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Ernesto de Martino

Morte e pianto rituale nel mondo antico


Dal lamento funebre antico al pianto di Maria 1958 prima pubblicazione
Introduzione di Clara Galiini

Introduzione di Marcello Massenzio


L’autore risale alla radice dell’esigenza umana che induce a rifiutare la morte nella sua gratuità e al
contempo, a procurare al defunto una ‘’seconda morte’’, mediante il ricorso a determinate pratiche
rituali. Comprendere la dinamica del rito, a metterne in risalto la <<tecnica>> espressiva, in cui si è
sedimentato un patrimonio di esperienze e di conoscenze che è il precipitato di tradizioni
millenarie.. il dato di partenza è costituito dalla presa d’atto del carattere peculiare del rito che
risiede nell’azione: quest’ultima è intessuta di gesti stilizzati, carichi di valenze simboliche
articolate su molteplici piani che, intersecandosi tra loro, conferiscono spessore al linguaggio
rituale, il quale si affida al corpo, alle sue movenze che obbediscono a rigorosi codici espressivi
socialmente convalidati. Nelle osservazioni sul campo di D.M. condotte in Lucania tra il 1952-56 i
risultati acquisiti sono successivamente riesaminati in chiave comparativa nell’ampio contesto del
folklore euromediterrraneo. D.M. ha potuto constatare la perdurante vitalità dell’istituto del pianto
rituale pre-cristiano nelle diverse comunità contadine visitate nel corso dell’indagine.
D.M. dedica dapprima un’analisi di vasto respiro al lamento funebre antico, visto sia nella fase di
massimo splendore che in quella sua decadenza. In seguito egli focalizza l’attenzione sul processo
innescato, all’interno della civiltà occidentale, dal conflitto tra il <<paganesimo>> e il
Cristianesimo assurto al ruolo di religione dominante; conflitto tra due opposte concezioni umane
della morte, tra due diverse modalità di prospettarne il riscatto culturale. Detto in rapida sintesi, il
Cristianesimo avversa il pianto rituale giudicandolo del tutto incompatibile con la concezione della
morte fondata da Gesù; ciò perché esso implica il riconoscimento della realtà di fatto del morire
umano, laddove nella prospettiva cristiana la morte è una non-realtà, è un’apparenza, nient’altro che
un lungo sonno dal quale il defunto si ridesterà al momento del giudizio finale: essa perde la carica
drammatica che scaturisce dal riconoscimento della sua irreversibilità e, pertanto, non può e non
deve suscitare le lacerazioni, le crisi profonde che fanno da sfondo al lamento funebre.
Una simile contrapposizione ideologica assume toni quanto mai accesi nella polemica condotta dai
Padri della Chiesa, dando luogo a d azioni repressive particolarmente violente, le quali non
riescono, tuttavia, a scardinare dalle fondamenta l’antico istituto del pianto.
Lo scontro aspro cede il posto alla ricerca di mediazioni di sincretismi, il che comporta il tentativo
di rielaborare il pianto rituale in chiave cristiana. In quest’ottica il risultato più pregnante è
rappresentato dalla creazione dell’Immagine della Madonna in pianto, della Mater dolorosa posta al
cospetto della morte del Figlio.
Un’ultima considerazione accresce lo spessore storico del volume. D:M: accenna alla nascita
dell’<<<umanesimo integrale>> che segna un turnant nella storia culturale della civiltà occidentale:
il suo nucleo risiede nel riconoscimento della <<genesi e della destinazione integralmente umana
dei prodotti culturali>> e nella contestuale esclusione di ogni forma di ricorso alla
metastoria. ..Segna il <<limite di attualità della religione>>, vale a dire l’abbandono dell’orizzonte
mitico-rituale: in questo quadro va collocata la riflessione, quanto mai attuale, che verte
sull’individuazione di possibili forme di risoluzione laica: il principio direttivo si fonda sul dovere
etico dei sopravvissuti d’interiorizzare la morte coltivando la memoria del defunto che si manifesta
fattivamente nell’impegno teso a portare a termine le sue opere rimaste incompiute.
La pagina del Croce I trapassati
cit. D.M: : Esserci nella storia significa dare orizzonte formale al patire, oggettivarlo in una forma
particolare di coerenza culturale, sceglierlo in una distinta potenza dell’operare, trascenderlo in un
valore particolare: ciò definisce insieme la presenza come ethos fondamentale dell’uomo e la
perdita della presenza come rischio radicale a cui l’uomo – e soltanto l’uomo- è esposto
[]
Morte e pianto rituale gravita intorno al problema della crisi del cordoglio che si configura come un
aspetto peculiare della crisi della presenza umana, che tende a recedere al cospetto di un evento la
morte che risulta profondamente distruttivo nel suo immediato imporsi <<senza l’uomo e contro
l’uomo>>.
Cit D.M: IL rischio radicale della presenza ha certamente luogo, un rischio che non è la perdita
immaginaria di una immaginaria unità anteriore alle categorie, ma che ben è la stessa possibilità di
mantenersi nel processo culturale, e di continuarlo e di accrescerlo con l’energia dello scegliere e
dell’operare: e poiché il rapporto che fonda la storicità della presenza è lo stesso rapporto che rende
possibile la cultura, il rischio di non esserci nella storia umana si configura come un rischio
d’intenebrarsi nella ingens sylva della natura 17

cit D.M.: ogni organica tradizione religiosa solleva dalla trama del divenire un determinato sistema
di momenti critici dell’esistenza e istituisce su di essi un sistema corrispondente di riscatti. In tal
modo la religione aiuta a vivere, non già nel senso generico e banale dell’espressione ma nel senso
profondo che recupera e mantiene la base esistenziale della vita umana, cioè la presenza. 19

Concetto fondamentale in questo contesto è quello di destorificazione., questo concetto si presta ad


essere declinato in molteplici modi tra loro correlati: negare la storia, uscire dalla storia, mascherare
la storia, stendere un velo sulla storicità degli eventi, ecc.; la destorificazione non è intrinsecamente
connessa al dominio della religione e , più in generale, all’ambito della cultura: ad esempio, lo
smarrimento del senso di realtà e della storia caratterizza una serie di comportamenti alienati che
rientrano nella sfera della psicopatologia. La cosiddetta destorificazione <<irrelativa>> induce al
ripiegamento su se stessi e a un radicale isolamento. Invece, altra cosa è il processo di
destorificazione che diviene religioso perché realizza due aspetti: il primo è che l’allontanamento
dalla storia è temporaneo e volto alla sua riaffermazione secondo valore. Il secondo è che si realizza
in forme culturalmente codificate e in tempi stabiliti dalla tradizione: il ricorso a dispositivi mitico
rituali di portata collettiva nello spazio-tempo delle istituzioni festive
cit. D:M.:
A me sembra che il cordoglio rituale nasca dalla esigenza di destorificare un particolare
momento critico dell’esistenza. Per una presenza labile, in rischio di non mantenersi
davanti alla storia, il fatto storico della morte del congiunto è una esperienza
inaccettabile, almeno come esperienza laica o storica che si dica. Quindi è impossibile la
libertà e la spontaneità del cordoglio, il <<piangere il morto>> come lo potremmo
piangere anche noi, uomini <<moderni>>. Nasce così l'istituto del cordoglio rituale che
destorifica il rapporto concreto, hic et nunc determinato, tra vivente e morto, risolvendo
tale concretezza nella forma destorificante per eccellenza, della ripetizione. La
spontaneità del linguaggio cede il luogo al parlare vincolato in ritmo (quanto sarebbe
desiderabile uno studio sui ritmi dei lamenti!), il gestire libero si tramuta in gestire
rituale, e la piena delle immagini lascia il posto a immagini tradizionali iterantesi,
socialmente fissate secondo il tipo del morto che piange (per esempio secondo grado di
parentela). Nasce così anche quella apparenza (ma è solo apparenza!) di <<pianto
senz’anima>> o <<convenzionale>> che caratterizza il cordoglio rituale, e
quell’apparente (ma solo apparente) meccanizzazione di esso che lo avvicina per certi
aspetti al riflesso condizionato di Pavlov (nel lamento artificiale, richiesto alla piangitrice
per scopi di studio, una volta messosi in movimento il sistema di gesti, di immagini, di
parole e di grida che caratterizzano il lamento, la piangitrice piange davvero […]. il
cordoglio rituale è dunque un sistema organico destorificante e in rapporto al momento
storico della morte)

forma tradizionale del lamento, cioè cantilenando quartine di


settenari con versi dispari e versi pari rimati
2. Lamento funebre e vita culturale in Grecia e a Roma

Per quanto in Grecia il lamento funebre non fu mai intermesso (Luciano accenna ancora, come
vedremo, al suo tipico carattere responsoriale, con guida del pianto e periodiche incidenze corali di
ritornelli emotivi), noi possiamo riscontrare tuttavia nel corso della storia greca per un verso i primi
segni di una svalutazione polemica, e per un altro verso la risoluzione del lamento in forme
letterarie e drammatiche sempre meno dipendenti dal rito come tale. Col tramonto dell’età eroica,
nella quale la lamentazione ebbe particolare favore anche per ragioni di prestigio sociale, e con
l’avvento delle democrazie cittadine, si fece valere contro questo tempestoso momento del rituale
funebre una opposizione sempre più accentuata: l’esaltazione epica dell’individuo e la magnificenza
dei funerali che si collegavano al threnos [canto funebre, composto secondo due modalità: o
l'alternanza di cori, o la presenza di una voce solista e di un coro che rispondeva. ]apparvero non più
accettabili alla nuova società.30 Questa diversa disposizione degli animi si esprime in una serie di
disposizioni legislative che non sono dirette tanto contro il goos dei familiari durante la p ro tb esis,
quanto piuttosto contro il carattere pubblico, collettivo, clamoroso e fastoso della lamentazione
dell’epoca eroica. Solone vietò i th ren o ì elaborati per singole circostanze luttuose (τό θρηνεΐν
πεποιήενμα), il costume di rinnovare i lamenti per lutti passati prendendo ad occasione ogni
inumazione31 e la esposizione del cadavere fuori casa.32 Un analo go divieto di eseguire il p la n c
tu s rituale fuori casa si ritrova in una disposizione legislativa di D elfi33 e in una di Keos.34
Analoghe misure restrittive sono attribuite a Licurgo per Sparta35 e a Caronda per Catane.36 La
legge di Solone prescriveva inoltre che soltanto le donne oltre i sessanta anni potessero partecipare
al corteo funebre, a meno che non fossero strette parenti,37 e la legge di Iuli a Keos obbligava le
donne di lasciare il sepolcro prima degli uomini

Tuttavia occorre tener presente che questa severità nei confronti del lamento concerne solo la città
ideale e in particolare l’educazione dei reggitori supremi: nelle Leggi Platone prescrive soltanto che
la pròthesis non avvenga fuori casa43 e che al corteo funebre partecipino solo donne che abbiano
superato l’età della fecondità, a meno che non siano strette parenti, e ciò con ogni probabilità al fine
di limitare il concorso di lamentatrici occasionali che rinnovano il cordoglio per i loro lutti passati.
Saranno altresì interdette le lamentazioni (θρηνεΐν) e il gridare (φωνήν εξαγγέλλει) in pubblico, e il
rivolgersi al morto durante il trasporto.

La più elevata e complessa motivazione di questa esigenza di civile misura si ritrova in alcuni passi
della R e p u b b lic a e delle L e g g i di Platone. Nel quadro della educazione dei reggitori della p
olis ideale Platone respinge innanzi tutto le figurazioni che rendono temibile la morte, e quindi i
corrispondenti passi di Omero: respinge i nomi terribili e paurosi che si riferiscono all'al di là, quali
Cocyto, Stige, le ombre dei sepolti (ενε- poi), gli spettri (άλίβαντες). Figurazioni di questo genere
renderebbero molli e snervati i reggitori, e pertanto vanno bandite dalla loro educazione. Per la
stessa ragione il costume della lamentazione dovrà essere loro estraneo: il saggio non teme la
propria morte e non deplora quella dell’amico, ma come colui che ha meno bisogno degli altri, si
dispererà meno degli altri se la morte gli toglie un figlio, o un fratello, o le ricchezze, o qualsiasi
bene.
Non ebbe nessuna efficacia radicale sul lamento funebre come rito e costume collettivi. Nel secondo
secolo d. C. Luciano può darci del rituale funerario un quadro nel quale appaiono in pieno vigore il
planctus rituale, l’accompagnamento άεΙΓαύλός, la presenza di una guida dei threnoi (θρήνων
σοφιστής), il goos reso dai parenti (lamento di padre a figlio).
La civiltà greca si mantenne dunque fedele, nel suo complesso, al lamento funebre rituale, e lo
stesso Solone ebbe una volta a esprimere il desiderio di essere compianto nel modo tradizionale:48
però, al tempo stesso, essa lavorò più di ogni altra civiltà del mondo antico a liberare il lamento
funebre dal suo originario carattere rituale e a risolverlo in forme letterarie profane. Nella sua unità
originariamente rituale di responsorio fra guida e coro, il lamento funebre greco accenna ad un
importante sviluppo culturale: la tragedia. Aristotele nella Poetica definisce il commo come lamento
eseguito sia dal coro che dalla scena,49 e d’altra parte nella forma più antica della parodo [nelle
ultime opere di Sofocle e in quelle di Euripide la parodo assume una nuova forma, in quanto il coro
instaura un dialogo con un personaggio sin dal primo intervento: l'estremizzazione di questo tipo di
parodo si ha nella variante detta commatica, nella quale il coro dialoga con l'attore che risponde in versi
lirici, instaurando un vero e proprio dialogo lirico (κομμός, kommòs).]l’attore è al tempo stesso il
corifeo, in ciò fedelmente rispecchiando la struttura del lamento rituale.50 Come giustamente
osserva il Nestle, la Presa di Mileto e le Fenicie di Frinico, i commi di chiusura dei Persiani e dei
Sette contro Tebe, la parodo delle Coefore, i commi e le monodie nello stile delle Troiane di
Euripide sono impensabili senza il modello del lamento funebre, e senza postulare una imitazione
della sua struttura rituale.

Non si tratta più ormai di impiegare mezzi tecnici definiti per ridare orizzonte al discorso
compromesso dalla crisi, e di orientare tale tecnica nel senso del mito e del rito, ma l’accento ormai
batte sulla personale rappresentazione della morte espressa dal poeta. I ritornelli periodici dei
parenti e i moduli letterari da iterare perdono gradualmente di senso in questo affrancamento dagli
schemi protettivi del rito.
Come giustamente osserva il Reiner, solo attraverso l’emancipazione dai vincoli rituali sia rispetto
alla forma che al contenuto il lamento potè diventare espressione lirica del sentimento di un
poeta.52 [52 Reiner, op. city p. 82. Su Simonide e su Pindaro come creatori del threnos
indipendente dal rito si veda ibid., pp. 83 sg]
Ma in una terza direzione si orienta la risoluzione del lamento funebre greco: cioè verso l’orazione
funebre.
La cessione della guida del coro a cantori e lamentatrici professionali favorisce in generale il
progresso di autonomia del discorso individuale,
In Grecia
questo processo conduce alla formazione dell’επιτύμβιος αίνος cioè
all’esaltazione degli erga del defunto fatta alla tomba, e quindi
- col favore di determinate circostanze sociali e politiche - al
λόγος επιτάφιος, cioè all’orazione funebre in prosa quale omaggio col
lettivo reso dalla p o lis ai soldati morti in guerra
riscontriamo una emancipazione delle circostanze più strettamente rituali, quali la incidenza
periodica dei ritornelli emotivi e i moduli letterari mimici e melodici del threnos individuale, e
intravediamo uno sviluppo per cui la celebrazione delle res gestae prende la forma del discorso
funebre in prosa, letterariamente autonomo e personale.

Anche la nenia romana presenta a questo riguardo interessanti sviluppi culturali. Mentre i ritornelli
emotivi che dovevano punteggiare l’antica nenia finirono con l’enuclearsi nel momento rituale
autonomo della conclamatio, dal vero e proprio discorso individuale della nenia
si staccò la laudatio , sia quella detta dalla prefica prima della nenia, sia la pubblica orazione in
prosa recitata dai parenti o da qualche amico nel foro, alla presenza del popolo e delle imagines
degli antenati.56 A questa risoluzione della n e n ia nella la u d a tio (salvo, s’in
tende, il persistere delle nenie dei parenti durante la conclamatio e
l’intervento di prefiche che non pare sia mai stato intermesso) si
accompagna un palese disprezzo nei ceti colti, almeno da Plauto
in poi, per le nenie e le lamentatrici in generale.57
Particolare interesse presenta la evoluzione semantica del vocabolo nenia che è stato impiegato nei
seguenti diversi significati: a) lamento funebre; h) incantesimo magico; c) ninna-nanna; d )
frivolezza, cosa vana; e) giuoco infantile.
il lamento è effettivamente, sia per il suo modo di esecuzione sia per il fine che si propone, un
incantesimo, e al tempo stesso ha una parentela strutturale con la ninnananna appunto perché deve
suscitare, come vedemmo, lo stato oniroide controllato della presenza rituale del pianto. Infine il
significato di «cosa vana» o di frivolezza è da assegnarsi alla polemica colta contro la rozza nenia
popolare, e quello di «giuoco» può richiamarsi sia alla connessione fra lamento funebre e momenti
più propriamente ludici del rituale funerario, ma si può pensare anche allo scadimento lusorio del
lamento funebre, imitato dai bambini nei loro giuochi,
Nella polemica della patristica
occidentale, e soprattutto in san Gerolamo, la parola nenia ritiene
soltanto il significato negativo di chiacchiera vana, delirio, favola
eretica.
Soltanto col quarto secolo, con la vittoria della Chiesa e la conquista della sua
libertà, ha inizio la classica età delle orazioni funebri cristiane, con
i massimi elaboratori di tale genere che furono Gregorio di Na-
zianzo e Gregorio di Nissa in Oriente e Ambrogio in Occidente

3. Israele e la crisi del pianto rituale antico

In un senso completamente diverso operò sul lamento funebre la storia religiosa di Israele. Senza
dubbio noi non ritroviamo nell’Antico Testamento nessuna polemica esplicita contro le
lamentazioni funerarie come tali; al contrario gli accenni al rito sono copiosi.

lamentatrici spécialiste del pianto venivano mandate a chiamare in occasione di eventi luttuosi,63 e
i lamenti venivano trasmessi sia oralmente di madre in figlio o da donna a vicina,64 sia mediante
apposite raccolte.65 Il lamento nella sua esecuzione reale comportava la iterazione periodica di un
ritornello emotivo (m is p e d ) col quale gli assistenti scandivano le strofe della q ih d , e questi
ritornelli erano tradizionalizzati in un limitato numero di forme espressive, come A h , fratello mio !
A h, sorella !, Ho, ho !, ovvero Ah Signore ! quando si trattava di un re
La qìnà funeraria possedeva un metro caratteristico, il cosiddetto qìnàmetro, che constava di due
emistichi il secondo dei quali era più corto del primo per una o due sillabe toniche: ne risultava un
ritmo accentuato particolarmente adatto per esprimere la disperazione del cordoglio.
Per quanto la storia religiosa di Israele spezzi per un verso il legame del lamento funebre pagano
con il pianto rituale connesso con le passioni vegetali, e per un altro verso riplasmi la qìnà
funeraria nella qìnà profetica, la crisi decisiva del lamento funebre come rito pagano ha luogo
soltanto con l’avvento del Cristianesimo.
Quando la «storia santa» di Israele trovò il suo coronamento con l’incarnazione, un nuovo grande
evento irreversibile si impiantò nel cuore della storia umana: e il divino di questa storia non fu più
patto di alleanza di Dio con un popolo speciale, e drammatica attesa del giorno di Jahve, ma
assunzione della morte e riscatto compiuti dal Dio-Uomo, dal Cristo, per tutti i popoli della terra.
Alla destorificazione pagana orientata verso la iterazione rituale delle «origini» metastoriche, e alla
destorificazione giudaica orientata verso l’attesa del «termine» della storia, si contrappone ora la
destorificazione di un evento «centrale» che ha deciso il corso storico: un evento per cui la salvezza
è data, e già comincia il Regno che ha reso la morte apparente, sino alla seconda definitiva
parousia.

4. La polemica cristiana contro il lamento funebre pagano


la tradizione cristiana mantiene questa visione escatologica di un tempo terminale in cui «Dio
detergerà tutte le lacrime dei loro occhi, e morte più non sarà, né grida, né dolore»,83 ma l’accento
batte sull’ attualità della redenzione, per cui già la morte non è più, è diventata apparente, in virtù
della passione e della risurrezione dell’Uomo-Dio.
Durante l’ascesa al Calvario le donne intonano i tradizionali lamenti, ma Cristo solennemente li
respinge:
Molta folla lo seguiva, anche di donne, le quali si percuotevano il petto
(έκόπτοντο) ed eseguivano lamentazioni per lui (έύρήνουν αυτόν). Ma Gesù si
rivolse loro e disse: Figlie di Gerusalemme, non fate lamenti su di me (μή
κλαίετε έπ’ έμέ), ma su voi stesse e sopra i vostri figli...84
Con queste parole il cordoglio si sposta dalla morte fisica del
l’uomo a quella morte morale che è il peccato: al centro della storia
sta ora la morte esemplare dell’Uomo-Dio, una morte che vince la
morte e che per questa vittoria è «primizia dei dormienti», onde
poi anche i dormienti risorgeranno con corpi incorrotti al suono
dell’ultima tromba, come dirà Paolo
Ora, fratelli, non vogliamo che siate in ignoranza circa quelli che dormono,
affinché non siate contristati, come gli altri che non hanno speranze. Poiché
se crediamo che Gesù morì e resuscitò, così pure quelli che si sono addor
mentati, Iddio, per mezzo di Gesù, li ricondurrà presso di sé.87 [87 1 Tess. 4, 12 -13 .]

Ricollegandosi all’ ammonimento di Paolo nella prima lettera ai Tessalonicesi, Giovanni


Crisostomo svolge una efficace argomentazione contro il lamento funebre:
Non io proibisco di piangere i morti, ma l’apostolo che ha detto: «Non voglio, o fratelli,
che siate in ignoranza circa i dormienti, affinché non siate contristati come coloro che non
hanno speranza». La chiarezza del Vangelo non può essere offuscata dal fatto che
piangevano i morti coloro che vissero prima della Legge o durante la sua epoca. Costoro
con ragione piangevano poiché Cristo non era ancora venuto dai cieli, quel Cristo che con
la sua risurrezione asciugò le lacrime dei loro occhi. Costoro con ragione piangevano,
poiché la risurrezione non era stata ancora predicata.92 [92 Cris., De cons. moriis, PG , 56,
296.]

Che se David, ancora sottoposto alla Legge, e quindi se non alla licenza almeno alla
necessità della lamentazione funebre, seppe sciogliere il suo animo dalla irrazionalità del
lutto, noi che già siamo sotto la Grazia e sotto la certa speranza della risurrezione (il che ci
interdice ogni tristezza) come osiamo piangere i morti secondo il costume dei pagani,
come leviamo insani ululati, o in altro modo baccheggiando ci denudiamo il petto e ci
laceriamo le vesti, e andiamo cantando vani canti sul corpo e sulla tomba dei defunti?94

Se però già allora il Signore cacciò via costoro (cioè gli esecutori del lamento), tanto più
ora. Allora non si sapeva che la morte era un sonno: ma ora questo è chiaro come il sole...
Nessuno in futuro dovrà dunque effettuare il lamento funebre e disperarsi e screditare
l’opera di salvezza di Cristo. Egli ha ormai vinto la morte. Che cosa dunque tu lamenti in
modo cosi clamoroso? La morte è ormai diventata sonno. Che cosa gemi e piangi? La cosa
fa già ridere quando la fanno i pagani. Se però anche un credente in Cristo non se ne
vergogna, come scusarlo? Quale indulgenza meritano coloro che sono così sciocchi, e
proprio ora che da così gran tempo sono state addotte prove tanto
chiare della resurrezione? Tu però, proprio come se volessi darti premura di aumentare
ancora il tuo peccato, continui a prendere donne pagane come lamentatrici per rendere più
intenso il cordoglio e attizzare l’ardore del dolore, e non ascolti S. Paolo che dice: «Che
cosa ha da fare Cristo con
Belial? E che cosa ha in comune la fede con l’incredulità?»96

... Prima durante i funerali avevano luogo planctus (κοπετός) e lamento (θρήνος), ora
risuonano invece salmi e inni. Per quaranta giorni i Giudei lamentarono Giacobbe ed
eseguirono il planctus, e per altrettanti giorni Mosè.
Infatti allora la morte era morte. Ora però non è più così, ma inni e preci e salmi, che
manifestano il carattere gioioso dell’evento: infatti i salmi sono simbolo di animo sereno...
Per questo noi salmeggiamo per i morti...97 [97 De S. Bemice et Prosd., P G , 50, 634.]

«In qual modo - chiederai - da uomo qual sono non dovrò patire cordoglio?» Non dico
questo: non il cordoglio vieto, ma il suo eccesso. Infatti essere in cordoglio appartiene alla
natura, ma l’esserlo oltre misura appartiene alla mania, al delirio, all’animo muliebre...
Gesù piangendo Lazzaro pose una regola ed un termine al piangere. Mi vergogno,
credetemi, e arrossisco, quando vedo per le piazze torme di donne che senza decoro si
strappano capelli, si lacerano le braccia e le ginocchia, e questo fanno sotto gli occhi dei
pagani.98 [98 Hom. de dormientibus, P G , 48, 10 19 .]

(Le donne) nelle lamentazioni e nei pianti si abbandonano ad esibizioni, denu


dano le braccia, si strappano i capelli, si graffiano le gote, alcune per dolore
altre per ostentazione, altre per impudicizia... Che cosa fai, o donna? Ti
denudi turpemente, nel mezzo della piazza, tu che sei membro di Cristo,
e questo in pubblico davanti agli uomini? Strappi le chiome, stracci le vesti,
dai in ululati, vai ballando a imitazione delle menadi e non ritieni di recar
offesa a Dio?... «M a come - dirai - da uomo qual sono non mi è concesso
piangere?» Non vieto questo, ma il percuotersi, la sregolatezza nel piangere.
«G esù versò lacrime per Lazzaro»: e anche tu fallo; lacrima, ma sommessa
mente, con riservatezza e con pudore, con timore di D io."

Ma soprattutto i funerali di Monica, la madre di Agostino, pos


sono valere come drammatico modello di costume cristiano, qui
impegnato a contendersi persino lo sfogo naturale delle lacrime:
Io le chiusi gli occhi. Una immensa tristezza rifluì nel mio cuore, pronta
a tramutarsi in lacrime: ma al tempo stesso i miei occhi, per l’imperioso
comando della mia volontà, ne riassorbivano la sorgente sino ad essiccarle;
e in questa contesa grandemente pativo. Nel momento in cui Monica spirò,
Adeodato, fanciullo, ruppe in lacrime, ma da noi tutti fu costretto a tacere.
E fu la sua voce giovanile - voce del cuore - che fece tacere anche in me
quel tanto di puerile che mi induceva alle lacrime. Infatti non giudicammo
conveniente celebrare quella cerimonia con lacrimosi lamenti e con gemiti,
poiché così si suole compiangere il destino sventurato di chi muore ed il
suo totale annientamento: ma Monica non era né infelice né per nulla morta,
come ce ne rendevano testimonianza la purezza della sua vita e la schietta
fede, di cui per ragioni sicure la sapevamo dotata.991001

Nella quarta omelia alla Epistola agli Ebrei il Crisostomo, dopo aver ancora una volta delineato il
quadro indecoroso del cordoglio rituale pagano

F a ’ bene attenzione a
ciò che questi salmi vogliono dire. Ma tu non vi presti attenzione, sei ebbro
di cordoglio. Almeno fa ’ attenzione nei funerali altrui, in modo da poter
trovare la medicina per i funerali che riguardano persone della tua famiglia.
«Ritorna, anima mia, al tuo riposo, poiché Dio ti ha molto beneficato»: come
puoi dir questo e al tempo stesso piangere? Si tratta forse di rappresenta
zioni sceniche e di finzioni da istrioni? Infatti se credi in quel che dici, vano
è il tuo cordoglio; se invece ciò che dici è soltanto rappresentazione scenica
e simulazione, e credi che siano favole, perché allora salmeggi? Perché tol
leri quelli che vanno salmeggiando e non piuttosto li cacci via? «M a questo
- dirai - è da invasati». Quello però che tu fai lo è molto di più .108
Evidentemente il Crisostomo era vivamente preoccupato dal fatto che i funerali cristiani
presentavano di regola una miscela di salmi e di threnoi, e che non di rado i threnoi sommergevano
i salmi. Se ora ci volgiamo all’Occidente e diamo uno sguardo alle monarchie feudali dell’Europa
medievale, constatiamo come sino al secolo decimoquarto la pagana lamentazione non soltanto
restò in vita nella pratica privata di tutti i ceti sociali, ma mantenne un carattere pubblico in
occasione della morte di personaggi illustri, e soprattutto in occasione della morte di re o di membri
della
famiglia reale.

Ma la Chiesa non operò soltanto con la polemica dei Padri e con i canoni dei sinodi, o influenzando
la legislazione civile delle monarchie feudali del Medioevo, e successivamente delle costituzioni
comunali: vi fu anche una sua azione pedagogica più interiore e religiosamente impegnata mercé la
efficacia storica della figura della Mater Dolorosa nella scena della Passione. In perfetta
coerenza con la solenne affermazione della vittoria di Cristo sulla morte e con la polemica sulla
lamentazione pagana, il Nuovo Testamento non conosce un pianto di Maria. In Giovanni, 19.25-27,
Maria appare alla croce come muta spettatrice, e l’evangelista non pone sulla sua bocca nessuna
espressione di dolore: Maria madre di Gesù, Maria di Cleopha e Maria Maddalena vi sono
rappresentate in atto di s t a r e davanti alla croce, chiuse in un patire interiore e raccolto, che
guadagna in singolare efficacia etica proprio per il fatto che noi appena intravvediamo nello
scenario della Passione il disegnarsi di queste tre ombre silenziose e immobili. Tutta una tradizione
si ricollega a questo interiore patire, cui Ambrogio contendeva anche lo sfogo delle lacrime
{stantem illam lego, flentem non lego),116 e che nella sequenza dello Stabat Mater si ravviva
e umanizza in un contemplare velato di lacrime: «Stabat Mater Dolorosa / iuxta crucem
lacrymosa / dum pendebat filius: / cuius animam gementem, / contrìstatam et dolentem /
pertransivit gladius».
Sulla linea di questa tradizione non troverebbe posto, a stretto rigore, la rappresentazione
drammatica del dolore di Maria secondo ma soltanto il lirismo religiosamente impegnato del
credente che alla Mater Dolorosa chiede la mediazione per aprirsi alla passione di Cristo e per
morire con Cristo al peccato; «fac me tecum plangere, fac ut portem Christi mortem», come si legge
nella sequenza dello Stabat. Ma questo altissimo modello del dolore cristiano non poteva operare
realmente nella storia e svolgervi la sua effettiva pedagogia dell’umano cordoglio se non avesse
saputo raggiungere sul piano terreno la crisi che nel cordoglio sta come rischio, e se non avesse
affrontato, assorbito e trasfigurato le tecniche pagane di controllo e di reintegrazione. Solo
raggiungendo questo piano il modello mariano del dolore poteva trascinare i dolenti verso la nuova
meta religiosa e culturale, e non importa se esso doveva affrontare tutti i rischi del compromesso,
del sincretismo e del ritorno al passato. Il sommesso e breve versar lacrime di Gesù al sepolcro di
Lazzaro, esibito dal Crisostomo come modello di moderazione per una morte che il miracolo
avrebbe di lì a poco esemplarmente vinto, costituiva un ideale del comportamento per ogni
cristiano: ma affinché questo ideale potesse realmente plasmare il costume nelle condizioni storiche
date, occorreva una figura mediatrice interamente umana, come tale suscettibile di concedere di più
alla terrestrità del dolore e che al tempo stesso togliesse gli umani cordogli dal loro rischioso
isolamento, e tutti li concentrasse e li risolvesse nel simbolo di un unico cordoglio per un morire che
cancellava la morte dal mondo. Qui sta il germe della profonda necessità storica degli sviluppi
drammatici del planctus Marìae. Negli apocrifi Acta Pilati ???
(che risalgono alla prima metà del quinto secolo) il pianto di Maria
già tende a riassorbire e a trasfigurare nel pianto cristiano le forme
esterne dell’antico lamento funebre rituale, con i suoi momenti
dell’assenza, del planctus risolto in una mimica tradizionale e del
discorso della lamentazione. Alla vista del figlio coronato di spine
e con le mani legate, Maria perde coscienza (όλιγοψύχεσε) e giace
esanime a terra per lungo tempo, quindi tornata in sé entra nella
vicenda della lamentazione, percuotendosi il petto e graffiandosi
le guance con le unghie (καί ταοτα λέγουσα κατέξαινε μετά τών ονύχων
τό πρόσωπον αύτής καί ετυπτε το στήτος) e innalzando un lamento
che in più punti ricorda, per il suo contenuto, una comune lamentazione pagana resa da madre a
figlio.117 Nella tragedia cristiana Christòs páschōn, attribuita a Gregorio di Nazianzo ma in realtà
molto più tarda, Maria alterna lamenti di pagana ribellione con la coscienza di piangere non già il
Cristo, ma il peccato di coloro che lo conducono alla croce.
Davanti al sepolcro del figlio, pur continuando il lamento Maria esorta le donne di Galilea a non
lamentare la morte di Cristo, poiché nella prospettiva della risurrezione è ormai compiuta l’epoca
degli antichi lamenti funebri: in latino e poi in volgare, e la sua germinalità rispetto alle Passioni
deriva soprattutto dal fatto che la rappresentazione drammatica del
suo cordoglio oggettivava in un cordoglio esemplare, illuminato
di pazienza e di speranza, gli infiniti cordogli terreni di un mondo
vulnerato dalla morte, esposto al rischio della crisi e ancora incline
a ricadere nei modi della lamentazione pagana. In questo quadro
noi ora comprendiamo meglio come nelle Passioni drammatiche
medievali sembra talora accogliersi la stessa mimica della disperazio
ne pagana, come nel planctus della Cattedrale di Cividale del Friuli:
M a g d alen a :
117 Si vedano gli Acta Pilati nella edizione del Vannutelli, Roma 1938. Le lamentazioni
sono più brevi in Acta Pilati A e B , più lunghe in C. Per alcune lamentazioni tralasciate dal
Vannutelli, cfr. la edizione del Tischendorf, p. 306.
118 Per il Christós pàschón è da vedere l’edizione critica di J . G . Brahms 1896 e la traduz.
it. di Ottavio Prosciutti in Teatro religioso del Medioevo fuori d'Italia a cura di Gianfranco Con
tini (1949) pp. 25-66. Frammenti tradotti del Christós pàschón anche in Cantarella, Poeti bizantini,
voi. 2, pp, 19 1- 2 0 1. Per la discussione delle quistioni relative e per la bibliografia sull’argo
mento cfr. C. Del Grande, Τραγφ&ία (1952) pp. 225 sgg., 322 sg.
119 Sul rapporto fra planctus e passione drammatica cfr. E . K . Chambers, The medieval
(hic vertat se ad homines cum brachijs extensis)
O fratres!
(hic ad mulieres)
Et sorores!
(hic percutiat sibi pectus)
Ubi consolatio mea?
(hic manus ellevet)
Ubi tota salus?
(hic, inclinato capite, sternat se ad pedes Christi).
Come piangerò, come esprimerò il mio dolore per la tua morte? O voi che
lasciaste la terra di Galilea, o mie compagne cui, ignare dei misteri, attrasse
Gesù che ora giace nella tomba, non intonate i soliti lamenti, ma piangetelo
con un sommesso pianto: con lieti canti lo celebrerete quando tornerà, re
della vita, affinché si avveri la mia sicura speranza .118 [118 Per il Christós pàschón è da vedere
l’edizione critica di J . G . Brahms 1896 e la traduz.
it. di Ottavio Prosciutti in Teatro religioso del Medioevo fuori d'Italia a cura di Gianfranco Con
tini (1949) pp. 25-66. Frammenti tradotti del Christós pàschón anche in Cantarella, Poeti bizantini,
voi. 2, pp, 19 1- 2 0 1. Per la discussione delle quistioni relative e per la bibliografia sull’argo
mento cfr. C. Del Grande, Τραγφ&ία (1952) pp. 225 sgg., 322 sg.]
Com’è noto il Christós pàschón è in parte un centone di versi
di Eschilo, di Licofrone e di Euripide, ed ha un valore letterario
scarsissimo: ma dal punto di vista storico-religioso è un documento
notevole poiché ci mostra una Maria che pur assumendo i modi
della lamentazione pagana appare in un certo senso come l ’ultima
lamentatrice in atto di patire la morte di colui che vince la morte,
e al tempo stesso di annunziare nella prospettiva della risurrezione
la fine «dei soliti lamenti».
La popolarità del planctus Marìae medievale, dapprima in latino e poi in volgare, e la sua
germinalità rispetto alle Passioni deriva soprattutto dal fatto che la rappresentazione drammatica del
suo cordoglio oggettivava in un cordoglio esemplare, illuminato di pazienza e di speranza, gli
infiniti cordogli terreni di un mondo vulnerato dalla morte, esposto al rischio della crisi e ancora
incline a ricadere nei modi della lamentazione pagana. comprendiamo meglio come nelle Passioni
drammatiche medievali sembra talora accogliersi la stessa mimica della disperazio
ne pagana, come nel planctus della Cattedrale di Cividale del Friuli
MAGDALENA
hic vertat se ad homines cum brachijs extensis)
O fratres!
(hic ad mulieres)
Et sorores!
(hic percutiat sibi pectus)
Ubi consolatio mea?
(hic manus ellevet)
Ubi tota salus?
(hic, inclinato capite, sternat se ad pedes Christi).
MARIA MAIOR
(hic percutiat manus)
O dolor!
Proh dolor!
Ergo quare,
(hic ostendat Christum apertis manibus)
fili chare
pendes ita
cum sis vita
(hic pectus percutiat suum)
manes ante secula?
120

Il rapporto è ancora più evidente nei compianti in volgare. In


un testo cassinese della Passione che risale alla metà del secolo deci
mosecondo (e che quindi è il più antico fra quelli conosciuti), la
vicenda drammatica in latino si chiude con un frammento di planc
tus in volgare, corredato di note musicali, che sarà stato cantato
in coro dai fedeli, specialmente dalle donne del popolo, e che rie
cheggia un tema del lamento funebre di madre a figlio, il ricordo
dei nove mesi di gestazione:
.. te portai nillu meu ventre
... quando te bejo... (lo) co presente
... nillu teu regnu agirne ammette (a rumente?)1211
2*
Analogo rapporto può intravedersi nella più ampia ed elaborata
drammatizzazione della passione inclusa nei Carmina Burana, dove
alla remissione dei peccati fatta da Gesù segue - con poca coe
renza, come nota lo Young - un lamento di Maria che si inizia
con le disperate parole: «awe, awe, daz ìch ie wart gebom ».122 A
proposito della famosa lauda di Jacopone «Donna del Paradiso»
il Toschi ha osservato come determinate espressioni del corrotto
(«Figlio, amoroso giglio», «Figlio, occhi giocondi», «Figlio di
mamma scura», «Figlio de la sparita, figlio attossicato», «Figlio,
a chi m’appiglio? Figlio pur m’hai lassato», «Figlio, perché t’ascondi
- dal petto o’ se’ lattato») non hanno riscontro «nelle trenodie
ecclesiastiche, ma nello stile aedico e nel costume del répito o cor
rotto popolare», cioè «ricalcano la fraseologia dei pianti funebri
che le donne del popolo cantavano, ai tempi di Jacopone, a Todi
ed in tutta l’Umbria».125
Tuttavia quali che siano i compromessi ed i sincretismi a cui
dette luogo il culto di Maria nella sua espansione, resta il fatto
che dal punto di vista storico-religioso la figura di Maria non appare
ricalcata su quella della lamentatrice o della prefica del mondo
antico, ancorché ne potè assumere occasionalmente alcuni tratti.
Anzi proprio per assolvere la sua funzione pedagogica di Mater Dolo
rosa e di modello del nuovo ethos cristiano di fronte alla morte,
la figura di Maria si adattò persino ad accogliere gli aspetti più
arcaici del cordoglio antico, come il cadere inanimata ed il per
cuotersi il petto e il graffiarsi le guance ed il lamentarsi, secondo
che narrano gli Acta Pilati·, ma la sua figura di madre in lutto resta
sostanzialmente legata ad un’altra immagine pedagogicamente ege
monica, al suo stare raccolto, immobile e muto del Vangelo gio
vanneo, o al contemplare velato di lacrime della sequenza dello
Stabat. Ed il centro della cristiana religione non è nel cordoglio
di Maria come tale, ma in quel «portare Christi mortem» che la
Mater Dolorosa aiuta a vivere come esperienza (fac ut portem Chri
sti mortem).

La vicenda comporta, nella sua forma rituale tecnicamente


fondamentale, una guida del lamento e una incidenza corale del
ritornello: il significato tecnico di tale incidenza sta nel fatto che
in tal guisa il ritornello è condiviso con la collettività o ceduto ad
essa. Ma anche il discorso della lamentazione può essere ceduto
ad altri: di qui la possibilità di istituire specialisti del pianto, lamen-
tatrici professionali ed aedi, e di trattare il lamento funebre come
prodotto commerciabile. D ’altra parte il discorso della lamenta
zione oltre alla protezione tecnica della ritualizzazione del planc
tus ne possiede un’altra interna al discorso stesso: la varietà infi
nita delle concrete situazioni luttuose viene cioè destorificata in
modelli mimici, melodici e letterari che sono fissati nella memoria
culturale della comunità e ripetuti come obbligo rituale in ogni sin
golo evento di morte. Attraverso questo fascio di destorificazioni
tecniche è infine mediata la riconquista della situazione concreta,
la interiorizzazione del morto nell’epos delle memorie e degli affetti, la variazione individuale e, in
dati casi, la risoluzione lirica
del sentire. In un’altra direzione il lamento funebre compie la sua
funzione tecnica, e cioè mediante l’obbligo della sua iterazione
rituale in date canoniche definite, cioè mediante la sua distribu
zione nel tempo del lutto. Poiché la presenza rituale del pianto
può essere promossa e sospesa a volontà, viene soddisfatta la oppor
tunità tecnica di eseguire il lavoro del cordoglio a dosi successive,
e di trattare a più riprese - fissate in date tradizionali - le ten
tazioni della crisi: in tal modo gli intervalli fra data e data della
iterazione rituale risultano relativamente sgombri da insorgenze
irrelative e caotiche, ed impiegabili per le normali occupazioni pro
fane. La possibilità di questa operazione tecnica dipende dalla strut
tura della presenza rituale del pianto, che è quasi un altro che
piange, un altro - come si è detto - anonimo e impersonale, e
tuttavia controllato:

La reintegrazione del morto nel mondo


dei valori e il superamento della crisi sono quindi tecnicamente
mediati dall’arresto dell’alienazione irrelativa, dalla configurazione
dell’al di là, dal ritardo del trapasso e dalla sua negazione, e dai
corrispondenti comportamenti rituali: sono cioè protetti da parti
colari modi di destorificazione mitico-rituale. La lamentazione fune
bre partecipa di quest’ordine, e compie - per la parte che le spet
ta - il suo proprio lavoro: se il lamento non è reso, il morto non
entra nel regno dei morti e resta nella rischiosa condizione di cada
vere vivente, che tormenta i vivi ritornando in modo irrelativo;
d’altra parte nel corso della lamentazione le valenze di allontana
mento si legano dialetticamente a quelle di riappropriazione, di
interiorizzazione e di rapporto sul piano dei valori morali, sociali,
politici, poetici e conoscitivi.
Il lamento funebre partecipa quindi a quel più vasto sistema
tecnico di destorificazione che caratterizza gli antichi rituali fune
rari, in quanto strumenti per procurare a morti la seconda morte
culturale, cioè la loro risoluzione nel valore
i rituali funerari antichi fermano e con
figurano l’alienazione irrelativa della crisi, e riconducono il morto
così configurato dalla condizione rischiosa di cadavere vivente a
quella più stabile e garantita di morto nel regno dei morti, allon
tanando «al di là» ciò che «di qua» incombe come troppo pros
simo, e al tempo stesso guadagnando il tempo giusto per inserire
il morto, che nella crisi del cordoglio sta come scandalo, nella sfera
dei rapporti secondo valore.

Ma il lamento funebre per la morte degli individui storici appare


nel mondo antico inserito in un più vasto ordine di connessioni,
e cioè in una fondamentale visione religiosa che include anche altre
sfere del passare. Sussiste infatti nel mondo antico un organico
rapporto fra lamento funebre destinato alle persone storiche e
lamentazioni stagionali.
La destorificazione religiosa aveva soltanto il compito di
proteggere questa presa di coscienza, di allontanare il morto nel
regno dei morti e al tempo stesso di mediare l’unico possibile ritorno
benefico, quello che aveva luogo nella memoria morale dei soprav
vissuti. Ora le immense energie culturali per compiere ciò l’uomo
antico poteva attingerle da una diversa sfera del morire, in cui egli
col proprio lavoro faceva r e a l m e n t e passare e tornare il dive
nire naturale secondo una regola umana e compiva così il distacco
inaugurale della cultura dalla natura: questa sfera fu per l’uomo
antico quella del ritmo stagionale della vegetazione sperimentato
nel corso dei lavori agricoli.
La più notevole unificazione destorificatrice delle sfere fondamen
tali del morire si ha nella religione osiriana, dove lo stesso pianto
mitico dei primordi vale per tutte e tre le fondamentali sfere in
cui si manifesta il vuoto del morire: il vuoto dell’individuo in seno
alla famiglia, il vuoto della vegetazione nella distesa dei campi,
e il vuoto del trono nello Stato. Per questa unificazione e per que
sto rapporto fu possibile una integrazione del morto con il destino
vegetale e astronomico, e la ulteriore destorificazione del suo «esser
passato per sempre» nel ritornare della vegetazione, o del sole, o
della luna, o di Orione, o del periodico flusso delle acque del Nilo.

IL LAMENTO FUNEBRE RITUALE non cessò mai di fare parte integrante del rituale funerario: se
con l’affermarsi di forme democratiche di vita cittadina in Grecia e a Roma vi furono interventi
legislativi su questo punto, si trattò sempre di prescrizioni indirizzate a limitare alcune forme del
planctus ritenute eccessive, e a moderare il fasto degli antichi funerali aristocratici ed eroici: ma il
lamento funebre come tale non fu mai combattuto per ragioni religiose. In Grecia la polemica di
Platone restò espressione di un pensiero senza efficacia plasmatrice del costume oltre una
ristrettissima cerchia di intellettuali, e d’altra parte lo stesso Platone nelle Leggi di molto attenuò su
questo punto la severa intransigenza della Repubblica. Tuttavia in Grecia, parallelamente al non mai
intermesso lamento funebre rituale, assistiamo ad un graduale liberarsi del lamento dal rito: il goos
epico, il threnos lirico, il commos tragico, l’orazione funebre in prosa costituiscono altrettante
risoluzioni del lamento sul piano della letteratura e del dramma. In Roma tale processo risolutivo si
compie in una sfera molto più circoscritta: dall’antica nenia infatti, prescindendo dalla conclamatio
che ha un carattere spiccatamente rituale, non si svolse sul piano letterario che la laudatio.
La prima profonda disarticolazione del sistema di destorificazione religiosa in cui è inserito il
lamento funebre antico ha luogo però soltanto con la storia religiosa di Israele, dove il costituirsi
di un rigido monoteismo respinge nettamente il tema pagano delle passioni vegetali: il lamento
funebre si farà ancora valere nel corso di tutta la religione di Israele, ma il suo rapporto col pianto
stagionale sarà decisamente spezzato.
Il sistema di destorificazione che si afferma nell’Antico Testamento poggia invece sui temi della
berìth e del giorno di Jahve come termine della storia santa del popolo speciale:

D ’altra parte proprio perché la gelosa proprietà di Jahve investe anche i corpi di coloro che fanno
parte del popolo eletto, noi troviamo nel Levitico e nel Deuteronomio la prima polemica
religiosamente motivata contro le offese recate al proprio corpo durante il planctus rituale: tali
offese manomettono la proprietà di Dio e sono quindi interdette.

La crisi decisiva del lamento funebre antico ha luogo però soltanto con il Cristianesimo. Nel centro
della storia si impianta ora l’evento della incarnazione, e la passione dell’Uomo-Dio, che assume su
di sé la morte umana e la vince per sempre, rendendola apparente sino al giorno della seconda
parousia, quando i morti risorgeranno con corpi incorruttibili al suono dell’ultima tromba. In questo
sistema di destorificazione della morte non soltanto il planctus in alcuni suoi eccessi, ma tutto il
lamento funebre antico diventava misconoscimento dell’opera redentrice di Cristo: per ripren
dere l’affermazione di Giovanni Crisostomo, il tempo in cui la morte era morte si era
definitivamente chiuso, e con esso anche il tempo del planctus e del lamento.
Il rigorismo dell’età apostolica e dei Padri della Chiesa verso il lamento funebre non fu mai
smentito nella storia della Chiesa

Tuttavia la tenace sopravvivenza del costume costrinse talora la Chiesa a qualche compromesso di
fatto, e soprattutto ad un’opera non soltanto repressiva ma anche riplasmatrice e trasfiguratrice delle
antiche lamentazioni funerarie e in genere del pianto rituale. Il grande strumento pedagogico del
nuovo ethos cristiano di fronte alla morte fu la figura della Mater Dolorosa, così integralmente
umana nel suo dolore per il figlio morto, e tuttavia così interiore e raccolta nel suo silenzioso
«stare» velato di lacrime davanti alla croce. Tale interiore raccoglimento del cordoglio di Maria
rappresentava un modello anche perché toglieva dal loro isolamento i singoli lutti per lo storico
morire e tutti li concentrava in un lutto esemplare per un morto che, con la sua risurrezione, era
diventato «primizia dei dormienti». Tuttavia questo modello della Mater Dolorosa potè assolvere la
sua alta funzione pedagogica nella misura in cui seppe accogliere, trasfigurandoli, modi e forme del
lamento funebre antico: di qui la grande fortuna dei planctus Mariae drammatici del Medioevo.
Inoltre, proseguendo e sviluppando un processo già iniziatosi nella storia religiosa di Israele, la
mimica rituale del planctus in occasione di un evento luttuoso fu riplasmata e interiorizzata come
mimica penitenziale per la «vera» morte del peccato.
Infine quanto ancora nelle campagne sopravanzava dei pianti stagionali fu avviato lentamente a
graduale disgregazione, o ricacciata nel breve orizzonte dei lamenti per il raccolto e dei relitti delle
passioni vegetali, o ridotto alla irriconoscibile buffoneria dei pianti grotteschi per la morte di
Carnevale.

Ma c ’è qualche cosa di più: la tenace resistenza dell’antica lamentazione pagana costrinse la stessa
Maria ad abbandonare il suo raccolto e muto «stare», e ad assumere modi e forme che
riecheggiavano l’antico lamento: soltanto così, come si è detto, il planctus Mariae potè raggiungere
la disperazione umana per innalzarla alla speranza della croce (le terrecotte di Niccolò dell’Arca e
di Guido Mazzoni sono in proposito molto eloquenti). Questa tenacia di sopravvivenza e questo
limite alla espansione del costume cristiano pongono senza dubbio un problema. Quasi si direbbe -
e nella sostanza l’osservazione è giusta - che il Cristianesimo ebbe sì la potenza di riplasmare su
questo punto il costume negli strati superiori della società civile, strappando via via le corti, i nobili,
i signori, la ricca borghesia cittadina al pagano «saper piangere i morti, ma non potè dispiegare
eguale energia plasmatrice nelle campagne, dove il progresso decisivo ebbe luogo su questo punto
non tanto per la mai intermessa azione incivilitrice della Chiesa quanto piuttosto per opera della
rivoluzione borghese e con lo sviluppo dell’epoca industriale, e con il corrispondente progresso
civile delle campagne. Se infatti ci provassimo a costruire una carta diacronica del progressivo
scomparire del lamento fra le plebi rustiche europee noi vedremmo come primi a perderlo furono i
paesi e le regioni che più presto entrarono nell’orbita della rivoluzione industriale e dello sviluppo
di una intraprendente borghesia cittadina, e ultimi invece quei paesi e regioni che perpetuarono più
a lungo nella loro struttura sociale rapporti precapitalistici e semifeudali.

4. La conquista del discorso protetto: l ’incidenza corale


dei ritornelli emotivi pag.87pdf
i ritornelli emotivi, la loro incidenza nel lamento funebre è attestata dal materiale folklorico
euromediterraneo, l’incidenza è da mettersi in rapporto con il carattere sociale del lutto e con la
partecipazione collettiva al cordoglio.
Ciò rende indi
spensabile che i momenti del planctus ritualizzato e del discorso
protetto siano disciplinati nella loro esecuzione non soltanto rispetto
all’individuo, ma anche rispetto alla collettività. Una delle forme
più elementari e più largamente diffuse che nel lamento funebre
folklorico disciplina il cordoglio collettivo, stabilendo le «parti»
che ciascuno deve sostenere nel rito, è la successione ordinata dei
discorsi individuali e la partecipazione collettiva ai ritornelli emo
tivi. Volta a volta una sola lamentatrice assume la «guida» del
pianto, cioè inaugura il discorso protetto, con l’intesa tradizional
mente stabilita e socialmente accreditata che soltanto al momento
dei ritornelli emotivi può aver luogo l’incidenza corale della collettività.

Ora il condividere con altri il planctus, o addirittura il cederlo ad altri, attua una forma di
collaborazione nel momento più critico della lamentazione, proprio come se la coralità del planctus
ripartisse e attenuasse in più individui la carica emotiva trattenuta nel ritornello emotivo o
permettesse una vera e propria cessione integrale del planctus alla collettività. M a è possibile anche
un’altra operazione tecnica: non soltanto il planctus ritualizzato può essere ripartito e ceduto
collettivamente ad ogni incidenza periodica del ritornello emotivo, ma anche lo stesso discorso
protetto, e quindi la guida della lamentazione, può essere ceduto ad una non parente, a una donna
cioè non toccata immediatamente dal cordoglio, e che sia «specialista» nella fattispecie: in questo
caso coloro che sono stati colpiti dal lutto riserbano per sé o una parte subordinata o addirittura la
sola parte del coro, nei tempi e nei modi che sono consentiti dallo strumento tecnico della
lamentazione responsoriale, adoperato dalla regista esperta. D ’altra parte la successione ordinata
dei discorsi protetti e dei ritornelli emotivi corali esercita un potere di sblocco sui rischi di inazione
melancolica, e al tempo stesso appresta gli argini per entro i quali si verserà e si ordinerà la carica
emotiva nel momento rischioso del suo sprigionarsi.

Proprio per il carattere i m p e r s o n a l e della presenza stereotipa del pianto viene reso possibile
un nesso i n t e r p e r s o n a l e recitato a comando, con scambi e sostituzioni e collaborazioni
pianificate e tradizionalizzate che sarebbero del tutto inconcepibili in un regime strettamente
individuale di cordoglio. In questo quadro tecnico si comprende anche come sia possibile quel
particolare sviluppo tecnico del lamento per cui esso diventa un oggetto commerciabile, che può
vendersi e comprarsi, come accade talora (ma non sempre) nel caso della lamentatrice specializzata,
che offre i suoi servizi nei funerali.

5. La conquista del discorso protetto: i moduli letterari, mimici


e melodici
Nel lamento funebre lucano la protezione interna del discorso
ha luogo anche mediante l’impiego di moduli letterari, mimici e
melodici. «Lamentarsi» significa in Lucania innanzi tutto ricor
darsi dei moduli letterari adatti scegliendoli fra quelli che stanno
a disposizione della memoria culturale di ciascuna lamentatrice,
e che tendono per così dire ad esaurire i tipi fondamentali delle
possibili situazioni luttuose. Ma alla memoria culturale di ciascuna
lamentatrice appartengono non soltanto questi moduli, ma anche
- in organica connessione unitaria - la mimica che li deve accom
pagnare e la melodia con cui vanno cantati. Analizziamo ora que
sto rapporto sul più vasto piano del folklore euromediterraneo.
Nel folklore attuale del Vicino Oriente i lamenti tradizionali
sono articolati secondo il duplice criterio della persona cui sono
destinati e delle circostanze della morte: nelle, raccolte e nelle descri
zioni etnografiche si ritrovano lamenti destinati a uomo, a donna, a giovinetto, a giovinetta, a sposa,
a bambino, a persona morta
senza figli o con molta prole, oppure perita per morte violenta o
lontana dalla patria.

In generale i moduli letterari delle lamentazioni funebri, come


fu messo in rilievo nel corso dell’indagine sul lamento funebre
lucano, hanno un’area di diffusione variabile: ve ne sono che si
limitano ad un singolo villaggio, mentre altri coprono un’area molto
più vasta, sia a motivo della connessione esistenziale largamente
diffusa cui si riferiscono, sia in dipendenza di fenomeni di trasmis
sione etnografica.

il sistema di protezioni destorificanti media la singolarìzzazione del dolore, il ritorno


alla concretezza della situazione luttuosa, il riadattamento o l’innovazione dei moduli a vari livelli
di coerenza formale e di autonomia personale.

Tali strutture consistono nell’offrire, me


diante la protezione tecnica del rito, un modo per entrare in rap
porto con la tentazione del rischio, cioè del comportamento irre
lativo: una volta stabilito questo rapporto, viene avviato un oppo
sto processo di reintegrazione del delirio nel circuito psichico, in
modo da renderlo gradualmente accessibile alla lezione della realtà,
e da dischiuderlo alla plasmazione delle forme di coerenza cultu
rale.

Questo impiego della lamentazione per trattare i conflitti susci


tati dall’evento luttuoso sfrutta la presenza rituale del pianto per
dar sfogo sul suo piano al vario sentire acutizzato dalla circostanza
e per impedire che esso prenda le forme eccessive di una lite vio
lenta e pericolosa. Sul piano destorificato di un dialogo cantato
nel ritmo della lamentazione ciascuno riversa l’animo suo, come
in sogno e tuttavia essendo svegli: e le cose dette su quel piano
non valgono proprio come le offese vere, ma un po’ di meno, pro
prio come se ci fosse una soluzione di continuità fra la presenza
rituale e quella «normale», e come se le persone che hanno agito
nel rito non fossero p ie n o ju r e le stesse che si ritroveranno poi dopo
l’esecuzione. Ma intanto con questo dire «su un altro piano» il
conflitto è trattato in forma protetta, il sentire defluisce e si sca
rica senza tutte le conseguenze di un litigio «vero», e i «perso
naggi» che hanno recitato le «parti» si vengono adattando in qual
che modo all’equilibrio che dovranno poi, a recitazione conclusa,
mantenere come «persone».

MARIA
Dall’introduzione DI c. gALLINI
Ma possiamo anche leggere il libro come lo svolgimento di un
discorso situato tra i due poli di due teatri rituali del piangere,
assieme simili e diversi tra loro: quello delle donne lucane, da un
lato, e, dall’altro, quello di Maria nelle sacre rappresentazioni me
dievali. Ed è proprio quest’ultima la figura più enigmatica di un
testo, che culmina con la sua evocazione, per conchiudere senza con
cludere, arrestandosi prima del passo definitivo, che avrebbe potuto
condurre a ritrovare nel Cristo morto e in Maria piangente sul Gol
gota le due immagini forti, culturalmente dominanti, capaci di dar
senso ai diversi farsi e disfarsi delle espressioni di un lutto «pagano»
all’interno del cattolicesimo europeo.
Ma il passo definitivo si risolverà tra poco, nella nuova presa
d’atto dell’esistenza di quel reticolo, mobile ed esteso, al cui interno
si situano tutte le più diverse e persin contrastanti espressioni del
nostro cattolicesimo, nel loro concreto attuarsi. Siamo ormai a Sud
e magia.
D altra parte per
quanto con l’avvento del Cristianesimo (e successivamente dell’I
slamismo) il lamento funebre antico si avviò a perdere il suo carat
tere culturale organico, cioè la sua sostanziale omogeneità con deter
minati temi della civiltà religiosa dominante, i fenomeni di circo
lazione culturale continuarono a toccarlo in varia misura, secondo
i luoghi e i tempi, e malgrado l’opposizione di principio della Chiesa
(o dei fondatori della religione islamica). Non fu più certo la grande
circolazione culturale che portò la lamentazione egiziana a ripla
smarsi miticamente nel ciclo osiriano, rifluendo poi nel rituale fune
rario carica dei nuovi significati assunti nel mito, o che in Israele
dette luogo alle trasposizioni e alle riplasmazioni della qinà profe
tica; e neanche fu l’impetuosa spinta in alto, verso il dominio del
l’arte e della poesia, che in Grecia —oltre i vincoli del rito e del
mito - aprì al lamento le vie dell’epos, della tragedia e della Urica
della morte. Ma in sfere molto circoscritte e relativamente più modeste il processo di circolazione
continuò anche dopo l’avvento
del Cristianesimo (e dell’Islamismo), come mostrano per esempio
i lamenti antico-provenzali e quelli della Chansons de geste e in
genere i vari planctus medievali di origine letteraria composti per
personaggi importanti e destinati ad essere pubblicamente eseguiti
in manifestazioni collettive di cordoglio: né infine vanno dimen
ticate - sempre in epoca cristiana - le trasposizioni religiose nel
Planctus Marìae e nelle passioni popolari.

Ma la Chiesa non operò soltanto con la polemica dei Padri e


con i canoni dei sinodi, o influenzando la legislazione civile delle
monarchie feudali del Medioevo, e successivamente delle costitu
zioni comunali: vi fu anche una sua azione pedagogica più inte
riore e religiosamente impegnata mercé la efficacia storica della
figura della Mater Dolorosa nella scena della Passione. In perfetta
coerenza con la solenne affermazione della vittoria di Cristo sulla
morte e con la polemica sulla lamentazione pagana, il Nuovo Testa
mento non conosce un pianto di Maria. In Giovanni, 19.25-27,
Maria appare alla croce come muta spettatrice, e l’evangelista non
pone sulla sua bocca nessuna espressione di dolore: Maria madre
di Gesù, Maria di Cleopha e Maria Maddalena vi sono rappresen
tate in atto di s t a r e davanti alla croce, chiuse in un patire inte
riore e raccolto, che guadagna in singolare efficacia etica proprio
per il fatto che noi appena intravvediamo nello scenario della Pas
sione il disegnarsi di queste tre ombre silenziose e immobili. Tutta
una tradizione si ricollega a questo interiore patire, cui Ambrogio
contendeva anche lo sfogo delle lacrime {stantem illam lego, flen-
tem non lego),116 e che nella sequenza dello Stabat Mater si ravviva
e umanizza in un contemplare velato di lacrime: «Stabat Mater
Dolorosa I iuxta crucem hcrymosa I dum pendebat filius: I cuius ani-
mam gementem, I contrìstatam et dolentem I pertransivit ghdius».
Sulla linea di questa tradizione non troverebbe posto, a stretto
rigore, la rappresentazione drammatica del dolore di Maria secondo
una mimica definita e un discorso contesto di moduli, ma soltanto
il lirismo religiosamente impegnato del credente che alla Mater Dolo
rosa chiede la mediazione per aprirsi alla passione di Cristo e per
morire con Cristo al peccato; «fac me tecum phngere, fac ut portem
Christi mortem», come si legge nella sequenza dello Stabat. Ma que
sto altissimo modello del dolore cristiano non poteva operare real
mente nella storia e svolgervi la sua effettiva p e d a g o g i a dell’u
mano cordoglio se non avesse saputo raggiungere sul piano terreno
la crisi che nel cordoglio sta come rischio, e se non avesse affron
tato, assorbito e trasfigurato le tecniche pagane di controllo e di
reintegrazione. Solo raggiungendo questo piano il modello mariano
del dolore poteva trascinare i dolenti verso la nuova meta religiosa
e culturale, e non importa se esso doveva affrontare tutti i rischi
del compromesso, del sincretismo e del ritorno al passato. Il som
messo e breve versar lacrime di Gesù al sepolcro di Lazzaro, esi
bito dal Crisostomo come modello di moderazione per una morte
che il miracolo avrebbe di lì a poco esemplarmente vinto, costi
tuiva un ideale del comportamento per ogni cristiano: ma affin
ché questo ideale potesse realmente plasmare il costume nelle con
dizioni storiche date, occorreva una figura mediatrice interamente
umana, come tale suscettibile di concedere di più alla terrestrità
del dolore e che al tempo stesso togliesse gli umani cordogli dal
loro rischioso isolamento, e tutti li concentrasse e li risolvesse nel
simbolo di un unico cordoglio per un morire che cancellava la morte
dal mondo. Qui sta il germe della profonda necessità storica degli
sviluppi drammatici delphnctus Marìae. Negli apocrifi Acta P ih ti
(che risalgono alla prima metà del quinto secolo) il pianto di Maria
già tende a riassorbire e a trasfigurare nel pianto cristiano le forme
esterne dell’antico lamento funebre rituale, con i suoi momenti
dell’assenza, del phnctus risolto in una mimica tradizionale e del
discorso della lamentazione. Alla vista del figlio coronato di spine
e con le mani legate, Maria perde coscienza (όλιγοψύχεσε) e giace
esanime a terra per lungo tempo, quindi tornata in sé entra nella
vicenda della lamentazione, percuotendosi il petto e graffiandosi
le guance con le unghie (καί ταοτα λέγουσα κατέξαινε μετά τών ονύχων
τό πρόσωπον αύτής καί ετυπτε το στήτος) e innalzando un lamento
che in più punti ricorda, per il suo contenuto, una comune lamentazione pagana resa da madre a
figlio.117 Nella tragedia cristiana
Christós pdschòn, attribuita a Gregorio di Nazianzo ma in realtà
molto più tarda, Maria alterna lamenti di pagana ribellione con
la coscienza di piangere non già il Cristo, ma il peccato di coloro
che lo conducono alla croce. Altrove essa proclama di star salda
nella fede della risurrezione, e annunzia che i suoi lamenti avranno
termine quando vedrà risorto colui che ora è in preda alla morte.
Davanti al sepolcro del figlio, pur continuando il lamento Maria
esorta le donne di Galilea a non lamentare la morte di Cristo, poi
ché nella prospettiva della risurrezione è ormai compiuta l’epoca
degli antichi lamenti funebri:
Come piangerò, come esprimerò il mio dolore per la tua morte? O voi che
lasciaste la terra di Galilea, o mie compagne cui, ignare dei misteri, attrasse
Gesù che ora giace nella tomba, non intonate i soliti lamenti, ma piangetelo
con un sommesso pianto: con lieti canti lo celebrerete quando tornerà, re
della vita, affinché si avveri la mia sicura speranza .118
Com’è noto il Christós pàschón è in parte un centone di versi
di Eschilo, di Licofrone e di Euripide, ed ha un valore letterario
scarsissimo: ma dal punto di vista storico-religioso è un documento
notevole poiché ci mostra una Maria che pur assumendo i modi
della lamentazione pagana appare in un certo senso come l ’ultima
lamentatrice in atto di patire la morte di colui che vince la morte,
e al tempo stesso di annunziare nella prospettiva della risurrezione
la fine «dei soliti lamenti». Qui noi possiamo misurare tutta la
distanza storica che separa il pianto di Maria da quello di Iside
e di Nephthys per Osiride: mentre il pianto di Iside e di Neph-
thys diventò il modello della lamentazione per la morte di persone
storiche, il pianto di Maria poteva assorgere soltanto a nucleo ger
minale e successivamente a momento di una rappresentazione dram
matica della Passione di colui che aveva liberato il mondo dalla
morte.119 La popolarità del planctus Marìae medievale, dapprima
in latino e poi in volgare, e la sua germinalità rispetto alle Passioni
deriva soprattutto dal fatto che la rappresentazione drammatica del
suo cordoglio oggettivava in un cordoglio esemplare, illuminato
di pazienza e di speranza, gli infiniti cordogli terreni di un mondo
vulnerato dalla morte, esposto al rischio della crisi e ancora incline
a ricadere nei modi della lamentazione pagana. In questo quadro
noi ora comprendiamo meglio come nelle Passioni drammatiche
medievali sembra talora accogliersi la stessa mimica della disperazio
ne pagana, come nel planctus della Cattedrale di Cividale del Friuli:

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