quel do-
loroso viaggio che l’amoroso Gesù fece dalla casa di Pilato sino al
Calvario».36 «Rappresentare» un viaggio – e il verbo nel corso del
modo pratico viene ripetuto a ogni stazione – ossia agere memo-
riam, nell’accezione di agire con gesti, parole e segni la memoria
del fatto storico e reale.37 Ci sono, però, vari gradi di rappresen-
tazione ai quali corrisponde una diversa intensità drammatica: se
nella pratica pubblica e processionale della via crucis la presenza
di canti, gesti, spostamenti, uniti alle esortazioni del predicatore a
«vedere» e «sentire», porta a stabilire un rapporto di compartecipa-
zione più fortemente drammatico,38 nella pratica privata prevale il
grado mentale: la meditazione o preghiera è qui accompagnata dal
minimo spostamento di stazione in stazione «immaginandosi di ac-
compagnare Gesù al Calvario, tenendo gli occhi a terra, la corona
in mano, e il cuore a Dio».39 Il «teatro del cammino», dunque, si pone
al punto di incrocio tra prassi meditativa e azione partecipativa e
non può prescindere dall’unione concorde tra scena della mente e
scena del corpo tipica di una teatralità ri-presentativa e non spetta-
colare come quella promossa dai francescani: visione e azione del
corpo vanno di pari passo con postura emotiva, parola pensata,
scena immaginata, memoria vissuta facendo del devoto un «attore»
che agisce in prima persona nel teatro del mondo dove accade il

educare all’orazione mentale, e che tale forma di preghiera è quanto mai necessaria ad ogni
cristiano».
35
Ivi, 125.
36
Cf. ivi, 131-133. Signorotto ha sottolineato la differenza tra la pratica interna riservata
all’ordine e in voga sin dalla fine del Seicento, e la sua formula popolare, ossia processionale
e pubblica, attestata dal primo decennio del Settecento: cf. G. SIGNOROTTO, «Gli esordi della
“Via Crucis” nel Milanese», in Il Francescanesimo in Lombardia, storia e arte, Silvana, Cinisello
Balsamo 1983, 146-147.
37
Sul significato di rappresentare come agere memoriam cf. BINO, Dal trionfo al pianto,
393-394.
38
La pratica pubblica della via crucis è testimoniata dall’opera Viaggi, ricca di notazioni
simili a didascalie. Si tratta di sei «viaggi», ciascuno composto da 15 riflessioni, una per ogni
stazione, più un esordio: cf. VAIANI, La Via Crucis di san Leonardo, 63-72.
39
Ivi, 133.

BINO, Teatro e devozione 293

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dramma della salvezza.40 Questo tipo di teatralità responsabile e
conformativa fu la cifra caratteristica della drammatica francesca-
na tra il XIII e il XVII secolo.

Le quarantore dei cappuccini


Posto all’incrocio tra memoria del Cristo doloroso e adorazione
del suo corpo confractus ma perfetto presente nell’eucaristia, il mo-
dello cappuccino di celebrare le quarantore è un chiaro esempio di
teatro della devozione francescano in epoca barocca. Come è noto
si tratta di una pratica di preghiera straordinaria di carattere peni-
tenziale profondamente connessa da un lato ai riti della Settimana
santa (in particolare al sepolcro di Cristo poiché legata alla veglia
di preghiera sul corpo morto del Signore rimasto nella tomba per
40 ore prima di risorgere); dall’altro al culto eucaristico e alla glo-
ria del corpo risorto di Dio.41 La prospettiva emotiva che informa la
devozione, dunque, non è più la misericordia che aveva caratteriz-
zato l’attenzione per l’umanità di Cristo nei secoli precedenti, ma
sono la penitenza e l’espiazione, la preghiera per la salvezza perso-
nale e il suffragio delle anime.
I frati cappuccini ricoprirono un ruolo importante non solo nella
diffusione europea della devozione (un’azione di propaganda che
non ha pari), ma anche nella sua fondazione (che avvenne a Milano
tra il 1527 e il 1537), soprattutto grazie alla predicazione di Giu-
seppe Piantanida da Fermo. Determinanti anche le figure di padre
Francesco da Soriano nel Cimino, che ne migliorò l’organizzazione
e il cerimoniale (stabilendo che si tenesse un sermone per ogni
ora di adorazione), e Mattia Bellintani da Salò (allievo del Piantani-
da), cui si deve in particolare lo schema seguito durante l’orazione
mentale. Nel corso del Cinquecento la pia pratica, ormai presente

40
Cf. a tal proposito l’ampio capitolo sulla scena mentale della passione che trova il suo
apice nella stagione francescana di Bonaventura in BINO, Dal trionfo al pianto, 145-218 e
355-381.
41
Sulla pratica delle quarantore cf. il fondamentale studio di C. CARGNONI, Le Quarantore ieri
e oggi. Viaggio nella storia della predicazione cattolica, della devozione popolare e della spiri-
tualità cappuccina, Conferenza italiana dei superiori provinciali cappuccini, Roma 1986. Vi
farò spesso riferimento.

294 Parte seconda: Profezia e politica nell’età dell’Assolutismo

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in gran parte dell’Italia, sembra legata in particolare a grandi mani-
festazioni popolari di riconciliazione e di pace: tant’è che i cronisti
non mancano di sottolinearne l’effetto di commozione e conver-
sione operato sui fedeli che si sciolgono in pubblici abbracci di
pace.42 Tra la fine del XVI e i primi decenni del XVII secolo, invece,
le quarantore si propagano in Europa, assumendo un carattere net-
tamente controriformistico, barocco e popolare, con la creazione
di molte compagnie destinate a regolarne lo svolgimento. Nei Paesi
dove era forte l’influsso del protestantesimo, la pratica venne usa-
ta come strumento della predicazione missionaria con funzione di
conversione o rafforzamento della fede cattolica.43
I cappuccini elaborarono un sistema preciso per la celebrazio-
ne della pia pratica: un modello originale per scelta del tempo, mo-
dalità organizzativa, allestimento dell’oratorio, regolamentazione
dell’adorazione, tipologia di predicazione, ordine dell’orazione. Ce-
lebrate durante la Settimana santa (in particolare nei primi tre gior-
ni), le quarantore costituiscono un trait d’union tra il tempo della
Quaresima e quello riservato alla memoria della passione di Cristo:
hanno dunque un carattere penitenziale e compartecipativo, in li-
nea con la tradizione spirituale dell’ordine, ben diverso da quello
conferito alla devozione dai gesuiti che, celebrandole a carnevale,
le caratterizzano come una sorta di «carnevale santificato».
La peculiarità cappuccina si ritrova anche nell’organizzazione,
a partire dalla tipologia di apparatura del «teatro» per l’esposizio-
ne del santissimo Sacramento, il quale era pensato per esaltare la
gloria dell’eucaristia, ma anche per facilitare il raccoglimento della

42
È il caso della predicazione del Piantanida che, ad Arezzo nel 1539, suscitò pianti, conver-
sioni in massa, pubblici «abbracciamenti», oppure di quella di padre Francesco da Soriano
che, diffondendo la devozione per le città dell’Umbria, persuadeva i fedeli convenuti a
perdonare e in segno di pace ad abbracciarsi davanti al santissimo Sacramento; infine,
della predicazione del perdono e della pacificazione del Bellintani a Milano dove, durante le
quarantore tenute in duomo nel 1593, portò persino il cardinale Carlo Borromeo ad abbrac-
ciare quanti gli erano vicini: cf. CARGNONI, Le Quarantore ieri e oggi, 357.
43
Quando le missioni popolari presero il sopravvento nella prassi pastorale, l’ordine
cappuccino dovette regolare la predicazione delle quarantore distinguendola dall’uso che
se ne faceva nelle missioni. Il riferimento è all’ordinazione generalizia del 1698 citata in
CARGNONI, Le Quarantore ieri e oggi, 365-366. Per una dettagliata analisi della diffusione delle
quarantore nei Paesi europei cf. ivi, 360-368.

BINO, Teatro e devozione 295

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meditazione: l’allestimento francescano, forse influenzato dalle di-
sposizioni date da san Carlo nel 1577, prevedeva uno stile grave,
lugubre, drammatico sul quale, per contrasto, spiccasse il Sacra-
mento, fulgido e circondato di lumi.44 Ideato e predisposto a spese
della chiesa che ospitava l’esposizione, è probabile che i frati po-
tessero dare istruzioni in merito a come approntarlo se, quando
esso assunse uno stile sontuoso,45 il capitolo generale del 1643 sta-
bilì che non se ne dovessero più occupare, premurandosi solo di
predicare.46 Prescrizione ribadita anche nel 1653 da Zaccaria Casti-
glioni da Milano nelle sue Istruzioni per celebrare l’orazione delle
Quaranta Ore:

Quanto poi all’Apparato, questo incominciare si deve il Lunedì di


Passione, quale sarà bene che si faccia all’Altare maggiore, se si
può o ad una Capella latterale o in altro luogo a proposito capace
però per tal fontione e s’avvertirà che sia fatto […] col dovuto
decoro, e che sia finito per ogni modo il Sabbato sera avanti la
Domenica delle Palme, procurando che l’ luogo riescha ben’o-
scuro, acciò i lumi compaiono meglio, ed esso rendi maggiore
divotione, ed in questo apparato il Predicatore non v’habbi parte
alcuna, né consigliando, né ordinando, perché come in pratica
s’è veduto, il fare altrimenti cagiona disturbi, e tal’hora disgusti,
anzi alle volte va a terminare anche in qualche disordine.47

Sotto la diretta responsabilità dei frati, invece, era la predisposi-


zione del «luogo deputato» per il predicatore, il quale doveva esse-
re vicino al palco e pensato per permettergli di prepararsi adegua-
tamente ai sermoni, ritirandosi in meditazione e trovando la giusta
concentrazione. In linea con la spiritualità eremitico-penitenziale

44
Si legge in Avvertenze per l’oratione delle quaranta ore in AEM, IV, coll. 1927-1930.
45
Cf. ad esempio l’apparatura milanese per le quarantore del 1615 predicate da Giacinto
da Casale (Il maraviglioso profitto spirituale, 3) o, ancor più, quella piacentina del 1617 in
MARCHETTI, Trasformatione di Piacenza, 9-10.
46
Cf. Analecta Ordinis Fratrum Minorum Cap. 6(1890)34, n. 19 (citato in CARGNONI, Le Quaran-
tore ieri e oggi, 404).
47
Sermoni divoti, ed affettuosi per l’oratione delle Quarant’hore sopra i treni di Geremia colle
istruttioni necessarie per celebrarla. Opera utilissima a’ predicatori. Composta dal Padre Fra
Zaccaria Castiglione, in Milano, per lo Stampatore Archiepiscopale, 1653, 277-278.

296 Parte seconda: Profezia e politica nell’età dell’Assolutismo

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tracciata nelle costituzioni cappuccine, il predicatore si appartava
in quel luogo portando con sé solo un lume, la disciplina e un cro-
cifisso, vero strumento della sua parola.48 Anche il palco doveva es-
sere adeguatamente predisposto ad accogliere il predicatore, e per
questo era dotato di un inginocchiatoio (costruito a ridosso della
scalinata dal lato del vangelo e orientato verso il popolo) coperto
di un panno nero o paonazzo. Tra l’inginocchiatoio e l’altare, poi,
doveva poter essere adagiato il crocifisso, di cui il predicatore si
sarebbe servito durante la predica.49
I padri cappuccini si facevano carico anche di regolamentare
l’avvicendamento dei gruppi di fedeli nei turni di preghiera e il loro
afflusso al luogo in cui avveniva l’orazione. Affinché tutto si svol-
gesse con ordine, il predicatore eleggeva un gruppo di cavalieri
– scegliendoli tra i notabili della città – i cui compiti principali sa-
rebbero stati due: accompagnare le due processioni maggiori (di
inizio e di chiusura della devozione) e regolare l’entrata e l’uscita
di ogni gruppo dalla chiesa, prima aprendo e richiudendo le porte
e poi accompagnandoli al luogo dell’orazione. Costoro, nel nume-
ro di 18 o 24, dovevano essere vestiti del sacco di penitenza, cinti
con una fune e portare un bastone con alla sommità un crocifisso
oppure un’immagine dipinta di Cristo, della Vergine o di un santo.50
La cifra penitenziale dell’abito dei cavalieri era anche quella delle
masse dei fedeli che si recavano all’orazione in processioni ordina-

48
Così spiega frate Zaccaria: sarà carico del predicatore «farsi ergere o con stuore o con
panni o con altro un picciolo ed oscuro oratorio a guisa di celletta […] con un lume ed
un Crocifisso ed ivi tutto sollevato in Dio procurerà d’accendersi ed infiammarsi d’amore
divino e di carità del prossimo, dimorandovi per tutto il tempo delle […] Quarant’hore,
studiando, meditando, ed orando tutto assorto nel suo Signore […]. Ed il sodetto luogo si
procurerà sia il più vicino al palco che sia possibile, e doverà avere seco la disciplina per
farla quando stimerà bene […] ed in questo luogo non s’introduca persona alcuna secolare,
se non in caso d’urgentissima necessità» (ivi, 278).
49
Padre Zaccaria raccomanda che il crocifisso sia «divoto e compassionevole e di grandezza
conveniente» e inoltre che un chierico in cotta, ma d’aspetto mortificato, resti vicino al
predicatore per aiutarlo a prendere e riporre il crocifisso (ivi).
50
Così a Milano nel 1613, dove Giacinto da Casale «concertò di deputare 24 cavalieri per
ovviare i disordini alle porte, che vestisser di sacco […] con certi bastoni bianchi in mano
a guisa di sargentini con la crocetta in vece del ferro, e con alcuni misteri della Passione» (Il
marauiglioso profitto spirituale, 3). Nota il Cargnoni che l’elezione dei cavalieri tra i notabili
diede vita a confraternite specifiche il cui compito era proprio quello di promuovere la
devozione e il culto eucaristico: cf. CARGNONI, Le Quarantore ieri e oggi, 415-416.

BINO, Teatro e devozione 297

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te e, oltre a essere propria dell’ordine, forse rimandava all’esempio
di quanto fatto in prima persona dal Piantanida a Pavia nel 1537,
quando andò per la città con un gran croce in spalla seguito da una
folla di gente.
L’ordine della cerimonia alla maniera cappuccina prevedeva
che il predicatore tenesse un sermone introduttivo dal pulpito (il
sermone generale), offerto a quanti fossero in chiesa. Al suo termi-
ne si dava avvio alla processione con cui il Santissimo veniva espo-
sto. La processione vedeva la partecipazione delle confraternite,
del clero regolare e secolare, del predicatore cappuccino, scalzo,
con una fune al collo e recante la croce; i cavalieri chiudevano il
corteo. Riposto il Santissimo, la chiesa si svuotava e potevano co-
minciare le quarantore di orazione, con turni di meditazione in cui
si alternavano i fedeli che giungevano in processione.
Il metodo cappuccino riguardava anche e soprattutto l’orazione
mentale, di cui l’opera più significativa – e più imitata – è il Trattato
della santa oratione delle Quaranta Hore di Mattia Bellintani (1588).
Perfettamente in linea con gli intenti tridentini, pur conservando il
tono empatico tipicamente francescano, l’orazione è una memoria
della passione per l’aiuto alla riforma della Chiesa. Il devoto è invi-
tato a considerare i patimenti di Cristo uno per uno (anche serven-
dosi di libri purché la lettura fosse lenta e ponderata), vedendo tut-
te le ferite del suo corpo, per muovere il proprio animo a lacrime di
contrizione e poi di misericordia.51 Non solo ogni vicenda è rivista e
rivissuta, ma ogni itinerario è ripercorso in una sorta di pellegrinag-
gio spirituale – ritorna anche qui il tema del cammino – attraverso
i luoghi in cui Cristo patì. L’attenzione al corpo di Cristo, e quin-
di al santissimo Sacramento davanti al quale avviene la meditazio-
ne, rese il metodo cappuccino facilmente accessibile ai fedeli, a tal
punto da fare delle quarantore una scuola di preghiera popolare.
In questo «teatro della memoria» è fondamentale la predicazio-
ne che i cappuccini reiteravano durante la meditazione, tanto che

51
L’attenzione alle singole membra di Cristo è l’oggetto dell’opera Corone spirituali per l’at-
tenzione in contemplare la Passione di Cristo scritta dal Bellintani nel 1617, così cara a Carlo
Borromeo e di così ampia diffusione.

298 Parte seconda: Profezia e politica nell’età dell’Assolutismo

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con Francesco da Soriano e soprattutto con il Bellintani vennero
prodotti «degli speciali sermoni in cui emergono momenti medita-
tivi basati sull’uso dell’immaginazione attraverso la quale il fedele
può ricostruire davanti a sé la scena […] di cui diventa effettiva-
mente partecipe».52 Il sermone sostituisce spesso la lectio del libro
e viene in aiuto degli illetterati, ai quali grazie alle tecniche della
retorica e della performance «mostra» l’oggetto sul quale medita-
re. Ogni ora il predicatore usciva sul palco dal suo luogo deputato
e, in abito di penitente e genuflesso sull’inginocchiatoio, teneva il
sermone. L’effetto doveva essere molto drammatico, come lascia-
no supporre le molte descrizioni in nostro possesso. Si legga ad
esempio quella relativa al primo sermone che Giacinto da Casale
tenne nel 1617 a Piacenza:

Dalla parte destra incominciò una bella e divota musica, la qual


finita uscì il Padre dalla banda sinistra, ov’era al vivo, tra certi
dirupi aspri, un’horrida grotta, nell’abito sudetto [scalzo, con
grossa fune al collo, coronato di spine in testa, e una gran croce
in mano (vivo ritratto di mortificazione e di penitenza)], con un
crocifisso in mano. Inginocchiato a pie dello scabello dell’Alta-
re e adorato profondissimamente il Sacramento Divino, deposto
il Crocifisso sopra d’un cuscino nel sudetto scabello, rivolto al
popolo con aspetto più angelico che humano e con voce tan-
to pietosa e mesta che penetrava e inteneriva i cuori [iniziò il
sermone].53

Modi e toni della predicazione erano spesso di carattere peni-


tenziale e andavano a chiudere l’itinerario quaresimale di prepa-
razione alla Pasqua: l’insistenza sulla contemplazione delle piaghe
di Cristo e del suo corpo morto doveva procurare la coscienza do-

52
CARGNONI, Le Quarantore ieri e oggi, 393.
53
Non diversa la modalità con cui padre Fedele da San Germano era solito predicare le
quarantore (cf. Esercitio d’amorosi sforzi per ridurre il peccatore a Dio, communicato nella
Relatione della singolar maniera di fare l’Oratione delle Quarant’Hore. Pratticata dal P. F.
Fedele da San Germano Capuccino nelle principali Città d’Italia, et massime in Roma nella
chiesa di S. Lorenzo in Damaso l’anno M.DC.VIII, in Como, appresso Hieronimo Froua, 1614,
36). Molto drammatico l’inizio della predicazione di fra Giacinto da Casale a Milano nel 1615:
cf. Il marauiglioso profitto spirituale, 4.

BINO, Teatro e devozione 299

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lorosa per i propri peccati e il pentimento, portando ad avverti-
re l’urgenza della conversione cui conseguiva un ri-orientamento
della propria vita e la tensione alla conformazione. Il predicatore
puntava a smuovere i cuori e a indurre commozione: per questo sa-
peva padroneggiare tutti gli strumenti della retorica performativa.
I sermoni, condotti su passi scritturali o temi scelti in relazione al
gruppo di orazione previsto per ciascuna ora, venivano pronuncia-
ti secondo un preciso «copione» che comprendeva l’uso di immagi-
ni (il crocifisso, ma anche gli strumenti delle passioni, il teschio, la
croce) e una precisa articolazione di gesti e azioni. La predica, poi,
era scritta in modo da avere il suo culmine in un momento in leva-
re, la cosiddetta «esagerazione», dove il predicatore quasi minac-
ciava l’uditorio e lo esortava alla contrizione e alla conversione.54
Nel 1694, padre Domenico de Santo diede alle stampe l’opera
Ultimi colpi al cuore de’ peccatori,55 sorta di manuale a uso della
predicazione cappuccina delle quarantore nel quale, oltre a esse-
re riportata una tavola che riassumeva l’ordine dei sermoni per
ciascuna ora e ciascun gruppo, specificando l’azione che il predi-
catore avrebbe dovuto compiere, venivano pubblicati interi ser-
moni spesso dotati di dettagliate didascalie indicanti una precisa
partitura gestuale.56 Alle soglie del XVIII secolo – epoca di una pie-
tà illuminata e ragionevole che, lasciata l’esteriorità, albergasse

54
Cf. ad esempio la raccolta postuma di «essaggerationi» del Bellintani, brani tratti dalle sue
prediche in cui si concentra la capacità di commuovere l’uditorio e condurlo verso l’intento
dell’oratore, in Essaggerationi Morali, del M. R.P.F. Matthia Bellintani da Salò, in Salò, per
Bernardino Lantoni, 1622.
55
Domenico de Sancto da Francavilla, Ultimi colpi al cuore de’ peccatori da darsi con Quaranta
sermoni declamatorii, nell’esercizio delle Quarant’hore solito farsi nella domenica delle palme
da’ Vangelici predicatori capuccini. Coll’aggiunta del fine di dieci declamationi stravaganti per
commuovere gli animi a detestare i peccati, nell’occorrenza di universali bisogni, in Venetia,
appresso Andrea Poletti, 1694.
56
Nella Tavola delle processioni si legge, ad esempio: «Hora I. Il R.P. Predicatore iscirà co’
stromenti di penitenza, Corona di Spine, Corda al Collo, e asperso di Cenere. […] Hora
V. Il sig. Capitano, e Soldati d’Infantaria: il Predicatore con una spada dimostrarà esser
quella de’ peccatori per dar la morte al Figlio di Dio. […] Hora XVII. Le Monache Terziarie: Il
Predicatore con una corona di fiori, e dentro una di spine, e nel porla à Christo resteranno
solo le spine» (Ultimi colpi al cuore, Tavola delle processioni, pagine n.n.). Il primo sermone,
invece, a margine del testo della predica presenta didascalie precise quali «qui cada bocconi
tramortito a terra», «si levi, e restia genuflesso», «si metta al collo la fune», «s’aspergerà tutto
di cenere» (ivi, 1-3).

300 Parte seconda: Profezia e politica nell’età dell’Assolutismo

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piuttosto dentro al cuore – la predicazione drammatica cappucci-
na presentava i frutti più maturi della tradizione francescana, che
dell’azione mimetico-immedesimativa aveva fatto la propria carat-
teristica principale.57

Le «rappresentazioni spirituali»
Tra la fine del Cinquecento e il Seicento, si assiste alla fioritura
di una nuova forma di teatro spirituale, fatto di opere drammati-
che «a contenuto riformistico e confessionale, con forti implicazio-
ni pratiche (argomenti scritturali, martiriali, ispirati ai nuovi mo-
delli di santità, dottrinali, […] etico-politici)». Si tratta di testi che
rivelano «una concezione della scena intesa […] come luogo dimo-
strativo e persuasivo» nei quali «lo spettatore, in quanto cristiano»
è «l’obiettivo potenziale di una strategia culturale e religiosa per
la formazione delle coscienze e dei comportamenti: il teatro deve
commuovere e muovere alla devozione, alla pietà, alla riflessione;
illustrare, informare; dilettare e, in ultimo, indurre al ravvedimento
e alla conversione».58
I francescani figurano sia tra gli autori di queste opere, sia tra
i promotori della loro messa in scena. Sul primo fronte vanno ri-
cordati almeno i nomi dei minori osservanti Benedetto Cinquan-
ta, che scrisse diverse «rappresentazioni spirituali» in versi sciolti
(tra le quali La Maddalena convertita, Il figliol prodigo, Il ricco epulo-
ne), Bonaventura Morone, autore invece di «tragedie spirituali» (di
cui la più nota è il Mortorio di Christo), e Piergiovanni Brunetto (il
David sconsolato). L’influenza dei modelli classici – ravvisabile ad

57
Ampia la bibliografia sulla dimensione performativa della predicazione medievale. Per
alcuni ragguagli sulla specificità francescana cf. almeno L. BOLZONI, La rete delle immagini.
Predicazione in volgare dalle origini a Bernardino da Siena, Einaudi, Torino 2002; B.M. KIENZLE,
«Medieval Sermons and Their Performance: Theory and Record», in C. MUESSIG (a cura di),
Preacher, Sermon and Audience in the Middle Ages, Brill, Leiden-Boston-Köln 2002, 89-124;
EAD., «Bernardino da Siena and observant preaching as a vehicle for religious transforma-
tion», in A Companion to Observant Reform in the Late Middle Ages and Beyond 54(2015),
185-203.
58
Cf. B. MAJORANA, «Governo del corpo, governo dell’anima: attori e spettatori nel teatro
italiano del XVII secolo», in P. PRODI (a cura di), Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e
disciplina della società tra Medioevo ed Età Moderna, Mulino, Bologna 1994, 438-441.

BINO, Teatro e devozione 301

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esempio nell’uso della forma della disputa – fa segnare una gran-
de distanza dai moduli drammaturgici che avevano caratterizzato
il teatro francescano fino al XV secolo.59 Ciononostante, una delle
caratteristiche di questi testi è il permanere del legame tra pagina
e memoria e, dunque, tra drammaturgia e rappresentazione, sce-
na letta e scena agita, laddove la costruzione dell’azione suscita
un immediato teatro mentale. La lettura dell’opera svolge un ruo-
lo parallelo a quello della rappresentazione, grazie a una parola
capace di essere «visiva», di creare immagini da agire e, quindi, di
coinvolgere e di far pensare. L’autore trasferisce sulla pagina le
scene e i gesti che ha visualizzato mentalmente nella sua personale
devozione, per poi renderli visibili anche sulla scena: in tal modo
è mantenuta la connessione tra scena interiore e rappresentazione
esteriore che aveva sempre contraddistinto la drammatica france-
scana. Questa ambivalenza del testo teatrale porta il lettore-spetta-
tore a servirsene non per divagare con la mente o per allontanarsi
dalla devozione, ma per rielaborare in modo autonomo l’esempio
di santità e i principi morali trattati, ricavandone così beneficio per
la propria crescita spirituale.
Sul secondo fronte sappiamo che «rappresentazioni spiritua-
li» vennero allestite dai cappuccini durante la celebrazione delle
quarantore sia in l’Italia60 che, e in particolare, in Europa, dove si
inserivano nel contesto della predicazione missionaria divenendo
un efficace dispositivo di catechesi e conversione.61 L’intento non

59
Sul tema cf. A. CASCETTA, «La “spiritual tragedia” e “l’azione devota”. Gli ambienti e le forme»,
in CASCETTA – CARPANI (a cura di), La scena della gloria, 120-146.
60
Cf. ad esempio l’opera Cento motivi efficaci per la conversione dei peccatori. Nell’opera
fruttuosa delle quarant’hore solita farsi da i padri Capuccini nella Settimana Santa. Con l’ag-
giunta d’un sermone, da predicarsi il sabbato precedente alla domenica delle Palme per la
preparazione di detta opera. E d’una rappresentazione spirituale, da rappresentarsi prima
che s’esponghi il Santissimo, per introduttione dell’opera medesima. Composti, e predicati più
volte, dal r. padre Girolamo Trahina della citta di Castronouo, predicator capuccino siciliano,
in Palermo, per Domenico d’Anselmo, 1665.
61
Uno degli esempi più noti è quello relativo alla predicazione salesiana nello Chablais, che
raggiunse il suo apogeo proprio con le celebrazioni delle quarantore nel 1597 ad Annemasse,
piccolo centro a maggioranza cattolica vicino a Ginevra e poi, tra il 20 e il 22 settembre
1598, a Thunon, roccaforte calvinista. L’organizzazione dell’orazione vide la stretta colla-
borazione tra Francesco di Sales e il cappuccino Chérubin de Maurienne, primo apostolo
della devozione nella provincia di Lione. In entrambe le circostanze all’orazione e alla predi-

302 Parte seconda: Profezia e politica nell’età dell’Assolutismo

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era solo quello di ribadire le verità del cattolicesimo in terre di
forte coesistenza confessionale, ma anche quello di istruire i neo-
fiti attraverso uno strumento come il teatro che con azioni, gesti e
immagini (visibilia) consente di imprimere nel cuore e nella mente
dei semplici i concetti della fede (invisibilia). Alla medesima pe-
dagogia religiosa che, facendo appello a tutti i sensi, è in grado di
muovere e commuovere i cuori induriti, vanno ricondotte le diver-
se «rappresentazioni spirituali» allestite dai francescani nel corso
delle missioni di evangelizzazione, di cui quelle organizzate in Mes-
sico nel XVI secolo costituiscono un forte esempio di meticciato e
di sincretismo culturale.62
In conclusione, se Giuseppe Buffon ha osservato che si potreb-
be parlare di una «sorta di connaturalità tra l’esperienza minoritica
e la rappresentazione scenica, con tutte le sue implicanze emozio-
nali ed affettive»,63 va sottolineato che al fondo di questo modo di
intendere e usare il teatro sta ancora una volta l’alterità propria
della drammatica cristiana: anche in epoca barocca e dopo la ri-
scoperta della scena classica, il cristianesimo continua a intende-
re la rappresentazione in modo anti-spettacolare, portando avanti
un’idea e una pratica il cui fine non sono lo spettacolo o la meravi-

cazione dal pulpito fu affiancata anche la rappresentazione teatrale di scene bibliche, tra le
quali il Sacrificio di Abramo. Cf. B. DOMPNIER, «Un aspect de la dévotion eucharistique dans
la Frence du XVIIe siècle: Les Prières des Quarante-Heures», in Revue d’historie de l’église
de France 178(1981), 5-31; C. MAZOUER, «Théâtre et mission pendant la conquête du Chablais
(1597-1598)», in La revue savoisienne 122(1982), 44-51. Cf. anche B. FARINELLI, Francesco di
Sales missionario. Strategie di conversione e riconquista Cattolica nella Savoia di Fine Cinque-
cento, tesi di laurea, a.a. 2012-2013, Università degli Studi di Torino, 79-89.
62
È noto, infatti, che nel 1538 a Tlaxacala per la celebrazione del Corpus Domini si misero
in scena pantomime e danze e una settimana dopo, per la festa di San Giovanni, i france-
scani fecero rappresentare quattro opere (Annunziazione della natività di San Giovanni a
suo padre Zaccaria; Annunziazione della nostra Signora; Visitazione di Nostra Signora; Nati-
vità di San Giovanni) interpretate da attori indigeni e messe in scena servendosi di una
sontuosa macchina scenica, rappresentante quattro montagne artificiali, una per ogni opera
da rappresentare. Nel 1539 questo singolare festival venne ampliato giungendo a rappre-
sentare ben cinque opere (Cacciata dei nostri primi padre; Conquista di Gerusalemme; Tenta-
zione del Signore; Predicazione di S. Francesco agli uccelli; Sacrificio di Abramo). Per i parti-
colari della rappresentazione cf. S. POLEDRELLI, «La tradizione drammatico-performativa della
cultura nàhuatl nel teatro di evangelizzazione francescano», in Confluenze 8(2016)2, 141-160.
Cf. anche G. BUFFON, Storia dell’ordine francescano. Problemi e prospettive di metodo, Edizioni
di Storia e Letteratura, Roma 2013, 426-431.
63
BUFFON, Storia dell’ordine francescano, 426.

BINO, Teatro e devozione 303

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glia, ma la visione dello spettacolo celeste e la partecipazione alla
meraviglia della salvezza offerta nel «teatro d’amore»:

D’un teatro d’amore le glorie io canto,


in cui di Dio l’alta Pietà riluce,
che per mostrar de’ suoi trionfi il vanto,
spettacoli superbi in esso adduce.
Son gli apparati suoi cenere, e pianto;
e de le pompe il pentimento è duce:
u’, fra gioie del ciel (poc’a lui care)
la vanità del mondo al mondo appare.64

Orientamento bibliografico
C. BERNARDI, «La funzione della deposizione di Cristo il venerdì santo nella chie-
sa francescana di S. Angelo a Milano (sec. XVII)», in Medioevo e Rinascimento n.s.
3(1992)6, 235-249; ID., «Il tempo sacro: “Entierro”. Riti drammatici del venerdì san-
to», in A. CASCETTA – R. CARPANI (a cura di), La scena della gloria. Drammaturgia e
spettacolo a Milano in età spagnola, Vita e Pensiero, Milano 1995, 601-609; ID., La
drammaturgia della Settimana Santa in Italia, Vita e Pensiero, Milano 1991; C. BINO,
«“Quasi presentialiter”. La croce-crocefisso nel dramma della Passione tra medi-
tazione e rito (IX-XI sec.)», in L. CANETTI (a cura di), Statue. Rituali, scienza e magia
dalla Tarda Antichità al Rinascimento, Sismel-Edizioni del Galluzzo, Tavarnuzze-
Impruneta 2017, 168-218; EAD., «Le statue del Cristo crocifisso e morto nelle azioni
drammatiche della Passione (XIV-XV secolo). Linee di ricerca», in Drammaturgia
n.s. 13(2016)3, 277-311; EAD., Dal trionfo al pianto. La fondazione del «teatro della
misericordia» nel Medioevo (V-XIII secolo), Vita e Pensiero, Milano 2008; J. BOSSY,
Dalla comunità all’individuo. Per una storia sociale dei sacramenti nell’Europa mo-
derna, Einaudi, Torino 1998; C. CARGNONI, Le Quarantore ieri e oggi. Viaggio nella
storia della predicazione cattolica, della devozione popolare e della spiritualità cap-
puccina, Conferenza italiana dei superiori provinciali cappuccini, Roma 1986; A.
CASCETTA, «La “spiritual tragedia” e “l’azione devota”. Gli ambienti e le forme», in
A. CASCETTA – R. CARPANI (a cura di), La scena della gloria. Drammaturgia e spetta-
colo a Milano in età spagnola, Vita e Pensiero, Milano 1995, 120-146; B. DOMPNIER
– D.O. HUREL – D. DAVIY-RIGAUX (a cura di), Les cérémoniaiux catholiques en France
à l’époque moderne: une littérature de codification des rites liturgiques, Brepols,

64
G. DE MATTA D’HARO, Il teatro della Pietà, in cui la Divina Misericordia propone trent’otto
spettacoli nel tempo di Quaresima. Ordinati, e disposti sopra i correnti Vangeli, Roma 1659
(pagine n.n.).

304 Parte seconda: Profezia e politica nell’età dell’Assolutismo

Bartolomei-Block-Mastromatteo.indb 304 05/03/21 12:46


Tunohout 2009; G. GENTILE, «Sacri Monti e Viae Crucis: storie intrecciate», in A.
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zione degli episodi e dei luoghi della passione del Cristo, Atlas, Ponzano Monferrato
2004, 31-43; P.G. LONGO, Memorie di Gerusalemme e Sacri Monti in epoca barocca,
Atlas, Ponzano Monferrato 2010; B. MAJORANA, «Governo del corpo, governo dell’a-
nima: attori e spettatori nel teatro italiano del XVII secolo», in P. PRODI (a cura di),
Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra Medioevo
ed Età Moderna, Il Mulino, Bologna 1994, 438-441; C. MAZOUER, «Théâtre et mission
pendant la conquête du Chablais (1597-1598)», in La revue savoisienne 122(1982),
44-51; C. MUESSIG (a cura di), Preacher, Sermon and Audience in the Middle Ages,
Brill, Leiden-Boston-Köln 2002; M. NERBANO, Il teatro della devozione. Confraternite
e spettacolo nell’Umbria medievale, Morlacchi, Perugia 2007; S. VACCA, «La spiri-
tualità della Passione nel vissuto dei cappuccini tra Cinquecento e Seicento», in
ID., Momenti e figure della spiritualità dei cappuccini in Italia, Collegio San Lorenzo
da Brindisi, Roma 2007, 79-105; C. VAIANI, La Via Crucis di san Leonardo da Porto
Maurizio, Glossa, Milano 2003; D. ZARDIN, «“Scolpisci in me divota imago”. Libri di
pietà figurati e meditazione della passione nel Cinquecento», in Terra ambrosiana
40(1999)2, 57-63

BINO, Teatro e devozione 305

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