L'ASSEDIO DI MONTSEGUR
La crociata contro i catari
nella Francia del Medioevo
SIMONE DI MONFORT.
1. UN CAPO MILITARE.
In due mesi di campagna i crociati avevano riportato un successo tale che essi stessi lo
trovavano inesplicabile senza fare appello all'intervento divino. Ma l'obiettivo vero della
spedizione - la distruzione dell'eresia - non era stato raggiunto; peggio ancora, a parte il famoso
«ammazzateli tutti», apparentemente non si era ancora trovato alcun mezzo concreto per
raggiungerlo. Eccettuato qualche caso isolato di eretici consegnati dai loro concittadini a
Narbonne e a Castres, i crociati non avevano ancora veramente affrontato il nemico che
volevano combattere.
Il terrore che ispiravano innalzò fra loro e la popolazione della regione invasa un muro
impenetrabile: i ministri catari più noti si rifugiarono in nascondigli sicuri, i 'perfetti'
cambiarono le loro vesti nere con gli abiti dei borghesi e degli artigiani, i signori locali
proclamarono la loro fedeltà alla religione cattolica e si ritirarono in montagna, e l'eresia
divenne ancor più difficile a combattersi di quanto lo fosse l'anno precedente. Per non aver
distinto fra cattolici ed eretici a Béziers, i crociati si videro obbligati a trattare l'intero paese
come eretico.
Costretta a rinunciare a ogni speranza di vincere con la persuasione, la Chiesa, quanto al
braccio armato, disponeva solo di un capo militare in possesso di un titolo usurpato e
circondato da un pugno di soldati. A quale numero di effettivi combattenti poteva corrispondere
la «trentina» di cavalieri di cui parla Pietro di Vaux de Cernay? Forse parecchie centinaia di
uomini; non molti di più. Simone disponeva di alcuni mercenari, pochi però, poiché per lui non
era facile trovare di che pagarli. Le città conquistate, i cavalieri sottomessi gli fornivano
contingenti di uomini motivati solo dalla paura o dall'interesse, mai troppo sicuri. Di fatto egli
poteva contare solo sul suo piccolo gruppo di Francesi.
Era - i fatti lo avrebbero dimostrato - un gruppo fidato, votato anima e corpo al suo capo,
formato da guerrieri di grande valore. Alcuni erano parenti o vicini di Simone, come Guido di
Lévis, Boccardo di Marly, i tre fratelli Amalrico, Guglielmo e Roberto di Poissy; altri erano
Normanni, e in quanto tali costituivano un gruppo omogeneo - Pietro di Cissey, Ruggero di
Essarts, Ruggero d'Andelys, Simone il Sassone; altri ancora venivano dalla Champagne - Alano
di Roucy, Raul d'Acy, Gilberto d'Essigny; infine, c'erano altri cavalieri provenienti dalle
province della Francia settentrionale o dall'Inghilterra, come Roberto di Piquingny, Guglielmo
di Contres, Lamberto di Croissy, Ugo di Lacy, Gualtieri Langton. In seguito, Simone di
Montfort avrebbe potuto contare anche su di un altro prezioso ausiliario, il fratello Guido, che
avrebbe lasciato la Terra Santa per raggiungerlo. La maggior parte di questi baroni si sarebbero
messi in mostra durante le campagne della crociata al fianco del loro capo, molti vi avrebbero
trovato la morte. E a loro, come a Simone di Montfort, che sarebbe spettata la difesa degli
interessi della Chiesa in Linguadoca; essi sarebbero stati dei collaboratori attivi ed esperti più
che dei subordinati e, come le cronache mostrano ripetutamente, Simone non avrebbe preso
alcuna decisione senza tenere un consiglio e consultare i baroni. Per unità e volontaria
disciplina questo gruppo rappresentava una forza temibile malgrado la sua esiguità numerica;
nella fortuna e nella sfortuna questi uomini avrebbero formato un blocco compatto, mostrando
un coraggio capace di qualsiasi prova.
In effetti essi avevano un gran bisogno di coraggio. Innanzitutto avevano contro tutto il
paese, che dovevano sottomettere direttamente e di cui, in teoria, Simone era il visconte: nel
Razès e nella regione di Albi numerose piazzeforti resistevano e sembravano imprendibili. A
sud, nei monti dell'Ariège, il conte di Foix, Raimondo Ruggero, valente capitano e grande
protettore di eretici, disponeva ancora di tutte le sue forze intatte. A ovest si estendevano i
domini del conte di Tolosa, ex crociato, secondo la legge inattaccabile, ma alleato infido, pronto
a trasformarsi in nemico alla prima occasione. I soli veri alleati di Simone, i legati, non
rappresentavano una potenza militare: il clero locale, incoraggiato dal successo della crociata
stava rialzando la testa, ma poteva dare una mano al nuovo visconte solo garantendogli un aiuto
finanziario; e i prelati tendevano a vedere in lui innanzitutto il difensore dei loro interessi e dei
loro benefici. Il re d'Aragona non vedeva di buon occhio questo nuovo vassallo, e malgrado
l'insistenza di quest'ultimo per molto tempo avrebbe evitato di riceverne l'omaggio.
E' vero che Simone di Montfort era appoggiato da una parte della nobiltà del paese, che gli
aveva giurato fedeltà, e, soprattutto, aveva dalla sua la minaccia sempre incombente di nuove
crociate; nondimeno la sua situazione era incerta e precaria e le sue forze risibilmente
insufficienti di fronte al compito da realizzare. Tuttavia gli odi che ispirò bastano a provare il
ruolo di primo piano che dovette svolgere nella conquista del paese; per anni e anni la causa
della Chiesa in Linguadoca si identificò con la persona e l'opera di Simone di Montfort.
Chi era quest'uomo cui il papato, tramite i legati, aveva affidato la difesa della Chiesa nel
Mezzogiorno della Francia? I giudizi degli storici contemporanei sul suo conto variano a
seconda delle loro convinzioni personali: l'eroe senza paura e senza macchia di Pietro di Vaux
de Cernay diventa un tiranno feroce e sanguinario per il continuatore di Guglielmo di Tudèle,
mentre quest'ultimo descrive Simone come «un ricco barone, prode e coraggioso, ardito e
bellicoso, saggio ed esperto, buon cavaliere e generoso, valoroso e gentile, dolce e franco... (1)»
e Guglielmo di Puylaurens ne loda la condotta durante i primi anni della guerra, per accusarlo
poi di rapacità e di ambizione. Tutti sono unanimi nel riconoscere il suo coraggio e
specialmente l'immenso prestigio - fatto di timore e di ammirazione al contempo - di cui godeva
anche presso i nemici. Era un uomo che valeva da solo un esercito, che sarebbe entrato da vivo
nella leggenda - Giuda Maccabeo o flagello di Dio. Con forze insignificanti era riuscito a
diventare forte come quei tiranni il cui solo nome faceva piegare il capo: non era un merito da
poco per un condottiero militare.
I contemporanei ce lo descrivono come un cavaliere magnifico, imponente, dotato di una
forza erculea, «meravigliosamente abile nell'esercizio delle armi»; il suo panegirista, Pietro di
Vaux de Cernay, esalta in un modo un po' convenzionale l'eleganza e la bellezza del suo
portamento, così come la sua amabilità, la sua dolcezza, la sua modestia, la sua castità, la sua
prudenza, il suo ardore e la sua intraprendenza... «infaticabile, e votato totalmente al servizio di
Dio (2)».
Quello che colpisce di più, leggendo la storia delle campagne da lui condotte per una decina
d'anni, è la sua capacità di trovarsi contemporaneamente ovunque, l'estrema rapidità delle sue
decisioni, l'audacia calcolata dei suoi attacchi. Questo soldato pagava di persona quasi al di là
dei limiti del ragionevole, come si è visto durante l'assedio di Carcassonne e come vedremo più
avanti, in occasione del passaggio della Garonna nei pressi di Muret, quando riattraversò il
fiume in piena per non abbandonare un gruppo di uomini della sua fanteria, restando con loro
per parecchi giorni e riunendosi al grosso dell'esercito solo quando anche l'ultimo di quei fanti
ebbe guadagnato l'altra sponda. Molti altri passi, sia dell'"Hystoria" (3) sia della "Chanson",
mostrano il capo della crociata come un uomo animato da una vera e propria passione per la
guerra e molto affezionato ai suoi soldati.
Gli storici parlano dei suoi costumi austeri, della sua grande religiosità. Religiosità
interessata, se vogliamo, poiché egli doveva tutto alla Chiesa e solo dalla Chiesa si aspettava di
ricevere aiuto. Religiosità sincera, poiché un simile guerriero era abbastanza temuto da non
dover simulare una religiosità fittizia. In piena buona fede si considerava un soldato di Cristo; e
lo credeva al punto che, di fronte a dei rovesci, accusava Dio di ingratitudine o di negligenza. Il
racconto di Pietro di Vaux de Cernay dell'ultima messa sentita dal suo eroe sembra tratto da
qualche pio racconto cavalleresco; se è veridico, è abbastanza commovente. I messaggeri fanno
fretta al conte (Simone di Montfort) perché corra all'assalto. Lui non si muove e dice:
«Permettete che io assista ai divini misteri e che prima partecipi al sacramento, pegno della
nostra redenzione». E quando un altro messaggero di nuovo lo invita ad affrettarsi, dicendo
«Presto, il combattimento si fa più acceso, e i nostri non possono reggere a lungo lo sforzo», il
conte risponde: «Non uscirò prima di aver contemplato il Redentore». Poi, davanti al calice
levato, tende le braccia e recita il "Nunc dimittis", aggiungendo: «Andiamo, se è necessario
morremo per colui che si è degnato di morire per noi (4)». Questa scena, forse, è stata
totalmente inventata da un narratore che sapeva come, effettivamente, Simone sarebbe morto
qualche istante dopo; essa non ha nulla di inverosimile - per un soldato i momenti che
precedono qualsiasi battaglia sono una preparazione alla morte. Si potrà dire che la pietà di un
uomo come Simone di Montfort può sembrare un oltraggio alla religione; ma è difficile negare
l'intensità di una simile pietà.
Detto questo, bisogna riconoscere che i soldati di Cristo difficilmente avrebbero potuto
scegliersi un capo meno degno del nome di cristiano.
Nel 1210, dopo la presa di Bram, che gli aveva resistito per tre giorni, Simone di Montfort,
catturata la guarnigione - oltre cento uomini in tutto - fece strappare loro gli occhi, tagliare il
naso e il labbro superiore. A uno solo venne lasciato un occhio: Simone lo incaricò di guidare i
suoi compagni, ciechi, a Cabaret, per seminare il panico fra quanti difendevano questo castello.
Si è detto che lo stesso trattamento era stato inflitto a due cavalieri francesi, e che un
invasore straniero, sempre numericamente inferiore, è costretto a rappresaglie feroci per farsi
rispettare. Simone di Montfort non ha inventato le leggi della guerra, e le mutilazioni dei
prigionieri erano un mezzo sicuro per spaventare gli avversari. I morti non si muovono e
vengono dimenticati presto; la vista di un uomo con gli occhi strappati e il naso tagliato può
provocare un'agghiacciante paura anche nei più coraggiosi. Ai prigionieri si tagliavano anche le
mani, i piedi, le orecchie... Trattamenti simili, in genere, venivano inflitti a mercenari, che
nessuno si preoccupava di vendicare, ma che servivano ugualmente da spauracchio. In una
guerra come questa, una delle più feroci del medioevo, ci furono da ambo le parti cavalieri
scorticati vivi, fatti a pezzi, mutilati; la fede, il patriottismo o la vendetta legittimavano qualsiasi
crudeltà. Dopo la presa di Béziers pare che un clima di totale disprezzo del nemico si sia
stabilito fra i due schieramenti contrapposti. Questa guerra guidata dai cavalieri non era una
guerra cavalleresca, ma una lotta mortale.
Simone di Montfort, che non aveva responsabilità nel massacro di Béziers, venne lasciato
solo in un paese che conservava troppo bene il ricordo delle recenti imprese dell'armata
crociata; egli seppe rendersi degno di quest'eredità di odio e di paura che gli fu consegnata
insieme al titolo di visconte. Ciononostante, tenuto conto delle sue indiscutibili capacità di
comandante e dell'ammirazione che il suo coraggio suscitava anche fra i suoi peggiori nemici,
forse avrebbe potuto trovare il modo di farsi odiare un po' meno. La cavalleria occitana non
differiva sostanzialmente da quelle degli altri paesi. Per popolare che fosse, Raimondo Ruggero
Trencavel aveva un discreto numero di vassalli scontenti: i piccoli feudatari erano spesso e
facilmente insoddisfatti. Quelli che nell'agosto del 1209 avevano prestato giuramento a Simone
avrebbero potuto diventare suoi alleati fedeli se il nuovo signore avesse mostrato più tatto. Nei
primi anni di guerra la brutalità di Simone ha indubbiamente fatto più patrioti di quanti non ne
abbiano fatti il coraggio e la sventura del giovane visconte Raimondo Ruggero.
Simone di Montfort non poteva ovviamente essere «generoso»: non aveva soldi. Ma almeno
avrebbe potuto essere cortese e pare che con i suoi nuovi vassalli - indubbiamente non facili -
abbia mancato di pazienza. Così, dopo la defezione di Guglielmo Cat, cavaliere di Montréal, lo
si sentì gridare: «Non voglio più aver a che fare con gli uomini di questa maledetta razza
provenzale! (5)». E' vero che allora si trovava nel paese ormai da anni e ne aveva abbastanza
degli incessanti 'tradimenti' e defezioni di coloro che considerava suoi vassalli. Ma, fin dal
principio, aveva preteso di porsi come legittimo e indiscutibile padrone di una terra sulla quale
non aveva alcun diritto; aveva distribuito largamente ai suoi cavalieri, alle abbazie, agli ordini
monastici i beni dei signori "faidits", ossia di quanti avevano preferito fuggire abbandonando i
loro castelli piuttosto che patteggiare con l'invasore. Anziché mostrare un particolare riguardo
per i signori occitani che si erano alleati con lui - ed erano molti - li aveva trattati (la sua
invettiva contro la maledetta razza provenzale ne fa fede) da inferiori, ferendone continuamente
la suscettibilità.
Quando volle fare il legislatore, tentò, con lo statuto di Pamiers, di impiantare in Linguadoca
le leggi e le usanze francesi, senza pensare quanto una decisione simile fosse vessatoria per un
popolo appassionatamente attaccato alle sue tradizioni, incline a vedere un sopruso intollerabile
nella minima infrazione ai suoi costumi. Si può fare la guerra senza trattare gli avversari come
un popolo colonizzato.
Ma più che con le sue scelte inopportune, con la sua ristrettezza di spirito, tipica del
professionista della guerra, e con la sua ambizione, che lo avrebbe condotto a prendere la
crociata per una guerra di conquista da cui trarre solo vantaggi, è con la sua crudeltà che
Simone di Montfort compromise per sempre la causa della crociata - per quanto potesse essere
ulteriormente compromessa. Crudeltà obbligata, necessaria, calcolata. Crudeltà che nondimeno
ha sorpreso i contemporanei e scandalizzato persino un fanatico ammiratore come Pietro di
Vaux de Cernay che, parlando dei cento prigionieri di Bram, si sente in dovere di scusare il
«nobile conte» affermando che qui egli non agiva per piacere, ma per necessità: i suoi nemici
«dovevano bere il calice che avevano preparato agli altri (6)». Se il principio era lo stesso, è
chiaro che c'era una terribile differenza fra il mutilare due uomini e il mutilarne cento. Per agire
in questo modo, l'uomo doveva essere naturalmente, profondamente crudele.
A Biron, Martino d'Algais, che aveva tradito Simone due volte, venne messo alla berlina,
coperto con un drappo nero, insultato, solennemente spogliato del titolo di cavaliere; poi fu
attaccato alla coda di un cavallo e trascinato di fronte all'esercito schierato; infine, quel che
restava di lui fu impiccato a una forca. E' vero che Martino d'Algais era capo di una banda di
"routiers" della Navarra, quindi era un personaggio che, nella gerarchia militare, meritava meno
riguardi di un cavaliere locale. Tuttavia, i dettagli del supplizio inflittogli danno ugualmente
un'idea sinistra dell'uomo che si era dilettato a organizzare questa macabra cerimonia.
Nelle guerre condotte in seguito in difesa della sua fede, Simone avrebbe presieduto a tre
grandi esecuzioni di 'perfetti'; a Minerve avrebbe addirittura visitato in carcere i condannati, per
invitarli alla conversione. Se con le sue vittorie rese possibili i roghi, la responsabilità di aver
bruciato gli eretici spetta ai legati. Il capo dei crociati dovette tuttavia condividere «la gioia
intensa» che, secondo la testimonianza di Pietro di Vaux de Cernay, i soldati di Cristo
provavano dinnanzi a quel terribile spettacolo.
Saccheggi, massacri, incendi, distruzioni sistematiche dei raccolti, delle vigne, del bestiame:
questa tattica di guerra, vecchia quanto il mondo, venne applicata da Simone di Montfort su
vasta scala in un paese che, in teoria, egli considerava suo dominio. Sembra sia riuscito a
restare così a lungo in Linguadoca solo per causare danni maggiori, per distruggere fino in
fondo la vita economica del paese. Tutto sommato, il crimine principale di Simone di Montfort
fu forse di essere stato un soldato troppo abile, e di non essere stato altro che questo: in quanto
comandante militare ha fatto tutto quanto ci si poteva attendere da lui, andando ben al di là
delle speranze dei suoi capi spirituali e rendendo concretamente possibile la distruzione
dell'eresia tramite l'indebolimento delle forze fisiche e morali del paese.
Non è possibile, nel quadro della presente opera, raccontare nei dettagli la storia delle
campagne di Simone di Montfort; bisogna accontentarsi di seguirne le tappe principali, in
parallelo all'attività dei suoi alleati e dei suoi avversari. Mentre, con un'energia degna di
migliore impiego, svolgeva il suo compito di soldato e di conquistatore, il papa cercava di
controllare gli eventi e lanciava nuovi appelli alla crociata; i legati manovravano per trovare il
modo di estendere il loro dominio sull'intero paese; il conte di Tolosa e i grandi baroni del
Mezzogiorno preparavano un piano di difesa.
Come abbiamo visto, i primi mesi della crociata, pur portando alla Chiesa un successo
insperato, le avevano dato coscienza della difficoltà dell'impresa. Il risultato concreto più
apprezzabile della campagna era la eliminazione di Raimondo Ruggero Trencavel e l'elezione
di un barone cattolico al titolo di visconte di Béziers. Ma il legittimo possessore di quelle terre
era ancora in vita; non bisognava lasciarvelo a lungo. Il 10 novembre 1209, dopo tre mesi di
prigionia, Raimondo Ruggero morì di dissenteria. Che sia stato avvelenato o che sia perito per
il rigore del carcere e la mancanza di cure, non si può in alcun modo ritenere che la sua morte
sia stata naturale: i suoi carcerieri avevano fatto il possibile per accorciargli la vita, ed erano
riusciti a raggiungere lo scopo in un tempo singolarmente breve. Il visconte era un uomo di
ventiquattro anni, che prima di essere gettato in prigione si trovava nel pieno delle forze e
dell'energia.
Egli lasciava un figlio di due anni; dieci giorni dopo la morte del marito, la vedova, Agnese
di Montpellier, concluse con Simone di Montfort un accordo in base al quale ella rinunciava ai
suoi diritti e a quelli di suo figlio in cambio di venticinquemila soldi di Melgueil e di una
rendita annuale di tremila lire. La viscontea di Béziers, da quel momento, aveva come unico
signore legittimo il Montfort. Ma il re Pietro Secondo d'Aragona non confermò il nuovo
vassallo nei suoi diritti e parve poco ansioso di ricevere da lui l'omaggio feudale. Numerosi
vassalli di Raimondo Ruggero, costernati dalla notizia della sua morte, si rivoltarono, e diedero
l'assalto ai castelli nei quali Simone aveva lasciato solo piccole guarnigioni. Uno dei signori che
si erano alleati con l'invasore, Guiraud di Pépieux, per vendicare la morte di un suo zio, ucciso
da un cavaliere francese, conquistò grazie a un'azione a sorpresa il castello di Puisserguier, dove
Simone aveva lasciato due cavalieri e cinquanta uomini; e quando quest'ultimo marciò verso il
castello insieme al visconte di Narbonne e alla sua milizia di cittadini, questi si rifiutarono di
attaccare e se ne andarono. A Castres la cittadinanza si rivoltò, sopraffacendo la guarnigione. In
pochi mesi Simone perse oltre quaranta castelli, i suoi uomini erano scoraggiati, le sue casse
vuote. Il conte di Foix, che in un primo tempo aveva tenuto un atteggiamento neutrale, riprese
ai crociati il castello di Preixan e tentò di conquistare Fanjeaux.
Nel frattempo il papa confermò solennemente Simone in tutti i suoi possedimenti e gli fece
dono dei beni sottratti agli eretici.
Per Simone di Montfort il compito era chiaro: si trattava di sottomettere le piazzeforti che
dominavano le strade principali, ottenere l'omaggio dei grandi vassalli della sua viscontea,
impedire al nemico di riorganizzare le sue forze. Agli inizi del 1210 ricevette dei rinforzi: in
marzo sua moglie Alice di Montmorency gli portò alcune centinaia di soldati, che gli resero
possibile riconquistare alcuni castelli, impiccare dei 'traditori', punire in modo ancor più crudele
la guarnigione di Bram e marciare su Minerve, una delle più grandi fortezze del paese, nonché
capitale della regione circostante. Abile nello sfruttare la vecchia ostilità fra il visconte di
Minerve, Guglielmo, e gli abitanti della regione di Narbonne, si assicurò l'alleanza di questi
ultimi. Giunto davanti a Minerve in piena estate (nel giugno del 1210), riuscì a piegare i
difensori con la fame e la sete, quindi trattò la capitolazione con Guglielmo. In questa fase -
dettaglio significativo - i legati Teodosio e Arnaldo Amalrico intervennero nel mezzo del
negoziato, rimproverandogli di mostrarsi troppo conciliante. Indubbiamente, con il buon senso
del soldato, Simone pensava che, prima di intraprendere una sistematica repressione dell'eresia,
bisognava essere solidamente impiantati nel paese; in ogni caso, durante la campagna contro
Minerve, egli sembra aver frenato lo zelo dei legati. Ora, un gran numero di 'perfetti' e 'perfette'
si erano rifugiati entro Minerve; Arnaldo Amalrico lo sapeva, e temeva che una mossa sbagliata
di Simone privasse la Chiesa di una preda così interessante. Durante le trattative l'abate di
Cîteaux, imbarazzato di mostrarsi più severo del suo spietato compagno - perché «se desiderava
la morte dei nemici di Cristo, non osava condannarli a morte, essendo monaco e sacerdote» -
ricorse a uno stratagemma che fece rompere la tregua. Minerve si arrese, e gli occupanti ebbero
salva la vita in cambio della sottomissione alla Chiesa; gli eretici, beninteso, dovevano scegliere
fra l'abiura e la morte.
In proposito Pietro di Vaux de Cernay riporta l'opinione di uno dei migliori capitani di
Simone, Roberto di Mauvoisin: questo buon cavaliere trovava inammissibile che una scelta
simile venisse consentita ai 'perfetti', che avrebbero potuto scampare la morte simulando una
abiura; aveva preso la croce per «perdere» gli eretici, non per graziarli. L'abate di Cîteaux lo
rassicurò: «Non temete, credo che ben pochi si convertiranno (7)». L'abate di Vaux de Cernay,
zio dello storico, e Simone di Montfort in persona tentarono però di convertire i condannati.
Non avendo ottenuto nulla, «furono fatti uscire dal castello e, preparato un gran fuoco, vi
furono gettati insieme centoquaranta e più di questi eretici 'perfetti'. Non fu necessario che i
nostri li spingessero perché, ostinati nella loro malvagità, tutti si precipitarono con gioia nel
cuore delle fiamme. Tuttavia vennero risparmiate tre donne che, sottratte al rogo dalla
nobildonna madre di Boccardo di Marly, vennero riconciliate con la santa Chiesa romana (8)».
Minerve vide quindi il primo grande rogo di eretici. Ciononostante, in questa grande guerra
condotta contro l'eresia, gli eretici in quanto tali non sembrano aver avuto alcun ruolo; si viene
a sapere solo che in un tale o talaltro castello molti di loro avevano trovato rifugio; in caso fosse
preso, essi venivano mandati al rogo. Evidentemente si trattava solo dei 'perfetti', ossia degli
uomini e delle donne che già avevano solennemente abiurato la fede cattolica, e che ispiravano
ai crociati una sorta di orrore sacro; queste esecuzioni di massa, volute e approvate dalla
Chiesa, erano comunque atti di giustizia sommaria, senza procedimento e senza giudizio,
imputabili alla presenza di un esercito vittorioso e fanatico.
Ci è difficile immaginare la forza delle credenze e delle superstizioni di questa gente, e fino
a che punto considerassero reale lo spirito del male che pensavano abitasse nei nemici della
Chiesa. Quanti si erano dati corpo e anima alla fede eretica non erano più esseri umani, bensì
creature infernali; e questo spiega le volgari leggende sulle orge e gli abomini ai quali i catari si
sarebbero abbandonati. La fantasia popolare, andando più in là della Chiesa, deturpava e
sfigurava a piacere l'immagine di questi reietti, sapendo spiegare il loro errore solo con una
qualche sovrumana forma di depravazione. Di qui la «gioia» dei pellegrini dinnanzi ai roghi:
essi non credevano di punire dei criminali, credevano di veder annientare dal fuoco purificatore
una potenza diabolica.
I 'perfetti' non erano molti; i semplici credenti erano una legione; e in fondo, per i crociati,
chiunque proteggesse i 'perfetti', e persino chi non fosse loro alleato, era un potenziale eretico.
Si trattava di cattolici solo in apparenza, che si sottomettevano, giuravano fedeltà alla Chiesa, e
attaccavano, massacravano i soldati di Cristo dove e quando potevano; si ritiravano nei loro nidi
d'aquila da dove minacciavano incessantemente i distaccamenti crociati; si rivoltavano contro
l'autorità degli occupanti nei borghi e nelle città. Bisognava combattere non gli eretici, ma un
intero paese, fautore dell'eresia.
L'estate del 1210 portò nuovi contingenti crociati. Il forte castello di Termes cadde dopo un
lungo assedio cui presero parte i vescovi di Beauvais e di Chartres, il conte di Ponthieu,
Guglielmo, arcidiacono di Parigi, noto per le sue capacità ingegneristiche, e numerosi pellegrini
francesi e tedeschi. L'assedio fu duro. «Se si voleva raggiungere il castello - dice Pietro di Vaux
de Cernay - bisognava prima precipitare nell'abisso poi, per così dire, strisciare verso il cielo
(9)». Raimondo, signore di Termes, era un valido guerriero, la sua guarnigione era forte ed
effettuò numerose sortite, mortali per gli assedianti. Nel campo crociato mancavano i viveri, e
lo stesso Simone di Montfort talvolta non aveva «nulla da mettere sotto i denti». L'estate era
torrida e i nuovi crociati parlavano di ripartire ancor prima dello scadere dei quaranta giorni.
Quando la sete costrinse gli assediati a negoziare, il vescovo di Beauvais e il conte di Ponthieu
levarono le tende; solo il vescovo di Chartres acconsentì a restare ancora qualche giorno,
commosso dalle suppliche della contessa Alice, moglie del Montfort. Alcune piogge torrenziali
riempirono le cisterne del castello, ove si riorganizzò la difesa mentre l'esercito crociato era
meno che dimezzato; solo un'epidemia sopraggiunta per l'inquinamento dell'acqua costrinse
Raimondo di Termes ad abbandonare il castello con i suoi uomini, di notte. Catturato, venne
gettato in una segreta dove sarebbe morto qualche anno dopo.
L'assedio era durato oltre tre mesi. Simone era nuovamente padrone della situazione, il suo
prestigio era aumentato, ma di nuovo gli effettivi a sua disposizione erano ben pochi: come si
vede, i rinforzi inviatigli dalla propaganda papale non erano né molto regolari né sicuri.
Secondo Pietro di Vaux de Cernay, Dio volle che molti peccatori potessero lavorare per la loro
salvezza partecipando alla crociata, e perciò permise che questa guerra durasse tanti anni; ma
questi peccatori erano veramente molto più preoccupati per la loro salvezza che per il buon
esito della crociata. Andavano e venivano a piacere, e Simone era costretto ad adattare i piani
delle sue campagne al volere dei cacciatori di indulgenze.
Questi pii personaggi (come il vescovo di Beauvais, Filippo di Dreux, futuro eroe di
Bouvines, che durante gli scontri si serviva di una mazza ferrata, non volendo, per scrupolo
verso il suo stato ecclesiastico, usare la spada o la lancia) adempivano a modo loro ai doveri
religiosi, ma non si preoccupavano di sapere in che modo si potesse combattere efficacemente
l'eresia; forse non avrebbero chiesto di meglio che avere a lungo degli eretici a portata di mano,
in modo da poter ottenere nuove indulgenze. Ma le autorità della Chiesa, e in particolare i
legati, più realisti e più lucidi, sapevano che per venire a capo dell'eresia non bastavano le armi,
ma era necessaria anche l'estensione dell'influenza politica dei cattolici sul paese.
Ora, primo signore della Linguadoca restava il conte di Tolosa, e sulle sue terre, come su
quelle dei suoi potenti vassalli, i conti di Foix e di Comminges, si trovavano allora i grandi
centri di diffusione dell'eresia. La tattica del terrore, inaugurata a Béziers, aveva spinto i
'perfetti' e i loro più devoti seguaci a rifugiarsi in province nelle quali non erano direttamente
esposti; e se, nel 1210, nei territori del visconte di Béziers si rifugiavano ancora molti 'perfetti'
(centoquaranta erano stati presi a Minerve, e quattrocento lo sarebbero stati a Lavaur), le
località non ancora investite dalla guerra divenivano i centri di una resistenza catara tanto più
attiva quanto più le crudeltà commesse dai crociati aumentavano nel popolo la simpatia verso
quella Chiesa perseguitata. Per colpire l'eresia quindi bisognava, in primo luogo e soprattutto,
abbattere il conte di Tolosa.
2. IL CONTE DI TOLOSA.
Nel settembre 1209 i legati Milone e Ugo, vescovo di Riez, indirizzarono a Innocenzo Terzo
una requisitoria contro Raimondo Sesto che - dicevano - non aveva rispettato nessuno degli
impegni verso la Chiesa presi all'atto della sua riconciliazione, a Saint-Gilles. Ora questi
impegni, e in particolare quelli concernenti l'indennizzo delle abbazie saccheggiate e la
distruzione delle fortificazioni, erano difficili da mantenere. Il conte in persona partì per
perorare la sua causa, e dopo una sosta a Parigi, dove fece confermare la sovranità regale sui
suoi domini, venendo ricevuto con onore, arrivò Roma nel gennaio del 1210 e ottenne udienza
dal papa.
Milone (che poco dopo sarebbe morto improvvisamente a Montpellier) scrisse al papa del
conte: «Diffidate di questa lingua abile a distillare la menzogna e l'oltraggio». Raimondo, in
effetti, protestò dinnanzi a Innocenzo Terzo la purezza della sua fede, e accusò i legati di
accanirsi contro di lui per risentimento personale. «Raimondo conte di Tolosa - scrisse il papa
agli arcivescovi di Narbonne e di Arles e al vescovo di Agen - si è presentato dinnanzi a noi, si
è lamentato dei legati, che l'avrebbero maltrattato benché avesse già adempiuto la maggior parte
degli obblighi cui il compianto Milone, nostro notaio, l'aveva assoggettato...». E' probabile che
il papa abbia trattato il conte con una certa accondiscendenza; infatti persino Pietro di Vaux de
Cernay dice: «Il signor papa pensava che, costretto alla disperazione, il suddetto conte avrebbe
attaccato la Chiesa più crudelmente e più apertamente... (10)».
Forse il papa, sia per interesse sia per timore, cercava di attirare Raimondo Sesto nel campo
degli alleati della Chiesa. Non è improbabile che egli abbia persino provato una qualche
simpatia personale per questo gran signore, brillante e colto; ma non era uomo da orientare la
sua politica in base alle simpatie o alle antipatie. Nelle sue lettere ai vescovi e all'abate di
Cîteaux egli presentava la sua relativa indulgenza nei confronti del conte come un espediente
destinato a ridurre la diffidenza dell'avversario. Come gli aveva un tempo affiancato Milone,
inviò ad Arnaldo Amalrico il maestro Teodosio, scrivendogli: «Egli [Teodosio] sarà come un
amo che userete per prendere nell'acqua il pesce, cui è necessario, con un prudente artificio,
nascondere il ferro per il quale prova orrore... (11)» (ove il ferro era lo stesso abate di Cîteaux).
Arnaldo Amalrico non si considererà sconfitto, tutt'altro; poiché il papa gli raccomandava di
permettere al conte di giustificarsi sul piano canonico, e di condannarlo in caso avesse rifiutato,
si trattava di non lasciare a Raimondo Sesto la possibilità di giustificarsi. «Maestro Teodosio era
un uomo cauto e prudente, pieno di zelo per gli interessi di Dio. Desiderava ardentemente
"trovare un mezzo legale per non ammettere il conte a provare la sua innocenza". Poiché ben
sapeva che se si autorizzava il conte a discolparsi, ciò che avrebbe potuto fare con l'astuzia o la
falsità, l'intera opera della Chiesa in questo paese sarebbe stata distrutta (12)». E' difficile
esprimersi più chiaramente. Questa esplicita confessione di malafede mostra quale pericolo il
conte rappresentasse agli occhi dei legati.
Raimondo Sesto fu dunque chiamato a giustificarsi dinnanzi a un concilio riunito a Saint-
Gilles, entro il termine di tre mesi. Doveva provare che non era colpevole di eresia, e che non
era responsabile dell'assassinio di Pietro di Castelnau. Ma poiché le due cose non dovevano
essere difficili da dimostrare, ci si rifiutò di ascoltarlo, con il pretesto che non aveva rispettato
gli impegni presi su altri punti di minor peso (ossia che non aveva cacciato gli eretici dalle sue
terre, che non aveva licenziato le sue truppe di mercenari, né abolito i pedaggi che gli si
contestavano) e che, essendo spergiuro su questioni secondarie, non sarebbe stato credibile su
quelle principali. Il pretesto non reggeva, ma poco importava. Il conte, tuttavia, mostrò molta
buona volontà, proclamò la sua totale sottomissione e chiese solo un giudizio formale;
giuridicamente la ragione stava dalla sua parte, tanto che persino il papa dovette riconoscerlo,
abbastanza a malincuore, scrivendo a Filippo Augusto: «Sappiamo che il conte non si è
giustificato, ma ignoriamo se ciò sia accaduto per sua colpa...».
Raimondo cercò di prendere tempo, di accordarsi con Simone di Montfort; alla fine del
gennaio 1211 incontrò il nuovo visconte a Narbonne, alla presenza del re d'Aragona e del
vescovo di Uzès. Pietro Secondo tentò di giocare il ruolo del mediatore, accettando infine dalle
mani di Simone l'omaggio che aveva così a lungo rinviato. Più tardi concluse addirittura un
accordo di matrimonio fra suo figlio Giacomo, di quattro anni, e Amicia, la figlia di Simone di
Montfort, affidando a quest'ultimo la tutela del bambino. Al contempo diede sua sorella Sancia
in sposa a Raimondo, figlio del conte di Tolosa (l'altra sua sorella, Eleonora, era già moglie di
Raimondo Sesto: il giovane Raimondo diventava così cognato di suo padre).
Pietro Secondo tentò di rabbonire Simone di Montfort, forse nella speranza di fargli capire
che il suo interesse, in quanto visconte di Béziers, sarebbe stato di vivere in buoni rapporti con i
vicini. Ma mostrò anche il suo attaccamento al casato di Tolosa, pensando di mettere in tal
modo Raimondo Sesto al riparo dai fulmini della Chiesa: la questione albigese non era certo
l'unica preoccupazione del papa, e il re d'Aragona era, in Spagna, il gran campione della
cristianità nella lotta contro i Mori.
I negoziati proseguirono. Il conte non intendeva rinunciare al suo atteggiamento di figlio
obbediente della Chiesa. I legati non potevano impedirgli per un tempo indefinito di provare la
sua innocenza. Bisognava fare in fretta, bisognava, prima dell'arrivo dei nuovi rinforzi crociati,
forzare la mano a quest'avversario che cominciava a passare per un giusto perseguitato.
Ci riuscirono: ad Arles, ove si teneva un concilio (menzionato solo da Guglielmo di Tudèle),
Raimondo Sesto ricevette dai legati una specie di ultimatum, ove si specificavano le condizioni
da adempiere per ottenere il perdono per i crimini dei quali si protestava innocente. Queste
condizioni sono tali che taluni storici hanno potuto pensare si trattasse di una fantasiosa
invenzione del cronista. Costui racconta che Raimondo Sesto e il re d'Aragona dovettero
attendere fuori, al freddo, «al vento», la comunicazione del documento elaborato dai legati. E'
verosimile una tale mancanza di rispetto verso signori tanto potenti? E' possibile che Arnaldo
Amalrico abbia cercato di esasperare l'avversario in tutti i modi: quanto sappiamo del carattere
di quest'uomo ce lo mostra violento e poco rispettoso delle autorità laiche.
Il conte si fece leggere ad alta voce il documento, poi disse al re: «Venite, sire, e ascoltate
questa carta, e lo strano comandamento al quale i legati mi ingiungono di obbedire». Il re disse:
«Ecco chi ha bisogno di essere reso migliore dal Padre onnipotente (13)». Era il minimo che si
potesse dire. Questo documento ordinava al conte, beninteso, di cacciare i mercenari, di non
proteggere più gli ebrei e gli eretici, di consegnare questi ultimi «entro un anno»; inoltre il
conte, i suoi baroni, i suoi cavalieri, non dovevano mangiare «più di due tipi di carne», non
dovevano più vestirsi «di stoffe preziose», ma «di grezze cappe brune», dovevano
integralmente distruggere i loro castelli e le loro fortezze, non abitare più in città, ma solo in
campagna «come i contadini»; non avrebbero dovuto opporre alcuna resistenza ai crociati in
caso di attacco; infine il conte avrebbe dovuto attraversare il mare e restare in Terra Santa
quanto sarebbe piaciuto ai legati. Le condizioni di questo trattato sono tali che si potrebbe quasi
sospettare che fossero state inventate dal conte stesso per giustificare la sua rottura con i legati -
se egli avesse avuto interesse a giungere a questa rottura; ma è invece evidente che egli cercava
con ogni mezzo di evitarla.
Pietro di Vaux de Cernay non parla di questo documento, ma sostiene che il conte - il quale
«come i Saraceni credeva nel volo e nel canto degli uccelli, e in altri presagi (14)» - sarebbe
partito improvvisamente, sconvolto da un presagio sfavorevole; ciò che quadra male con il
carattere del personaggio. Il panegirista della crociata non vuole far ricadere sui legati la
responsabilità di questa brusca partenza, che in ogni caso si spiega solo con una loro
provocazione.
Dopo aver ascoltato quanto gli si chiedeva, il conte partì per Tolosa, «senza salutare i legati»,
con in mano il documento che fece leggere ovunque, «perché lo conoscessero chiaramente i
cavalieri, i cittadini, e i sacerdoti che cantano la messa». Era la dichiarazione di guerra. I legati
scomunicarono il conte, decretando che i suoi domini fossero lasciati al primo occupante (6
febbraio 1211). Fecero ricadere su di lui la colpa dell'interruzione dei negoziati, e il 17 aprile il
papa ratificò la scomunica.
Il conte, malgrado il mutamento del suo umore e malgrado la pubblicità che diede
all'oltraggio di cui era stato vittima, non aveva comunque alcuna voglia di battersi. Era,
decisamente, un sovrano pacifico, e dopo tutto è difficile biasimarlo per aver voluto, a qualsiasi
prezzo, evitare al suo popolo la sventura di una guerra. Avrebbe cercato di risistemare le cose
fino all'ultimo: la sua instancabile buona volontà dovette esasperare i legati più di una politica
aggressiva.
Simone di Montfort continuava la sua metodica conquista dei domini dei Trencavel.
L'imprendibile castello di Cabaret si arrese prima di essere cinto d'assedio. Padrone di Cabaret,
Simone marciò su Lavaur con nuovi, importanti rinforzi: questa città fortificata, che prendeva il
nome dal suo castello, venne presa dopo un assedio lungo e penoso. Lavaur era difesa da
Emerico di Montréal, fratello della castellana, Guiraude di Laurac. Questa era figlia della
celebre 'perfetta' Bianca di Laurac ed era una delle più nobili dame del paese, persona
rispettabilissima, una di quelle vedove 'credenti' che consacravano la loro vita alla preghiera e
alle opere pie; era ancor più nota per la sua carità che per la sua dedizione alla Chiesa catara.
Lavaur si difendette eroicamente per oltre due mesi, fu presa d'assalto, le sue mura vennero
smantellate con le macchine da guerra e con il lavoro degli zappatori. Emerico di Montréal, che
inizialmente era stato alleato del Montfort, venne impiccato come traditore insieme a ottanta
cavalieri; poiché il patibolo, costruito in tutta fretta, crollò, parte di questi sventurati vennero
semplicemente sgozzati. Questi signori sottomessi con la forza, che approfittavano della prima
occasione per scalzarsi di dosso il giogo dell'invasore, eccitavano un odio del tutto particolare
in Simone, che sembrava non vedere alcuna differenza fra il giuramento di fedeltà prestatogli
dai suoi piccoli vassalli di Chanteloup o di Grosrouvre e una sottomissione imposta con la
paura a dei vinti. Emerico di Montréal, primo signore del Lauraguais, per due volte aveva
stretto alleanza con Simone. Come si è detto sopra, i crociati non erano, agli occhi delle
popolazioni del Mezzogiorno della Francia, avversari degni di stima, e i cavalieri occitani il più
delle volte si sottomettevano solo nell'intento di prendersi meglio la rivincita. Ma Simone di
Montfort aveva un modo del tutto personale di intendere la lealtà: «Mai nel mondo cristiano un
così alto barone venne impiccato insieme a così tanti suoi cavalieri (15)».
All'interno della città di Lavaur si trovavano quattrocento 'perfetti', uomini e donne; è
perlomeno quanto possiamo supporre, visto che quattrocento persone vi furono bruciate come
eretiche, dopo l'ingresso dell'esercito crociato. Si tratta di un numero sorprendente; tuttavia,
esso potrebbe costituire una testimonianza della bontà e del coraggio di Guiraude, la castellana
di Lavaur, che non aveva temuto di fare della sua fortezza il rifugio dei 'buonuomini'. Questa
gran dama dovette pagare cara la sua devozione: in disprezzo di ogni legge della guerra e della
cavalleria, fu abbandonata alla brutalità dei soldati, che la trascinarono fuori del castello e la
gettarono in un pozzo, dove fu lapidata e infine seppellita sotto le pietre. «Fu cosa dolorosa, un
peccato, poiché sappiate che nessuno mai l'aveva lasciata senza aver fatto un buon pasto (16)».
I quattrocento eretici furono condotti sul prato dinnanzi al castello, ove i pellegrini nel loro
fanatismo avevano rapidamente ammassato un immenso rogo. I quattrocento furono bruciati
"cum ingenti gaudio", e mostrarono un coraggio che i loro carnefici attribuirono a un
incredibile indurimento nel crimine. Fu il più grande rogo di tutta la crociata. Dopo Lavaur
(1211) e dopo la presa di Cassès, il mese seguente, quando vennero bruciati sessanta eretici, i
'perfetti' per sfuggire alle persecuzioni trovarono rifugi differenti dai castelli fortificati.
Va notato che questi uomini, che salivano sul rogo con una serenità che avrebbe scosso la
fede di avversari meno fanatici, non cercavano minimamente il martirio e facevano il possibile
per scampare alla morte. Non supplicavano i carnefici - come san Domenico - di torturarli e di
mutilarli; non erano degli esaltati avidi di conquistarsi una 'corona', ma dei combattenti che
tenevano a vivere per poter continuare il loro apostolato. Solo quando cadevano nelle mani del
nemico, e quando si ingiungeva loro di scegliere fra l'abiura e la morte, essi mantenevano sino
alla fine la promessa fatta il giorno della loro ammissione nella Chiesa dei puri. Del resto
vedremo che furono anzi abilissimi a nascondersi, a depistare gli inseguitori. Ciò sembra
dimostrare che a torto li si è accusati di ricercare il suicidio: la crociata forniva loro una
magnifica occasione per farlo, e non ne hanno mai approfittato.
Le svariate centinaia di donne e di uomini bruciati vivi a Minerve, Lavaur e Cassès (circa
seicento) erano formate dai capi, dalle forze attive della Chiesa catara. I loro nomi non sono
citati in nessun documento. Si sa che alcune delle persone che avevano sostenuto le
controversie contro san Domenico e i suoi seguaci - Siccardo Cellerier, Guilberto di Castres,
Benedetto di Termes, Pietro Isarn, Raimondo Aiguilher e altri - sopravvissero ai primi dieci
anni di crociata. Se fra quanti vennero bruciati sul rogo a Minerve e Lavaur ci furono dei
vescovi, nessun documento lo riporta. E' probabile che i principali capi di questa Chiesa, dotata
già di un'organizzazione potente, abbiano cercato rifugio in luoghi diversi dai castelli fortificati,
luoghi strategici sempre presi di mira dal nemico, dove troppo facilmente potevano essere presi
in trappola.
Si capisce allora perché i legati pensassero che, se il conte di Tolosa fosse stato autorizzato a
discolparsi, «tutta l'opera della Chiesa in questo paese sarebbe stata distrutta»; perché Milone
avesse scritto al papa: «Se il conte ottenesse da voi la restituzione dei suoi castelli... tutto
quanto è stato fatto per la pace della Linguadoca sarebbe annullato. E allora sarebbe stato
meglio non cominciare l'impresa, piuttosto che abbandonarla in questo modo». Essi sapevano
che la Chiesa loro avversaria, galvanizzata dal pericolo, più combattiva che mai, aveva
trasferito il suo quartier generale nella regione di Tolosa, che il sangue dei martiri e la crescente
impopolarità dei crociati le restituivano un nuovo prestigio, forse mai raggiunto prima.
Abbiamo solo poche testimonianze sull'attività della Chiesa catara durante questi anni
terribili. Tuttavia i registri dell'Inquisizione riportano le confessioni di uomini che avevano
assistito a riunioni, a "consolamenta", a pranzi presieduti da 'perfetti', nel 1211, nel 1215... fin
nei dintorni di Fanjeaux, il principale centro della predicazione di san Domenico. I cronisti
dell'epoca non ci raccontano (e non per caso) come i vescovi catari mantenessero i legami con
le loro diocesi, che cosa predicassero, come lottassero contro la Chiesa che li perseguitava. Le
confessioni strappate dagli inquisitori ci danno un'idea molto vaga della loro attività: li si è
visti, li si è ascoltati, talvolta li si è aiutati; ed è tutto. Benché, probabilmente, avessero
incoraggiato i loro fedeli a difendersi, nessuna parola focosa, o semplicemente patriottica,
venne loro attribuita; nei verbali dei processi non traspare nulla della loro eloquenza, peraltro
celebre. O quanti li ascoltarono hanno saputo stare zitti, oppure i giudici non hanno ritenuto
opportuno parlarne.
Non si vede mai un 'perfetto' svolgere un qualsiasi ruolo, anche poco spettacolare, negli
innumerevoli movimenti di rivolta che si sviluppavano incessantemente in tutto il paese. Non ci
furono fra loro delle Giovanne d'Arco o dei Savonarola; questi combattenti tanto temuti dalla
Chiesa cattolica sembrano applicare alla lettera le parole di Isaia: «Non griderà, non alzerà la
voce, non la farà sentire per le strade... non romperà la canna spezzata...».
Fra questi uomini che godevano di un prestigio tanto grande, il cui ascendente doveva essere
enorme, nessuno ha cercato di farsi avanti, di innalzare la bandiera della sua Chiesa contro una
Chiesa odiata da tutti, di trascinare le masse verso una qualche contro-crociata vendicatrice.
Non si può non restare sorpresi dalla forza d'animo di questi pacifici fra i pacifici, che di fronte
a una tentazione tanto terribile, hanno saputo restare fedeli alla purezza della loro vocazione. Né
per paura né per mancanza di coraggio scelsero di rappresentare solo il ruolo dei martiri in quel
dramma sanguinario che fu la crociata: la loro forza, lo sapevano, non era di questo mondo.
Nemici della violenza, potevano lottare esclusivamente con armi spirituali, ben diverse da
quelle di una Chiesa nella quale lo spirituale e il temporale si erano talmente mescolati fra loro
che nemmeno i migliori erano più in grado di distinguerli. La lotta era troppo impari, e nel
momento in cui Arnaldo Amalrico poteva considerarsi espressione di una forza spirituale, in cui
san Domenico, rinunciando alla benedizione per il bastone, dava esca ai roghi, la Chiesa catara
diveniva, nel Sud della Francia, la sola vera Chiesa; e i 'buonuomini', venerati come santi,
potevano essere sicuri della complicità di tutto il paese.
Così, in quegli anni di tormento, Guilberto di Castres, figlio maggiore del vescovo cataro di
Tolosa, poi vescovo lui stesso, non cessò di percorrere le sue diocesi, di predicare, di ordinare
nuovi 'perfetti'. A predicatori meno noti doveva essere ancora più facile spostarsi per esercitare
l'apostolato. Non vennero mai traditi. I cavalieri del paese consideravano un onore scortarli e
proteggerli, i borghesi li nascondevano nelle loro case, gli artigiani e le donne del popolo si
dedicavano a portare i loro messaggi e ad assicurare il legame fra i fedeli.
La crociata poteva trionfare solo grazie a una conquista totale delle terre 'eretiche', e i legati
conoscevano troppo bene i loro avversari per farsi illusioni in proposito. «Per la pace della
Linguadoca» era necessaria la guerra a oltranza, e questi pacificatori rifiutarono tutti i tentativi
del conte di Tolosa che, anche dopo essere stato scomunicato, continuò a proporre loro una
composizione amichevole. Simone di Montfort penetrò nelle terre della contea di Tolosa nel
giugno del 1211, e il rogo di Cassès inaugurò questa nuova tappa della guerra santa. La
inestricabile situazione nella quale la Chiesa cattolica si era cacciata era tale che ogni nuova
vittoria diventava una sconfitta morale, che le alienava sempre di più i cuori di quanti voleva
ricondurre alla sua fede.
Il conte si era trincerato all'interno di Tolosa. La grande città, cuore del paese, centro di ogni
forma di resistenza, era da tempo l'obiettivo dei legati: non per nulla Raimondo Sesto, nelle
offerte di pace che aveva fatto loro aveva proposto di rimettere nelle loro mani tutti i suoi
domini "eccettuata la città di Tolosa". Padrone di Tolosa, egli restava sempre padrone del paese
che, pur provvisoriamente occupato dal nemico, avrebbe finito per raccogliersi intorno alla sua
capitale intatta e al suo legittimo sovrano. Simone di Montfort, quindi, doveva marciare su
Tolosa.
La crociata aveva sul posto un alleato temibile. Il vescovo Folco non era solo un feroce
partigiano delle misure più radicali contro gli eretici; era anche un uomo ambizioso, che
cercava di occupare nella città e nel vescovado quel ruolo primario di cui il conte, scomunicato,
si era reso indegno. Durante tutta la crociata agì come se Tolosa fosse un suo possesso
personale, come se egli si considerasse padrone non solo delle anime, ma anche dei corpi dei
Tolosani. Il suo fanatismo è ben noto: del resto aveva incoraggiato la missione di san Domenico
e già dal 1209 aveva creato nella sua diocesi un centro di predicazione cattolica, segnalandosi
per il suo zelo nella ricerca e nella punizione degli eretici.
La grande città, ove gli eretici erano venerati al punto che poteva accadere di vedere dei
cavalieri smontare da cavallo, in mezzo a una strada, incrociando un vescovo cataro (è quanto
fece nel 1203 Oliviero di Cuc dinnanzi al vescovo Gaucelmo), contava anche un buon numero
di cattolici. Come le grandi città italiane dell'epoca, anche Tolosa era sempre in preda a lotte
intestine, prive di una reale gravità, che vedevano le fazioni rivali affrontarsi e sfidarsi,
prendendo partito le une per il conte, le altre per i consoli, le altre per il vescovo. Tolosa
svolgeva nella Linguadoca il ruolo che Parigi avrebbe svolto, qualche secolo dopo, nella vita
della Francia: era più di una città, era un mondo, un simbolo, un centro d'irraggiamento, la testa
e il cuore della provincia. Tutte le tendenze, tutti i movimenti vi erano rappresentati, tutti vi
godevano dei diritti propri del cittadino, in una libertà spesso turbolenta ma reale. Il giorno in
cui venne nominato vescovo, Folco di Marsiglia faticò a farsi accettare dai suoi nuovi
parrocchiani. Ma, uomo eloquente ed energico, riuscì presto a raccogliere intorno a sé la
popolazione cattolica della città, e cinque anni dopo la nomina a Tolosa era una vera potenza,
non per il suo mandato di vescovo, ma per la sua influenza personale.
«Il vescovo Folco - dice Guglielmo di Puylaurens - cui stava molto a cuore di impedire che
tutti gli abitanti di Tolosa venissero esclusi dalla partecipazione alle indulgenze accordate agli
stranieri (ossia ai crociati), decise di unirli alla causa della Chiesa tramite una pia istituzione...
(17)». Questa pia istituzione non era altro che una confraternita di cattolici militanti incaricati di
un'attività apertamente terroristica: i membri di questa confraternita, chiamata Confraternita
bianca (perché gli affiliati portavano sul petto una croce bianca) infierivano contro gli usurai
(gli ebrei) e gli eretici della città e distruggevano le loro case «dopo averle saccheggiate». Le
vittime di questi attacchi si difesero, «guarnirono di merli le loro dimore» e da allora - dice lo
storico - «la divisione regnò nella città». Si formò un'altra confraternita, che aveva per fine la
lotta contro la Confraternita bianca, e che perciò si chiamò Confraternita nera. «Ogni giorno si
incontravano, con le armi in pugno, le bandiere spiegate, e persino con la cavalleria. Grazie al
vescovo, suo servo, il Signore era venuto a mettere fra loro non una cattiva pace, ma una buona
spada (18)».
Questo vescovo, che era già riuscito ad arruolare fra i membri della sua confraternita una
milizia di cinquecento Tolosani inviati a combattere insieme ai crociati davanti a Lavaur
malgrado la formale opposizione del conte, era a modo suo popolare. I suoi uomini andavano in
battaglia cantando pii 'sirventesi' da lui composti per l'occasione. La sua confraternita di fanatici
creava nella città un vero e proprio clima da guerra civile. Fin dall'inizio il vescovo era stato
nemico dichiarato del conte, cui rimproverava la tolleranza verso gli eretici. Dopo la nuova
scomunica del conte, il vescovo spinse apertamente i cittadini a rivoltarsi contro il loro signore.
Evidentemente egli si considerava, di diritto, il padrone della città.
Al conte, attaccato sulle sue terre, minacciato d'assedio, mancava solo un simile nemico
interno. Il giorno in cui Folco spinse la sua insolenza fino a invitare Raimondo a fare una
passeggiata fuori Tolosa, poiché la presenza in città di uno scomunicato gli impediva di
procedere a delle ordinazioni sacerdotali, il conte gli mandò a dire «di andarsene al più presto
da Tolosa e da tutto il territorio del suo dominio». Folco dapprima fece sfoggio del suo
coraggio: «Non è il conte di Tolosa - disse - che mi ha fatto vescovo, non è grazie a lui né per
lui che sono stato inviato in questa città; sono stato eletto dall'umiltà ecclesiastica, e non ci sono
venuto per la violenza di un principe; quindi non ne uscirò a causa sua. Che venga, se osa: sono
pronto a ricevere il pugnale, per guadagnare la maestà beata attraverso il calice della passione.
Sì, venga il tiranno con i suoi soldati e le sue armi, mi troverà solo e disarmato: attendo il
premio e non temo affatto quanto l'uomo può farmi (19)».
In realtà il capo della Confraternita bianca non era né solo né disarmato; e Raimondo Sesto
non teneva certo ad assumersi la responsabilità dell'assassinio di un vescovo. Il discorso di
Folco era dunque una bravata gratuita, e l'uomo aveva il senso della teatralità. Dopo qualche
giorno, finito di attendere un martirio o almeno una provocazione che non arrivava, e
probabilmente sentendo che la sua popolarità non poteva controbilanciare quella del conte,
lasciò la città e si diresse al campo dei crociati.
Tolosa, come abbiamo visto, non era una città eretica; i cattolici erano molti e influenti.
L'anno precedente i consoli avevano accompagnato il conte a Roma, per ottenere dal papa la
revoca dell'interdetto lanciato sulla loro città. I Tolosani tenevano a fare la pace con il loro
vescovo. Folco rispose con un ultimatum: dovevano rifiutare obbedienza al loro signore
scomunicato e cacciarlo da Tolosa, altrimenti la città sarebbe stata messa al bando dalla Chiesa.
Questa proposta venne respinta con indignazione, e Folco ordinò al clero di lasciare la città, a
piedi nudi, e portando il Santo Sacramento. L'interdetto venne nuovamente lanciato contro
Tolosa, che divenne la città eretica promessa alla spada dei crociati.
Simone di Montfort la cinse d'assedio, insieme a truppe crociate di rinforzo nelle quali
militavano il conte di Bar, il conte di Chalons e un gran numero di crociati tedeschi. La guerra
di Tolosa era già cominciata: il Montfort aveva già preso alcuni castelli dei dintorni, mandato al
rogo i sessanta eretici di Cassès, ottenuto la capitolazione di Baldovino, che dopo una bella
resistenza era passato al nemico per rancore verso il fratello maggiore, il conte Raimondo; e con
le truppe fresche portategli dal conte di Bar si credeva abbastanza forte per assediare Tolosa.
Capì ben presto il suo errore e levò le tende dopo appena dodici giorni di assedio; i quaranta
giorni di consegna dei crociati volgevano al termine e l'esercito era a corto di viveri.
Questo scacco, prevedibile ed evitabile dal punto di vista strategico, rappresentò però per
Simone una grossa perdita di prestigio: l'uomo che fino ad allora aveva trionfato ovunque aveva
dovuto ritirarsi davanti a Tolosa; la cavalleria occitana e le milizie cittadine cominciarono a
dirsi che il nemico non era invincibile. Un vento di coraggio e di speranza soffiava sul paese.
D'ora in avanti Simone non avrebbe più potuto accontentarsi di assediare i castelli uno dopo
l'altro, sarebbe stato attaccato da ogni lato, 'tradito' a ogni istante dai suoi nuovi vassalli,
sarebbe stato al contempo assediante e assediato, all'attacco e in fuga, in un succedersi
ininterrotto di scorrerie che l'avrebbero condotto da Pamiers a Cahors, dalla regione di Agen a
quella di Albi; talora respinto, mai battuto.
Lo scacco davanti a Tolosa spinse i crociati dapprima verso la contea di Foix, dove si
affrettarono a seminare il terrore, bruciarono Auterive, saccheggiarono i castelli, incendiarono i
borghi, strapparono le vigne. Avendo fallito a Foix, risalirono verso Cahors, il cui vescovo
reclamava per signore Simone, al posto dello scomunicato Raimondo. Ricevuta la
sottomissione di Cahors, Simone seppe che il conte di Foix aveva fatto prigionieri due dei suoi
migliori compagni, Lamberto di Thury (o di Croissy) e Gualtieri Langton. Tornò in fretta verso
Pamiers e apprese che il popolo di Puylaurens aveva richiamato i suoi antichi signori, e teneva
assediata nel torrione la guarnigione che vi aveva lasciato. Ripartì quindi in direzione di
Puylaurens, poi finalmente si ritirò a Carcassonne.
Nel frattempo il conte di Tolosa aveva radunato le sue forze e insieme al conte di Foix e a un
rinforzo di duemila Baschi mandatigli dal re d'Inghilterra passò all'attacco, apprestandosi a sua
volta ad assediare l'avversario. Simone, che dai suoi stessi successi aveva imparato il rischio
della condizione di assediato, si lanciò su Castelnaudary, «il castello più debole», mal protetto e
per di più bruciato da poco dal conte: un sistema di fortificazione troppo perfetto impedisce sì
agli assalitori di penetrare entro una postazione, ma impedisce anche agli assediati di uscirne.
Assediato a Castelnaudary da un esercito numericamente molto superiore al suo, Simone ne
uscì, vi ritornò, inviò emissari a cercare aiuto, diede battaglia in aperta campagna, mise in rotta
le truppe del conte di Foix (malgrado l'eroismo di quest'ultimo e di suo figlio Ruggero
Bernardo); e gli assedianti, scoraggiati dalla sua resistenza, finirono per ritirarsi.
Ma questa resistenza, per meritoria che sia stata, non fu un trionfo. Coloro ai quali Simone
aveva chiesto rinforzi non avevano risposto al suo appello: gli abitanti di Narbonne si erano
detti disposti a mettersi in marcia solo sotto il comando del loro visconte Emerico, che si era
rifiutato di intervenire; Guglielmo Cat, cavaliere di Montréal, incaricato di portare rinforzi,
aveva reclutato sì degli uomini, ma per attaccare i crociati; Martino d'Algais, comandante delle
truppe mercenarie, era fuggito durante le operazioni con i suoi uomini: in seguito si scusò
facendo ricadere la colpa di questa defezione sull'indisciplina dei suoi soldati. Divenne evidente
che il Montfort poteva contare esclusivamente sul suo gruppo di Francesi e sui rinforzi
provenienti dall'estero. D'altra parte, i conti di Foix e di Tolosa presentarono quanto avvenuto a
Castelnaudary come una vittoria: tutti i castelli presi dai crociati avevano aperto loro le porte,
massacrando le guarnigioni e facendo festa ai liberatori. Gli eserciti dei due conti, meno
organizzati e omogenei della guardia scelta di Simone di Montfort, ma superiori
quantitativamente e sicuri dell'appoggio della popolazione, incalzarono l'avversario,
l'inseguirono e si ritirarono, senza aver mai vinto e senza essere mai stati battuti.
Poi, nella primavera del 1212, con l'arrivo di nuovi contingenti crociati dal Nord, la
situazione cambiò, e Simone di Montfort si ritrovò in vantaggio; e, a partire dalla Pasqua,
cominciò a riprendersi i castelli che gli erano stati tolti, uno dopo l'altro.
Malgrado l'importanza di queste truppe di pellegrini - fra i quali si trovavano l'arcivescovo
di Rouen, il vescovo di Laon, l'arcidiacono di Parigi, Guglielmo, alcuni Tedeschi, provenienti
dalla Sassonia, dalla Westfalia, dalla Frisia, con i conti di Berg e di Juliers, con Engleberto,
prevosto della cattedrale di Colonia, e con Leopoldo Quarto d'Austria - la crociata veniva
sempre più assumendo i caratteri di una guerra di conquista a beneficio di Simone di Montfort.
Con le sue truppe provvisorie Simone intraprese la conquista della regione di Agen
(appartenente al re d'Inghilterra, e che Raimondo Sesto aveva avuto in dote dalla sua quarta
moglie, Giovanna Plantageneto); assediò Penne, che capitolò dopo un mese, il 25 luglio; prese
Marmande, marciò su Moissac che capitolò a sua volta, dopo un'energica resistenza. Terminata
la campagna d'estate, i crociati di Montfort, dopo aver devastato i dintorni di Tolosa, si
ritirarono per l'inverno a Pamiers.
Simone, e con lui i legati, avevano superato una nuova prova: come negli anni precedenti, il
talento militare del capo della crociata e le truppe di pellegrini-guerrieri che i paesi
settentrionali gli inviavano periodicamente avevano consentito di avere ragione delle resistenze
locali. Ma questa volta, i risultati raggiunti erano talmente importanti che Simone poté credere
di essere divenuto padrone di tutta la Linguadoca e che non ci fossero più avversari sul campo.
I conti di Foix e di Tolosa si erano ritirati alla corte del re d'Aragona, dove preparavano la
rivincita; cittadini e signori avevano di nuovo prestato giuramento al vincitore - eccettuati i
"faidits", i cui beni venivano felicemente a ricompensare la devozione dei cavalieri francesi; i
vescovi locali erano stati gradualmente sostituiti con fedeli esecutori degli ordini del papa;
Tolosa non era stata ancora ridotta all'obbedienza, ma Simone contava di farlo entro la
primavera. E già pensava a come organizzare la conquista.
Gli statuti di Pamiers mostrano che il Montfort si considerava fin da allora signore legittimo
della Linguadoca. Egli convocò a Pamiers una assemblea, una sorta di stati generali, dove
furono convocati i vescovi, i nobili e i borghesi. Mancavano i legati, il che mostra come Simone
di Montfort cercasse di assicurarsi l'appoggio della Chiesa locale, ma soprattutto tenesse a
liberarsi della tutela dei legati, che tendevano a ricordargli troppo spesso che tutta l'operazione
era stata intrapresa per conto della Chiesa e con fini 'spirituali'. Simone era già quasi in rotta
con l'abate di Cîteaux che, eletto vescovo di Narbonne, si era fatto dare anche il titolo di duca,
ricevendo direttamente l'omaggio del visconte Emerico.
Con gli 'statuti' elaborati a Pamiers Simone accordò alla Chiesa vantaggi materiali
considerevoli: protezione dei beni e dei privilegi, conferma delle decime e dei canoni,
liberazione da alcune imposte (taglia), giustizia ecclesiastica per tutti i chierici, eccetera. D'altro
canto - e si tratta di una misura spiegabile con l'irritazione verso l'abate di Cîteaux - non
riconobbe ai prelati alcun ruolo nel governo del paese. Il potere di fatto sarebbe spettato a lui
solo, e al suo gruppo di cavalieri francesi.
Sostituiti ai signori locali, eretici o semplicemente spodestati, i compagni di Simone di
Montfort vennero chiamati a diventare l'aristocrazia, la classe dirigente del paese. Feudi
importanti vennero affidati loro, ed essi in cambio si impegnarono a servire il conte, Simone di
Montfort, in tutte le sue guerre, a non lasciare mai il paese senza il suo permesso, a non
prolungare l'assenza oltre i termini pattuiti, a reclutare, per vent'anni, solo cavalieri "francesi";
le loro vedove o ereditiere che possedessero castelli non avrebbero potuto sposarsi (per sei
anni) senza il permesso del conte, salvo che con dei "Francesi". Infine gli eredi avrebbero
ereditato «secondo il costume e l'uso di Francia, intorno a Parigi». Simone dunque pensava a
una vera e propria colonizzazione del paese conquistato, o almeno alla progressiva eliminazione
della nobiltà locale, che sarebbe stata sostituita dalla nobiltà di origine francese. Il suo
risentimento contro la cavalleria occitana era profondo e non ingiustificato. Da militare, egli
mirava soprattutto alla eliminazione della classe che, nel paese, deteneva il potere militare.
Egli non mostrava di preoccuparsi più di tanto degli eretici, e non istituì alcuna
organizzazione speciale incaricata di dare loro la caccia. Questo compito, a suo parere, spettava
alla Chiesa. Del resto questo crociato sembrava ormai considerare l'eresia solo un pretesto per
spogliare i signori che gli erano ostili o di cui bramava i beni. Tuttavia proclamò sino alla fine -
senza dubbio in perfetta buona fede - che combatteva per la causa di Cristo.
Infine, gli statuti di Pamiers prevedevano una serie di misure destinate a migliorare le
condizioni del popolo e a proteggerlo dall'arbitrio dei signori. Misure generose, ma un po'
demagogiche in quanto difficilmente applicabili in un paese in guerra: la promessa di una
tassazione meno gravosa e di una giustizia più equa rappresentava un modesto compenso per i
danni subiti dalle campagne, le tasse di guerra e l'aumento delle imposte ecclesiastiche. In ogni
caso, Simone prese sul serio il suo ruolo di legislatore, e in un paese ostile, conquistato a metà e
nel quale si manteneva a stento, si comportò già come se vi si dovesse installare per dei secoli.
In realtà, il conte di Tolosa era sempre il legittimo padrone del paese, e nel settembre del
1212 il papa aveva scritto ai legati chiedendo loro perché mai egli non fosse stato ammesso a
giustificarsi, se il suo crimine fosse stato davvero provato, e se era stabilito che si aveva il
diritto di spodestarlo in favore di un altro. Si deve supporre che questa lettera non sia tanto una
dimostrazione dello spirito di equità di Innocenzo Terzo, quanto il risultato della diplomazia del
conte di Tolosa che, tramite l'intermediazione del re d'Aragona, tentava di screditare la crociata
agli occhi del papa stesso.
Dopo tre anni di guerra, di successi militari indiscutibili e l'apparente annientamento della
resistenza armata nel paese degli eretici, il papa parve improvvisamente disinteressarsi di un
affare così ben incominciato: dichiarò finita (almeno provvisoriamente) la crociata e rimproverò
ai legati e a Simone di Montfort il loro zelo esagerato e del resto inutile: «Delle volpi
"distruggevano" nella Provenza (la Linguadoca) la vigna del Signore. "Sono state catturate"...
Adesso si tratta di rispondere a un pericolo più temibile... (20)».
In effetti il grande avversario della crociata non era più Raimondo Ruggero Trencavel e
neppure il conte di Tolosa; era Pietro Secondo d'Aragona, il capo della crociata contro i Mori, il
recente trionfatore a Las Navas de Tolosa (21), il campione della cristianità nella lotta contro
l'Islam.
Per divenire padroni della Linguadoca, Simone di Montfort e i legati dovevano ancora
superare una tappa decisiva: il meno che si possa dire è che erano ancora tutt'altro che sicuri
della vittoria. Battuto dal cattolicissimo Pietro Secondo, Simone non sarebbe stato più altro che
un avventuriero e un usurpatore, e il papa stesso, malgrado il suo odio per l'eresia,
indubbiamente sarebbe stato costretto a inchinarsi dinnanzi al fatto compiuto, lasciando al re
d'Aragona il compito di perseguitare gli eretici negli stati che avesse preso sotto la sua
protezione.
Del resto, nel gennaio del 1213, Pietro Secondo non si augurava affatto che si giungesse allo
scontro armato; credeva che il suo prestigio sarebbe bastato a incutere rispetto al papa e al
Montfort. Carico di gloria dopo la sua brillante vittoria sui Mori, questo valoroso guerriero
pensava, non senza ragione, che il papa gli dovesse una considerazione del tutto particolare; e
nel momento in cui intervenne in favore di suo cognato, il conte di Tolosa, certo non si
aspettava di vedersi scrivere, cinque mesi dopo, da Innocenzo Terzo: «Fosse piaciuto a Dio che
la tua saggezza e la tua pietà fossero cresciute in proporzione [alla tua fama]! Ti sei comportato
male sia verso te stesso sia verso di noi... (22)».
Il re d'Aragona, diretto sovrano dei visconti di Trencavel, dei conti di Foix e di Comminges
per una parte delle loro terre, considerava da tempo la crociata come un'impresa che lo ledeva
nei suoi diritti. Durante il secolo precedente i conti di Tolosa avevano dovuto difendere la loro
indipendenza di fronte alle pretese degli Aragonesi innumerevoli volte: anche in piena crociata,
alcuni vassalli del visconte di Béziers, pur cercando l'appoggio di Pietro Secondo, avevano
esitato a consegnargli le piazzeforti che egli domandava loro e avevano preferito sottomettersi
al Montfort. Ma le crudeltà e il comportamento tirannico del nuovo venuto avevano presto
reindirizzato le simpatie dei signori e dei cittadini occitani verso il loro potente vicino al di là
dei Pirenei.
Qualsiasi pretesa avesse, il re d'Aragona, se riusciva a cacciare i Francesi, non poteva che
apparire come un salvatore. «I popoli di Carcassonne, di Béziers e di Tolosa - scriverà più tardi
il re Giacomo Primo - vennero a trovare mio padre (Pietro Secondo) e gli dissero che poteva
divenire il signore di quel paese, se solo avesse voluto conquistarlo... (23)». Di fatto, già nel
1211 i consoli di Tolosa avevano fatto appello al re, inviandogli una lettera nella quale si
lamentavano le malefatte dei crociati e lo si supplicava di intervenire in difesa di un paese così
vicino al suo: «Quando il muro del vicino brucia tutti accorrono (24)». Pietro Secondo era
cattolico e aveva persino perseguitato e bruciato gruppi di eretici insediatisi sulle sue terre. Ma i
baroni, i consoli e i borghesi pretendevano tutti di essere eccellenti cattolici e giuravano che nel
paese non c'erano più eretici.
Il conte di Tolosa, d'accordo con i suoi vassalli, i conti di Foix e di Comminges, aveva deciso
di giocare la sua ultima carta: l'alleanza li metteva tutti alle dirette dipendenze del re d'Aragona;
ma almeno poteva permettere loro di cacciare l'invasore straniero.
Nel frattempo Pietro Secondo aveva preso le difese della Linguadoca devastata e oppressa.
Anche se il suo desiderio di aiutare i suoi cugini non era disinteressato, non bisogna
dimenticare che questo sovrano feudale si sentiva gravemente colpito nel suo onore per le
vessazioni inflitte ai suoi vassalli; e che la solidarietà familiare e nazionale poteva spingerlo a
difendere l'eredità delle sue sorelle, nonché una terra di cui parlava la lingua e ammirava i poeti.
I suoi ambasciatori, con in testa il vescovo di Segovia, avevano tentato di dimostrare al papa
che l'eresia era stata vinta; che i legati, d'accordo con Simone di Montfort, attaccavano terre mai
sospettate di eresia; che utilizzavano la crociata a fini di conquista e di interesse personale; che,
per di più, attaccando dei vassalli del re d'Aragona, impedivano a quest'ultimo di proseguire la
crociata da lui intrapresa contro i Mori, che aveva già dato risultati tanto soddisfacenti. Del
resto, preoccupato per la sua guerra contro gli infedeli, il re sperava, fermando la crociata
contro gli eretici, di attrarre in Spagna il flusso di crociati che ogni anno si riversava sul
Mezzogiorno della Francia e del quale aveva potuto personalmente ammirare la forza
combattiva.
Il papa, dapprima influenzato dagli emissari del re, aveva scritto a Simone di Montfort una
lettera estremamente severa: «Il re d'Aragona si lagna... che, non contento di esserti levato
contro gli eretici, hai portato le armi crociate contro popoli cattolici; che hai sparso il sangue
degli innocenti e invaso a loro danno le terre dei conti di Foix e di Comminges e di Gastone di
Béarn, suoi vassalli, benché i popoli di queste terre non fossero in alcun modo sospetti di
eresia... Non volendo privarlo [il re] dei suoi diritti, né distoglierlo dai suoi lodevoli progetti,
noi ti ordiniamo di restituire a lui e ai suoi vassalli tutte le loro signorie da te occupate, nel
timore che, in caso tu le trattenga ingiustamente, si dica che hai agito per il tuo personale
vantaggio, e non per la causa della fede... (25)». Le indulgenze concesse ai pellegrini che
prendevano la croce contro gli eretici vennero annullate e «trasferite alle guerre contro i pagani
o in soccorso della Terra Santa».
Mentre il papa scriveva le sue lettere, i legati tenevano a Lavaur un concilio nel quale il re,
invitato a presentare la difesa del conte di Tolosa, venne minacciato lui stesso di scomunica da
Arnaldo Amalrico. Per la causa della Chiesa in Linguadoca era indispensabile non lasciare al
conte alcuna possibilità di essere reintegrato nei suoi diritti, né in via di principio né di fatto; i
legati preferirono correre il rischio - benché terribile - di una guerra contro il re d'Aragona. A
leggere le loro lettere, i resoconti dei concili e la cronaca di Pietro di Vaux de Cernay sembra
che la vita stessa della Chiesa nel Mezzogiorno della Francia dipendesse dall'eliminazione del
conte di Tolosa. Il fatto è che, meglio informati della situazione di quanto non lo fossero il papa
e il re d'Aragona, essi sapevano che quest'uomo in apparenza pacifico, conciliante, pronto a
qualsiasi forma di sottomissione, era davvero, per la Chiesa, il «leone ruggente» di cui
parlavano nelle loro lettere; il loro accanimento si spiega solo con la conoscenza che essi
avevano del carattere del conte, che hanno giudicato meglio di quanto non l'abbia fatto la
maggior parte degli storici dei secoli successivi. Questo «protettore di eretici» era fermamente
deciso a rimanere tale sino alla fine, contro qualsiasi avversità: che abbia agito in questo modo
per simpatia personale, o più verosimilmente per spirito di giustizia, Raimondo Sesto
rappresentava per gli eretici una garanzia di sicurezza, un appoggio sicuro. Su questa questione
egli non si sarebbe mai piegato. Questo 'debole' verosimilmente era solo un diplomatico
flessibile, realista, estremamente tenace, che non si lasciava intimidire facilmente. Raimondo
Sesto capiva, forse meglio di chiunque altro, che la Chiesa era una potenza praticamente
invincibile, contro la quale si poteva lottare solo con una sottomissione il più possibile
spettacolare. Avrebbe rinunciato a quest'atteggiamento di sottomissione solo il giorno in cui i
cattolici del suo paese avessero visto nella sua causa la causa di Dio e del buon diritto.
3. IL RE D'ARAGONA.
Avendo trascinato il re d'Aragona in un'impresa che, con grande scandalo dell'opinione
pubblica, faceva del cattolicissimo Pietro Secondo il protettore dell'eresia, il conte di Tolosa
poteva sperare, non senza ragione, che la guerra che gli si faceva cambiasse volto: una 'guerra
santa' condotta contro un'eresia della quale i belligeranti stessi sembravano non preoccuparsi
più sarebbe divenuta una pura e semplice guerra di conquista, condotta da un avventuriero
senza scrupoli su di una terra cristiana e alimentata da pochi prelati ambiziosi.
Il papa ebbe forse un attimo di incertezza. Disingannato dai legati che, bisogna crederlo, non
esitavano a rendere più cupo il quadro della situazione per giustificarsi, Innocenzo Terzo fece
voltafaccia e rimproverò l'orgoglioso re d'Aragona come un bambino indisciplinato,
aggiungendo (lettera del 21 marzo 1213): «Questi sono gli ordini ai quali la Tua Serenità è
invitata a conformarsi esattamente; in caso contrario... noi saremo costretti a minacciarti
dell'indignazione divina e a prendere contro di te misure che ti provocheranno un grave e
irreparabile danno».
Pietro Secondo, offeso o forse indignato per l'ingratitudine di un papa che aveva sempre
servito fedelmente (e tanto più scontento in quanto Innocenzo Terzo aveva rifiutato di dare
seguito alla causa di divorzio da lui intentata contro sua moglie, Maria di Montpellier), non
tenne alcun conto di queste minacce. Aveva già iniziato i preparativi di guerra, ben sapendo che
il Montfort poteva essere tenuto a bada solo con la forza. Ricevette la lettera del papa a Tolosa,
dove stava concentrando le sue truppe; formalmente promise di obbedire, ma non fu nemmeno
sfiorato dal pensiero di abbandonare i suoi alleati. Le forze del re d'Aragona, unite a quelle dei
baroni occitani, erano di gran lunga superiori a quelle del Montfort e, nella sua saggezza
d'uomo di guerra, Pietro Secondo doveva dirsi che, in fin dei conti, chi vince ha sempre
ragione. «Ha inviato tutta la gente della sua terra - dice la "Chanson" - e così ha messo insieme
una grande e bella compagnia. Ha dichiarato a tutti che vuole andare a Tolosa per combattere la
crociata che devasta e distrugge interamente quella contrada. Il conte di Tolosa lo ha implorato
che la sua terra non sia bruciata né saccheggiata, poiché egli non ha fatto torto né ha colpa verso
nessuno al mondo (26).» Pietro Secondo fece poi ritorno a Barcellona, dove arruolò un esercito
di mille cavalieri; alla campagna avrebbero partecipato i migliori guerrieri di Aragona e
Catalogna. Dobbiamo supporre che il re - che per usare la terminologia del diciassettesimo
secolo era un 'glorioso' - vedesse in questa guerra qualcos'altro che una occasione per mettere le
mani sulla Linguadoca: il re e i suoi cavalieri andavano a difendere la gloria della cavalleria
occitana umiliata dai Francesi del Nord, la libertà dei loro fratelli e la causa del 'Paraggio' -
'Cortesia' in lingua d'oc. Questa parola, il cui senso, come quello di tante altre, si è
singolarmente indebolito e impoverito nel corso dei secoli, all'epoca evocava i più alti valori
morali della società laica: il più grande elogio che il più appassionato degli amanti potesse fare
alla sua dama era di dire che era 'cortese'; e i cavalieri descritti dal continuatore di Guglielmo di
Tudèle, nella "Chanson", invocano incessantemente 'Paraggio' come fosse una divinità.
Le canzoni dei trovatori testimoniano questa atmosfera spirituale. L'abbia voluto o no, il re
lottava per la sopravvivenza di una cultura, di una tradizione nazionale. «... Allora dame e
amanti potranno ritrovare la gioia perduta», canta Raimondo di Miraval auspicando la vittoria
di Pietro Secondo. Viene da chiedersi che cosa dame e amanti avessero a che fare con questa
avventura cruenta, ed è evidente che non si trattava solo di famiglie separate e di cavalieri
condannati all'esilio: era un intero stile di vita che veniva minacciato di distruzione, uno stile di
vita nel quale l'amor cortese, con i suoi fasti, le sue raffinatezze, la sua audace mistica e il suo
eroismo smisurato, valeva da simbolo di una società avida di libertà spirituale.
Secondo Guglielmo di Puylaurens (27), alla vigilia della battaglia di Muret Simone di
Montfort avrebbe intercettato una lettera del re d'Aragona a una nobildonna di Tolosa, nella
quale il re affermava che solo per amore di lei era venuto a scacciare i Francesi. Se questa
lettera non era indirizzata - come crede Moline de Saint-Yon nella sua "Histoire des comtes de
Toulouse" - a una delle sue sorelle (il re, da uomo feudale, prendeva a cuore gli interessi della
sua famiglia e non ne faceva mistero), un dettaglio del genere non costituirebbe solo una prova
della frivolezza del re d'Aragona: secondo le leggi della tradizione cortese era un onore, per un
cavaliere, poter offrire alla dama dei suoi pensieri l'omaggio di una grande impresa compiuta in
suo nome. E anche supponendo che le intenzioni non dichiarate di Pietro Secondo non siano
state puramente cavalleresche, quel che ci interessa è l'atmosfera nella quale si svolsero i
preparativi di questa campagna militare; ed è certo che, sia fra gli uomini più vicini al re
d'Aragona, sia fra i suoi alleati, i combattenti erano consapevoli di combattere per una bella
causa, per 'Paraggio', per la civiltà (ma il termine è anacronistico) contro la barbarie delle
popolazioni del Nord. Bisogna ammettere che Simone di Montfort non dava ai suoi nemici
un'idea molto lusinghiera delle qualità morali della cavalleria francese; ma il fatto significativo
è che la Chiesa cattolica si trovasse ora dalla parte dei barbari.
Quando i vescovi che accompagnavano il Montfort, spaventati dalla imponenza dell'esercito
che si stava preparando a marciare contro di loro, tentarono di negoziare, il re si rifiutò di
riceverli, dichiarando che prelati scortati da un esercito non avevano alcun bisogno di
salvacondotto: non avrebbe potuto esprimere loro più chiaramente il disprezzo che gli ispirava
questa guerra che continuava a volersi avvantaggiare della sua equivoca 'santità'. Egli non
aveva impegnato tutti i suoi beni, non aveva condotto a Tolosa il meglio della sua cavalleria per
sentirsi dire che, combattendo Simone di Montfort, combatteva il Cristo in persona. Ma questo
era quanto credevano, o volevano credere, i suoi avversari. Simone di Montfort era intimorito
perché in quel momento - siamo nel settembre 1213 - oltre alla sua vecchia guardia, disponeva
solo di modesti rinforzi portati dai vescovi di Orléans e di Auxerre; e l'esercito che gli si parava
di fronte contava oltre duemila cavalieri e circa cinquantamila fanti reclutati soprattutto nella
Linguadoca, "routiers" e milizie cittadine, specie di Tolosa e Montauban.
Entrato a Tolosa da trionfatore, acclamato, festeggiato, Pietro Secondo si preparò a marciare
contro il Montfort e si accampò davanti a Muret, «castello nobile, ma abbastanza debole che,
malgrado le sue modeste fortificazioni, era difeso da trenta cavalieri del Montfort e da pochi
fanti» (Pietro di Vaux de Cernay). L'assedio cominciò il 30 agosto: Simone di Montfort,
informato, accorse alla testa delle sue truppe. Durante il cammino, sentendo la gravità del
momento, si fermò all'abbazia cistercense di Bolbonne e consacrò a Dio la sua spada: «O buon
Signore, benigno Gesù! Tu mi hai scelto, malgrado fossi indegno, per condurre la tua guerra. In
questo giorno, io ricevo le mie armi sul tuo altare perché, combattendo per te, ne riceva
giustizia in questa causa (28)». Manifestazione di pietà quantomai opportuna: prive di fiducia
nella loro forza numerica, le sue truppe avevano bisogno dell'esaltazione data dalla certezza di
battersi per Dio.
Ma, come abbiamo visto, i vescovi (i vescovi di Orléans e di Auxerre, e Folco, il fuggitivo
vescovo di Tolosa, compagno inseparabile dei crociati) non speravano troppo in un miracolo e,
dopo aver nuovamente scomunicato i loro avversari - fra i quali il re d'Aragona non veniva
espressamente nominato - cercarono di farli desistere. Fu il Montfort a tagliar corto con le
trattative, sapendo che non sarebbero servite a nulla.
Il 12 settembre si diede battaglia. Simone sapeva che il suo esercito non poteva correre il
rischio di essere accerchiato e che, ricacciato nel castello di Muret, doveva tentare di dividere
gli avversari con un attacco fulminante: «... Se non riusciamo ad allontanarli dalle loro tende,
non ci resta che scappare (29)», disse al consiglio di guerra.
I suoi avversari avevano solidamente stabilito il loro campo sulle alture dominanti la piana, a
tre chilometri circa dal castello, situato sulla riva della Garonna. Raimondo Sesto, che
conosceva Simone, propose di attendere l'attacco nel campo, di respingerlo dapprima con il tiro
dei balestrieri, per poi attaccare, accerchiando i nemici nel castello, dove avrebbero
rapidamente capitolato. Il consiglio era buono, ma non venne seguito. Il conte di Tolosa si
trovava in una situazione sfortunata: per una volta che, in questa guerra nella quale era il
maggiore interessato e la principale vittima, aveva l'occasione di prendersi la rivincita, non gli
si riconosceva il diritto di parola. I familiari del re (in particolare Michele di Luezia) derisero il
suo piano e l'accusarono di vigliaccheria. Irritato, Raimondo Sesto si ritirò nella sua tenda.
Abbandonando il suo campo fortificato e perdendo quindi il controllo delle operazioni,
Pietro Secondo realizzò i voti di Simone di Montfort. Il re-cavaliere voleva una battaglia nella
quale il suo esercito potesse misurarsi con l'invincibile cavalleria francese che - egli credeva -
fino a quel momento non aveva incontrato avversari alla sua altezza: voleva schiacciarla in
aperta campagna. Quando Simone attaccò, le truppe del conte di Foix gli si lanciarono contro
per prime, ma dovettero presto ripiegare di fronte alla violenza della carica francese. Allora
Pietro Secondo si gettò nella mischia con i suoi Aragonesi.
Simone, che disponeva appena di novecento cavalieri contro duemila, manovrò con grande
abilità, in modo da non lasciare alle truppe nemiche il tempo di riorganizzarsi e di conservare,
in questo modo, il vantaggio numerico in ogni singolo attacco: concentrò tutti i suoi sforzi
contro le truppe aragonesi e lo scontro fra i due eserciti fu terribile. «Si sentiva - dirà più tardi il
giovane Raimondo Settimo - come una foresta d'alberi che crollano sotto i colpi della scure
(30)». Fu una mischia inestricabile, nella quale le lance e gli scudi volavano in pezzi, i cavalli
crollavano a terra calpestando i cavalieri, le spade ferivano, tagliavano, risuonavano sul ferro
degli elmi, le mazze fracassavano le teste, e il rimbombare delle armi copriva le grida di guerra.
Non fu, ciononostante, una gran battaglia, ma semmai un confronto molto vivace fra due
avanguardie relativamente poco numerose. Sfortuna volle che alla testa di una di queste si
trovasse proprio il re.
L'obiettivo di Simone di Montfort era di colpire il re a ogni costo: due dei suoi cavalieri,
Alano di Roucy e Fiorenzo di Ville, avevano solennemente giurato di uccidere il re oppure di
morire. Ora Pietro Secondo, dando prova di coraggio più che di abilità, si era lanciato a corpo
morto nella mischia; prima del combattimento aveva addirittura scambiato l'armatura con uno
dei suoi cavalieri: aveva voluto affrontare Simone da semplice cavaliere, con la sola forza delle
sue armi.
Pietro Secondo aveva trentanove anni; era di taglia imponente, possedeva una forza erculea e
passava per il miglior cavaliere del suo paese. Alano di Roucy, essendo riuscito ad aprirsi un
varco sino al cavaliere che indossava l'armatura reale, lo atterrò al primo colpo e gridò: «Non è
il re! Il re è un cavaliere migliore di questo!». Vedendo la scena, Pietro Secondo gridò: «Ecco il
re!», e si lanciò in soccorso del suo compagno (31). Alano di Roucy e Fiorenzo di Ville, con i
loro uomini, lo circondarono da ogni lato senza farlo scappare: presto si scatenò un
combattimento così accanito che Pietro Secondo venne ucciso e tutta la sua "maynade" (i
cavalieri della casa d'Aragona) si fece ammazzare piuttosto che ritirarsi e abbandonare il corpo
del re.
La notizia della morte del re diffuse il panico negli altri corpi d'armata. Sorpresi da un
attacco laterale del Montfort, i cavalieri catalani si diedero alla fuga; l'esercito del conte di
Tolosa non aveva ancora attaccato quando, sommerso dall'ondata degli Aragonesi e dei Catalani
che si ritiravano disordinatamente, non poté nemmeno pensare all'attacco e fuggì a sua volta.
Mentre la cavalleria veniva messa in rotta, la fanteria, composta di milizie tolosane, tentò
l'assalto al castello di Muret. Ma parte della cavalleria francese rinunciò a inseguire i vinti,
ritornò al castello e piombò sui fanti (erano circa quarantamila), facendoli a pezzi e spingendoli
verso la Garonna: in quel punto l'acqua era profonda e la corrente rapida, così moltissimi
fuggiaschi finirono annegati. Massacrati o annegati morirono fra quindicimila e ventimila
uomini, ossia la metà della fanteria.
La vittoria del Montfort era totale. Anzi, era più di una vittoria: era l'eliminazione, almeno
provvisoria, dell'Aragona come potenza politica. La morte di Pietro Secondo lasciava sul trono
un fanciullo in tenera età, tenuto in ostaggio dal vincitore.
Terminata la battaglia, Simone fece cercare il corpo del re, che fu difficile trovare, perché la
fanteria francese aveva già completamente spogliato i cadaveri. Fattolo riconoscere, gli rese un
estremo omaggio, poi, scalzo, lasciate ai poveri le sue armi e il suo cavallo, andò in chiesa per
ringraziare Dio. In poche ore di parapiglia, dalle quali il suo esercito usciva senza grandi
perdite, non solo si era sbarazzato del suo avversario più potente, ma aveva abbattuto uno dei
grandi re della cristianità senza che nessuno potesse imputargli come crimine questa morte
tanto opportuna: la battaglia di Muret valeva da giudizio di Dio.
Il vescovo e i chierici - fra i quali si trovava san Domenico - riuniti nella chiesa di Muret, nel
frastuono della battaglia avevano ardentemente pregato per la vittoria; vedendo le loro
preghiere così bene esaudite, si impegnarono a diffondere la grande notizia in tutta la
cristianità: le forze eretiche erano state spazzate via «come il vento spazza la polvere sulla
superficie della terra» (Guglielmo di Puylaurens); un re cattolico, che aveva osato prendere la
difesa dei nemici della fede, era stato ucciso con tutta la sua cavalleria, un immenso esercito era
stato annientato in poche ore da un manipolo di crociati le cui perdite (miracolo!) ammontavano
a qualche sergente e un solo cavaliere! (Esagerazione manifesta: il combattimento, secondo
tutte le testimonianze, era stato acceso e Pietro Secondo con la sua "maynade" non si era certo
lasciato sgozzare come un agnello; d'altra parte, le truppe aragonesi e quelle del conte di Foix
erano state le sole a battersi, quindi le forze effettivamente scontratesi erano sostanzialmente
uguali; il genio strategico di Simone, e soprattutto la sua temerarietà un po' crudele nell'ordinare
l'uccisione del re, avevano impedito al resto dell'esercito di intervenire in tempo, e due terzi
dell'esercito alleato avevano lasciato il campo senza combattere.) La morte del re d'Aragona
lasciò l'intera Linguadoca nello sconforto; quel liberatore che solo il giorno prima era stato
tanto acclamato, che aveva appena attraversato il paese alla testa della sua superba cavalleria,
scintillante per il bagliore delle armi e pronta al combattimento, si era rivelato un aiuto tanto
fragile che il Montfort, al primo scontro, aveva potuto annientarlo.
I principi alleati, disorientati, si accusarono a vicenda di tradimento, e si ritirarono senza
tentare di riunire le forze per prendersi la rivincita. Gli Spagnoli riattraversarono i Pirenei, i
conti di Foix e di Comminges fecero ritorno alle loro terre, il conte di Tolosa e suo figlio
abbandonarono il loro paese, rifugiandosi in Provenza. La vittoria di Muret lasciò al Montfort e
alla Chiesa un paese non ancora vinto, ma demoralizzato per il crollo troppo brutale di una
grande speranza.
Tutto sommato, in questa vicenda era stata la città di Tolosa a pagare il più alto tributo in vite
umane, e di gran lunga. Il forsennato attacco della cavalleria francese contro la fanteria tolosana
era stato un massacro più che una battaglia, e se i Francesi dovevano vendicare due dei loro
(Pietro di Cissey e Ruggero di Essart, vecchi compagni del Montfort, condotti a Tolosa come
prigionieri e torturati crudelmente prima di essere uccisi), Tolosa, «dove non c'era casa che non
piangesse qualcuno», non avrebbe dimenticato gli uomini trucidati e annegati a Muret.
All'indomani della sua vittoria, Simone non marciò sulla capitale. Sembra che quella grande
città, per quanto desolata, sgomenta, abbandonata dai suoi difensori, rappresentasse agli occhi
del vincitore se non un pericolo, almeno una difficoltà che egli non si sentiva ancora in grado di
affrontare.
Vi sarebbero entrati i vescovi, Folco in testa, che cercarono di negoziare la sottomissione
della città. I consoli tirarono per le lunghe le trattative, discutendo sul numero degli ostaggi, e
finirono per rifiutare la sottomissione. Il Montfort, tuttavia, attraversò il Rodano, per proseguire
la conquista e il sistematico assoggettamento dei domini del conte, aspettando che, domate le
altre province, Tolosa gli cadesse in mano come un frutto maturo.
Durante i diciotto mesi che seguirono la spettacolare disfatta delle truppe meridionali,
Simone di Montfort poté credere che la guerra fosse praticamente terminata; incontrò resistenze
rare e rapide a piegarsi. Tuttavia si trovò di fronte a un'ostilità sorda e sistematica, che non
doveva lasciargli molte illusioni: Narbonne gli chiuse le porte in faccia, Montpellier fece
altrettanto, Nîmes lo ricevette solo dietro minaccia di rappresaglia; in Provenza, dove proseguì
il suo piano di progressiva occupazione dei domini del conte di Tolosa, la nobiltà del paese si
sottomise, ma di mala voglia; Narbonne si sollevò e Simone, con l'aiuto dei crociati portatigli
dal suocero Guglielmo di Barres, riuscì a respingere l'attacco dei rivoltosi, ma non a espugnare
la piazzaforte, perché il cardinale legato Pietro di Benevento si intromise e ottenne una tregua.
A Moissac la popolazione si rivoltò e Raimondo Sesto cinse d'assedio la città, tenuta da una
guarnigione francese; ma all'arrivo del Montfort si ritirò. Risalendo nel Rouergue, nell'Agenais
e nel Périgord, Simone procedette allo smantellamento dei castelli che gli avevano resistito,
espugnò, dopo tre settimane di assedio, quello di Casseneuil, poi quelli di Montfort e di
Capdenac; poi Séverac, piazzaforte inespugnabile, cittadella di una delle più vecchie famiglie
del Rouergue; il conte di Rodez prestò giuramento al vincitore di Muret, senza eccessivo
entusiasmo, e ricordando che parte dei suoi domini dipendeva dal re d'Inghilterra.
Avendo ottenuto l'omaggio della maggior parte dei vassalli diretti e indiretti del conte di
Tolosa, dal Périgord alla Provenza, Simone di Montfort avrebbe eguagliato in potenza i più
grandi baroni della cristianità se i giuramenti di fedeltà ricevuti fossero stati presi sul serio da
quanti li prestavano. A leggere la storia delle sue campagne si potrebbe crederla abbellita da
qualche panegirista poco rispettoso della verità, ma gli autori della "Chanson" (che non possono
essere annoverati fra i suoi amici), le lettere dei legati, del papa, del re di Francia, tutte le
testimonianze concordano nel confermare un fatto, a priori poco credibile: Simone di Montfort,
dal 1209, non aveva subito una sola vera sconfitta, era passato di vittoria in vittoria, per cinque
anni, con una costanza quasi monotona. Si può immaginare la rassegnata esasperazione dei suoi
avversari di fronte alla costante buona sorte di quest'uomo che, protetto da Dio o dal diavolo,
pareva decisamente dotato di qualche potere sovrumano.
L'odio che ispirava - e del quale beneficiavano al contempo tutti i Francesi - aumentava
senza che il suo potere ne uscisse diminuito. I massacri delle guarnigioni venivano repressi con
una crudeltà tale che divenivano sempre più rari, ma le popolazioni della Linguadoca, lasciando
che gli occupanti dettassero legge in casa loro, dovevano pensare che ad attendere non ci
rimettevano nulla. Solo qualche indizio, qualche fatto riportato casualmente dai cronisti, ci
lascia intuire quale fosse la violenza delle passioni scatenate da questa guerra; gli atti ufficiali
registrano pacificazioni e sottomissioni, perché i vincitori già cercavano di regolare i conflitti
per via diplomatica e si spartivano un paese nel quale si trovavano solo a titolo di provvisori
occupanti. Il poeta della "Chanson" attribuisce a Filippo Augusto delle parole che egli forse non
ha mai pronunciato, ma che esprimono con grande efficacia i desideri delle popolazioni
meridionali in quegli anni bui: «Signori, conservo ancora la speranza che, senza troppo
attendere, il conte di Montfort e suo fratello, il conte Guido, moriranno fra molte sofferenze...»
Nel frattempo fu il papato, nella persona del nuovo legato Pietro di Benevento, che si incaricò
di organizzare la conquista; e, di fronte alle crescenti pretese del Montfort e all'odio implacabile
che ispirava ovunque, cercò di prendere le distanze, nella misura del possibile, da
quest'imbarazzante collaboratore. D'altro canto, i più accesi partigiani di Simone erano i
vescovi del paese, perché la sua presenza assicurava quella sicurezza e quei vantaggi materiali
che il conte non avrebbe mai riconosciuto loro; i legati, quindi, dovettero usare dei riguardi
verso il solo uomo capace di difendere con le armi i diritti della Chiesa. Fu Roberto di Courçon,
cardinale legato di Francia, a confermare il Montfort nel possesso del paese che aveva
conquistato: l'Albigeois e l'Agenais, il Rouergue e il Quercy, terre indirettamente sottoposte alla
sovranità di Filippo Augusto. Vale la pena di notare che il re, apparentemente, si disinteressò
della questione: all'indomani di Bouvines aveva ben altre preoccupazioni, e si sarebbe
pronunciato solo il giorno in cui la situazione di Simone gli sarebbe parsa abbastanza solida.
Pietro di Benevento, per parte sua, volle sottomettere alla Chiesa i legittimi possessori delle
terre che il Montfort si era accaparrato per diritto di conquista: Raimondo Ruggero, conte di
Foix, Bernardo, conte di Comminges, Emerico, visconte di Narbonne, Sancio, conte di
Roussillon, i consoli e infine lo stesso conte di Tolosa si recarono da lui, fecero atto di totale
sottomissione alla Chiesa e al suo legato, promisero di combattere l'eresia sulle loro terre, di
fare penitenza e di non attaccare i territori conquistati dai crociati (Narbonne, aprile 1214). Il
conte di Tolosa acconsentì ad abbandonare i suoi domini e ad abdicare in favore del figlio; ma
fu un'abdicazione puramente formale, dato che il giovane Raimondo era affezionatissimo al
padre e pronto a obbedirgli in tutto.
Il conte moltiplicò le sue testimonianze di obbedienza e di sottomissione, nella speranza di
togliere alla Chiesa qualsiasi pretesto per spodestarlo. E mentre Simone si insediava nella
Linguadoca come un padrone, Raimondo continuava a proclamarsi legittimo signore di quelle
province, mettendole a disposizione del papa: «Di modo che tutti i miei domini siano
sottomessi alla misericordia e al potere assoluto del sovrano pontefice della Chiesa romana...».
Né lui né il conte di Foix rinunciarono a questa tattica, abile se non efficace: trattare il Montfort
da usurpatore, riconoscendo al contempo la sovranità della Chiesa.
Il cardinale legato accettò questa sottomissione che, dopo tutto, rappresentava un'implicita
negazione delle pretese del Montfort. L'averlo fatto apparve un tale attentato ai diritti del
vincitore di Muret che i suoi fautori, cui Pietro di Vaux de Cernay dà voce, spiegano
l'atteggiamento di Pietro di Benevento come una pia frode, destinata a far cadere i sospetti del
conte. «O legati fraus pia! O pietas fraudolenta! (32)», esclama lo storico, senza alcuna ironia.
Questo singolare cattolico dà più volte prova di un'amoralità abbastanza gustosa. Se i capi della
Chiesa non avevano maggiori scrupoli (il loro comportamento lo dimostra abbastanza
chiaramente), forse avevano timori di altra natura, ossia pensavano che un uomo come Simone
di Montfort, con i suoi eccessi, potesse nuocere alla causa della Chiesa, restringendone il potere
temporale con la sua ambizione.
Nel dicembre 1213 Simone aveva concordato il matrimonio del suo primogenito, Amalrico,
con Beatrice, figlia unica di Andrea di Borgogna, destinata a ereditare il Delfinato; le sue mire
politiche e dinastiche divenivano sempre più evidenti. E mentre i suoi avversari, alla curia di
Roma, si lagnavano di lui e proclamavano (spesso contro ogni evidenza) che né loro né le loro
terre erano mai stati sospettati di eresia, il Montfort e i vescovi della Linguadoca, schierati al
suo fianco, vedevano eresia (o, qualora mancassero gli eretici, vedevano soldati di ventura)
ovunque intendessero stabilire il loro dominio.
Il concilio di Montpellier (gennaio 1215), presieduto da Pietro di Benevento, regolò
provvisoriamente la situazione, in attesa del concilio ecumenico che doveva tenersi a Roma,
quello stesso anno. Alla presenza degli arcivescovi di Narbonne, di Auch, di Embrun, di Arles e
di Aix, di ventotto vescovi e di numerosi abati e chierici, il legato propose di indicare colui «al
quale meglio e più utilmente, per l'onore di Dio e di nostra santa madre Chiesa, per la pace di
queste contrade, per la rovina e lo sterminio dell'eretica insolenza, convenisse concedere e
assegnare Tolosa, già posseduta dal conte Raimondo, e le altre terre delle quali l'esercito
crociato si era impadronito (33)». I prelati consultati designarono Simone di Montfort
all'unanimità; un'unanimità che sorprende solo Pietro di Vaux de Cernay, incline a vedere
dappertutto la mano di Dio. Ora, l'uomo cui «conveniva» tenere Tolosa e le altre terre del paese
vi era così unanimemente detestato che non poteva assistere personalmente al concilio: gli
abitanti di Montpellier (città cattolica, e in via di principio neutrale) gli avevano vietato
l'accesso, e il giorno in cui tentò di entrare insieme al legato venne accolto così bene che
dovette mettersi al sicuro in fretta, passando per un'altra porta.
La decisione del concilio spodestava il conte di Tolosa e suo figlio, ma conferiva a Simone
solo il titolo alquanto vago di «signore e unico capo» ("dominus et monarcha"), una sorta di
luogotenente del papato, incaricato di funzioni poliziesche all'interno dello stato appena
conquistato. Simone avrebbe voluto ottenere di più, mentre il conte di Tolosa, appoggiato da
suo cognato, zio di suo figlio, Giovanni Senzaterra, attendeva la riunione del concilio
ecumenico per far valere i suoi diritti.
Nel febbraio 1214 accadde un episodio significativo della guerra sorda e instancabile che si
svolgeva nel paese, alle spalle dei prelati occupati a legiferare e di Simone, impegnato a
rafforzare le basi della sua dominazione. Baldovino di Tolosa, il fratello di Raimondo Sesto che
si era alleato con il Montfort, cadde vittima di un complotto, o meglio, di un colpo di mano.
Tutti quanti vi presero parte apparentemente lo fecero nella comune certezza di compiere il loro
dovere di patrioti; e tuttavia Baldovino venne catturato e consegnato da dei signori che avevano
giurato, secondo le formule dovute, la loro sottomissione al Montfort. Baldovino di Tolosa
aveva ricevuto da Simone le terre del Quercy, ne aveva appena preso possesso e si era fermato
al castello di Olme, presso Cahors. Il castellano lo consegnò a Raterio di Castelnau dopo aver
fatto massacrare la sua scorta; il prigioniero fu condotto a Montauban, in attesa del giudizio di
suo fratello, che, informato dell'accaduto, accorse in fretta insieme al conte di Foix.
Il 'conte' Baldovino, questo traditore della causa del suo paese, era stato allevato alla corte
del re di Francia, e di fatto era più francese che tolosano; ciò che, senza scusarla, spiega la sua
condotta. Nato in Francia in un periodo durante il quale suo padre non era in buoni rapporti con
la moglie Costanza di Francia (dalla quale in seguito si sarebbe separato), Baldovino era venuto
a Tolosa solo nel 1194, dopo la morte di Raimondo Quinto, e Raimondo Sesto lo aveva accolto
in modo tale che fu costretto a rientrare a Parigi, per cercare delle lettere che provassero che era
davvero figlio del conte di Tolosa! I due fratelli, separati del resto da una notevole differenza di
età, non avevano trovato alcuna intesa, e Baldovino, trattato da parente povero, doveva essersi
sentito alquanto spaesato alla corte di suo fratello. Era comunque un valoroso cavaliere, e aveva
difeso brillantemente il castello di Montferrand contro il Montfort. Ma, passato dalla parte del
nemico, rimase fedele ai suoi nuovi padroni sino alla fine.
Comunque sia, Raimondo Sesto non mostrò alcuna pietà per questo fratello tanto sfortunato
quanto indegno: arrivato a Montauban, tenne un consiglio di guerra cui parteciparono il conte di
Foix e il cavaliere catalano Bernardo di Portella, e condannò senza esitazioni il traditore
all'impiccagione. Quando Baldovino, buon cattolico, gli chiese di ricevere i sacramenti prima di
morire, Raimondo gli fece rispondere che un uomo che aveva combattuto così bene per la sua
fede non aveva bisogno di assoluzione. Gli fu permesso, però, di confessarsi, ma non di
ricevere la comunione; poi, condotto su di un prato dinnanzi al castello, sotto gli occhi del
fratello venne impiccato a un noce dal conte di Foix in persona, assistito nel compito di boia da
Bernardo di Portella, che con l'esecuzione del traditore intendeva vendicare la morte del re
d'Aragona.
Questa storia crudele mostra che Raimondo Sesto, che due mesi dopo avrebbe offerto con
tanta umiltà la sua persona e i suoi beni alla Chiesa, non era minimamente disposto a rinunciare
alla lotta, ma si limitava ad attendere la sua ora, colpendo ovunque potesse colpire. Facendo
freddamente giustiziare suo fratello per soddisfare l'odio patriottico dei suoi vassalli, obbediva
allo stesso istinto politico che l'avrebbe spinto a proclamare, dinnanzi al papa, la sua devozione
alla Chiesa. Quest'uomo sconcertante seppe farsi amare perché rimase sempre il primo
servitore, più che il padrone, del suo paese.
La punizione di Baldovino provocò nella Linguadoca un'esplosione di gioia e ispirò ai
trovatori canti di trionfo.
Nel frattempo Simone di Montfort, designato dal concilio di Montpellier a tenere «Tolosa e
le altre terre già possedute dal conte», non osava ancora presentarsi dinnanzi alla città. Chiave
della Linguadoca, Tolosa fingeva ancora di ignorare il nuovo sovrano. Simone vi sarebbe
entrato solo accompagnato da un personaggio il cui rango e la cui qualità potevano, in qualche
modo, legittimare una sottomissione che al Montfort sarebbe stata rifiutata.
Filippo Augusto, dopo Bouvines, non doveva più temere i 'due leoni' - Giovanni Senzaterra e
l'Imperatore - che minacciavano le sue province settentrionali, e si decise infine a interessarsi a
quanto accadeva a sud. I domini del conte di Tolosa, nei quali la sua potenza era sempre stata
puramente nominale, facevano parte delle terre dipendenti dalla corona di Francia. Il giorno in
cui credette che il conflitto fosse stato vinto dal Montfort, si preoccupò di sapere se la Chiesa
non avesse oltrepassato i limiti, attribuendo a uno dei suoi vassalli una terra della quale era
sovrano. Si guardò bene dall'andarci di persona, per non essere costretto ad appoggiare con la
sua autorità un'impresa della quale ancora ignorava i vantaggi e le difficoltà future. Mandò, o
meglio lasciò partire, suo figlio, che da tempo manifestava il pio desiderio di partecipare alla
crociata.
Il principe Luigi fece, in un paese in teoria pacificato, un 'pellegrinaggio' e non una
spedizione militare. Portò con sé molti cavalieri - in particolare i conti di Saint-Pol, di Ponthieu,
di Sées e di Alençon - e il suo esercito, pur non avendo intenzioni deliberatamente bellicose, era
destinato a impressionare quanti, fra i baroni occitani, potessero avere l'intenzione di opporsi
all'autorità regale. Per il momento nessuno pensò di fare resistenza: al confronto del Montfort
chiunque sarebbe apparso un buon padrone, e a maggior ragione il «dolce e bonario» Luigi.
Non pare che il principe, in occasione di questa pacifica crociata, sia stato male accolto;
semmai lo si attendeva come arbitro.
Il legato si affrettò a far sapere a Luigi che «non poteva né doveva in alcun modo intaccare
(34)» quanto era stato deciso dai concili, considerato il fatto che le forze della Chiesa avevano
trionfato da sole, senza il minimo soccorso (pur sollecitato innumerevoli volte) del re di
Francia. In effetti, il pio Luigi non assunse alcuna iniziativa in contrasto con le decisioni della
Chiesa, ma nei contrasti che sarebbero seguiti diede semmai ragione al Montfort.
Così, nella controversia che opponeva a Simone di Montfort Arnaldo Amalrico, arcivescovo
di Narbonne, il principe diede il suo sostegno al primo, e ordinò la demolizione delle mura di
Narbonne che l'arcivescovo, d'accordo con i consoli, intendeva invece conservare.
Analogamente, Luigi ordinò di abbattere le mura di Tolosa che, pur provvisoriamente
sottomessa all'autorità della Chiesa, doveva prepararsi a ricevere il suo nuovo padrone. Il papa,
appreso che il figlio del re di Francia era giunto a capo di un esercito per ispezionare le terre
conquistate dalla Chiesa, si era affrettato a confermare a Simone di Montfort la «custodia» di
queste terre, per paura che quest'ultimo, staccandosi dall'autorità di Roma, si facesse accordare
il titolo di conte dal suo legittimo sovrano.
Infine, nel maggio 1215, il principe Luigi, il legato e il Montfort fecero il loro ingresso a
Tolosa, dalla quale il conte Raimondo era partito, non avendo la minima voglia di fare da
ornamento al trionfo del vincitore. Fu stabilito che i fossati della città sarebbero stati colmati,
che le torri, le mura e i trinceramenti sarebbero stati abbattuti sino alle fondamenta; «che nessun
difensore potesse difendervisi con una qualsiasi armatura». Disarmata preventivamente e
trasformata in città aperta nel senso letterale del termine, Tolosa non poté far altro che lasciar
entrare il vincitore; Simone di Montfort vi si insediò ben presto, conservando le fortificazioni
del Castello Narbonese che eresse a sua residenza. Il principe Luigi si ritirò, conclusi i suoi
quaranta giorni, portando come trofeo di questa pia spedizione metà della mascella di san
Vincenzo, venerata a Castres: per ringraziare il principe della sua benevolenza, Simone si era
premurato di ottenere dai religiosi di Castres questa preziosa reliquia, che gli fu data «in
considerazione del vantaggio e dell'avanzamento che egli aveva procurato alla causa di Gesù
Cristo». Simone tenne per sé l'altra metà della mascella e la donò alla chiesa di Laon.
NOTE.
(1) Op. cit., cap. 35, 800-802.
(2) Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., cap. 19.
(3) «Un giorno - racconta Pietro di Vaux de Cernay (Simone allora era assediato a
Castelnaudary) - il nostro conte, uscito dal castello, avanzava per mettere fuori uso la suddetta
macchina da guerra, e poiché i nemici l'avevano circondata di fossati e di ostacoli in modo che i
nostri non riuscivano a raggiungerla, questo prode guerriero, intendo dire il conte di Montfort,
voleva passare a cavallo un fosso molto largo e profondo per affrontare coraggiosamente quelle
canaglie; ma alcuni dei nostri, visto il pericolo inevitabile nel quale si sarebbe cacciato così
facendo, presero per la briglia il suo cavallo e lo trattennero, per impedirgli di esporsi...». Op.
cit., cap. 56.
(4) Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., cap. 86.
(5) Guglielmo di Puylaurens, cap. 19.
(6) Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., cap. 34.
(7) Ivi, cap. 37.
(8) Ibidem.
(9) Ivi, cap. 40.
(10) Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., cap. 33.
(11) Lettera di Innocenzo Terzo all'abate di Cîteaux.
(12) Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., cap. 39.
(13) "Chanson de la Croisade", cap. 59, 1360-1366.
(14) Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., cap. 47. (15) "Chanson de la Croisade", cap. 68,
1552-1553.
(16) Ivi, 1560-1561.
(17) Guglielmo di Puylaurens, cap. 11.
(18) Ibidem.
(19) Pietro di Vaux de Cernay, cap. 51.
(20) Lettera di Innocenzo Terzo ad Arnaldo Amalrico, 15 gennaio 1213.
(21) 16 luglio 1212.
(22) Lettera di Innocenzo Terzo al re d'Aragona, 21 maggio 1213.
(23) "Cronica o commentari del rey en Jac me" (Nouv. éd. de Barcelone).
(24) Lettera dei consoli di Tolosa, Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., Appendice 4.
(25) Lettera di Innocenzo Terzo a Simone di Montfort, 15 gennaio 1213.
(26) Op. cit., CXXXI, 2756-2765.
(27) Guglielmo di Puylaurens, cap. 21.
(28) Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., cap. 71.
(29) "Chanson de la Croisade", cap. 139, 3046-3047.
(30) Guglielmo di Puylaurens, cap. 27.
(31) Si veda l'edizione originale dell'"Histoire du Languedoc" di Dom Vaissette, t. 3, p. 252 e
la nota di A. Molinier nell'edizione del 1879, t. 6, p. 427.
(32) Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., cap. 78.
(33) Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., cap. 81.
(34) Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., cap. 82.
Capitolo sesto
IL RE DI FRANCIA.
1. LA VITTORIA DI RAIMONDO SETTIMO.
La morte di Simone di Montfort fu accolta nella Linguadoca con grande gioia; questa gioia
si diffondeva a macchia d'olio per tutto il paese, ridava nuove forze a quanti da tempo si
disperavano nel vedere quest'uomo spietato vincere dappertutto. Questa morte sembrava la fine
di un incubo, il miracolo tanto atteso.
"Montfort Es mort Es mort Es mort! Viva Tolosa Ciotat gloriosa Et poderosa! Tornan lo
paratge et l'onor! Montfort Es mort! Es mort! Es mort!" esclama una canzone popolare
dell'epoca. Il Paraggio e l'onore ritornavano. Il tiranno - i popoli del Mezzogiorno volevano
sperare che tutto il male che li opprimeva provenisse dal Montfort - era ormai un cadavere
disteso in una sontuosa tomba di Carcassonne. I suoi amici ne fecero un martire, paragonandolo
a Giuda Maccabeo e a santo Stefano. Con la sua morte l'opera della crociata era distrutta;
malgrado lasciasse nel paese parenti e compagni d'arme coraggiosi e ancora temibili, essi
avevano perso con il loro capo anche la fiducia in se stessi. Amalrico di Montfort invocò l'aiuto
del re di Francia e il papa predicò una nuova crociata, spingendo Filippo Augusto a mandare
un'armata in Linguadoca. Nel frattempo, Raimondo Settimo riconquistava l'Agenais e il
Rouergue e riportava, davanti a Baziège, una vittoria in campo aperto contro i Francesi.
Il principe Luigi fece una seconda apparizione nel Mezzogiorno della Francia: questa volta il
padre non aveva sollevato difficoltà nel fargli prendere la croce. Luigi portò con sé venti
vescovi, trenta conti, seicento cavalieri e diecimila arcieri; era un'armata temibile che - pare -
avrebbe dovuto spaventare popolazioni già sfinite da dieci anni di guerra. Si riunì alle truppe di
Amalrico di Montfort davanti a Marmande e prese la città, dove si compì un terribile massacro.
Se la guarnigione e il suo capo Centulle, conte di Astarac, vennero risparmiati (perché si
pensava di scambiarli con dei prigionieri francesi), i vincitori si accanirono sulla popolazione
civile: «... si corre verso la città con armi taglienti, e allora comincia il massacro e lo
spaventevole macello. I baroni, le dame, i fanciulli, gli uomini, le donne, spogliati e nudi,
vengono passati a fil di spada. Le carni, il sangue, le cervella, i tronchi, le membra, i corpi
aperti e squartati, i fegati, i cuori fatti a pezzi giacevano sulle piazze come se fossero piovuti. La
terra, il suolo, le sponde del fiume erano rosse per il sangue versato. Non restava uomo o donna,
giovane o vecchio; nessuno è scampato se non è riuscito a nascondersi. La città è distrutta, il
fuoco la brucia (1)».
L'autore della "Chanson" ritiene che la maggior parte della popolazione della città sia stata
massacrata. Guglielmo il Bretone, per parte sua, riconosce che a Marmande vennero uccisi
«tutti i cittadini, con le donne e i fanciulli, tutti gli abitanti, per un numero di cinquemila (2)».
Si può vedere in questo massacro eseguito a sangue freddo (infatti fu preceduto da una lunga
discussione sulla sorte della guarnigione) un effetto della collera di Amalrico, desideroso di
vendicare il padre. Era, più probabilmente, una consapevole ripetizione del massacro di Béziers
che, terrorizzando la popolazione, aveva dato risultati tanto buoni. E' abbastanza curioso vedere
vescovi e baroni che discutono sul «disonore» che ricadrebbe su di loro se mettessero a morte
dei soldati, e che poi sguinzagliano le loro truppe contro cittadini inermi, donne e bambini.
Sembra che (per i cavalieri del Nord più che per quelli del Sud) i cittadini fossero esseri di
razza inferiore il cui massacro era quasi irrilevante. Il pio principe Luigi non fece nulla per
impedire quest'odiosa manovra intimidatoria. Ma, per parte loro, i popoli della Linguadoca,
agguerriti da dieci anni di crociate, si guardarono bene dal rispondere - come dopo Béziers -
con capitolazioni in massa. Il paese da tempo si era abituato al terrore.
Quando, all'indomani di quest'impresa sanguinosa, l'armata reale marciò su Tolosa, trovò una
città fortificata, pronta a difendersi. Raimondo Settimo vi si era rinchiuso con mille cavalieri.
Di fronte al pericolo lanciò un appello al popolo e fece esporre sotto la volta della cattedrale le
reliquie di sant'Esuperio (3); per la terza volta il popolo di Tolosa si preparava a subire l'assedio
nell'entusiasmo.
L'assedio ebbe inizio il 16 giugno 1219 e fu tolto il primo di agosto: il grande esercito del
principe Luigi, dopo avere completamente circondato e isolato la città, e dopo aver sferrato
vigorosi attacchi, constatò che gli assediati non erano minimamente disposti a capitolare. Sceso
nel paese occitano per seminarvi la paura dovuta al prestigio della potenza reale, il principe capì
di avere a che fare con un avversario forte e, come avevano fatto le truppe crociate durante i
primi anni di guerra, preferì che Amalrico di Montfort provasse a resistere a suo rischio e
pericolo. Appena terminati i suoi quaranta giorni, Luigi tolse l'assedio, abbandonando le sue
macchine da guerra. Questa brusca partenza ha sorpreso i contemporanei, che l'hanno attribuita
a un tradimento dei cavalieri francesi, oppure a un accordo segreto fra il principe e Raimondo
Settimo, o ancora a un perfido calcolo di Luigi che, desiderando il Tolosano per sé, non aveva
alcun interesse a riconquistarlo a profitto di Amalrico. Comunque sia, con questo nuovo trionfo
di Tolosa la corona di Francia subiva un clamoroso insuccesso. La gloria del giovane conte si
ingrandiva sempre più, mentre la nobiltà del Mezzogiorno dava la caccia ai baroni del Nord
installatisi sulle sue terre, li spodestava dei loro domini, riprendeva loro i titoli che avevano
usurpato.
Questi baroni, che Simone di Montfort aveva sistemato nei castelli e nelle piazzeforti da lui
conquistati per assicurarsene la fedeltà, non erano, a quanto pare, zelanti difensori della fede.
Infatti il cattolico Guglielmo di Puylaurens li descrive così: «Del resto non si deve né si può
raccontare a quali infamie essi (i servitori di Dio) si abbandonassero; i più avevano concubine,
e le mostravano in pubblico; rapivano a forza le donne altrui, e impudentemente compivano
queste malefatte e mille altre di questo genere. Lo spirito del loro comportamento non era certo
quello che li aveva condotti lì, la fine non corrispondeva all'inizio (4)». I fratelli Foucaut e
Giovanni di Berzy, due cavalieri che, secondo la "Chanson", Amalrico e il principe Luigi
ritenevano così preziosi che per liberarli avevano risparmiato la guarnigione di Marmande,
erano veri e propri banditi, noti per la loro avarizia e la loro ferocia: Guglielmo di Puylaurens
dice che mettevano a morte tutti i prigionieri che non potevano pagare loro cento soldi d'oro
(una somma esorbitante), e che una volta avevano costretto un padre a impiccare suo figlio.
Fatti prigionieri da Raimondo Settimo, vennero decapitati.
La guarnigione francese di Lavaur venne massacrata; Guido, fratello di Amalrico, rimase
ferito e morì in prigione. Malgrado gli sforzi del papa, che intimò ai conti - il giovane
Raimondo e il conte di Foix - di sottomettersi, i Francesi non facevano che subire sconfitte.
Alano di Roucy, lo stesso che aveva ucciso il re d'Aragona, fu ammazzato nel castello di
Montréal, datogli dal Montfort. I rinforzi portati dai vescovi di Clermont e di Limoges e
dall'arcivescovo di Bourges ad Amalrico non impedirono a Raimondo Settimo di sottomettere
interamente l'Agenais e il Quercy. Amalrico resisteva solo nel Sud, dove Narbonne e
Carcassonne gli restavano ancora fedeli.
Il re di Francia, malgrado i reiterati appelli del papa, rifiutava di interessarsi della questione.
L'insuccesso del figlio aveva scoraggiato lui, come aveva scoraggiato i baroni francesi, e
l'esempio di Simone di Montfort dava da riflettere a quanti fossero spinti verso la Linguadoca
dal desiderio di conquiste. Il giovane conte trionfava e ridiventava, agli occhi di tutti, il cugino,
il nipote, il pari della maggior parte dei potenti - coronati o meno - dell'Occidente. Raimondo,
per parte sua, fece alcuni passi presso il re di Francia per ottenere una riconciliazione con la
Chiesa, e gli offrì il giuramento di vassallo per delle terre che, cinque anni prima, il re aveva
accordato ai Montfort.
Non sappiamo che cosa infine Filippo Augusto avesse deciso in merito a questo vassallo
spodestato dalla Chiesa. Amalrico di Montfort, vedendo che la partita era persa, gli aveva
offerto i suoi domini, ma il re aveva rifiutato la proposta: senza dubbio preferiva lasciare che i
due rivali si esaurissero in una guerra di cui lui non avrebbe fatto le spese.
Nell'agosto 1222, il vecchio conte di Tolosa morì all'età di sessantasei anni. Quest'uomo che
era stato, se non la causa, almeno il pretesto della crociata, quest'uomo calunniato, umiliato,
cacciato, spogliato, aborrito dalla Chiesa, venerato dai suoi sudditi, tornato da trionfatore dopo
la più totale disfatta e accolto nel suo paese come un salvatore quando ormai non possedeva più
nulla, questo legittimo sovrano spodestato dalla Chiesa e dal suo re e ristabilito nei suoi diritti
dalla volontà popolare, poté credere, in punto di morte, che la sua causa avesse vinto. Suo
figlio, cui abilmente aveva ceduto il posto, almeno ufficialmente, era ormai il capo del paese e
poteva continuare la sua opera; l'eliminazione di Amalrico di Montfort era solo questione di
tempo; la Linguadoca, insieme alla libertà, ritrovava un'unità nazionale mai conosciuta prima
della crociata, e i conti di Tolosa avevano acquisito una popolarità che un tempo non si
sarebbero nemmeno sognata.
Tuttavia, il conte moriva scomunicato, e malgrado le sue richieste e le sue preghiere, venne
privato, sul letto di morte, degli ultimi sacramenti. Il suo testamento e tutte le testimonianze
(prodotte in occasione dell'inchiesta ordinata da suo figlio) attestano che era morto nella fede
cattolica, era affiliato all'ordine dei Cavalieri dell'Ospedale, e aveva espresso il desiderio di
essere sepolto nell'ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, edificio appartenente a
quest'ordine.
Se la sua morte fu rattristata dal dolore di essere privato del soccorso della religione, le sue
spoglie dovettero subire fino in fondo tutte le umiliazioni riservate agli scomunicati: privato di
una sepoltura in uno spazio consacrato, il suo corpo rimase per anni chiuso in una bara
abbandonata nel giardino presso il cimitero; suo figlio per venticinque anni avrebbe vanamente
implorato la Santa Sede, moltiplicando le indagini e i passi per ottenere soddisfazione. Mal
protetto, il corpo fu mangiato dai topi; le ossa vennero disperse; il cranio, estratto dalla bara, fu
conservato dagli Ospitalieri.
Dopo la morte del padre, il giovane conte (aveva ormai ventisei anni) continuò la metodica
riconquista del paese. I Francesi non erano più i tiranni detestati di un tempo, ma degli stranieri
indesiderabili da cacciare al più presto. Entrambe le parti erano spossate da questa guerra che
non appariva più una necessità vitale. Nel maggio 1223 venne conclusa fra il giovane conte e
Amalrico di Montfort una tregua, che doveva fungere da preliminare a una conferenza di pace
da tenersi a Saint-Flour. E se, a Saint-Flour, i due rivali non giunsero a un accordo, si constatò
almeno una certa distensione, e Raimondo Settimo manifestò così tanta buona volontà verso
Amalrico da impegnarsi a sposarne la sorella dopo aver ripudiato Sancia d'Aragona.
Guglielmo di Puylaurens (5) racconta che durante questa tregua il conte fece uno scherzo di
dubbio gusto, lasciando credere, un giorno in cui si trovava a Carcassonne da Amalrico di
Montfort, di essere stato arrestato; il suo seguito fuggì spaventato e i due conti ne risero
insieme. Apprendiamo che Raimondo Settimo «amava ridere»; si può dire lo stesso anche di
Amalrico? La guerra nella quale i loro padri avevano consumato le loro forze e perso la vita,
per questi ragazzi di venticinque anni era già un tema su cui scherzare? Raimondo trionfava
senza risentimento, Amalrico si difendeva senza disperazione, si conoscevano fin
dall'adolescenza e, vivendo da una quindicina d'anni in un'atmosfera di sangue, di crudeltà, di
tradimenti e di vendette, dovevano essere stanchi di odiare; e non dovevano essere i soli.
La tregua non condusse alla pace, entrambe le parti si appellarono al re di Francia e venne
riunito un concilio a Sens. Ma Filippo Augusto, già gravemente malato, morì prima di poterci
andare, il 14 luglio 1223; suo figlio, preoccupato dai compiti urgenti impostigli dalla
successione al trono paterno, non poté prendere alcuna decisione e si limitò a far inviare ad
Amalrico un sussidio di diecimila marchi d'argento. La guerra ricominciò.
La situazione di Amalrico divenne così critica che, malgrado l'aiuto procuratogli dal vecchio
arcivescovo di Narbonne, Arnaldo Amalrico (che aveva dimenticato il suo odio verso Simone di
Montfort e aveva addirittura impegnato parte dei beni della sua chiesa per permettere al giovane
conte di Montfort di pagare le sue truppe), riuscì a tenere con sé solo venti cavalieri, per lo più
vecchi compagni d'arme di suo padre. Benché offrisse in pegno i suoi possedimenti in Francia,
nessuno voleva più prestargli denaro; ormai pensava solo a organizzare la sua partenza.
Troppo felici di essersi infine sbarazzati di lui, i conti di Tolosa e di Foix firmarono con
Amalrico un accordo (il 14 gennaio 1224). Promisero di rispettare le persone e i beni di quanti,
durante la guerra, avevano patteggiato con i Montfort, di non toccare le guarnigioni lasciate a
Narbonne, Agde, Penne d'Albigeois, Valzergues e Termes; Carcassonne, Minerve e Penne
d'Agenais restavano, in teoria, ai Montfort. Amalrico lasciò Carcassonne portando con sé i corpi
del padre e del fratello; non aveva più soldi, al punto che, lungo la strada, dovette lasciare suo
zio Guido e altri cavalieri in pegno a dei mercanti di Amiens, per la somma di quattromila lire.
Poco dopo la sua partenza Carcassonne fu ripresa dal conte di Tolosa, che la restituì al giovane
Raimondo Trencavel, figlio del visconte Raimondo Ruggero. Il giovane principe rientrò in
possesso dei suoi domini fra le acclamazioni del popolo: quindici anni dopo il massacro di
Béziers le terre occitane ritrovavano i loro antichi signori (o almeno i loro figli) e il popolo per
un momento poté illudersi di avere riconquistato l'indipendenza di un tempo.
2. LA CROCIATA DEL RE LUIGI.
Le cose non stavano così: quell'indipendenza era solo un'illusione. Dal punto di vista
giuridico era messa in questione sia dalla Chiesa sia dalla dinastia capetingia; di fatto essa era
esposta ai rischi di una nuova guerra, che un paese sfinito, dissanguato, non era in grado di
sostenere.
Per rimediare alle perdite subite la Linguadoca avrebbe avuto bisogno di venti, trent'anni di
pace; le fu concesso un breve respiro di tre anni appena: la prospettiva di una nuova crociata
incombeva sempre sulla sua testa e dall'inizio del 1225 (nemmeno un anno dopo la partenza di
Amalrico) il papa Onorio Terzo fece energiche pressioni sul re di Francia per convincerlo a
prendere la croce.
I negoziati che si svolsero fra il re e il papa fecero tirare in lungo i preparativi della crociata;
ma si trattava solo di mercanteggiamenti per spartirsi le reciproche zone d'influenza nei quali
ciascuno voleva ottenere dall'altro promesse e garanzie per l'avvenire. Entrambi però sapevano
che l'opera iniziata così bene doveva essere condotta a buon fine, e rapidamente, prima che il
nemico avesse il tempo di riprendere le forze.
Il re rispose agli appelli papali ponendo delle condizioni: chiese per i suoi crociati
indulgenze plenarie, pretese la scomunica contro chiunque, in sua assenza, avesse attaccato i
suoi territori, e perfino contro quanti si rifiutassero di seguirlo e di sostenerlo finanziariamente;
domandò alla Chiesa sussidi di sessantamila lire all'anno, per un periodo di dieci anni; volle che
il papa nominasse legato l'arcivescovo di Bourges e, infine, che spodestasse solennemente e
definitivamente i conti di Tolosa e i Trencavel, confermandolo nel possesso dei loro domini.
Il papa esitò, certo pensando che il re mirasse solo a ingrandire i suoi domini a spese della
Chiesa. Un conte di Tolosa indebolito, scomunicato e sempre minacciato sia dal re di Francia
sia dalla Chiesa, avrebbe potuto fare il gioco del papato meglio di un re di Francia troppo
potente: in questo il papa non si sbagliava; e se per la Chiesa un re di Francia come san Luigi
doveva essere un'occasione insperata, suo nipote Filippo il Bello avrebbe fatto vedere ad
Anagni che una Francia troppo forte e troppo centralizzata non si sarebbe preoccupata di
rimanere sempre «il soldato di Dio». Ma ammesso che Onorio Terzo lo prevedesse, questo
pericolo era meno imminente della rinascente eresia. D'altro canto, preoccupato per le sorti
della Terra Santa e non volendo rischiare di immobilizzare in Linguadoca tutta la cavalleria
francese disponibile, il papa non perse di vista il vero scopo della crociata albigese: facendo
pesare su di lui la minaccia di una nuova invasione francese, tentò di costringere il conte
Raimondo a perseguitare lui stesso gli eretici. Per parte sua il re, vedendo che il papa era
disposto a trattare con Raimondo, dichiarò che così stando le cose il problema dell'eresia non
gli interessava più. Il conte di Tolosa, riconoscente, tentò di dimostrare alla Santa Sede la sua
buona volontà e giurò al concilio di Montpellier (agosto 1224) di perseguitare gli eretici, di
cacciare le truppe mercenarie, di risarcire le chiese spogliate nonché il conte di Montfort, se si
fosse impegnato a rinunciare alle sue pretese.
Poco soddisfatto delle promesse di Raimondo, e timoroso di scontentare il re di Francia, il
papa fece tirare in lungo la trattativa, e finì per convocare un concilio, da tenersi a Bourges, nel
quale gli argomenti dei due pretendenti alla contea di Tolosa sarebbero stati ascoltati da
un'assemblea di rappresentanti della Chiesa. Il 30 novembre 1225 quattordici arcivescovi,
centotredici vescovi e centocinquanta abati di tutte le province della Francia meridionale e
settentrionale si riunirono a Bourges; era chiaro che una giuria composta di prelati non poteva
dare ragione a Raimondo Settimo, scomunicato e sospetto di favorire l'eresia; la sua causa,
quindi, era persa in partenza.
Presieduto dal nuovo cardinale legato, Romano di Sant'Angelo, il concilio si limitò a
raccogliere i dossier di entrambe le parti e a licenziare il conte di Tolosa, rinviando la decisione
a una data successiva. Come al tempo in cui i legati si rifiutarono di sentire le giustificazioni di
Raimondo Sesto, i prelati di Bourges cercavano solo un mezzo legale per condannare il conte
senza ascoltarlo; non bisognava permettergli di dare pubblicamente quelle garanzie che la
Chiesa gli richiedeva e che lui era pronto a offrire. I vescovi dubitavano della sua buona fede, e
il re non voleva correre il rischio di perdere, con quelli di Amalrico, i suoi propri diritti sulla
Linguadoca.
Così, in assenza dell'interessato venne pronunciata una nuova sentenza di scomunica contro
Raimondo Settimo, il conte di Foix e il visconte di Béziers (28 gennaio 1226). Nel frattempo,
Amalrico di Montfort vendeva al re di Francia i suoi diritti e i suoi titoli; d'accordo con la
Chiesa, il re diventava infine il legittimo padrone della Linguadoca, a danno dei veri sovrani di
quel paese.
Questa volta non si trattava più di una crociata predicata sui sagrati delle chiese e dai pulpiti
delle cattedrali; era una crociata solo di nome, di fatto il re di Francia partiva in guerra per
prendersi una provincia, dopo una serie di passi diplomatici più o meno laboriosi destinati a
fornire un pretesto legale alla conquista. E' del tutto evidente che questo gran traffico di omaggi
ricevuti, offerti, rifiutati, venduti, accettati, non aveva in sé alcun valore e, pur sanzionato dalla
Chiesa, aveva come unica giustificazione il diritto del più forte. Non fu l'odio per l'eresia che
spinse il re a pretendere il concorso, finanziario e morale, della Chiesa e a prendere la croce
solo dopo avere avuto dal papato il formale riconoscimento dei suoi diritti al possesso integrale
e senza riserve delle terre del Mezzogiorno. Egli si servì della Chiesa come la Chiesa si servì di
lui.
Per questa guerra di conquista Luigi Ottavo intendeva beneficiare di tutti i vantaggi accordati
dalla Chiesa ai soldati di Dio, nonché dei sussidi ecclesiastici. Con simili carte in mano, il re
riuscì a reclutare un esercito notevole. Vedremo che quest'esercito, malgrado la sua imponenza
numerica, il valore dei suoi cavalieri e la magnificenza del suo equipaggiamento, non era né
particolarmente unito, né animato da un eccessivo entusiasmo. La questione della Linguadoca,
divenuta impresa personale del re, certo non esaltava né i fanatici né i grandi ambiziosi; per
costringere i suoi baroni a farsi crociati, il re fu costretto a imporre forti penalizzazioni a quanti
rifiutassero di partire. Gli stessi chierici erano scontenti, perché li si obbligava a versare in
favore della crociata le decime delle loro rendite, che venivano prelevate loro d'ufficio. Il re
prese la croce nel gennaio 1226, e in giugno il suo esercito si mise in marcia. Sembra che
numericamente fosse più forte di quello che aveva disceso il Rodano nel 1209, dirigendo su
Béziers; probabilmente era meno temibile. Ma avvicinandosi gettò le popolazioni del
Mezzogiorno in una tale costernazione che il conte di Tolosa, pur deciso a difendersi, dovette
rendersi conto che la partita era già persa.
Luigi Ottavo, l'autore della carneficina di Marmande, non poteva ispirare agli uomini del
Mezzogiorno né fiducia né rispetto. Per pio e benevolo che fosse, doveva godere nel paese di
una grande fama di crudeltà perché, alla notizia della sua imminente partenza, nella primavera
del 1226, numerosi signori locali si affrettarono a fare atto di sottomissione nei suoi confronti: è
quanto fecero Eracle di Montlaur e Pietro di Sauve (genero del defunto Raimondo Sesto), che
addirittura si recarono direttamente a Parigi; e inoltre Pons di Thézan, Berengario di
Puisserguier, Pons e Frotard d'Olargues, Pietro Raimondo di Corneilhan, Bernardo Ottone di
Laurac, Raimondo di Roquefeuil, Pietro di Villeneuve, Guglielmo Méchin, e altri. Questi
signori appartenevano alla nobiltà fedele al conte di Tolosa; i loro nomi compaiono nelle liste di
coloro che accompagnarono Raimondo Sesto al Concilio Laterano, e che in seguito si
rivoltarono all'autorità francese sotto Raimondo Settimo. Bernardo Ottone di Laurac (o di
Niort) era eretico e, qualche anno più avanti, avrebbe subito innumerevoli persecuzioni per la
sua fede; ma fu lui a scrivere (o a fare scrivere) a Luigi Ottavo: «Siamo ansiosi di porci
all'ombra delle vostre ali e sotto la vostra saggia dominazione». Bisognerebbe essere parecchio
ingenui per credere alla lealtà di simili dichiarazioni di fedeltà.
Le città, saputo che l'esercito del re si era messo in cammino, mandarono le loro delegazioni
a giurargli fedeltà. Prima Béziers, poi Nîmes, Puylaurens, Castres; durante l'assedio di
Avignone fu la volta di Carcassonne, Albi, Saint-Gilles, Marsiglia, Beaucaire, Narbonne,
Termes, Arles, Tarascona e Orange. Questa lista è di per sé abbastanza eloquente. Solo il terrore
poteva provocare una simile pioggia di sottomissioni spontanee: quelle città nelle quali i
Francesi erano odiati, e che erano gelosissime della loro indipendenza, non potevano avere la
minima voglia di mettersi sotto l'ombra delle ali del re; si ricordavano di Béziers e di
Marmande.
Il conte di Tolosa, lungi dal sottomettersi, riunì i suoi vassalli più fedeli, in primo luogo
Ruggero Bernardo di Foix e Raimondo Trencavel; inoltre chiamò in aiuto Enrico Terzo
d'Inghilterra, suo cugino primo, e Ugo Decimo di Lusignano, conte della Marca, al cui figlio
progettava di dare in sposa la sua unica figlia. Quest'ultimo non osò marciare contro il re di
Francia, ed Enrico Terzo, minacciato di scomunica dal papa, si limitò ad abbozzare un progetto
di alleanza. Di fatto, Raimondo Settimo poteva contare quasi solo su Tolosa e su di un esercito
abbastanza debole a causa delle defezioni di un gran numero di baroni; ma contava anche sul
tempo, che gli avrebbe riavvicinato i suoi sudditi, passato il primo momento di terrore.
L'armata reale si fermò davanti ad Avignone che, dopo avergli prestato obbedienza, gli
rifiutò il passaggio; il 10 giugno il re, «per vendicare l'ingiuria fatta all'armata di Cristo», giurò
di non muoversi di lì prima di aver preso la città e fece innalzare le macchine da guerra. Passato
il primo spavento, Avignone era decisa a resistere; non solo, in quanto città dell'Impero, non
intendeva farsi dettare legge dal re di Francia. Le mura della città, ben solide, erano difese da
una numerosa milizia e da una forte guarnigione di mercenari. Avignone si difese con tanta
energia che per due mesi l'esito della guerra rimase incerto. Ma mentre i suoi soldati erano
esposti alla fame, alle epidemie, alle frecce e ai proiettili lanciati dagli assediati, nonché agli
attacchi delle truppe del conte di Tolosa, che li incalzavano alle spalle, il re riceveva le
delegazioni dei signori e delle città meridionali spinti alla sottomissione dal timore di nuovi
massacri da parte dei crociati. I prelati, specie Folco e il nuovo arcivescovo di Narbonne, Pietro
Amiel, negoziavano queste capitolazioni anticipate, promettendo pace e clemenza da parte del
re di Francia.
A Carcassonne i consoli e il popolo, terrorizzati, cacciarono il visconte Raimondo e il conte
di Foix. Il conte di Provenza venne dinnanzi ad Avignone, durante l'assedio, per sollecitare la
protezione del re. Narbonne, ove il partito cattolico era sempre stato potente, Castres e Albi si
arresero prima dell'arrivo dell'esercito reale. Ciononostante Avignone reggeva bene e i suoi
difensori osavano perfino attaccare il campo del re. Lo scontento cresceva nell'esercito crociato,
e baroni come il conte di Champagne e il duca di Bretagna manifestavano il loro desiderio di
tornare in patria.
Tebaldo di Champagne lasciò il re ben prima della fine dell'assedio, giunti al termine i suoi
quaranta giorni. Ma la città bloccata, cominciava a soffrire per la carestia, e il legato Romano di
Sant'Angelo trattò la capitolazione. Dopo tre mesi di assedio Avignone si arrese e dovette
accettare le condizioni del vincitore; consegna degli ostaggi, distruzione dei bastioni e degli
edifici fortificati, pesanti tributi finanziari. Questa grande città libera, vassalla dell'Imperatore e
ritenuta imprendibile, non aveva mai subito, prima di allora, un trattamento simile. Federico
Secondo, del resto, avrebbe (abbastanza inutilmente) protestato presso il papa contro questa
violazione dei suoi diritti. Il re di Francia non ne tenne conto, e lasciò nella città una sua
guarnigione. La capitolazione di Avignone fu un colpo di fortuna per l'esercito reale: infatti,
qualche giorno dopo, una piena della Durance allagò l'area del campo crociato.
Una fortuna ancor maggiore, comunque, fu che le città delle regioni di Albi e Carcassonne,
che fintanto che il re era immobilizzato davanti ad Avignone si erano limitate a una
sottomissione puramente teorica, gli aprirono le porte, accettando senza discutere tutte le sue
condizioni: la caduta di Avignone, una delle più grandi città della Gallia, impressionò il paese
quasi come se a cadere fosse stata Tolosa.
Il re occupò senza colpo ferire Beaucaire, poi tutte le grandi città che tracciano il cammino
verso Tolosa, da Béziers a Puylaurens. Dinnanzi a Tolosa si fermò. La capitale della
Linguadoca non aveva mandato nessun messaggio, nessuna delegazione, e il conte, con le sue
truppe numericamente molto inferiori a quelle del re, tallonava l'esercito reale e lo impegnava
in una guerra di imboscate e di scaramucce, lanciandosi sulle avanguardie e sulle retroguardie.
Gli stessi signori che, qualche mese prima, avevano inviato al re lettere in cui lo salutavano
come un salvatore, «bagnando di lacrime i suoi piedi e con preghiere cariche di pianto» (lettera
di Siccardo di Puylaurens), anziché prestargli l'omaggio, si ritiravano sulle montagne per
prepararsi alla difesa.
Il re ristabilì nei loro feudi gli antichi compagni del Montfort, e diede (o rese) Castres a
Guido di Montfort; lasciò dei siniscalchi in tutte le città occupate; ricevette le chiavi delle città
sottomesse, dai Pirenei al Quercy, dal Rodano alla Garonna, e si trascinò dietro un esercito
demoralizzato, decimato dalle malattie, ma la cui forza stava nell'immensa miseria di un paese
sfinito da quindici anni di guerra. Nell'ottobre 1226 l'armata reale non aveva né la forza né la
volontà di iniziare l'assedio di Tolosa: i cronisti del tempo sono unanimi nel rilevare che era
demoralizzato, stanco, che le malattie e gli scontri militari gli avevano inflitto numerose
perdite; lui stesso malato, il re sarebbe morto in cammino, qualche giorno dopo avere lasciato la
Linguadoca.
Se tutte le città avessero resistito come Avignone, la crociata reale si sarebbe risolta in un
completo disastro. Ma il re e il legato avevano studiato bene la loro mossa: avevano attaccato
un ferito appena convalescente, ancora incapace di reggersi in piedi. Ai tempi di Simone di
Montfort Avignone non aveva sofferto per la guerra. Eppure questi mezzi vincitori si ritiravano
sfiniti essi stessi, perché la capacità di resistenza passiva del paese era ancora abbastanza
grande da rendere la campagna penosa e piena di imboscate. Il ritorno dei crociati che
riportarono, cucita in una pelle di bue, la salma del pio re, non ebbe nulla di trionfale.
Morto a trentasette anni, Luigi Ottavo lasciava il trono a un bambino di undici anni, e la
reggenza a una vedova costretta a fronteggiare la rivolta dei grandi vassalli. Per sfortuna della
Linguadoca, questa vedova era Bianca di Castiglia, donna dotata di un'energia e di
un'ambizione sconosciute a suo marito e a suo figlio. Se le popolazioni meridionali si
rallegrarono della morte di Luigi, dovettero comprendere ben presto che da Scilla erano finiti a
Cariddi; e i trovatori, tempo dopo, avrebbero rimpianto il «buon re Luigi (6)».
L'esercito lasciato in Linguadoca dal re a difesa dei territori conquistati era più grande di
quello di cui disponeva Simone di Montfort nel 1209. La sua situazione era meno precaria:
luogotenente del re, il siniscalco Umberto di Beaujeu non dipendeva dai favori dei crociati di
passaggio; il re di Francia era tenuto a inviargli aiuti. Tuttavia, durante l'inverno 1226-1227, i
conti di Tolosa e di Foix ripresero Auterive, La Bessède e Limoux; la nobiltà meridionale serrò
i ranghi e il popolo si sollevò contro i Francesi. Umberto di Beaujeu chiese rinforzi perché,
sebbene fosse solidamente attestato a Carcassonne (che, servita da quartiere generale al
Montfort per quindici anni, era stata prescelta anche dall'esercito reale), aveva perso i castelli e
le città dei dintorni, tornati sotto il controllo dei loro antichi signori.
La reggente, alle prese con la coalizione dei grandi vassalli - i conti della Marca, di
Champagne, di Boulogne, di Bretagna - aveva bisogno di soldi, e pensava di utilizzare per la
sua guerra feudale la decima accordata dalla Chiesa per la crociata albigese; i prelati rifiutavano
di pagare, malgrado la collera del legato Romano di Sant'Angelo, che prese partito per la regina
contro la Chiesa. Ma poiché i vescovi si appellarono al papa, Bianca di Castiglia ottenne il
denaro solo inviando rinforzi a Umberto di Beaujeu. E se, con promesse e minacce, giunse a
sconfiggere rapidamente la lega dei vassalli, la questione della Linguadoca restava per lei fonte
di notevoli difficoltà. Questa provincia, la cui conquista era stata intrapresa da suo marito, e a
cui la corona di Francia non poteva più rinunciare senza perdere la faccia, sembrava potesse
essere soggiogata solo con spedizioni militari importanti, rinnovate ogni anno; ma con la
costante minaccia dell'Inghilterra, la regina non poteva permettersi di immobilizzare le sue
forze nel Sud, mentre il papa incessantemente la spingeva a riprendere la guerra santa contro
l'eresia.
Bianca di Castiglia non volle approfittare della sua condizione di donna e di vedova per
sbarazzarsi delle sue responsabilità: malgrado le minacce provenienti dal Nord, riuscì a
mantenere in Linguadoca truppe sufficienti a vessare e a indebolire l'avversario, pur senza
schiacciarlo. Con i rinforzi inviatigli nella primavera del 1227, Umberto di Beaujeu riprese il
castello di La Bessède, facendovi massacrare la guarnigione, e saccheggiò le campagne nella
regione del Tarn. L'anno dopo penetrò nella contea di Foix (dove Guido di Montfort fu ucciso
davanti a Varilles) e, pur perdendo Castelsarrasin, riconquistò il castello di Montech. Poi, con
nuovi rinforzi portatigli dagli arcivescovi di Auch, di Narbonne, di Bordeaux e di Bourges,
marciò su Tolosa, sempre inespugnabile. Il piano dei Francesi non era più di riportare vittorie
militari, ma di distruggere il paese per renderlo a poco a poco incapace di difendersi.
E' quanto mostra in modo assai esplicito Guglielmo di Puylaurens, descrivendo i saccheggi
compiuti dall'esercito di Umberto di Beaujeu davanti a Tolosa: guidati e incitati da Folco (il
vescovo transfuga che, non potendo rientrare nella sua città, era carico di sacro furore contro i
suoi diocesani), i crociati si abbandonarono a una sistematica distruzione dei dintorni della città.
Nell'estate del 1227, i Francesi installarono il loro campo a est di Tolosa e, giorno dopo giorno,
organizzarono spedizioni contro i vigneti, i campi dl grano, i frutteti e - come contadini alla
rovescia - falciavano i campi, strappavano le vigne, demolivano le cascine e gli edifici
fortificati.
«... Non appena faceva giorno - dice lo storico - i crociati ascoltavano la messa, facevano
una sobria colazione e si mettevano in cammino, preceduti da un'avanguardia di arcieri...
Cominciavano a danneggiare le vigne più vicine alla città, nell'ora in cui gli abitanti si erano
appena svegliati; poi si ritiravano verso i campi, seguiti passo passo dalle milizie pronte a dare
battaglia, e continuavano la loro opera di distruzione. Fecero così ogni giorno, per circa tre
mesi, finché la devastazione fu quasi completa (7)».
Lo storico, grande ammiratore di Folco, aggiunge: «Ricordo che il pio vescovo diceva,
vedendo tornare questi devastatori che sembravano gente in fuga: 'E' fuggendo così che
trionferemo in modo meraviglioso sui nostri nemici'. Difatti, in questo modo si invitavano i
Tolosani a convertirsi e a umiliarsi, togliendo loro quel che faceva il loro orgoglio. Ci si
comporta saggiamente così anche con i malati, allontanandogli dalle mani quanto potrebbe
nuocergli, se preso in quantità eccessiva. Il pio vescovo agiva come un padre che solo per
affetto castiga i suoi figli».
Si tratta di un'osservazione abbastanza cinica, se si pensa che ciò che faceva «l'orgoglio» dei
Tolosani, e che rischiavano di prendere «in quantità eccessiva» era semplicemente il loro pane
quotidiano.
Il conte, impegnato nella guerra, desideroso di riconquistare ai Francesi le piazzeforti e i
punti strategici, non disponeva di truppe sufficienti per opporsi a questa devastazione dei suoi
domini. Non erano truppe di vagabondi, ma un esercito potente e ben organizzato che si dava
metodicamente a questa guerra priva di combattimenti, i cui avversari erano il grano, i ceppi
delle vigne e il bestiame.
Malgrado ciò, la lotta aveva ritrovato l'asprezza di un tempo e, in risposta al massacro della
guarnigione di La Bessède, i conti mutilarono atrocemente i prigionieri (non cavalieri) catturati
in una battaglia presso Montech e li abbandonarono nella foresta con gli occhi strappati e le
mani mozzate. Umberto di Beaujeu, i crociati e i vescovi che li accompagnavano sapevano
dunque che il paese non si sarebbe mai sottomesso di buon grado all'autorità reale; che quelle
terre avrebbero compreso «il loro vero interesse» - come dice Guglielmo di Puylaurens - solo il
giorno in cui il popolo che le abitava avesse cessato di esistere come nazione.
Il conte di Tolosa cominciò a rendersi conto della necessità di raggiungere una tregua, sia
pure al prezzo di una capitolazione; una tregua che permettesse al paese di medicare le sue
ferite e di preparare la rivincita. Ma se, acconsentendo alle trattative in vista di un trattato di
pace con il regno di Francia, Raimondo Settimo sperava di dare al suo popolo un'occasione per
ritrovare un po' di riposo e un minimo di prosperità, sottovalutava l'intelligenza e soprattutto la
mancanza di scrupoli dei suoi avversari. La pace che stava per firmare doveva rivelarsi più
crudele di una guerra; e senza essere stato veramente sconfitto, egli si sarebbe visto imporre
condizioni che mai nessun monarca impose al suo nemico, nemmeno dopo la più schiacciante
delle vittorie.
Se la lettura delle clausole di quel trattato ci sorprende ancor oggi, se si è tentati di cercarne
la spiegazione nella rudezza dei costumi dell'epoca, non dobbiamo dimenticare che anche i
contemporanei ne rimasero stupefatti, e che questo appariscente trionfo della causa del più forte
era del tutto contrario alle leggi feudali. Ci si può chiedere per quale strano malinteso il conte,
che sembra non essere stato privo di buon senso né di coraggio, abbia potuto firmare un simile
trattato; bisogna cercare la spiegazione nell'estrema miseria nella quale il popolo era stato
ridotto dalla guerra.
La crociata organizzata dal re era servita solo a esasperare l'odio, e che cosa ci si poteva
aspettare di buono da un sovrano i cui sforzi erano principalmente rivolti a saccheggiare le terre
e a sradicare gli alberi? Nel 1229 il conte resisteva ancora, ma i suoi vassalli più fedeli, come i
fratelli di Termes e Centulle d'Astarac, deposero le armi nel timore di vedere i loro domini
sottoposti allo stesso trattamento dei dintorni di Tolosa. La capitale era minacciata dalla
carestia. Le sconfitte inflitte ai soldati nemici, che non si battevano sulla loro terra e che erano
liberi di tornare in patria quando volevano, sembravano risibili a confronto delle devastazioni
che i combattimenti infliggevano al paese da oltre vent'anni.
I Francesi, in tre anni, avevano perduto il re, l'arcivescovo di Reims, il conte di Namur, il
conte di Saint-Pol, Boccardo di Marly, Guido di Montfort, per limitarsi ai soli capi. Le perdite
di uomini d'arme erano valutate a ventimila per la sola campagna del 1226, e benché gli storici
del periodo non abbiano saputo redigere delle statistiche esatte e abbiano indubbiamente fornito
cifre esagerate, sembra che le perdite francesi fossero state molto pesanti. Ciononostante la
regina e il legato (il cui impegno non poteva essere messo in dubbio) si sentivano rimproverare
dal papa per la lentezza nello sterminio dell'eresia.
Il papa Gregorio Nono, eletto al posto di Onorio Terzo, morto nel 1227, altri non era che
Ugolino, cardinale arcivescovo di Ostia, grande amico di san Domenico; questo vecchio,
parente di Innocenzo Terzo, era dotato di un temperamento più intransigente e più autoritario
ancora di quello del cugino, suo predecessore. La reggente di Francia, quali che fossero la sua
ambizione politica e il suo zelo religioso, doveva indubbiamente sentire dell'amarezza davanti
alle pretese e alle minacce con le quali questo papa la subissava, proprio nel momento in cui già
faticava tanto a fare rispettare i diritti di suo figlio, ancora minorenne.
Fu così da parte francese che vennero le proposte di pace, indirizzate a Raimondo Settimo
grazie all'intermediazione di Elia Guérin, abate di Grandselve. Gli eretici, beninteso, erano
destinati a fare le spese di questa pace: su questo né il conte né i suoi amici potevano farsi
illusioni. Ma essi non prevedevano un trattato di pace che sarebbe stata una pura e semplice
annessione del loro paese, un trattato di pace del quale ciascuna clausola da sola - constata
stupefatto Guglielmo di Puylaurens - sarebbe valsa da riscatto del conte se fosse stato fatto
prigioniero. Quest'ecclesiastico ragionava ancora da uomo del feudalesimo, e giudicava
secondo nozioni giuridiche che le tendenze totalitarie delle grandi monarchie e della Chiesa
stavano rendendo sempre più fragili. «Questo trattato va attribuito a Dio, e non agli uomini
(8)», conclude il cronista, in modo più melanconico di quanto non voglia ammettere.
NOTE.
(1) "Chanson de la Croisade", cap. 212, 9306-9~21.
(2) Guglielmo il Bretone, "Bouquet", 17, 11 d.
(3) Il vescovo di Tolosa che aveva protetto la città dai Vandali nel quinto secolo.
(4) Guglielmo di Puylaurens, cap. 33.
(5) Ivi, cap. 34.
(6) Confronta Dom Vaissette, op. cit. Cap. 65 del libro 23: "Poètes provençaux", nel t. 6
dell'edizione 1879, p.p. 556-559.
(7) Guglielmo di Puylaurens, cap. 38.
(8) Guglielmo di Puylaurens, cap. 39.
Capitolo ottavo
L'INQUISIZIONE.
1. GLI ESORDI DELL'INQUISIZIONE.
Il 27 luglio 1233 Gregorio Nono nominò l'arcivescovo di Vienne, Stefano di Burnin, legato
apostolico per le province di Narbonne, Arles, Aix e Vienne e per le diocesi di Clermont, Agen,
Albi, Rodez, Cahors, Mende, Périgueux, Comminges, Lectoure e Le Puy, con speciale mandato
di estirpare l'eresia nella Francia meridionale ed estendendo i suoi pieni poteri alle province di
Auch, Bordeaux, Embrun, Catalogna e Tarragona. Tramite questo legato vennero confermati, a
nome della Santa Sede, i poteri accordati ai due frati designati dal provinciale dei Predicatori di
Tolosa: Pietro Cellani e Guglielmo Arnaldo, che furono i due primi inquisitori.
Pietro Cellani era un ricco borghese di Tolosa, uno dei primi compagni di san Domenico;
discepolo fervente del frate spagnolo, aveva dato una delle sue case per ospitarvi la nascente
comunità domenicana. Guglielmo Arnaldo era originario di Montpellier e godeva di una grande
autorità fra i domenicani di Tolosa. Erano stati dati loro pieni poteri per combattere l'eresia,
senza che essi dovessero rendere conto né alla giustizia episcopale né a quella civile; e questi
poteri si estendevano alle intere diocesi di Tolosa e di Albi.
La prima azione inquisitoria dei due domenicani fu la cattura di Vigoros di Baconia, che
passava per essere il capo degli eretici di Tolosa. Vigoros venne giudicato e quasi subito
giustiziato. Privando la Chiesa catara di uno dei suoi capi più decisi, i nuovi inquisitori
inauguravano la loro attività con un colpo magistrale.
Pietro Cellani restò a Tolosa, mentre Guglielmo Arnaldo partì per un lungo giro di ispezione
attraverso tutta la provincia. Visitò Castelnaudary, Laurac, Saint-Martin-la-Lande, Gaja,
Villefranche, La Bessède, Avignonet, Saint-Félix, Fanjeaux, pretendendo l'aiuto delle autorità
ecclesiastiche locali nella ricerca degli eretici e nella convocazione dei sospetti. Dobbiamo
credere che procedette con un'energia poco comune, dal momento che l'anno stesso il conte
scrisse al papa per lamentarsi di questi plenipotenziari della Santa Sede, rimproverando loro
fatti dei quali non aveva mai accusato i giudici delle diocesi episcopali: gli inquisitori - diceva -
si discostavano dalla procedura legale, interrogavano i testimoni a porte chiuse, rifiutavano agli
imputati l'assistenza degli avvocati e ispiravano una paura tale che le persone convocate
denunciavano degli innocenti, mentre altri approfittavano del segreto che circondava la
deposizione dei testimoni per denunciare come eretici i loro nemici personali.
Il conte accusava gli inquisitori anche di intentare processi a persone da tempo riconciliatesi
con la Chiesa e di punire come ribelli quanti tentavano di appellarsi alla Santa Sede: «Cosicché
- disse - essi sembrano lavorare più per consolidare nell'errore che per ricondurre alla verità;
perché essi agitano il paese e con i loro eccessi eccitano le popolazioni contro i conventi e i
chierici».
Sembra quindi che a partire dal 1233 la repressione dell'eresia in Linguadoca avesse
cambiato aspetto e fosse divenuta ben più vigorosa. Tuttavia i due domenicani non disponevano
di mezzi materiali superiori a quelli del vescovo; più tardi ricevettero l'autorizzazione a farsi
accompagnare da una scorta armata che costituiva una specie di guardia del corpo, composta
oltre che da alcuni sergenti d'armi, da carcerieri, notai, e anche da assessori e consiglieri. Questi
collaboratori degli inquisitori non furono mai molto numerosi e, nel 1249, lamentando il loro
numero eccessivo, il papa Innocenzo Quarto li limitò a ventiquattro per ciascun inquisitore, il
che fa pensare che non ce ne fossero centinaia. All'inizio gli inquisitori non avevano a
disposizione questi collaboratori speciali, ma esigevano l'aiuto delle autorità locali, sia
ecclesiastiche sia laiche.
La loro forza, quindi, stava soprattutto nell'energia senza pari di questi uomini, nella loro
certezza di non poter essere ostacolati nell'esercizio delle loro funzioni da alcun organismo
ufficiale e nei procedimenti arbitrari e illegali che perciò potevano permettersi; certo è che
riuscirono a seminare nel paese un vero e proprio terrore.
Le lagnanze del conte mostrano che l'attività incontenibile dei due frati provocava il
malcontento generale; il che prova, per lo meno, che era efficace. Il papa, formalmente,
raccomandò ai suoi inquisitori di procedere con la massima delicatezza, e scrisse al legato
Stefano di Burnin e ai vescovi domandando loro di intervenire, in caso di necessità, in difesa
degli innocenti; ma non sembra che gli inquisitori siano stati trattenuti più di tanto da questi pii
desideri di Gregorio Nono. Al contrario, a Tolosa come nel Quercy l'agitazione continuava a
crescere. Così, a Tolosa gli inquisitori incontrarono un inatteso avversario nella persona di un
certo Giovanni Tisseyre, abitante di uno dei sobborghi; quest'uomo del popolo percorreva le
strade arringando le folle della città in questi termini: «Signori, ascoltatemi. Non sono eretico:
perché ho una moglie e dormo insieme a lei, ho dei figli, mangio carne, dico menzogne e giuro,
e sono un buon cristiano. Quindi non credete una sola parola di quanti dicono che non credo in
Dio. Potranno rimproverarlo a voi come lo rimproverano a me, perché questi maledetti
vogliono sopprimere la gente onesta e togliere la città al suo signore (1)». Simili dichiarazioni
sovversive ovviamente attirarono sul Tisseyre i sospetti degli inquisitori, che lo fecero arrestare
e lo condannarono al rogo, malgrado egli insistesse a dichiararsi buon cristiano e buon
cattolico. Quando il giudice Durando di Saint-Bars decise di far eseguire la sentenza ci fu una
sollevazione popolare, e la folla protestò così rumorosamente contro i frati e contro Durando
che si dovette ricondurre il condannato in prigione. La collera degli abitanti di Tolosa, tuttavia,
non si placò: essi pretendevano la liberazione del Tisseyre e volevano distruggere il convento
dei domenicani, che accusavano di eresia gente onesta e sposata.
E' probabile, in effetti, che il Tisseyre non fosse propriamente eretico e che il suo
comportamento fosse dettato da un'indignazione del tutto disinteressata di fronte agli eccessi
delle procedure inquisitoriali. Questo patriota, che si disperava al vedere che «questi maledetti»
tentavano di togliere la città al suo signore, indubbiamente simpatizzava con gli eretici per odio
verso la Chiesa; e lo stesso faceva buona parte del popolo. Ma il fatto significativo nella storia
di questo martire della libertà è che, incontrati in prigione molti 'perfetti' appena catturati da G.
Denense, balivo di Lavaur, egli subito si convertì alla loro fede, si fece dare il "consolamentum"
e, malgrado le suppliche del vescovo, confessò a testa alta la sua adesione alla Chiesa catara e il
suo desiderio di condividere la sorte dei 'perfetti': fu bruciato insieme a loro. «Tutti quanti fino
ad allora l'avevano sostenuto - scrive Guglielmo Pelhisson - confusi, lo condannarono e lo
maledissero (2)»: il che sembra provare che in precedenza non lo si considerava un eretico.
Se i protettori del Tisseyre restarono «confusi», gli inquisitori dovettero esserlo altrettanto: la
volontà di martirio di un Giovanni Tisseyre costituiva un capo d'accusa contro di loro non meno
grave dell'esecuzione di un uomo della cui eresia fosse lecito dubitare. Se non vi furono altri
Tolosani disposti a seguire l'esempio del Tisseyre, il suo comportamento dovette rinsaldare
nella fede catara molti simpatizzanti tiepidi o esitanti, perché quell'uomo, che notoriamente non
era cataro, aveva abbracciato tale religione quando sapeva che la conversione l'avrebbe
condotto a una morte certa. Ed egli doveva essere popolare non solo fra gli eretici, ma anche fra
quei cattolici devoti al loro conte, che condannavano non la dottrina, ma la politica della
Chiesa.
Per due anni Guglielmo Arnaldo e Pietro Cellani fecero regnare a Tolosa e nella contea un
vero e proprio clima di terrore. Per paura di essere inquisita, la gente veniva ad autoaccusarsi in
massa; i domenicani non erano in grado di interrogare tutti e dovettero farsi affiancare da alcuni
Frati Minori (francescani) e dai curati della città. Ciò accadeva in genere dopo una predica
pubblica, durante la quale uno degli inquisitori assegnava un periodo di grazia - da otto a
quindici giorni - a quanti venissero spontaneamente a confessare le loro colpe. Chi non si
presentava, dopo il termine stabilito veniva citato in giudizio, arrestato e imprigionato dai
domenicani, aiutati dal vicario incaricato di amministrare la giustizia. Nella maggior parte dei
casi le deposizioni riguardavano episodi lontani nel tempo, ma è evidente che solo le persone in
grado di fare arrestare dei 'perfetti' o di compromettere seriamente dei credenti catari di un certo
livello beneficiavano dell'indulgenza plenaria dei giudici.
Molte delle persone che si presentavano si videro imporre penitenze canoniche - portare la
croce, pagare ammende e compiere pellegrinaggi; in questo modo evitavano la prigione, ma
restavano sempre sotto la minaccia della decisione dell'inquisitore, che poteva convocarli di
nuovo e condannarli; infatti, salvo ovviamente il caso della condanna a morte, il giudizio
dell'Inquisizione non era mai definitivo.
Un'inquisizione generale, con confessioni spontanee in massa e arresti, si svolse a Tolosa
dopo il venerdì santo del 1235. Un uomo (G. Doumenge), che non si era presentato, fu catturato
e minacciato di morte, e ottenne la libertà solo guidando di persona l'abate di Saint-Sernin e
l'amministratore di giustizia a Cassès, dove si trovavano dieci 'perfetti' di cui conosceva il
nascondiglio: tre di questi riuscirono a scappare, gli altri vennero presi e condannati al rogo.
Pietro Cellani e Guglielmo Arnaldo andarono insieme nel Quercy, dove fecero processi
postumi a Cahors, esumando e bruciando un gran numero di cadaveri. L'amministrazione locale
di Moissac doveva essere molto cattolica, perché qui gli inquisitori poterono incriminare di
eresia e bruciare duecentodieci persone. Il terrore che questo rogo mostruoso provocò nel paese
fu tale che alcuni religiosi di Belleperche nascosero, vestendolo da monaco, uno degli accusati,
che era riuscito a scappare. Del resto, in vari casi - e certamente non li conosciamo tutti - alcuni
monasteri diedero asilo a degli eretici; l'intransigenza dei domenicani, infatti, non era approvata
dagli altri ordini religiosi. Le continue proteste del conte costrinsero il papa a tenere per qualche
tempo lontani da Tolosa i due inquisitori, che perlustrarono il Quercy; e se, a Moissac, il
successo fu completo (un rogo di duecentodieci persone è un fatto unico anche nella storia di
quegli anni), da Cahors vennero indirizzate al papa molte proteste, nelle quali si denunciava
l'arbitrarietà delle procedure dei nuovi giudici. Per calmare gli animi il papa affiancò ai due
domenicani un francescano, frate Stefano di Saint-Thibéry; ma non cambiò nulla. Dopo la
spedizione nel Quercy, Pietro Cellani e Guglielmo Arnaldo rientrarono a Tolosa, dove
l'opposizione da sconfiggere era più forte che altrove, grazie alla presenza del conte e al
notevole potere dei consoli.
Il 4 agosto 1235, giorno della festa di san Domenico - prima occorrenza di questa festività,
poiché Domenico era stato canonizzato solo qualche mese prima - si svolsero in tutte le chiese
di Tolosa, specie in quelle dei domenicani, messe solenni, celebrate con una pompa
commisurata alla gloria del nuovo santo. Quel giorno venne segnato da un episodio tragico, che
i domenicani non mancarono di attribuire ai meriti del loro santo fondatore. Nel momento in cui
il vescovo Raimondo di Fauga, dopo la messa, si lavava le mani per entrare nel refettorio, gli fu
annunciato che una gran dama aveva ricevuto il "consolamentum" in una casa vicina, in Rue de
l'Olme sec. Indignato per una simile provocazione, il vescovo, accompagnato dal priore del
convento e da molti monaci, andò all'indirizzo indicato; la dama era la suocera di Peytavi
Borsier, notorio credente cataro ed elemento di collegamento fra gli eretici.
La vecchia signora, gravemente malata, forse già moribonda, probabilmente non vedeva
bene, o non capì che cosa stesse accadendo - e in ogni caso fu vittima di un sinistro malinteso:
quando le fu detto che il signor vescovo era venuto a trovarla, ella credette trattarsi del vescovo
cataro. Raimondo di Fauga, del resto, non fece nulla per chiarire la situazione, anzi, la lasciò
nell'errore con frasi a doppio senso; e interrogando la moribonda sulla sua fede, riuscì a ricavare
da lei una completa confessione della dottrina eretica. Spinse la sua perfidia fino a incoraggiarla
nel perseverare nella sua fede, perché - disse - «per paura della morte non dovete professarne
una diversa da quella che professate fermamente e di tutto cuore». Poiché la vecchia protestava
la sua fede, dicendo che non avrebbe rinunciato a essa per quanto le restava da vivere, il
vescovo le svelò la sua vera identità, la dichiarò eretica e la scongiurò di convertirsi alla fede
cattolica. La morente, senza dubbio inorridita, ma per niente intimidita, «perseverò sempre più
nella sua ostinazione eretica». La scena ebbe numerosi testimoni, fra i quali colui che ce la
racconta, Guglielmo Pelhisson. Convintosi dell'irrimediabile resistenza della donna, il vescovo
fece chiamare l'amministratore di giustizia; e dopo un giudizio sommario la vecchia, incapace
di camminare, fu portata nel letto fino al Pré-du-Comte, dove fu deposta su di un rogo, subito
acceso. «Dopo di che - dice Guglielmo Pelhisson - il vescovo, i religiosi e il loro seguito
tornarono al refettorio, per mangiare con gioia quanto era stato loro preparato, rendendo grazie
a Dio e a san Domenico (3)».
Questo racconto, che potrebbe apparire una calunnia inventata da nemici dell'Inquisizione,
non può essere messo in dubbio, poiché il domenicano Guglielmo Pelhisson non aveva alcun
interesse a inventarlo; è tuttavia così strano che sembra la storia di un folle. La durezza dei
costumi del tempo non è sufficiente a spiegarlo, e del resto il suo protagonista principale è un
vescovo, non un cavaliere di ventura; nemmeno il fanatismo spiega l'accanimento di un'intera
assemblea di religiosi contro una vecchia impotente che, per dannata che fosse, avrebbe potuto
essere lasciata morire in pace, e bruciata dopo la morte. Quel che sorprende ancor di più è la
commedia inscenata da Raimondo di Fauga, alla presenza del priore e di un gran numero di
domenicani, tutti volontariamente o involontariamente complici; una commedia del tutto
indegna della dignità episcopale, che abbassava un vescovo al livello di un delatore. E tuttavia
il narratore si complimenta con il vescovo per la sua abilità, e certo non mente quando parla
della «gioia» dei religiosi che tornano in convento per continuare un pranzo tanto
provvidenzialmente interrotto. Un comportamento simile fa pensare a quello di una qualche
confraternita militante, a un qualche Ku-Klux-Klan legale, ma braccato, perseguitato, deciso a
vincere con qualsiasi mezzo; e almeno parte dei domenicani della Linguadoca doveva allora
assomigliare a una confraternita di questo genere. Proprio per questo il compito di gestire
l'Inquisizione era stato affidato a loro e non ad altri, proprio per questo le proteste, la
sistematica ostilità del conte e dei consoli riguardavano innanzitutto i domenicani.
L'esecuzione della suocera di Peytavi Borsier provocò a Tolosa un terrore superiore alla
stessa indignazione. Fu seguita da una predica del priore dei domenicani, Pons di Saint-Gilles,
che paragonò il rogo che bruciò i resti della povera vecchia al fuoco che il profeta Elia fece
scendere dal cielo per confondere i sacerdoti di Baal (4), e lanciò solennemente la sfida agli
eretici e ai loro protettori; infine scongiurò i cattolici «di mettere da parte ogni timore e di
rendere testimonianza alla verità». Nella settimana successiva folle di 'cattolici' vennero
effettivamente a rendere testimonianza alla verità, a pentirsi delle loro colpe passate o a
discolparsi denunciando dei sospetti. «Fra queste folle molte persone abiurarono l'eresia, altre
confessarono di esservi ricadute e ritornarono all'unità della Chiesa; altre infine denunciarono
alcuni eretici e promisero di farlo sempre, in tempo utile (5)». Ben poco incline all'ottimismo,
pur lodando Dio per l'efficacia delle ricerche degli inquisitori, lo storico aggiunge: «Così
iniziate, queste ricerche si protrarranno sino alla fine del mondo (6)».
Tuttavia le esumazioni e le condanne postume di eretici, sempre più frequenti, continuavano
a provocare disordini in città, mentre i consoli e gli ufficiali del conte di Tolosa si servivano dei
loro poteri per favorire l'evasione di molti condannati alla prigione perpetua o al rogo. Per
mettere fine a quest'opposizione quasi aperta da parte delle autorità civili, gli inquisitori
decisero di citare in giudizio come eretici parecchi notabili della città. Si trattava di noti
credenti catari, o addirittura di ecclesiastici accusati di favorire l'eresia; tre di loro - Bernardo
Séguier, Maurand e Raimondo Ruggero - erano consoli. Essi si rifiutarono di comparire davanti
ai giudici, e chiesero a Guglielmo Arnaldo di sospendere immediatamente tutti i processi di
Inquisizione, oppure di lasciare la città. Poiché Guglielmo non tenne conto di
quest'avvertimento, i consoli si recarono con una scorta armata al convento dei domenicani e gli
ordinarono di lasciare il territorio della contea.
L'inquisitore andò allora a Carcassonne, nel territorio del re di Francia, da dove lanciò una
sentenza di scomunica contro i consoli (5 novembre 1235).
I domenicani, tuttavia, per non dare l'impressione di cedere alle minacce, decisero di citare
in giudizio le persone incriminate malgrado la dichiarata difesa dei consoli, che avevano
minacciato di morte chiunque osasse consegnare gli atti di citazione ai destinatari. Il priore
designò quattro frati per questa missione, che accettarono la scelta come una promessa di
martirio: fra loro si trovava proprio Guglielmo Pelhisson. I loro avversari, meno spietati di
quanto questi coraggiosi frati immaginassero, non attentarono alla loro vita; ma, in casa di
Maurand il Vecchio, essi vennero picchiati di santa ragione e trascinati per i capelli (7).
L'indomani i consoli si presentarono davanti al convento domenicano con i loro sergenti
armati e accompagnati da una folla di cittadini; ingiunsero ai religiosi di lasciare la città e, di
fronte al loro rifiuto, li fecero prendere e gettare in strada.
I domenicani uscirono di città cantando il Credo, il "Te Deum" e il "Salve Regina". Subito
vennero costretti a disperdersi, perché i consoli avevano vietato ai cittadini di provvedere alla
loro sussistenza. Il priore si diresse a Roma, per informare Gregorio Nono dell'ingiuria subita
dai domenicani, con l'assenso e persino dietro ordine del conte Raimondo Settimo. Anche
Raimondo di Fauga venne a sua volta espulso da Tolosa.
Certo Raimondo Settimo non poteva sperare che il papa approvasse quest'atto di rivolta;
tuttavia, gli abusi dei quali i domenicani si erano resi colpevoli a Tolosa erano così palesi che
egli pensava di potersi giustificare; in effetti, pur affermando la sua fedeltà alla Chiesa, egli
insistette sempre nel supplicare il papa di non imporgli la presenza dei domenicani, o almeno di
non affidare più a loro l'esercizio dell'Inquisizione.
Informato dell'accaduto, il papa inviò a Raimondo Settimo una lettera molto severa:
dichiarò in particolare di avere appreso che i consoli avevano impedito agli abitanti di Tolosa di
vendere o di regalare alcunché al vescovo e al suo clero, che avevano preso la casa del vescovo,
ferito alcuni canonici e alcuni chierici, impedito al vescovo e ai sacerdoti di predicare in
pubblico; che il conte rifiutava di pagare il salario ai professori della nuova università, cosa che
aveva condotto alla sospensione dei corsi; che il conte e i consoli avevano diffidato chiunque
dal presentarsi davanti agli inquisitori, sotto pena di punizione corporale e di confisca dei beni.
Dopo aver enumerato questi e molti altri fatti - fatti infinitamente più gravi di quelli mai
rimproverati a Raimondo Sesto, morto scomunicato - il papa minacciò il conte di lanciargli una
nuova scomunica se avesse insistito in una simile politica di ostilità verso la Chiesa (8).
Raimondo Settimo teneva a vivere in pace con la Chiesa, come aveva già dimostrato
arrestando personalmente Pagano di La Bessède e acconsentendo al processo dei Niort. Il suo
comportamento era quello di un capo di stato che si vede costretto a soddisfare, sia pur in
misura modesta, le rivendicazioni dei suoi sudditi; temendo sia la guerra con la Francia sia la
scomunica, non favoriva l'eresia, cercava solo di evitare disordini e gravi sommosse.
Indubbiamente riuscì in parte a convincere il papa e il re; perché il re, o meglio sua madre,
scrisse al papa informandolo delle lamentele del conte contro gli inquisitori, e il 3 febbraio
1236 il papa scrisse all'arcivescovo di Vienne, legato per la provincia, dandogli istruzioni che
restringevano i poteri degli inquisitori, i quali finirono per riprendere le loro funzioni «con il
consenso e per volontà del conte di Tolosa». Ma se il papa aveva raccomandato loro una certa
malleabilità, non sembra che essi ne abbiano tenuto conto, né che i loro poteri siano stati
realmente limitati.
Quando gli inquisitori rientrarono a Tolosa, i processi ripresero con maggior vigore. Un gran
numero di persone venne denunciato dal 'perfetto' Raimondo Gros, venuto a convertirsi
spontaneamente. Le sue rivelazioni provocarono molti processi postumi: molti cadaveri di
persone che erano appartenute alla nobiltà e all'alta borghesia, vennero esumati e abbandonati
alle fiamme. Nel settembre 1237 ci fu una vera e propria spedizione nei cimiteri. Le tombe di
una ventina di persone, fra le più rispettabili della città, furono violate: le ossa o i cadaveri in
decomposizione furono trascinati per le strade su dei graticci, mentre il pubblico banditore
gridava: «Qui atal fara, atal pendra» (Chi farà così, così penzolerà).
Quanto ai vivi, Guglielmo Pelhisson ne cita circa una decina mandati al rogo, ma le
condanne a morte erano più facili da pronunciare che da eseguire; molti condannati
appartenevano a famiglie nobili o consolari, e a quanto pare gli inquisitori non avevano modo
di catturarli, perché il vicario incaricato di amministrare la giustizia e i consoli si rifiutavano di
arrestarli, ciò che valse loro una nuova scomunica. Protetti dalle autorità, i più noti eretici di
Tolosa lasciavano il paese per andare a mettersi al riparo in nascondigli ignoti agli inquisitori,
oppure nel castello di Montségur, che era un rifugio pressoché inespugnabile divenuto il centro
ufficiale della resistenza catara.
Proprio come a Tolosa, anche nelle terre sottomesse al re di Francia l'Inquisizione
incontrava un'opposizione ora sorda ora violenta, ma otteneva nel contempo indiscutibili
successi grazie alla paura che ispirava. All'inizio, nel 1233, ebbe due martiri: due inquisitori
recatisi a Cordes vennero assassinati durante una rivolta. In seguito gli inquisitori si
avventurarono nelle campagne solo con una scorta armata; ma ad Albi, nel 1234, l'inquisitore
Arnaldo Cathala, deciso a disseppellire personalmente una donna morta professando l'eresia -
l'amministratore di giustizia si era rifiutato di farlo - fu trascinato fuori dal cimitero, picchiato e
minacciato di morte dalla folla.
A Narbonne, città scampata alle disgrazie della crociata e ritenuta cattolica, l'arrivo degli
inquisitori provocò disordini; pare che gli eretici, più che in città, fossero numerosi nel borgo,
che comunque era ostile ai domenicani e all'arcivescovo. La sommossa qui assunse una
caratterizzazione più politica, perché i consoli del borgo accusarono l'arcivescovo e gli
inquisitori di voler ridurre le loro franchigie municipali. Così, sul modello delle città italiane,
Narbonne si divise in due fazioni, la città e il borgo: la prima si schierò con l'arcivescovo e con
l'inquisitore frate Ferriero, mentre il secondo pretendeva il loro allontanamento. A causa della
loro impopolarità i Frati Predicatori, qui come dappertutto, patirono non poco per questi
contrasti interni: infatti, nel 1234, il loro convento fu invaso dai cittadini in rivolta,
saccheggiato e spogliato. Con audacia ancora maggiore, i consoli del borgo chiamarono in loro
aiuto il conte di Tolosa, che venne di persona a ristabilire la pace (benché Narbonne
appartenesse ormai ai territori del re di Francia): impose nel borgo un balivo dipendente da lui e
vi insediò Oliviero di Termes e Guiraud di Niort, potenti signori eretici e nemici dichiarati
dell'arcivescovo. Il contrasto si concluse con la vittoria della città, grazie all'appoggio
dell'autorità reale rappresentata dal siniscalco G. di Friscamps. Per difendersi dalla permanente
ostilità della popolazione del borgo i consoli della città dovettero a lungo supplicare frate
Ferriero di tornare a Narbonne per esercitarvi le sue funzioni di inquisitore.
Pur lavorando, secondo le parole del conte, «più per consolidare nell'errore che per
ricondurre alla verità», in cinque anni gli inquisitori riuscirono a creare in Linguadoca un tale
clima di terrore da ottenere un gran numero di spontanee sottomissioni, in genere di persone
che si erano limitate a manifestare le loro simpatie per l'eresia. A titolo di esempio si può
constatare che nel 1241 Pietro Cellani, durante la settimana precedente l'Ascensione, impose a
Montauban duecentoquarantatré penitenze canoniche; la settimana dopo centodieci penitenze di
vario genere a Moissac; la settimana d'Avvento duecentoventi penitenze a Gourdon e ottanta a
Moncuq. Non tutti i viaggi degli inquisitori erano tanto fruttuosi: molti dei registri e dei
rendiconti dei processi non sono giunti sino a noi. Le cifre riscontrabili nei documenti esistenti
rendono conto solo di parte della loro attività, anche se bisogna riconoscere che gli inquisitori
non praticavano la giustizia sommaria resa possibile dalla crociata a Lavaur e a Minerve e, al
contrario, tenevano a registrare tutti i processi. Erano tanto più interessati a farlo, in quanto gli
interrogatori miravano a ottenere dei nomi, e le minute dei processi avevano il valore di corpi di
reato contro migliaia di sospetti. Custoditi come oggetti preziosi, i registri erano causa di
inquietudine per gran parte della popolazione, perché nessuno poteva ritenersi sicuro di non
essere stato denunciato almeno una volta di aver favorito o sostenuto gli eretici: bastava avere
salutato, vent'anni prima, per la strada, un tale o un talaltro 'perfetto', aver partecipato a un
banchetto cui erano presenti degli eretici, e così via; bastava talvolta una denuncia calunniosa
ma impossibile da confutare, perché chi mai poteva provare di non essere stato visto da una
persona di cui gli si taceva il nome, in un luogo e in un momento che ci si guardava bene dal
precisare, in compagnia di un 'perfetto'? L'onniscienza degli inquisitori sembra essere stata una
delle cause principali del terrore che essi ispiravano. Mentre i vescovi, per decine d'anni, si
erano dimostrati impotenti a lottare contro nemici che, nella stragrande maggioranza, si
dicevano cattolici e dichiaravano di conoscere solo cattolici, gli inquisitori, in modo quasi
miracoloso, riuscivano a condurre a sé migliaia e migliaia di persone che dichiaravano di essere
o di essere state eretiche, e raccontavano di aver frequentato eretici. Se taluni vescovi si erano
mostrati negligenti nella repressione dell'eresia, quanti nel 1229 governavano le diocesi della
Linguadoca non potevano minimamente essere accusati di scarso impegno, e non mancavano di
subordinati e di uomini di fiducia cui affidare il compito di inquisire la popolazione. Da sempre
la giustizia episcopale era molto dura con gli eretici; ma la giustizia inquisitoriale non era più
una vera giustizia, e proprio questo la rendeva tanto temibile.
Essa demoralizzava e sconcertava, creando nel paese un'atmosfera di angoscia permanente; e
se i 'perfetti' e i credenti più fermi sapevano che cosa rischiavano e perché si esponevano al
pericolo, la maggior parte della gente, fosse pure eretica, voleva sopravvivere ed era condotta
all'esasperazione e alla pazzia dall'eterna minaccia di persecuzioni arbitrarie e imprevedibili. Un
popolo può combattere per la libertà, ma un uomo che di continuo si chiede se il vicino di casa
l'ha denunciato e se non farebbe meglio ad autodenunciarsi piuttosto che attendere una
convocazione, è in partenza disarmato; per battersi ha bisogno di essere sostenuto dal vicino di
casa e dalla gente del suo quartiere. Ci furono sommosse popolari; ma una sommossa non può
durare a lungo e, se non ha successo, è seguita da un terrore ancor più grande. L'autorità dei
consoli e del conte era riuscita a scacciare i domenicani da Tolosa, la pressione esterna
esercitata dal re e dal papa ve li aveva riportati, più potenti che mai. Il papa non era in grado, e
forse non intendeva, frenare l'ardore degli inquisitori: strumento di terrore, l'Inquisizione
domenicana non poteva rinunciare alla sua funzione primordiale, e ancora per secoli i papi
avrebbero continuato a sostenere e a difendere i domenicani contro ogni attacco del popolo e
delle autorità civili.
2. LE PROCEDURE DELL'INQUISIZIONE.
Prima di analizzare quale sia stata la reazione della Chiesa catara di fronte a questo nuovo
pericolo, bisogna tentare di capire in che cosa esattamente consistessero le procedure
inquisitoriali seguite in Linguadoca e quali siano state le loro ripercussioni sulla vita del paese.
L'idea di una repressione metodica dell'eresia, affidata a un organismo speciale, implicava,
nelle intenzioni di Gregorio Nono, un rinnovamento delle forme tradizionali fino ad allora
seguite nell'esercizio di questa repressione. Gli eretici lottavano contro la giustizia ecclesiastica
da quasi un secolo, e la lunga abitudine li aveva resi abili nel tenere in scacco l'avversario. I
nuovi procedimenti, sostenuti e incoraggiati dal papa, uscivano quindi dalla legalità, o da
quanto fino ad allora veniva comunemente riconosciuto come legale. Il codice di Giustiniano, a
quell'epoca in vigore per la procedura penale, prevedeva che nei procedimenti giudiziari si
seguissero una serie di misure tali da garantire i diritti dell'accusato. Ogni azione giudiziaria si
fondava o sull'intervento di un accusatore, incaricato di fornire le prove del delitto, oppure su di
una denuncia fatta a un giudice e da comprovare tramite testimoni, o ancora sulla pubblica e
manifesta notorietà del reato; solo in questo caso il giudice poteva procedere d'ufficio, senza
accuse o denunce da parte di privati cittadini, purché la notorietà del reato fosse comprovata da
un numero sufficientemente ampio di testimoni.
Per quanto riguarda l'eresia, i casi di denuncia, e a maggior ragione di accusa, erano
abbastanza rari e, dopo il trattato di Parigi, anche i casi di pubblica notorietà cominciarono a
divenire rari; abbiamo visto come durante il processo ai signori di Niort, che pure erano eretici
dichiarati, non mancarono testimoni che sostennero la loro devozione alla fede cattolica. Ora, se
dei potenti signori, che proteggevano apertamente l'eresia e militavano per la sua causa,
riuscivano a passare per cattolici anche in alcuni ambienti ecclesiastici, la massa dei semplici
credenti doveva essere più abile ancora nel dissimulare i suoi veri sentimenti; molti potevano
praticare in pace la loro religione, se non l'ostentavano davanti a persone sospette di
simpatizzare per il clero. In un paese che aveva appena scontato vent'anni di guerra e di
oppressione la forza di questo spirito collettivo di dissimulazione doveva essere grande; una
dissimulazione che, non essendo ritenuta ipocrisia, bensì una legittima reazione difensiva,
poteva spingersi molto lontano: così, a Tolosa, A. Peyre, del capitolo di Saint-Sernin,
professava l'eresia e ciononostante venne sepolto nel chiostro della chiesa.
In fin dei conti erano ritenuti eretici notori solo i 'perfetti' conosciuti in quanto tali, che
continuavano a esercitare il loro ministero. Ma questi erano difficili da raggiungere; erano
centinaia, e i processi degli anni 1229-33 segnalano solo qualche sporadico caso di cattura, più
o meno casuale. Per diventare efficace, la procedura giudiziaria doveva cambiare aspetto.
Questo significava, però, allontanarsi dalla lettera della legge che voleva che un sospetto, per
essere processato, fosse denunciato da una persona imparziale e di buona reputazione, e che
l'imputato potesse essere messo a confronto con i testimoni che avevano deposto contro di lui.
Erano esclusi dal diritto di testimoniare contro un imputato: tutti quanti potessero essere
considerati suoi 'nemici capitali' - e la definizione abbracciava di fatto tutti coloro che, in un
qualsiasi periodo della loro esistenza, avessero recato pregiudizio all'imputato o l'avessero
ingiuriato; i suoi familiari, i suoi servitori e, in genere, le persone che in una qualsiasi forma
dipendessero da lui; infine, gli scomunicati, gli eretici, le persone marchiate d'infamia.
Per crimini particolarmente gravi, detti 'crimini eccezionali', come l'alto tradimento, la lesa
maestà, il sacrilegio e l'eresia, i consanguinei e i servitori potevano essere ascoltati come
testimoni. L'Inquisizione estese questo diritto a tutte le altre categorie escluse, salvo i 'nemici
capitali'. Abbiamo visto che, per avere la testimonianza di Guglielmo di Solier contro i suoi
correligionari, il cardinale di Sant'Angelo aveva dovuto riconciliare alla Chiesa e riabilitare
questo 'perfetto'. Gli inquisitori soppressero questa formalità (che li avrebbe costretti a
«riconciliare» troppe persone che non intendevano affatto trattare come dei buoni cattolici): le
testimonianze degli eretici vennero dichiarate valide se tendevano ad accusare altri eretici,
senza valore solo nel caso in cui fossero favorevoli all'imputato. Allo stesso modo si teneva
conto delle testimonianze di persone marchiate d'infamia - ladri, truffatori, prostitute; quanto ai
'nemici capitali', dato che l'imputato ignorava l'identità dei testimoni e che il giudice poteva
ignorare i rapporti fra il primo e i secondi, la restrizione non aveva quasi più alcun senso.
Inoltre gli accusati non potevano avvalersi dell'aiuto di avvocati (benché in via di principio
ne avessero diritto): il solo fatto di voler difendere un eretico - o un uomo presunto tale -
rendeva l'avvocato stesso sospetto di eresia; i suoi argomenti non venivano presi in
considerazione ed egli si esponeva a gravi fastidi; pochi avvocati avevano il coraggio di farsi
carico di un compito tanto ingrato quanto inutile.
Sembra che la grande invenzione dell'Inquisizione domenicana (già praticata entro certi
limiti da Romano di Sant'Angelo in occasione del concilio di Tolosa, ma senza erigerla a
sistema) sia stata l'audizione dei testimoni a porte chiuse. Questa fu la prima e principale causa
del terrore ispirato dagli inquisitori e una delle essenziali ragioni del loro successo finale.
Creando un clima di sfiducia e di sospetto nelle comunità più unite, questa procedura fu un
potente fattore di disgregazione morale e finì per rendere impossibile una resistenza
organizzata: la resistenza si manifestò solo dove i poteri pubblici ne assunsero la responsabilità
diretta.
Abbiamo già visto l'attività dei consoli di Tolosa e di quelli del borgo di Narbonne; abbiamo
visto i balivi dei signori di Niort impedire l'accesso alle loro città alle commissioni incaricate di
ricercare gli eretici; nel 1240 anche i balivi del conte di Tolosa fecero lo stesso a Montauriol e a
Caraman, ricorrendo alle minacce o alla forza armata, contro la commissione di frate Ferriero.
Episodi simili, certamente più frequenti di quanto appaia dai documenti, erano comunque
eccezionali: gli ufficiali e i funzionari che si rendevano colpevoli di questi atti di ribellione
contro la Chiesa rischiavano le pene più gravi e potevano agire solo su ordine formale dei loro
signori; lo stesso conte, sempre incalzato e minacciato, troppo debole per permettersi un
atteggiamento di aperta sfida, interveniva solo quando l'esecuzione dei suoi ordini, a rigore,
poteva passare per un'iniziativa spontanea dei poteri locali.
Gli inquisitori, invece, non avevano paura di nulla. Se parecchi pagarono con la vita il loro
eccesso di zelo, la loro decisione e la loro arrogante sicurezza incutevano il terrore in una
popolazione già abituata a vedere nella Chiesa un grave pericolo: il clero aveva provocato la
crociata e aveva vinto; per poco numeroso che fosse, aveva alle spalle la formidabile potenza di
una Roma sempre pronta ad attirare sul paese nuove calamità.
Quando un inquisitore, accompagnato da notai, cancellieri, carcerieri e talvolta da qualche
soldato, si presentava in una città o in un borgo, si installava nel palazzo episcopale, nel
convento domenicano (se ce n'era uno) o in un qualsiasi altro convento del luogo e pronunciava
una pubblica predica, condannando l'eresia e annunciando un 'tempo di grazia', in genere
limitato a una settimana. Chi non si presentava spontaneamente durante il 'tempo di grazia'
rischiava, scaduti i termini, di essere perseguito d'ufficio; quanti si presentavano
spontaneamente non rischiavano pene gravi come la confisca dei beni, la prigione o la pena di
morte; se anche erano molto compromessi venivano sottoposti solo a penitenze canoniche.
Così, anche nelle città in cui l'eresia era molto diffusa, un certo numero di credenti - i più
pavidi, o quanti sapevano di avere dei nemici - accorreva per autoaccusarsi, confessando
talvolta colpe immaginarie o insignificanti, forse nella speranza di dissimularne di più gravi (9).
I giudici, beninteso, non si accontentavano certo di simili confessioni: per provare la sua
buona fede il peccatore pentito doveva denunciare quelle persone che sapeva essere sospette di
eresia. Gli si prometteva che le sue rivelazioni sarebbero rimaste segrete. Ovviamente egli
cominciava con l'accusare i suoi nemici o gente che nemmeno conosceva, o che sapeva poco
compromessa. Tuttavia, la penitenza che gli veniva imposta non era proporzionata alla gravità
della colpa, ma alla sincerità del suo pentimento; sincerità che si misurava in base al numero, e
specialmente all'importanza, degli eretici che denunciava.
Secondo ogni verosimiglianza, quanti venivano ad autoaccusarsi in questo modo non erano
degli eroi; le penitenze canoniche, sia pure senza la privazione della libertà, potevano essere
dure - le esamineremo più avanti - e il segreto promesso garantiva contro ogni possibile
rappresaglia. La viltà di molti spontanei convertiti fu il grande, principale alleato
dell'Inquisizione. Infatti bastava la denuncia di due testimoni per autorizzare un procedimento
d'ufficio contro un presunto eretico.
Molte persone vennero denunciate in questo modo, se già non lo erano a opera delle autorità
locali; durante il 'tempo di grazia' tali persone avevano ancora la possibilità di presentarsi di
loro iniziativa, ciò che molte facevano, sapendosi troppo compromesse. Quanti non lo facevano
erano passibili di azione giudiziaria. Questa iniziava con una citazione scritta, consegnata
personalmente, dopo aver ricevuto la quale il sospetto doveva presentarsi davanti al tribunale.
Qui veniva interrogato senza testimoni, e senza che gli venisse comunicata l'esatta natura delle
imputazioni a suo carico. In condizioni simili, spesso l'imputato confessava più di quanto gli
venisse richiesto, credendo i giudici meglio informati di quanto non fossero. Se i fatti
contestatigli erano gravi, veniva messo in prigione in attesa del giudizio. Ciò accadeva quasi
sempre se egli si rifiutava di confessare le sue colpe; e il caso era tanto più frequente in quanto
la confessione implicava l'obbligo di compromettere dei correligionari, e gli uomini onesti,
anche quando non erano veramente eretici, si rifiutavano di farlo. Se non veniva imprigionato,
all'imputato veniva concessa una sorta di libertà vigilata, dietro pagamento di una forte
cauzione e senza il diritto di allontanarsi dalla città. Ma una volta in prigione, egli cadeva
interamente nelle mani dei giudici, e non poteva contare su alcuna garanzia né su alcun
soccorso esterno.
L'inquisitore era, al contempo, istruttore del processo, procuratore e giudice. Gli altri
religiosi che lo assistevano potevano fungere solo da testimoni, così come il notaio che
registrava le deposizioni. Quindi non c'era né delibera né consiglio: solo l'inquisitore, di sua
volontà, decideva la colpevolezza o meno dell'imputato e l'entità della pena che meritava.
Poiché l'inquisitore, da solo, non bastava a svolgere l'intero lavoro, i suoi collaboratori, pur non
avendo alcun potere personale, erano incaricati di ottenere le confessioni. Quanti si rifiutavano
di confessare venivano sottoposti a interrogatori incalzanti, nel corso dei quali spesso si
tradivano; in caso contrario, venivano gettati in carcere, in condizioni così dure che, dopo un
periodo di detenzione più o meno lungo, anche i più ribelli erano costretti a cedere. Le segrete
nelle quali venivano reclusi questi sospetti eretici recalcitranti erano spesso così piccole che non
ci si stava né in piedi né sdraiati; ed erano prive di luce, come le prigioni di Carcassonne o del
Castello dei Tedeschi a Tolosa. Ai più irriducibili venivano messi i ferri alle mani e ai piedi e li
si torturava negando loro acqua e cibo. E' certo che solo pochi, pur di non parlare, accettavano
di subire un trattamento simile per mesi o addirittura per anni; per molti bastava la sola
minaccia.
Quando però si trovavano di fronte a imputati capaci di fornire utili informazioni, ma
abbastanza fermi da resistere alle minacce, non sempre gli inquisitori avevano il tempo di
lasciarli 'marcire' in carcere: in questi casi era permesso loro di ricorrere alla tortura,
procedimento ammesso dalla legge civile per scoprire i crimini più gravi, ma che, in via di
principio, la giustizia ecclesiastica doveva evitare. In realtà, anche la giustizia ecclesiastica
praticava la tortura, con la limitazione di non spingersi fino a causare la mutilazione o la morte
dell'imputato, o a spargerne il sangue; spargere il sangue, infatti, era per dei chierici una
violazione delle regole canoniche. Fin dai tempi più antichi, la Chiesa, per punire i colpevoli o
estorcere le confessioni, utilizzava la flagellazione tramite verghe o cinghie; sapientemente
impiegata, questa pratica poteva eguagliare le torture più crudeli. Del resto, la tortura fu
certamente impiegata dall'Inquisizione - per la quale divenne legale nel 1252 (10) - ben prima
di questa data, come già nell'undicesimo e dodicesimo secolo facevano i tribunali episcopali:
non c'è alcuna ragione di credere che giudici capaci di seminare tanto rapidamente il terrore in
un intero paese non si fossero serviti di uno strumento di costrizione già utilizzato dai tribunali
regolari.
Se l'accusato sottoposto a tortura acconsentiva a parlare, doveva ripetere la confessione al di
fuori della camera di tortura, dinnanzi a un cancelliere, dichiarando che questa confessione era
spontanea e non frutto della costrizione; se si rifiutava (conosciamo un solo caso del genere,
citato da Bernardo Gui nelle «sentenze dell'Inquisizione di Tolosa») veniva considerato ancor
più sospetto di prima e recidivo, e nuovamente sottoposto a tortura. Se ancora si rifiutava di
parlare, l'inquisitore era libero di sottoporlo allo stesso trattamento fin quando fosse necessario.
E' vero che nella maggior parte dei casi la carcerazione era giudicata una tortura sufficiente.
Ma sono stati registrati casi - molto rari - di 'perfetti' che, in prigione, tentarono di metter fine ai
loro giorni con lo sciopero della fame; ciò venne loro rimproverato come conferma delle loro
convinzioni eretiche e accreditò la leggenda della tolleranza dei catari verso il suicidio.
La confessione, che gli inquisitori cercavano di estorcere a ogni costo, non era strettamente
necessaria per giustificare la condanna, dal momento che, per provare che un uomo era eretico,
bastava che egli fosse stato denunciato come tale da due testimoni; in pratica, però, quasi
sempre gli inquisitori ottenevano la confessione degli incriminati prima di condannarli. Si deve
pensare che, al di là delle apparenze, non sia stato facile, almeno all'inizio, ottenere le
testimonianze. Quanti venivano a confessarsi accusavano prevalentemente dei morti, o delle
persone che sapevano al sicuro, il che spiega l'elevato numero di processi postumi o in
contumacia. Con l'andar degli anni le testimonianze si fecero sempre più numerose, mentre le
denunce, a valanga, esponevano ai sospetti degli inquisitori i vicini, i parenti, gli amici dei
presunti eretici; dai quali, a loro volta, si pretendevano nuovi nomi, nuove indicazioni,
rivelazioni sui rifugi degli eretici e così via. Ciononostante, la cattura degli eretici veri e propri -
i 'perfetti' - non fu mai facile: G. Doumenge, l'uomo che per salvarsi la vita nel 1234 aveva fatto
arrestare sette 'perfetti' a Cassès, fu assassinato nel suo letto poco tempo dopo; a Laurac, un
sergente che aveva fatto prigionieri sei 'perfetti' e la madre del cavaliere Raimondo Barthe
venne impiccato da quest'ultimo. Per il traditore la cattura dei 'perfetti' era pericolosa, perché
solo pochi iniziati ne conoscevano i rifugi. La semplice denuncia di nomi coinvolgeva per lo
più i semplici credenti poco attivi, la massa dei fedeli della Chiesa catara; e per loro la
situazione cominciava a diventare insostenibile.
Chi aveva il coraggio di affrontare ogni genere di prova conduceva vita clandestina, si
rifugiava in località imprendibili come Montségur o Quéribus, oppure in regioni come il
Lauraguais e la contea di Foix, dove l'eresia restava abbastanza forte da tenere testa alla Chiesa;
se veniva catturato diventava un martire. Le prigioni di Carcassonne, di Tolosa, di Albi erano
piene (a Carcassonne se ne dovettero costruire di nuove), poiché chi era condannato alla
reclusione in genere era condannato alla reclusione perpetua.
Diversamente da quanto accadeva prima del 1229, gli eretici 'rivestiti' non erano i soli a
rischiare la pena di morte; abbiamo visto l'indignazione del popolo di Tolosa che, in occasione
della prima condanna di Giovanni Tisseyre, aveva voluto impedire l'esecuzione di un uomo
sposato. Non si giustiziavano solo i 'perfetti', ma anche i credenti ostinati: ciò aumentava il
terrore ispirato dagli inquisitori, perché ormai ogni uomo dotato di un po' d'immaginazione
poteva ritenersi votato al rogo.
In realtà, i sospetti eretici in genere incorrevano solo nelle punizioni canoniche, che
comunque sconvolgevano gravemente la vita loro e dei loro familiari. Le punizioni erano le
seguenti: portare la 'croce dell'eresia', una penitenza inventata, o almeno applicata per la prima
volta, da san Domenico; fare un pellegrinaggio; compiere un'opera di carità, ad esempio
mantenere un povero per molti anni, magari per tutta la vita. Non si trattava di nulla di insolito,
bensì di penitenze comunemente impiegate dalla giustizia ecclesiastica; ma imposte in gran
quantità, spesso per colpe di modestissima entità, rischiavano di divenire un flagello.
Portare la croce, marchio d'infamia, toccava in teoria agli eretici 'rivestiti' convertitisi
spontaneamente (si veda il regolamento del concilio di Tolosa). Di fatto, i 'perfetti' raramente
beneficiavano di una punizione così indulgente, applicata semmai ai semplici credenti. Pare che
durante i primi anni dell'Inquisizione questa penitenza non sia stata molto comune: il fatto di
essere stati eretici non era infatti cosa di cui vergognarsi in un paese in cui l'eresia non ispirava
odio né disprezzo; e se questa punizione poco severa era il prezzo di una grave delazione
esponeva all'ostilità degli eretici quei convertiti che la Chiesa aveva interesse a proteggere e a
utilizzare come informatori. Più tardi, verso la fine del secolo, questa punizione sarebbe invece
divenuta molto temibile, in quanto rendeva quanti portavano la 'croce dell'eresia' dei veri
reprobi, osteggiati dai loro concittadini; così divenne più frequente.
I pellegrinaggi e le pene pecuniarie, invece, venivano imposti a quasi tutti i sospetti che si
fossero presentati spontaneamente in tribunale; presentavano il vantaggio di allontanare il
presunto eretico dal suo paese per un tempo più o meno lungo; ma si può immaginare quali
problemi comportassero per la sua famiglia e i suoi affari, senza contare il fatto che per i più
poveri questi viaggi obbligati comportavano spese insostenibili. Molti penitenti venivano inviati
solo a Puy o a Saint-Gilles; ma molti dovevano spingersi fino a Santiago de Compostela o a
Canterbury, a Parigi o a Roma; alcuni, ad esempio, furono costretti ad andare a Puy, a Saint-
Gilles, a Santiago de Compostela e a Canterbury, ciò che li obbligava ad attraversare i Pirenei e
la Catalogna, a tornare in Linguadoca, traversare la Francia, passare il mare e raggiungere
Canterbury: un pellegrinaggio simile, considerato anche il ritorno, durava dei mesi. Il penitente
portava con sé una lettera consegnatagli dal giudice, che doveva far vistare dalle autorità
religiose dei luoghi di pellegrinaggio. Altri pellegrini - specie gli uomini d'armi - venivano
mandati in Terra Santa o a Costantinopoli, dove dovevano mettersi a disposizione degli eserciti
crociati per un certo numero di anni: in generale due o tre, in qualche caso cinque.
Disperdendo in questo modo per le strade d'Europa e negli eserciti d'oltremare migliaia di
credenti catari, gli inquisitori si sbarazzavano di un certo numero di nemici potenziali; è facile
capire quale danno tutto ciò recasse a un paese già abbastanza impoverito e disorganizzato.
Questi forzati pellegrini dovevano ritenersi fortunati di essere stati lasciati liberi così a buon
mercato. Ma penitenze simili venivano comminate a gente colpevole, ad esempio, di aver
rivolto la parola a un eretico durante un viaggio in nave, oppure di aver venerato un eretico,
all'età di undici anni, per volontà dei genitori (fatti simili sono citati da Bernardo Gui, e quindi
sono più tardi; ma gli inquisitori all'inizio non trascurarono alcun dettaglio, per minimo che
fosse, per giustificare una penitenza; la maggior parte dei sospetti si vedeva rimproverare solo
di avere ascoltato degli eretici, o di aver partecipato a qualche loro riunione).
Un'intera popolazione - o almeno gran parte della popolazione di un paese - si sentiva quindi
braccata, spiata, incalzata da provvedimenti vessatori di ogni genere. La partecipazione ai
sacramenti e alla messa diveniva essa stessa un obbligo imposto da una polizia onnisciente,
sotto pena di procedimenti giudiziari la cui assoluta arbitrarietà era risaputa: la valutazione del
reato d'eresia era a totale discrezione dell'inquisitore, e un uomo sospettato di un peccatuccio
che si rifiutava di parlare veniva punito più severamente di un 'perfetto' che spontaneamente
denunciava i suoi confratelli. Non c'era, come nel codice civile o penale, un elenco delle pene
previste per una tale o una talaltra infrazione alla legge; c'erano solo promesse per i delatori.
Di qui l'estrema monotonia dei registri dell'Inquisizione che riportano gli interrogatori degli
eretici: si chiedeva loro dove, quando, da chi, con chi avevano incontrato degli eretici, e poco
altro. Comunque il "Manuale" di Bernardo Gui ci informa che non tutte le deposizioni degli
imputati erano ritenute degne di essere registrate; quindi tutto quanto essi poterono dire per
presentare in modo favorevole la loro religione o i loro capi fu probabilmente omesso dai
cancellieri. Del resto, il "Manuale dell'inquisitore" di Bernardo Gui ci fornisce il modello degli
interrogatori cui venivano sottoposti i catari: «... si chiederà all'imputato se abbia visto o
conosciuto in qualche luogo uno o più eretici, sapendoli o credendoli tali di nome o di
reputazione; dove li abbia visti, quante volte, con chi e quando; «inoltre, se abbia avuto qualche
relazione familiare con loro, quando e come e chi l'abbia combinata; «inoltre se abbia ricevuto
in casa sua uno o più eretici, e quali; chi glieli abbia condotti; quanto tempo siano rimasti; chi
abbia fatto loro visita; chi li abbia accompagnati via; dove siano andati; «inoltre se abbia
ascoltato la loro predicazione, e in che cosa consistesse; «inoltre se li abbia venerati, se abbia
visto altre persone venerarli o fare loro la riverenza alla maniera degli eretici; «inoltre se abbia
mangiato con loro del pane benedetto, e quale sia stato il modo di benedire questo pane;
«inoltre se abbia concluso con loro il patto detto "convenensa"; «inoltre se li abbia salutati o se
abbia visto altre persone salutarli al modo degli eretici; «inoltre se abbia assistito all'iniziazione
di uno di loro; come questa sia stata celebrata; quale fosse il nome dell'eretico o degli eretici
iniziati; chi fossero i presenti, quale fosse il luogo della casa ove giaceva il malato;... se
l'iniziato abbia lasciato qualcosa agli eretici, che cosa e quanto, e chi abbia ricevuto i doni; se
l'eretico iniziatore sia stato venerato; se l'iniziato sia morto di quella malattia e dove sia stato
seppellito; chi abbia condotto e riaccompagnato l'eretico o gli eretici; «inoltre se creda che le
persone iniziate alla fede eretica possano salvarsi...» Gli altri punti riguardano la conversione
personale dell'imputato e il suo passato, gli altri «credenti» da lui conosciuti, i suoi parenti e
così via (11). Le risposte e le rivelazioni dei credenti interrogati dai primi inquisitori dimostrano
che fin dall'inizio essi avevano praticato questo tipo di interrogatorio, senza cambiare metodo.
Sia che queste domande venissero poste a gente priva di coraggio, corsa davanti ai giudici
nel primo giorno del 'tempo di grazia' sia che venissero rivolte a dei disgraziati sfiniti da mesi di
prigionia e di torture, le risposte non variano molto. Nomi, date, luoghi. «... A Fanjeaux, al
"consolamentum" di Auger Isarn assistettero Bec di Fanjeaux, Guglielmo di La Ilhe, Gagliardo
di Feste, Arnaldo de Ovo, Giordano di Roquefort, Emerico di Sergent ("milites")... (deposizione
di Raimondo di Perella, 1243)»; «Atho Arnaldo di Castelverdun chiese il "consolamentum"
nella casa della sua parente Cavaers, a Mongradail, Ugo e Siccardo di Durfort andarono a
cercare Guglielmo Tournier e il suo compagno. I diaconi Bernardo Coldefi e Arnaldo Guiraud
abitavano a Montréal e alle loro riunioni venivano: Raimondo di Sanchas, Rateria, moglie di
Mauro di Montréal, Ermengarda di Rebenty, vedova di Pietro, Berengaria di Villacorbier,
vedova di Bernardo Ugo di Rebenty, Saurina, vedova di Isarn Garin di Montréal e sua sorella
Dulcia, Guiraude di Montréal, Poncia Rigalda moglie di Rigaldo di Montréal... era il 1204
(12)».
La deposizione riferisce quindi fatti vecchi di oltre trent'anni. D'altra parte, vive o morte che
fossero, le persone di cui si provava la partecipazione a una cerimonia eretica, trenta, quaranta o
cinquant'anni prima, dovevano essere punite; i morti tramite l'esumazione e la confisca dei beni
degli eredi, i vivi con le punizioni canoniche o con la prigione.
Si capisce la sensazione di disperazione, di oppressione che progressivamente si diffuse in
un popolo sottoposto a un trattamento simile. Altre epoche dovevano conoscere, in seguito, il
peso di analoghi terrori polizieschi; ma all'Inquisizione domenicana spetta il merito di avere
inventato il sistema. La via era tracciata, gli imitatori non mancarono di seguirla e di
perfezionarla; ma non pare che restasse loro molto da inventare, al di là di qualche
miglioramento strettamente tecnico.
Tuttavia, durante i primi anni la resistenza fu aspra, benché sin dall'inizio condannata alla
sconfitta a causa dell'appoggio totale che il papato diede da subito a questa sua nuova arma di
combattimento.
NOTE.
(1) Guglielmo Pelhisson, op. cit., p. 95.
(2) Ivi, p. 98.
(3) Ibidem.
(4) Bernardo Gui, "Libellis de Ordine Praedicatorum", in "Recueil des Historiens des
Gaules", t. 21, p.p. 736-737.
(5) Guglielmo Pelhisson, op. cit., p. 98.
(6) Ibidem.
(7) Ibidem.
(8) "Registri di Gregorio Nono", n. 3187.
(9) E' il caso di quel mugnaio di Belcaire che andò ad accusarsi del seguente misfatto:
quando alcune donne, che avevano visitato il suo mulino, gli avevano augurato la protezione
del Signore e di san Martino, aveva risposto che era lui e non Dio che l'aveva costruito e che si
incaricava di farlo funzionare.
(10) Con la bolla "Ad extirpanda" di Innocenzo Quarto, del 15 maggio 1252.
(11) Bernardo Gui, op. cit., cap. 1, parag. 5.
(12) Doat, t. 22, p 142; t. 23, p 165.
Capitolo undicesimo
LA RESISTENZA CATARA.
1. L'ORGANIZZAZIONE DELLA RESISTENZA.
I catari non disarmavano affatto, tanto più che la persecuzione forniva loro i migliori
argomenti per la loro propaganda: una prova tangibile, per così dire, del carattere diabolico
della Chiesa che combattevano.
D'altronde non pensavano che la loro causa fosse ormai persa: le Chiese della Bosnia, della
Bulgaria e della Lombardia erano potenti e contendevano il terreno alla Chiesa di Roma,
talvolta con successo, come nel caso dei paesi slavi. Queste Chiese sorelle inviavano loro
emissari, lettere di incoraggiamento, soccorsi. Nel 1243, nel pieno della battaglia di Montségur,
il vescovo cataro di Cremona inviò un messaggio al vescovo Bertrando Marty per assicurarlo
che la sua Chiesa godeva di una pace profonda e per chiedergli di mandargli a Cremona due
'perfetti'. Questi paesi dove le Chiese catare vivevano in pace (ma questa situazione non sarebbe
durata a lungo) attraevano, come una terra promessa, molti eretici e credenti provati dalle
persecuzioni: negli anni 1230-40 molti catari migrarono in Lombardia.
I più coraggiosi, i più combattivi restarono al loro posto, preferendo rischiare la morte e non
abbandonare i loro fedeli: organizzavano clandestinamente la loro vita, aspettando tempi
migliori. Se Guglielmo Pelhisson constata che gli eretici, allora, erano più dannosi che durante
la guerra, questo probabilmente significa che i 'perfetti' avevano abbandonato il loro
atteggiamento se non passivo almeno pacifista, incoraggiando e assolvendo gli atti di violenza.
Questa religione che aveva orrore dello spargimento del sangue e proibiva ai suoi ministri
l'uccisione di un pollo o di un topo, aveva trovato anch'essa una scappatoia per giustificare la
violenza: non era un crimine sopprimere determinate creature, che non erano anime decadute e
penitenti, bensì incarnazioni dirette della forza del male. Gli inquisitori e i loro complici non
potevano non essere inclusi fra queste creature diaboliche. Del resto i 'perfetti' non avevano
alcun bisogno di spingere alla violenza gente che vi era anche troppo portata; ma potevano
svolgere un ruolo politico, e utilizzare la loro influenza sui signori fedeli alla loro religione per
indurli alla lotta, mostrando i vantaggi spirituali che ne sarebbero derivati.
E' in questo periodo che venne istituito il patto della "convenensa", che non pare fosse
praticato in precedenza: vincolato da questo patto, il credente poteva ricevere il
"consolamentum in extremis" anche se, a causa delle ferite o per una qualche altra ragione, non
aveva l'uso della parola. (Più tardi quest'usanza sarebbe stata generalizzata, per ragioni del tutto
evidenti: non potendo acconsentire ad amministrare il sacramento a degli sconosciuti, per paura
di cadere in trappola, i 'perfetti' trovarono questo strumento per censire i loro fedeli: gli uomini
legati dalla "convenensa", per questo stesso fatto, imponevano ai 'perfetti' l'obbligo morale di
'consolarli' sul letto di morte, per lo meno se c'era la possibilità materiale di farlo.) Divenendo
clandestina, la vita dei catari acquistava maggior intensità e fervore: i credenti più tiepidi e
quelli che si facevano eretici per interesse o per rispetto delle convenienze (come era accaduto
prima del 1209, e anche dopo la riconquista del paese da parte del conte) venivano a poco a
poco espulsi dalla comunità. Non per questo i partecipanti alle riunioni eretiche diminuivano: i
loro ranghi venivano costantemente alimentati da tutti quanti, scontenti del nuovo regime,
trovavano nelle Chiese eretiche le sole vere organizzazioni di resistenza. Durante questo
periodo l'azione dei valdesi divenne più efficace che durante la crociata; e le Chiese catare e
valdesi, in precedenza rivali, fecero fronte comune, tanto che i registri citano numerosi 'perfetti'
valdesi che predicarono in Linguadoca, specie nella regione dell'Ariège.
L'apostolato di questi uomini era difficile, ma lo esercitavano con costanza, perché non era il
timore del pericolo che li costringeva a vivere nei rifugi dei carbonai, nelle capanne di rami in
fondo alle foreste, nelle fattorie abbandonate - a Montségur, a Quéribus o in Lombardia
sarebbero stati più sicuri che in questi ricoveri precari. Conducevano una vita vagabonda, da
uomini braccati, per poter continuare la loro attività ed essere vicini alla gente che restava loro
fedele o che speravano di poter riconvertire alla loro fede.
Giunti nei dintorni di un villaggio o di un borgo, il 'perfetto' e il suo "socius" si cercavano
innanzitutto un rifugio sicuro: nella casa di un credente, quando la località non era sorvegliata
strettamente dalle autorità ecclesiastiche (e luoghi del genere erano numerosi: a cominciare dai
castelli dei signori di Niort o di altri feudatari meno potenti come Lanta Jourda, signore di
Calhavel, o come gran parte della nobiltà di Fanjeaux, di Laurac, di Miramont, eccetera; a volte
erano gli stessi balivi del conte che segnalavano ai 'perfetti' le case 'sicure' ove farsi ricevere.
Borghi come Sorèze, Avignonet, Saint-Félix avevano curati se non eretici almeno simpatizzanti
per l'eresia). Più spesso questi predicatori erranti si fermavano in qualche luogo appartato al di
fuori della città, sia per non correre il rischio di essere riconosciuti sia per non compromettere le
persone che si sarebbero offerte di ospitarli. La loro presenza veniva rivelata solo a quei
credenti di cui ci si poteva fidare, e i catari mantenevano una vasta rete di agenti segreti con
funzioni di messaggeri e di guide. Se il paese era sotto la sorveglianza di un curato o di un
balivo notoriamente cattolici, i credenti erano tenuti a usare varie precauzioni per
allontanarsene; i poveri andavano a raccogliere legna, le donne a raccogliere funghi o bacche, i
nobili a caccia; bisognava evitare un esodo troppo massiccio dei parrocchiani, e le spedizioni
potevano effettuarsi solo a piccoli gruppi o a parecchi giorni di distanza.
In genere i 'perfetti' riunivano i loro ascoltatori in radure sperdute in mezzo alle foreste;
vicino alle città, le riunioni si svolgevano di notte, di modo che gli abitanti potessero
approfittare dell'oscurità per uscire senza essere visti. Spesso simili riunioni vennero sorprese
durante battute di uomini armati o di spie ("exploratores") pagate dagli inquisitori. La più
importante di queste battute fu quella durante la quale il conte di Tolosa fece arrestare Pagano
di La Bessède insieme a diciotto eretici; spesso quanti davano la caccia agli eretici in questo
modo non disponevano di forze adeguate, e rischiavano la vita avventurandosi in foreste che,
durante le prediche e le cerimonie all'aria aperta, venivano sorvegliate da gruppi di credenti, fra
i quali spesso non mancavano dei soldati. Sorpresi durante una riunione, il più delle volte gli
eretici riuscivano a scappare: così il domenicano Raul, recatosi con una scorta ad arrestare un
gruppo di eretici segnalato da una spia in un bosco nei dintorni di Fanjeaux, riuscì a prenderne
uno solo; nel 1234 il curato Pietro, mentre cercava degli eretici, cadde in un'imboscata tesagli
dal balivo del paese; riuscì a fuggire, ma il suo compagno venne ucciso. Nel 1237 vennero
catturate e bruciate due 'perfette' a Montgradail, due a Saint-Martin-la-Lande, due a Villeneuve
nei pressi di Montréal. Sembra che le donne, forse più attive degli uomini, forse più imprudenti
in quanto si sentivano meno minacciate, siano state catturate più spesso. Una volta l'abate di
Sorèze mandò un suo agente ("nuncius") ad arrestare due 'perfette' che risiedevano nel borgo:
un gruppo di donne si oppose al loro arresto attaccando l'agente a colpi di bastone e di pietre;
quando l'abate venne di persona a rimproverarle per il loro comportamento, esse derisero il
"nuncius" dicendo che era venuto a prendere per eretiche due brave donne sposate. Ma le
'perfette' sorprese da sole in un bosco o in un borgo la cui popolazione fosse meno decisa o
meno ostile ai cattolici, a quanto pare, passavano ben presto dalla prigione al rogo; dobbiamo
pensare che gli inquisitori sapessero fin dall'inizio di non poter ricavare nulla da loro.
Nel suo studio sull'Inquisizione Jean Guiraud riporta la storia di Guglielma di La Mothe che
prima di essere bruciata raccontò almeno parte delle sue vicissitudini: insieme alla sua
compagna, dopo il 1230 ella aveva vissuto nel bosco di un certo Pietro Belloc, poi per tre
settimane in un altro bosco, il "Bosc-Blanc"; in seguito alcuni credenti le avevano
accompagnate nella foresta di Salabose, quindi in quella di Avellanet dove erano rimaste un
anno; poi, di foresta in foresta, nella regione di Lanta, esse erano state accompagnate dal
'perfetto' G. Roger nel bosco della Garrigue; avevano vissuto qualche tempo nelle case di alcuni
credenti - nove interi mesi da un certo Pons Rivière; nel 1240 avevano continuato a girare di
casa in casa, qualche giorno qui, qualche giorno là; poi erano tornate di nuovo in una capanna
in un bosco; così, passando da un bosco a una fattoria, da una città a una foresta, guidate da
credenti che cercavano di metterle al sicuro o da 'perfetti' che davano loro nuove istruzioni, esse
finirono per essere catturate in una foresta del Lantarès a Gratiafides. Guglielma di la Mothe
raccontò tutto ciò solo dopo un anno di prigionia. Tutte le persone da lei nominate divenivano
automaticamente "receptatores haereticorum", passibili di giudizio e di carcerazione. Questa
donna e la sua compagna avevano vissuto una vita tanto pericolosa per servire la causa della
loro Chiesa; ella non parlò per ottenere l'indulgenza dei giudici, dal momento che venne
bruciata (1).
Per grande che fosse la fiducia e la devozione dei credenti nei loro confronti, i 'perfetti'
sapevano che anche i più coraggiosi, con la tortura, potevano essere indotti a tradirli. Ecco
perché nelle regioni meno sicure - e fino ai dintorni di Tolosa - gli eretici si costruivano nei
boschi delle capanne, la cui ubicazione era nota ai fedeli, che potevano venire a chiamarli in
caso si dovesse 'consolare' un moribondo o partecipare a una qualche cerimonia religiosa.
Non potendo procurarsi da soli il cibo, i 'perfetti' vivevano della carità dei credenti; carità
ben organizzata e più che sufficiente, se si deve credere alle persone che dichiararono di aver
portato agli eretici viveri, vesti, denaro: pane, farina, miele, legumi, uva, fichi, noci, mele,
nocciole, fragole.... pesci freschi o conservati, vino, pane, focacce, piatti più modesti o anche
raffinati preparati da donne del popolo che potevano andare nei boschi o mandarci i loro figli
senza destare sospetti; i credenti più ricchi fornivano invece ai rifugi degli eretici rifornimenti
di grano e di vino - e del miglior vino delle loro cantine.
Le donne facevano collette per raccogliere la lana con la quale quei forzati eremiti si
tessevano di persona gli abiti per loro e per i loro confratelli più poveri; i mercanti fornivano
stoffe e vestiti già pronti, guanti, berretti; altri davano piatti, caraffe, rasoi. Tutte queste offerte
ci sono note perché quanti le fecero dovettero risponderne davanti alla giustizia.
Talvolta, sia per guadagnarsi da vivere che per dissimulare il loro ministero, i 'perfetti'
esercitavano qualche mestiere; si segnalano 'perfetti' calzolai o panettieri, impiegati nei filatoi di
lana o come domestici di credenti ricchi. I 'perfetti' valdesi, in particolare, tenevano a vivere del
proprio lavoro, e si citano fra loro dei costruttori di botti, dei barbieri, dei sellai, dei muratori.
Dopo il 1229 gli eretici esercitarono meno frequentemente il mestiere di tessitori, perché questa
corporazione era particolarmente sospetta; ma alcuni di loro restarono tessitori anche ai tempi
dell'Inquisizione.
Molti 'perfetti' catari e valdesi godevano di un'ottima reputazione come medici e, a questo
titolo, rendevano servizio ai credenti che li aiutavano e li accoglievano; i loro avversari hanno
insinuato che si trattava di un metodo eccellente per accattivarsi la fiducia della gente e per
ottenere donazioni alla loro Chiesa da parte dei moribondi. Era, in effetti, un metodo come un
altro. Per meglio conquistarsi la fiducia dei pazienti, molti di loro, specie fra i valdesi, non
accettavano denaro e fornivano di persona le medicine. Il valdese P. de Vallibus, come il cataro
Guglielmo d'Ayros andavano di villaggio in villaggio, di castello in castello, sia per curare i
malati che per predicare. Sembra che questa non fosse solo una tattica di propaganda, ma
un'autentica vocazione medica, del tutto naturale in uomini che consacravano la loro vita a
praticare la carità. Beninteso, l'esercizio della medicina era loro vietato, ed essi si rendevano
sospetti per il solo fatto di ostinarsi a curare i malati.
Rainero Sacconi, nella sua "Somma" scritta intorno al 1250, rimprovera ai catari il loro
amore del denaro, aggiungendo onestamente che le persecuzioni delle quali erano vittime li
costringevano ad avere a disposizione somme considerevoli. Non potendo possedere terre, case,
imprese commerciali, ridotta a poco a poco all'illegalità totale, la Chiesa catara era in grado di
proseguire la sua attività solo grazie alle elargizioni di denaro; non ne aveva bisogno tanto per
mantenere i suoi ministri (che, grandi digiunatori, spendevano ben poco) quanto per acquistare
e diffondere i testi sacri e la letteratura apologetica e polemica; per organizzare i collegamenti e
le riunioni, il cui successo dipendeva spesso dal silenzio di qualche funzionario interessato; per
gli spostamenti, i viaggi, gli aiuti ai credenti bisognosi. Sempre e dovunque il denaro era un
potente mezzo di intervento, specie per gente sulla cui testa incombeva una taglia. Così, nel
1237 il balivo di Fanjeaux arrestò il vescovo Bertrando Marty in persona, con tre 'perfetti', ma li
lasciò liberi in cambio di trecento soldi "tolsas" che i credenti subito raccolsero sul posto
tramite una colletta. Per un caso di corruzione conosciuto, altre decine debbono essere rimasti
ignoti; e uomini sempre esposti al ricatto del primo miserabile che minacciasse di denunciarli
non dovevano avere troppi scrupoli a comprare la propria vita a peso d'oro.
I 'perfetti' erano ricchi e reputati tali. Pagavano generosamente i servizi resi loro. Non
potendo portare con sé forti somme (era difficile in un'epoca nella quale non esistevano le
banconote), le affidavano a persone fidate che, a loro volta, le sotterravano in nascondigli noti
solo a loro; in caso di urgente necessità questi tesori venivano messi a disposizione della Chiesa
catara. Le somme considerevoli che i catari possedevano in tutte le regioni nelle quali
svolgevano il loro ministero provenivano anzitutto dai doni che i credenti 'consolati' facevano
loro sul letto di morte; per i credenti ricchi questi doni erano in un certo senso obbligatori, ma
anche le persone di modeste condizioni offrivano i loro vestiti, il loro letto o altri oggetti di
arredamento. Un'ulteriore fonte di rendite era rappresentata dalle collette, sia di denaro che di
beni in natura, fatte per la Chiesa da uomini di fiducia.
Sembra che durante i primi anni dell'Inquisizione la vita clandestina dei catari fosse ben
organizzata. I registri degli inquisitori rendono conto delle diverse categorie di sostenitori
dell'eresia: i "receptatores", rei del reato più comune, quello di dare ospitalità a qualche
'perfetto'; i "nuncii", agenti incaricati di mantenere i contatti, di fare da guide o di portare
messaggi; i "quaestores", che raccoglievano i fondi; i "depositarii", che conservavano i tesori
della Chiesa catara. Ovviamente queste funzioni non erano distinte nettamente: la qualifica
attribuita ai credenti serviva più che altro a specificare la natura del reato commesso; ma nessun
credente, e non senza motivo, si fregiava del titolo di "quaestor" o di "nuncius haereticorum".
Comunque una simile organizzazione esisteva, e quanto più aumentavano le persecuzioni, tanto
più i legami che univano i catari e i loro fedeli divenivano più stretti; il pericolo, che
allontanava i più deboli, stimolava gli uomini più generosi. Ma anche i meno decisi, quando
l'unica alternativa rimasta era quella fra la fedeltà e il tradimento, spesso preferivano esporsi ai
pericoli della persecuzione pur di non tradire.
2. IL SANTUARIO DI MONTSEGUR.
I catari disponevano della fortezza di Montségur che, sotto gli occhi di tutti, fungeva da
centro ufficiale della Chiesa catara della Linguadoca. Accompagnati dalle loro famiglie, diversi
cavalieri vi si recavano in pellegrinaggio, mentre gli uomini del popolo la raggiungevano di
nascosto, da soli o in gruppo, per poter liberamente assistere ai riti della loro Chiesa, ricevere la
benedizione dei 'buonuomini', chiedere loro consigli o istruzioni sulla lotta contro il nemico.
Questo castello, situato nelle terre appartenenti a Guido di Lévis, combattente per la fede
cattolica e nuovo signore di Mirepoix, pare appartenesse all'eredità di Esclarmonde, sorella di
Raimondo Ruggero di Foix, ed era tenuto da Raimondo di Perella, vassallo dei conti di Foix;
nessuno contestava il suo dominio a questo potente signore, dal momento che Montségur
passava per essere un nido d'aquila imprendibile ed era situato in piena montagna, lontano dalle
grandi strade, in un paese notoriamente eretico; né i crociati né le truppe del re di Francia
avevano ritenuto utile prendere questa fortezza, di mediocre interesse strategico, e il cui assedio
avrebbe posto enormi difficoltà (2).
Situato sul versante settentrionale dei Pirenei, in mezzo a cime di media altitudine (da 2000 a
3000 metri), e dominando da tre lati valli molto profonde, la montagna, o se vogliamo, la rocca
di Montségur (1207 metri) è un immenso dirupo arrotondato, a forma di pan di zucchero, al
quale si può accedere solo dal versante occidentale, che scende verso valle con un pendio molto
ripido e poco boscoso. Il castello costruito sulla cima, molto piccolo, non poteva dare riparo a
numerosi difensori e tanto meno ospitare una grande comunità in tempo di pace. Gli eretici che
si rifugiavano a Montségur alloggiavano nel villaggio situato ai piedi della montagna, in
capanne costruite sul versante occidentale e sulla cima; dopo il passaggio di Guido di Montfort
nessun esercito nemico era penetrato entro queste terre poco ospitali e ben protette, e intorno a
Montségur si era formata, dopo la crociata, una vera e propria colonia catara, così importante
che i mercanti delle città vicine vi affluivano sempre certi di trovare clienti. Quel borgo
sperduto stava trasformandosi in un mercato, così come accade a ogni luogo di pellegrinaggio:
perché questo era Montségur.
Nel 1204 il castello, da tempo considerato dai catari come un luogo particolarmente
favorevole al loro culto, stava cadendo in rovina; i 'perfetti' chiesero al suo signore, Raimondo
di Perella, di restaurarlo e di fortificarlo, ciò che fu fatto benché i catari allora non avessero
bisogno urgente di difendersi. Questa stessa richiesta prova che Montségur rappresentava per
gli eretici ben altro che un eventuale rifugio contro il nemico. Fin dall'inizio del secolo i vescovi
catari, e in particolare Guilberto di Castres, vi si recavano a predicare; Esclarmonde di Foix, i
cui diritti su Montségur erano alquanto vaghi e la cui personalità resta misteriosa, doveva avere
una grande influenza nella regione, cui Folco rese un omaggio indiretto dichiarando che «con la
sua perversa dottrina, ella faceva molte conversioni (3)». Che questa gran dama, divenuta
'perfetta' nel 1206, abbia contribuito o meno a risollevare il prestigio di Montségur, l'interesse
particolare dei catari per questo castello data dagli inizi del tredicesimo secolo. Nel 1232 ne era
signore Raimondo di Perella, e fu a lui che Guilberto di Castres chiese il permesso di fare del
luogo il rifugio ufficiale della Chiesa catara.
In quel momento Guilberto di Castres era l'indiscusso capo spirituale della regione e
soggiornava frequentemente a Montségur. Non ci restava a lungo, continuando a condurre la
vita vagabonda dei ministri catari. Ma numerosi 'perfetti', i cui conventi - un tempo luogo di
ritiro per nobili vedove e case di educazione per giovani fanciulle religiose - erano stati
soppressi dalla crociata, si rifugiarono nei dintorni di Montségur, costruendosi capanne sulla
cima del dirupo; i 'perfetti', che conducevano una vita contemplativa o istruivano nella loro fede
i candidati all'apostolato, erano costretti a cercarsi un riparo ove fosse possibile consacrarsi a
una vita di preghiera e di studio. Ai piedi delle mura del castello sorse, a poco a poco, un
villaggio di capanne, in parte scavate nella roccia, in parte sospese nell'aria, al di sopra del
precipizio; un rifugio inaccessibile e poco confortevole, che non doveva dispiacere al
temperamento ascetico di questi uomini alla ricerca di Dio. Intorno a questo villaggio, attaccato
come un nido di rondine alle alte mura del castello, venne innalzata una solida palizzata: data la
posizione del castello, anche le fortificazioni più primitive potevano bastare per respingere
qualsiasi attacco. Ma è evidente che in quel contesto e in simili condizioni poteva vivere solo
gente preventivamente preparata a qualsiasi sacrificio.
Molti 'perfetti' e credenti abitavano nel villaggio ai piedi del monte; era un luogo di transito,
nel quale visitatori di qualsiasi condizione e di qualsiasi età compivano soggiorni più o meno
lunghi, per salire al castello, assistere a qualche rito, venerare i 'perfetti' e poi ripartire,
riprendendo a condurre un'esistenza da buoni cattolici. Per forza di cose Montségur divenne in
qualche modo il quartier generale della resistenza catara, e persino della resistenza pura e
semplice: la parte della popolazione più legata all'eresia era anche quella più adatta ad
organizzare una rivolta.
Decimata, rovinata, esiliata, la nobiltà della Linguadoca nel 1240 era ancora forte: la
maggior parte dei vassalli del conte di Tolosa, quelli del conte di Foix e parte degli antichi
vassalli dei Trencavel avevano mantenuto i loro domini; avevano patteggiato con l'autorità di
occupazione solo a malincuore, e desideravano più d'ogni altra cosa ritornare padroni assoluti
delle loro terre; l'Inquisizione era per loro la fonte di innumerevoli vessazioni. Se il conte di
Tolosa era abbastanza potente da lamentarsene apertamente, spesso i suoi vassalli si limitavano
a esercitare un'opposizione sorda ma sistematica. I più forti, come i fratelli di Niort, all'inizio
poterono permettersi di fare guerra aperta alla Chiesa; altri, senza spingersi a invadere il
palazzo arcivescovile, attaccavano chiese e conventi, nella migliore tradizione feudale.
Per ragioni politiche il conte di Tolosa non poteva tollerare che i suoi vassalli compissero atti
di violenza troppo eclatanti; ma sui territori del conte di Foix i signori feudali erano più o meno
padroni di se stessi. Fu dunque nei Pirenei, in questa fase, che si organizzò la resistenza armata
della nobiltà occitana. A cavallo dei Pirenei, i domini del conte di Foix comprendevano, in
Linguadoca, la valle dell'Ariège e i paesi del circondario; in Spagna, la viscontea di Castelbon,
che Ruggero Bernardo possedeva grazie al suo matrimonio con l'ereditiera di questa terra; per
vincoli di omaggio e di parentela, la nobiltà spagnola dei Pirenei era strettamente legata a quella
della Linguadoca meridionale: una profonda somiglianza di razza, di lingua, di tradizioni univa
i paesi dei due versanti dei Pirenei, e se il Roussillon è rimasto catalano fino ai nostri giorni, nel
medioevo anche le regioni di Carcassonne, di Comminges e dell'Ariège erano più vicine alla
Catalogna e all'Aragona che alla Provenza o all'Aquitania. Così, durante la crociata, buona parte
della nobiltà montana della Linguadoca aveva varcato i monti per trovare un naturale rifugio
presso la nobiltà della Cerdagna e della Catalogna. Abbiamo visto come Pietro Secondo
d'Aragona avesse considerato l'attacco alle contee di Foix e di Comminges un'offesa personale e
come per la sua cavalleria la difesa della Linguadoca fosse stata un'azione patriottica.
Spodestati, espulsi dalle loro terre, i "faidits" formavano in Spagna un partito potente, malgrado
i sentimenti cattolici del giovane re Giacomo Primo. Raimondo Trencavel viveva alla corte del
re d'Aragona, circondato da vassalli e da amici, e preparava attivamente la rivincita.
Cacciato da Carcassonne dalle truppe di Luigi Ottavo nel 1226, dopo aver retto il paese per
due anni, quest'uomo ancora giovane (4) beneficiava del prestigio di suo padre, il cui coraggio e
la cui tragica fine erano sempre vivi nella memoria degli Occitani. Per tutti i paesi un tempo
sottomessi ai Trencavel egli rappresentava il signore legittimo del quale si sperava il ritorno
tanto più ardentemente quanto più la situazione creata dalla pace di Parigi provocava un
malcontento crescente.
Raimondo Trencavel non poteva contare sull'aiuto del re d'Aragona. Né il conte di Tolosa né
il conte di Foix potevano arrischiarsi a sostenere apertamente un signore che avanzava pretese
su terre appartenenti alla corona di Francia. Egli poteva contare sull'appoggio totale dei "faidits"
- cavalieri senza terra che possedevano solo la loro forza e le loro armi - e sull'appoggio
clandestino dei signori sottomessi al re e pronti a rivoltarsi alla prima occasione. Oliviero di
Termes aveva nelle Corbières parecchi validi castelli che non si erano mai sottomessi
all'autorità reale e che potevano fungere da depositi d'armi e da luoghi di riunione. Fu nelle
montagne delle Corbières, nei paesi di Sault e della Cerdagna, che fu preparata la sollevazione
di quei signori locali che, potendo contare sui principi solo in caso di successo, ridotti alle loro
sole forze, con tanto più ardore si aggrappavano alla fede catara che per molti di loro era già la
fede dei loro padri e, soprattutto, il simbolo della loro libertà.
Nel 1216 si erano battuti per il conte di Tolosa. Ora Raimondo Settimo, firmatario del
trattato di Meaux, tenuto sotto pressione dal re e dal papa, sempre in cerca di nuove alleanze,
sempre in equilibrio su di una corda tesa, rappresentava un appoggio troppo malsicuro; se
ancora era l'unico uomo capace di riunire intorno alla sua persona tutte le forze della resistenza
e di sollevare l'intero paese, non ci si poteva battere in suo nome contro il suo volere. Ma ogni
uomo era libero di battersi per la sua fede.
Ecco perché Montségur fu, per una decina d'anni, l'anima e il centro della resistenza
occitana. Dalla Spagna i "faidits" passavano i monti per raccogliersi in quel luogo venerato nel
quale il culto cataro veniva celebrato con una solennità pari o addirittura maggiore di quella del
periodo precedente la guerra; dalla Linguadoca i cavalieri, che in segreto cospiravano contro i
Francesi, salivano a Montségur per incontrare i loro amici, prendere accordi, ricevere istruzioni;
molti di questi pellegrinaggi dovevano avere un carattere più politico che religioso e - benché
non si sappia nulla della loro attività - i 'perfetti', per lo più provenienti essi stessi dalla piccola
nobiltà, non dovettero restare estranei a questo movimento patriottico; e forse intrattenevano i
loro fedeli sia sulla liberazione del loro paese sia sulla vanità di un mondo creato da un dio
malvagio.
In realtà - e la cosa è strana - non ne sappiamo nulla. Sappiamo che Guilberto di Castres,
Giovanni Cambiaire, Raimondo Aiguilher, Bertrando Marty e altri ricevettero un gran numero
di quei cavalieri che svolsero un ruolo decisivo nella lotta per l'indipendenza. Guilberto di
Castres, che doveva essere avanti negli anni, scese da Montségur e si recò sotto una buona
scorta nei castelli della regione per farvi brevi soggiorni; tutti questi spostamenti erano
organizzati preventivamente con molta cura e in totale segretezza; evidentemente l'infaticabile
vescovo non intendeva rinunciare, per paura del pericolo, a visitare le sue pecorelle; ma è lecito
supporre che egli prendesse parte attiva e personale anche alla preparazione della rivolta,
incoraggiando i suoi fedeli alla lotta anziché a non fare resistenza.
Le testimonianze giunte sino a noi constatano solo che un certo 'perfetto' si era recato nel tale
posto, che vi aveva spezzato il pane e che certe persone l'avevano 'adorato'; seguendo l'attività
di decine e decine di cavalieri, nobildonne, sergenti d'armi che andavano, venivano, ripartivano,
tornavano, soggiornavano a Montségur non si apprende altro se non che essi ascoltavano dei
sermoni. Così, come vedremo, all'inizio dell'assedio di Montségur (13 maggio 1243) due
sergenti d'armi, il diacono Clamens e tre 'perfetti' scesero dal castello e attraversarono le linee
nemiche per andare a Causson; e questa spedizione, a giudicare dalle fonti, sarebbe stata fatta
solo per andare a mangiare del pane benedetto insieme a due eretici locali. E' possibile che
l'attività dei 'perfetti' e dei credenti intorno a Montségur sia stata dettata solo da imperativi
strettamente religiosi e rituali, la cui importanza ci sfugge per mancanza di informazioni
precise; ma non è impossibile il contrario.
E' forse difficile immaginare che i 'perfetti' organizzassero attività terroristiche; ma dopo
tutto abbiamo visto dei vescovi e persino dei santi cattolici lanciarsi a corpo morto nella
mischia. Il pericolo che le rispettive Chiese correvano giustificava il ricorso a qualsiasi mezzo;
comportandosi così i ministri catari sarebbero stati più scusabili perché la loro fede veniva
perseguitata più crudelmente. Furono uomini di Montségur a partecipare alla più clamorosa
azione terroristica di tutta la storia dell'Inquisizione. Se non l'ispirarono, forse i 'perfetti' la
approvarono. In un periodo in cui la difesa della loro Chiesa coincideva con quella della loro
patria terrestre, i sant'uomini di Montségur, che dopo tutto erano fatti di carne e d'ossa,
potevano essere non meno patrioti dei cavalieri "faidits".
Raimondo di Perella e suo genero Pietro Ruggero di Mirepoix erano fra i capi più decisi
della nobiltà impegnata nella resistenza; è pressoché sicuro che essi mantennero rapporti segreti
con il conte di Tolosa; senza dubbio li intrattennero anche con Raimondo Trencavel, con il
conte di Foix e con la maggior parte della nobiltà catara.
Grandi signori come quelli di Niort avevano dato un importante appoggio materiale ai
'buonuomini' di Montségur dopo l'inverno del 1234, quando una gelata aveva rovinato tutti i
raccolti. Bernardo Ottone di Niort si occupò di raccogliere i sessanta moggi di grano che furono
inviati a Montségur: la cavalleria di Laurac diede venti moggi, Bernardo Ottone di Niort diede
personalmente dieci moggi, il resto proveniva dai doni dei signori e dei borghesi dei dintorni di
Carcassonne e di Tolosa. Si fecero molte altre collette, in denaro e in natura, destinate ai fondi
del castello e al suo approvvigionamento.
Montségur divenne un arsenale: vi si formò un deposito di armi la cui consistenza doveva
essere notevole, come mostrerà il seguito degli avvenimenti. Si deve ritenere che i cavalieri che
vi si recavano a pregare approfittassero del loro pellegrinaggio per portare sul posto il loro
contributo in lance, frecce, balestre o armature; Dom Vaissette pensa addirittura che Montségur
sia servita da piazza d'armi per i Trencavel (3), il che non sembra trovare conferma nei fatti,
poiché nessun testimone menziona un passaggio dei Trencavel a Montségur. Ma l'immenso
deposito d'armi accumulato nella fortezza poteva essere destinato tanto alla difesa del castello
quanto all'approvvigionamento di un eventuale esercito di liberazione.
Per di più Montségur, 'capitale' della Chiesa catara della Linguadoca, non nascondeva solo
molti ministri della setta, ma anche un 'tesoro'. Esso consisteva in primo luogo in depositi
monetari, dal momento che per la difesa del castello e il mantenimento di un gran numero di
'perfetti' bisognava disporre di somme considerevoli; Montségur doveva anche aiutare i
confratelli delle regioni più esposte alle persecuzioni. Ma il tesoro comprendeva certamente
anche ben altro: libri sacri, forse antichi manoscritti, opere scritte da maestri particolarmente
venerati; la letteratura catara era abbondante e i 'perfetti', per istruire i fedeli e i neofiti, non si
accontentavano del Nuovo Testamento; appassionati di teologia quanto i cattolici, essi tenevano
a conservare la purezza dei loro dogmi e attribuivano la massima importanza ai libri che li
aiutavano a mantenersi nell'ortodossia. Oltre a ciò, c'erano forse delle reliquie, degli oggetti
ritenuti sacri? Quel che è certo è che nessuna deposizione ha mai fatto riferimento a nulla di
simile; è anche vero che i modelli di interrogatorio degli inquisitori non prevedevano domande
in proposito. E' possibile che un certo manoscritto del Vangelo o un certo oggetto di culto siano
stati circondati di una particolare venerazione - i catari erano pur sempre uomini - e conservati a
Montségur come oggetti sacri. Ma quale che fosse la natura del tesoro di Montségur, il luogo
stesso iniziava ad assumere un'importanza eccezionale nell'animo di tutti i credenti della
Linguadoca, divenendo il luogo santo per antonomasia.
Era così anche prima del 1232, o prima della crociata? Non sembra. Quando i catari erano
liberi di celebrare i loro culti dove volevano, Montségur era un luogo sacro solo per gli eretici
della regione di Foix, influendo anche qui lo spirito di indipendenza locale. Tuttavia
l'ubicazione e la costruzione di Montségur erano adatte a un tempio come a un castello, che
probabilmente venne sistemato per la celebrazione del culto, forse in un periodo in cui la
Chiesa catara si sentiva abbastanza forte da edificare e consacrare i suoi santuari sull'esempio
della Chiesa cattolica: nel 1204, nella regione di Foix, la religione catara era quasi la religione
ufficiale.
Fra il 1232 e il 1242 il castello divenne un luogo santo verso il quale i moribondi si facevano
trasportare, a dorso di mulo, attraverso impervi sentieri di montagna, per ricevere il sacramento
supremo ed essere sepolti all'ombra delle sue mura. Così il cavaliere Giordano Calvent, già
'consolato', si fece portare a morire a Montségur; Pietro Guglielmo di Fogart, accompagnato da
due 'buonuomini' intraprese il viaggio in tali condizioni di debolezza che non riuscì ad arrivare
a Montségur ma si fermò a Montferrier, dove spirò. Alcune nobildonne delle regioni del
circondario si ritiravano a Montségur per ricevere il "consolamentum" e vivere nella preghiera:
nel 1234 Marquesia di Lantar, suocera di Raimondo di Perella, si fece 'ereticare' da Bertrando
Marty proprio a Montségur; e le numerose 'perfette' che vivevano nelle 'case' ai piedi delle mura
del castello ricevevano le visite delle sorelle o delle figlie, che restavano con loro per periodi
più o meno lunghi, talvolta per dei mesi. Fra i visitatori che salirono al castello negli anni 1233-
43 si ricordano in particolare cavalieri e uomini d'armi, e anche diverse donne, sorelle o figlie
dei cavalieri. Forse vi si recavano anche credenti di condizioni più modeste, ma essi non hanno
attratto l'attenzione dei tribunali; i quali menzionano però i mercanti dei dintorni che andavano
a Montségur per vendere viveri, violando la legge che vietava di fornire qualsiasi aiuto agli
eretici.
Nel 1235 Raimondo Settimo inviò tre cavalieri incaricati di prendere possesso di Montségur;
essi vennero ricevuti nel castello, 'adorarono' Guilberto di Castres e rientrarono a Tolosa. Poco
dopo il conte mandò uno dei suoi balivi, Mancipio di Gaillac che, insieme ai suoi compagni, si
accontentò di venerare i 'buonuomini' e di ripartire così com'era venuto. Il conte inviò una terza
volta lo stesso Mancipio di Gaillac insieme a dei soldati, che catturarono il diacono Giovanni
Cambiaire (o Cambitor) e altri tre 'perfetti' e li portarono a Tolosa per bruciarli. Quest'incidente
illustra in modo eloquente la politica del conte rispetto agli eretici: il suo atteggiamento sarebbe
rimasto ambiguo fino alla fine. Tutte le testimonianze attestano che fu un buon cattolico. E'
anche probabile - alcuni episodi della sua vita lo provano - che detestasse sinceramente l'eresia,
causa delle disgrazie del suo paese. Se più volte ebbe rapporti con i catari, fu soprattutto nel
tentativo di servirsi di loro come di un'arma che poteva essergli utile a riconquistare il suo
paese.
Raimondo di Perella, signore di Montségur, era signore dei castelli di Péreille, di Laroque
d'Olmes e di Alzen (attualmente Nalzen); Montségur non era la sua unica residenza, e nemmeno
la sua preferita, considerato che nel 1204 il castello cadde in rovina. L'edificio doveva esistere
già prima che la famiglia dei Perella si insediasse nel paese, ma la sua costruzione non sembra
precedente al nono secolo. La sua struttura (o meglio il suo progetto, dato che le mura vennero
almeno in parte ricostruite nel 1204) rivela alcune conoscenze tecniche e matematiche assai rare
a quell'epoca nell'Europa occidentale, e del resto l'architettura di Montségur è unica nel suo
genere, non solo nella regione ma in tutta la Linguadoca.
La rupe, la cui cima raggiunge i 1207 metri di altezza ed è difficilmente accessibile, poteva
servire da difesa naturale; ma a prima vista sembrerebbe che il costruttore del castello abbia
seguito una cattiva ispirazione, andando a sistemarsi così lontano e così in alto. Ai nostri giorni
non mancano rovine di castelli sui picchi e sulle creste che dominano le strade più importanti, i
fiumi, i valichi; Montségur ci presenta le rovine di un castello situato in un posto che non
domina nulla e che non conduce da nessuna parte. Il costruttore deve essere stato influenzato
più dalla bellezza del luogo che dai suoi vantaggi pratici. Sappiamo che alcune chiese vennero
edificate nei posti più inverosimili - su dirupi scoscesi, su cime isolate - designati da una
qualche visione miracolosa o consacrati da tradizioni pagane cristianizzate. La scelta del sito
apparenterebbe Montségur a Rocamadour o a Saint-Michel de l'Aiguilhe; ma nella regione non
si trovano tracce di un culto che potesse giustificare la costruzione di un tempio proprio in quel
luogo. Del resto, l'architettura del castello non assomiglia a quella di un edificio religioso, ma
nemmeno a quella di un castello fortificato. Imposta dalla forma della rupe, essa pare
rispondere anche a esigenze relative all'illuminazione e all'orientamento delle mura rispetto al
sole. Ma la particolarità più strana di quest'edificio sono le sue due porte e quanto resta delle
finestre del maschio: nessun castello medievale - se si eccettuano le mura di cinta delle grandi
città - possiede porte così monumentali come la grande porta di accesso a Montségur. Essa
misura quasi due metri di larghezza e non è protetta da alcuna torre o struttura difensiva; in
questo castello imprendibile si poteva entrare come in un mulino, purché si riuscisse prima a
risalire il pendio del dirupo. Portali di questo genere erano un lusso riservato alle chiese; sia che
questa porta sia stata aperta nel 1204 sia che sia stata lasciata com'era durante la costruzione, un
dettaglio simile mostra che il castello non era considerato una struttura difensiva: la sola idea di
far aprire un portale simile ha qualcosa di insolito e pare contraria alle regole dell'architettura
medievale.
Tutte queste considerazioni spingerebbero a pensare che Montségur sia stato davvero
destinato, fin dall'origine o più tardi, all'esercizio di un culto, magari di un culto solare; ma non
si vede chi potessero essere il personaggio o i personaggi potenti che fecero innalzare, fra il
nono e il dodicesimo secolo, quest'edificio monumentale per praticarvi una religione della quale
non si trova traccia nel paese. I catari, a quanto pare, non praticavano culti solari; lo facevano
gli antichi manichei, ma è poco probabile che una setta manichea sia potuta sopravvivere tanto
a lungo nella regione. Tuttavia, se qualche sopravvivenza di tradizioni manichee poté resistere
in una zona così fuori mano e così poco frequentata, vi favorì la diffusione del catarismo:
Montségur avrebbe così beneficiato del favore degli eretici in quanto luogo di rifugio degli
antenati della loro fede. Al fatto non si diede importanza prima del 1204, visto che il castello
cadde in rovina e fu abbandonato; ma alcuni 'perfetti' vi fondarono una 'casa', come quelle che
già esistevano in altre regioni montagnose e isolate: forse scelsero il luogo per la sua bellezza e
il suo silenzio. E' molto probabile che una tradizione locale riconoscesse una qualche
importanza al castello di Montségur, considerandolo un ricordo lasciato dai 'buoni cristiani' di
un tempo. Perché, come abbiamo visto, i catari non si consideravano affatto come degli
innovatori, bensì come i custodi di una tradizione più antica di quella cattolica.
Nel 1233 Montségur cominciò ad apparire ai cattolici come la «Sinagoga di Satana» -
termine tratto dal linguaggio dei catari, che designavano così la Chiesa di Roma. Minacciata di
morte violenta, la Chiesa catara della Linguadoca si era creata spontaneamente una capitale
terrena il cui splendore faceva da contrappeso all'oscurità sempre più fitta che Roma proiettava
sul paese; e, nel momento in cui tanti credenti catari venivano mandati attraverso l'intera
Europa nei luoghi di pellegrinaggio cattolici per una misura di controllo poliziesco, i loro capi
spirituali innalzavano per loro nei Pirenei un luogo santo la cui nobiltà fosse in grado di
controbilanciare gli splendori di Roma, di Santiago de Compostela, di Notre-Dame du Puy e di
Notre-Dame di Chartres.
Il regno di Montségur fu breve. Ciononostante rappresentò il tentativo più ragguardevole
compiuto dalla Chiesa catara per imporsi in Linguadoca come Chiesa nazionale. L'Inquisizione
da sola forse non avrebbe avuto ragione di Montségur e questo luogo, divenuto tanto
rapidamente il simbolo di tutte le speranze di un popolo umiliato e braccato, forse avrebbe
potuto avere un'influenza duratura sulla storia della Linguadoca; ma la cittadella catara era
destinata a entrare nella leggenda solo dopo essere stata distrutta e abbandonata. Dell'intensa
vita di cui fu il centro restano così poche tracce che gli uomini che vi abitarono, certo eroici e
degni di ammirazione, sono per noi meno vivi delle fiamme del rogo in cui arsero.
3. LA RIVOLTA E LA SCONFITTA DI RAIMONDO SETTIMO.
Pietro Cellani e Guglielmo Arnaldo nella diocesi di Tolosa, Arnaldo Cathala e frate Ferriero
nei territori del re di Francia continuavano la loro missione con una tenacia esemplare,
malgrado la resistenza sorda che la popolazione della Linguadoca opponeva loro. La rivolta
covava sotto le ceneri. Scoppiò una prima volta nel 1240: nel mese di aprile Raimondo
Trencavel, a capo di una truppa di "faidits", di esuli e di soldati spagnoli e catalani, attraversò i
Pirenei e, dalla valle dell'Aude, penetrò nella regione di Carcassonne; Oliviero di Termes fece
insorgere le Corbières e Giordano di Saissac prese le armi nel Fenouillèdes.
Accolti come liberatori a Limoux, Alet e Montréal, i signori occitani in poche settimane si
impadronirono di tutta la regione. Pépieux, Alzille, Laure, Rieux, Caunes, Minerve aprirono
loro le porte; Montoulieu, che resisteva, fu presa d'assalto e la guarnigione venne massacrata.
Carcassonne, dove il siniscalco Guglielmo di Ormes si era rinchiuso con l'arcivescovo Pietro
Amiel e con il vescovo di Tolosa, fu assalita il 7 settembre dalle truppe del Trencavel, che
penetrarono nel borgo dove vennero accolte con gioia; la rivolta era diretta contro i Francesi ma
anche contro la Chiesa, tanto che trentatré sacerdoti catturati nel borgo vennero massacrati dalla
popolazione, malgrado il salvacondotto loro dato dal visconte. L'assedio durò oltre un mese.
Malgrado i vigorosi attacchi del Trencavel che tentava di piegarla grazie all'opera degli
zappatori e al tiro delle macchine da guerra, la città resisteva. L'11 ottobre, l'approssimarsi di
un'armata reale sotto il comando di Giovanni di Beaumont costrinse gli assedianti a levare il
campo; le truppe del Trencavel e parte degli abitanti del borgo lasciarono Carcassonne dopo
avere saccheggiato il convento dei Frati Predicatori e l'abbazia di Notre-Dame, e dopo aver
appiccato il fuoco a vari quartieri.
Ritiratosi a Montréal e a sua volta assediato, Raimondo Trencavel si vide costretto a trattare.
Il conte di Tolosa non si era mosso; attendeva gli sviluppi della situazione. Quando Pietro
Amiel e Raimondo di Fauga gli avevano intimato di andare in aiuto al siniscalco, secondo gli
accordi di Meaux, aveva chiesto di poter riflettere. Non si era spinto fino a rivoltarsi anche lui,
per andare in aiuto a suo cugino: aspettava un'occasione più favorevole. D'accordo con il conte
di Foix, si intromise fra i rappresentanti del re di Francia per negoziare una pace onorevole per
Raimondo Trencavel, che fu autorizzato a ripartire per la Spagna, con armi e bagagli.
Le città che si erano sollevate furono punite severamente: il borgo di Carcassonne fu
completamente incendiato; Limoux, Montréal e Montoulieu vennero saccheggiate; le altre città
pagarono pesanti tributi. L'armata reale risalì verso le Corbières e ottenne la sottomissione dei
signori di Pierrepertuse e di Cucugnan, poi quella dei signori di Niort.
Raimondo Settimo, il cui atteggiamento durante la rivolta era parso ai Francesi più che
equivoco, fu costretto a tornare a Parigi per rinnovare i suoi giuramenti di fedeltà al giovane re
Luigi Nono, che aveva allora venticinque anni. Giurò di muovere guerra a tutti i nemici del re,
di cacciare gli eretici e i "faidits", di prendere e distruggere Montségur. Per di più il conte diede
prova di lealtà facendo la pace con il conte di Provenza, che aveva attaccato per favorire la
politica dell'imperatore Federico Secondo, nemico giurato del papato.
Evidentemente in quel momento Raimondo Settimo non aveva alcuna intenzione di rompere
con il re e voleva cancellare l'imbarazzante impressione prodotta dalla rivolta del Trencavel.
Questa rivolta era arrivata troppo presto; e si deve credere che gli anni e le disgrazie non
avessero ancora eliminato la vecchia rivalità fra i conti di Tolosa e i Trencavel: il giovane
Raimondo non aveva consultato suo cugino, che a sua volta non l'aveva appoggiato. Ma è vero
che egli stava preparando un'operazione di grande importanza, la cui ora non era ancora
scoccata.
Raimondo Settimo aveva rinunciato alla speranza di riconquistare la sua indipendenza
tramite una resistenza locale condannata in partenza all'insuccesso: aveva già fatto tutto il
possibile in questa direzione, e la sua vittoria sulle truppe del Montfort l'aveva portato al trattato
di Meaux. Solo indebolendo in modo durevole la potenza del re di Francia poteva restituire al
suo paese la libertà e la prosperità; ma non aveva alcuna possibilità di farcela da solo. Perciò
egli progettava disegni politici più ampi: Raimondo Trencavel e Oliviero di Termes non erano
certo in grado di cacciare i Francesi; solo il re d'Inghilterra, l'imperatore di Germania e una lega
di grandi vassalli, in caso di vittoria, avrebbero potuto dettare le loro condizioni al re di Francia.
Per sviare i sospetti del papa e del re il conte di Tolosa era pronto a ogni atto di sottomissione, a
ogni manifestazione di ortodossia; del resto i sovrani di cui cercava l'alleanza erano tutti
cattolici, e quindi non aveva alcuna intenzione di passare per il protettore degli eretici.
Per di più, Raimondo Settimo voleva avere dal papa due favori importanti: il permesso di
seppellire suo padre e quello di ripudiare sua moglie. In effetti era vano scrollarsi di dosso il
giogo dei Francesi se, comunque, la Linguadoca, dopo la sua morte, sarebbe automaticamente
caduta nelle mani del re di Francia per diritto ereditario. Ora, Raimondo non era ancora riuscito
a separarsi dalla moglie, sterile da vent'anni: il papa si guardava bene dall'autorizzare un
divorzio che avrebbe nuociuto ai disegni del re di Francia. Per compiacere al papa, il conte
sacrificò la sua alleanza con l'imperatore (non a lungo, come vedremo) e si trovò in condizioni
migliori per procedere all'annullamento del matrimonio; tanto più che era sostenuto da
Giacomo Primo, nipote della contessa. Raimondo pretendeva di aver scoperto, dopo
venticinque anni di matrimonio, che suo padre Raimondo Sesto era stato uno dei padrini della
principessa Sancia, e che quindi si trovava a essere il marito di una figlioccia di suo padre.
Produsse dei testimoni e il matrimonio fu finalmente dichiarato nullo, con grande indignazione
del vescovo di Tolosa e, soprattutto, di Alfonso di Poitiers e di sua moglie Giovanna, la figlia di
Raimondo Settimo.
Sbarazzatosi della moglie, il conte di Tolosa diventava un buonissimo partito per le figlie dei
feudatari del Mezzogiorno della Francia. Raimondo Berengario, conte di Provenza (figlio di
Alfonso, fratello cadetto di Pietro Secondo d'Aragona), dopo aver ricercato l'appoggio del re di
Francia per proteggersi dalle pretese dell'imperatore, cercava in quel momento il modo per
sbarazzarsi della tutela francese; dopo avergli mosso guerra, nel 1239, per favorire gli interessi
dell'imperatore, Raimondo Settimo gli propose la pace, ottenendo un doppio risultato: da un
lato dava soddisfazione ai desideri del papa, dall'altro si acquistava un alleato per la futura lotta
contro il re di Francia. Raimondo Berengario aveva solo figlie; la maggiore aveva sposato Luigi
Nono, la minore Enrico Terzo d'Inghilterra; ne restavano due da sistemare. Come Raimondo
Settimo, il conte di Provenza non era intenzionato a lasciare i suoi domini in eredità al re di
Francia: dieci anni di dominio francese nel Carcassès e nell'Albigeois dovevano aver
ampiamente istruito i signori meridionali sulla sorte che spettava ai loro paesi in caso di
occupazione reale. Raimondo Berengario scelse come suo terzo genero il conte di Tolosa, nella
speranza di fondare, con lui e con suo cugino Giacomo Primo d'Aragona, una lega di baroni
meridionali abbastanza potente da piegare l'autorità reale. Per Raimondo Settimo il matrimonio
era questione vitale, perché solo un erede maschio poteva, malgrado le clausole del trattato di
Meaux, salvaguardare l'indipendenza della sua terra.
Nel 1241 il conte aveva quarantaquattro anni; non c'era ragione di supporre che non potesse
più avere discendenti, e questa circostanza poteva compromettere, per la Francia, i vantaggi del
trattato di Meaux. A meno di andare a cercare una moglie in Danimarca, nessun principe
europeo poteva sposarsi senza una dispensa del Santo Padre, e le famiglie dei grandi baroni
meridionali erano tutte legate da vincoli di parentela: Raimondo Settimo si trovava a essere
parente acquisito delle figlie di Raimondo Berengario delle quali (ironia della sorte) la sua
sposa ripudiata era prozia. La dispensa non sembrava difficile da ottenere, e il re Giacomo
Primo d'Aragona rappresentò a Aix il conte di Tolosa nel suo matrimonio per procura con
Sancia, terzogenita del conte di Provenza. Era destino che questo matrimonio non venisse
consumato: Gregorio Nono morì il 21 agosto 1241, e il suo successore Celestino Quarto non
ebbe il tempo di occuparsi della dispensa: il suo pontificato durò solo quattro settimane. Dopo
la sua morte (ottobre 1241) il seggio pontificio rimase vacante per venti mesi e il conte di
Provenza, certo nella convinzione che questa dispensa che tardava troppo non sarebbe mai
arrivata, sposò sua figlia a Riccardo, fratello del re d'Inghilterra.
Il conte di Tolosa doveva cercarsi un nuovo suocero: scelse Ugo di Lusignano, conte della
Marca. Anche in questo caso era necessaria una dispensa: Margherita della Marca, la figlia di
Ugo, e Raimondo Settimo erano parenti di quarto grado, discendendo entrambi da Luigi Sesto il
Grosso. Per motivi differenti nemmeno questa dispensa sarebbe mai stata concessa.
Ugo di Lusignano, signore del Poitou, spinto da sua moglie Isabella d'Angoulême, vedova
di Giovanni Senzaterra, cercava anche lui degli alleati contro il re di Francia. Nel 1242 il
giovane Luigi Nono assistette alla formazione di una lega contro di lui alla quale, più o meno
apertamente, presero parte il duca di Bretagna, Pietro Mauclerc, il conte di Tolosa, il conte della
Marca e il conte di Provenza, sostenuti da un lato dal re d'Inghilterra, Enrico Terzo, dall'altro da
Giacomo Primo d'Aragona. La coalizione, in apparenza potente, non era né unita né organizzata
quanto sarebbe stato necessario per sconfiggere la giovane e combattiva monarchia francese.
Abbiamo visto che sul piano militare i Francesi del nord avevano un'incontestabile superiorità
sui meridionali; e la rapida sconfitta di Raimondo Trencavel aveva mostrato che anche in un
paese nemico e con truppe numericamente modeste, i Francesi finivano sempre per avere il
sopravvento. La speranza di Raimondo Settimo - accerchiare i domini del re di Francia e
colpirlo contemporaneamente su più fronti - sarebbe stata realizzabile se tutti i suoi alleati
avessero condiviso il suo desiderio di muovere guerra al re di Francia.
Il più interessato di tutti, il conte di Tolosa, era anche il più debole: le guarnigioni reali erano
a poche decine di chilometri dalla sua capitale, le sue piazzeforti erano state smantellate e il
controllo dell'autorità reale e della Chiesa su di lui era incessante. Passando dalla Provenza al
Poitou, dal Poitou alla Spagna, Raimondo Settimo aveva consacrato gli anni 1240-42 a
un'intensa attività diplomatica, prendendo peraltro ogni precauzione per non destare i sospetti di
Bianca di Castiglia: il 19 e il 26 aprile 1241 firmò con il re d'Aragona un trattato di alleanza che
aveva per scopo la difesa dell'ortodossia cattolica e della Santa Sede. Poi concluse un'alleanza
difensiva e offensiva con Ugo di Lusignano, quindi ottenne l'adesione dei re di Navarra, di
Castiglia e d'Aragona, e in seguito di Federico Secondo. Non si può dire che abbia mancato di
buona volontà e nemmeno di abilità; ma la sua sorte, in questo modo, dipendeva, più che da lui,
dai suoi alleati, per i quali la sconfitta della Francia non era una questione vitale.
Di ritorno dall'Aragona e in cammino verso il Poitou, a Penne, nell'Agenais, Raimondo fu
colpito da una malattia così grave che lo si dette per morto (14 marzo 1242). Questa malattia
arrivava nel momento meno opportuno: il conte della Marca non attese la guarigione del suo
alleato per denunciare il legame di vassallaggio con il re di Francia. Appena ristabilito, all'inizio
di aprile, Raimondo Settimo convocò in fretta i suoi vassalli per assicurarsi della loro fedeltà;
tutti giurarono di sostenerlo sino alla fine: Bernardo, conte di Armagnac, Bernardo, conte di
Comminges, Ugo, conte di Rodez, Ruggero Quarto, conte di Foix, i visconti di Narbonne, di
Lautrec, di Lomagne si impegnarono ad aiutarlo nella lotta contro il re di Francia. Era la
dichiarazione di guerra.
Il giovane Luigi Nono, senza perdere tempo, si precipitò con il suo esercito nel Saintonge,
dove schiacciò le truppe del conte della Marca. La guerra iniziava male. Contando sulla forza
del re d'Inghilterra e degli altri alleati, Raimondo Settimo non pensò nemmeno a fare marcia
indietro: sapeva che non avrebbe avuto una seconda occasione. Ma la rapidità della decisione
reale aveva già compromesso il successo dell'impresa; e i vassalli del conte, sempre pronti a
battersi per le loro terre, non avevano voglia di andare in soccorso di Ugo di Lusignano.
Lo spirito di rivolta, che covava nel popolo come un fuoco sotto la cenere, esplose
improvvisamente alla notizia della guerra che si preparava. Fu il segnale per il massacro di
Avignonet.
Secondo la deposizione delle persone che parteciparono direttamente alla vicenda, il
massacro venne deciso dietro diretta istigazione del conte di Tolosa. Ecco il racconto che Fays
di Plaigne, moglie di Guglielmo di Plaigne, fece agli inquisitori: «Guglielmo e Pietro Raimondo
di Plaigne, due cavalieri della guarnigione di Montségur, si trovavano nel castello di Bram
quando un certo Giordano di Mas giunse per dire a Guglielmo che Raimondo d'Alfaro lo
attendeva nel bosco di Antioche. Raimondo d'Alfaro era vicario di Raimondo Settimo e balivo
del castello di Avignonet. Guglielmo di Plaigne incontrò Raimondo d'Alfaro nel luogo indicato,
e il balivo, dopo avergli fatto giurare di mantenere il segreto, gli disse: 'Il mio signore, il conte
di Tolosa, non può spostarsi, nemmeno Pietro di Mazerolles o gli altri cavalieri disponibili
possono farlo. Ora bisogna uccidere Guglielmo Arnaldo e i suoi compagni. Chiedo a Pietro
Ruggero di Mirepoix e a tutti gli uomini d'armi di Montségur di venire al castello di Avignonet,
dove attualmente si trovano gli inquisitori; porterò comunque alcune lettere per Pietro Ruggero.
Fai in fretta: in compenso avrai il miglior cavallo che troveremo ad Avignonet, dopo la morte
degli inquisitori' (6)».
Questa testimonianza chiama in causa in modo del tutto esplicito il conte di Tolosa. Che
Fays di Plaigne abbia fatto una simile deposizione per alleviare in parte le responsabilità dei
suoi? Il primo responsabile diretto, in ogni caso, fu Raimondo d'Alfaro, che convocò gli uomini
di Montségur, rendendo possibile l'assassinio. E' dubbio che abbia potuto agire di sua iniziativa,
o almeno senza essere certo dell'approvazione di Raimondo Settimo; al di là del suo titolo di
balivo, egli era molto legato al conte, che era suo zio (Raimondo d'Alfaro era figlio di
Guglielmina, figlia naturale di Raimondo Sesto). Malgrado il suo odio verso gli inquisitori, il
conte non poteva incaricare i suoi cavalieri di un simile atto di violenza; i cavalieri di
Montségur non erano suoi sudditi, ma dei ribelli dichiarati, che per di più risiedevano in un
luogo ritenuto imprendibile.
Quella che il conte imponeva ai cavalieri di Montségur non era del resto una corvé, bensì
una fortuna e un favore insperati, una festa; quegli uomini corsero al macabro incontro con
l'impazienza di un innamorato ansioso di rivedere la sua bella. Guglielmo di Plaigne galoppò a
briglia sciolta fino a Montségur per annunciare la buona notizia a Pietro Ruggero di Mirepoix,
comandante della guarnigione; questi raccolse subito i suoi cavalieri e i suoi sergenti d'armi,
dicendo loro: «Preparatevi. Si tratta di una faccenda molto importante, che ci recherà un gran
vantaggio! (7)».
Erano una sessantina, ossia circa la metà della guarnigione di Montségur, quindici cavalieri e
quarantadue sergenti d'armi; appartenevano tutti alla piccola nobiltà della regione, i Massabrac,
i Congost, i Plaigne, gli uomini di Montferrier, di Arzeus, di Laroque d'Olmes, di Castelbon, di
Saint-Martin-la-Lande eccetera - tutti credenti catari da due o tre generazioni, considerato che
per lo più erano giovani. Possiamo credere che Pietro Ruggero di Mirepoix abbia nascosto ai
'perfetti' lo scopo della spedizione? Si sarebbe arrischiato a prendere una simile responsabilità
senza consultare il capo della comunità, il vescovo Bertrando Marty? Forse i 'buonuomini' non
frequentavano le sale d'armi, ma dovevano seguire con ardore quanto accadeva all'esterno, dato
che si spostavano di continuo e mantenevano regolari rapporti con i credenti dei dintorni. La
missione della quale Raimondo d'Alfaro aveva incaricato gli uomini di Montségur era contraria
alla carità cristiana, ma non c'è motivo di credere che Bertrando Marty e i suoi compagni
l'abbiano disapprovata.
Guglielmo Arnaldo era impegnato in un nuovo viaggio inquisitoriale, accompagnato dal
francescano Stefano di Saint-Thibery, affiancatogli dal papa Innocenzo Quarto per dare
soddisfazione alle richieste del conte di Tolosa. I due inquisitori erano assistiti nelle loro
funzioni da due domenicani, Garcia d'Aure e Bernardo di Roquefort, da un francescano,
confratello di Stefano di Saint-Thibery, da Raimondo Carbonier, consigliere del tribunale,
rappresentante dell'autorità episcopale, da Raimondo Costiran, detto Raimondo lo Scrittore, un
trovatore divenuto arcidiacono di Lézat (dieci anni prima egli aveva preso le difese di Bernardo
Ottone di Niort in occasione del suo processo) e da quattro domestici.
Situata in pieno Lauraguais, ai confini del territorio del conte di Tolosa, Avignonet aveva
fama di essere rifugio di eretici; tutti i paesi dei dintorni - Cassés, La Bessède, Laurac, Sorèze,
Saissac, Saint-Félix - erano di antica tradizione eretica, e Guglielmo Arnaldo e i suoi compagni
dovettero avere un certo coraggio per impiantarvi un tribunale dell'Inquisizione proprio nel
momento in cui il conte di Tolosa aveva dichiarato guerra al re di Francia. Viaggiarono a
cavallo, senza scorta, e si insediarono negli alloggi che le autorità locali misero a loro
disposizione.
Giunsero ad Avignonet la vigilia dell'Ascensione e furono ricevuti da Raimondo d'Alfaro
che, in quanto balivo del conte, diede loro alloggio nel palazzo di proprietà del conte di Tolosa.
Li ricevette con la gioia che si può immaginare, e già sappiamo che non perse tempo per
informare del loro arrivo chi di dovere. Gli uomini di Montségur, dal canto loro, dopo una
buona cavalcata (fra Avignonet e Montségur ci sono sessanta chilometri in linea d'aria, e quasi
cento di strada), si fermarono a Gaja, dove furono accolti nella casa di Bernardo di Saint-Martin
e dove furono raggiunti da un altro gruppo formato da Pietro di Mazerolles, Giordano di Vilar e
da parecchi sergenti; presso la località di Mas Saintes Puelles si aggiunse anche Giordano di
Mas; non era più necessario mantenere il segreto, il solo fatto di sapere che gli inquisitori erano
a portata di armi trasformava gli uomini del paese in congiurati.
Quando questa truppa si fermò alla casa dei lebbrosi, all'uscita di Avignonet, venne loro
incontro un messaggero di Raimondo d'Alfaro, chiedendo se erano muniti di asce. Ne erano
state preparate dodici ed erano stati scelti i dodici uomini - otto di Gaja e quattro di Montségur -
che avrebbero aperto la strada. A notte fonda i congiurati furono condotti entro Avignonet, dove
Raimondo d'Alfaro, «vestito di una giubba bianca», li ricevette e, alla luce delle fiaccole, li
condusse attraverso i corridoi del palazzo fino alla porta dietro la quale dormivano gli
inquisitori. Il balivo era accompagnato da una quindicina di abitanti di Avignonet che avevano
voluto partecipare anche loro al complotto.
La porta fu abbattuta a colpi d'ascia e i sette frati, svegliati di soprassalto, capirono di essere
caduti in trappola e si inginocchiarono per intonare il "Salve Regina"; non fu lasciato loro il
tempo di finire, Raimondo d'Alfaro si lanciò in avanti, dicendo «Va be, esta be» (Va bene, va
bene); i suoi compagni si disputarono l'onore di menare i primi colpi. Il solo fatto che parecchi
congiurati si vantarono poi di aver inflitto dei colpi mortali può darci un'idea di che cosa sia
stata questa carneficina. Le teste dei monaci vennero fracassate con le asce e le mazze, i loro
corpi vennero trafitti da innumerevoli colpi di lancia e di pugnale; molti, senza dubbio,
poterono solo infierire sui cadaveri.
Seguì la spartizione del bottino: i registri degli inquisitori, i pochi oggetti di valore che
portavano con sé nei loro viaggi. Non era molto: alcuni libri, un candeliere, una scatola di
zenzero, qualche suppellettile d'argento, vestiti, coperte, scapolari, coltelli. Di fronte all'avidità
con la quale questi uomini, che senza essere ricchi non erano dei miserabili, si lanciarono su
questi oggetti di modesto valore, in una stanza coperta di cadaveri sfigurati e sanguinanti, viene
da pensare più a una distribuzione di trofei che a un saccheggio. Quei congiurati che non
avevano partecipato al massacro si unirono agli altri, ognuno voleva la sua parte.
Poi Raimondo d'Alfaro fece dare ai congiurati candele e fiaccole, e il corteo uscì di città per
tornare alla casa dei lebbrosi, dove attendeva il resto della truppa. Guglielmo di Plaigne, come
promesso, montava «il miglior cavallo»: quello di Raimondo lo Scrivano. Il balivo di Avignonet
si congedò dai suoi complici dicendo: «Tutto è stato fatto come si doveva. Andate, e la fortuna
sia con voi». Quindi rientrò in città per gridare la chiamata alle armi: la fiaccolata che
annunciava la morte degli inquisitori diede il segnale della rivolta.
Pietro Ruggero di Mirepoix aspettava i suoi uomini nella foresta di Antioche. Essi
arrivarono, con i cavalli carichi del bottino; sette uomini (Pons di Capelle, P. e G. Laurens,
Pietro di Mazerolles, Pietro Vidal, Guglielmo di La Ilhe, Guglielmo Acermat) si vantarono di
aver inflitto colpi mortali agli inquisitori. Pietro Ruggero, quando apparve Guglielmo Acermat,
gli gridò: «Traditore, dov'è dunque la coppa di Arnaldo? - E' stata fatta a pezzi - E perché non
me li hai portati? Li avrei ricomposti con un filo d'oro, e avrei bevuto vino tutta la vita in questa
coppa». La «coppa» in questione altro non era che il teschio di Guglielmo Arnaldo (8).
La mattina del giorno dell'Ascensione la truppa arrivò a Saint-Félix. La grande notizia si era
già diffusa per il paese: il curato del luogo, alla testa dei suoi parrocchiani, venne a felicitarsi
con gli assassini, che entrarono nel borgo fra le acclamazioni della folla. Il conte di Tolosa
diede allora inizio alla guerra di liberazione. All'indomani del massacro di Avignonet, Pietro
Ruggero di Mirepoix inviò due sergenti d'armi a Isarn di Fanjeaux per chiedere se la campagna
del conte procedeva bene. In effetti le cose andavano bene: con l'aiuto di Raimondo Trencavel,
Raimondo Settimo in tre mesi riuscì a impadronirsi del Razès, del Termenès e del Minervois, e
a entrare da trionfatore a Narbonne, consegnatagli dal visconte Emerico; per sottolineare
l'annullamento del trattato di Parigi, Raimondo riprese solennemente il suo titolo di duca di
Narbonne (9). Per un momento gli Occitani poterono credere che la liberazione fosse arrivata.
L'assassinio di Guglielmo Arnaldo e dei suoi compagni non fu né una vittoria militare né un
atto eroico; anzi, se ci si limita ai soli fatti, fu una vicenda abbastanza squallida. Meno
squallida, tutto sommato, dei roghi accesi nel nome di Cristo; ma in quanto atti della giustizia
legale questi ultimi beneficiavano di un pregiudizio favorevole, talvolta persino agli occhi di
quanti li condannavano. Anche il massacro di Avignonet era stato un atto di giustizia: di quella
giustizia popolare che finisce per avere ragione delle leggi, dei poteri e del tempo. La Chiesa
non annoverò Guglielmo Arnaldo tra i martiri, e gli assassini, malgrado il definitivo trionfo
dell'Inquisizione, rimasero impuniti.
La rivolta di Raimondo Settimo si risolse in un fallimento. Indubbiamente il conte aveva
sottovalutato l'energia e il talento militare dei capi francesi, e aveva sopravvalutato la forza dei
suoi alleati; errore scusabilissimo, dato che la situazione nella quale si trovava era così
tremenda da indurlo a scambiare le sue speranze per realtà. Il tempo lavorava per il re di
Francia, il cui dominio sulla Linguadoca orientale aveva progressivamente indebolito le
capacità di resistenza del paese tramite un controllo sempre più stretto, l'aumento del numero
dei funzionari e dei cavalieri francesi, il depauperamento della borghesia e l'eliminazione della
nobiltà locale.
Non avendo figli, Raimondo Settimo era per i suoi alleati un fragile sostegno sul quale non
bisognava rischiare di appoggiarsi più di tanto: la contea di Tolosa non veniva più considerata
un paese nemico o amico, e nemmeno una zona d'influenza; veniva identificata con la persona
assai fragile del conte, che difficilmente sarebbe vissuto abbastanza a lungo per vedere suo
figlio, non ancora nato, diventare uomo e tenere testa al re di Francia.
Dopo Ugo di Lusignano, anche Enrico Terzo venne sconfitto a Taillebourg dall'esercito
francese, e ripiegò su Bordeaux. Il re d'Aragona e il conte di Provenza non erano impazienti di
appoggiare alleati tanto sfortunati; e i vassalli del conte di Tolosa, avendo capito che la partita
era persa, pensavano solo a evitare il ritorno dell'esercito reale sulle loro terre. Mentre
Raimondo Settimo, dopo aver firmato un nuovo trattato di alleanza con il re d'Inghilterra, si
recava nell'Agenais per assediare il castello di Penne tenuto dai Francesi, Ruggero Quarto di
Foix offriva la sua sottomissione al re, rompendo definitivamente il legame di vassallaggio con
il conte di Tolosa.
Vistosi abbandonato da tutti, Raimondo Settimo non poté far altro che sottomettersi, facendo
appello alla mediazione della regina madre Bianca di Castiglia; come pegno della sua
sottomissione consegnò al re Bram, Saverdun e l'intero Lauraguais e, il 30 ottobre 1242, firmò
la pace a Lorris.
La rivolta era finita: finita così bene che il re non ritenne nemmeno opportuno punire con
severità quei vassalli che avevano preso le armi contro di lui, rompendo il giuramento di
fedeltà. Nel gennaio 1243 i conti di Foix e di Tolosa si recarono a Parigi per rinnovare il loro
omaggio alla corona. Secondo Guglielmo di Puylaurens il conte dovette a Bianca di Castiglia le
condizioni relativamente miti del nuovo trattato di pace; la reggente non aveva alcun interesse a
impoverire dei territori che sarebbero passati a suo figlio. Il miglior modo per rendere
inoffensivo il conte di Tolosa era ancora di impedirgli di risposarsi, e negli anni seguenti Bianca
di Castiglia si impegnò in questa direzione, con successo. Nel frattempo, Raimondo Settimo
promise - una volta di più - di estirpare definitivamente l'eresia dalle sue terre. Bianca era molto
attenta alle questioni di fede e il conte, per parte sua, non chiedeva di meglio che perseguitare
gli eretici, purché glielo si lasciasse fare di persona. Non potendo eliminare il re di Francia,
voleva almeno provare a liberarsi dell'Inquisizione.
Appena tornato in Linguadoca il conte, che pure era ancora sotto la scomunica lanciatagli da
frate Ferriero in seguito all'assassinio degli inquisitori e dall'arcivescovo Pietro Amiel dopo la
sua entrata a Narbonne, convocò un concilio, cui parteciparono in particolare i vescovi e gli
abati del paese. Scopo del concilio era l'eliminazione dell'eresia: lo presiedeva l'arcivescovo di
Narbonne in persona (10). Ma per il conte il vero scopo del concilio era l'eliminazione degli
inquisitori a vantaggio della giustizia episcopale.
A questa manovra diretta ben più contro di loro che contro gli eretici, i domenicani risposero
con un'iniziativa che, se fosse andata a buon fine, avrebbe realizzato i desideri del conte di
Tolosa: chiesero al papa di togliere loro le funzioni inquisitoriali, che erano causa di fastidi e
dell'ostilità nei loro confronti. E' vero che molti domenicani che non lavoravano per
l'Inquisizione avevano pagato l'impopolarità dei loro confratelli, perché i loro conventi
venivano attaccati e saccheggiati in molte città. Ma, d'altra parte, il destino di Guglielmo
Arnaldo non era sufficiente a scoraggiare i capi del movimento, uomini poco sensibili alla
paura, come a molti altri sentimenti umani; doveva semmai stimolare la loro energia. Per quale
ragione questi tremendi combattenti pensarono di abbandonare la partita, quando l'avversario
era quasi sconfitto e il re di Francia celebrava il suo trionfo? Essi tenevano soprattutto a far
capire al papa fino a che punto la loro azione fosse temuta, quindi efficace. Trascurando la loro
richiesta, Innocenzo Quarto confermò loro tutti i poteri, senza sottometterli minimamente alla
giurisdizione episcopale; per parte loro, i Frati Predicatori, nell'intento di disarmare quei
vescovi che avrebbero potuto essere loro ostili, attribuirono loro un posto importante nella
procedura dei loro tribunali; era però una concessione puramente onorifica, perché l'autorità
suprema in materia di eresia restava sempre all'Inquisizione domenicana, "de auctoritate
apostolica".
Il tentativo del conte non ebbe dunque successo. D'altronde la sua scomunica non era stata
ancora tolta, e si pretendevano da lui atti, non parole. Al concilio di Béziers, nel 1243, i prelati
della Linguadoca decisero di farla finita con Montségur (che il conte aveva già tentato di
prendere, senza molta convinzione), il rifugio degli assassini di Guglielmo Arnaldo. La rivolta e
la sconfitta del conte costringevano la Chiesa e il re di Francia a una maggiore severità;
Raimondo Settimo, sconfitto, cercava solo di limitare i danni, sacrificando quei suoi sudditi che
non poteva più difendere senza rompere con quanti l'avevano vinto e con i suoi eventuali
alleati.
Ugo di Arcis, nuovo siniscalco di Carcassonne, e Pietro Amiel, arcivescovo di Narbonne,
decisero quindi di radunare un'armata sufficiente ad assediare quella famosa fortezza che le
voci popolari designavano come il quartier generale dell'eresia. Nell'aprile del 1243, dopo che
l'ultimo tentativo di rivolta armata in Linguadoca era stato battuto, in un'atmosfera di generale
sfiducia nella quale ciascuno pensava esclusivamente a salvare se stesso, Montségur, isolata e
nell'impossibilità di trattare, si trovava destinata - a dispetto della volontà dei suoi difensori - a
svolgere il ruolo di capro espiatorio della resistenza occitana.
Il giorno in cui Raimondo di Perella aveva accettato di fare del suo castello la sede ufficiale
della sua Chiesa aveva previsto il pericolo cui si esponeva; scomunicato e condannato a morte
in contumacia, sapeva che non poteva attendersi altro aiuto che quello dato dalla solidità delle
sue mura. Ma non aveva previsto che un giorno il papa e il re di Francia avrebbero fatto della
sua modesta cittadella il simbolo dell'eresia pronta a divorare la Chiesa.
NOTE.
(1) Doat, t. 23, 2-39.
(2) Non pare, malgrado l'affermazione dell'anonimo traduttore della "Chanson", che il
castello fosse stato preso dai crociati. Nel 1212 Guido di Montfort aveva preso Lavelanet e
aveva saccheggiato i dintorni, forse bruciando il villaggio di Montségur.
(3) "Chanson de la Croisade", cap. 145, 3265.
(4) Era nato nel 1207.
(5) Op. cit., edizione del 1879, t. 6, p. 768.
(6) Racconto fatto da Fays di Plaigne a frate Ferriero il 18 marzo 1244. Doat, t. 22, p.p.
293v-294v.
(7) Doat, t. 22, p.p. 293v-295v.
(8) Ivi, p. 287.
(9) 8 agosto 1242.
(10) Béziers, 15 aprile 1243.
Capitolo dodicesimo
L'ASSEDIO DI MONTSEGUR.
Nel maggio 1243 Ugo di Arcis, con un'armata di cavalieri e di sergenti francesi, piantò le
sue tende ai piedi della rocca di Montségur: avrebbe ricevuto rinforzi, perché circondare un
monte di quelle dimensioni richiedeva un numero considerevole di effettivi. Questa piazzaforte
tanto alta sembrava conquistabile solo riducendola alla fame e alla sete. Bisognava
semplicemente impedire ogni comunicazione con l'esterno, e aspettare che il sole estivo
vuotasse le cisterne. Nel castello e nei baraccamenti accatastatisi sotto le sue mura risiedevano
parecchie centinaia di persone: la guarnigione (fra i centoventi e i centocinquanta uomini), le
famiglie dei signori e dei soldati, e gli eretici propriamente detti, che dovevano essere circa
duecento, fra uomini e donne.
1. L'ASSEDIO.
L'assedio era destinato a durare molto più a lungo di tutti quelli guidati da Simone di
Montfort, se si eccettua quello di Tolosa, la cui situazione è difficilmente paragonabile a quella
di Montségur. Carcassonne aveva retto quindici giorni, Minerve e Termes quattro mesi, Lavaur
due mesi, Penne d'Agenais poco meno, Montgaillard sei settimane, e così via. Tutte queste
località erano ben più forti di Montségur, dal punto di vista militare. Castelli come Termes e
Minerve possedevano anche delle difese naturali che li rendevano imprendibili; erano stati
piegati per sete. Montségur, considerate le sue dimensioni esigue, era sovrappopolata come
nessun altro castello (con l'eccezione di Carcassonne) era mai stato durante un assedio.
A rigor di logica avrebbe dovuto capitolare alla fine dell'estate, ma resse abbastanza da
aspettare il ritorno delle piogge; gli assedianti non potevano più contare sulla mancanza
d'acqua.
Neppure potevano contare sulla fame: i doni abbondanti di credenti ricchi e poveri avevano
fatto di Montségur un immenso deposito di viveri. L'eventualità di un assedio era sempre stata
tenuta in considerazione, e se nel 1235 i credenti organizzarono collette perché i 'buonuomini'
di Montségur non avevano nulla da mangiare, nel 1243 non esistevano problemi di
vettovagliamento: le offerte affluivano, il piccolo villaggio ai piedi della rocca era divenuto un
mercato cui affluivano tutti i commercianti dei dintorni; convogli di grano venivano inviati
verso Montségur dalle regioni di Tolosa e di Carcassonne. L'assassinio degli inquisitori aveva
ulteriormente accresciuto il prestigio della cittadella catara, divenuta il rifugio degli eroi della
libertà. Durante l'assedio il castello continuava a ricevere rifornimenti da sostenitori che
giungevano dal di fuori e riuscivano a forzare il blocco dell'armata assediante, portando fin
sulla cima della rocca considerevoli quantità di grano.
La guarnigione riceveva il soccorso di forze fresche; uomini devoti alla causa catara
traversavano di notte le linee nemiche per arrampicarsi fino al castello e unirsi ai difensori. Per
tutta la durata dell'assedio, le comunicazioni con l'esterno continuarono: era difficile circondare
completamente la montagna di Montségur, una lunga, larga, scoscesa, enorme cascata di
blocchi calcarei, culminante con un dirupo spoglio che scendeva quasi a picco nella valle.
L'esercito assediante, i cui effettivi salirono forse fino a diecimila, non era in grado di
controllare notte e giorno tutti i sentieri e i passi di montagna attraverso i quali gli assediati
entravano, uscivano, portavano amici, provviste, notizie dall'esterno. In effetti, la difficoltà
dell'assedio stava tanto nell'instancabile ed entusiastica complicità con gli assediati da parte
della popolazione della zona, quanto nelle meravigliose difese naturali della fortezza.
Presentandosi ai piedi di quella formidabile rocca dalla cui cima il castello sembrava sfidare
gli avversari, in un primo tempo l'esercito di Ugo di Arcis installò il campo al colle di
Tremblement, impedendo così agli assediati l'accesso più comodo verso la valle, e occupò il
villaggio; non poteva fare molto di più, non restava che aspettare i rinforzi. L'arcivescovo di
Narbonne inviò infatti milizie reclutate fra i borghesi e le classi popolari.
Non abbiamo nessuna informazione precisa sul numero dei cavalieri francesi portati dal
siniscalco: probabilmente si trattava di svariate centinaia, perché Ugo di Arcis si era preparato a
un assedio impegnativo e doveva avere mobilitato buona parte degli effettivi militari di cui
disponeva. Per di più le recenti sconfitte del Trencavel e di Raimondo Settimo lasciavano mano
libera ai Francesi; la loro cavalleria, che non aveva partecipato alle campagne di Simone di
Montfort, non aveva certo l'esperienza necessaria a combattere in una regione montuosa, ma era
solida e disciplinata, capace di logorare l'avversario nel caso in cui la scalata del "pog" si
dimostrasse impossibile. Ma evidentemente i Francesi, pur considerando i loro scudieri e
sergenti, non erano abbastanza numerosi. Le milizie reclutate sul posto, più consistenti, erano
composte per lo più da fanti che, per imposizione dell'arcivescovo, città e borghi
equipaggiavano e inviavano a loro spese; molti non erano nemmeno soldati di professione. La
maggior parte di costoro non doveva avere una gran voglia di combattere contro dei compatrioti
e prestava servizio a malincuore. Formavano i distaccamenti che circondavano la montagna e
controllavano le strade, i passi, le gole; per l'intera durata dell'assedio, malgrado gli sforzi
dell'arcivescovo, ci furono diserzioni e, beninteso, una passiva complicità con gli assediati.
Questi ultimi spesso attraversavano le linee, talvolta in gruppi numerosi; il blocco della
montagna sul quale Ugo di Arcis contava per piegare l'avversario si dimostrò praticamente
irrealizzabile. Quel nido d'aquile poteva essere preso solo con un assalto: un'impresa che, a
prima vista, sembrava disperata.
Non si poteva pensare di tentare la scalata alla rocca, e nemmeno di risalire il pendio
scoperto e abbastanza ripido che saliva al castello dal colle di Tremblement: il drappello che si
fosse arrischiato su questo pendio sarebbe stato travolto dalle pietre lanciate dai difensori ben
prima di averne percorsa la metà. I Francesi erano quindi obbligati a tenersi a una buona
distanza dal castello, e non potevano utilizzare né le armi né le macchine da guerra.
La cresta orientale, la sola che in qualche modo potesse essere scalata senza pericolo, era
raggiungibile solo attraverso sentieri di montagna abbastanza ripidi, piste nella foresta note alla
gente del luogo ma di difficile accesso; e d'altra parte la cresta stessa, percorsa da sentinelle e
per di più separata dal castello da un dislivello di una decina di metri, non consentiva l'accesso
diretto alla cittadella. Questa cresta stretta, lunga un centinaio di metri circa, costituiva l'unico
punto di accesso ed era protetta da fortificazioni di legno dalle quali i difensori potevano
facilmente respingere nel baratro gli assalitori.
Per cinque mesi assediati e assedianti tennero le rispettive posizioni, gli uni abbarbicati in
cima alla montagna, gli altri sparpagliati nelle valli e sui pendii circostanti; pare che ci siano
stati alcuni tentativi di attacco respinti, perché risulta che tre uomini della guarnigione di
Montségur furono feriti a morte prima dell'ottobre 1243. Fu quasi l'unico risultato di cinque
mesi di un assedio costoso ed estenuante.
Chi erano i difensori e gli abitanti del castello assediato? I registri degli inquisitori ci
rivelano i nomi di trecento persone che vi si trovavano; dovranno aggiungersene almeno
centocinquanta i cui nomi sono rimasti ignoti perché non si ritenne utile interrogarli, vedremo
in seguito per quale ragione.
Il signore del castello, Raimondo di Perella, si era per così dire messo al servizio dei
'buonuomini', finendo per essere l'intendente e il primo difensore più che il proprietario del
posto. Viveva lì con la sua famiglia: la moglie Corba di Lantar, le tre figlie e il figlio maschio.
Quest'ultimo, di nome Giordano, doveva essere molto giovane, perché non pare abbia svolto un
ruolo attivo nella difesa. Due delle figlie erano sposate: Filippa a Pietro Ruggero di Mirepoix,
Arpalice a Guiraud di Ravat. La terza figlia, Esclarmonde, era inferma e si era votata a Dio,
come sua madre Corba, che non era ancora 'perfetta', ma avrebbe dato più tardi una prova
straordinaria dell'ardore della sua fede: Corba era figlia di Marquesia di Lantar, anch'ella
residente a Montségur, eretica 'rivestita'. Pietro Ruggero di Mirepoix, marito della figlia
maggiore del castellano, era, come sappiamo, il capo della guarnigione e uno dei migliori
cavalieri del paese; "faidit" - perché gli eredi di Guido di Lévis occupavano allora Mirepoix -
egli proveniva da una famiglia di eretici: Forneria, madre di suo padre Arnaldo Ruggero di
Mirepoix, era una delle 'perfette' che avevano soggiornato a Montségur nel 1204. La figlia di
Forneria, Adalays, aveva vissuto anche lei nel convento delle 'perfette' di Montségur; i figli di
quest'ultima, Ottone e Alzeu di Massabrac, erano fra i cavalieri della guarnigione, mentre una
delle sue figlie aveva sposato il già citato Guglielmo di Plaigne. Berengario di Lavelanet, uno
dei 'cosignori' di Montségur, era suocero di Imberto di Salas, sergente della guarnigione, mentre
una delle sue sorelle risiedeva a Montségur come 'perfetta'. I cavalieri e gli scudieri
provenivano tutti dalla piccola nobiltà dei dintorni e formavano per così dire una grande
famiglia. Ognuno aveva almeno una 'perfetta' fra i parenti più prossimi.
Ci si può chiedere in proposito quale sia stato il ruolo esatto delle donne nella religione
catara. E' certo che molte donne nobili, vedove o ancora sposate, ma avanti con gli anni, si
ritirarono dal mondo per condurre una vita di preghiera, in compagnia di altre 'perfette'; queste
austere matrone educavano i figli a una totale dedizione alla loro religione, e la maggior parte
dei capi della Chiesa catara doveva essere stata votata al sacerdozio, fin dalla più tenera età, da
madri dalla fede ardente (il che indubbiamente spiega alcuni casi clamorosi di apostasia
riscontrati fra i 'perfetti'). Ma nessuna di queste donne sembra aver neppur lontanamente avuto
un ruolo paragonabile a quello dei vescovi e dei diaconi catari. Se alcune di loro hanno svolto
un'attivissima vita clandestina, ciononostante avevano funzioni subalterne nella gerarchia
catara; la maggior parte viveva ritirata negli eremi e nelle grotte, digiunando, pregando e
convincendo altre donne a seguire il loro esempio. Risulta comunque evidente che il catarismo,
accusato talvolta di voler distruggere gli affetti naturali, è stata una religione fortemente
patriarcale, la cui forza stava proprio nei legami familiari che, dalle nonne ai nipoti, dai suoceri
ai generi e dagli zii ai cugini, avevano finito per assicurare alla Chiesa catara una società
fortemente unita, solidale nella fede come nella difesa dei propri interessi. Questo spiega anche
perché il ruolo delle donne avesse tanto rilievo: custodi della famiglia, le donne erano altresì le
custodi delle tradizioni religiose. I cavalieri e le dame che salivano a Montségur per celebrarvi
le festività del Natale o della Pentecoste andavano anche a rendere visita a qualche venerabile
madre, zia o nonna, e a ricevere la sua benedizione.
Oltre agli scudieri, che erano tutti parenti o amici d'infanzia più o meno stretti dei cavalieri,
la guarnigione contava anche un centinaio di soldati o sergenti; per lo più provenivano dai
dintorni, erano combattenti temibili e totalmente dediti ai loro capi. Alcuni erano lì con le
mogli. La moglie e le figlie di Raimondo di Perella avevano con sé le loro domestiche e dame
di compagnia; i due signori di Montségur - perché il potere, nel castello, era di fatto diviso fra il
castellano e suo genero Pietro Ruggero di Mirepoix, che non sempre andavano d'accordo fra
loro - avevano i loro balivi, incaricati di sorvegliare i loro domini. Infine, oltre alle persone del
casato dei cavalieri, Montségur ospitava allora persone rifugiatesi lì per timore
dell'Inquisizione, come Raimondo Marty, fratello del vescovo Bertrando, o G. R. Golayran, che
aveva avuto un ruolo attivo nel massacro di Avignonet.
Durante l'assedio il numero delle persone rinchiuse nel castello salì, come si è detto, a circa
trecento, senza contare i 'perfetti'. Questi erano abbastanza numerosi - fra centocinquanta e
duecento - il che non sorprende considerato che Montségur era il rifugio ufficiale e il luogo
sacro della loro Chiesa. I capi della Chiesa catara della Linguadoca, che vi si erano stabiliti
dopo il 1232, non avevano ritenuto utile cambiare residenza all'arrivo dell'armata francese ai
piedi della rocca: altrove il rischio di essere presi era ancora maggiore; e sembra che Montségur
avesse già assunto un'importanza tale agli occhi degli eretici del paese che una fuga dei
'buonuomini' verso qualche altro luogo sarebbe stata percepita come una diserzione. Questi
uomini, che negavano la realtà di ogni apparenza e di ogni manifestazione materiale del sacro,
pensavano che la loro sorte fosse misteriosamente legata a quella di questo vascello di pietra, di
questa maestosa cattedrale senza croce, eretta sopra un dirupo in mezzo al cielo: la forza
d'animo dei loro sostenitori, forse, proveniva dal fatto che essi difendevano assai più che delle
vite umane - il loro tempio, l'immagine terrena della loro fede.
Il castello era davvero un tempio? La sua struttura, come abbiamo visto, sembrerebbe
suggerirlo; ma solo suggerirlo, perché nessuno ha mai parlato di questa fortezza come di una
chiesa. I catari che, qualunque cosa si sia detta in proposito, non facevano affatto mistero delle
loro credenze, non hanno mai preteso che Montségur conservasse un qualche segreto tale da
rendere questo luogo un'eccezione alla loro dottrina sulla materia: non era né il Golgota, né il
Santo Sepolcro né il castello del Graal.
In questo castello fortificato, che aveva non uno solo ma due grandi portali e il cui maschio
non aveva feritoie ma si apriva al primo piano con delle finestre, il culto cataro veniva
evidentemente celebrato con una solennità maggiore che altrove. Ma quanto sappiamo dei riti
catari mostra che erano di un'estrema semplicità. Del resto, la sala del pian terreno del maschio
- il solo luogo ove potevano svolgersi le cerimonie e le prediche - era abbastanza piccola: circa
cinquanta metri quadrati, ossia una superficie che ai nostri giorni sarebbe considerata appena
sufficiente a una giovane coppia. Dimensioni simili non si prestavano affatto a grandi solennità,
né a riunioni di folle di ascoltatori. Le prediche forse si svolgevano anche nel recinto a forma di
pentagono che si diparte dal maschio (seicento metri quadrati); ma questo spazio doveva essere
occupato in gran parte dai depositi dei viveri, dalle scuderie, dalle riserve di armi e di proiettili
e anche dalle abitazioni dei difensori. Insomma, si trattava di un tempio molto piccolo e molto
scomodo. Sembra che i catari, coerenti con se stessi, si fossero scelti come capitale un luogo
che aveva dalla sua solo la bellezza e l'inaccessibilità.
Questo luogo, votato dalla Chiesa alle fiamme dell'inferno, conosceva un'intensa vita
religiosa, estranea, almeno in grande misura, alle vicissitudini terrene; i 'buonuomini' che
abitavano nelle capanne sotto le mura probabilmente erano più occupati a celebrare i loro culti e
a commentare i Vangeli che a seguire i progressi dell'assedio. La situazione, però, era grave: fin
dal mese di maggio, il diacono Clamens, con tre altri 'perfetti', era sceso da Montségur
dirigendosi a Causson, certo per stabilire i contatti con amici fidati cui affidare, in caso di
necessità, la custodia del tesoro. Clamens e quanti lo accompagnavano rientrarono a Montségur
senza difficoltà. Due altri 'perfetti', R. di Caussa e il suo compagno, scesero anch'essi, all'incirca
nello stesso periodo, per andare al castello di Usson; celebrarono l'"apparelhamentum" e
benedissero il pane; la scorta armata che li accompagnava tornò da sola a Montségur.
In teoria i difensori del castello avrebbero dovuto pensare innanzitutto a mettere al riparo i
capi della Chiesa catara che, in caso di conquista della fortezza, erano votati a morte certa. La
cosa era fattibile, perché per mesi e mesi fu possibile fare uscire e rientrare dei 'perfetti', uomini
pronti a ogni fatica, che non temevano certo di avventurarsi sui sentieri di montagna. Tuttavia,
la maggior parte di loro rimase a Montségur fino alla fine.
Fra le grandi personalità della Chiesa catara della Linguadoca che si trovavano a Montségur
al momento dell'assedio si conoscono il vescovo Bertrando Marty e Raimondo Aiguilher, che
quasi quarant'anni prima aveva sostenuto delle controversie con san Domenico e che nel 1225
era stato eletto figlio maggiore del vescovo di Razès; entrambi dovevano essere molto vecchi.
Si conoscono inoltre i diaconi Raimondo di Saint-Martin (o "sancto Martino"), Guglielmo
"Johannis", Clamens, Pietro Bonnet - fra loro, solo il primo era noto per la sua attività di
predicazione. D'altronde le confessioni dei testimoni interrogati dagli inquisitori mostrano che,
dopo il 1243, nelle differenti regioni della Linguadoca officiavano almeno otto diaconi catari i
quali, a quanto pare, non avevano rapporti diretti con Montségur. Le tracce di un'altra trentina
di diaconi catari, i cui nomi sono segnalati da Jean Guiraud nella sua opera sull'Inquisizione, si
perdono prima del 1240-42; i più celebri - Isarn di Castres, Vigoros di Baconia, Giovanni
Cambiaire - erano stati bruciati rispettivamente nel 1226, nel 1233 e nel 1234; Guglielmo
Ricard fu preso e bruciato nel 1243 nel Lauraguais. I diaconi Raimondo di Saint-Martin,
Raimondo Mercier (o di Mirepoix), Guglielmo Tournier erano della circoscrizione di
Montségur e vi esercitavano la loro attività da molti anni; ma non è certo che gli ultimi due vi
risiedessero ancora durante l'assedio. Raimondo Mercier, che godeva di un'immensa popolarità
nel paese già nel 1210, era morto qualche anno prima del 1243. Guglielmo Tournier nel 1240
era ancora vivo, come pure il vescovo Guilberto di Castres, le cui tracce si perdono quello
stesso anno: probabilmente morì a Montségur, ma nessun documento parla della sua fine; aveva
allora un'ottantina d'anni e continuava la sua vita di cavalcate notturne e di riunioni segrete, di
castello in villaggio, di foresta in foresta; la morte lo dovette sorprendere in piena attività.
Così, oltre a Raimondo di Saint-Martin, al vescovo Bertrando e a Raimondo Aiguilher,
nessuna delle grandi personalità della Chiesa catara si trovava a Montségur durante l'assedio. I
più erano morti, o continuavano il loro apostolato in una clandestinità che diventava ogni
giorno più pericolosa. Montségur non era né l'ultimo baluardo né l'ultima speranza di questa
Chiesa; per la massa dei credenti ne era però il simbolo vivente.
E' possibile che i numerosi 'perfetti' e 'perfette' ritiratisi a Montségur fossero per la maggior
parte persone già avanti con gli anni, oppure mistici dediti alla contemplazione e allo studio
delle Scritture, o ancora neofiti in periodo di prova. Montségur era uno degli ultimi conventi e
seminari catari.
In pieno assedio, durante l'estate del 1243, questi cenobiti ed eremiti vivevano nello stretto
spazio lasciato loro sopra la parete rocciosa della montagna, fra le alte mura del castello e le
fortificazioni provvisorie erette lungo la piccola terrazza scoscesa che circondava la fortezza. Il
lungo edificio di pietra era circondato da una cinta, larga a tratti una decina di metri, di piccole
capanne di legno, esposte alle intemperie, protette solo dall'altezza e dalla pendenza della rocca:
un simile villaggio sarebbe stato distrutto in poche ore a colpi di proiettile, se fosse stato alla
portata di una petriera.
L'espressione "infra castrum" (1) che si incontra nelle deposizioni di Berengario di Lavelanet
e di Raimondo di Perella ha fatto supporre l'esistenza di abitazioni sotterranee cui si potesse
accedere dall'interno del castello: in effetti ci si è chiesti perché Guilberto di Castres volesse
ottenere da Raimondo di Perella il permesso di vivere "sotto" e non dentro il castello, e come il
cavaliere R. di Congost, durante l'assedio, abbia potuto vivere tre mesi sotto il castello. Se le
rovine, allo stato attuale, non permettono di trovare alcuna traccia di un'apertura che conduca a
qualche passaggio sotterraneo, il numero considerevole di caverne e di scavi riscontrabili nel
resto della rocca consente di prendere in considerazione l'ipotesi di una grotta sotterranea
abbastanza grande, situata sotto le fondamenta del castello, la cui apertura sarebbe stata murata
dai difensori alla fine dell'assedio. Tuttavia sarebbe azzardato supporre (come ha fatto N.
Peyrat) l'esistenza di un vero castello segreto, con corridoi, scale, sale d'armi, dormitori, celle e
loculi funebri: se tutto ciò fosse realmente esistito, sarebbe stato a conoscenza di molte persone;
ma nessuna testimonianza dell'epoca vi fa allusione.
L'espressione «abitare sotto il castello» si spiega probabilmente con la presenza di rifugi e
baracche in legno edificate ai piedi delle mura: considerate le loro dimensioni e il fatto che
erano abbarbicate a una scarpata piuttosto ripida, più bassa delle mura di quindici o venti metri,
si poteva effettivamente dire che si trovavano "sotto", e non accanto al castello. Gli eremiti
catari non vivevano nell'inaccessibile labirinto di un tempio sotterraneo, ma all'aria aperta, in
accampamenti di fortuna così stretti e scomodi che risulterebbero spaventosi anche per gli
abitanti delle peggiori 'baraccopoli' contemporanee. Prima dell'assedio alcuni di loro
probabilmente vivevano sulla montagna, nei boschi, lungo la cresta orientale, e dovettero
risalire verso il castello all'arrivo dell'esercito nemico. Si è detto che il tale 'perfetto', il tale
eretico avevano la loro 'casa'; in queste case i credenti, gli uomini della guarnigione, le donne
della famiglia del castellano venivano a condividere il pane benedetto e ad 'adorare' i
'buonuomini'; qui si portavano a 'consolare' i moribondi. All'interno del recinto di pietra si
trovavano indubbiamente le case dei vescovi e dei diaconi, non quelle degli altri 'perfetti'; fino
agli ultimi mesi dell'assedio quelle povere dimore furono abitate; l'immenso spazio vuoto che si
stendeva oltre la palizzata di legno le proteggeva meglio di un bastione fortificato.
In genere questi uomini e queste donne vivevano a due a due, anche se si citano casi di
'perfetti' che, data la mancanza di spazio, avevano più compagni. Si può presumere che il
villaggio - se vogliamo chiamarlo così - degli uomini fosse separato da quello delle donne. La
maggior parte dei 'perfetti' avevano parenti e amici intimi fra le persone della guarnigione:
specie durante l'assedio la vita di Montségur dovette essere quella di una comunità unita nel
bene e nel male.
Si stenta a immaginare quale potesse essere la vita di un gruppo di centinaia di persone più
di metà delle quali erano candidate al rogo; persino nella Chiesa primitiva i martiri costituivano
gloriose eccezioni, erano eroi venerati. Per i 'perfetti', in certe circostanze, il martirio era invece
un dovere assoluto, preventivamente assunto. Anche se nutrivano dubbi sull'esito dell'assedio -
verosimilmente sperarono sino alla fine - guardando dall'alto del monte il brulicare dei soldati
sparsi sul colle e nella valle dovettero prepararsi per mesi alla morte. Nulla ci dice che fossero
puri spiriti, insensibili alla paura o al dolore; quel che è certo è che per lo più rimasero là,
preferendo un pericolo affrontato insieme nella preghiera e la libera professione della loro fede
ai rischi di una vita solitaria, da uomini braccati e umiliati, che comunque li avrebbe condotti al
rogo.
I difensori di Montségur sperarono a lungo di vincere la tenacia dei loro nemici. L'inverno si
avvicinava: in montagna, ottobre è già brutta stagione. Ma proprio in ottobre gli assedianti
riuscirono a ottenere un successo che parve compromettere seriamente la situazione degli
assediati. Ugo di Arcis impiegò un distaccamento di mercenari baschi, coraggiosi uomini di
montagna che non temevano il terreno di Montségur. I Baschi si arrampicarono fino in cima
alla montagna e si attestarono sulla stretta piattaforma della cresta orientale, ottanta metri sotto
al castello.
Ci furono certamente dei combattimenti, perché il sergente Guiraud Claret fu colpito a morte
alla fine di ottobre, e il cavaliere Alzeu di Massabrac venne ferito. I Baschi, pare abbastanza
numerosi, tennero la posizione, e gli assediati si trovarono così con i nemici vicini, quasi
all'altezza del castello, in grado di controllare buona parte del monte e il solo cammino agevole
per comunicare con l'esterno. (C'erano però altri percorsi che gli assediati e i loro amici
seguirono più volte, poiché la parete della rocca, scoscesa, rocciosa e coperta da un fitto bosco
era praticamente impossibile da sorvegliare.) In novembre l'esercito assediante, il cui morale
era un po' migliorato grazie al successo dei Baschi, vide giungere nuovi rinforzi portati da
Durando, vescovo di Albi. Costui era un prelato energico che, con i suoi discorsi e il suo
esempio, riaccese il coraggio dei soldati; inoltre, e soprattutto, egli era un abile ingegnere,
esperto nella costruzione delle macchine da guerra. Dietro suo incitamento i soldati issarono
fino alla piattaforma già occupata assi e travi di legno, e i tagliapietre si misero al lavoro per
preparare una notevole provvista di proiettili. Una volta costruita la macchina da guerra, i
Francesi poterono bombardare il barbacane di legno che, sporgendo sulla cresta, proteggeva
l'accesso al castello.
La situazione degli assediati non era ancora disperata: se ormai il nemico era in grado di
portare fin sulla cresta uomini e materiali, installandovisi stabilmente, lo spazio che occupava
era esiguo e pericoloso, e non permetteva alcuna manovra di grande respiro; gli assediati
controllavano sempre la cima del monte e potevano comunicare con l'esterno: informati che il
vescovo di Albi aveva costruito una macchina per bombardare Montségur, alcuni sostenitori dei
catari - chi erano? la questione è controversa - inviarono subito nella cittadella assediata un
ingegnere, Bertrando di La Baccalaria, di Capdenac, che dopo aver forzato il blocco salì al
castello dove fece innalzare, nel barbacane orientale, una macchina capace di rispondere colpo
su colpo al tiro della petriera del vescovo. Entrambi attestati su strette piattaforme sospese fra
due baratri, difensori e attaccanti, da questo punto di vista, si trovavano in una situazione di
sostanziale parità. Gli assediati avevano il vantaggio di potersi rifugiare nel castello, mentre i
Francesi accampati sulla cresta intorno alla loro macchina da guerra erano esposti al freddo, alla
neve e al vento; al vescovo Durando fu necessario un bel coraggio per dirigere le operazioni di
tiro e costringere gli uomini a tenere duro fra le tempeste e le nebbie ghiacciate. La fine di
dicembre si avvicinava, e i nemici conservavano le posizioni di ottobre, mentre le due macchine
da guerra si scambiavano colpi con maggiore o minore intensità.
I crociati, rispetto agli assediati, avevano il notevole vantaggio di poter rinnovare di continuo
le loro truppe. La guarnigione di Montségur, invece, aveva perduto già parecchi uomini; i
rinforzi che riceveva erano modesti - due o tre soldati di tanto in tanto; i guerrieri erano
spossati, sfiniti da un assedio che durava ormai da mesi; per vantaggiosa che fosse la loro
posizione, erano un centinaio contro seimila, o forse diecimila; non potevano essere sostituiti né
rimpiazzati da nessuno, erano bloccati in uno spazio risibilmente esiguo, insieme a un gran
numero di donne, di vecchi e di altre persone che non combattevano; in condizioni simili la vita
in comune, anche se con gli uomini più santi del mondo, può divenire intollerabile.
Il coraggio dei difensori di Montségur è indiscutibile, avrebbero potuto reggere ancora a
lungo. Ma dobbiamo credere che cominciassero a essere vinti dalla stanchezza; durante quei
mesi invernali Pietro Ruggero di Mirepoix inviò ripetute volte messaggeri per informarsi «se gli
affari del conte di Tolosa procedevano bene (2)». Le risposte, trasmesse ovviamente non dal
conte in persona, ma da persone in contatto con lui, furono sempre affermative. La guarnigione
reggeva. Questi «affari» riguardavano qualche futuro tentativo di rivolta che avrebbe permesso
a Raimondo Settimo di inviare un esercito a liberare Montségur? Si trattava di un negoziato
relativo proprio agli uomini di Montségur? Certo è che il conte chiedeva agli assediati di
resistere ancora, benché la sua posizione ufficiale di persecutore degli eretici gli impedisse ogni
rapporto diretto con loro.
I 'perfetti', che non potevano fare molto per aiutare i soldati che resistevano e dai quali
dipendeva la loro sorte, sembra si siano adoperati per addolcire un po' le difficoltà della loro
vita; sappiamo, per lo meno, che alcuni cavalieri e perfino dei sergenti venivano invitati nelle
case dei 'buonuomini', mangiavano con loro, ricevevano dei doni (ad esempio la 'perfetta'
Raimonda di Cuq invitò Pietro Ruggero di Mirepoix, il diacono Raimondo di Saint-Martin
ricevette Guglielmo Adhémar, Raimondo di Belvis, Imberto di Salas e l'ingegnere Bertrando di
La Beccalaria; più tardi il vescovo Bertrando Marty avrebbe distribuito fra i sergenti sale e pepe
[3]). Bisogna supporre che anche quei soldati che non erano legati ai 'perfetti' da vincoli di
parentela e di amicizia abbiano finito per sentirsi vicini a loro nella prova comune,
considerandoli in un certo senso membri della loro famiglia anziché esseri superiori, degni solo
di 'adorazione': non si possono 'adorare' uomini che si incontrano venti volte al giorno. Alcuni
uomini della guarnigione diedero in seguito una prova decisiva del loro attaccamento alla fede
dei 'buonuomini'.
Qualcuno, estenuato dai rigori dell'assedio, verosimilmente sperò di vederlo finire a qualsiasi
prezzo. Sappiamo che Imberto di Salas ebbe un incontro con Ugo di Arcis: perché e in quali
circostanze? In ogni caso, Pietro Ruggero di Mirepoix glielo rimproverò e lo punì togliendogli
l'armatura di Giordano di Mas, ucciso durante un combattimento vicino al barbacane (4). Il
capo della guarnigione aveva ordinato ai suoi uomini di non ricevere i crociati altro che a colpi
di balestra - il che prova che gli assediati talvolta tentavano di stabilire contatti con gli
assedianti, e non sempre venivano accolti in malo modo.
Il morale della guarnigione era seriamente provato; tuttavia non si parlava di capitolazione,
e un assalto sembrava quasi impossibile. Verso Natale, o poco dopo, gli assedianti ottennero
però un risultato decisivo: riuscirono a impadronirsi del barbacane, trovandosi così a una decina
di metri dal castello. In realtà il castello in quanto tale restava loro inaccessibile quasi come
prima: per accedervi avrebbero dovuto attraversare una cresta larga un metro e mezzo fra due
precipizi. Ma almeno avevano scacciato i difensori dal barbacane, installandovi la loro petriera;
i lati occidentale e orientale della fortezza erano alla portata del tiro della macchina, e le
abitazioni sottostanti dovettero essere evacuate. Indubbiamente quanti le occupavano si
rifugiarono entro le mura, dove non c'era praticamente posto per sistemarli. Gli assedianti
controllavano ormai tutta la montagna, avevano quasi conquistato la piazzaforte; la macchina
da guerra del vescovo di Albi bersagliava senza tregua il muro orientale.
I crociati dunque raggiunsero la torre (o barbacane) orientale, separata dal loro avamposto da
un percorso difficile e ben difeso: come ci riuscirono? Secondo Guglielmo di Puylaurens
utilizzarono un passaggio praticato nella rocca; i soldati vennero guidati da «un gruppo di
esperti uomini di montagna del paese, che portavano solo armi leggere e conoscevano bene il
posto (5)». Si trattava quindi di un passaggio segreto, perché i Baschi, anch'essi abili uomini di
montagna, non l'avevano trovato; non era un sentiero ma una serie di anfratti della roccia
collegati fra loro con dei gradini scavati nella roccia. Un percorso simile doveva essere noto
solo a poche persone, residenti nel villaggio di Montségur oppure appartenenti alle scorte delle
guide che accompagnavano i 'perfetti' durante i loro spostamenti; e non doveva essere utilizzato
spesso, considerato che - a detta di Guglielmo di Puylaurens - si arrampicava sopra «orribili
precipizi»; i soldati che di notte lo attraversavano avrebbero poi confessato che, di giorno, non
ci si sarebbero mai avventurati. Dopo aver scalato una muraglia di roccia quasi verticale, essi
giunsero al barbacane, difeso dagli assediati, che li lasciarono avvicinare senza diffidenza, forse
ingannati dalla voce delle guide e convinti di avere a che fare con degli amici.
La torre orientale, quindi, fu conquistata con un'azione a sorpresa: le sentinelle avevano
avuto il tempo di dare l'allarme, ma gli uomini che avevano varcato il passaggio segreto
dovevano essere abbastanza numerosi e valorosissimi. Ignoriamo quanti soldati difendessero il
barbacane, ma probabilmente vennero tutti massacrati prima che i loro compagni all'interno del
castello avessero il tempo di andar loro in aiuto. Grazie a quest'impresa i crociati divennero
padroni dell'intera rocca e poterono far salire le loro truppe lungo la cresta senza timore di
essere respinti: lo stretto passaggio che separava il castello dal barbacane proteggeva gli
assediati, ma al contempo impediva loro qualsiasi manovra offensiva. Pare che in questa
circostanza i difensori di Montségur siano stati vittime di un tradimento; o almeno di un mezzo
tradimento, in quanto le guide, senza dubbio comprate dai crociati a peso d'oro, godevano certo
della fiducia degli assediati; altrimenti non si capisce come mai l'esistenza del passaggio segreto
non sia stata rivelata agli assedianti qualche mese prima.
Solo dal giorno in cui la torre fu conquistata dall'esercito crociato gli assediati iniziarono a
rendersi conto che, a meno di un miracolo, la partita era persa. Gli eretici Matteo e Pietro
Bonnet uscirono dalla fortezza portando con sé oro, argento e una grande quantità di denaro -
"pecuniam infinitam" (6): il tesoro da mettere al sicuro. Più tardi, durante l'interrogatorio,
Imberto di Salas rivelò che questi due uomini avevano goduto della complicità dei soldati
dell'armata assediante che montavano la guardia davanti all'ultimo passaggio ancora accessibile
agli assediati: questi soldati erano uomini di Camon-sur-l'Hers, del feudo di Mirepoix.
Ciononostante l'evacuazione del tesoro fu un'operazione rischiosissima, poiché il percorso da
compiere era ancora più difficile e pericoloso di quello seguito dai crociati durante la notte della
scalata alla rocca. Se i difensori di Montségur non pensarono di mettere il tesoro al sicuro fin
quando si trovarono nella condizione di poter usare solo questo percorso, evidentemente
avevano creduto che la loro postazione fosse imprendibile. L'oro e l'argento - indubbiamente
una somma notevole - fu sepolto dai due 'perfetti' nella foresta delle montagne di Sabarthès, in
attesa di trovare un nascondiglio più sicuro.
L'assedio continuava. Un tentativo dei Francesi di sorprendere gli assediati fu respinto con
facilità. Il muro orientale, corto ed eccezionalmente spesso, non poteva essere demolito e
nemmeno seriamente intaccato dalla petriera; Bertrando di La Baccalaria si mise a costruire in
gran fretta un'altra macchina da guerra. Il 'perfetto' Matteo rientrò nella piazzaforte verso la fine
di gennaio, portando con sé due soldati muniti di balestre; si trattava di rinforzi modesti, ma era
meglio di niente. Attraverso il passaggio di Porteil (per i dettagli dell'assedio si veda l'analisi di
F. Niel nell'opera "Montségur, la Montagne inspirée") potevano arrischiarsi solo uomini abili e
coraggiosi; e per andare a rinchiudersi nella fortezza in un momento simile bisognava essere
totalmente votati alla causa dell'eresia. Lo stesso Matteo scese ancora una volta a cercare
rinforzi: riportò un solo uomo e promesse destinate a non avverarsi, indubbiamente a causa
dell'accresciuta vigilanza degli uomini che circondavano la montagna.
Tuttavia gli assediati speravano ancora: secondo la deposizione di Imberto di Salas, i
sergenti venuti con Matteo sarebbero stati inviati da Isarn di Fanjeaux, il quale mandava a dire a
Pietro Ruggero di Mirepoix che Raimondo di Tolosa gli chiedeva di resistere fino a Pasqua. I
due avrebbero sostenuto che il conte, con l'aiuto dell'imperatore, si apprestava a reclutare un
esercito per venire a liberare Montségur. Pietro Ruggero poteva credere a una promessa tanto
vaga e tanto poco realizzabile? Sembra semmai che le affermazioni di Matteo e dei due uomini
giunti con lui fossero destinate a sollevare il morale della guarnigione. Ma il conte aveva le sue
ragioni per chiedere ai difensori di Montségur di resistere il più a lungo possibile. Il secondo
tentativo di Matteo avrebbe potuto chiudersi con un vero successo: egli era riuscito a
convincere due signori della regione, Bernardo d'Alion e Arnaldo di Usson, a mettersi in
contatto con uomini capaci di salvare la situazione. Questi due cavalieri promisero cinquanta
lire di Melgueil a un capo di mercenari aragonesi, detto Corbario, se avesse condotto a
Montségur venticinque sergenti; evidentemente si trattava di un corpo scelto, di uno di quei
gruppi di Aragonesi esperti di ogni arte della guerra, ciascuno dei quali valeva da solo un
cavaliere. Con l'aiuto della guarnigione questi uomini sarebbero stati capaci di cacciare i
Francesi dall'avamposto che occupavano e di incendiare le loro macchine da guerra. Ma
Corbario non riuscì ad attraversare le linee sempre più fitte dell'esercito assediante: ormai
Montségur era tagliata fuori dal mondo esterno e non poteva più contare su nessuno.
Il castello resse ancora per tutto il mese di febbraio. Guglielmo di Puylaurens scrive: «Non si
lasciò tregua agli assediati, né di giorno né di notte (7)». La petriera lanciava proiettili senza
sosta, impedendo di costruire opere difensive sul muro bombardato; all'interno della fortezza la
mancanza di spazio doveva rendere insostenibile la vita di centinaia di persone letteralmente
ammassate le une sulle altre. La cosa curiosa è che fino alla fine la maggior parte dei difensori -
per lo meno fra i capi - abbiano avuto le loro 'case'. Molte di queste case dovevano trovarsi
all'esterno delle mura, sui versanti settentrionale e occidentale, fuori della gittata dei proiettili.
Ma, come lo vediamo oggi, lo spazio che separa il muro del castello dalla parete verticale della
rocca è molto ridotto e in forte pendenza; è vero che ancor oggi si vedono villaggi di montagna
abbarbicati in cima a pareti quasi verticali, ma a Montségur non si trovano tracce di case
scavate nella roccia e di costruzioni in pietra, eccetto i resti di un muro di cinta abbastanza
rudimentale che serviva sicuramente a reggere una palizzata di legno. Su questa scarpata nuda e
ghiacciata, dentro minuscole capanne di legno non riscaldabili, oppure all'interno del castello
dove le poche abitazioni incollate ai depositi e alla cisterna davano rifugio ai vecchi, ai malati e
ai feriti, i difensori di Montségur passarono l'inverno, nel frastuono dei colpi che
incessantemente si abbattevano sulle mura.
D'accordo con il vescovo Bertrando e con Raimondo di Perella, Pietro Ruggero di Mirepoix
decise di effettuare una sortita notturna nel tentativo di riprendere il barbacane, di scacciarne i
crociati e di dare alle fiamme la loro macchina da guerra. Gli uomini della guarnigione,
arrampicandosi lungo le scarpate dominate dalla cresta, riuscirono a raggiungere
l'accampamento nemico. Il tentativo era disperato e furono respinti; nel combattimento sulla
scarpata sovrastante il precipizio un gran numero di assediati morì, precipitando giù dal dirupo;
gli altri furono costretti a battere in ritirata lungo lo stretto passaggio che divideva il barbacane
dal castello, trascinando i feriti e respingendo il nemico che tentava di approfittare della
situazione per forzare le ultime difese del castello.
Mentre i feriti e i moribondi venivano deposti in tutta fretta sui primi letti disponibili nelle
capanne più vicine, il resto della guarnigione correva sulle mura e alle palizzate per respingere i
crociati che già avevano preso piede sulla piattaforma del castello. Le mogli e le figlie dei
cavalieri - Corba, moglie di Raimondo di Perella, Cecilia, moglie di Arnaldo Ruggero di
Mirepoix, Filippa, moglie di Pietro Ruggero, Arpalice di Ravat, Fays di Plaigne, Braida di
Mirepoix, Adalays di Massabrac e altre ancora, si fecero dare in fretta la "convenensa" e
corsero ad aiutare gli uomini a difendere il castello (8).
In mezzo al fracasso, al rumore delle armi, ai gemiti dei feriti, il vescovo e i diaconi avevano
appena il tempo di passare da un moribondo all'altro per amministrargli l'estremo sacramento:
quella notte morirono 'consolati' Bernardo Roainh, il catalano Pietro Ferrier, il sergente
Bernardo di Carcassonne e Arnaldo di Vensa (9). In un estremo soprassalto di energia la
guarnigione riuscì a respingere gli assedianti, che ripiegarono verso il barbacane. Considerato
che il campo di battaglia era sospeso nel vuoto, il numero dei morti dovette essere superiore a
quello dei feriti in grado di rientrare nel castello.
All'indomani di questa notte tragica il corno risuonò sulle mura della fortezza: Raimondo di
Perella e Pietro Ruggero di Mirepoix chiedevano di negoziare.
2. IL ROGO.
Le trattative ebbero inizio il primo marzo 1244: dopo oltre nove mesi di assedio Montségur
capitolava. Anch'essi sfiniti da quest'assedio troppo lungo, i crociati non discussero a lungo.
Queste furono le condizioni della capitolazione: 1) I difensori sarebbero restati sul luogo ancora
per quindici giorni e avrebbero consegnato degli ostaggi.
2) Essi sarebbero stati perdonati per tutte le colpe passate, compresa la vicenda di Avignonet.
3) I soldati si sarebbero ritirati, con armi e bagagli, ma avrebbero dovuto presentarsi agli
inquisitori per confessare le loro colpe. Sarebbero stati punibili solo con penitenze di lieve
entità.
4) Tutte le altre persone che si trovavano nella cittadella erano libere e sarebbero state punite
con penitenze di lieve entità, purché abiurassero l'eresia e si confessassero davanti agli
inquisitori. Chi si fosse rifiutato di abiurare sarebbe stato condannato al rogo.
5) Il castello di Montségur sarebbe stato restituito al re e alla Chiesa.
Tutto sommato le condizioni della resa erano buone; sarebbe stato difficile ottenerne di
migliori. Grazie alla loro eroica resistenza, gli uomini di Montségur e i loro parenti scampavano
la morte e la prigione perpetua; i responsabili del massacro di Avignonet si vedevano garantire
non solo la vita ma anche la libertà.
Come mai la Chiesa - nella persona dei suoi rappresentanti presenti all'assedio - acconsentì
ad assolvere quanti si erano macchiati di un crimine tanto grave, mentre la punizione degli
assassini di Guglielmo Arnaldo avrebbe dovuto sembrarle non meno importante di quella degli
eretici? Se le due parti si intesero tanto presto sulla questione, è verosimile che il terreno per
l'accordo fosse già stato preparato: i messaggi ripetutamente scambiati fra il conte di Tolosa e
gli assediati di Montségur dovevano riguardare, fra l'altro, la vicenda di Avignonet.
In effetti, durante l'assedio, il conte di Tolosa intraprese un negoziato con il papa per farsi
togliere la scomunica nella quale era incorso all'indomani di quel crimine di cui si proclamava
innocente. Verso la fine del 1243 il papa Innocenzo Quarto revocò la sentenza di scomunica di
frate Ferriero, dichiarando che il conte di Tolosa era un suo «figlio fedele e cattolico». La
scomunica lanciata dal vescovo di Narbonne venne invece tolta il 14 marzo 1244, due giorni
prima che l'esercito del re di Francia prendesse possesso di Montségur. Forse questa
coincidenza di date è fortuita; ma è possibile vi sia stato uno stretto rapporto fra gli interventi
del conte e la sorte degli uomini di Montségur e, in particolare, di Pietro Ruggero di Mirepoix,
tanto interessato al buon esito degli affari del conte di Tolosa. Questi avrebbe consigliato agli
assediati di resistere, nell'intento non di portare loro dei rinforzi (è evidente che non pensava
assolutamente di farlo), ma di ottenere un completo perdono per la vicenda di Avignonet. Le
deposizioni delle persone rinchiuse a Montségur erano destinate a compromettere molte
persone anche all'esterno (oltre allo stesso conte), che però non ebbero mai noie con le autorità.
D'altra parte i meriti personali dei difensori e l'esigenza di mettere fine a un assedio che - in
caso ci si rifiutasse di concedere la grazia - poteva durare ancora, probabilmente indussero Ugo
di Arcis e i suoi cavalieri a esercitare pressioni sull'arcivescovo e su frate Ferriero. Quel crimine
politico che era stato l'assassinio degli inquisitori forse non veniva riprovato più di tanto dai
Francesi, che forse cominciavano a comprendere la situazione del paese e i sentimenti della
popolazione indigena. I soldati di Montségur non erano altro che dei valorosi combattenti, che
avevano diritto al rispetto da parte dell'avversario.
Venne concessa una tregua; quindici giorni durante i quali la fortezza di Montségur, già
arresasi, avrebbe rifiutato ancora l'accesso al nemico; quindici giorni durante i quali, sulla
fiducia nella parola data, i due contendenti avrebbero tenuto le loro posizioni, senza cercare di
attaccare o di fuggire. La macchina da guerra del vescovo Durando taceva, le sentinelle non
dovevano più spiare il nemico dai bastioni, i soldati non dovevano più vivere nella perpetua
attesa di un allarme. Montségur si accingeva a passare i suoi ultimi giorni di libertà in pace - se
si può chiamare pace l'attesa del distacco e della morte, sotto lo sguardo vigile del nemico,
appostato sulla sua torre, a meno di cento metri dal castello.
Ma in confronto alle ore tragiche che avevano vissuto, per gli abitanti di Montségur questa
era la pace; per molti di loro l'ultima tregua. Viene da chiedersi perché gli assediati abbiano
preteso questa dilazione, che prolungava un'esistenza divenuta insostenibile. Questa richiesta si
spiega forse con il fatto che l'arcivescovo di Narbonne e frate Ferriero non potevano assumersi
la responsabilità di assolvere gli assassini degli inquisitori e giudicarono necessario consultarsi
con il papa? E' più probabile che essa sia stata avanzata dagli assediati stessi, allo scopo di
restare ancora con quanti di loro non avrebbero più rivisto dopo la resa del castello. In effetti è
molto probabile che, come suggerisce F. Niel, il vescovo Bertrando Marty e i suoi compagni,
prima di morire, abbiano voluto celebrare un'ultima volta la festa che per loro corrispondeva
alla Pasqua. Sappiamo che i catari celebravano questa festa, dal momento che uno dei loro
grandi digiuni precedeva proprio la Pasqua.
Dobbiamo pensare che, sotto questo nome, essi designassero la festa manichea della
"Bema", che cadeva all'incirca nello stesso periodo dell'anno? Nessun documento permette di
stabilirlo con certezza e, come abbiamo visto, il rituale cataro che cita con tanta frequenza e
insistenza i Vangeli e le Lettere degli Apostoli non menziona nemmeno una volta il nome di
Mani. Il catarismo comprendeva due distinti insegnamenti, e il "consolamentum", considerato il
supremo sacramento, era solo una manifestazione di pietà religiosa riservata ai non iniziati?
Pare difficile ammetterlo: manicheo per dottrina, il catarismo era profondamente cristiano nella
forma e nell'espressione del suo pensiero. I catari veneravano il Cristo in modo troppo esclusivo
per poter accordare nel culto un ruolo importante a Mani. Ad ogni modo ci mancano i dati in
grado di farci capire che cosa la festività della Pasqua, o della "Bema", esattamente significasse
per loro.
E' anche verosimile, e umano, che prima di separarsi per sempre gli uni e gli altri abbiano
voluto concedersi quest'ultima tregua. Certo non era chiedere troppo; e sarebbe stato difficile
ottenere di più.
Durante i primi giorni di marzo vennero consegnati alcuni ostaggi. A quanto risulta dai
verbali degli interrogatori si trattava di Arnaldo Ruggero di Mirepoix, vecchio cavaliere,
parente del comandante della guarnigione; di Giordano, figlio di Raimondo di Perella; di
Raimondo Marty, fratello del vescovo Bertrando, e di altri ancora dei quali ignoriamo i nomi,
dal momento che l'elenco di questi ostaggi non è mai stato ritrovato.
Alcuni storici hanno pensato che lo stesso Pietro Ruggero di Mirepoix si fosse ritirato dal
castello prima della fine della tregua, anzi prima della firma dell'atto di capitolazione. Questa
supposizione non è affatto verosimile, poiché secondo la deposizione di Alzeu di Massabrac
Pietro Ruggero si trovava entro la fortezza ancora il 16 marzo. Sappiamo che in seguito si ritirò
a Mongaillard; poi le sue tracce si perdono per dieci anni. Il silenzio creatosi intorno al suo
nome ha contribuito forse al diffondersi di accuse di tradimento o almeno di diserzione?
Tuttavia, è logico pensare che i vincitori trovassero imbarazzante la presenza del principale
artefice del colpo di mano di Avignonet, e che gli abbiano chiesto di eclissarsi con la massima
discrezione: l'uomo che aveva proclamato il desiderio di bere del vino nel cranio di Guglielmo
Arnaldo poteva beneficiare solo di una grazia concessa, per così dire, sottobanco. Undici anni
dopo egli venne citato dagli inquirenti reali come «"faidit" e spodestato per essere stato fautore
e difensore di eretici al castello di Montségur»: sarebbe stato reintegrato nei suoi diritti civili
solo nel 1257. E' dunque difficile credere che un uomo simile avesse in qualche modo
patteggiato con il nemico.
Pietro Ruggero di Mirepoix e suo suocero Raimondo di Perella rimasero quindi sul posto
sino alla fine della tregua, insieme alla maggior parte della guarnigione, alle loro famiglie e agli
eretici - quelli che non intendevano abiurare la loro fede e che, secondo le clausole dell'accordo,
sarebbero stati consegnati al boia. I quindici giorni dovettero essere consacrati a cerimonie
religiose, alla preghiera e agli addii.
La vita degli abitanti di Montségur durante queste due tragiche settimane ci è nota solo
attraverso quello che gli inquisitori hanno chiesto ai testimoni in seguito sottoposti a
interrogatorio: si tratta di dettagli precisi, scarni, che nella loro intenzionale freddezza non
riescono a nascondere una grandezza commovente. Dapprima vi fu la spartizione dei beni di
quanti erano destinati alla morte: riconoscenti per la sua devozione, gli eretici Raimondo di
Saint-Martin, Amiel Aicart, Clamens, Taparell e Guglielmo Pietro portarono a Pietro Ruggero
una coperta piena di soldi. Sempre a lui il vescovo Bertrando Marty regalò dell'olio, del pepe,
del sale, della cera e una pezza di stoffa verde: questo vecchio austero certamente non
possedeva nulla di più prezioso. Gli eretici diedero poi ancora a Pietro Ruggero una gran
quantità di grano e cinquanta giubbe per i suoi uomini. La 'perfetta' Raimonda di Cuq donò del
frumento a Guglielmo Adhémar, sergente (quindi le provviste immagazzinate nella fortezza
erano considerate come appartenenti alla Chiesa catara e non ai proprietari del castello) (10).
La vecchia Marquesia di Lantar regalò tutti i suoi beni alla nipote Filippa, moglie di Pietro
Ruggero. Altri eretici offrirono ai soldati qualche moneta, della cera, del pepe, del sale, un paio
di scarpe, una borsa, dei calzoni, del feltro... (11), tutto ciò che questi 'buonuomini' ancora
possedevano; certo, alcuni di questi oggetti dovevano avere soprattutto un valore di reliquie.
Le deposizioni fatte agli inquisitori descrivono poi le cerimonie alle quali i testimoni
assistettero in quelle due settimane - le sole sulle quali venne loro richiesto qualche dettaglio - i
"consolamenta". Durante quei giorni, quando entrare nella Chiesa catara significava votarsi a
una morte certa e imminente, si trovarono non meno di diciassette persone abbastanza convinte
della loro fede da aspirare a un simile trattamento: sei erano donne, undici invece uomini, tutti
cavalieri o sergenti.
Una di queste donne era la moglie del signore di Montségur, Corba di Perella. Figlia della
'perfetta' Marquesia, madre di un fanciullo infermo e probabilmente già 'consolata', Corba
doveva essersi preparata da tempo a questo passo decisivo. Lo compì l'ultimo giorno,
l'antivigilia della fine della tregua, lasciando il marito, le due figlie sposate, i nipoti e quel figlio
la cui presenza fino a quel momento l'aveva trattenuta; a loro preferì il martirio in nome della
sua fede. Ermengarda di Ussat era una nobildonna della zona, Guglielma, Bruna e Arssendis
erano le mogli di alcuni sergenti (le ultime due sarebbero salite sul rogo insieme ai loro mariti,
anch'essi volontari martiri dell'ultima ora); non si trattava di donne anziane, i sergenti in genere
erano uomini giovani. Guglielma di Lavelanet forse era più vecchia, essendo moglie del
cavaliere Berengario di Lavelanet.
Fra gli uomini che avevano ricevuto il "consolamentum" durante il periodo di tregua
figurano due cavalieri: Guglielmo di La Ihle - che qualche giorno prima era stato ferito
gravemente - e Raimondo di Marciliano. I sergenti erano Raimondo Guglielmo di Tornabois,
Brasillac di Calavello (entrambi avevano preso parte al massacro di Avignonet), Arnaldo
Domerc (marito di Bruna), Arnaldo Domenico, Guglielmo di Narbonne, Pons Narbona (marito
di Arssendis), Giovanni Reg, Guglielmo di Puy, Guglielmo Giovanni di Lordat, infine
Raimondo di Belvis e Arnaldo Teouli, entrati a Montségur quando la situazione era già
disperata, e che a quanto pare vi si erano recati al prezzo di tanti pericoli solo per divenirvi dei
martiri. Tutti questi soldati, che avrebbero potuto lasciare il castello con gli onori di guerra e a
testa alta, preferirono farsene scacciare come bestie, per essere poi ammassati sopra delle
fascine di legna secca e bruciati vivi al fianco dei loro capi religiosi.
Quanto a questi ultimi, non abbiamo molte notizie - se si eccettua il fatto che il vescovo
Bertrando, Raimondo di Saint-Martin, Raimondo Aiguilher diedero il "consolamentum" alle
persone che l'avevano richiesto, e distribuirono i loro beni. I 'perfetti' e le 'perfette' erano circa
centonovanta, poiché sappiamo che gli eretici bruciati a Montségur furono circa duecentodieci
o duecentoquindici; e i nomi delle persone che possiamo citare con certezza sono tutti di
semplici credenti, convertitisi all'ultimo momento.
E' abbastanza commovente constatare come un buon quarto degli uomini della guarnigione
sopravvissuti fossero disposti a morire per la loro fede, non in un soprassalto di entusiasmo, ma
dopo giorni e giorni di cosciente preparazione. I martiri di una religione sconfitta non vengono
canonizzati; ma questi uomini e queste donne i cui nomi furono registrati al solo scopo di
mettere sulla lista nera quanti assistettero alla loro iniziazione meritano fino in fondo il titolo di
martiri.
Almeno tre dei 'perfetti' rinchiusi a Montségur al momento della capitolazione scamparono
al rogo. Questo fatto rappresentava una violazione degli accordi conclusi; d'altra parte se ne
ebbe conoscenza solo dopo l'occupazione del castello da parte dei Francesi: nella notte del 16
marzo Pietro Ruggero fece evadere, su corde sospese lungo la parete rocciosa del versante
occidentale, gli eretici Amiel Aicart e il suo compagno Ugo, Poitevin e un quarto uomo il cui
nome è rimasto ignoto, forse una guida. Durante l'ingresso dei crociati a Montségur questi
uomini erano restati nascosti in un sotterraneo, scampando così al destino dei loro confratelli; il
loro compito era di mettere al riparo quanto nel castello era rimasto del tesoro degli eretici, e
ritrovare il nascondiglio ove era stato seppellito il denaro portato fuori del castello due mesi
prima. In effetti, Pietro Ruggero di Mirepoix e i suoi cavalieri lasciarono il castello per ultimi,
dopo i 'perfetti', dopo le donne e i bambini; fino a un certo momento rimasero quindi padroni
del luogo. La fuga, a quanto pare, riuscì perfettamente, perché né i quattro fuggitivi né il tesoro
vennero scoperti dalle autorità.
«Quando gli eretici uscirono dal castello di Montségur che doveva essere reso alla Chiesa e
al re, Pietro Ruggero di Mirepoix trattenne entro il castello Amiel Aicart e il suo amico Ugo,
eretici; durante la notte in cui gli altri eretici vennero bruciati li nascose; e li fece evadere.
Questo fu fatto perché la Chiesa degli eretici non perdesse il suo tesoro, occultato nella foresta;
e i fuggitivi conoscevano il nascondiglio... (12)». Berengario di Lavelanet aggiunge che Amiel
Aicart, Poitevin e altre due persone, rimaste nascoste sotto terra durante l'entrata dei crociati nel
castello, sarebbero state calate con delle funi. Caduta Montségur, la Chiesa catara continuava la
sua lotta.
Eccettuati questi tre (o quattro) uomini, incaricati di una missione importante e pericolosa,
nessuno dei 'perfetti' poté e forse volle sottrarsi al rogo. Finita la tregua, il siniscalco e i suoi
cavalieri, accompagnati dalle autorità ecclesiastiche, si presentarono alla porta del castello.
L'arcivescovo di Narbonne era rientrato nella sua diocesi prima della fine della tregua. La
Chiesa era quindi rappresentata dal vescovo di Albi e dai frati inquisitori Ferriero e Durante. I
Francesi avevano assolto al loro compito e avevano promesso di risparmiare la vita a quanti li
avevano combattuti, la sorte dei difensori di Montségur dipendeva esclusivamente dal tribunale
ecclesiastico.
Lasciando il suo posto, Raimondo di Perella consegnò ai boia sua moglie e la figlia più
giovane; la legge che da secoli condannava al rogo gli eretici impenitenti era universalmente
accettata, al punto che i padri, gli sposi, i fratelli e i figli che si vedevano brutalmente strappare
i loro congiunti pensavano fosse l'effetto di una cieca fatalità, il risultato logico di una sconfitta.
Ma come vennero scelti coloro ai quali sarebbe stato rifiutato il perdono? Probabilmente furono
essi stessi a scegliersi, separandosi dagli altri. Nelle circostanze nelle quali si trovavano, era del
tutto inutile sottoporli a serrati interrogatori per far confessare loro ciò che non intendevano
affatto negare.
Guglielmo di Puylaurens scrive: «Invano furono invitati a convertirsi (13)». Da chi e in che
modo furono invitati a farlo? E' verosimile che i duecento e più eretici formassero un gruppo a
sé che gli inquisitori e i loro ausiliari fecero uscire dal castello per ammonirli, almeno
formalmente. La vigilia, Filippa di Mirepoix e Arpalice di Ravat, figlie di Corba di Perella,
diedero l'addio alla loro madre, elevata - pur quando non aveva più molto tempo da vivere - alla
dignità di 'perfetta'. Una di queste giovani donne, Arpalice, senza entrare nei dettagli, lascia
trasparire l'orrore del momento in cui sua madre, insieme agli altri, fu condotta verso la morte:
«... furono "brutalmente" cacciati dal castello di Montségur... (14)».
In testa ai condannati si trovava ovviamente il vescovo Bertrando Marty. Gli eretici vennero
incatenati e trascinati senza riguardi lungo la discesa che separava il castello dal luogo in cui era
stato preparato il rogo.
Dinnanzi a Montségur, sul versante sudoccidentale del monte - il solo facilmente accessibile
- si apre un ampio spiazzo chiamato oggi il campo dei "Cramatchs", ossia dei cremati, dei
bruciati sul rogo: si trova a meno di duecento metri dal castello, in fondo a un pendio
abbastanza ripido. Guglielmo di Puylaurens dice che gli eretici vennero arsi «giusto ai piedi del
monte», ed è probabile che ciò sia avvenuto proprio al campo dei "Cramatchs".
Mentre su, nel castello, i 'perfetti' si preparavano alla morte e davano l'addio ai loro amici, i
sergenti del campo francese erano stati impiegati nell'ultima fatica di quell'assedio: la
preparazione di un rogo sufficiente a bruciare duecento persone - il numero approssimativo dei
condannati doveva essere preventivamente noto. «Si eresse - dice Guglielmo di Puylaurens - un
recinto di pali (15)» per delimitare lo spazio del rogo; e all'interno furono sistemate
«innumerevoli fascine di legna», forse insieme a della paglia e a della resina, considerato che
nel mese di marzo la legna doveva essere umida e difficile da accendere. Probabilmente non ci
fu il tempo di innalzare i pali cui legare un simile numero di condannati; comunque sia,
Guglielmo di Puylaurens si accontenta di dire che essi vennero rinchiusi all'interno del recinto.
I malati e i feriti furono semplicemente gettati sulle fascine, gli altri forse riuscirono ad
avvicinarsi ai loro "socii", ai loro parenti..., forse la signora di Montségur poté morire accanto
alla vecchia madre e alla figlia malata, le mogli dei sergenti al fianco dei loro mariti. Forse il
vescovo, in mezzo ai gemiti, al rumore delle armi, alle grida dei carnefici che accendevano il
fuoco ai quattro angoli del recinto, alla melodia dei cantici intonati dai chierici, riuscì a
indirizzare ai suoi fedeli un'ultima esortazione. Quando le fiamme si innalzarono, i carnefici e i
soldati dovettero allontanarsi a una certa distanza, per sottrarsi al fumo e al calore sprigionato
dall'immenso fuoco. In poche ore le duecento torce umane accatastate all'interno del recinto si
ridussero a un ammasso di carni annerite, arroventate e sanguinanti, che mescolavano le loro
ceneri diffondendo su tutta la valle, fino al castello, un atroce odore di bruciato.
I difensori rimasti nella fortezza, dall'alto, videro le fiamme del rogo salire, divampare e poi
scemare per l'esaurirsi della materia che le alimentava, mentre dense fumate nerastre coprivano
il monte; il fumo, acre e nauseabondo, aumentava via via che le fiamme si spegnevano. Ancora
durante la notte il braciere lentamente si consumava; sparsi sulle pendici del monte, i soldati,
seduti accanto ai fuochi dinnanzi alle loro tende, scorgevano le braci rosse che covavano sotto
la cenere. Quella notte i quattro uomini depositari del tesoro della Chiesa catara scesero con
delle corde lungo la parete rocciosa, quasi di fronte alla radura dove moriva l'immenso fuoco
nutrito di carne umana.
NOTE.
(1) Doat, t. 24, f. 44, deposizione di Raimondo di Perella; Ibid., deposizione di Berengario
di Lavelanet.
(2) Doat. t. 24, p.p. 170-171, 181.
(3) Ivi, t. 24, p. 180.
(4) Ibidem, p. 174.
(5) Guglielmo di Puylaurens, cap. 46.
(6) Doat, t. 24, p. 172, deposizione di Imberto di Salas.
(7) Guglielmo di Puylaurens, cap. 46.
(8) Doat, t. 22, p. 263; t. 24, p.p. 202-203, 207.
(9) Ivi, t. 24, p. 80; t. 22, p. 255; t. 22, p. 247; t. 24, p. 207. (10) Su questi doni confronta
Doat, t. 24, p 173.
(11) Ivi, p.p. 180, 200.
(12) Testimonianza di Arnaldo Ruggero di Mirepoix, sulla base delle affermazioni di Alzeu
di Massabrac, Doat, t. 22, p. 129.
(13) Guglielmo di Puylaurens, cap. 46.
(14) Deposizione di Arpalice di Ravat, Doat, t. 22, p. 259.
(15) Guglielmo di Puylaurens, cap. 46.
CONCLUSIONE
Cinque anni dopo la caduta di Montségur, Raimondo Settimo moriva, senza figli legittimi,
all'età di cinquantadue anni. La contea di Tolosa passava nelle mani di Alfonso di Poitiers,
marito della contessa Giovanna, unica erede del conte. La coppia morì nel 1271, senza
discendenza. La loro scomparsa consegnava definitivamente alla corona di Francia un paese
che già da vent'anni era di fatto una provincia francese, nel senso antico e tradizionale del
termine: un paese di importanza secondaria, colonizzato, sfruttato, dominato sia sul piano
amministrativo sia sul piano intellettuale da una metropoli potente e gelosa dei suoi interessi.
In ventidue anni Alfonso di Poitiers era andato a Tolosa solo due volte: nel 1251, per
ricevere l'omaggio dei suoi nuovi vassalli, e nel 1270, un anno prima della sua morte. Buon
amministratore, si era preoccupato soprattutto di organizzare un sistema di esazione fiscale
efficiente e dalle maglie strette, che gli permise di prelevare le somme di cui aveva bisogno per
realizzare i suoi disegni politici, o meglio quelli del fratello: per san Luigi la riconquista della
Terra Santa restava il primo obiettivo della politica francese. Dobbiamo ritenere che Alfonso
non prese mai veramente sul serio il suo titolo di conte di Tolosa e non fu altro che un esecutore
fedele del volere di suo fratello. Il popolo che, nel 1249, seguì piangendo il feretro di Raimondo
Settimo da Millau a Fontevrault sapeva di piangere la fine della sua esistenza nazionale.
Qualche mese prima di morire, il conte Raimondo aveva fatto bruciare sul rogo ad Agen
ottanta eretici, o sospetti di eresia, dopo un giudizio sommario che nemmeno gli inquisitori si
sarebbero permessi. Indubbiamente pensava di guadagnarsi con quest'atto di violenza il favore
della Chiesa; ma forse voleva anche far espiare agli eretici le disgrazie che avevano attirato sul
suo paese. La misura era colma; spossato dalle persecuzioni e dalle umiliazioni, demoralizzato
dal progressivo soffocamento delle forze vive del paese, il popolo occitano - o almeno le sue
classi privilegiate, quelle che più avevano da perdere - abbandonò la religione catara e si
schierò, amaro e rassegnato, a fianco dei vincitori.
La Linguadoca veniva unita alla Francia; è inutile chiedersi se quest'unione, tutto sommato
imposta dalla situazione geografica e politica del paese, non avrebbe potuto compiersi in modo
meno brutale. C'era davvero, fra gli uomini del Nord e quelli del Sud, un'incompatibilità di
interessi e di mentalità tanto forte che solo una crudelissima guerra di conquista poteva portare
a quest'unità dei Francesi? Prima del 1209 c'era forse una reciproca incomprensione, ma non
odio. Dopo la morte di Raimondo Settimo, un popolo stanco di odiare e di soffrire si rassegnò a
poco a poco - ma non senza difficoltà, o senza rivolte - a vedere la sua lingua ridotta a un
dialetto.
Chi ha mai calcolato che cosa un popolo perde, quando gli viene tolta la sua indipendenza? e
come tracciare il limite fra i particolarismi regionali e le legittime aspirazioni nazionali? In
definitiva, la ragione del più forte sembra sempre la migliore, e lo è nel senso che è sempre più
reale di quel che sarebbe stato possibile.
Il regno di Francia usciva dalla prova più forte, più cosciente che mai del suo diritto divino;
ben presto avrebbe tenuto testa al papato, che l'aveva servito e che si era servito di lui. Per
estirpare l'eresia la Chiesa si era esposta al pericolo di vedere il suo potere temporale
minacciato dall'alleato troppo potente che si era scelto.
La Chiesa non aveva certo ignorato questo pericolo: le lotte con l'Impero e la recentissima
esperienza con Federico Secondo glielo avevano fatto misurare pienamente. Ma il pericolo
rappresentato dall'eresia, ai suoi occhi, era ancor più terribile; e se, grazie all'Inquisizione, il
papato finì per avere ragione del catarismo, quindi dei vari altri movimenti ereticali che sorsero
nel tredicesimo e nel quattordicesimo secolo, questa vittoria gli sarebbe costata cara. Lo
schiaffo di Anagni non colpì la Chiesa nella sua essenziale dignità, fu solo un episodio
dell'incessante lotta che essa era costretta a condurre per la sua indipendenza materiale e
morale. Ma il regime di terrore poliziesco che l'Inquisizione, per parecchi secoli, seppe imporre
ai popoli dell'Occidente avrebbe minato dall'interno l'edificio della Chiesa, conducendo a una
terribile caduta del livello morale della cristianità e della civiltà cattolica.
Prima della crociata contro gli Albigesi, prima dell'Inquisizione, voci di vescovi e di abati
ancora si levavano per protestare contro i roghi di eretici, per predicare la misericordia verso i
fratelli smarriti; nel tredicesimo secolo san Tommaso d'Aquino trovò, per giustificare questi
stessi roghi, parole inammissibili in bocca a un cristiano (1). Eccessi che prima potevano
imputarsi all'ignoranza e alla durezza dei costumi del tempo, venivano ormai approvati,
consacrati dalla cattedre di teologia da uno dei più grandi filosofi della cristianità. Un fatto
simile è troppo grave perché se ne possa sminuire il significato: dal tredicesimo secolo non ci
furono più, nella Chiesa cattolica, santi o dottori abbastanza coraggiosi da proclamare che un
uomo che sbaglia in materia di fede resta (come diceva ad esempio santa Ildegarda nel
dodicesimo secolo [2]) una creatura di Dio, e che togliergli la vita è un crimine. La Chiesa che
con tanta risolutezza dimenticava questa verità così semplice non meritava più il titolo di
cattolica, e in questo senso si può dire che l'eresia inferse alla Chiesa un colpo dal quale essa
non si sarebbe più ripresa.
La vittoria era stata pagata a un prezzo troppo alto: se anche (il che non è certo), accanendosi
contro l'eresia la Chiesa romana risparmiò alla cristianità occidentale gravi disordini che forse
avrebbero potuto portare alla rovina dell'intero edificio sociale e culturale, riuscì a farlo solo
grazie a una capitolazione morale di cui sconta ancor oggi le conseguenze.
NOTE.
(1) Confronta "Summa Theologiae, Secunda Secundae", 11, 3 e 12, 2.
(2) Ildegarda di Bingen, "Epist.", 139.
APPENDICI.
1.
RITUALE CATARO.
[Si danno qui alcuni estratti dalla traduzione di L. Clédat del «Rituale». Il testo integrale si
troverà nella sua edizione del Nuovo Testamento tradotto nel tredicesimo secolo in lingua
provenzale (riproduzione fotografica del manoscritto conservato presso la biblioteca municipale
del Palais Saint-Pierre di Lione, pubblicato nel tomo quarto della Biblioteca della Facoltà di
Lettere di Lione).] - Ammissione di un credente fra i 'cristiani'.
Se un credente (1) è in astinenza (2) e se i cristiani (3) sono d'accordo di consegnargli la
preghiera, dovranno lavarsi le mani; lo stesso dovranno fare i credenti, se ce ne sono. Poi uno
dei buonuomini, quello accanto all'anziano, dovrà fare tre riverenze all'anziano, preparare una
tavola, [fare] altre tre [riverenze], stendere una tovaglia sulla tavola e [fare] ancora tre
[riverenze]. Poi egli dovrà dire: «"Benedicite parcite nobis"». Allora il credente farà il suo
"melioramentum" (4) e prenderà il libro dalle mani dell'anziano. L'anziano lo ammonirà e
pronuncerà per lui una predica, con testimonianze adatte al caso... (5) Poi l'anziano dovrà
iniziare la preghiera, che il credente proseguirà. Quindi l'anziano dovrà dire [al credente]: «Noi
vi consegniamo questa santa preghiera, perché voi la riceviate da Dio e da noi e dalla Chiesa, e
abbiate il potere di pronunciarla per tutta la durata della vostra vita, di giorno e di notte, da soli
o in compagnia; e non dovrete mai mangiare o bere senza prima aver pronunciato questa
preghiera. Se non lo farete, dovrete fare penitenza» E quello [il credente] dovrà dire: «Io la
ricevo da Dio, da voi e dalla Chiesa». Poi dovrà fare il suo "melioramentum" e rendere grazie;
infine i cristiani dovranno fare una "doppia" (6), con le "veniae", e il credente dopo di loro.
- Concessione del «Consolamentum».
E se costui [il credente che è appena stato ammesso fra i 'cristiani'] deve essere subito
consolato, dovrà fare il suo "melioramentum" e prendere il libro dalle mani dell'anziano. E
l'anziano dovrà ammonirlo e pronunciare per lui una predica, portando testimonianze
convenienti e parole adatte a un "consolamentum"...
E dovrà dire: «Voglio farlo, pregate Dio che me ne dia la forza» Poi uno dei buonuomini
dovrà fare il "melioramentum" insieme al credente dinnanzi all'anziano, dicendo: «"Parcite
nobis". Buoni cristiani, per amore di Dio noi vi preghiamo di accordare al nostro amico qui
presente quel bene che Dio ha dato a voi». Allora il credente dovrà fare il suo "melioramentum"
e dire: «"Parcite nobis". Per tutti i peccati che ho potuto fare con la parola o con le azioni, che
ho potuto pensare o mettere in opera, chiedo perdono a Dio, alla Chiesa e a voi tutti». I cristiani
risponderanno: «Siate perdonato da Dio, da noi e dalla Chiesa: preghiamo che Dio ve li
perdoni». Poi dovranno consolarlo. L'anziano prenderà il libro e glielo poserà sulla testa, gli
altri buonuomini poseranno la mano destra, dicendo le "parcias" (9) e tre "Adoremus" (10) e poi
«"Pater sancte suscipe servum tuum in tua justitia et mite gratiam tuam et spiritum sanctum
tuum super eum"». Si rivolgeranno a Dio con la preghiera, e colui che avrà condotto l'ufficio
divino dovrà recitare a bassa voce la "sixaine" (11), poi dovrà dire tre "Adoremus", la preghiera
una volta ad alta voce, infine il Vangelo. Quando avranno detto il Vangelo, dovranno recitare tre
"Adoremus", la "gratia" e le "parcias". Poi dovranno fare la pace fra loro (12) e con il libro (13).
Se ci saranno dei credenti, anch'essi dovranno fare la pace: i credenti, se ce ne saranno, faranno
la pace con il libro e fra loro. Infine pregheranno Dio con una "doppia" con la "venia" (14):
[così] avranno consegnato la preghiera [al credente].
- Regole di comportamento.
L'incarico di tenere una "doppia" e di dire la preghiera non deve essere affidato a un uomo
secolare.
Se vanno in un posto pericoloso, i cristiani devono pregare Dio con "gratia".
Chi monta a cavallo deve tenere una "doppia". Si deve dire la preghiera quando si sale in
barca o si entra in una città, quando si attraversa una passerella o un ponte pericoloso. Se
mentre si prega Dio si incontra qualcuno con cui è necessario parlare, otto preghiere possono
esser contate come una semplice, sedici preghiere possono essere contate come una "doppia".
Se per strada si incontra qualche oggetto di valore non si deve toccarlo, se non si sa che si
potrà restituirlo. Se ci si accorge di essere stati preceduti nel cammino da gente cui si pensa di
poter rendere l'oggetto perduto, bisogna prenderlo e renderlo, se è possibile. E se è impossibile
bisognerà rimetterlo dove lo si è trovato. Se però si trovano animali o uccelli catturati, non
bisogna occuparsene.
Se durante il giorno un cristiano vuole bere, dovrà pregare Dio due volte o più. E se berrà
dopo la "doppia" della notte, dovrà fare un'altra "doppia". Se ci sono dei credenti dovranno
restare in piedi mentre i cristiani diranno la preghiera per bere. E se un cristiano prega Dio
insieme ad altri cristiani, guiderà sempre la preghiera. E se un cristiano cui sia stata consegnata
la preghiera si troverà insieme ad altri cristiani, se ne vada in disparte e preghi da solo.
- Conversione dei malati.
Se quei cristiani cui è stato affidato il servizio della Chiesa riceveranno il messaggio di un
credente malato, dovranno recarsi da lui e domandargli in confidenza come si sia comportato
verso la Chiesa da quando ha ricevuto la fede e se in qualche modo si è indebitato con la Chiesa
o le ha procurato dei danni. Se deve qualcosa gli sia permesso di pagare, perché deve farlo. Se
non vuole farlo, non andrà accolto nella Chiesa. Perché se si prega Dio per un uomo colpevole
o sleale, la preghiera non porta alcun vantaggio. Ma se non è in grado di pagare non dovrà
essere respinto.
E i cristiani dovranno mostrargli l'astinenza (15) e i costumi della Chiesa. Poi dovranno
chiedergli se, in caso fosse accolto nella Chiesa, intenderà osservarli. Egli non dovrà promettere
di farlo se non ne avrà ferma intenzione: poiché san Giovanni dice che chi mente finirà in uno
stagno di fuoco e di zolfo. E se il malato dirà di essere deciso a sopportare l'astinenza, e se i
cristiani sono d'accordo di accoglierlo, dovranno imporgli l'astinenza...
Poi dovranno chiedergli se vuole ricevere la preghiera. Se risponderà di sì, se sarà possibile
dovranno rivestirlo con calzoni e camicia, metterlo a sedere e lavargli le mani. Gli stenderanno
sul letto una tovaglia o un pezzo di stoffa. Vi appoggeranno il libro e diranno una volta
«"Benedicite"» e tre volte «"Adoremus patrem et filium et spiritum sanctum"». Il malato
riceverà il libro dalle mani dell'anziano. Poi, se potrà attendere, colui che condurrà l'ufficio
dovrà ammonirlo e pronunciare per lui una predica, portando testimonianze convenienti. Poi
dovrà chiedergli se ha intenzione di rispettare la promessa fatta così come si è impegnato a fare.
Se risponderà di sì dovrà confermarlo. Poi dovranno passargli la preghiera, che egli dovrà
proseguire. Quindi l'anziano dovrà dirgli: «Questa è la preghiera che Gesù Cristo ha portato in
questo mondo e che ha insegnato ai buonuomini. Non dovrete mai mangiare o bere nulla senza
averla prima pronunciata. Se sarete negligenti, dovrete farne penitenza». Egli dovrà rispondere:
«La ricevo da Dio, da voi e dalla Chiesa». Poi lo saluteranno come una donna (16). Poi
dovranno pregare Dio con una "doppia" e con le "veniae"; quindi dovranno rimettergli davanti
il libro e dovranno recitare tre "Adoremus". In seguito egli prenderà il libro dalle mani
dell'anziano, che lo ammonirà, con parole e testimonianze adatte a un "consolamentum"...
Poi l'anziano dovrà prendere il libro, il malato dovrà inchinarsi e dire: «"Parcite nobis". Per
tutti i peccati che ho commesso con parole, opere o intenzioni, chiedo perdono a Dio, alla
Chiesa e a voi tutti». E i cristiani dovranno dire: «Che vi siano perdonati da Dio, dalla Chiesa e
da noi: preghiamo Dio che ve li perdoni». Dovranno consolarlo posandogli le mani e il libro
sulla testa... Poi dovranno darsi il bacio della pace, fra loro e con il libro. E se ci sono credenti,
maschi o femmine, dovranno scambiarsi il bacio della pace. Poi i cristiani dovranno chiedere e
dare il saluto.
Se il malato morirà e lascerà o darà loro qualcosa, non dovranno tenerselo, né
impadronirsene, ma dovranno metterlo a disposizione dell'ordine. Se il malato sopravviverà, i
cristiani dovranno presentarlo all'ordine e pregare che si consoli nuovamente il più presto
possibile, e che lo faccia di sua volontà.
NOTE.
(1) Un 'simpatizzante' iniziato al credo cataro, ma non ancora ammesso fra i fedeli.
(2) Prova preparatoria all'ammissione fra i fedeli.
(3) Così i catari si definivano fra loro.
(4) Gesto rituale di venerazione, che consisteva nel fare tre genuflessioni e nel chiedere la
benedizione.
(5) Riferendosi a dei brani del Nuovo Testamento.
(6) Ripetere due volte una preghiera.
(7) Inchino e genuflessione.
(8) Si veda app. 2.
(9) Titolo di una preghiera catara.
(10) Un'altra preghiera catara.
(11) Preghiera domenicale (?) ripetuta sei volte.
(12) Scambiarsi il bacio della pace.
(13) Ossia baciare il Vangelo.
(14) Si vedano sopra le note 6 e 7.
(15) Confronta supra la nota 2.
(16) Il saluto indirizzato al neofita era differente a seconda che si trattasse di un uomo o di
una donna. Se a ricevere il "consolamentum" era una malata, veniva salutata come un uomo.
2.
DISCORSO PRELIMINARE INDIRIZZATO DALL'ANZIANO AL NEOFITA.
Pietro (1), voi volete ricevere il battesimo spirituale attraverso il quale nella Chiesa di Dio
viene dato lo Spirito Santo, con la santa preghiera, con l'imposizione delle mani dei
buonuomini. Di questo battesimo Nostro Signore Gesù Cristo dice nel Vangelo di San Matteo
(XXVIII, 19-20) ai suoi discepoli: «Andate e istruite tutti i popoli e battezzateli nel nome del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. E insegnate loro a conservare il mio insegnamento. Ecco
che io sono con voi per sempre sino alla consumazione dei secoli». E nel Vangelo di san Marco
(XVI, 15) dice: «Andate in tutto il mondo, predicate il Vangelo a ogni creatura. E chi crederà e
sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato». E nel Vangelo di san
Giovanni (III, 5) dice a Nicodemo: «In verità, in verità vi dico che nessun uomo entrerà nel
regno di Dio se non è stato rigenerato dall'acqua e dallo Spirito Santo». E Giovanni Battista ha
parlato di questo battesimo quando ha detto (Vangelo di san Giovanni, I, 26-27 e Vangelo di san
Matteo, III, 11): «E' vero che io battezzo con l'acqua, ma colui che deve venire dopo di me è più
potente di me: io non sono degno di legare le stringhe dei suoi sandali. Egli vi battezzerà con lo
Spirito Santo e con il fuoco». E Gesù Cristo ha detto negli "Atti degli Apostoli" (I, 5): «Poiché
Giovanni ha battezzato con l'acqua, ma voi sarete battezzati con lo Spirito Santo». Il santo
battesimo tramite l'imposizione delle mani, secondo quanto riporta san Luca, è stato istituito da
Gesù Cristo, che ha detto che i suoi amici l'avrebbero fatto nel modo riferito da san Marco (XV,
18): «Imporranno le mani sui malati e i malati