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Zoé Oldenbourg

L'ASSEDIO DI MONTSEGUR
La crociata contro i catari
nella Francia del Medioevo

Traduzione dal francese di Luca Bianchi


Titolo originale dell'opera: «Le Bûcher de Montségur. 16 mars 1244
Garzanti, Milano, ottobre 1990
INDICE GENERALE
INTRODUZIONE di Gérard Walter.
CAPITOLO PRIMO: PRELIMINARI DELLA CROCIATA.
1. L'esordio.
2. I crociati.
3. La terra occitana.
CAPITOLO SECONDO: L'ERESIA E GLI ERETICI.
1. Le origini.
2. Il dogma.
3. Organizzazione ed espansione.
4. Aspetti sociali e morali del catarismo.
5. La lotta contro «Babilonia».
CAPITOLO TERZO: LA CHIESA DI FRONTE ALL'ERESIA.
1. Prima di Innocenzo Terzo.
2. San Domenico: il suo apostolato e il suo insuccesso.
CAPITOLO QUARTO: LA CAMPAGNA DEL 1209.
1. La guerra medievale.
2. Béziers.
3. Carcassonne.
CAPITOLO QUINTO: SIMONE DI MONTFORT.
1. Un capo militare.
2. Il conte di Tolosa.
3. Il re d'Aragona CAPITOLO SESTO: CONSACRAZIONE E SCACCO DELLA
CROCIATA.
1. Il Concilio Laterano.
2. La guerra di liberazione.
CAPITOLO SETTIMO: IL RE DI FRANCIA.
1. La vittoria di Raimondo Settimo.
2. La crociata del re Luigi.
CAPITOLO OTTAVO: GLI ULTIMI ANNI DELL'INDIPENDENZA OCCITANA.
1. Le conseguenze della guerra.
2. Il catarismo, religione nazionale.
3. Il trattato di Meaux.
CAPITOLO NONO: LA PACE DELLA CHIESA.
1. La Chiesa e l'eresia.
2. Il concilio di Tolosa.
3. L'impotenza della Chiesa e la reazione domenicana.
CAPITOLO DECIMO: L'INQUISIZIONE.
1. Gli esordi dell'Inquisizione.
2. Le procedure dell'Inquisizione.
CAPITOLO UNDICESIMO: LA RESISTENZA CATARA.
1. L'organizzazione della resistenza.
2. Il santuario di Montségur.
3. La rivolta e la sconfitta di Raimondo Settimo.
CAPITOLO DODICESIMO: L'ASSEDIO DI MONTSEGUR.
1. L'assedio.
2. Il rogo.
CONCLUSIONE.
APPENDICI.
TAVOLA CRONOLOGICA.
BIBLIOGRAFIA.
INTRODUZIONE
Mentre Filippo Augusto, il più grande dei sovrani che hanno regnato prima di Enrico
Quarto, 'faceva la Francia' nelle pianure fiamminghe (1), un certo numero di vassalli, posti sotto
l'egida della Chiesa cattolica, la 'facevano' a modo loro, nelle terre della Linguadoca.
La storia ci insegna che il vincitore di Bouvines, in caso di necessità, sapeva mostrarsi duro e
spietato, ma si può essere certi (il precedente dell'annessione della Normandia ne è la prova [2])
che se avesse potuto avrebbe agito diversamente, e la vergogna dei massacri, dei roghi e delle
torture, di cui resta macchiata per sempre la memoria dei crociati che combatterono contro gli
Albigesi, non avrebbe infangato gli annali della storia di Francia.
Tuttavia, se si prescinde da qualsiasi considerazione di ordine sentimentale o morale, se ci si
limita a guardare realisticamente le cose, si ha modo di riconoscere che la presa di possesso
della Linguadoca da parte della corona francese è un evento di importanza capitale per la
Francia, che ne ha tratto inestimabili vantaggi; nel senso che quell'evento inaugura la
trasformazione interna ed esterna, modella il nuovo volto della Francia, le dà una nuova
struttura.
L'annessione della Normandia aveva aperto alla Francia gli sbocchi marittimi del Nord, la
sottomissione della Linguadoca le offrì la chiave del bacino del Mediterraneo, ciò che, oltre a
incalcolabili benefici commerciali, lasciava intravedere per l'avvenire un nuovo orientamento
della politica francese, in direzione dell'Italia. D'altra parte il regno, ancora fortemente
impregnato della sua essenza germanica, si trovava esposto a contatti sempre più stretti con lo
spirito occitanico, erede dello spirito latino così come la provincia della Linguadoca, per forza
di cose, dovette subire l'insediamento di una feudalità clericale e militare franco-borgognona,
che veniva sostituendosi a un regime sociale mitigato, fondato sull'interdipendenza delle città e
dei castelli. Aveva così inizio quel processo di rimescolamento delle razze e delle civiltà da cui
sarebbe uscita la futura grandezza della Francia.
Ma non si potrebbe dimenticare il prezzo pagato per questo risultato: i lunghi, terribili anni
(trentacinque) durante i quali una popolazione pacifica, ma fermamente risoluta a vivere e
morire nella fede che le era cara, vide dilagare sul suo territorio orde di massacratori, di predoni
e di incendiari che brandivano la croce in una mano, la spada nell'altra. Questo lungo e
straziante martirio, che avrebbe avuto il suo epilogo nelle fiamme del mostruoso rogo acceso ai
piedi di un monte ormai sacro, viene evocato dalla presente opera in tutto il suo orrore; e tengo
a esprimere l'ammirazione che mi ispira lo sforzo sovrumano del suo autore il quale, dando
prova di un'oggettività infinita, propenso più a scusare che a condannare le atrocità commesse
nel nome di Cristo, ha condotto a termine senza cedimenti il compito gravoso che si era
assunto.
Gérard Walter NOTE.
(1) Si veda il precedente volume della collana «Trente journées qui ont fait la France»: J.
Duby, "Le dimanche de Bouvines. 27 juillet 1214", Gallimard, Paris (trad. it. di G. Vivanti, "La
domenica di Bouvines. 27 luglio 1214", Einaudi, Torino, 1977).
(2) Ivi.
Capitolo primo
PRELIMINARI DELLA CROCIATA.
1. L'ESORDIO.
Il 10 marzo 1208, Innocenzo Terzo, papa della cristianità, lanciò solennemente un appello
alle armi, e predicò a genti cristiane una crociata contro un paese cristiano. Questa crociata era
giustificata e necessaria: gli eretici che popolavano questo paese erano «peggio dei Saraceni».
L'appello del papa giungeva quattro anni dopo la presa di Costantinopoli da parte degli
eserciti crociati. Il nemico da combattere era Raimondo Sesto, conte di Tolosa, cugino del re di
Francia, cognato del re d'Inghilterra e del re d'Aragona, legato per omaggio a questi tre re e
all'imperatore di Germania; duca di Narbonne, marchese di Provenza, sovrano feudale la cui
autorità si estendeva sulle regioni di Agen, Quercy, Rouergue, Albi, Comminges, Carcassonne e
sulla contea di Foix - insomma, uno dei grandi principi della cristianità occidentale, primo
signore di tutte le terre della Linguadoca.
In un'epoca nella quale il potere era nelle mani della nobiltà e tutti i nobili, dai re ai semplici
proprietari fondiari, erano per definizione guerrieri, la guerra era una necessità permanente e i
principi cristiani trovavano sempre buone ragioni per invadere le terre dei loro vicini. Ma il
secolo precedente aveva visto fiorire, quindi declinare, l'immenso slancio dei popoli
d'Occidente verso la Terra Santa: nel dodicesimo secolo il pellegrino-guerriero (pur
perseguendo assai spesso finalità materiali) aveva la certezza di combattere per Dio. La nobiltà,
decimata sui campi di battaglia della Palestina, mal si rassegnava all'inutilità dei sacrifici che si
era imposta, e le guerre locali, che pure era obbligata a condurre, le sembravano modeste e
insignificanti.
Ai tempi della quarta crociata, Simone di Montfort, cavaliere la cui passione per la guerra è
indubbia, si rifiutò di muovere contro una città cristiana e di mettersi al servizio del doge
anziché del papa. Se la maggior parte dei crociati non seguì il suo esempio e, dopo la presa di
Zara, città cattolica, si lanciò su Costantinopoli, lo scandalo di una crociata deviata dal suo vero
obiettivo lasciò alla cavalleria franca un sentimento di disillusione, malgrado l'attrattiva sempre
viva delle conquiste e dei saccheggi. La crociata stava diventando una strada senza sbocco. La
Terra Santa, benché sempre più minacciata, attirava solo pochi appassionati; e per numerosi
cavalieri e uomini d'armi questo modo di guadagnarsi il perdono divino coprendosi di gloria sui
campi di battaglia era divenuto un'abitudine, talvolta una vera passione, spesso una necessità
materiale.
Che pensare di questa crociata, nuova per genere, che il grido d'allarme del papa imponeva
alla cristianità? Quando si pone mente al cosmopolitismo della nobiltà di un'epoca come questa,
in cui la cavalleria inglese parlava francese, in cui i poeti spagnoli e italiani scrivevano in lingua
d'oc, in cui i "Minnesinger" tedeschi andavano a scuola dai trovatori, in cui l'inestricabile
complessità dei legami feudali e l'intrecciarsi dei matrimoni politici avevano finito per creare
legami di vassallaggio e di parentela fra tutti i grandi signori della cristianità occidentale,
sembra difficile immaginare che una guerra santa contro il conte di Tolosa sia potuta divenire
realtà.
L'anatema lanciato da Roma in quel giorno del marzo 1208 sulla terra occitana divide in due
la storia della cristianità cattolica. La santificazione di una guerra mossa contro un popolo
cristiano era destinata a distruggere per sempre l'autorità morale della Chiesa e a corromperla
fin nel profondo. Quel che il papa pensava essere un'operazione di polizia, occasionale e
imposta dalle circostanze, doveva trasformarsi, sotto il peso degli avvenimenti, in oppressione
sistematica, e Roma divenire, per milioni di cristiani d'Occidente, oggetto di odio e di
disprezzo.
Le circostanze che avevano condotto Innocenzo Terzo ad accanirsi contro il conte di Tolosa
giustificavano, a priori, l'appello del papa: l'eresia dilagava nelle terre sottomesse, direttamente
o indirettamente, all'autorità del papa e il 14 gennaio 1208 il legato pontificio, Pietro di
Castelnau, era stato assassinato a Saint-Gilles da un ufficiale di Raimondo Sesto.
L'assassinio di un legato - ambasciatore plenipotenziario del papa - era un crimine capitale,
che giustificava una dichiarazione di guerra. La Chiesa non era, almeno in via di principio, una
potenza temporale; essa poteva rispondere a questo sanguinoso affronto solo con punizioni di
ordine spirituale. Quelle di cui essa disponeva erano temibili: davanti alla scomunica e
all'interdetto i re si inchinavano acconsentendo a sconvolgere le loro alleanze politiche e la loro
vita privata per evitare i fulmini della Chiesa.
Scomunicato per l'assassinio di Tommaso Becket, nel 1170, il re Enrico Secondo
d'Inghilterra aveva ottenuto il perdono del papa solo dopo un'onorevole ammenda e una
pubblica umiliazione; la Francia non aveva ancora dimenticato i lunghi mesi di interdetto che
aveva dovuto subire nel 1200 a causa dell'illegale divorzio di Filippo Augusto. La scomunica
faceva di chi ne era oggetto un uomo morto per la società civile, e scioglieva i suoi parenti e i
suoi sudditi da qualsiasi obbligo nei suoi confronti; l'interdetto paralizzava la vita di un paese,
escludendo il popolo da ogni partecipazione a quei sacramenti e a quelle pratiche religiose che
erano, per la maggior parte dei cristiani, necessari quanto il pane quotidiano.
Il papa intervenne durante l'elezione dell'imperatore e cercò di imporre il suo candidato
contro la volontà dei principi tedeschi; lanciò l'interdetto sull'Inghilterra a causa dell'ostinazione
del re Giovanni a scegliersi un arcivescovo di suo gradimento. Filippo Augusto si sottomise,
Giovanni si umiliò e restituì la sua corona per riprenderla dalle mani del legato. Il re d'Aragona,
principe cattolico impegnato in una perpetua crociata contro i Mori, si recò a Roma a prestare
giuramento al papa e a riceverne la corona, tanto era cosciente del fatto che l'amicizia di Roma
rappresentava una garanzia di stabilità interna. Innocenzo Terzo era un papa che intendeva
trattare tutti i re cattolici come suoi vassalli.
Ma pronunciando la scomunica contro il conte di Tolosa il papa sapeva che le sue armi
consuete non avevano alcun potere, e che era vano condannare all'interdetto una terra che,
ormai quasi apertamente, si staccava dalla Chiesa di Roma.
Il crimine di Raimondo era di governare un paese dove il potere della Chiesa era in declino,
e di non fare nulla per rimediare a questo stato di cose. La crociata scatenata contro una terra
cristiana da mille anni aveva per fine dichiarato la destituzione di un sovrano legittimo, e
proprio per questo troppo incline a schierarsi dalla parte dei suoi sudditi. Per salvare la Chiesa
dal pericolo che correva nel Mezzogiorno della Francia bisognava sottomettere il paese a
un'autorità straniera che avesse il coraggio di agire senza riguardi. Il programma di
quest'operazione di largo respiro è già tracciato nella lettera che Innocenzo Terzo inviò al re di
Francia prima dell'assassinio del legato: «A te cacciare il conte di Tolosa dalla terra che occupa
e toglierla ai settari per donarla a dei buoni cattolici che possano, sotto il tuo felice dominio,
servire fedelmente il Signore» (1).
I territori sottomessi al conte di Tolosa erano da più di un secolo un notorio focolaio di
eresia. In tutti i paesi cristiani focolai più o meno importanti di eresia esistevano stabilmente fin
dai tempi della fondazione stessa della Chiesa. All'epoca delle crociate, non solo i paesi slavi,
ma tutta l'Italia settentrionale erano terreno di lotte incessanti fra cattolici ed eretici. Nel
Mezzogiorno della Francia gli eretici, senza essere la maggioranza, costituivano da tempo una
parte importante della popolazione. La Chiesa non se ne dava pace, lanciava scomuniche,
combatteva con tutti i mezzi - compreso il ricorso al braccio secolare - ma i suoi sforzi, almeno
in questo paese, si dimostravano sempre più inefficaci; l'eresia, o meglio le eresie,
guadagnavano terreno un po' ovunque con velocità crescente. Da più di quattro anni Innocenzo
Terzo si rendeva conto che solo una grande spedizione armata avrebbe avuto qualche possibilità
di trionfare sull'eresia.
L'omicidio di Pietro di Castelnau era stato uno di quegli assassinii politici dei quali (ancor
più che dell'esecuzione del duca di Enghien) si potrebbe dire che sono qualcosa di più di un
crimine: sono un errore. Ci sono del resto buone ragioni per credere che il conte non l'avesse
ordinato.
Legato del seggio apostolico in Linguadoca, Pietro di Castelnau, arcidiacono di Maguelonne
e monaco dell'abbazia cistercense di Fontfroide, lottava da tempo contro l'opposizione dei
poteri pubblici all'autorità della Chiesa.
Per convertire i ribelli, Pietro di Castelnau si era lanciato in una intensa attività politica. Con
il suo compagno Arnaldo Amalrico, abate di Cîteaux, Pietro di Castelnau se la prese prima con i
prelati della Linguadoca, sospetti di favorire (o quantomeno di tollerare) l'eresia: nel 1205
sospese dal suo ufficio il vescovo di Béziers, poi il vescovo di Viviers. In seguito i due legati
fecero istruire il processo contro il primate d'Occitania, Berengario Secondo, arcivescovo di
Narbonne, che non si lasciò intimidire ed entrò in lotta con gli inviati del papa.
Infine, sul finire del 1207, Pietro riunì una lega di baroni meridionali, lega destinata a
perseguitare gli eretici; ammonito ad associarsi a questa lega, Raimondo Sesto rifiutò. Come
dice Pietro di Vaux de Cernay, l'uomo di Dio (Pietro di Castelnau) spinse i signori di Provenza a
rivoltarsi contro il loro sovrano (2). Ma c'è di più: di fronte all'irritazione del conte, il legato gli
tenne testa, lo scomunicò pubblicamente, lanciò l'interdetto sulla contea e finì per scagliare
contro il conte il suo anatema: «... chi vi spodesterà farà bene, chi vi colpirà a morte sarà
benedetto». Ma la scomunica fece il suo effetto: il conte di Tolosa si sottomise e nuovamente
promise quanto si pretendeva da lui.
Dopo un colloquio molto tempestoso con il conte, a Saint-Gilles, Pietro di Castelnau e il suo
compagno, il vescovo di Couserans, lasciarono la città. L'indomani mattina, nel momento in cui
gli inviati del papa si preparavano ad attraversare il Rodano, un ufficiale del seguito del conte si
lanciò sul legato e lo trapassò con la spada.
La breve sintesi dell'attività di Pietro di Castelnau prova ampiamente che il legato non era un
personaggio comodo e che non temeva affatto di farsi dei nemici. Ma in un momento in cui i
rapporti fra il conte di Tolosa e la Chiesa erano già molto tesi, l'uccisione di un ambasciatore
della Santa Sede doveva essere la goccia che fa traboccare il vaso. Innocenzo Terzo, che da
tempo meditava una crociata contro un paese contaminato dall'eresia, non attendeva che un
fatto concreto, eclatante, di natura tale da colpire l'immaginazione e da giustificare una
dichiarazione di guerra.
Il papato non aveva eserciti al suo soldo. Le crociate, guerre abbastanza popolari durante il
secolo precedente, malgrado la partecipazione di re e principi erano anzitutto guerre di
volontari: il papa non poteva costringere il re di Francia a farsi crociato, e non fu capace di
persuaderlo. Il successo dell'impresa dipendeva solamente dalla buona volontà dei signori
grandi e piccoli che avessero acconsentito a prendervi parte. Il papa fece quindi inviare delle
lettere a tutti i vescovi di Francia, per dare inizio a una campagna di propaganda in favore della
nuova crociata.
I missionari, forti della veste bianca di Pietro di Castelnau imbrattata di sangue,
proclamarono nelle chiese di Francia la gran pietà di un paese lasciato in pasto all'eresia. Il
legato Arnaldo Amalrico - dice Guglielmo di Puylaurens - vedendosi incapace di ricondurre a
Dio le pecore smarrite, «raggiunse la Francia, che è sempre stata il soldato di Dio; si intese con
il re e i baroni, mentre gli uomini del popolo, adatti a questa missione, si misero a predicare in
nome dell'autorità apostolica la guerra contro gli eretici, che comportava indulgenze analoghe a
quelle che si accordano abitualmente ai crociati che attraversano il mare per andare in soccorso
alla Terra Santa» (3).
«...Che colui che non si farà crociato non beva mai più vino, non mangi più sulla tovaglia, né
alla sera né al mattino, non si vesta più di canapa o di lino, e alla sua morte sia seppellito come
un cane (4)!». Queste parole, che l'autore della "Chanson de la Croisade" mette in bocca ad
Arnaldo Amalrico durante il suo viaggio a Roma, non possono essere state pronunciate a Roma,
poiché a quell'epoca il legato si trovava in Francia. Ma senza dubbio esse riflettono con una
certa fedeltà il tono dei discorsi di questo personaggio scontroso. Il successo della propaganda
fu tale che il re di Francia, dopo aver cercato in un primo tempo di contenere un movimento che
rischiava di fargli perdere una parte dei suoi soldati in un momento in cui poteva averne
bisogno, dovette ben presto rinunciare a questo tentativo.
Arrivavano volontari dalla Normandia e dalla Champagne, dall'Anjou e dalle Fiandre, dalla
Piccardia e dal Limousin; contadini e borghesi si facevano crociati insieme ai cavalieri, e
andavano a radunarsi sotto le insegne dei loro signori e dei loro vescovi. Non si può valutare
esattamente quale fosse la consistenza di quest'armata; le cifre degli storici sono assai
imprecise. E' certo tuttavia che fu un esercito imponente per quei tempi, la cui potenza
impressionò i contemporanei.
2. I CROCIATI.
Prima di esaminare con cura in che cosa consistette l'eresia che provocò la crociata albigese,
e prima di farci un'idea di come fosse il paese che doveva diventare il teatro di uno dei più
crudeli drammi della nostra storia, bisogna capire chi fossero gli uomini che hanno avuto il
coraggio di muovere guerra contro un paese cristiano che non li aveva attaccati e al quale erano
vicini per razza e per lingua.
Abbiamo visto sopra che le crociate erano da tempo entrate nel costume della nobiltà
occidentale. Oltre alle quattro grandi crociate c'erano state, durante il dodicesimo secolo,
innumerevoli spedizioni militari condotte dai grandi signori a loro spese, spedizioni alle quali
partecipavano non solo i vassalli di questi signori, ma anche numerosi volontari di ogni rango e
di ogni condizione. Molti di questi eserciti erano guidati da vescovi. La maggioranza dei
crociati erano francesi, sia del meridione sia del settentrione. L'impero cristiano fondato nel
vicino Oriente era un impero franco; aveva incessantemente bisogno di nuovi rinforzi e i regni
cristiani d'Occidente pagarono per cent'anni un pesante tributo in vite umane alla Terra Santa. I
pellegrini-guerrieri non erano tutti animati da un entusiasmo puro e disinteressato. Si trattava in
gran parte di avventurieri e di ambiziosi, ma l'approvazione senza riserve che la Chiesa
accordava a quelle pie imprese che erano le crociate conservava, negli uomini che prendevano
la croce, la certezza di servire Dio e di salvare l'anima facendo un mestiere che, in circostanze
differenti, era quanto mai nocivo alla salvezza: situazione davvero invidiabile per un soldato. I
crociati della Terra Santa beneficiavano delle indulgenze accordate dal papa: chi aveva
partecipato a una crociata guadagnava il perdono dei suoi peccati e aveva, per di più, buone
occasioni per arricchirsi e acquistare una buona reputazione.
Il principio di queste imprese doppiamente vantaggiose era seducente, ma le disfatte e il
progressivo disgregarsi dell'impero franco di Siria e Palestina scoraggiavano chi andava in
cerca d'avventure. Il nuovo impero latino di Costantinopoli sembrava offrire possibilità
migliori, ma non aveva lo stesso potere d'attrazione del Santo Sepolcro; ciononostante un buon
numero di soldati, soprattutto in Francia, aveva bisogno di una crociata come un musulmano ha
bisogno di un pellegrinaggio alla Mecca. Non desta dunque meraviglia che l'appello del papa
abbia incontrato un'accoglienza favorevole nelle province della Francia settentrionale.
Le indulgenze promesse per questa nuova crociata erano analoghe a quelle che erano state
accordate ai crociati della Terra Santa; ma l'impegno, in questo caso, era molto minore. Inoltre,
la crociata era un comodo sistema per sospendere il pagamento dei debiti e per mettere i propri
beni al riparo da eventuali contestazioni: i beni di un crociato erano infatti dichiarati intoccabili
per tutto il tempo in cui egli restava alla crociata. E' molto probabile, in effetti, che una buona
parte dell'esercito crociato fosse composta - tanto fra i cavalieri quanto fra i borghesi e gli
uomini del popolo - sia da peccatori ansiosi di ottenere il perdono divino, sia da gente che
affogava nei debiti e sperava così di sfuggire alla persecuzione dei creditori, ma soprattutto da
gente che, avendo già fatto il voto di recarsi in Terra Santa, era felice di scampare quest'obbligo
partecipando a una crociata meno lunga e meno penosa.
Se un gran numero di crociati erano professionisti della guerra, sempre felici di trovare una
onorevole occasione per battersi, non bisogna comunque dimenticare che l'esercito che si
preparava e si organizzava per la partenza nei castelli, nelle sale d'armi dei comuni, nei recinti
imbandierati e nelle sale di guardia dei palazzi principeschi e vescovili era un esercito di uomini
che si facevano cucire sull'abito da guerra una croce. Il solo fatto di prendere la croce era, anche
per i più tiepidi, un simbolo abbastanza eloquente da provocare l'entusiasmo.
Ma in che modo l'anatema del papa ha potuto trasformare, da un giorno all'altro, il conte di
Tolosa in un pagano e in un infedele? La Linguadoca non era separata dalla Francia dal mare o
da migliaia di leghe; era tuttavia un paese straniero, se non nemico. I grandi baroni meridionali,
gelosi in primo luogo della loro indipendenza, si appoggiavano ora al re di Francia ora al re
d'Inghilterra, stabilivano alleanze con il re d'Aragona e con l'imperatore: il legame di
vassallaggio che legava il conte di Tolosa al re di Francia era assai debole. Gran vassallo della
corona, il conte non era per il re nemmeno un alleato, ma un vicino poco sicuro, sempre pronto
a favorire la politica del re d'Inghilterra (che era suo cognato e zio del suo unico figlio) e quella
dell'imperatore. I grandi baroni della lingua d'oïl, senza essere tutti fedeli sudditi del re di
Francia, erano Francesi per tradizione e per cultura e non pensavano a fare causa comune con
coloro che chiamavano (non senza un certo disprezzo) i Provenzali.
Fra i grandi baroni che presero la croce, i primi furono Odo Secondo, duca di Borgogna, ed
Erveo Quarto, conte di Nevers: questi signori ben sapevano perché andavano a battersi, l'eresia
era già penetrata nei loro territori, ed essi avevano dunque buone ragioni per volerne arrestare
l'espansione. Cavalieri come Simone di Montfort o Guido di Lévis erano animati da un sincero
zelo per quella che consideravano la causa di Dio. Questi combattenti disinteressati, questi
'soldati di Dio' dovevano essere assai numerosi all'interno dell'armata crociata che si riunì in
seguito all'appello di Innocenzo Terzo; la nobiltà francese da tempo aveva preso l'abitudine di
confondere i suoi personali interessi con quelli di Dio.
La fede di crociati che, per la gloria di Dio, non esitavano a sterminare i loro simili, può
apparirci sorprendente e di mediocre qualità. Forse non lo era sempre: la morale semplicemente
umana non valeva quando sembravano in gioco gli interessi di Dio. Questi interessi potevano
avere un carattere singolarmente terreno, ma nessuno ne era turbato, tanto Dio sembrava vicino
agli affari degli uomini. Come e forse più che negli altri paesi cristiani, la fede in Francia era
profonda e viva, e proprio per questo terribilmente attaccata alle sue manifestazioni esteriori. Il
senso del sacro che impregnava la vita sociale e la vita privata arrivava sino a un simbolismo
preso alla lettera, che a noi sarebbe facile considerare feticismo. Esaminando la storia della
guerra contro gli Albigesi non bisogna dimenticare che oltre alle variabili politiche ce ne furono
altre, sentimentali o passionali, senza le quali questa guerra forse non avrebbe potuto aver
luogo, o almeno non avrebbe potuto assumere il carattere particolarmente cruento che la
contrassegnò. Questa guerra non fu solo affare di qualche fanatico o di qualche ambizioso, né
fu solo la reazione della Chiesa romana contro l'eresia; essa corrispondeva all'espressione
profonda di una certa forma della civiltà occidentale, di una certa concezione del mondo e di
Dio.
Abbiamo parlato dell'aspetto in qualche modo terreno della fede degli uomini del
dodicesimo e del tredicesimo secolo, poiché sembra che in quest'epoca l'aspirazione a inserire il
soprannaturale in forme sempre più concrete, sempre più coerenti, abbia raggiunto un vigore in
precedenza sconosciuto.
Mettendo al bando oppure monopolizzando a suo vantaggio le antiche mitologie latine e
celtiche, la Chiesa aveva trasformato i santi in personaggi folclorici, gli dei o semidei in santi; e
il cristiano viveva in un mondo nel quale la vita dei santi e i racconti sacri svolgevano in certo
modo la funzione cui rispondono, nella nostra epoca, il teatro, il cinema, i giornali illustrati e i
racconti delle balie. La letteratura profana e la letteratura popolare, alquanto estranee alla
religione, figuravano ancora fra i generi minori o riservati a una ristretta élite; lo slancio
creativo dei popoli dell'Occidente, giovani, avidi di novità, appassionati di poesia fin negli strati
più umili, era quasi interamente canalizzato da una vita religiosa che spesso assumeva l'aspetto
di un paganesimo appena cristianizzato.
Si è potuto dire che le cattedrali erano la Bibbia dei poveri, o ancor più: il gran libro tramite
il quale il fedele entrava in contatto con la storia, le scienze, la morale, i misteri del passato e
dell'avvenire. Ciò che resta delle cattedrali del dodicesimo secolo ci dà solo un'idea incompleta
della loro magnificenza. Non dimentichiamoci infatti che non solo l'interno, ma anche l'esterno
era dipinto e dorato; che le statue e i timpani dei grandi portali erano policromi; che le navate,
sovraccariche di affreschi, erano per di più ornate di arazzi, di tessuti orientali, di orifiamme di
seta ricamate d'oro; che gli altari, i reliquiari, le immagini miracolose rappresentavano tesori di
valore incalcolabile, tanto per la quantità dei materiali preziosi quanto per la bellezza della
lavorazione.
Il popolo era povero; la borghesia già ricca, ma egoista, come ogni borghesia; la nobiltà
ostentatamente spendacciona; i prelati spesso impegnati a imitare i nobili nelle loro guerre
come nel loro fasto. Se cattedrali di una ricchezza tanto inaudita sono potute sorgere in terre
incessantemente devastate dalle carestie, dagli incendi, dalle guerre grandi e piccole, dalle
epidemie e da ogni forma di banditismo, si deve credere che la fede degli uomini di quei tempi
fosse di una tempra tutta particolare. Questo ostinato desiderio di incarnare, di materializzare il
divino, mostra al contempo un amore profondo per la materia e il mondo creato e un discreto
disprezzo per la vita umana. E' la fede degli adoratori di reliquie che ha edificato le cattedrali.
Gli uomini della Francia settentrionale non erano certo tutti ferventi seguaci del papato: nel
1204 i vescovi francesi tennero testa ai legati che volevano costringere Filippo Augusto alla
pace con l'Inghilterra; i baroni hanno sempre sostenuto aspre lotte d'interesse con gli abati e i
vescovi, mentre il popolo non è mai stato felice di pagare le decime. Ma ciò non toglie che il
popolo francese fosse, all'epoca, profondamente cattolico e attaccato ai suoi costumi religiosi,
alle sue chiese, ai suoi luoghi di pellegrinaggio, come a un patrimonio nazionale. Ora, l'eresia
che aveva conquistato i territori occitani aveva un carattere così violentemente contrario a tutte
le manifestazioni della vita della Chiesa, che i missionari inviati dal legato Arnaldo a predicare
la crociata non dovevano fare alcuno sforzo per provocare l'indignazione delle folle contro i
'nemici di Dio'.
I racconti che Pietro di Vaux de Cernay aveva diffuso dovevano essere oggetto di
conversazione e di commento in tutte le città della Francia, e non erano certo i soli, né i più
atroci. L'immagine dell'uomo che profana l'altare di una chiesa, quella dei soldati del conte di
Foix che fanno a pezzi un canonico e si servono delle braccia e delle gambe di un crocifisso per
pestare delle spezie dovevano assillare la mente anche dei credenti più tiepidi. Gli eretici
profanavano i calici e dicevano che chi riceve l'ostia introduce in sé un demonio;
bestemmiavano contro i santi e li proclamavano dannati. Le parole del papa: «Sono peggio dei
Saraceni» corrispondevano alla più stretta verità. Quanti ascoltavano gli inviati di Roma non
erano particolarmente sensibili ai valori dell'umanesimo: il pensiero di un crocifisso mutilato
senza dubbio li rivoltava più di quello di un uomo fatto a pezzi.
Il re, che ragionava da uomo politico, non sembrava preoccuparsi più di tanto per i progressi
dell'eresia; era tanto poco favorevole alla crociata quanto poteva esserlo senza che la sua
posizione diventasse sconveniente, e scrisse a papa Innocenzo Terzo che non si sarebbe fatto
crociato se non a due condizioni: che il papa obbligasse il re d'Inghilterra a non attaccare più la
Francia e che ordinasse un'imposta speciale per finanziare la crociata. D'altra parte dubitava
della legittimità dell'operazione. Nel febbraio 1209, mentre in tutte le province si radunavano le
milizie, affluivano i doni e i capi organizzavano la spedizione, Innocenzo Terzo scrisse a
Filippo Augusto: «E' specialmente a te che noi affidiamo gli interessi della Chiesa di Dio.
L'armata dei fedeli che si muove per combattere l'eresia deve avere un unico capo cui obbedire.
Noi supplichiamo la tua Serenità Regale di scegliere, con un atto derivante dal tuo personale
potere, un uomo attivo, prudente e leale, che ben conduca in battaglia, sotto la tua bandiera, i
campioni della causa santa» (5). Il re non solo rifiutò la presenza sua e quella di suo figlio, ma
anche la responsabilità di inviare un suo delegato che agisse in suo nome. La crociata - per la
quale il papa voleva servirsi del re di Francia come dello strumento legale e secolare della
giustizia divina - restò quel che di fatto era: una guerra intrapresa dalla Chiesa. I baroni che
presero la croce erano soldati della Chiesa e il capo che l'armata si scelse fu il legato del papa,
l'abate di Cîteaux, Arnaldo Amalrico. Il turno del re di Francia venne solo più tardi.
Dei baroni che nel 1209 presero la croce conosciamo i nomi di Odo Secondo, duca di
Borgogna, e di Erveo Quarto, conte di Nevers, già citati; di Gaucher di Châtillon, conte di
Saint-Pol, di Simone di Montfort, di Pietro di Courtenay, di Tebaldo, conte di Bar, di
Guicciardo di Beaujeu, di Gualtieri di Joigny, di Guglielmo di Rocher, siniscalco di Anjou, di
Guido di Lévis, e di altri ancora. Ma anche i vescovi erano capi militari: gli arcivescovi di
Reims, di Sens, di Rouen; i vescovi di Autun, di Clermont, di Nevers, di Bayeux, di Lisieux, di
Chartres presero la croce, conducendo ciascuno un corpo di spedizione composto sia di soldati
veri e propri sia di pellegrini del tutto ignari delle arti della guerra, ma impazienti di servire la
causa di Dio.
Passato un anno dalla morte di Pietro di Castelnau, la Linguadoca vedeva prendere forma la
minaccia che incombeva su di lei.
Il conte di Tolosa, personaggio che poteva ispirare qualche rispetto a crociati del suo rango,
era screditato dalle voci che l'accusavano di aver preso parte all'assassinio del legato. Ma questo
crimine forse non sarebbe bastato a sollevare la riprovazione generale, dal momento che gli
stessi baroni di Francia erano sempre in lotta con il clero; i propagandisti si trovarono quindi
costretti a rendere più fosco il quadro. Pietro di Vaux de Cernay, fedele interprete della fazione
estremista del partito della crociata, dipinge a bella posta un ritratto odioso del principe.
I suoi costumi sono esecrabili: non rispetta per nulla il sacramento del matrimonio; peccato
veniale: fra i baroni dell'epoca i mariti fedeli sono piuttosto rari. Il fatto è che egli si è sposato
ben cinque volte, e due delle mogli ripudiate sono ancora in vita. C'è di più: in gioventù egli ha
sedotto alcune delle concubine di suo padre; rimprovero un po' tardivo: il conte ha ora
cinquantadue anni. La sua partecipazione all'omicidio di Pietro di Castelnau è risaputa (benché
il papa stesso non avesse osato confessare che una quasi certezza). Per provare le sue
asserzioni, il cronista racconta che Raimondo Sesto aveva condotto l'assassino attraverso i suoi
domini, e l'aveva mostrato dicendo a quanti l'ascoltavano: «Vedete quest'uomo? E' il solo che
mi ami veramente e che abbia saputo fare quel che desideravo...» (6). Queste parole
sembrerebbero dettate dalla più amara ironia; ma Raimondo Sesto non poteva concedersi
scherzi simili. Politico prudente, sempre attento a non urtare alcun partito, anche se avesse
ordinato l'assassinio del legato (ciò che è poco probabile), il conte di Tolosa non poteva non
sconfessarne l'esecutore. Se non lo punì fu per rispetto dell'opinione pubblica del suo paese: chi
aveva ucciso l'impopolare legato era senza dubbio guardato dai suoi come un eroe.
Il papa e i capi della crociata non si sbagliavano; era l'intero paese che portava la
responsabilità di questo crimine, e il conte doveva essere consegnato all'esecrazione delle folle
solo in quanto capo di quel paese. Il suo errore - bisogna riconoscerlo - era enorme agli occhi di
ogni fedele: egli non si accontentava dell'indifferenza, sembrava incoraggiare apertamente
l'eresia.
Su questo punto le testimonianze sono numerose ma sospette, in quanto provengono dai
nemici del conte. Egli - si diceva - si circonda di eretici e mostra il più grande rispetto nei loro
confronti, addirittura pensa di far educare suo figlio dai loro ministri. La sua empietà è palese:
non si limita a perseguitare sistematicamente chiese e conventi; assistendo alla messa fa
parodiare dal suo buffone i gesti del celebrante. Lo si vede prosternarsi di fronte ai ministri
eretici; un giorno, in un momento di collera, grida: «Ben si vede che è il diavolo che ha creato il
mondo, niente va come vorrei!». Insomma, la Chiesa (nella persona di Pietro di Vaux de
Cernay, uomo incline a una certa violenza verbale, ma indubbiamente buon interprete dei
sentimenti del suo ambiente) considera il conte come «membro del diavolo, figlio della
perdizione, criminale incallito, fabbrica di peccati» (7); Innocenzo Terzo in persona non è
affatto più tenero: «tiranno empio e crudele, uomo pestilenziale e insensato» (8).
Ma è proprio qui che la Chiesa e i crociati incontrarono una delle maggiori difficoltà della
loro impresa: le cose erano meno semplici di quanto essi non amassero credere. Il tiranno
empio compì un brusco voltafaccia e ricordò ai suoi avversari che era pur sempre il signore di
una terra cristiana. Dopo aver tentato di far intervenire in suo favore il re di Francia e
l'imperatore di Germania (grave errore: essendo i due monarchi ai ferri corti, ciascuno non
perdonò al conte il suo passo presso l'altro), Raimondo Sesto si dichiarò figlio obbediente della
Chiesa, pronto a sottomettersi a qualsiasi condizione il papa volesse imporgli.
Questa decisione del conte di Tolosa è stata severamente criticata dagli storici, che vi hanno
visto una prova di viltà, o quantomeno di debolezza. Ma Raimondo Sesto non apparteneva certo
a quel genere di uomini che dicono: 'Tutto è perduto, fuorché l'onore'; il suo onore personale
sembrava interessargli poco, egli cercava di limitare i danni. Non bisogna dimenticare che i suoi
sudditi erano in maggioranza cattolici, e che i disagi della guerra rischiavano quindi di colpire
tanto loro quanto gli eretici. Ai suoi sudditi cattolici il conte doveva questa prova di buona fede,
che al contempo tagliava l'erba sotto i piedi dei suoi nemici: se il nemico da combattere non era
più lui, contro chi partivano in guerra? Quel nemico senza volto rappresentato dall'eresia non
aveva né esercito, né quartier generale, né piazzeforti, né papa, né re; la guerra, privata del suo
obiettivo definito, perdeva la metà della sua ragion d'essere.
Ma era davvero troppo tardi per arrestare lo slancio dell'esercito di Dio. La sottomissione del
conte non disarmò nessuno: essa, piuttosto, esasperò l'odio dei suoi avversari, i quali vedevano
la loro posizione indebolita da questa manovra, che tuttavia faceva ben poco nell'interesse della
Chiesa. E l'armata dei soldati di Cristo invase un paese cosciente di subire una flagrante
ingiustizia, e trasformò una guerra di religione in una guerra nazionale.
3. LA TERRA OCCITANA.
Mentre i crociati si preparavano alla guerra, Innocenzo Terzo, pur lanciando al conte di
Tolosa tutte le maledizioni divine e umane, negoziava con lui. Il conte prometteva
sottomissione totale. Chiedeva solo di trattare i termini della sua capitolazione con un legato
differente da Arnaldo Amalrico, suo nemico giurato. Il papa gli mandò Milone, notaio del
Laterano, accompagnato dal canonico genovese maestro Teodosio. Se il conte credeva di avere
a che fare con giudici più clementi si sbagliava: i due uomini si sarebbero limitati a obbedire
agli ordini dell'abate di Cîteaux. «E' l'abate di Cîteaux che continuerà a gestire la cosa... -
avrebbe detto Innocenzo Terzo a Milone - tu non sarai che il suo strumento: lui è sospetto al
conte, tu no».
In effetti il papa voleva fare un gioco sottile, opponendo una falsa clemenza a una falsa
sottomissione. Ecco che cosa scrisse ai suoi mandatari (l'abate di Cîteaux e i vescovi di Riez e
di Couserans): «Ci è stato insistentemente chiesto quale atteggiamento i crociati dovessero
assumere nei confronti del conte di Tolosa. Seguiamo il consiglio dell'apostolo che ha detto:
'Sono stato astuto, vi ho preso con l'inganno...'. Usate una saggia dissimulazione: all'inizio
lasciatelo [il conte] stare, per agire contro i ribelli. Sarà meno facile schiacciare questi satelliti
dell'Anticristo se li si sarà lasciati raggrupparsi per resistere insieme. Niente di più facile,
invece, che spuntarla qualora il conte non accorra in loro aiuto; e forse la vista del disastro lo
farà tornare in se stesso. Se invece insisterà nei suoi malvagi disegni, si potrà, dopo averlo
isolato e ridotto alle sue sole forze, chiudere il discorso anche con lui, sopraffacendolo senza
grandi sforzi».
Fu a Saint-Gilles, luogo della morte di Pietro di Castelnau, che si svolse nel giugno 1209 la
cerimonia di onorevole ammenda: sembra che prima di abbattere il suo avversario la Chiesa,
nella persona dei legati, abbia voluto mostrare al popolo quanto valesse la potenza dei grandi di
questa terra in confronto alla potenza divina.
Tre arcivescovi e diciannove vescovi vennero riuniti nella grande chiesa di Saint-Gilles,
quella magnifica chiesa che ancor oggi ci dà un'idea di quali fossero il fasto e la religiosità dei
conti di Tolosa. Una folla di alti dignitari, di vassalli, di chierici si accalcò all'interno della
chiesa e sul sagrato. Fra i due grandi leoni che proteggono l'ingresso del portale principale
erano disposte reliquie di Cristo e dei santi. Il conte, con indosso l'abito del penitente, la corda
al collo, un cero in mano, nudo sino alla cintola, venne condotto sul sagrato e lì, con la mano
sulle reliquie, giurò obbedienza al papa e ai legati. Allora Milone gli posò sul collo la sua stola,
lo assolse e, colpendogli la schiena con un fascio di verghe, lo fece entrare in chiesa. La folla,
che entrò anch'essa al suo seguito, era tanto compatta che egli non poté più uscire, e dovette
passare per la cripta dove giaceva sepolto il corpo di Pietro di Castelnau. I contemporanei, che
vedevano segni ovunque, interpretarono questa coincidenza come una giusta punizione per il
presunto crimine.
Prima di questa severa cerimonia, il conte aveva dovuto sottoscrivere le seguenti condizioni:
doveva fare onorevole ammenda di fronte a tutti i vescovi e a tutti gli abati con i quali era in
conflitto; spogliarsi dei suoi diritti sui vescovadi e sugli istituti religiosi; cacciare le truppe di
mercenari che difendevano i suoi territori; non affidare più cariche pubbliche a ebrei; non
proteggere più gli eretici e consegnarli ai crociati; considerare eretiche tutte le persone
denunciate come tali dal clero; rimettersi alla decisione dei legati per tutte le querele sporte
contro di lui; osservare e far rispettare tutte le clausole delle paci e delle tregue stabilite dai
legati. In breve, con quest'atto di sottomissione il conte accettava una vera e propria dittatura
della Chiesa sulle sue terre; evidentemente egli pensava che le clausole di questo trattato
difficilmente potevano essere messe in pratica, e riteneva che il tempo avrebbe senza dubbio
lavorato per lui.
Non appena assolto, Raimondo Sesto assunse un'iniziativa inaspettata: domandò di prendere
lui stesso la croce. Questa decisione, da parte di un principe che aveva sempre fatto il possibile
per tenersi buoni gli eretici, è un po' sorprendente. «... Nuova perfidia! - scrive Pietro di Vaux
de Cernay - Quest'uomo prendeva la croce solo per rendere se stesso e i suoi beni intangibili, e
per dissimulare i suoi progetti nefasti» (9). Che le cose stessero così sembrerebbe evidente. Ma
Raimondo Sesto pensava di conquistarsi la fiducia del pontefice scavalcando i legati, dei quali
ormai disperava. In effetti il 26 luglio Innocenzo Terzo gli scrisse: «Dopo essere stato per molti
oggetto di scandalo, eccoti divenuto un modello... Noi vogliamo solo il tuo bene e il tuo onore.
Puoi star sicuro che non sopporteremo che ti si faccia torto se non lo meriti» (10). Linguaggio
diplomatico, forse non molto impegnativo; ma Raimondo Sesto giocò questa carta fino in
fondo.
Il conte di Tolosa non è solo il protagonista principale del dramma che stava per essere
rappresentato in Linguadoca: la sua personalità è come l'emblema delle contraddizioni, delle
debolezze, delle virtù e delle disgrazie del suo paese; la sua condotta non è tanto il risultato dei
suoi impulsi personali, buoni o cattivi che fossero, quanto il riflesso della situazione nella quale
si trovava la terra occitana all'epoca del disastro. Il carattere del conte scompare dinnanzi al
ruolo che egli dovette svolgere; e non si può nemmeno dire che il compito sia stato troppo
gravoso per le sue spalle. Egli sembra identificarsi con la causa del suo popolo al punto da
apparire molto di più di un capo: un sovrano veramente legittimo, la cui funzione fu quella di
essere il simbolo del suo popolo e il servitore degli interessi dei suoi sudditi. Con le sue
debolezze e i suoi difetti egli - rispetto ai suoi avversari disumanizzati dalla fede, dal fanatismo,
dall'ambizione o semplicemente dall'ignoranza - rimane umano fino in fondo. Raimondo Sesto
aveva commesso un errore carico di conseguenze troppo gravi per essere lasciato impunito in
un'epoca nella quale i popoli venivano giudicati e condannati sulla base della condotta dei loro
principi: era stato un sovrano tollerante.
La tolleranza allora non passava certo per virtù e Raimondo Sesto, sicuramente, non si vantò
mai di possederla. I suoi antenati, compreso suo padre, avevano mandato gli eretici al rogo,
proprio come i re loro vicini. Ma verso la fine del dodicesimo secolo l'eresia aveva fatto
progressi tali che, per rispettare davvero la lettera della legge, si sarebbero dovute bruciare sul
rogo migliaia di persone riducendo alla povertà intere province. Il conte non poteva più
perseguitare gli eretici per la buona ragione che essi rappresentavano ormai una parte troppo
importante dei suoi sudditi. Quel che negli altri paesi era ancora uno scandalo mostruoso
diveniva nel Mezzogiorno della Francia una specie di male inevitabile, al quale bisognava
rassegnarsi, e che alla lunga finì per non sembrare più un male. «... Perché dunque - domandò
Folco, vescovo di Tolosa, al cavaliere Pons Adhémar - non li disperdete [gli eretici] e non li
cacciate dalle vostre terre?» «Non possiamo - rispose il cavaliere - Siamo cresciuti con loro,
alcuni di loro sono nostri parenti, e li vediamo vivere onestamente». Lo storico (Guglielmo di
Puylaurens) commenta: «Così l'errore, sotto il velo ipocrita di una vita onorevole, nascondeva
la verità a questi spiriti poco illuminati» (11).
Questi i fatti. Ma bisognerebbe cercare di comprendere come un paese di lunga e solida
tradizione cattolica fosse potuto giungere a quest'accettazione tacita di una religione che aveva
per fine dichiarato la totale distruzione della Chiesa. Per farlo occorrerebbe gettare un rapido
sguardo sulla storia della terra occitana nel dodicesimo secolo, sulla sua situazione politica e
sociale e, soprattutto, sul clima morale e spirituale di queste province, che erano all'epoca uno
dei grandi centri della civiltà occidentale.
I territori sottomessi alla sovranità del conte di Tolosa erano vasti quasi quanto quelli
direttamente soggetti alla corona francese, ma 'il paese di lingua occitana' - della lingua d'oc -
non era una grande potenza; era però un paese indipendente. Teoricamente il conte di Tolosa era
vassallo del re di Francia. Lo era molto meno del conte di Champagne o del duca di Borgogna;
Parigi è lontana da Tolosa, la lingua del Nord non era quella del Sud, il potere del re di Francia
nel Mezzogiorno era puramente nominale. D'altra parte, il conte di Tolosa doveva parte dei suoi
domini al re d'Inghilterra, sovrano altrettanto lontano e altrettanto teorico. Alcuni dei grandi
vassalli del conte di Tolosa erano al contempo vassalli del re d'Aragona, che personalmente
deteneva in piena Linguadoca Montpellier e le viscontee di Carlat e di Millau. Arles
apparteneva all'impero. Una simile molteplicità di sovrani era di per se stessa garanzia
d'indipendenza. Se l'imperatore era lontano, se il re d'Inghilterra era troppo occupato nella
difesa dei suoi troppo vasti domini contro la crescente potenza dei re di Francia, se il re
d'Aragona - che avrebbe desiderato ingrandire i suoi possedimenti al di là dei Pirenei - era preso
dalla sua perenne lotta contro i Mori, se il re di Francia cercava di estendere il suo dominio
verso le frontiere naturali delle terre che circondavano la sua, il conte di Tolosa poteva stare
tranquillo. I suoi sovrani, in lotta per spartirsi le rispettive zone d'influenza, non erano per lui
dei padroni, ma dei virtuali protettori.
Eppure questo quadro è ancora troppo semplice: la contea di Tolosa subì, nel corso del
dodicesimo secolo, le invasioni degli Inglesi e degli Aragonesi, che devastarono il Tolosano e il
Rouergue. Raimondo Quinto, il padre di Raimondo Sesto, passò la vita a difendersi contro i
suoi pericolosi protettori; e nel 1181 egli contò - nei ranghi degli alleati del suo avversario, il re
d'Aragona - i suoi principali vassalli: i conti di Montpellier, di Foix e di Comminges, e il
visconte di Béziers. Avendone sposata la sorella Costanza, Raimondo Quinto era cognato di
Luigi Settimo che, difatti, venne in suo soccorso contro gli Inglesi. Il conte si comportò con la
moglie di quest'ultimo in modo tale che ben presto si vide obbligato a rompere l'amicizia con
lui e a trasferire il suo omaggio al Plantageneto; ma il vecchio re d'Inghilterra, Enrico Secondo,
era in lotta con il figlio Riccardo Cuor di Leone che, alla testa della sua armata di mercenari,
invase il Tolosano. Tutto questo mostra come la politica dell'altalena avesse i suoi pericoli. I
conti di Tolosa però non rinunciavano alla loro indipendenza. I re di Francia, d'Inghilterra e di
Aragona davano loro in spose le proprie sorelle e ricercavano la loro alleanza: sulle loro terre i
Raimondo non dovevano obbedienza a nessuno.
Questi stessi conti di Tolosa, tuttavia, non erano più padroni delle loro province di quanto i
re di Francia lo fossero della contea di Tolosa. I Trencavel, visconti di Béziers, avevano un
dominio che comprendeva le regioni di Carcassonne, di Albi e il Razès, e i loro territori, che si
estendevano dal Tarn ai Pirenei, erano feudi del re di Aragona. Durante tutto il dodicesimo
secolo i conti di Tolosa lottarono vanamente contro la potenza dei Trencavel. I conti di Foix,
trincerati nelle loro montagne, non erano maggiormente sottomessi all'autorità dei conti di
Tolosa, con i quali si alleavano solo per combattere i Trencavel. Le leghe dei vassalli contro il
conte si formavano e si dissolvevano incessantemente, a seconda degli interessi di ciascun
partecipante.
Esempi simili darebbero un'immagine desolante della situazione politica della Linguadoca
prima della crociata se non si tenesse conto del fatto che lo stesso, o quasi, accadeva in tutti i
regni dell'Occidente: che i re di Francia hanno dovuto battersi contro leghe di vassalli; che in
Inghilterra la lotta sistematicamente condotta dai feudatari contro il potere sovrano mise capo
alla "Magna Charta"; che Germania e Italia erano teatro di guerre croniche, che andavano dai
conflitti per il trono imperiale alle rivalità di campanile. Insomma, in un'epoca come questa, in
cui il legame morale che vincolava l'uomo al suo signore e alla sua Chiesa era una forza reale e
indiscutibile, i comportamenti concreti sembravano ispirarsi al proverbio popolare che recita:
'Ciascuno è padrone a casa propria'.
Questi uomini che non parlavano mai di libertà agivano quasi sempre come se non avessero
altro ideale e altro bene da difendere che la propria libertà. Le città si rivoltavano contro i loro
legittimi signori per timore di vedersi restringere la libertà di governarsi da sole, i vescovi
tenevano testa ai re o ai papi, i signori facevano la guerra ai vescovi: tutti sembravano
considerare una questione d'onore il rifiuto di ogni costrizione. Nel Sud della Francia, paese di
antica civiltà, ricco, orgoglioso del suo passato e desideroso di progresso, simili sentimenti
avevano raggiunto il culmine.
Abbiamo appena visto che il conte di Tolosa non era padrone dei suoi vassalli; meglio, sulle
terre che per tradizione gli erano fedeli egli non era in grado di reclutare un esercito e doveva
far ricorso a mercenari. Spesso, se voleva rivolgersi ai suoi vassalli, non aveva nessuno cui
indirizzarsi. Mentre al Nord l'eredità di un signore alla sua morte passava al figlio primogenito,
nel Sud il feudo veniva diviso fra tutti i figli, di modo che, dopo tre generazioni, un castello
poteva appartenere a cinquanta o sessanta 'cosignori', i quali a loro volta, per matrimonio o
successione, potevano essere 'cosignori' anche di altri castelli: le grandi proprietà non avevano
un capo, ma al massimo un gestore. Fratelli e cugini non sempre si accordavano fra loro; un
feudo, anche se importante, non rappresentava come in Francia un'unità militare.
Il conte non era padrone nemmeno delle grandi città, repubbliche autonome che obbedivano
al loro sovrano solo nella misura in cui questi le lasciava tranquille. In questa terra di transito e
di commercio, la prosperità delle città era più grande e più appariscente che in qualsiasi altro
paese. I privilegi della borghesia erano immensi. Ogni abitante di una città diveniva uomo
libero il giorno stesso che vi si insediava, e la sua qualità di cittadino garantiva così bene la sua
sicurezza che nessun potere diverso dai tribunali della sua città, anche se avesse commesso un
delitto a cento leghe di distanza, aveva diritto di giudicarlo.
La città era governata da consoli, sopravvivenza del diritto romano che ancora informava di
sé le fondamenta della giurisdizione locale. I consoli, o magistrati municipali, erano eletti fra i
borghesi e i nobili della città; ma qui borghese e cavaliere erano uguali di diritto e di fatto:
segno, questo, di un indebolimento dello spirito di casta che la nobiltà del Nord non perdonò né
ai nobili né ai borghesi del Meridione. Il ricco borghese era un gran signore, così sicuro dei suoi
diritti da tener testa al cavaliere. Per la difesa delle loro libertà i borghesi non indietreggiavano
dinanzi a nulla: così, nel 1161, i cittadini di Béziers uccisero il loro visconte e bastonarono il
loro vescovo nella chiesa della Maddalena. Questo crimine, è vero, diede luogo a terribili
rappresaglie; ma lo spirito d'indipendenza di queste piccole repubbliche non faceva che
forgiarsi ed esasperarsi nella lotta contro gli abusi di potere dei principi.
In mezzo a questo disordine organizzato, la Chiesa, potenza sovranazionale, in linea di
principio disciplinata e obbediente a un unico capo, era condannata dalla forza stessa delle cose
a cedere al contagio. In quanto potenza temporale essa veniva crudelmente perseguitata; la sua
ricchezza eccitava ogni cupidigia, la sua autorità sembrava costituire una sfida all'indipendenza
di tutti; i vescovi facevano la voce grossa e usavano il pugno di ferro, sentendosi di diritto
padroni del paese, dopo Dio e il papa. In realtà, nulla giustificava le loro pretese, essendo essi,
in Linguadoca come del resto ovunque, dei grandi feudatari che disponevano di vaste terre e di
notevoli rendite, spesso più preoccupati della difesa dei loro interessi che della direzione
spirituale degli abitanti delle loro diocesi. Avevano una scusante. Bisognava urlare con i lupi; il
patrimonio terreno della Chiesa era una garanzia della sua indipendenza morale, e questo
patrimonio veniva seriamente minacciato.
Indocili alla voce del papa, i vescovi erano per di più estremamente impopolari nelle loro
diocesi: il popolo non li sosteneva contro gli attacchi dei signori feudali, e rimproverava loro il
lusso, l'indifferenza verso i poveri, la passione per le crociate. Gli abati, anch'essi principi sulle
loro terre, non erano visti meglio per la ricchezza dei loro conventi. Il basso clero, trascurato dai
superiori, cadeva in un discredito tale che i vescovi stentavano a reclutare nuovi sacerdoti e
ordinavano i primi che capitavano. Secondo il parere di tutti gli scrittori cattolici dell'epoca, nel
Sud della Francia la Chiesa non godeva né di autorità né di prestigio: era 'morta'.
Le popolazioni cattoliche, quindi, erano costrette ad accontentarsi di una Chiesa che avrebbe
indotto in tentazione anche i migliori, oppure a cercare una risposta alternativa alle loro
aspirazioni spirituali.
L'elenco dei fatti citati sin qui tenderebbe a far apparire la Linguadoca come una specie di
inferno in cui regnavano discordia e anarchia; in realtà, la vita vi era meno dura che altrove, e il
paese aveva persino una sua unità. Quest'unità, semplicemente, era più interiore che esteriore,
era l'unità di una civiltà, il legame invisibile che crea fra i figli di una stessa terra un comune
modo di pensare e di sentire. Non era solo la sua ricchezza che obbligava il cavaliere a
rispettare il borghese, e il popolo testimoniò sempre amore e incondizionato rispetto a quei
conti di Tolosa eternamente assorbiti dalle loro dispute con i vescovi e i vassalli.
A dispetto delle periodiche guerre, che del resto occupavano solo un ristretto numero di
combattenti, ma causavano sempre danni alle campagne, il popolo non era povero. Alcune
testimonianze del tempo (si veda Stefano, abate di Sainte-Geneviève, futuro vescovo di
Tournai) (12) ci informano che le strade erano malsicure, infestate da Baschi e da Aragonesi,
che le campagne erano in fiamme, che le case cadevano in rovina: i baroni meridionali, nelle
loro guerre, in mancanza di eserciti regolari assoldavano briganti. Ma i villaggi lungo le grandi
strade erano rari, la maggior parte o erano borghi fortificati o dipendevano da una città, e il
contadino era spesso un borghese che coltivava la sua vigna sotto le mura della sua città. La
terra era fertile e la prosperità delle città si rifletteva sulla vita dei contadini. Non solo i
cittadini, ma anche molti contadini erano uomini liberi; in molti feudi l'assenza di un signore
unico faceva sì che i servi non dipendessero praticamente da nessuno.
Il cittadino era un privilegiato: non solo era libero, ma veniva protetto dalla comunità cui
apparteneva; il crescente sviluppo del commercio e dell'artigianato consentiva di sollevare
anche il popolino alla dignità di una classe forte e consapevole dei suoi diritti.
La potenza della borghesia giocò un ruolo preponderante nell'evoluzione della Linguadoca.
La terra dei trovatori era la terra del gran commercio, la terra nella quale l'importanza sociale
del borghese cominciò a eclissare quella del nobile. E' vero che, per snobismo o per un residuo
complesso di inferiorità, i borghesi si sforzavano ancora di acquistare titoli nobiliari, ma questo
era per loro un lusso gratuito; quando una borghesia viene trattata alla pari dalla nobiltà
significa che di fatto è lei la più forte.
Il Rodano e la Garonna erano le grandi arterie sulle quali circolavano tutte le mercanzie e le
materie prime, da sud a nord e da nord a sud. Marsiglia, Tolosa, Avignone, Narbonne erano
grandi porti commerciali sin dall'antichità. Le crociate, che avevano arricchito tutte le città
d'Occidente, avevano fatto la fortuna della Linguadoca, terra di passaggio, chiave dell'Oriente.
Quanti partivano venivano ad acquistarvi l'equipaggiamento necessario, quanti tornavano vi
vendevano il bottino che si erano presi. La nobiltà locale, avventurosa e vagabonda, spesso si
trovò costretta a vendere a poco prezzo le sue terre e i suoi beni ai banchieri che finanziavano le
spedizioni in Terra Santa. I comuni comprarono dai sovrani, sempre a corto di soldi, le loro
libertà e i loro privilegi, che non si lasciarono più sottrarre. I cittadini non riconoscevano altri
padroni che i loro consoli, il conte di Tolosa non aveva autorità legale nella sua stessa città e
veniva obbedito solo nella misura in cui rispettava la legislazione del comune.
Ogni cittadino aveva diritto di vendere, di acquistare, di scambiare senza tasse né imposte. I
matrimoni erano liberi. I sudditi di paesi stranieri godevano dei diritti dei cittadini, senza
distinzioni di religione e di razza. Il comune era il centro della vita sociale. L'elezione del
console era una grande festa pubblica, che eguagliava nello sfarzo le feste religiose: si
svolgevano processioni e si suonavano le campane di tutte le chiese. La vita del cittadino, dalla
nascita alla morte, era legata alla vita della città; e la benedizione nuziale data dal sacerdote non
eguagliava per solennità il momento in cui gli sposi, condotti dinanzi ai consoli vestiti con le
loro toghe rosse bordate d'ermellino, presentavano le loro offerte di fiori e di frutta. La vita
pubblica del comune, pur completamente penetrata dello spirito e dei riti della religione, fu un
grande fattore di laicizzazione.
Centri di commercio, le città meridionali erano di un'opulenza che quelle del Nord, non
senza ragione, invidiavano loro: Parigi non poteva paragonarsi a Tolosa, né Troyes o Rouen ad
Avignone. La magnificenza delle chiese romaniche del Sud risparmiate dai secoli o dalle guerre
possono aiutarci a immaginare quale dovesse essere la bellezza di queste città di grandi traffici
e di grande artigianato, sedi di attività produttive e artistiche, centri religiosi e culturali di primo
piano. Le grandi città possedevano scuole di medicina, di filosofia, di matematica, di astrologia;
non solo Tolosa, ma Narbonne, Avignone, Montpellier, Béziers erano già, prima ancora della
creazione formale delle università, città universitarie. A Tolosa la filosofia aristotelica veniva
insegnata secondo le recenti scoperte dei pensatori arabi quando a Parigi era ancora proibita
dalle autorità ecclesiastiche, un fatto, questo, che accrebbe notevolmente il prestigio della sua
scuola.
Un contatto permanente con il mondo musulmano era stato stabilito assai presto grazie ai
mercanti e ai medici arabi venuti sia dall'Oriente sia attraverso i Pirenei; gli infedeli non erano
più considerati nemici. Gli ebrei, numerosi e potenti com'erano in tutti i centri commerciali, non
potevano più esser tenuti al di fuori della vita pubblica per un pregiudizio religioso: i loro
medici e i loro professori godevano, nelle città, di una stima generale, e avevano scuole ove
tenevano dei corsi gratuiti, a volte pubblici, ai quali gli studenti cattolici non trovavano per
nulla sconveniente assistere. Si conoscono i nomi del dottore Abramo, di Beccaria, del saggio
Simeone e del rabbino Giacobbe, a Saint-Gilles. L'influenza degli apocrifi ebraici e musulmani
si estese fra il clero e persino fra il popolo. Ma c'è di più: c'erano ebrei fra i consoli e i
magistrati di alcune città.
Sia stato un bene o un male, una cosa è certa: in Linguadoca la vita laica stava decisamente
prendendo il sopravvento su quella religiosa, rischiando di soffocarla.
La nobiltà seguiva la corrente. Alcuni storici ce la dipingono come vana, futile, 'degenerata',
altri vi vedono invece la migliore incarnazione dello spirito cavalleresco e cortese dell'epoca. E'
comunque indubbio che si trattava, per lo più, di una nobiltà imborghesita, ben educata, più
civile che militare, anche se in caso di necessità la cavalleria occitana non era per nulla inferiore
a quella del Nord. Insomma, si trattava di una nobiltà che cominciava a dimenticare che la sua
prima vocazione, la sua tradizionale ragion d'essere, stava nel mestiere delle armi; ciò che non
le impediva di essere battagliera, essa anzi diveniva terribilmente agguerrita quando erano in
gioco i suoi interessi.
In un paese parcellizzato e decentralizzato, dove non c'erano più grandi cause da difendere,
ciascuno si batteva per proprio conto; i nemici di ieri divenivano gli amici di oggi e viceversa,
con la più grande facilità, finché alla lunga le piccole rivalità locali non venivano prese sul serio
nemmeno dai diretti interessati. Del resto, nobili e borghesi, se non sempre si intendevano fra
loro, si accordavano almeno nell'usurpare sistematicamente i diritti della Chiesa, potenza
indebolita, impopolare, quindi facile da attaccare. I vescovi si rovinavano nelle guerre che
dovevano sostenere contro baroni grandi e piccoli. Questo genere di guerre non aveva, agli
occhi dei nobili, nulla di esaltante. D'altronde la loro mente era altrove.
Era passato il tempo in cui la Chiesa, quasi da sola, produceva quella che potremmo
chiamare la classe degli intellettuali. Da più di un secolo il laico aveva conquistato il diritto alla
parola scritta e la lingua letteraria dei paesi cristiani non era più il latino. La letteratura
cominciava ad assumere un ruolo sempre più importante nella vita non solo delle classi
superiori, ma anche della classe media. Francesi del Nord, Tedeschi e Inglesi erano grandi
lettori di romanzi, mentre il teatro profano faceva la sua (ancor timida) apparizione accanto al
teatro religioso, e la poesia e la musica divenivano necessità quotidiana anche per la piccola
nobiltà e la borghesia.
E' un fatto curioso che il Mezzogiorno della Francia non abbia lasciato letteratura
romanzesca. La sua letteratura poetica, in compenso, è la prima d'Europa sia per antichità, sia
per qualità di ispirazione. La sua superiorità è universalmente riconosciuta; veniva imitata fin
nei paesi di lingua germanica e, per i poeti francesi, italiani e catalani, la lingua occitana era la
lingua letteraria per eccellenza. (Non a caso Dante aveva in un primo tempo ipotizzato di
scrivere la "Divina Commedia" in lingua d'oc).
Se ci è impossibile pensare alla nobiltà del Sud della Francia senza evocare immediatamente
il nome dei trovatori, è per il fatto che questa nobiltà era realmente, smodatamente,
appassionata di poesia e cercava di mettere in pratica, a suo modo, gli ideali letterari dell'epoca.
Verrebbe da dire che essa non aveva i piedi per terra, ma a esaminare meglio le cose appare
chiaro che era più realista di quanto non fosse, per esempio, la nobiltà dei tempi di Luigi
Quattordicesimo, che considerava onore supremo assistere al risveglio del re. L'onore, per il
gentiluomo meridionale del dodicesimo secolo, si traduceva in un certo disprezzo dei beni di
questo mondo, unito a un'esaltazione smisurata della propria personalità. Che cos'era
l'adorazione della donna, dell'amante meravigliosa e inaccessibile, se non il desiderio di
proclamare che, se si ha un culto, questo non è rivolto alla divinità comune a tutti, bensì a un
oggetto scelto per un libero consenso della volontà? Alcuni commentatori si sono spinti fino a
pretendere che la donna fosse il simbolo vuoi della Chiesa catara, vuoi di qualche rivelazione
esoterica; ed è vero che i poemi di certi trovatori hanno accenti abbastanza simili a quelli dei
poeti mistici arabi. Senza dubbio questa non è che una reminiscenza letteraria, poiché all'epoca
nessuno ha considerato questa poesia altro che poesia amorosa. Ma ciononostante la poesia dei
trovatori sembra cantare innanzitutto un metodo di perfezionamento morale e spirituale
conseguibile attraverso l'amore, più che l'amore in sé. Quei tormenti, quei sospiri, quelle lunghe
attese, quelle morti metaforiche ci appaiono intensamente sincere e al tempo stesso un po'
irreali. E' la bellezza del suo animo che il poeta sembra ammirare attraverso le sue sofferenze.
Con la sua stravagante prodigalità (basti citare l'esempio di quel signore di Venous che, per
bravata, fece bruciare vivi trenta cavalli sotto gli occhi dei suoi invitati), con la sua infatuazione
per le arti apparentemente più inutili e la sua sete d'amori irrealizzabili, questa società
turbolenta, egoista, inquieta fu testimone di un modo di vivere che non mancava di nobiltà.
Sotto un'apparente frivolezza si nascondeva forse un desiderio di distacco, un rifiuto di
prendere sul serio cose che non lo meritano. Giunto il giorno del pericolo, superata l'iniziale
sorpresa, la nobiltà occitana seppe battersi e diede prova di un patriottismo intransigente, talora
feroce; la sua debolezza politica non fu affatto il segno di una mancanza di vitalità.
Sappiamo, in ogni caso, che questa nobiltà era non solo indulgente nei confronti dell'eresia,
ma che ne è stata sempre più apertamente il sostegno. La crociata era stata giudicata necessaria
proprio perché la nuova religione aveva conquistato la sola classe della popolazione che
avrebbe potuto difendere con le armi la causa della Chiesa.
La terra occitana, formalmente e di fatto paese cattolico, era divenuta terra di eresia in modo
del tutto naturale, senza scontri, senza vere rivolte. La nuova dottrina vi si era così ben
impiantata che era ormai impossibile distinguere il buon grano dal loglio: bisognava rinunciare
a qualsiasi intervento, oppure rassegnarsi a colpire a caso. Durante questa guerra spietata che
durò oltre dieci anni gli eretici sembrarono essere un semplice pretesto; i capi della crociata
mirarono a schiacciare l'intero paese.
Ma la crociata, lungi dal distruggere l'eresia, le restituì nuove forze, tanto che ci volle un
secolo per venirne a capo, e solo al prezzo di soffocare progressivamente le forze vive del
paese.
NOTE.
(1) 10 marzo 1204.
(2) Pietro di Vaux de Cernay, cap. 3.
(3) Guglielmo di Puylaurens, cap. 10.
(4) "Chanson de la Croisade", cap. 6, 131-134.
(5) Lettera di Innocenzo Terzo a Filippo Augusto, 9 febbraio 1209.
(6) Pietro di Vaux de Cernay, cap. 64.
(7) Pietro di Vaux de Cernay, cap. 4.
(8) Lettera di Innocenzo Terzo a Raimondo Sesto, 20 maggio 1207.
(9) Pietro di Vaux de Cernay, cap. 3.
(10) Lettera di Innocenzo Terzo a Raimondo Sesto.
(11) Guglielmo di Puylaurens, cap. 9.
(12) "Lettres d'Etienne de Tournai", edite dal Desilve, Valenciennes, Paris 1893.
Capitolo secondo

L'ERESIA E GLI ERETICI.


1. LE ORIGINI.
L'esistenza delle eresie è inseparabile dall'esistenza stessa della Chiesa: dove c'è dogma, c'è
eresia; e fin dalle origini, la storia della Chiesa cristiana fu una lunga sequela di lotte contro
svariate eresie, lotte altrettanto aspre e sanguinose di quelle che opponevano le comunità
cristiane alle comunità non cristiane. Ma a partire dal sesto secolo, l'Europa occidentale, mal
ripresasi dallo choc delle invasioni e sempre soggetta alla minaccia di nuove aggressioni,
godette di una relativa stabilità religiosa e, almeno in teoria, l'autorità della Chiesa veniva
rispettata (1).
Ma l'eresia, o meglio le eresie, pullulavano ovunque. Sopravvivenze dell'arianesimo e del
manicheismo, già sconfitti, risorgevano incessantemente, ora con un tacito compromesso con
l'ortodossia, ora in aperta opposizione a essa. Gli abusi inevitabilmente connessi all'esistenza di
una Chiesa istituzionalizzata provocavano inoltre continue proteste e davano origine a
movimenti riformatori che spesso assumevano caratteri ereticali, divergendo dalla dottrina
ufficiale. Le eresie facevano la loro comparsa nelle campagne, dove forse costituivano un
retaggio appena cristianizzato del misticismo celtico; nei conventi, dove erano il frutto delle
meditazioni di monaci dallo spirito avventuroso; sulle cattedre di teologia; nelle città, ove
assumevano la forma di rivolte a sfondo sociale.
Nel Nord Italia e nel Sud della Francia Roma doveva però fronteggiare una situazione del
tutto differente: non si trattava più di individuali e locali manifestazioni di indipendenza, ma di
una vera e propria religione rivale, che si veniva impiantando nel cuore della cristianità e
guadagnava terreno assicurando di essere la sola autentica religione. I mezzi di persuasione
tradizionalmente impiegati dalla Chiesa per riconquistare i figli che si allontanavano da lei
cozzavano contro un muro solidissimo: questi eretici non erano più dei cattolici dissidenti, essi
attingevano la loro forza dalla coscienza di appartenere a una religione che non aveva mai avuto
nulla a che fare con il cattolicesimo, una religione più antica della Chiesa.
(D'altro canto, non bisogna perdere di vista il fatto che buona parte degli eretici, sia in Italia
sia in Francia, era costituita da valdesi e da appartenenti ad altre sette di tendenza riformatrice,
che alla lunga, con una politica più comprensiva, la Chiesa sarebbe senza dubbio riuscita a
ricondurre entro il suo seno. Ma poiché questi movimenti di riforma un po' estremisti finirono
per essere confusi con la grande eresia, il catarismo, è di questo che innanzitutto dobbiamo
parlare.) La religione dei catari - o dei 'puri' - proveniva dall'Oriente. I contemporanei hanno
giudicato i seguaci di questa religione come manichei e ariani; ma la maggior parte delle sette
eretiche comparse nell'Europa occidentale a partire dall'undicesimo secolo sono state
considerate 'manichee'. Era, più che altro, un semplice modo di dire: gli eretici non si
richiamavano mai a Mani, ed è certo che le varie chiese a tendenza dichiaratamente manichea
che si erano impiantate in Spagna, nell'Africa settentrionale e nella stessa Francia avevano da
tempo rinunciato a questa temibile filiazione, che li votava agli anatemi e ai roghi. Non
esistevano più manichei, ormai c'erano solo 'cristiani'.
Alcuni storici (F. Niel) si sono spinti fino a sostenere che il catarismo non era un'eresia, ma
una religione che non aveva più nulla in comune con il cristianesimo. Sarebbe più esatto dire
che non aveva nulla in comune con il cristianesimo così come questo si era formato nel corso di
dieci secoli di storia. La religione catara era una religione che risaliva ai tempi in cui i dogmi
non si erano ancora cristallizzati; ai tempi in cui il mondo antico, nel confronto con la nuova
fede, si muoveva a tentoni, provava, cercava in ogni modo di assimilare una dottrina che gli era
estranea, che era troppo dinamica e troppo viva, e le cui contraddizioni apparenti e reali non
erano tali da rassicurare gli spiriti avidi di chiarezza.
Lo gnosticismo, tentativo di sintesi fra filosofia antica e cristianesimo, negando la possibilità
della creazione del male e della materia da parte di Dio, venne ben presto condannato dai Padri
della Chiesa, ma non scomparve mai completamente; il suo spirito rimase sempre vivo entro le
Chiese d'Oriente e la sua influenza sulla tradizione occidentale fu maggiore di quanto non si
creda. Gli gnostici influenzarono la dottrina di Mani che, erede della religione persiana, credeva
nell'esistenza di due principi essenziali, Bene e Male. Mani influenzò a sua volta lo
gnosticismo; e perciò la grande tradizione dualista - che d'altronde penetrò attraverso canali
sotterranei anche nel cristianesimo ortodosso - portò il nome di manicheismo.
Dopo essere stati crudelmente perseguitati, dopo aver dato vita a potenti sette in Europa, in
Asia e persino in Cina, i manichei propriamente detti sparirono, e il nome di Cristo fece
dimenticare quello di Mani. I pauliciani, setta manichea che tendeva apertamente a
cristianizzare il manicheismo, erano forti in Armenia e in Asia Minore; vinti dai Greci nell'872,
dovettero sottomettersi e molti di loro vennero deportati nella penisola balcanica per ordine
dell'imperatore. E' qui che si formò il primo nucleo di quella Chiesa che divenne, più tardi, la
Chiesa catara.
Dal settimo secolo un popolo venuto dall'Asia, i Bulgari, aveva stabilito un regno nei
Balcani, a sud del Danubio. E' in questo regno che i pauliciani deportati esercitarono la loro
missione, nel momento in cui (nell'undicesimo secolo) le popolazioni slave della Bulgaria
venivano contemporaneamente evangelizzate dai Latini e dai Greci. Una forma di catarismo
simile a quello conosciuto nel Sud della Francia fece la sua comparsa nel decimo secolo in
Bulgaria sotto il nome di bogomilismo.
Non sappiamo se il fondatore di questa religione si chiamasse davvero Bogomil ('amato da
Dio'), se quest'appellativo fosse un semplice soprannome oppure se, in conformità a una
tendenza corrente fra gli Slavi, questo nome serva a designare un personaggio simbolico e
collettivo che, per mancanza di informazioni precise, si è finito per prendere per un uomo
realmente esistito. Gli autori ortodossi dell'epoca parlano anche di un pope Geremia. Le origini
della setta sono oscure, la sua diffusione rapida, il suo dinamismo incontestabile. Non solo i
bogomili, a dispetto delle persecuzioni - infatti le loro tendenze rivoluzionarie preoccupavano le
classi dirigenti - divennero sempre più numerosi in Bulgaria, ma essi mandarono ben presto dei
missionari in tutto il Mediterraneo. La nuova religione penetrò in Bosnia e in Serbia, dove
prosperò al punto da figurare spesso come religione di stato, per venire annientata solo nel
quindicesimo secolo dall'invasione turca.
Nell'undicesimo secolo i bogomili diffusero la loro dottrina nell'Italia settentrionale e nella
Francia meridionale; non sappiamo quali fossero state, in questi paesi, le sopravvivenze
manichee che permisero una così rapida assimilazione del catarismo bulgaro; ma la fede catara,
moltiplicandosi come per lievitazione, conquistò a tal punto queste regioni che, dalla metà del
dodicesimo secolo, essa divenne una religione semiufficiale (benché perseguitata), dotata di sue
tradizioni, di una sua storia, di una sua organizzazione gerarchica. Il movimento cominciava a
uscire da una clandestinità sempre più inutile. Nel 1167 il vescovo bulgaro Nikita, o Niceta,
(detto il 'papa' dei catari, certamente per una confusione con il termine 'pope', sacerdote) giunse
da Costantinopoli per confermare nella vera tradizione le giovani chiese della Linguadoca e
riunì un concilio dei ministri e vescovi catari a Saint-Félix de Caraman, presso Tolosa. Questo
solo fatto ci mostra fino a che punto la Chiesa catara tenesse a proclamare la sua universalità, la
sua unità sovranazionale, di fronte alla Chiesa di Roma. Non si trattava più di una setta, né di
un movimento d'opposizione alla Chiesa istituzionale; si trattava di una vera Chiesa.
I poteri pubblici, spaventati dall'ampiezza del movimento, tentarono una manovra
intimidatoria. Il conte di Tolosa, Raimondo Quinto, pensò addirittura a una crociata cui
avrebbero dovuto partecipare i re di Francia e d'Inghilterra. Il papa Alessandro Terzo inviò il
cardinale legato Pietro di San Crisogono a Tolosa, alla testa di un'importante delegazione.
Nell'impossibilità di ricercare e di perseguitare gli eretici, troppo numerosi, il legato si
accontentò di dare un esempio: fece prendere e flagellare pubblicamente Pietro Maurand, un
cittadino di Tolosa noto per la sua amicizia con gli eretici, un vecchio ricco e venerato da tutti.
Esiliato per tre anni in Terra Santa, Pietro Maurand fece ritorno a Tolosa per esservi
trionfalmente eletto magistrato municipale: la mossa degli inviati pontifici era riuscita solo ad
aumentare la popolarità della nuova fede.
E' facile spiegare il successo del catarismo considerando le carenze dei poteri ecclesiastici,
l'avidità dei borghesi e dei nobili, sempre pronti ad attaccare, sotto qualsiasi pretesto e senza
alcun rimorso, i beni della Chiesa, il gusto degli uni e degli altri per la novità. Il terreno,
insomma, era favorevole alla nascita di una nuova religione. Ma un terreno favorevole non
spiega molto. Le ragioni del successo straordinario di questa religione vanno ricercate nella
religione stessa.
2. IL DOGMA.
Non è il caso di esaminare qui in modo minuzioso i dogmi e il pensiero della Chiesa catara:
innanzitutto perché anche le poche informazioni di cui disponiamo su questa Chiesa
fornirebbero il materiale per parecchi volumi; inoltre, queste informazioni, di per sé, non ci
rivelano che cosa fosse realmente questa religione oggi scomparsa. Sarebbe come cercare di
ritrovare, dalla forma delle ossa di un cranio, i tratti di un volto vivo. Sono possibili solo alcune
indicazioni sommarie e molte supposizioni. Per di più, questa religione morta di morte violenta
è stata denigrata, diffamata, screditata in modo tanto sistematico che anche a chi non abbia
pregiudiziali negative nei suoi confronti finisce per apparire un po' contraria al buon senso. E'
quanto accade a tutte le religioni morte; e del resto, anche la fede cattolica degli uomini del
medioevo ci è a volte altrettanto estranea di quella dei catari. Dopo una breve presentazione dei
dogmi essenziali, si può tentare di trarre qualche conclusione dai fatti concreti che ci sono stati
tramandati, e si può provare a farsi un'idea - per vaga che sia - del clima spirituale nel quale
questa religione crebbe e si sviluppò.
Si impone innanzitutto una questione preliminare: il catarismo implicava un insegnamento di
tipo esoterico? Alcune indicazioni - fra l'altro l'esistenza e la particolare tipologia costruttiva del
castello di Montségur - spingerebbero a crederlo. Ma se questa religione aveva i suoi misteri e i
suoi riti segreti, questi sono rimasti così ben nascosti che neppure dei convertiti passati nei
ranghi dell'Inquisizione, come Rainero Sacconi, ne hanno mai accennato.
Alcuni aspetti della religione catara, e in particolare quanto concerne i digiuni e le feste,
sono rimasti oscuri per la semplice ragione che gli inquisitori non hanno interrogato gli eretici
in proposito. Dell'abbondante e multiforme letteratura catara ci restano solo pochi documenti
casualmente scampati alla distruzione (2), che non sappiamo quanto fossero importanti e se
riflettessero fedelmente lo spirito dell'intera Chiesa catara. Fra l'altro, come ogni Chiesa, anche
questa aveva al suo interno delle 'eresie', delle tendenze divergenti; senza dubbio essa ebbe
delle sette nelle quali gli aspetti esoterici erano più accentuati, e che poterono rimanere
sconosciute alla maggior parte dei fedeli.
E' certo, comunque, che i catari erano grandi predicatori e che non facevano mistero delle
loro convinzioni. Spesso sostennero dispute teologiche, parteciparono a riunioni durante le
quali i loro dottori tennero testa ai legati e ai vescovi cattolici; e queste discussioni pubbliche -
dal colloquio di Lombers del 1176 alla campagna di evangelizzazione condotta fra il 1206 e il
1208 da san Domenico e dai suoi seguaci - mostrano che i catari della Linguadoca, uomini del
loro paese e del loro tempo, erano dei grandi oratori, dei ragionatori appassionati, che non
cercavano in alcun modo di trincerarsi dietro al prestigio di misteri inaccessibili ai profani. Al
contrario, essi pretendevano di fondare la loro dottrina sul buon senso, e rimproveravano alla
Chiesa cattolica i suoi misteri, bollati come una forma di superstizione e di magia.
E' anche vero, tuttavia, che di questa dottrina noi conosciamo solo quanto si oppone ai
dogmi della Chiesa, cioè, in certo modo, la sua parte negativa. (Si è potuto dire che, poiché il
catarismo era in disaccordo con la Chiesa quasi su tutto, la semplice espressione di questo
disaccordo basta a darci un'idea abbastanza completa della sua posizione dottrinale. Ma questo
non è sicuro: anzi è più che probabile che tutta la parte positiva dell'insegnamento cataro ci resti
ignota, e che proprio questa parte sia stata la causa del suo successo.) In sostanza di questa
religione ci sono noti: 1) i suoi 'errori', ossia i suoi punti di divergenza dalla Chiesa cattolica; 2)
parte della sua organizzazione esteriore, della vita e delle abitudini dei suoi seguaci, dei suoi riti
e delle sue cerimonie. Quindi nei confronti del catarismo ci troviamo più o meno nella
situazione di una persona che non conoscesse il cristianesimo e alla quale venisse descritta la
celebrazione della messa, senza però spiegargliene il significato spirituale, emozionale,
simbolico. Possiamo solo riservargli il rispetto dovuto all'espressione di una profonda
esperienza mistica, senza tentare di spiegarla.
Gli 'errori' del catarismo sono molti. Essi risalgono alla tradizione gnostica, che proclamava
la assoluta distinzione fra lo Spirito e la Materia. Manichei, i catari erano dualisti, credevano
nell'esistenza di due principi opposti, uno buono e l'altro malvagio. Se taluni teologi catari
pensavano che questi due principi esistessero fin dal principio, altri vedevano nel principio
malvagio una creazione secondaria, un angelo decaduto. Che l'origine del Male fosse posta nel
caos primordiale o nella malvagia volontà di una delle creature di un Dio unico e buono, tutti i
catari sostenevano che il Dio buono non è onnipotente, che il Male conduce contro di lui una
guerra senza quartiere e gli contende di continuo quella vittoria che comunque arriverà con la
fine dei tempi. Una teoria simile non doveva sorprendere più di tanto in un'epoca in cui gli
uomini credevano al Diavolo non meno che a Dio.
Quel che per i cristiani era più difficile ammettere era la tesi che rappresentava la chiave di
volta dell'insegnamento cataro: il mondo materiale non è stato creato da Dio, è interamente
opera di Satana. Senza entrare nei dettagli delle complicatissime cosmogonie che spiegavano la
caduta di Satana e degli angeli cattivi, nonché la creazione della materia, possiamo dire che per
i catari il mondo sensibile (compresi, per la maggior parte delle sette, il sole e le stelle) era un
mondo diabolico, una manifestazione del male.
E l'uomo? Anche lui era considerato di origine diabolica, in quanto creatura di carne. Ma lo
spirito del male, incapace di creare la vita, avrebbe chiesto a Dio di aiutarlo, e di infondere
un'anima nel corpo umano, fatto d'argilla; Dio, per bontà, avrebbe acconsentito a collaborare
con questo creatore disperatamente sterile, ma la particella di spirito divino immessa nel rozzo
involucro preparato da Satana si sarebbe rifiutata di entrarvi; con vari stratagemmi il Demonio
sarebbe ugualmente riuscito a tenervela prigioniera. I nostri progenitori, Adamo ed Eva,
sarebbero stati spinti dal Demonio a quell'unione carnale che avrebbe sancito la loro definitiva
immersione nella materia. Secondo la dottrina di alcune scuole, lo Spirito insufflato da Dio si
trasmette ai discendenti di Adamo con l'atto della procreazione, e, come una fiamma, si
moltiplica e si suddivide all'infinito. Ma l'interpretazione più generalmente accettata era
un'altra: il Demonio, Lucifero, avrebbe trascinato nella sua caduta, oppure fatto scendere dal
cielo con ogni sorta di lusinghe, un gran numero di anime create da Dio, che vivevano accanto a
lui nella beatitudine. Da quest'inestinguibile riserva di angeli decaduti e prigionieri
proverrebbero le anime umane, chiamate a un'ulteriore, più terribile decadenza nel momento in
cui vengono rivestite di un corpo di carne. (Nella cosmogonia catara il mondo materiale è il
livello più basso della realtà, il più irrimediabilmente lontano da Dio; c'è tutta una gradazione di
altri mondi, ove sono possibili differenti forme di salvezza.) Il Demonio non è altro che il Dio
dell'Antico Testamento, Sabaoth o Jaldabaoth, rozzo imitatore del Dio buono, creatore di un
universo miserevole in cui, malgrado tutti i suoi sforzi, è incapace di creare qualcosa di
durevole: le anime di quegli angeli che per loro debolezza scesero dal cielo nella materia
restano assolutamente estranee a quest'universo e vivono in esso con immane sofferenza,
separate dallo Spirito che era in loro prima della caduta.
Su questo punto, ancora una volta, si registrano alcune divergenze fra le varie sette catare,
poiché alcune pretendevano che il numero di queste anime decadute fosse limitato, e che quindi
esse trasmigrassero senza fine da un corpo all'altro, in un'ininterrotta successione di nascite e di
morti; concezione questa che si avvicina abbastanza alla dottrina induista della reincarnazione e
del "Karma". Altre sette invece credevano che ogni nuova nascita facesse scendere - se non dal
cielo almeno dalla regione intermedia fra cielo e terra - uno di quegli angeli sedotti dal
Demonio; di qui il ben noto orrore dei catari per la procreazione, atto crudelissimo che
violentemente attirava un'anima celeste nel mondo della materia. Comunque sia, i catari
ammettevano in genere la dottrina della metempsicosi come la professano gli indù, con lo
stesso matematico rigore nelle ricompense postume: l'uomo che conduceva una vita onesta si
sarebbe reincarnato in un corpo più adatto a favorire il suo progresso spirituale; chi commetteva
dei crimini, dopo la morte rischiava di reincarnarsi in un corpo gravato di tare e di vizi ereditari
o addirittura, in casi estremi, in un animale. Ma al di là di queste dolorose e perpetue rinascite,
alle anime decadute non era concessa alcuna speranza, alcuna possibilità di riguadagnare mai la
loro vera patria, senza la discesa nel mondo della materia di un Messia del Dio buono.
Il Dio buono è purezza e gioia, e pur non conoscendo il male sa che alcune anime celesti
sono separate da lui e vorrebbe ricondurle in cielo. Non può far nulla per aiutarle, poiché un
abisso lo separa da loro; non può avere alcun rapporto con l'universo creato dal Principe del
Male, e cerca fra gli esseri felici che lo circondano un mediatore capace di ristabilire un
contatto fra il cielo e le anime cadute. Dio invia quindi Gesù che, secondo i catari, fu o il più
perfetto degli angeli, o uno dei figli di Dio, il secondo, essendo Satana il primo. Il termine
'figlio di Dio' non comporta l'uguaglianza fra il Padre e il Figlio: Gesù fu al massimo
un'emanazione, un'immagine di Dio.
Gesù scese nel mondo impuro della materia, senza rifiutare quest'immondo contatto per pietà
verso le anime cui doveva insegnare il cammino del ritorno in patria; ma poiché la purezza non
può avere reali contatti con quanto è impuro, Gesù aveva solo l'apparenza di un corpo, non si
'incarnò', si 'velò'. Egli in qualche modo fu una visione, che finse di sottomettersi alle leggi
della terra solo per meglio ingannare la vigilanza del Demonio. Ma questi, avendo riconosciuto
il messaggero di Dio, cercò di ucciderlo, e i nemici di Dio, accecati dalle apparenze, credettero
che Gesù avesse veramente sofferto e fosse morto sulla croce. In realtà il corpo non carnale di
Gesù non poteva né soffrire, né morire, né resuscitare: senza subire alcun oltraggio, dopo aver
insegnato ai discepoli il cammino della salvezza, risalì in cielo. La sua missione era terminata:
aveva lasciato sulla terra una Chiesa che possedeva in sé lo Spirito Santo, il consolatore delle
anime esiliate.
Ma il Demonio, principe di questo mondo, aveva saputo sviare gli uomini e distruggere
l'opera di Gesù con tale abilità che una falsa Chiesa si era sostituita a quella vera e aveva preso
il nome di 'cristiana' benché si trattasse in realtà della Chiesa del Diavolo, insegnando l'esatto
contrario della dottrina di Gesù. La autentica Chiesa cristiana, quella che possedeva lo Spirito
Santo, era la Chiesa catara.
La Chiesa di Roma era dunque la Bestia, la prostituta di Babilonia; chi restava sotto la sua
obbedienza non poteva salvarsi. Tutto quanto proveniva da questa Chiesa era nefasto. I suoi
sacramenti non avevano alcun valore, anzi, erano dei tranelli di Satana, in quanto facevano
credere agli uomini che dei riti puramente materiali, dei gesti meccanici potessero condurre alla
salvezza. Né l'acqua del battesimo né il pane dell'ostia possono essere veicoli dello Spirito,
poiché sono materia impura. L'ostia non può essere il corpo di Cristo perché - dicevano i
predicatori catari, facendo dell'ironia un po' a buon mercato - se si riunissero tutte le ostie
consacrate in tutti i paesi da oltre dieci secoli, esse formerebbero un 'corpo' più grande di una
montagna. La croce non deve essere oggetto di venerazione: al contrario, deve ispirare orrore,
in quanto strumento dell'umiliazione di Gesù; quando in una casa cade una trave, uccidendo i
figli che la abitano, non la si mette al posto d'onore per adorarla e incensarla. (Quest'argomento
sembra provare che i catari attribuivano comunque più importanza di quanto non si pensi alla
crocifissione: perché la croce dovrebbe fare orrore se in qualche modo Gesù non vi avesse
realmente sofferto?).
Se la croce era lo strumento per eccellenza del Diavolo, anche tutte le immagini, tutti gli
oggetti che la Chiesa cattolica considerava sacri erano oggetti del Maligno, che sotto il nome di
cristianesimo aveva instaurato il regno del più abietto paganesimo. Le immagini sacre erano
altrettanti idoli, le reliquie erano ancora meno: erano frammenti d'ossa in decomposizione,
pezzi di legno o di stoffa raccattati ovunque, che abili truffatori facevano passare per resti di
corpi beati o di oggetti sacri. Quanti si inchinavano di fronte a simili oggetti adoravano la
materia, opera del Demonio. Del resto, tutti i santi erano stati peccatori, avendo servito la
Chiesa del Diavolo; erano quindi coinvolti nella stessa condanna dei giusti dell'Antico
Testamento, creature e servitori del Dio malvagio.
La Vergine non fu la madre di Gesù, dal momento che Gesù non ha mai avuto un vero corpo;
se in apparenza egli ha voluto nascere da lei, anch'ella dovette essere un essere immateriale, un
angelo che aveva assunto le fattezze di una donna. La Vergine non può essere altro che un
simbolo, il simbolo della Chiesa che accoglie la parola di Dio.
Avendo iniziato col porre la creazione del mondo per opera dello Spirito del Male, la Chiesa
catara era necessariamente costretta a condannare qualsiasi manifestazione della vita terrena:
tutto quanto non fosse puro spirito era votato alla distruzione totale e non meritava né amore né
rispetto. Se la Chiesa era la più visibile espressione del male sulla terra, il potere secolare lo era
quasi allo stesso modo, poiché si fondava sulla violenza e spesso sull'assassinio (guerra e
giustizia penale). La famiglia era condannabile in quanto fonte di legami terreni, e il
matrimonio era un crimine contro lo Spirito poiché sprofondava l'uomo nella vita carnale e
rischiava di causare la perdizione di nuove anime precipitandole nella materia. Ogni uccisione,
compresa quella degli animali, era giudicata un delitto. Chi uccide priva un'anima della
possibilità di riconciliarsi con lo Spirito, interrompendo indebitamente il corso della sua
penitenza: anche quando risieda nel corpo di una bestia, un'anima ha diritto a ogni rispetto,
poiché forse le resta qualche imprevedibile occasione di rinascere in condizioni migliori.
Quindi non si dovevano mai portare armi, per non correre il rischio di uccidere, nemmeno per
difendersi. Non ci si doveva nutrire di cibi d'origine animale, essenzialmente impuri: bisognava
evitare persino i latticini e le uova, come tutto quanto fosse il frutto della procreazione. Non si
doveva mai mentire, né giurare; non si dovevano possedere beni terreni. Soddisfare tutte queste
condizioni, comunque, non significava salvarsi. Era possibile salvarsi, ossia riconciliarsi con lo
Spirito Santo, solo entrando nella Chiesa catara e facendosi imporre le mani da uno dei suoi
ministri: solo così l'uomo rinasceva a nuova vita e poteva sperare di accedere, dopo la morte,
alla beatitudine divina; sempre che nuovi peccati non lo facessero ricadere nei lacci del
Demonio.
L'inferno - secondo i catari - non esiste, o meglio consiste proprio nella reincarnazione in
corpi differenti: ma una lunga serie di esistenze malvagie può finire per togliere a un'anima
qualsiasi possibilità di salvezza. Lo stesso vale per le anime create dal Demonio, esseri che non
possono essere salvati. E' difficile distinguerli dagli altri, ma è presumibile che re, imperatori,
capi della Chiesa cattolica appartengano a questo gruppo di uomini predestinati alla
dannazione. Tutte le altre anime, invece, devono salvarsi, e il supplizio delle reincarnazioni
terrene durerà finché tutte non abbiano trovato la via della salvezza. Infine il mondo sensibile
scomparirà, il sole e le stelle si estingueranno, il fuoco divorerà le acque, che a loro volta
spegneranno il fuoco. Nel fuoco le anime dei demoni periranno e non ci sarà che eterna gioia in
Dio.
Questa breve sintesi della dottrina catara tenderebbe a mostrare che questa religione si
distingueva dal cristianesimo tradizionale per così tanti aspetti che verrebbe da chiedersi come
un popolo cattolico abbia potuto abbandonare così facilmente la fede dei padri per abbracciare
un'eresia talmente manifesta. Si impongono, qui, due osservazioni. In primo luogo, per la
latitanza della Chiesa - denunciata dai papi stessi - quel popolo era spesso assai ignorante in
materia di ortodossia religiosa. In secondo luogo - e questo è un punto sul quale bisognerà
insistere - gli avversari della religione catara avevano tutto l'interesse a sottolinearne gli
"errori", accordando loro un'importanza che forse non avevano agli occhi degli stessi catari, di
modo che, su molte questioni, forse si trattava più di differenze di espressione e di
interpretazione che di vere e proprie eresie.
Certo non bisogna trascurare la dimensione eterodossa della religione catara; ma bisogna
cercare di considerarla per quello che è. Analizzando i fatti, ci accorgiamo che gli errori che più
turbavano i cattolici erano proprio quelli che sembravano discendere logicamente dalla dottrina
ortodossa di quel tempo: il che spiega come mai fossero giudicati tanto pericolosi.
In effetti, il dualismo dei catari, che i loro avversari hanno ingigantito a piacere, era un
naturale sviluppo della credenza nel Diavolo, credenza importantissima nel medioevo. Un
latente manicheismo è sempre stato presente nell'insegnamento della Chiesa. Il Diavolo era una
realtà concreta, i cui poteri erano continuamente attestati dai predicatori cattolici, che
condannavano come opera diabolica qualsiasi manifestazione dello spirito profano, anche le più
pure, come la musica o la danza. La Chiesa (per lo meno nei suoi rappresentanti più autorevoli)
si era spinta così lontano in questa direzione che non si vede come i catari abbiano potuto
andare oltre. La civiltà medievale, civiltà originariamente monastica, provava solo disgusto e
disprezzo per la materia; pur senza dirla opera del Diavolo, si comportava esattamente come se
la credesse tale. Si è mai visto - prima di san Francesco d'Assisi - un santo cattolico cantare la
bellezza della natura creata da Dio? Si sono mai visti sacerdoti glorificare il matrimonio,
estasiarsi di fronte ai fanciulli, cantare le gioie terrene? La maggior parte delle feste e dei riti
religiosi nei quali l'amore per la vita terrena sembra avere avuto un ruolo importante erano in
realtà sopravvivenze pagane o ebraiche; l'apporto strettamente cristiano all'amore verso il creato
fu modesto e puramente teorico.
Questo non fu l'atteggiamento di tutta la Chiesa, ma venne condiviso dai suoi membri più
puri, più venerati, come ad esempio san Bernardo, che insorse non solo contro la frivolezza
della vita laica, ma anche contro la decorazione troppo ricca delle chiese: la bellezza che seduce
gli occhi a suo giudizio serviva solo a distogliere lo spirito dalla meditazione. In quella stessa
epoca in cui il bisogno di incarnare, di materializzare il sacro sembra essere stato più forte che
in qualsiasi altra, in cui città e intere regioni si rovinavano economicamente per edificare alla
Vergine o a qualche santo locale dimore a confronto delle quali i palazzi dei re parevano misere
stamberghe, ogni cattolico sincero pensava che il mondo fosse irrimediabilmente corrotto, e che
la salvezza necessariamente passasse per il chiostro. Fra un universo creato dal Diavolo e solo
tollerato da Dio e un universo creato da Dio ma integralmente corrotto e snaturato dal Diavolo,
la differenza non è poi molta, almeno sul piano pratico.
I catari condannavano il matrimonio e la carne, al punto da astenersi da qualsiasi alimento
che fosse il frutto della procreazione. Vedremo che questa condanna non era assoluta. Ma anche
la Chiesa cattolica aveva una posizione simile nei confronti del matrimonio: questo era vietato
al sacerdote, come lo era ai ministri catari; era solo tollerato fra i fedeli, come mezzo di
propagazione della specie e come rimedio alla concupiscenza. Inoltre, l'atteggiamento della
Chiesa cattolica verso la donna era ben più duro di quello dei catari: nei vituperi di un san Pier
Damiani contro le concubine dei sacerdoti, considerate come «esche di Satana, veleno delle
anime, oggetto di voluttà degne dei porci, rifugio di spiriti immondi», si coglie un vero orrore
per la donna in quanto tale, eterna trappola demoniaca. La condanna malcelata e sistematica
della carne e del matrimonio comportava un'implicita negazione di quel mondo in cui ogni
forma di vita, a cominciare dall'erba dei campi, è sottomessa alla legge della procreazione.
Quando i sacerdoti cattolici professavano, in opposizione ai catari, la possibilità della salvezza
nel matrimonio, lo facevano esclusivamente per indulgenza verso la debolezza umana. Lo
stesso, come vedremo, valeva anche per i catari.
Se la vita artistica e civile ha conosciuto nei secoli undicesimo e dodicesimo uno slancio
magnifico, se, data la giovinezza dei popoli, si affermava anche fra le peggiori miserie
un'intensa e profonda gioia di vivere, non si può dire che la Chiesa fosse coscientemente
orientata in questo senso. Come il catarismo il cattolicesimo era, per sua esplicita ammissione,
una religione d'anime che si preoccupava solo di salvare anime. Se essa aveva anche un corpo
materiale - forse troppo materiale - era solo per il peso delle circostanze e in contraddizione con
la sua stessa dottrina.
Le questioni dogmatiche a proposito delle quali la posizione dei catari più turbava i cattolici
- quelle della Trinità e dell'Incarnazione - concernevano più i teologi e i filosofi che non la
massa dei fedeli. I catari forse erano davvero ariani, nel senso che rifiutavano di ammettere
l'uguaglianza delle tre persone della Trinità. Tuttavia le parole del Credo «et ex Patre natum
ante omnia saecula» implicavano, malgrado il "consubstantialem", una certa originaria
supremazia del Padre. Anche per i catari Gesù era un Figlio generato prima di tutti i secoli, e
non sappiamo in che misura i loro avversari abbiano correttamente interpretato il loro pensiero.
E' certo però che i catari hanno sempre manifestato alla figura di Cristo una tale devozione che
nessun cattolico seppe superarli: si può dubitare di tutto, ma non del loro 'cristianesimo'. Quanto
all'Incarnazione, alla nascita miracolosa del Cristo, alla tradizione apocrifa secondo la quale
Maria sarebbe rimasta vergine dopo la Natività, alla Resurrezione e all'Ascensione, non si
trattava di credenze tali da sconcertare gli animi? Gli stessi cattolici sembravano implicitamente
riconoscere che il corpo di Gesù in un modo o in un altro era diverso da quello degli uomini
comuni.
L'aspetto della dottrina catara assolutamente inammissibile per i cattolici era la negazione
della Chiesa cattolica in quanto tale. Ma - e si tratta di un punto che forse non è stato
sottolineato abbastanza - questa religione portava ai suoi fedeli il Cristo dei Vangeli: il libro, il
solo e vero libro, libro che valeva da croce e calice, era il Vangelo, un Vangelo letto in lingua
volgare, accessibile a tutti, reso familiare dalle continue prediche e discussioni. Del modo in cui
i catari lo interpretassero sappiamo solo quel poco che emerge dalle polemiche. Ma quando si
rivolgevano ai fedeli i predicatori catari non ricorrevano alle armi della polemica. La loro
religione avvicinava il Cristo ai fedeli perché liberava l'insegnamento primitivo da quei dogmi,
quelle tradizioni e quelle superstizioni che nel corso dei secoli avevano finito per avvilupparlo.
Basta leggere, per esempio, la "Leggenda aurea", redatta nel tredicesimo secolo, ma espressione
di tradizioni orali e scritte ben più antiche, per capire fino a che punto la pietà popolare si fosse
allontanata dal cristianesimo.
La Chiesa era mal attrezzata contro un simile pericolo. Essa scoraggiava i tentativi di
traduzione dei libri sacri. Anche i cattolici più irreprensibili divenivano sospetti di eresia se
manifestavano il desiderio di leggere il Vangelo in lingua volgare; e a volte perfino i sacerdoti
ignoravano il latino. La decadenza della Chiesa nel Sud della Francia era tale che i sacerdoti
non insegnavano più la religione; e se lo facevano non venivano più ascoltati. Avendo sottratto
la chiave della conoscenza, la Chiesa si trovava tanto più incapace di lottare in quanto il nemico
la combatteva in nome di Cristo.
Si aggiunga che i catari si richiamavano a una tradizione più antica, dunque più pura e più
vicina all'insegnamento degli Apostoli di quella della Chiesa di Roma, e pretendevano di essere
i soli ad aver conservato lo Spirito Santo inviato da Dio per la sua Chiesa. Sembra che, almeno
in parte, fossero nel vero: il rituale cataro, di cui possediamo oggi due testi del tredicesimo
secolo, mostra (come prova Jean Guiraud nel suo studio sull'Inquisizione) che questa Chiesa
possedeva documenti molto antichi, direttamente ispirati alle tradizioni della Chiesa primitiva.
In effetti, come dimostra ancora Jean Guiraud comparando le cerimonie di iniziazione e il
battesimo dei catecumeni della Chiesa primitiva con l'iniziazione dei catari, c'è fra le due
tradizioni un parallelismo così sistematico da non poter essere casuale. Il neofita cataro, come il
catecumeno cristiano, doveva essere ricevuto dalla Chiesa dopo un periodo di prova e con il
suffragio dei capi della comunità; proprio come l'ammissione nella Chiesa catara, il battesimo,
nella Chiesa primitiva, era accordato solo agli adulti in pieno possesso delle loro facoltà, e
spesso veniva chiesto dai credenti solo sul letto di morte. Il ministro che riceveva il neofita
nella Chiesa era chiamato 'l'antico' ("senhor"), evidente traduzione di "presbyter". L'atto di
rinuncia a Satana dei catecumeni è parallelo a quello della rinuncia dei catari alla Chiesa di
Roma. Se si eccettua l'unzione con l'olio che simboleggia lo Spirito Santo e l'immersione nella
vasca battesimale (pratiche troppo legate alla materia e rifiutate dai catari, che conservarono
solo l'imposizione delle mani), l'ammissione del catecumeno nella Chiesa primitiva era in tutto
assimilabile a quella del postulante cataro nella sua nuova Chiesa. Lo stesso dicasi per la
cerimonia della confessione del fedele alla Chiesa e della remissione dei peccati da parte
dell'assemblea dei catari. Taluni inquisitori, in particolare Bernardo Gui nel quattordicesimo
secolo, sono rimasti colpiti da quanto di cristiano c'era nei riti della Chiesa eretica e hanno
pensato a una 'scimmiottatura' del battesimo cattolico. Meglio informati di loro sui costumi
della Chiesa primitiva, noi dobbiamo ammettere che i catari si limitavano a seguire una
tradizione più antica di quella della Chiesa cattolica e che con qualche ragione potevano
pretendere che fosse stata Roma a cadere nell''eresia', discostandosi dalla originaria purezza
della Chiesa degli Apostoli.
Persino il testo del rituale, come lo conosciamo oggi, risale sicuramente a un'epoca molto
antica (benché le due versioni che possediamo, una in lingua d'oc, l'altra in latino, siano del
tredicesimo secolo). Questo testo è stato portato dall'Oriente e tradotto da missionari bulgari?
Dove, in quali condizioni si è conservato, e quale ne è l'origine esatta? Esso è composto in gran
parte di citazioni, brevemente commentate, dei Vangeli e delle Lettere degli Apostoli, che si
riferiscono di continuo al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo o a episodi evangelici; avrebbe
potuto essere approvato da qualsiasi buon cattolico, e leggendolo si ha l'impressione di
riconoscere il sapore e il vigore del cristianesimo primitivo più che le speculazioni teologiche di
una setta cui si attribuiscono le dottrine più eterodosse.
Ora, questo rituale, questo libro di preghiera e di iniziazione, non era destinato al volgo: era
l'espressione più formale, più sacra della Chiesa catara, la traduzione verbale del supremo
sacramento di questa Chiesa. Non trovandovi nulla che implichi, sia pure alla lontana, il
dualismo manicheo, la negazione dell'Incarnazione e dell'Eucarestia, la teoria della
metempsicosi; incontrandovi anzi affermazioni contrarie alla dottrina catara sul battesimo con
l'acqua, dobbiamo concludere che quei testi sono di gran lunga anteriori al catarismo
propriamente detto. Ma il fatto stesso che i catari (che non mancavano di audacia né di gusto
per le speculazioni teologiche) non abbiano voluto modificarli, mostra che il rituale in essi
descritto ben esprimeva la loro dottrina così come essi la intendevano, e che gli 'errori' che la
Chiesa cattolica rimproverava loro erano forse solo un aspetto secondario del loro
insegnamento: una cosmogonia e una concezione filosofica dell'universo e della vita, più che
vera materia di fede.
Se si giudica una religione dalle sue preghiere e dai suoi riti (che è in fondo il miglior modo
di giudicare la sua vera essenza), il poco che sappiamo della religione catara ci spinge a
inchinarci dinnanzi alla sua semplicità, alla sua sobrietà, alla sua altezza spirituale. Quel 'rituale'
miracolosamente scampato alla distruzione è di per sé infinitamente più importante di tutto
quanto per secoli si è detto e scritto sui catari, basandosi sulle affermazioni dei loro avversari.
3. ORGANIZZAZIONE ED ESPANSIONE.
La religione catara si sforzava di applicare alla lettera i suoi principi dottrinali. La via della
salvezza era stretta, e pareva riservata solo a pochi eletti. Ma la Chiesa catara si avvicinava in
modo insospettato alla Chiesa cattolica nell'atteggiamento tollerante verso i deboli e nel
riconoscimento del valore assoluto dei sacramenti: proprio come i cattolici, i catari ponevano
come condizione necessaria alla salvezza un atto di natura sacramentale - la riconciliazione con
lo Spirito tramite l'imposizione delle mani da parte di ministri del culto che già avessero
ricevuto lo Spirito. Non si trattava di un gesto simbolico; il rito del "consolamentum" aveva, per
i catari, un valore sovrannaturale, faceva realmente discendere lo Spirito Santo sulla persona
che ne era il beneficiario. Quale che fosse la santità dell'officiante, era il gesto fisico
dell'imporre le mani che conferiva lo Spirito Santo, e questo gesto era la chiave e il centro della
vita della Chiesa catara.
Ammettessero o meno il principio della successione apostolica, i catari sostenevano che solo
mani pure potevano trasmettere lo Spirito; ma essi assumevano la purezza dei loro ministri
come un postulato, e rarissimi sono i casi in cui il "consolamentum" venne giudicato nullo a
causa dell'indegnità dell'officiante. Lo Spirito scendeva realmente sull'uomo che lo riceveva, il
quale da quel momento diveniva un 'cristiano' e moriva a questo mondo per rinascere alla vita
dello Spirito. Egli doveva sottomettersi, senza limitazioni né compromessi, a tutti gli obblighi
imposti dalla nuova religione, che erano più duri di quelli accettati da un monaco nel ricevere
gli ordini sacri.
Solo un'insignificante minoranza di credenti poteva risolversi a guadagnare la salvezza in
questo modo. Ma la Chiesa catara ammetteva anche il "consolamentum" in punto di morte, e un
gran numero di persone ricevette il sacramento avendo come unica garanzia della propria fede
la coscienza di una morte prossima. Il sacramento, dunque, poteva essere accordato anche a
gente che, a priori, non sembrasse appartenere alla cerchia degli eletti e dei puri. Così facendo
la religione catara pare incorrere nello stesso errore che rimproverava alla Chiesa cattolica: di
fare del sacramento un'operazione meccanica, indipendente dalla condizione spirituale del
ricevente. Se il principio è essenzialmente lo stesso, i catari seppero comunque conferire al loro
sacramento la maestà necessaria, facendone un dono unico e prezioso che un uomo, senza la
totale offerta della propria vita a Dio, poteva ottenere solo quando la sofferenza già l'avesse
distaccato dal mondo.
Una volta che lo Spirito era disceso sul credente, questi era una creatura nuova: a partire da
quel momento la più piccola caduta diveniva un sacrilegio che rischiava di fargli perdere lo
Spirito di cui era 'rivestito'. In pratica, non mancano casi di 'perfetti' che nel corso della loro vita
ricevettero più volte il "consolamentum", dopo qualche peccato o un indebolimento della loro
fede. Ciò sembra provare che questo sacramento non aveva il carattere rigoroso che in genere
gli si attribuisce.
La cerimonia del "consolamentum", che corrispondeva al contempo ai sacramenti del
battesimo, dell'eucarestia, della cresima, del sacerdozio e dell'estrema unzione, era assai
semplice. Era preceduta da un lungo periodo di iniziazione, durante il quale il postulante
doveva restare per qualche tempo - uno, due anni - in una casa di 'perfetti' a dare prova della sua
vocazione; era una sorta di noviziato, e capitava che alla fine di quest'esperienza preparatoria il
postulante si vedesse rifiutare l'accesso al "consolamentum", se i suoi maestri non erano sicuri
della sua perseveranza. Se era giudicato degno, veniva presentato alla comunità che doveva
eleggerlo, e si preparava al giorno della sua consacrazione con lunghi digiuni, veglie e
incessanti preghiere.
Il giorno della cerimonia il postulante veniva introdotto nella sala comune di riunione dei
fedeli. I catari non avevano templi e officiavano in case private, ma nelle città avevano loro
case appositamente consacrate al culto, all'insegnamento e alla cura dei malati, ove vivevano in
comunità, poiché tutti i 'perfetti' dovevano lasciare alla Chiesa i loro beni. Nelle grandi città in
genere c'erano parecchie di queste 'case degli eretici'.
La sala in cui i fedeli si radunavano a pregare non recava alcun segno esteriore del culto. Le
pareti, generalmente dipinte a calce, dovevano essere spoglie, l'arredo il più semplice possibile:
qualche banco, un tavolo coperto con una tovaglia bianchissima sul quale era posato il Libro,
ossia il Vangelo. Su questo tavolo, che fungeva da altare, venivano poi disposti degli
asciugamani, anch'essi bianchissimi; su di un altro tavolo, o su di un cassettone, c'erano una
brocca e una bacinella per la lavanda delle mani. L'unico ornamento di questa sala austera era
costituito da innumerevoli ceri bianchi accesi, a simboleggiare le fiamme dello Spirito Santo
disceso sugli Apostoli nel giorno di Pentecoste. Assistito da alcuni fedeli, il postulante veniva
condotto verso la tavola, dinnanzi alla quale stavano i ministri del culto incaricati di
accoglierlo, diaconi o semplici 'perfetti', vestiti con lunghe tonache nere, simbolo del loro
distacco dal mondo. Il 'perfetto' che officiava e i suoi due assistenti si lavavano le mani per
poter toccare il testo sacro. Poi la cerimonia aveva inizio.
L'officiante spiegava al postulante i dogmi della religione che stava per abbracciare, e gli
obblighi ai quali si doveva sottomettere. Poi recitava il "Pater", commentandone ogni frase, che
il postulante doveva ripetere dopo di lui. Quindi il futuro 'perfetto' doveva solennemente
abiurare la fede cattolica nella quale era stato educato e, prosternandosi tre volte, domandava il
diritto di essere accolto nella vera Chiesa. Doveva 'darsi a Dio e al Vangelo'. Prometteva di non
mangiare più carne, uova o altri alimenti di origine animale, di astenersi da ogni commercio
carnale, di non mentire né giurare, e di non rinunciare alla sua fede per timore della morte,
inflitta col fuoco, con l'acqua o in qualsiasi altro modo. Confessava pubblicamente i suoi
peccati e domandava il perdono dei presenti. Ricevuta l'assoluzione, doveva rinnovare
solennemente l'impegno che aveva assunto: solo a questo punto era pronto a ricevere lo Spirito.
Il sacramento vero e proprio si compiva quando l'officiante poneva sulla testa del postulante
il testo sacro e quando, insieme ai suoi assistenti, imponeva su di lui le mani, pregando Dio di
riceverlo e di inviargli lo Spirito Santo. In quell'istante il postulante si trasformava in una
creatura nuova, egli 'nasceva allo Spirito'.
I presenti recitavano il "Pater" ad alta voce, l'officiante leggeva i primi diciassette versetti del
Vangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo...». Poi egli recitava nuovamente il "Pater".
Il nuovo eletto riceveva il bacio della pace, prima dall'officiante, poi dai suoi assistenti. Egli
a sua volta dava il bacio della pace al più vicino fra i fedeli che assistevano alla cerimonia e,
come una fiamma che passa di mano in mano, questo bacio fraterno si trasmetteva fra tutti i
presenti. Se il postulante era una donna, il bacio veniva sostituito da un gesto più simbolico:
l'assistente toccava la spalla della nuova 'perfetta' con il Vangelo, e il gomito con il gomito.
Il nuovo 'consolato' d'ora in avanti avrebbe portato l'abito nero dei suoi fratelli, sarebbe stato
un 'rivestito', non avrebbe dovuto più abbandonare questo segno visibile della sua nuova
dignità. Più avanti, quando le persecuzioni costrinsero i 'perfetti' alla prudenza, la veste venne
sostituita con un cordone che gli uomini tenevano attorno al collo, le donne alla cintola, sotto
gli abiti. Ma l'importanza accordata alla veste ('rivestiti' fu la definizione corrente per designare
i 'perfetti') mostra il carattere sacramentale e sacerdotale del "consolamentum". Il 'consolato'
intraprendeva la vita religiosa in tutti i sensi che questo termine assumeva presso i cattolici: egli
lasciava alla comunità tutti i suoi beni e, sull'esempio di Cristo e degli Apostoli, si dava a una
vita errante, consacrata alla preghiera, alla predicazione e alle opere di carità.
Il diacono o il vescovo locale assegnavano al nuovo 'perfetto' un compagno, scelto fra gli
altri 'perfetti', che doveva diventare il suo "socius" (o la sua "socia" se si trattava di una donna)
e dal quale non doveva separarsi: avrebbe condiviso con lui le sue fatiche e le sue pene.
Si è detto, a ragione, che la Chiesa catara propriamente detta era formata da quanti avevano
ricevuto il sacramento; in altri termini, che era una Chiesa composta esclusivamente di
sacerdoti. Il nostro postulante, che aveva ricevuto il terribile privilegio di essere ammesso fra i
'perfetti', era ormai un 'cristiano' separato dagli altri. Ovunque andasse, i semplici credenti
dovevano 'adorarlo', o meglio testimoniargli il loro rispetto, inginocchiandosi o piegandosi tre
volte dinnanzi a lui e pronunciando la formula di rito: «Pregate Dio perché faccia di me un
buon cristiano e mi conduca a una buona fine». Il 'perfetto' pregava Dio, ma non rispondeva:
«Pregate per me, peccatore». L'uguaglianza teorica che esisteva fra tutti i cristiani ortodossi, dal
papa all'ultimo dei criminali, sembra assente da questa religione realista. Secondo la dottrina
catara, i 'perfetti' costituivano una sorta di livello superiore dell'umanità, dal momento che lo
Spirito che era stato loro conferito tramite il sacramento non abitava, né poteva abitare le anime
dei 'non consolati'. (Bisogna evidentemente prendere il termine 'perfetto' nel suo significato
etimologico di 'realizzato', 'compiuto': se l'uomo era corpo, anima e spirito, i 'perfetti' erano
quegli uomini che, per virtù del sacramento, erano giunti a ritrovare il loro 'spirito', la loro parte
divina persa in seguito alla caduta.) Ci troviamo così di fronte al paradosso di una Chiesa
potente, che seguitava a guadagnare terreno, che contava fra i suoi adepti buona parte della
nobiltà, della borghesia e degli artigiani del paese, che aveva esteso la sua influenza su castelli,
borghi, intere regioni, e che non doveva contare più di qualche centinaia, al massimo qualche
migliaia di membri effettivi.
Ritorneremo in seguito sul problema dei credenti e sul ruolo che svolgevano in questa
Chiesa che, a priori, sembrava attribuire loro così poca importanza. E' evidente che al riguardo
qualcosa ci sfugge, poiché, malgrado la differenza apparentemente capitale fra 'perfetti' e
semplici credenti, il comportamento di questi ultimi fu esattamente quello che avrebbero avuto
dei buoni cattolici rispetto alla Chiesa di Roma, mentre l'atteggiamento dei 'perfetti' non
differiva da quello dei sacerdoti attenti ai loro doveri verso i parrocchiani. Nella Linguadoca
ogni provincia aveva il suo vescovo cataro, ogni città o località importante il suo diacono: non
si istituiscono vescovadi e diaconati per un pugno di eletti. I vescovi catari si consideravano
pastori spirituali di grandi comunità, e probabilmente mostravano maggior sollecitudine verso i
loro fratelli non ancora iniziati di quanto non facessero i vescovi cattolici verso i loro fedeli; ciò
per la semplice ragione che una religione che deve lottare per la sua sopravvivenza tiene i suoi
adepti in maggior conto di una religione istituzionalizzata. I credenti non erano un gregge senza
pastori, e non dovevano considerarsi esenti da ogni contatto con il mondo spirituale.
Resta nondimeno vero che il nucleo, l'anima vivente della Chiesa catara, era costituito dai
'perfetti'. Sappiamo bene che cosa siano stati: confessori, nel senso in cui la loro Chiesa
intendeva la confessione. Questi uomini scelti con gran cura, selezionati e ordinati con una
circospezione tale che anche in una Chiesa già prospera si sarebbero trovati a essere un'infima
minoranza, hanno suscitato la forzata ammirazione dei loro peggiori nemici. Dal numero dei
'perfetti' mandati al rogo durante gli anni della crociata (in genere si mandavano al rogo solo i
'perfetti'), si può pensare che nel Sud della Francia ce ne fossero alcune migliaia, tenuto conto
di quanti riuscirono a nascondersi, di quanti fuggirono in Italia, di quanti devono essere stati
vittime casuali dei massacri della guerra. Ora, durante il periodo della crociata e gli anni
seguenti, gli storici hanno registrato solo tre casi di abiura da parte di 'perfetti'. E il primo, il
convertito "in extremis" miracolosamente scampato al fuoco, era un neofita, non ancora
'consolato'; il secondo, Pons Roger, convertito da san Domenico, si presume fosse un 'perfetto'
solo a causa del rigore della penitenza impostagli. Il terzo è Guglielmo di Solier che, nel 1229,
abiurò per sfuggire al rogo, ed ebbe salva la vita denunciando alcuni confratelli. Se si pensa che
cosa fosse la morte sul rogo si resta stupefatti al constatare che, fra centinaia di uomini e di
donne minacciati di una morte del genere, si trovi "un solo" traditore.
Ma i 'perfetti' non erano ammirati per il loro coraggio, che prima della crociata non aveva
ancora trovato la sua più completa espressione. I loro avversari sono unanimi nel riconoscere la
purezza dei loro costumi, e il papa e san Domenico renderanno loro un omaggio eclatante il
giorno in cui decideranno di combatterli 'con le loro stesse armi', il giorno in cui il santo
comincerà a predicare a piedi nudi e a vivere di elemosine, per seguire il buon esempio dato dai
predicatori eretici.
I 'perfetti' non erano solo figure austere che conquistavano l'ammirazione con il loro
disprezzo dei beni di questo mondo: il popolo li soprannominò 'buonuomini', termine che nel
linguaggio attuale ha perduto il suo vero significato: si trattava di uomini buoni. Questo solo
appellativo sembra smentire quanti hanno dipinto il catarismo come una religione triste,
indifferente alle miserie di un mondo disprezzato. Questi uomini magri, vestiti di nero, dai
capelli lunghi e dalla carnagione pallida, hanno colpito l'immaginazione più per la loro bontà
che per l'austerità dei loro costumi. Un'austerità severa e triste non avrebbe attratto nessuno.
Questi uomini e queste donne che, a due a due, se ne andavano a visitare i villaggi e i castelli
suscitavano, ovunque passavano, una sconfinata venerazione. Il conte di Tolosa ha solo dato
voce a sentimenti diffusi da tempo nel popolo quando, mostrando un 'perfetto' mal vestito e
mutilato, ha esclamato: «Preferirei essere quell'uomo, piuttosto che sovrano o imperatore» (3).
L'autorità morale di questi uomini era tale che la Chiesa solo timidamente osava accusarli di
ipocrisia. Al massimo li si accusava di fare eccessivo sfoggio del loro ascetismo. In effetti erano
dei digiunatori intransigenti: non accontentandosi di evitare qualsiasi alimento 'impuro', di
osservare tre quaresime all'anno, durante le quali per tre giorni la settimana digiunavano a pane
e acqua, preferivano morire pur di non ingerire la benché minima parte di un alimento proibito
dalla loro religione. La pratica del digiuno, da sempre diffusa in tutte le religioni, ma assai più
sviluppata in Oriente che in Occidente, sembra aver svolto un ruolo particolare nella vita dei
'perfetti': in ogni caso, nel popolo come nella Chiesa catara, erano soprattutto gli uomini a
digiunare. Cosma Presbyter (4) descrive già i bogomili come uomini pallidi, emaciati, segnati
dalle privazioni.
Come gli yoga o i fachiri, alcuni 'perfetti' avevano una tale passione per le forme più estreme
di digiuno che si è potuto accusarli di ricercare deliberatamente di mettere fine ai loro giorni: si
spiega così la leggenda dell'"endura", o morte volontaria conseguente allo sciopero della fame
(di cui non si sa citare che un unico caso preciso, del quattordicesimo secolo, epoca in cui la
religione catara, agonizzante, aveva perso i suoi caratteri autentici). In realtà i 'perfetti', che
provavano verso ogni forma di uccisione quello smisurato orrore che ha spinto alcuni di loro
(come quegli eretici impiccati nel 1052 a Goslar, in Germania), a scegliere la morte pur di non
ammazzare un pollo, non potevano in nessun modo incoraggiare il suicidio: disprezzavano la
vita terrena ma la rispettavano profondamente, e non permettevano che la volontà umana,
sempre cattiva e arbitraria, determinasse violentemente il destino di un'anima in cerca della
salvezza. Essi non ricercavano il martirio, e il loro coraggio di fronte alla morte non proveniva
dall'indifferenza verso la vita, ma dall'ardore della loro fede.
I 'perfetti' si distinguevano anche per la dolcezza e la serietà dei loro discorsi, per l'abitudine
di pregare e di parlare sempre di Dio. Il sopracitato Cosma vi vedeva un abile stratagemma e
un'espressione di orgoglio: non alzano mai la voce, non dicono mai cose sconvenienti, aprono la
bocca solo per pronunciare parole pie e sempre pregano pubblicamente, proprio come gli
ipocriti denunciati dal Signore; sono lupi travestiti da agnelli, che seducono gli ignoranti con la
loro indiscreta religiosità.
Può essere che i 'perfetti' pregassero secondo regole e tecniche particolari, probabilmente di
tradizione orientale. Ad ogni modo l'esempio spesso citato del 'perfetto' incontrato da
Berbeguera, moglie del signore di Puylaurens, che restò seduto «immobile come un tronco
d'albero, insensibile a quanto gli succedeva intorno» (5), fa pensare all'estasi di un santone indù.
Ma è evidente che restando seduti, immobili, non si conquistano i cuori. I 'perfetti' erano stimati
soprattutto per le loro opere di carità.
Vivevano in povertà, ma usavano i doni dei fedeli per soccorrere i bisognosi; e quando non
avevano nulla da offrire, portavano il conforto della loro parola e della loro amicizia, senza
disdegnare la compagnia dei più diseredati. Spesso erano medici, ciò che può apparire
paradossale in uomini che disprezzavano tanto il corpo. Sarà pur stato un abile strumento di
propaganda, ma è certo che non si diviene buoni medici senza riservare attenzioni e amore
verso il corpo che si cura; la carità si rivolge al corpo più che all'anima. Nei processi
dell'Inquisizione si cita la testimonianza del cavaliere Guglielmo Dumier che, curato
amorevolmente da un medico cataro, fu da lui abbandonato il giorno che si rifiutò di abiurare la
fede cattolica. Fatti del genere non dovevano essere frequenti: medici che si comportassero in
questo modo avrebbero subito perso la clientela, quindi i potenziali convertiti.
Discorso analogo può farsi a proposito della testimonianza della moglie di Guglielmo
Viguier: malgrado questi cercasse di convertirla al catarismo «a bastonate» (6) (un mezzo di
persuasione ben poco efficace), rifiutò di farlo perché i 'buonuomini' le avevano detto che il
figlio di cui era incinta era un demonio. Marito e moglie dovevano essere discretamente
ignoranti, e il 'buonuomo' mancava di tatto, ma questa è evidentemente una di quelle eccezioni
che confermano la regola: predicatori che sistematicamente usassero un linguaggio simile non
si sarebbero guadagnati una diffusa fama di bontà.
E' generalmente riconosciuto che la carità dei 'perfetti' non si indirizzava solo agli adepti
della loro setta, e che al contrario proprio questa carità attraeva i bisognosi verso i ministri
catari che li aiutavano. Si possono ingannare i grandi e i sapienti, ma non il popolino, che non
ama né l'austerità né le belle parole, ma solo la bontà e la compassione sincera. Tutte le
testimonianze concordano nell'affermare che i 'perfetti' conquistarono il cuore dei loro fedeli
con l'esempio; l'unico documento che ci resta del segreto della loro vita spirituale e
dell'influenza della loro personalità è quello, clamoroso ma impreciso, dello straordinario
successo del loro apostolato.
Le cause secondarie che hanno favorito l'espansione del movimento cataro sono tanto
numerose ed evidenti che, elencandole, si potrebbe dare l'impressione che la nuova religione
non avesse nemmeno bisogno di apostoli così ammirevoli per riuscire ad allontanare da Roma
le popolazioni del Mezzogiorno di Francia.
L'aspetto più spettacolare di questa religione - e il più ripugnante per il mondo cristiano -
ossia il rifiuto assoluto dei dogmi della Chiesa e dei suoi simboli più sacri, ha sconvolto e
inorridito i paesi nei quali la Chiesa era forte mentre l'eresia era poco diffusa. Nel Sud della
Francia i progressi dell'eresia andarono di pari passo con la crescente decadenza della Chiesa, al
punto che diviene difficile dire quale dei due fenomeni abbia determinato l'altro. Quel che
sappiamo dei capi della Chiesa locale, all'epoca della crociata, basta a mostrare che vescovi
simili avrebbero fatto dubitare della santità della Chiesa anche i cattolici più ferventi.
Ecco la testimonianza di Innocenzo Terzo sul clero della Linguadoca, e in particolare su
Berengario Secondo, arcivescovo di Narbonne: «Ciechi, cani muti che non sanno più abbaiare,
simoniaci che vendono la giustizia assolvendo i ricchi e condannando i poveri. Costoro non
rispettano più neanche la legge della Chiesa: accumulano i benefici, conferiscono il sacerdozio
e le dignità ecclesiastiche a uomini indegni, a fanciulli analfabeti. Di qui l'insolenza degli
eretici, di qui il disprezzo dei signori e del popolo verso Dio e verso la sua Chiesa. In questa
regione i prelati sono la favola dei laici. Ma la causa di ogni male è l'arcivescovo di Narbonne:
quest'uomo non conosce altro Dio che il denaro, e ha una borsa al posto del cuore. Da dieci anni
che è in carica non ha mai visitato la sua provincia e nemmeno la sua diocesi. Si è fatto dare
cinquecento monete d'oro per consacrare il vescovo di Maguelonne, e quando gli abbiamo
chiesto dei sussidi per la salvezza dei cristiani d'Oriente, ha rifiutato di obbedirci. Quando una
chiesa rimane vacante, si guarda bene dal nominare un titolare, per tenersi le rendite. Ha
dimezzato il numero dei canonici di Narbonne per prendersi le prebende relative; e si accaparra
anche gli arcidiaconati vacanti. Nella sua diocesi monaci e canonici regolari gettano la veste, si
sposano e vivono facendo gli usurai, gli avvocati, i giullari o i medici» (7). Questo quadro è
così eloquente che è difficile aggiungervi qualcosa; ma l'inchiesta papale rivelò anche che
l'arcivescovo era sotto la tutela del capo dei briganti aragonesi, di un bandito di strada. Il papa
lanciò vanamente fulmini contro Berengario: questo vecchio intrattabile, assai più pronto a
difendere i suoi interessi che a seguire la sua diocesi, tenne testa per anni ai legati, e si lasciò
deporre solo nel 1210, quando la crociata aveva trionfato con la forza delle armi.
Il vescovo di Tolosa, Raimondo di Rabastens, che si trovava nel centro di diffusione
dell'eresia, passò la vita a guerreggiare con i suoi vassalli, e per procurarsi le risorse necessarie
diede in pegno le terre del dominio episcopale. Quando nel 1206 venne finalmente deposto per
simonia, il suo successore, Folco di Marsiglia, abate di Thoronet, trovò nelle casse del
vescovado appena novantasei soldi tolosani, e non disponeva nemmeno della scorta per
condurre i suoi muli all'abbeveratoio (l'autorità del vescovo era così poco rispettata che egli non
osava mandare i suoi muli all'abbeveratoio pubblico senza scorta armata); era praticamente
braccato dai creditori del suo predecessore, che venivano a importunarlo fin nel capitolo. Il
vescovado di Tolosa, come dice Guglielmo di Puylaurens, «era morto». I concili svoltisi in
Linguadoca durante questo periodo ordinarono a vescovi e abati di portare la tonsura e gli abiti
del proprio ordine, vietarono di indossare lussuose pellicce, di fare giochi d'azzardo, di giurare,
di tenere alla loro tavola musici e buffoni, di sentire i mattutini stando a letto, di chiacchierare
di argomenti frivoli durante l'ufficio sacro, di lanciare scomuniche a casaccio. Si raccomandava
loro di convocare almeno una volta all'anno il sinodo, di non accettare denaro per ordinare i
sacerdoti, di non farsi pagare per celebrare matrimoni illeciti o invalidare testamenti
perfettamente legittimi.
Quale poteva essere l'atteggiamento dei laici di fronte a prelati che trascuravano i loro doveri
fino a questo punto? E' ben noto: nessuna persona rispettabile voleva più destinare i suoi figli al
sacerdozio e, secondo la testimonianza di Guglielmo di Puylaurens, «le funzioni ecclesiastiche
ispiravano ai laici un tale disprezzo che ci si riferiva a esse, come agli ebrei, in certe locuzioni
imprecative. Come si dice: 'Preferirei essere ebreo', si diceva 'Preferirei essere cappellano che
fare questo o quello'. I chierici, quando si mostravano in pubblico, nascondevano le loro piccole
tonsure riportando verso la fronte i capelli della nuca. Raramente i nobili destinavano al
sacerdozio i loro figli: mandavano solo i figli dei loro vassalli alle chiese di cui percepivano le
decime. I vescovi tonsuravano chi potevano, secondo le circostanze...» (8). Il basso clero,
reclutato come capitava, trascurato dai vescovi, disprezzato dal popolo, viveva in condizioni
così miserabili che, secondo la testimonianza di Innocenzo Terzo citata sopra, i sacerdoti
disertavano in massa, per dedicarsi ad attività che offrivano migliori possibilità.
Questo deplorevole stato di cose provocò la protesta indignata sia del papa, sia degli abati e
dei vescovi dei paesi stranieri, in particolare di quelli di tradizioni cistercensi, come Giovanni di
Salisbury. Goffredo di Vigeois non risparmiò critiche al clero regolare; disse che i monaci
portavano gli abiti dei laici, mangiavano carne e litigavano fra loro: «Conosco un monastero
retto da quattro abati».
Quanto all'atteggiamento dei laici, era ancor più severo. I trovatori scrivevano dei sirventesi
pieni di rabbia e di disprezzo verso il lusso, l'immoralità, la venalità dei prelati. Le loro scuderie
- dicevano - sono migliori di quelle dei conti, mangiano solo pesci rari e salse preparate con
spezie costose, offrono alle loro amanti gioielli preziosi; si scandalizzano come ipocriti per cose
innocenti come la bellezza degli ornamenti delle donne, non si curano della carità e della
giustizia, amano i ricchi e opprimono i poveri. Gli attacchi più violenti contro i costumi della
Chiesa erano ormai un luogo comune della letteratura satirica, persino negli ambienti
ecclesiastici.
Numerosi edifici religiosi vennero abbandonati per mancanza di sacerdoti che provvedessero
al servizio; in alcune chiese il popolo organizzava incontri per danzare o cantare canzoni
profane. Una situazione simile andava di pari passo con l'ascesa della Chiesa catara, e spesso i
parrocchiani che lasciavano le loro chiese andavano ad ascoltare le prediche dei 'buonuomini'.
Ma bisogna anche tener conto di un certo spirito di indifferenza religiosa che aveva finito per
diffondersi nel popolo in seguito alla trascuratezza del clero. Quanto alle classi più alte, quando
non erano conquistate all'eresia davano prova di una tolleranza così grande da fare scandalo in
un'epoca di fede come quella. Se c'erano cattolici sinceri - ciò che è assolutamente certo - il loro
cattolicesimo non era quello del papa, dei legati o della massa dei credenti degli altri paesi. La
nobiltà, del resto, doveva contare un buon numero di scettici o di indifferenti che, in modo del
tutto sincero, proclamavano che l'impero di Roma e il papa non valevano nulla rispetto al bacio
di una dama.
Certo, bisogna sempre guardarsi dal prendere troppo alla lettera le invettive dei papi e dei
monaci, o lo sdegno dei poeti satirici: una Chiesa che poteva ancora permettersi un linguaggio
simile e tollerare senza turbamenti simili attacchi era una Chiesa forte. Le diocesi della
Linguadoca non erano tutte in mano a vescovi come Berengario di Narbonne, non tutte le
chiese erano abbandonate e si può sospettare che cronisti cattolici come Guglielmo di
Puylaurens abbiano reso un po' più cupo il quadro per dimostrare quanto la crociata fosse
necessaria. Capita spesso che un regime che ha trionfato con la forza esageri, in perfetta buona
fede, le tare di quello che l'ha preceduto. Anche all'epoca della crociata il Sud della Francia non
doveva essere privo di tranquille parrocchie servite da bravi curati, e non tutti quanti sentivano
la messa nelle grandi cattedrali di Albi o di Tolosa dovevano essere colmi di disprezzo verso la
Chiesa romana. Ma resta vero che per molti cattolici non fu troppo traumatico staccarsi da una
Chiesa indebolita e screditata.
I fatti citati sin qui mostrano anche come le popolazioni raggiunte dall'apostolato dei
missionari catari non possedessero un'istruzione religiosa sufficiente per combattere gli
argomenti di questi temibili logici. Fra i convertiti troviamo dei borghesi, dei nobili, a volte dei
gran signori, dei sacerdoti, dei monaci, degli artigiani; mai dei vescovi, degli abati, dei teologi o
dei dottori della Chiesa (9). (Questi, certo, non avevano alcun interesse a convertirsi all'eresia,
ma non sempre le conversioni sono dettate dall'interesse.) L'eresia trionfò sia per la forza della
sua dottrina, sia per l'ignoranza religiosa di una società laicizzata. Per essere del tutto espliciti,
questa evidente eresia poté apparire a molti sinceri cattolici come l'espressione della più pura
ortodossia.
Infine, checché si sia detto sul carattere inumano e aristocratico di questa religione di eletti, i
suoi ministri erano infinitamente più vicini ai loro fedeli di quanto lo fossero i pastori cattolici.
Poveri, si mescolavano al popolo, condividendone la vita e le fatiche; non rifiutavano di sedersi
a un telaio o di aiutare i mietitori nella raccolta del grano; restituivano ai miseri il coraggio con
l'esempio di una vita più dura di quella dell'ultimo dei contadini. Rappresentavano per i loro
fedeli una forza reale, che si imponeva senza solennità e cerimonie. Erano - come dicevano essi
stessi - la Chiesa dell'Amore, non facevano violenza a nessuno; e la loro Chiesa diveniva
prospera e potente nel paese, poiché quanti si convertivano alla religione catara avevano la
sensazione di appartenere a una comunità più ricca di vita interiore, più viva e più unita della
Chiesa cattolica.
Sappiamo poco sui 'credenti' catari; non conosciamo nemmeno il loro numero. Sappiamo
che la popolazione di certi borghi e di certi castelli era interamente composta di eretici, che essi
erano nettamente in maggioranza in certe regioni, come nella valle dell'Ariège, che in alcune
corporazioni erano più numerosi che in altre - così il termine 'tessitori' divenne l'etichetta
corrente per designare gli eretici; ma questa massa di credenti ci appare oggi come una realtà
più indefinita, più instabile, più disorganizzata di quanto non fosse. In nessun documento
ufficiale troviamo traccia dell'organizzazione della Chiesa catara: il seguito degli avvenimenti
mostrerà che costoro non avevano del resto alcun interesse a farsi registrare come eretici.
Un'organizzazione però esisteva. Le province avevano i loro vescovi, assistiti da un 'figlio
maggiore' e da un 'figlio minore'; prima di morire il vescovo designava come suo successore il
'figlio maggiore', il 'figlio minore' saliva di grado e il suo posto veniva preso da chi risultava
eletto dall'assemblea dei 'perfetti'. Si sa che i 'perfetti' non furono mai molti. Tutta la parte
amministrativa e finanziaria dell'organizzazione di questa Chiesa era affidata ai credenti che
vivevano ancora nel mondo, dai ricchi commercianti che gestivano i fondi necessari al
mantenimento delle case comuni, fino agli uomini e alle donne del popolo, che portavano
messaggi, tenevano i contatti o facevano le guide. Ovunque i 'buonuomini' si fermassero a
predicare, trovavano asilo nella casa di un fedele noto per la sua onestà e per il suo zelo
religioso. Quando si legge nei processi verbali dell'Inquisizione che la casa del tale o del talaltro
aveva ospitato dei 'perfetti', si può supporre che i credenti giudicati degni di quest'onore non
fossero scelti a caso e costituissero già una specie di aristocrazia entro la massa dei fedeli.
Inoltre, nelle case della comunità viveva sempre un certo numero di persone desiderose di
ricevere lo Spirito, la cui vita era consacrata allo studio dell'insegnamento della Chiesa e alla
preghiera; nemmeno costoro, giovani affidati ai 'perfetti' dai genitori, spesso fin dalla più tenera
infanzia, o convertiti di ogni età ma non ancora 'consolati', possono essere annoverati fra i
semplici fedeli. C'erano poi i credenti che, pur vivendo nel mondo, osservavano già parte delle
regole imposte ai 'perfetti' - la castità, il digiuno, la preghiera; come c'erano, ed erano i più
numerosi, quelli che vivevano come tutti, limitandosi a seguire le cerimonie di culto e a onorare
i 'buonuomini'.
Questi, in teoria, erano solo tenuti all'obbligo di fare il loro "melioramentum", o venerazione,
davanti ai 'buonuomini': una cerimonia semplicissima, che consisteva nell'inchinarsi tre volte
dicendo al 'perfetto': «Pregate Dio perché faccia di me un buon cristiano e mi accordi una buona
morte». Il 'perfetto', benedicendo il fedele, rispondeva: «Che Dio faccia di te un buon cristiano
e ti conduca a una buona morte». Non esistevano altri doveri per i semplici credenti, che
potevano persino seguitare a frequentare per prudenza le chiese cattoliche. I credenti catari,
infatti, non andavano più in chiesa, o vi andavano solo per paura o per abitudine; e come
abbiamo visto, in molte parrocchie non avevano più bisogno di farlo.
I fedeli sinceri, se non partecipavano al sacramento, facevano con regolarità - in genere una
volta al mese - il loro "aparelhamentum": confessavano pubblicamente i loro peccati e
chiedevano a Dio il perdono. Ma non era una vera e propria confessione pubblica, bensì un atto
di contrizione, redatto in forma abbastanza generale da comprendere ogni peccato, specie quelli
di omissione e di negligenza nel realizzare la volontà divina. Il 'perfetto' che officiava la
cerimonia rimetteva i peccati ai fedeli e imponeva loro una penitenza che comportava digiuni e
preghiere. I catari pregavano molto, ma la loro preghiera consisteva soprattutto nel ripetere il
"Pater" in lingua occitana (sostituendo le parole 'pane sovrasostanziale' alle parole 'pane
quotidiano') e nel meditare sui commenti dell'orazione domenicale. Esistono alcune preghiere
catare (10), ma la vera, grande, sola preghiera, quella che rappresentava il centro del culto e il
pane quotidiano del 'perfetto' come del semplice credente, è sempre stato il "Pater".
Si comprende allora come la vita del credente cataro, pur priva di sacramenti, fosse una reale
vita religiosa, addirittura più intensa e più profonda di quanto poteva essere quella della
maggior parte dei cattolici; e questo per la semplice ragione che la Chiesa catara, se non
perseguitata, era ancora perlomeno illegale e semiclandestina. E' vero che in varie regioni non
lo era più; all'epoca della crociata un gran numero di persone era stato costretto a convertirsi al
catarismo, per conformismo o per interesse. Ma la nuova Chiesa conservava integro il suo
carattere di Chiesa perseguitata: chi diveniva eretico per convinzione poteva ritemprare la sua
fede nel ricordo ancora vivo dei roghi.
Alla fine del dodicesimo secolo la comunità catara disponeva di beni considerevoli: i
'perfetti' - per lo più uomini provenienti da ambienti agiati - le donavano le loro ricchezze; molti
credenti sul letto di morte lasciavano in eredità alla nuova Chiesa tutte le loro sostanze;
numerosi fedeli ricchi facevano doni ai 'buonuomini', non solo in denaro, ma anche in terreni,
case, castelli. Malgrado la regola della povertà assoluta che si erano imposti e che non
tradivano, i 'perfetti' accettavano tutte queste donazioni, che facevano amministrare
nell'interesse della loro Chiesa. Ben presto li si accusò di rapacità e di avarizia (lo fecero i loro
nemici, non ancora i loro amici). Il fatto è che oltre a fornire immediato soccorso ai poveri, le
comunità catare dovevano mantenere le loro 'case', che erano al contempo scuole, monasteri e
ospedali. Inoltre essi fondarono delle comunità operaie, in particolare dei grandi laboratori di
tessitura, che fungevano sia da centro educativo per la gioventù sia da luogo di preparazione al
noviziato. Molte nobildonne lasciavano case e beni alle comunità, e fondavano veri e propri
conventi, ove educavano le giovani bisognose e le figlie di quei nobili che volevano consacrare
la loro prole al servizio di Dio. Nelle montagne della valle dell'Ariège si formarono comunità
monastiche: vedove, fanciulle votatesi alla perpetua castità e persino donne sposate che
lasciavano i loro mariti per meglio servire Dio, si riunivano e vivevano in grotte o in piccole
capanne, dandosi alla meditazione e alla preghiera. Queste comunità eremitiche acquistarono
nel paese una grande fama di santità.
Si è più volte sottolineato il ruolo giocato dalle donne entro le comunità catare. In un primo
tempo - ed è un fatto constatabile ogni volta che appare una nuova religione - un grande
predicatore scatena un'ondata di entusiasmo collettivo, diremmo quasi di isteria, al quale le
donne sono più sensibili degli uomini. Non solo ogni zelante propagandista di una nuova setta
religiosa, ma ogni sacerdote dotato di una personalità forte viene ben presto circondato da un
gruppo di donne esaltate e devote, pronte ad accogliere ogni sua parola come Vangelo. Non
dimentichiamo che, proprio in questa stessa eretica Linguadoca, le donne più degli uomini
furono toccate dalla predicazione di san Domenico. Lo stesso valeva per i 'perfetti' catari:
nell'accettazione della nuova fede le donne dimostrarono maggior fervore degli uomini, e
spesso trascinarono i loro mariti, più tiepidi o più prudenti.
Si aggiunga che nel Sud della Francia le donne godevano di una indipendenza morale
maggiore che nei paesi settentrionali. Se il rispetto della donna era, da oltre un secolo, un topos
letterario, è perché la donna da tempo aveva saputo farsi rispettare. La tradizione dell'amor
cortese si è diffusa in tutta Europa dalla Linguadoca, e se i signori locali non sempre si
comportavano in modo cavalleresco, erano almeno cavallereschi a parole. Torna alla mente la
celebre frase indirizzata da frate Stefano di Minia, compagno di san Domenico, a Esclarmonde,
sorella del conte di Foix: «Signora, andate a filare la vostra conocchia: non spetta a voi
prendere la parola su argomenti come questi!» (11). Si può facilmente immaginare lo
sbigottimento, l'indignato disprezzo di questa gran dama, regina sulle sue terre, avanti negli
anni, vedova, sei volte madre, 'perfetta' venerata da tutti i credenti, messa a tacere in modo tanto
brusco. Bisognava essere stranieri, e un po' rozzi, per permettersi un linguaggio simile. Le
donne della Linguadoca (come d'altronde quelle dell'intera Francia) non avevano alcuna
intenzione di essere rispedite a filare, essendo spesso più colte dei loro mariti. Questo valeva
per il mondo laico; nella comunità cattolica esse erano inferiori per definizione.
La religione catara, che negando la realtà della vita carnale negava la realtà del sesso,
proclamava implicitamente l'uguaglianza fra l'uomo e la donna. E' vero che nemmeno il
cattolicesimo negava quest'uguaglianza, ma di fatto restava una religione decisamente
antifemminista. Nel catarismo quest'aspetto era molto attenuato. Le donne che avevano ricevuto
lo Spirito avevano il potere di trasmetterlo tramite l'imposizione delle mani proprio come gli
uomini, anche se in pratica lo facevano molto più raramente di loro, solo in casi eccezionali.
Non si trovano donne fra i vescovi e i diaconi catari; la parte attiva dell'apostolato era riservata
agli uomini, più adatti a sopportare i pericoli e le fatiche di una vita vagabonda. Le donne
'perfette' godevano ciononostante di una grande considerazione, e alcune di loro erano
considerate madri delle loro comunità.
Fra i 'perfetti' c'erano meno donne che uomini, ma la differenza era minima. Parlando degli
eretici 'rivestiti' catturati dai crociati, gli storici dell'epoca non ci forniscono cifre esatte, ma non
sembra vi sia stata una schiacciante preponderanza di maschi. Le 'buone cristiane' indirizzavano
il loro apostolato specialmente alle donne. Come abbiamo già visto, si occupavano in
particolare dell'educazione delle fanciulle, oppure erano infermiere o medici: le donne, allora,
preferivano farsi curare da donne. Infine, più spesso ancora dei 'perfetti', le donne 'perfette' si
davano alla vita contemplativa, Fra i semplici credenti, invece, le donne pare fossero più
numerose degli uomini, e comunque più impegnate. Dalla gran dama circondata di poeti e
ammiratori alla vedova che consacrava la sua vita alla preghiera e alle opere di carità, passando
per la popolana che serviva i 'buonuomini' a tavola o viaggiava attraverso il paese portando i
loro messaggi, le fedeli catare si misero più in mostra degli uomini. La ragione è evidente:
anche quando la loro fede era profonda gli uomini avevano obblighi professionali, sociali,
militari, ai quali non potevano rinunciare. In una società nella quale gran parte delle relazioni
umane si fondava sulla pratica del giuramento, gli uomini non potevano professare troppo
apertamente una religione che proibiva il giuramento. Le donne, da questo punto di vista più
libere, potevano invece dedicarsi alla vita religiosa senza venir meno ai loro altri doveri.
Inoltre, anche prima della crociata, la semplice prudenza poteva consigliare gli uomini a non
fare sfoggio delle loro convinzioni: se il conte e la maggior parte dei grandi signori feudali del
paese erano favorevoli all'eresia, il loro atteggiamento avrebbe potuto cambiare, e la Chiesa di
Roma restava potente, e deteneva parte delle funzioni amministrative. Ecco perché gli eretici
venivano spesso ospitati da donne (Bianca di Laurac, Guglielmina di Tonneins, Fabrizia di
Mazeroles, Ferranda, Serrona, Na Baiona, e altre ancora).
In questo modo, poiché l'eresia era solo tollerata e non ufficialmente riconosciuta, i padri, i
fratelli, i mariti erano al sicuro dinnanzi alla legge. Così il conte di Foix, protettore degli eretici,
rifiutò ogni corresponsabilità nelle iniziative di sua sorella Esclarmonde, notoriamente eretica:
«Se mia sorella è stata una donna malvagia e ha peccato, non devo morire io per i suoi
peccati...» (12). Tutto ciò non significa, comunque, che all'occasione gli uomini dimostrassero
minore zelo religioso delle donne.
4. ASPETTI SOCIALI E MORALI DEL CATARISMO.
Vale la pena di soffermarsi con maggiore attenzione su quanto si è sostenuto a proposito
della moralità e dell'immoralità dei catari, considerato che la maggior parte degli avversari della
loro religione hanno condotto il loro attacco proprio su questo terreno. Poiché il valore
profondo di una religione si giudica dai suoi effetti sul comportamento dei fedeli, quanti
lottavano contro il catarismo non potevano certo proclamare che questa religione rendeva
caritatevoli e virtuosi i suoi adepti. Ecco perché essi lanciavano continue accuse di ipocrisia ai
'perfetti' e di immoralità ai loro seguaci.
Per quanto concerne i 'perfetti', il loro comportamento di fronte alla morte li mette
definitivamente al riparo da ogni sospetto di ipocrisia. Ciononostante la loro austerità è parsa
così strana ai contemporanei cattolici che essi hanno infinite volte rinfacciato loro vizi segreti e
vergognosi, in particolare pratiche omosessuali (accusa che si spiega con il fatto che i 'perfetti',
uomini o donne che fossero, vivevano a due a due e non si separavano mai dal loro "socius" o
"socia"). Anche quando ammettevano la purezza morale dei 'perfetti', i polemisti cattolici la
trovavano poco naturale, e attribuivano a questi asceti sentimenti di riprovazione e di invidia
verso quanti non avessero rinunciato alle gioie del mondo; ciò che indurrebbe a pensare che la
maggior parte dei preti e dei monaci dell'epoca fossero lungi dal praticare la castità e la povertà;
in caso contrario le virtù dei ministri catari non avrebbero stupito nessuno.
In una società nella quale anche il clero faceva di tutto fuorché dare esempi di virtù (come
testimoniano i papi, gli abati e i vescovi, per non parlare della letteratura profana), dobbiamo
credere che i laici seguissero una morale più austera? Quanto si è detto sull'immoralità di alcuni
catari doveva applicarsi anche ai cattolici di allora, e la vita privata dei gran signori (non si sa
nulla su quella degli uomini comuni) dei costumi che la licenza dei costumi era generalizzata: la
società medievale, specie nel Mezzogiorno della Francia, non conosceva quasi l'ipocrisia, e la
vanità, la cupidigia, la lussuria non erano vizi che si dovessero dissimulare.
D'altro canto il rimprovero, spesso rivolto ai 'perfetti', di frequentare gente poco
raccomandabile ricorda troppo quello fatto a Gesù dai farisei per dover essere veramente preso
sul serio. Nel loro zelo apostolico, per di più, i 'perfetti' - come i missionari cattolici nei paesi
nei quali la religione ufficiale aveva una forte organizzazione - erano costretti a interessarsi
soprattutto agli emarginati, ai reprobi di ogni specie, gente di moralità incerta, che non sempre
le prediche riuscivano a rimettere sulla buona strada. Ed essendo ben noto lo spirito di carità dei
'perfetti', molti dovevano essere i parassiti che, con il pretesto della conversione religiosa,
cercavano presso di loro un rifugio dalla miseria. Ma una comunità non va giudicata dai suoi
membri più deboli e meno disinteressati.
Ora, per quanto concerne i veri credenti, quelli che si davano anima e corpo alla loro Chiesa,
che assistevano ai "consolamenta", che accoglievano nelle proprie case i ministri della setta, la
principale accusa mossa nei loro confronti era di vivere con delle 'concubine', avendone magari
dei figli illegittimi. In effetti, spesso si parla di fedeli che assistono a un rito eretico in
compagnia delle loro concubine ("amasia", ossia amante), «Willelmus Raimundi de Roqua et
Arnauda, amasia ejus; Petrus aura et Boneta, amasia uxor ejus; Raimunda, amasia Othonis de
Massabrac, eccetera» (13). Ma per i cattolici ogni donna non sposata in chiesa era
automaticamente una concubina; e i catari potevano avere le loro buone ragioni per non
sposarsi in una chiesa di cui disprezzavano i riti: è ad esempio il caso di Ottone di Massabrac,
cavaliere della guarnigione di Montségur, appartenente a una famiglia catara da tre o quattro
generazioni e come tale proscritto all'epoca dell'Inquisizione. In ogni modo, il semplice fatto di
non sposarsi in chiesa non può di per sé costituire prova di immoralità, e alla fine del secolo
scorso si sono viste donne davvero austere rivendicare fieramente il diritto al matrimonio civile.
E' noto che, in genere, gli adepti delle religioni nuove tendono al puritanesimo più che al
rilassamento dei costumi.
D'altronde gli Inquisitori sono unanimi nel constatare che per gli eretici il matrimonio era
uno stato satanico: «... Essi dichiarano che conoscere carnalmente la propria moglie non
costituisce una colpa minore di avere rapporti incestuosi con la propria madre, una propria
figlia o sorella» (Bernardo Gui [14]). Ma siamo certi che i 'perfetti' abbiano voluto predicare e
diffondere nel popolo idee tanto pericolose? Simili dichiarazioni potevano incoraggiare i fedeli
a commettere incesto con le loro madri o le loro figlie? E' più che probabile che discorsi come
quelli riportati da Bernardo Gui (se sono autentici) si indirizzassero solo agli iniziati, vale a dire
agli stessi 'perfetti' e a quanti aspiravano all'iniziazione; uomini per i quali un matrimonio, e un
matrimonio benedetto da Dio, sarebbe stato uno scandalo altrettanto grave del matrimonio di un
monaco o di un sacerdote presso i cattolici. La stessa Chiesa cattolica da sempre ammetteva che
per un monaco le più colpevoli debolezze, purché passeggere e seguite dal pentimento, erano
meno gravi di una ufficiale e sacrilega consacrazione del peccato nel matrimonio. E' in questo
senso che bisogna intendere il rigorismo dei 'perfetti'.
Si è rimproverato ai 'buonuomini' di condannare la procreazione in termini spesso violenti, e
di proclamare che le donne incinte si trovavano nel peccato e nell'impurità; ma (come prova la
cerimonia della purificazione della puerpera) anche la Chiesa cattolica ammetteva l'essenziale
impurità della procreazione e del parto. Tuttavia per quest'ultima il bambino era un dono di Dio
e non una maledizione, poiché la sua teologia riconosceva l'inesplicabile mistero dell'amore di
Dio anche per la materia corrotta. Ma la Chiesa stessa faticava a far entrare in un coerente
sistema di valori una simile saggezza, che affondava le sue radici nell'antico pensiero ebraico e
forse in certe tradizioni pagane; il medioevo, epoca razionalista e amante della logica, sembrava
negare la possibilità di una quarta dimensione, anche presso Dio.
L'accusa di immoralità lanciata ai credenti catari è tanto più singolare in quanto, per molti di
loro (soprattutto donne), il matrimonio diveniva un simbolo di riconciliazione con la Chiesa:
Covinens di Fanjeaux, convertita da san Domenico, «abbandonò i loro errori e si sposò».
«Bernarda visse tre anni nell'eresia, poi si sposò ed ebbe due figli...» (15). Non si dice che
queste donne prima del matrimonio conducevano una vita disonesta, ma solo che erano rimaste
vergini. Lo stesso vale per una giovane eretica della Champagne, mandata al rogo a Reims nel
1175 (16) e accusata di catarismo per il solo fatto che voleva a ogni costo mantenersi vergine. I
fedeli catari, dunque, si facevano notare più per la loro purezza che per il loro libertinaggio.
Ma, si dirà, questa era solo un'élite; e gli altri? E' probabile, in effetti, che un certo numero di
persone, zelanti nella fede ma troppo deboli per resistere alle tentazioni, abbiano abbandonato
lo stato coniugale per rinunciare al mondo, ma siano ricaduti poi nel peccato, provocando lo
scandalo e gettando il discredito sulla loro comunità. Anche se i 'perfetti' non si allontanavano
da queste pecore smarrite, non potevano avere interesse a favorirne l'immoralità, dal momento
che dei cattolici denunciavano violentemente proprio la licenziosità morale.
(Il caso della giovane di Reims è del resto assai significativo dal punto di vista della
mentalità degli avversari del catarismo: Rodolfo, abate di Coggeshall in Inghilterra, racconta
che l'arcivescovo di Reims passeggiava un giorno con i suoi chierici nei dintorni della città e
che uno di questi, Gervasio Tilbury, vista una ragazza che camminava da sola in una vigna, le
andò incontro facendole proposte galanti - «benché fosse canonico»; proposte alquanto
esplicite, dobbiamo credere, poiché la fanciulla, «con modestia e serietà, osando appena
guardarlo» rispose che non poteva darsi a lui poiché «perdendo la verginità il mio corpo si
corromperebbe, e sarei irrimediabilmente votata alla dannazione eterna». Udito un linguaggio
simile, il giovane chierico riconobbe in lei un'eretica e la denunciò come tale all'arcivescovo,
che stava arrivando con il suo seguito. La ragazza - insieme alla donna che l'aveva educata -
venne condannata al rogo, e morì con un coraggio che suscitò l'ammirazione dei presenti. Di
fronte a una storia come questa non si sa che cosa ammirare di più: l'eroismo di quest'anonimo
martirio o l'incoscienza dei giudici e del cronista, che trovano del tutto naturale che un chierico
cerchi di sedurre una ragazza e si serva della sua impudenza come argomento contro la sua
vittima. Contro chi poteva scagliare pietre una Chiesa che tollerava una tale decadenza morale?)
Insomma, non sembra che la maggior parte dei credenti catari abbia vissuto peggio dei cattolici.
Anzi, a giudicare dagli elenchi delle famiglie nobili (gli unici elenchi rimastici) che apertamente
aderirono al catarismo, non sembra affatto che questa religione abbia minimamente tentato di
nuocere alla vita familiare, condannando il matrimonio e la procreazione; al contrario, l'edificio
sociale della Chiesa catara si fondava in gran parte sulle grandi famiglie e sulle tradizioni
trasmesse di padre in figlio. Questi elenchi evocano l'immagine di un ambiente nel quale i
legami familiari erano solidi e rispettati. Gli adepti più ferventi - costretti a 'convertirsi' dalle
persecuzioni - riconoscevano tutti di essere stati allevati nella fede da madri, nonne, zii, zie;
davano le loro figlie in spose ai figli di altri credenti; si facevano 'consolare' dai fratelli o dai
suoceri. Grandi signore come Bianca di Laurac avevano un vero e proprio ruolo di capo clan,
circondate da innumerevoli figli, figlie, nipoti, generi, nuore, tutti cresciuti nell'identico fervore
per la fede catara. Le signore di Niort, di Saint-Michel, di Festes, di Fanjeaux, di Mirepoix, di
Castelbon, di Castelverdun, di Cabaret, di Miraval e altre, erano notoriamente eretiche, e le
deposizioni dei testimoni citano continuamente i diversi membri delle loro famiglie, di qualsiasi
grado di parentela; il che fa pensare che qui (come in tutto il mondo feudale) il senso della
solidarietà familiare fosse molto forte. L'azione corrosiva della religione catara non sembra aver
agito su queste famiglie, che erano però fra le più attaccate all'eresia, ormai da generazioni.
Sarebbe quindi assurdo pretendere che questa religione abbia rappresentato un pericolo per la
società, in quanto elemento di disgregazione della struttura familiare. E' vero che alcune donne
molto pie si ritiravano in convento quando i loro mariti erano ancora in vita; ma in genere lo
facevano avanti negli anni, quando i loro figli erano già grandi e sposati. Più spesso esse
attendevano di divenire vedove, come Bianca di Laurac o Esclarmonde di Foix, che avevano
avuto entrambe molti figli.
Un altro rimprovero (meno frequente) che i cattolici hanno mosso ai catari è quello di aver
spinto i loro fedeli all'anarchismo, con il loro disprezzo per i pubblici poteri, il loro rifiuto della
violenza e della pratica del giuramento. Questo rimprovero, a prima vista, pare più fondato del
precedente. Infatti i catari predicavano che l'autorità temporale non era stata istituita da Dio, ma
da Satana. Tuttavia né i catari della Linguadoca né i valdesi (la cui morale era vicina a quella
catara) hanno manifestato le tendenze rivoluzionarie dei bogomili. Se i valdesi insistevano
sull'obbligo della povertà per tutti i loro seguaci, diversamente facevano i catari, i cui adepti più
zelanti provenivano proprio dalle classi più agiate. In ogni modo, l catari non spingevano i loro
fedeli verso un'aperta rivolta contro i poteri pubblici, nella logica convinzione che in un
universo governato dal demonio nessuna organizzazione sociale avrebbe potuto essere
soddisfacente.
Ciononostante i loro fedeli, pur restando nel mondo, professavano una religione che negava
tutti i principi sui quali si fondava la società nella quale vivevano. Non era inevitabile che il
loro senso della disciplina, degli obblighi verso i loro signori o verso le leggi ne uscisse scosso?
I fedeli sinceri, si trattasse pure di cittadini esemplari, dovevano verosimilmente assolvere i loro
doveri civici con la consapevolezza di adempiere a un compito inutile e del tutto secondario.
Ma anche la Chiesa cattolica non insegnava forse ai suoi fedeli che la patria celeste vale di più
della patria terrestre? Per questo la si accusava forse di seminare l'anarchia? Si incontrano varie
altre accuse contro i catari, spesso ripetute, e se Pietro di Vaux de Cernay è un testimone
decisamente di parte, non doveva sbagliarsi affatto quando sosteneva che i credenti catari
("credentes") si davano «all'usura, alle rapine, agli omicidi, allo spergiuro e a ogni sorta di
perversioni». Egli si riferiva, evidentemente, ai signori e ai cavalieri catari. Non bisogna
dimenticare che le stesse accuse venivano indirizzate alla nobiltà di paesi che non erano
minimamente sospettabili di eresia; e la costante ostilità fra clero e nobiltà ci offrirebbe la più
nera immagine della nobiltà cattolica se, per giudicarla, disponessimo solo delle fonti
ecclesiastiche: eccetto qualche soldato di Cristo, i cavalieri erano dipinti come uomini in preda
ai peggiori istinti, brutali, assetati di ricchezze e di onori, capaci di provare piacere solo nelle
guerre e nelle rapine. La letteratura laica, per parte sua, ignorava o disprezzava il clero; i
vescovi (quando non si dedicavano come Turpin a spaccare la testa ai Saraceni) vi svolgevano
una funzione, nella migliore delle ipotesi, meramente decorativa; e nei paesi più profondamente
cattolici, nobili ed ecclesiastici sembravano vivere in due mondi distinti rivali o meglio ostili.
La nobiltà del Mezzogiorno della Francia, senza essere peggiore di quella degli altri paesi,
aggiungeva ai suoi tanti difetti quello di disprezzare apertamente la religione cattolica; come
meravigliarsi che gli uomini di Chiesa le abbiano lanciato quelle critiche che dispensavano con
tanta prodigalità anche alla nobiltà cattolica? I baroni del Nord non mantenevano sempre la
parola data e coglievano ogni occasione per rivoltarsi contro quei sovrani che avevano giurato
sul Vangelo di servire fedelmente. Quelli del Sud, quand'erano catari, ossia adepti di una
religione che considerava illecito "qualsiasi" giuramento, dovevano considerare quello che
erano costretti a prestare come una semplice formalità, priva di valore morale (o almeno erano
più liberi di farlo quando la cosa risultasse utile ai loro interessi). E' possibile che
'spergiurassero' più spesso degli uomini del Nord? La loro religione, d'altra parte, condannava
anche qualsiasi menzogna, e questo implicava l'obbligo di mantenere una certa dirittura di
comportamento. La religione doveva spingere al tradimento solo quanti l'avrebbero fatto
comunque. Tuttavia anche i più onesti dovevano spesso intrattenere rapporti con la Chiesa
cattolica, che deteneva gran parte delle funzioni ufficiali e amministrative del paese, e questo
indubbiamente incoraggiava l'ipocrisia. Bisogna anche dire che molti piccoli signori avevano
francamente e completamente rotto ogni legame con la Chiesa istituzionale. Nella regione di
Tolosa, nella valle dell'Ariège, nella zona di Carcassonne, alcuni villaggi e a volte dei territori
abbastanza estesi avevano da tempo abbandonato il culto cattolico. Tutti gli abitanti sul letto di
morte ricevevano il "consolamentum", e i 'perfetti' celebravano il culto nelle chiese
abbandonate; si suole citare l'esempio del castello di Termes ove, prima dell'arrivo dei crociati,
non si erano celebrati riti cattolici per venticinque anni e più. I signori "faidits" (quelli che
all'arrivo dei crociati abbandonarono le loro terre) erano credenti catari troppo intransigenti per
simulare una sottomissione alla Chiesa; ed erano numerosi. E' logico supporre che uomini
capaci di sacrificare alla loro fede i beni e la sicurezza non praticassero l'usura e non si
abbandonassero alle rapine e al libertinaggio.
La borghesia delle città meridionali era combattiva; i cavalieri, poveri o ricchi che fossero,
nei periodi nei quali non partecipavano alla vita di corte o alle feste, non se ne restavano a casa:
la gestione dei loro domini, infatti, richiedeva una continua lotta armata contro i vicini, contro i
banditi o contro quei vassalli che rifiutavano la sottomissione. Al pari della Chiesa cattolica,
nemmeno la Chiesa catara aveva potuto trasformare i lupi in agnelli, ma senza dubbio essa
proclamava con maggior forza il suo orrore per la violenza: il credente cataro non poteva mai
avere la sensazione di battersi per una causa santa. Per lo meno, così fu durante i primi anni
della crociata.
I catari avevano il più alto concetto del valore e della dignità della vita: così non
ammettevano che il Dio dell'Antico Testamento potesse essere buono, dal momento che aveva
annegato tutti i popoli della terra con il Diluvio; che aveva fatto morire il faraone e il suo
esercito, gli abitanti di Sodoma, e così via; che aveva approvato degli omicidi e aveva ordinato
al popolo di Israele di massacrare le genti di Canaan. Per i cattolici, la morte dei malvagi non
pareva costituire un problema; la morale dei catari era più esigente e più sfumata. Fondandosi
sul Vangelo, essi pronunciavano un'assoluta condanna della pena di morte e di ogni altra pena
corporale, e sostenevano che i criminali non dovevano essere puniti, ma sottoposti a un
trattamento di rieducazione. Certo, per loro era facile parlare in questo modo, dato che
l'amministrazione della giustizia era nelle mani dei loro avversari, ma resta sconcertante
constatare che dottrine tanto umanitarie fossero denunciate come scandalose dalla Chiesa; ed è
anche comprensibile che esse abbiano potuto sedurre molte persone in un secolo che, proprio
per questo, ci appare meno crudele e primitivo di quanto in genere non si pensi sulla base di
un'analisi superficiale.
Quanti ascoltavano le prediche dei 'perfetti' dovevano avere una coscienza della solidarietà
umana che certo non possedevano quei cavalieri che pensavano di conquistarsi il paradiso
facendo a pezzi i Saraceni. Non era immorale proclamare che l'uccisione di un Saraceno era un
peccato altrettanto grave dell'uccisione del proprio padre, o di un fratello; non era immorale, era
forse imprudente. Vedremo in seguito che la guerra costrinse i 'perfetti' ad abbandonare la loro
intransigenza, permettendo ai loro fedeli di battersi, forse addirittura incoraggiandoli a farlo.
Ma non è impossibile che il loro pacifismo sia stata una delle cause della relativa debolezza
della reazione degli Occitani nelle fasi iniziali della guerra.
5. LA LOTTA CONTRO 'BABILONIA'.
Queste considerazioni ci mostrano che la dottrina catara poteva presentare alcuni pericoli
dal punto di vista sociale, anche se un esame obiettivo della situazione è praticamente
impossibile per la mancanza di dati concreti in proposito. E' certo, comunque, che in
Linguadoca i poteri pubblici, i principi e i baroni, i consoli e i rappresentanti dell'alta borghesia
furono in genere favorevoli all'eresia. In effetti il carattere anarchico di questa religione
preoccupava così poco i grandi signori e i consoli che essi stessi vi aderivano, o spingevano ad
aderirvi le loro mogli e le loro sorelle. Se la Chiesa catara era combattiva, non lo era contro i
detentori del potere temporale, ma contro la Chiesa cattolica.
Questa, come si è indicato in precedenza, era da secoli rivale e spesso nemica della nobiltà.
Se per mezzo delle crociate la Chiesa aveva saputo mobilitare, in parte a suo vantaggio, l'ardore
guerriero e il desiderio di conquista della cavalleria, in tutta la Linguadoca la nobiltà non
crociata dava la caccia ai beni ecclesiastici, rivendicati con bramosia in nome della legge del
più forte. Arricchitasi nel corso dei secoli grazie alle donazioni, ai testamenti, alle imposte
sempre più numerose che esigeva dalle città e dalle campagne, la Chiesa per parte sua si era in
gran parte secolarizzata. Essa gestiva domini immensi e manteneva milizie che li difendessero
(abbiamo visto che vescovi come Berengario di Narbonne non esitavano a farsi raccogliere le
imposte dai capi dei soldati di ventura; se casi simili sono rari, sono tuttavia l'indizio del fatto
che la Chiesa non scherzava con chi non pagava le decime). Con queste imposte, prelevate a
una popolazione già povera, la Chiesa faceva concorrenza ai signori; con la sua ricchezza di
terre e di castelli essa stuzzicava la loro ambizione, tanto più che gli uomini d'armi spesso non
provano altro che disprezzo per i chierici. Ovunque potevano, i signori aprivano controversie o
anche entravano in guerra contro i vescovadi e le abbazie. I prelati (alla fine del dodicesimo
secolo) cominciavano ad abusare delle scomuniche, che restavano sempre una grave seccatura
d'ordine amministrativo, ma che non provocavano più il terrore e che, spesso, rimanevano senza
effetto, essendo state lanciate senza alcun discernimento.
Se nei paesi nei quali nessuno metteva in dubbio la dottrina della Chiesa esisteva un
antagonismo cronico fra Chiesa e nobiltà, nei paesi nei quali prosperava l'eresia
quest'antagonismo diveniva guerra aperta. Dobbiamo credere che alcuni grandi signori siano
divenuti eretici per interesse, per impadronirsi dei beni della Chiesa? E' certo che tutti i grandi
baroni della Linguadoca, in primo luogo il conte di Tolosa, erano maestri nel depredare i beni
della Chiesa. (Lo stesso Raimondo Sesto nel 1209 riconobbe di essersi lasciato andare ad atti di
violenza contro monaci e abati, di aver messo in prigione il vescovo di Vaison, di aver deposto
il vescovo di Carpentras, di aver confiscato castelli e borghi ai vescovi di Vaison, di Cavaillon,
di Rodez, agli abati di Saint-Gilles, di Saint-Pons, di Saint-Thibéry, di Gaillac, di Clarac e altri;
ciò che prova al contempo la rapacità del conte e la ricchezza dei vescovadi e delle abbazie
[17]). Nobiltà e popolo rimproveravano alla Chiesa la sua ricchezza eccessiva e sproporzionata
rispetto ai servizi che rendeva.
I conti di Tolosa e di Foix, i visconti di Béziers confiscavano i beni della Chiesa per
arricchirsi; d'altra parte essi facevano anche importanti donazioni a talune chiese e abbazie. Un
simile modo di agire sembra dettato più da interessi locali e da relazioni personali che da una
ben definita politica. Ma l'apparizione della religione catara (e più tardi valdese) aveva
provocato, o meglio rivelato, in Linguadoca un odio profondo verso la Chiesa cattolica, un odio
che trovava eco in tutti gli strati della popolazione.
Sarebbe falso credere che quest'odio sia stato causato dalla propaganda dei 'perfetti': esso
doveva essere già abbastanza forte da far accogliere favorevolmente da un gran numero di
cattolici gli attacchi più violenti contro la Chiesa. Anzi, si è potuto vedere nel carattere
anticlericale della predicazione catara uno dei principali fattori del suo successo, e questa
spiegazione (che in quanto tale rappresenta il più terribile giudizio che si possa formulare
contro la Chiesa) è stata proposta da taluni storici cattolici, non sospettabili di anticlericalismo.
Ma se in Linguadoca la Chiesa era impopolare e incapace di fronteggiare i suoi compiti,
bisogna dire che la propaganda dei suoi avversari a volte offriva armi alle passioni più basse,
provocava disordini e scandali.
Le confische di terre della Chiesa da parte di signori grandi e piccoli, dopo tutto, potevano
essere una reazione legittima di fronte agli smodati appetiti di alcuni prelati. Ma per i poveri,
che tiravano un sospiro di sollievo all'idea di non pagare più la decima e le numerose imposte
che venivano richieste per somministrare i sacramenti, l'abbandono dell'antica fede non poteva
essere questione di soldi; quanti volgevano le spalle a una Chiesa nella quale avevano creduto,
sia pure in modo vago e di malavoglia, erano spinti da una propaganda spesso indiscreta a
compiere atti odiosi, che verosimilmente i 'perfetti' non avrebbero approvato, ma dei quali
furono in parte responsabili. Radicatasi nel paese, la nuova fede vi aveva suscitato un vero e
proprio fanatismo, che non coinvolgeva la maggioranza dei credenti (infatti in genere cattolici
ed eretici si intendevano fra loro assai bene), ma che non può nemmeno essere attribuito solo a
un pugno di briganti.
Pietro di Vaux de Cernay cita il caso di un certo Ugo Faure che profanò nel modo più
volgare l'altare di una chiesa, e quello di alcuni eretici di Béziers che assalirono un sacerdote e
gli strapparono di mano il calice per insozzarlo (18); i registri dell'Inquisizione menzionano un
certo B. di Quiders che orinò sulla tonsura di un prete (19). Episodi simili dovevano essere rari,
poiché gli avversari degli eretici, che avevano tutto l'interesse a segnalarli, ne citano ben pochi.
Ma lo stesso Pietro di Vaux de Cernay ci racconta come il conte di Foix, che era in lite con i
monaci di Saint-Antonin, signori della città di Pamiers, avesse inviato loro due suoi cavalieri
per vendicare l'affronto fatto a un nobile 'perfetto', espulso da quella città dai monaci: questi
cavalieri fecero a pezzi un canonico, strapparono gli occhi a un altro; poi il conte in persona
fece irruzione nel monastero, mise sottosopra i locali del convento e appiccò il fuoco. Lo stesso
egli fece al convento di Sainte-Marie, dopo aver assediato i monaci, averli presi per fame e aver
depredato la loro chiesa. In un'altra chiesa egli fece strappare a un crocifisso le braccia e le
gambe, che i suoi soldati utilizzarono per tritare delle spezie; uno dei suoi scudieri trapassò con
una lancia un crocifisso, gridandogli di redimersi dai suoi peccati (20).
Sono solo calunnie? E' possibile, ma se il cattolico Raimondo Sesto ha potuto essere
accusato di avere bruciato una chiesa con le persone che vi si trovavano, violenze simili da
parte del conte di Foix non devono sorprendere: nel suo caso, un tale comportamento esprime
una vera passione anticlericale più che una semplice brutalità; atti come questi erano ispirati dal
più vivo odio contro la Chiesa cattolica. E se, più tardi, Raimondo Ruggero di Foix protestò
dinnanzi al papa la sua ortodossia, certo lo fece solo per obbedire a una parola d'ordine dei suoi;
quest'infaticabile guerriero, questo temibile nemico dei crociati doveva essere il rappresentante
più significativo di una certa nobiltà catara, ardente nella fede, combattiva e fanatica.
Se signori come il conte di Foix erano in grado di recare gravi danni alla Chiesa, i credenti,
altrettanto zelanti ma meno potenti, non davano fuoco ai conventi, né li confiscavano per
installarvi dei 'perfetti', ma maltrattavano i sacerdoti e saccheggiavano le chiese e i cimiteri. A
costoro si affiancava senza dubbio un gran numero di soldati vagabondi, o semplicemente di
energumeni sempre felici di trovare un pretesto per fare danni; spacciandosi per eretici,
potevano farlo senza incorrere nella riprovazione generale. Le autorità, favorevoli all'eresia,
non reprimevano simili reati; il popolo, fanatico o quantomeno ostile al clero, li approvava. Le
testimonianze dei contemporanei sono esplicite: intere regioni erano nelle mani degli eretici e in
quelle che passavano per cattoliche non ci furono sollevazioni contro i sacrilegi commessi dagli
eretici, veri o falsi che fossero.
Il particolare odio che i catari avevano per la croce (strumento di supplizio di Dio) e per la
messa (supremo sacrilegio, dal momento che in essa si scambiava per corpo di Dio una
porzione di vile materia destinata a corrompersi nelle viscere dei fedeli) li spingeva a degli
attacchi violenti contro i più sacri dogmi della Chiesa cattolica; e il solo fatto che questi attacchi
apparentemente non scandalizzassero nessuno prova fino a quale punto la Chiesa, in questo
paese, fosse unanimemente disprezzata. Le città rimaste cattoliche non hanno tentato di
difendere la loro fede con crociate locali e massacri, ciò che va a loro onore, ma soprattutto
mostra come in Linguadoca la Chiesa catara fosse la più forte. Fra i vescovi e gli abati molti
provenivano da famiglie eretiche e mostravano una certa indulgenza verso l'eresia. Curati e
canonici fraternizzavano con i credenti catari, addirittura con i 'perfetti', vuoi per opportunismo,
vuoi per simpatia nei confronti di una dottrina di cui riconoscevano la forza morale. E
ciononostante per i catari la Chiesa restava il nemico per eccellenza, Babilonia, la prostituta,
sede di Satana e luogo di dannazione; essi non potevano tollerare ciò che chiamavano le sue
superstizioni, i suoi errori grossolani.
Tutti i documenti concordano su questo punto: in un paese cattolico, dove una parte
importante dei poteri, delle terre, delle ricchezze era nelle mani della Chiesa, dove tutti gli atti
della vita privata e pubblica erano controllati e sanzionati dalla Chiesa, il popolo era
indifferente o ostile alla religione cattolica; si era costituita una nuova Chiesa che, favorita e
tollerata da tutti, si era rapidamente integrata nella vita sociale, guadagnando terreno senza
guerre civili, senza disordini spettacolari; e questa Chiesa aveva per scopo dichiarato la
distruzione della Chiesa ufficiale. Quest'ultima, la sola presa di mira, la sola minacciata da
questo potente movimento popolare e mistico al contempo, a poco a poco perdeva ogni contatto
con la vita del paese, limitandosi sempre più al suo ruolo di casta sociale, preoccupata
innanzitutto della difesa dei suoi interessi.
Prima dell'inizio di quegli avvenimenti che condussero la Linguadoca a quella catastrofe che
le sarebbe costata l'indipendenza, la Chiesa non vi rappresentava né la giustizia né l'ordine né la
pace né la carità né Dio; essa rappresentava il papato. La situazione davvero tragica nella quale
si trovava doveva condurla alla più spaventosa confusione di valori, facendole subordinare ogni
idealità morale alla difesa dei suoi interessi personali.
Gli storici cattolici (quelli del tredicesimo come quelli del ventesimo secolo) hanno sempre
insistito sul fatto che l'eresia rappresentava un grave pericolo per il paese che ne era stato
'infettato'. Ciò è perfettamente vero e trova conferma negli avvenimenti: ma questo pericolo non
era altro che la crociata. Questo pericolo, in altri termini, era la minaccia della reazione violenta
della Chiesa di fronte al rischio che correva; poiché non bisogna dimenticare che, malgrado i
suoi numerosi abusi di potere, la Chiesa era parte integrante della società, ne era uno degli
ingranaggi principali, forse di cattiva qualità ma di fatto insostituibile. Anche confiscando le sue
ricchezze, i principi e i consoli si servivano di lei, e non intendevano minimamente
sopprimerla; ma, al tempo stesso, il sentimento popolare, alimentato dalla fede catara, la
minava, la incalzava, la privava sempre più della sua ragion d'essere. Sarebbe falso dire che lo
spirito tirannico, l'intolleranza, il settarismo provenissero solo dal versante cattolico: due partiti
che lottano apertamente si contaminano l'un l'altro e in modo progressivo. I 'perfetti' - alcuni di
loro - si limitavano alle violenze verbali, ma erano già abbastanza influenti da attirare intorno a
sé dei fanatici.
Possiamo immaginare, per un istante, un papa animato da sentimenti evangelici che, con una
bolla, destituisse e spodestasse abati e vescovi, costringendoli a distribuire ai poveri i beni della
Chiesa, a vivere di elemosine predicando per le strade? A parte questo rimedio radicale che,
ammesso fosse applicabile, avrebbe comportato disordini terribili, in che modo si poteva
riformare una Chiesa il cui male interiore proveniva dall'avere un potere temporale? La forza
dei catari in parte derivava dalla loro relativa povertà e dalla loro estraneità agli affari pubblici,
mentre la Chiesa cattolica era un'amministratrice, magari dura e interessata, ma consumata,
costretta a fronteggiare difficoltà che i suoi avversari nemmeno immaginavano.
Il maggior rimprovero che si possa muovere ai catari è quello che a giusto titolo si è rivolto
ai loro nemici: l'intolleranza religiosa. Essi non hanno trascinato i loro avversari davanti ai
tribunali né hanno acceso dei roghi (non ne avevano i mezzi e nemmeno il desiderio), ma hanno
denigrato e ridicolizzato, spesso senza discernimento e in modo indebito, una fede che in sé
meritava il loro rispetto. Senza dubbio la colpa ricade sulla cattiva condotta dei prelati e dei
sacerdoti, sulla durezza dell'amministrazione ecclesiastica, sul temperamento focoso delle
popolazioni del Sud della Francia; anche ai tempi del paganesimo i Padri della Chiesa
biasimarono talvolta quanti insultavano il culto pagano e profanavano le immagini degli dei.
In Linguadoca i catari formavano una Chiesa semiufficiale, una società che non era più
segreta o clandestina e contava fra i suoi adepti sia baroni sia uomini del popolo. La loro Chiesa
non era l'unica chiesa eretica del paese. Volendo dare ai suoi lettori informazioni precise sullo
stato della Linguadoca prima della crociata, Pietro di Vaux de Cernay riconosce che un altro
gruppo di eretici del Sud della Francia, i valdesi, erano «malvagi, ma molto meno malvagi degli
altri» e che «su molti punti essi hanno la nostra stessa fede» (21). Meno numerosi dei catari, i
valdesi godevano in genere del favore delle classi più umili (benché una delle sorelle del conte
di Foix sia stata valdese). La loro predicazione - come indica la testimonianza appena riportata -
seduceva gente disgustata dagli abusi della Chiesa, ma rimasta fedele al cattolicesimo. Dal
punto di vista dogmatico questa Chiesa era molto meno rivoluzionaria di quella catara, ma ne
condivideva l'avversione alla Chiesa cattolica, alla sua organizzazione e ai suoi riti.
La setta dei valdesi era di origine recente: il suo fondatore, Pietro Valdo, iniziò la sua
predicazione a Lione verso il 1160; ciò che spiega perché il movimento spesso venne designato
con il nome di 'Poveri di Lione' o 'Lionesi'. Ricco mercante di Lione, Pietro Valdo era un uomo
pio che, volendo approfondire la conoscenza delle Sacre Scritture, le fece tradurre da un suo
amico, Stefano d'Anse. Questi morì inaspettatamente, e Pietro Valdo ne rimase tanto sconvolto
che decise di consacrare la vita al servizio di Dio: vendette i suoi beni per dare il ricavato ai
poveri e visse solo di carità e di predicazione; altri lo imitarono e così venne fondata una pia
società che raggruppava laici il cui scopo era di praticare la povertà assoluta sul modello degli
Apostoli e di predicare al popolo la parola di Dio.
Valdo ebbe molti discepoli, che mandò a predicare nelle piazze e persino nelle chiese dei
borghi e dei villaggi intorno a Lione. L'arcivescovo di Lione, Giovanni di Bellesmains, si
preoccupò dei progressi di questo movimento popolare; in effetti, era uno scandalo vedere dei
semplici laici, mal istruiti, "idiotae et illiterati", che non avevano ricevuto alcun mandato dalle
autorità ecclesiastiche, commentare a modo loro le Sacre Scritture. A quest'epoca il movimento
aveva già molti adepti. Quando nel 1180 l'arcivescovo proibì a Pietro Valdo e ai suoi discepoli
di predicare, essi risposero che era meglio obbedire a Dio che agli uomini, e ricordarono
l'esempio di Pietro davanti al sinedrio. Continuarono a predicare e fecero appello al papa, Lucio
Terzo, che però confermò la condanna pronunciata da Giovanni di Bellesmains. Tre anni dopo i
'Poveri di Lione' già venivano menzionati come "eretici" insieme ai catari nella costituzione
"Ad Abolendam" promulgata da questo stesso papa a Verona (22).
Da cattolici refrattari alle autorità, i discepoli di Pietro Valdo si trovavano così trasformati in
eretici e, proprio per questo, la loro 'eresia' non fece che aumentare: a poco a poco essi
passarono all'aperta rivolta contro le istituzioni, poi contro i principi stessi della Chiesa. «Gli
eretici - scrive Bernardo di Fontcaude nel suo trattato contro i valdesi - sono coloro che
aderiscono a una vecchia eresia o ne teorizzano una nuova. Sono coloro che dichiarano che non
si deve obbedienza ai sacerdoti né alla Chiesa romana, "quod dictu horribile est!", ma solo a
Dio». La posizione dei valdesi viene qui definita chiaramente: si tratta di uomini che hanno
dato origine a una nuova eresia (diversamente dai catari, assimilati ai manichei) la quale
consiste nel non obbedire alla Chiesa romana, ma solo a Dio.
I valdesi condannavano la Chiesa basandosi sul principio che, in quanto corrotti, i suoi capi
non potevano essere i tramiti della grazia; rifiutando il principio del sacerdozio, essi rifiutavano
anche gli altri sacramenti, compresi il battesimo e l'eucarestia. In questo modo essi giunsero a
negare l'intero culto cattolico, e gran parte dei dogmi: non credevano alla reale presenza di
Cristo nel sacrificio della messa, e nemmeno alla comunione dei santi o al purgatorio;
ritenevano si dovesse pregare solo Gesù, unico mediatore, e non i santi, e che non si dovesse
pregare per i morti poiché, nell'istante stesso in cui lascia la terra, l'uomo è salvo oppure è
dannato. (Il culto dei santi e le preghiere per i defunti avevano un'importanza immensa nel
medioevo, oggi difficilmente immaginabile [23].) I valdesi, quindi, si rifiutavano di celebrare le
feste religiose, ma osservavano le domeniche, le feste della Madonna, quelle degli Apostoli e
degli Evangelisti.
La loro era insomma una religione cristiana, in parte ortodossa, ma molto semplificata.
Come i cattolici, credevano all'ispirazione divina dell'Antico Testamento, ai dogmi della Trinità
e dell'Incarnazione, alla realtà della Passione e della Resurrezione di Cristo, all'inferno e al
giudizio universale; in breve, credevano a tutti gli articoli del "Credo" nella interpretazione
tradizionale della Chiesa (ma non recitavano il "Credo" e nessun'altra preghiera adottata dalla
Chiesa, con l'eccezione del "Pater noster"). Sostenevano che la Chiesa cattolica era caduta
nell'eresia per colpa del papa Silvestro, considerato il fondatore della Chiesa romana, e che tutto
quanto la Chiesa aveva decretato e stabilito dopo il quarto secolo era falso e privo di valore.
L'eresia valdese, malgrado negasse dogmi fondamentali come quello dell'eucarestia,
consisteva quasi unicamente nel rifiuto assoluto della Chiesa romana. I valdesi erano
riformatori troppo zelanti più che eretici, e non sembra abbiano inventato nuove dottrine. Pur
avendo la loro professione di fede, le loro preghiere e la loro letteratura apologetica, il loro
pensiero non era coerente e costruttivo come quello dei catari. Il loro successo fu grande
specialmente fra le classi lavoratrici, che erano sedotte dalla loro predicazione sulla povertà, dal
loro amore per il lavoro e dalla loro pietà, che poteva apparire a molti cattolici più
autenticamente cristiana di quella di certi sacerdoti. Benché dal 1184 fossero ufficialmente
catalogati come eretici, essi attiravano, ancora all'inizio del tredicesimo secolo, le simpatie di
cattolici che, vedendo in loro i 'poveri di Dio', facevano loro l'elemosina e li lasciavano cantare
nelle chiese (24). Ma i papi denunciavano i valdesi come eretici pericolosi, non meno
detestabili dei catari.
In effetti, almeno in Linguadoca, questi due movimenti ereticali che erano così poco simili e
che si affrontavano talvolta in accese polemiche, spesso vennero confusi al punto che è difficile
determinare con quale di essi le autorità, in una certa regione, avessero a che fare (almeno per
quanto riguarda i semplici credenti). Una simile confusione proveniva in primo luogo dal fatto
che queste due eresie venivano messe sullo stesso piano dalla Chiesa in quanto ugualmente
ostili a essa; in secondo luogo dal fatto che i valdesi, di origine più recente, ebbero la tendenza
a mutuare la loro organizzazione e le loro abitudini da quelle dei catari.
Come questi ultimi, anche i valdesi avevano i loro 'perfetti' e i loro credenti. I 'perfetti'
venivano innalzati a questa dignità con una cerimonia chiamata anch'essa "consolamentum",
che consisteva nell'imposizione delle mani e che era seguita dall'offerta dei beni alla comunità,
dal voto di povertà e di castità. Prive di vescovi, le comunità valdesi erano dirette da superiori,
diaconi e sacerdoti, la cui organizzazione richiamava quella degli ordini religiosi. Avevano le
loro case, simili a conventi, ove i 'perfetti' praticavano il digiuno e si davano allo studio e alla
preghiera; la loro astinenza non era rigorosa come quella dei catari, né era dogmaticamente
fondata; tuttavia anch'essi, come i catari, avevano fama di grandi asceti.
Consacravano la vita alla predicazione e specialmente all'interpretazione delle Scritture, che
mettevano alla portata di tutti facendo circolare un gran numero di Bibbie tradotte in lingua
volgare. Alcuni di loro sono stati accusati di ignoranza, ma erano ansiosi di istruire il popolo, e
come i catari avevano istituito scuole ove insegnavano ai ragazzi il Vangelo e le Lettere degli
apostoli (25).
I 'perfetti' valdesi predicavano, ma il diritto alla predicazione era riconosciuto a ogni
cristiano: in questo i valdesi erano più rivoluzionari dei catari, presso i quali le donne sembra
abbiano predicato solo molto di rado.
Come per i catari, la principale e quasi unica preghiera dei valdesi era il "Pater noster", che
recitavano ripetutamente (magari trenta o quaranta volte) durante una giornata. A differenza dei
catari, che conoscevano la confessione solo nella forma di un'assoluzione pubblica da parte
dell'assemblea della Chiesa, i valdesi potevano confessarsi a uno dei loro confratelli e riceverne
l'assoluzione.
Infine, come i catari i valdesi erano assai severi verso la Chiesa romana (che chiamavano
'Babilonia'), e non si lasciavano sfuggire alcuna occasione per stigmatizzarne le 'superstizioni' e
gli abusi. Almeno in questo essi facevano davvero causa comune con gli eretici, ma in
Linguadoca li si distingueva da loro designandoli come 'sandaliati' ("ensabatatz"). E' molto
probabile che in questo paese, dove i catari erano in maggioranza (i valdesi erano
particolarmente diffusi nelle Alpi e in Lombardia), le comunità valdesi abbiano finito per
assorbire idee e abitudini catare.
I valdesi furono indubbiamente molto numerosi fra le popolazioni delle campagne e fra gli
artigiani, meno fra le classi dirigenti: a titolo d'esempio si può rilevare come nella lista di
duecentoventidue personalità eretiche, stesa a Béziers nel 1209, solo una dozzina di nomi sia
accompagnata dalla specificazione "val" ("valdenses"). Se i loro stessi avversari riconoscevano
che «erano molto meno malvagi» degli altri, non pare che, al momento delle persecuzioni, si sia
mai fatta differenza fra catari e valdesi. La Chiesa catara, più forte e più organizzata, aveva
finito per gettare ombra sulla piccola Chiesa valdese della Linguadoca, mentre la guerra stava
per cementare la loro unione nel comune martirio.
Parrebbe che, all'epoca della crociata, gran parte della popolazione della Linguadoca fosse
eretica, o almeno apertamente simpatizzante verso l'eresia. La cosa non è del tutto certa: forse si
trattava solo di tolleranza; e per battersi contro i crociati non era necessario essere adepti della
religione catara, bastava essere persone oneste. Questa guerra di religione non fu una guerra
civile.
Non si intende qui discutere il valore intrinseco della religione catara, ma solo rappresentare
una situazione concreta: i fatti, quali noi li conosciamo, mostrano i progressi di una religione
giovane, forte della sua posizione semiclandestina, abile a radicarsi in una società di cui poteva
liberamente denunciare i difetti non essendo legata a essa come lo è una religione istituzionale,
sicura dei suoi privilegi, corrotta e screditata dai compromessi ai quali la difesa dei suoi
interessi l'aveva da tempo abituata.
La Chiesa romana non poteva risparmiarsi di colpire duramente l'eresia più di quanto un
uomo con gli abiti in fiamme possa evitare di spegnere l'incendio con ogni mezzo a sua
disposizione. E' vero che, anche in casi simili, non tutti i mezzi sono leciti. Ma vedremo che la
Chiesa, divenuta nei secoli e sotto la pressione delle circostanze una potenza totalitaria, quindi
oppressiva, già aveva la tendenza a considerare legittimo esclusivamente quanto servisse ai suoi
interessi temporali.
NOTE.
(1) Lo scisma che nel 1054 condusse alla definitiva separazione della Chiesa bizantina da
quella romana non fu che la constatazione di uno stato di fatto: malgrado l'identità dei dogmi, le
due Chiese, politicamente e storicamente separate, non avevano più alcuna ragione di dipendere
l'una dall'altra. Per l'Occidente, Roma era d'ora in avanti il solo giudice in materia di verità
religiosa; in altri termini essa aveva il monopolio della verità.
(2) "Interrogatio Johannis" o "Cena segreta", documento pubblicato nella Collezione Doat,
vol. 36, f.f. 27 e s.s.; "Liber de duobus principiis" ("Un traité manichéén du treizième siècle,
«Liber de duobus principiis»", pubblicato dal Padre Dondaine, Istituto Storico Domenicano, S.
Sabina, Roma, 1939).
(3) Pietro di Vaux de Cernay, cap. 4.
(4) Sacerdote bulgaro del decimo secolo, autore di un "Trattato contro i bogomili" (edito da
J. Gafort, "Theologia antibogomilistica Cosmae presbiteri", Roma, 1942).
(5) Douais, "Les Albigeois", p 10.
(6) Biblioteca di Tolosa, m.s. 609, f. 239.
(7) Innocenzo Terzo, "Lettere", t. 7, p. 79.
(8) Guglielmo di Puylaurens, Prologo.
(9) Ciononostante, uno dei predicatori catari più famosi in Linguadoca al tempo della
crociata fu Guglielmo, che era stato decano di Nevers (noto come Teodorico).
(10) Confronta infra, l'appendice 3.
(11) Guglielmo di Puylaurens, cap. 8.
(12) "Chanson de la Croisade", CXLV, 3292-3293.
(13) Doat, t. 24, p.p. S9-60.
(14) Bernardo Gui, "Practica Inquisitionis", p 130.
(15) Biblioteca di Tolosa, m.s. 609. Doat, t. 22, p. 15.
(16) Dom Bouquet, "«Chronicon» de Rodolphe, abbé de Coggeshall", t. 18, p. 59.
(17) Dom Vaissette, "Histoire du Languedoc", éd. Molinier, t. 6, p. 227.
(18) Pietro di Vaux de Cernay, cap. 4.
(19) Biblioteca di Tolosa, m.s. 609, f. 130.
(20) Pietro di Vaux de Cernay, cap. 4.
(21) Pietro di Vaux de Cernay, cap. 2.
(22) "Mansi Concil.", t. 22, col. 477.
(23) Non si deve dimenticare che l'amministrazione dei sacramenti (battesimo, matrimonio,
estrema unzione) e soprattutto le messe per i defunti costituivano una delle grandi fonti delle
entrate della Chiesa.
(24) Douais, t. 2, p 109.
(25) Bernardo Gui, "Practica Inquisitionis", t. 1, p. 63.
Capitolo terzo

LA CHIESA DI FRONTE ALL'ERESIA.


1. PRIMA DI INNOCENZO TERZO.
Non ci si deve stupire se la reazione della Chiesa cattolica di fronte alla religione catara fu
del tutto intollerante e priva di compromessi. Il cristianesimo romano non aveva il monopolio
dell'intolleranza. Una religione forte, divenuta religione di stato, è oppressiva in buona fede, in
quanto ogni posizione che la contraddica le appare come un sacrilegio e un'offesa a Dio. Una
Chiesa non può sbarazzarsi dei suoi seguaci più fanatici, come un uomo non può amputarsi un
braccio o una gamba. Senza fanatismo poche religioni sarebbero riuscite a sopravvivere, per lo
meno in Occidente.
San Francesco d'Assisi era amico di san Domenico, il quale a sua volta era amico di Simone
di Montfort. Quel che era in gioco - la vita stessa della Chiesa - giustificava il fanatismo, e
bisogna stare attenti a non prendere troppo alla leggera i sentimenti che spinsero alla violenza
uomini il cui primo dovere sarebbe stato condannare qualsiasi violenza.
Nel Mezzogiorno della Francia la Chiesa catara non rappresentava un pericolo né per la
moralità pubblica, né per la vita sociale, né per le autorità civili: era un pericolo per la Chiesa
cattolica. Abbiamo visto come nel dodicesimo secolo la Chiesa costituisse un vero stato nello
stato, una potenza organizzata, spesso dispotica, contro la quale gli stessi re conducevano una
lotta incessante, più o meno aperta, raramente coronata dal successo. Nondimeno la Chiesa era
una parte organica della società medievale. Ma la progressiva decadenza della Chiesa nei paesi
di lingua d'oc durante il dodicesimo secolo, insieme allo sviluppo del catarismo, aveva finito
per creare una situazione in precedenza inimmaginabile e inammissibile per qualsiasi sincero
cattolico: nel cuore stesso della cristianità, un paese di antiche tradizioni cristiane, prospero,
relativamente potente, centro di grandi commerci, fucina di una civiltà universalmente
ammirata, stava trasformandosi in un paese che non solo poteva fare a meno della Chiesa
cattolica, ma apertamente rifiutava la sua autorità a vantaggio di una nuova religione.
Questa religione minacciava non solo gli interessi materiali della Chiesa, la sua gerarchia, i
suoi privilegi, ma anche la sua vita spirituale, faticosamente conquistata, nutrita per secoli,
consacrata dalle preghiere di migliaia di santi noti o sconosciuti; minacciava un'intera vita
mistica, fondata sul quotidiano sacrificio della messa, sulla presenza permanente e reale di
Cristo nella sua Chiesa. La Chiesa aveva assimilato e trasfigurato le antiche civiltà, aveva
protetto i poveri e costruito le cattedrali, aveva creato le scuole, aveva inventato o riscoperto le
scienze, aveva prodotto opere d'arte di incomparabile splendore, aveva messo Dio alla portata
dei più semplici e, talvolta, aveva umiliato i forti. La sua tradizione riposava su delle basi che
non si potevano più scuotere senza mettere in pericolo l'intero edificio della civiltà medievale, e
la croce e l'ostia non erano semplici accessori, ma il centro stesso della fede cristiana.
Una nuova Chiesa che negava non solo le tradizioni più sacre, ma anche i dogmi essenziali
della Chiesa cattolica, non poteva coesistere pacificamente in un'epoca nella quale l'uomo non
ammetteva che la verità potesse avere due facce. Tollerare l'eresia significava ammettere
implicitamente che l'ostia non è il vero corpo di Cristo, che i santi della Chiesa hanno mentito e
che i crocifissi delle chiese e dei cimiteri sono solo posatoi per i corvi. Ci sono cose che si ha il
diritto di non tollerare: non si definirebbe tollerante un uomo che lasciasse pubblicamente
insultare sua madre.
L'indignazione della Chiesa cattolica era dunque legittima: tanto più legittima in quanto i
suoi avversari erano uomini nutriti della sua tradizione, allevati su un suolo cristiano e, per
attaccarla, si servivano di armi che essa stessa aveva messo a loro disposizione. Chi, se non la
Chiesa, aveva ispirato ai convertiti eretici quelle esigenze di purezza e di carità cristiana in
nome delle quali essi la condannavano? La Chiesa di Roma, fosse pure la 'Chiesa del Diavolo',
aveva reso possibile l'espansione della Chiesa catara; i suoi avversari la attaccavano nel nome
di quel Cristo che da secoli essa aveva insegnato ad amare.
L'impiego della forza non era di per sé scandaloso: faceva parte di quegli inevitabili
compromessi che qualsiasi Chiesa istituzionale è costretta a stabilire con il potere temporale; in
ogni paese cristiano esisteva una giustizia ecclesiastica che puniva i delitti commessi contro i
chierici, i reati contro la morale e i crimini di stregoneria e di commercio con il Diavolo.
La Chiesa non identificava ancora l'eretico con lo stregone, e talvolta si mostrava più
comprensiva dei poteri pubblici. Così san Bernardo, parlando degli eretici massacrati a Colonia,
scriveva al papa: «Il popolo di Colonia ha oltrepassato la misura. Se approviamo il suo zelo non
approviamo minimamente quel che ha fatto, poiché la fede è opera di persuasione, che non va
imposta (1)» Nell'undicesimo secolo Wazone, vescovo di Liegi, protestò contro le atrocità
commesse dai Francesi che, nel loro feroce odio contro l'eresia, si erano messi a massacrare
tutti quanti avessero un colorito pallido: la fama ascetica dei 'perfetti' era tanto antica quanto
universalmente diffusa.
Prima dell'Inquisizione la Chiesa non era più intollerante della società laica; forse si può
rimproverarle di avere lei stessa creato quel clima di intolleranza i cui eccessi talvolta
condannava; in ogni caso sarebbe vano pretendere di distinguere fra la coscienza della Chiesa e
quella dei popoli cristiani. Il cattolicesimo era ben altro che un'amministrazione internazionale
rappresentata da un esercito di funzionari sottomessi all'arcivescovo di Roma.
La Chiesa disponeva di poteri troppo grandi per non cedere alla tentazione di abusarne; ma
nella maggior parte dei casi essa si accontentò di mantenere l'ordine pubblico nei territori di sua
competenza, in modo più o meno brutale a seconda dei casi. Non è più immorale mandare un
uomo al rogo per stregoneria che impiccarne un altro per il furto di un prosciutto. La Chiesa
esercitava la giustizia penale perché gran parte delle funzioni amministrative erano nelle sue
mani; e non aveva dovuto usurparle, le aveva assunte in un'epoca in cui nessun altro era in
grado di svolgerle.
Chi professava idee religiose apertamente contrarie agli insegnamenti della Chiesa e
rifiutava di rinunciare ai suoi errori, secondo la legislazione vigente era quindi passibile di
morire nel fuoco. Ma, in via di principio, la vera arma della Chiesa nella lotta contro l'eresia era
la persuasione. Una persuasione che spesso assumeva i caratteri della pura e semplice
intimidazione. Il sospetto eretico rischiava la scomunica, con tutte le sue conseguenze:
allontanato dalla Chiesa, lo scomunicato era praticamente messo al bando dalla società. In un
paese come la Francia del Nord, ove il clero e il popolo erano entrambi fanatici, il seggio
apostolico doveva preoccuparsi di frenare lo zelo dei suoi vescovi più che di inviare missionari.
Nel Sud della Francia, notorio focolaio di eresia, i papi organizzarono campagne di
predicazione, e tentarono di riformare i costumi della Chiesa.
Gli sforzi compiuti in questa seconda direzione non diedero alcun risultato, se si tiene per
buona la testimonianza di Innocenzo Terzo sul clero occitano. Ma nemmeno la predicazione
ebbe successo.
Eppure san Bernardo in persona si era fatto apostolo della fede cattolica, venendo nel Sud
della Francia nel 1145, in compagnia del legato Alberico, vescovo di Ostia, e di Goffredo,
vescovo di Chartres. La sua testimonianza è netta: l'eresia trionfava. «Le basiliche sono senza
fedeli, i fedeli senza sacerdoti, i sacerdoti senza onore. Non ci sono altro che cristiani senza
Cristo. I sacramenti vengono vilipesi, le feste non vengono celebrate con solennità. Gli uomini
muoiono nel peccato. I fanciulli sono privati della vita di Cristo, vedendosi rifiutare la grazia
del battesimo (2)». Tutto ciò sessant'anni prima della crociata. Anche supponendo che san
Bernardo, nella sua pia costernazione, abbia esagerato l'ampiezza del disastro, quanto dice
prova a sufficienza la decadenza della Chiesa nelle regioni da lui visitate.
Nella cattedrale di Albi, il giorno del suo arrivo, san Bernardo predicò davanti a trenta
persone. E' vero che tredici giorni dopo la chiesa era già troppo piccola per contenere la folla
degli ascoltatori entusiasti dei suoi sermoni; ma questo entusiasmo fu solo una fiammata, che
non ebbe conseguenze durature.
La crociata di predicazione inviata nel 1179 dal papa Alessandro Terzo (malgrado l'abiura
forzata e la spettacolare condanna di Pietro Maurand, detto 'san Giovanni l'Evangelista') ebbe
un successo ancora minore. Alcuni eretici si lasciarono impressionare e, in apparenza, si
sottomisero; ma dopo la partenza dei legati il popolo, scosso da questa brutale intrusione di una
potenza straniera negli affari interni del paese, manifestò più apertamente il suo sostegno
all'eresia. L'anno seguente il papa cominciò a pensare di ricorrere al braccio secolare. Al
Concilio ecumenico Laterano (1179) dichiarò: «Benché la Chiesa, come dice san Leone, si
accontenti di un giudizio sacerdotale senza ricorrere alle esecuzioni cruente, deve ciononostante
servirsi delle leggi secolari e fare appello ai principi affinché il timore di un supplizio temporale
obblighi gli uomini a servirsi del rimedio spirituale. Quindi, poiché gli eretici - chiamati da
alcuni catari, da altri patarini, da altri ancora pubblicani - hanno fatto grandi progressi in
Guascogna, nelle regioni di Albi, di Tolosa e altrove, vi insegnano pubblicamente i loro errori e
tentano di pervertire i semplici, li dichiariamo colpiti dall'anatema, con i loro protettori e
fiancheggiatori... (3)».
Era già una confessione di impotenza: il papa constatava che la Chiesa non poteva più lottare
contro l'eresia con i suoi propri mezzi. Roma ordinava ai poteri ecclesiastici e civili di scatenare
una campagna di repressione poliziesca contro gli eretici nel Nord Italia come nel Mezzogiorno
della Francia. Il papa Lucio Terzo, dopo il concilio di Verona, ingiunse ai vescovi di far visitare
le loro diocesi per scovarvi gli eretici e, sotto pena di scomunica e di interdetto, prescrisse ai
signori e ai consoli di aiutare i vescovi in questo compito. Il legato del papa, Enrico, abate di
Clairvaux (poi vescovo di Albano), non si limitò a organizzare dei concili per riformare i
costumi del clero, ma depose l'arcivescovo di Narbonne, e arrivò a radunare un certo numero di
cavalieri cattolici del paese, che assediarono Lavaur, uno dei principali centri eretici della
Linguadoca (1181).
La tattica dei grandi signori feudali della Linguadoca di fronte a Roma non cambiava: essa
consisteva nel promettere e nel non tener fede alle promesse. Era, da parte loro, il solo
atteggiamento possibile. Se Raimondo Quinto, spinto da considerazioni di ordine politico, tentò
ancora di schierarsi apertamente dalla parte della Chiesa, suo figlio, constatata l'importanza
dell'elemento eretico all'interno del paese, fece il possibile per vivere in pace fra le due religioni
rivali.
Raimondo Sesto succedette al padre nel 1194. Quattro anni dopo Lotario Conti, cardinale
diacono appena trentottenne, ma proveniente dall'alta nobiltà romana, popolare nella sua città e
stimato negli ambienti ecclesiastici, venne eletto papa con il nome di Innocenzo Terzo.
L'ammirazione che ispiravano le sue capacità e il suo carattere erano tali che malgrado l'età,
malgrado fosse stato tenuto lontano dagli affari ecclesiastici dal suo predecessore Celestino
Terzo (della famiglia degli Orsini, nemici tradizionali dei Conti), malgrado non fosse stato
ancora ordinato sacerdote, la decisione dei cardinali fu quasi unanime, e all'indomani della
morte di Celestino Terzo egli si trovò promosso al rango di capo della cristianità.
Egli impersonò questo ruolo con una implacabile sincerità: per i diciott'anni del suo
pontificato si comportò da vero sostituto di Dio sulla terra, dettando il suo volere ai re e ai
popoli, senza curarsi dei loro interessi particolari, senza esitare di fronte alle difficoltà pratiche
che i suoi ordini potevano incontrare. Uomo d'azione e teorico, egli pose come postulato
l'assoluta supremazia della Chiesa, e si sentì chiamato a dirigere i re per costringerli a servire gli
interessi di Dio.
Se Innocenzo Terzo seppe sottomettere Filippo Augusto e Giovanni Senzaterra, ottenere il
diretto omaggio del re d'Aragona, lanciare la cavalleria tedesca contro i pagani del Nord e la
cavalleria franca contro i Saraceni (in una crociata che diversamente dalle sue intenzioni mise
capo alla presa di Costantinopoli, evento del quale egli approfittò per tentare di estendere il suo
dominio sulla Chiesa greca), se riuscì a imporre ovunque i suoi legati come ministri incaricati
di dirigere la politica dei principi, è evidente che, ancor meno dei suoi predecessori, poteva
tollerare lo scandalo di un paese nel quale la Chiesa veniva pubblicamente sbeffeggiata dal
popolo e dai poteri pubblici.
Tuttavia Innocenzo Terzo, il principale responsabile della crociata contro gli eretici, non era
affatto un fanatico. Le lettere pastorali da lui scritte ce lo mostrano circospetto, preoccupato di
agire con giustizia e moderazione. Di fronte ai casi di eresia segnalatigli dal vescovo di Auxerre
o dall'arcivescovo di Sens si mostra dubbioso, esita, chiede prove, indagini e, nell'incertezza,
finisce per concludere che gli accusati sono innocenti.
Quando invia in Linguadoca i suoi legati, cercando di intervenire sulle cause anziché sugli
effetti del disastro, Innocenzo Terzo se la prende innanzitutto con i vescovi e con i pubblici
poteri del paese. Ritiene che il cattivo esempio offerto dal clero autorizzi «l'insolenza degli
eretici». Tuttavia questo papa che si vanta di ridurre al suo volere i re è mal obbedito dai suoi
subordinati: l'autorità della Chiesa è un'arma a doppio taglio. E' vero che i legati dichiarano
sospesi dalle loro funzioni Guglielmo di Roquessels, vescovo di Béziers, Nicola, vescovo di
Viviers, Raimondo di Rabastens, vescovo di Tolosa, Berengario, arcivescovo di Narbonne. Ma
si tratta di una misura rivoluzionaria, non certo adatta ad attirare al papa le simpatie dell'alto
clero. L'arcivescovo di Narbonne e il vescovo di Béziers si rifiutano di obbedire, invocano
l'incompetenza dei legati, fanno tirare in lungo il processo contro di loro; Berengario verrà
deposto solo durante la crociata e Guglielmo di Roquessels morirà assassinato nel 1205, prima
della fine dell'istruzione del processo. Raimondo di Rabastens, che aveva rovinato il dominio
episcopale di Tolosa in modo tanto scandaloso, resisterà per mesi. Ma il tentativo di riforma
intrapreso dal papa cominciò ad assumere l'aspetto di una lotta fra due fazioni rivali: da una
parte il clero locale, dall'altra gli ordini regolari, più direttamente sottomessi al papa, e in
particolare i monaci cistercensi. Sono loro che, fino alla fine, ebbero in mano il gioco.
Il papa non poteva più contare sull'appoggio dei vescovi, doveva dare carta bianca ai legati e
lasciarli agire come potevano. Se nel caso dei prelati i legati si trovavano di fronte a una cattiva
volontà più o meno dissimulata, nell'affrontare i pubblici poteri i legati incontrarono solo
ostilità e omertà.
I signori e i consoli protestavano la loro fedeltà alla Chiesa e rifiutavano di dare la caccia
agli eretici. Il conte di Tolosa, già scomunicato da Celestino Terzo per aver perseguitato dei
monaci, aveva fatto la pace con la Chiesa e, perdonato dal nuovo papa, continuò a proteggere i
catari, a spogliare le abbazie e a trasformare i conventi in fortezze. Il legato Pietro di Castelnau
ottenne nuovi impegni, promesse formali che come le precedenti non vennero mantenute. Un
"modus vivendi" si era stabilito nel paese fra la Chiesa e l'eresia, e i capi catari, in teoria
passibili delle pene più severe, non temevano di apparire in pubblico al fianco dei vescovi o di
intraprendere con loro controversie teologiche.
Gli sforzi di Innocenzo Terzo durante il primo decennio del suo pontificato, specie fra il
1203 e il 1208, si concentrarono sulla campagna di predicazione. Con la sicurezza dell'uomo
certo di possedere la verità, egli sperava fermamente di ricondurre sulla buona strada le pecore
smarrite, dissipando l'ignoranza nella quale erano state tenute dall'incapacità dei loro capi
spirituali.
Come i suoi predecessori, Gregorio Settimo e Alessandro Terzo, egli cercò di convertire quei
presunti eretici che gli sembravano allontanarsi meno degli altri dall'ortodossia. Così, nel 1201,
diede agli "Umiliati", precursori di san Francesco ingiustamente accusati di eresia, regole nelle
quali si percepisce l'influsso delle pratiche valdesi. Nel 1208 prese sotto la sua protezione
Durando di Huesca, un valdese convertito cui permise di fondare un ordine che, nella sua
organizzazione, ricorda le comunità eretiche; e questi 'poveri cattolici' di cui il clero seguitava a
diffidare vennero incoraggiati dal papa, che vedeva nel loro movimento il germe di una
profonda riforma della Chiesa tramite la predicazione dei laici.
Con gli eretici dichiarati questa politica conciliante non era però ammissibile. Il papa poteva
ancora tollerare che si condannasse la Chiesa militante, ma non il dogma. Così egli fu quasi
altrettanto severo nei confronti dei valdesi che nei confronti dei catari.
Innocenzo Terzo inviò dei predicatori. Si trattava, innanzitutto, degli stessi legati, uomini di
fede provata, monaci cistercensi, membri dell'ordine riformato da san Bernardo, l'ordine che
nella Chiesa rappresentava il partito dell'austerità, della riforma dei costumi e della disciplina, il
partito dell'intransigenza, la forza viva della Chiesa. I legati, come abbiamo visto, agirono, ma
cercarono anche di convincere: in questo paese che sfuggiva al controllo della Chiesa i ministri
plenipotenziari del papa erano ridotti al ruolo di predicatori, e di predicatori poco ascoltati.
Essi cominciarono con le minacce, ma le minacce non funzionavano più da tempo. Allora si
gettarono nella mischia e, costretti a riconoscere il diritto all'esistenza dei loro vituperati
avversari, li invitarono a dei colloqui per discutere da pari a pari.
Abbiamo già presentato la figura di Pietro di Castelnau, arcidiacono di Maguelonne, monaco
dell'abbazia cistercense di Fontfroide. Lo accompagnava il confratello Raul, anch'egli di
Fontfroide; ma per dare maggiore autorità alla loro missione, il papa affiancò loro come capo e
compagno lo stesso abate di Cîteaux, generale dell'ordine e, in quanto tale, una delle personalità
più importanti della Chiesa. Arnaldo Amalrico, cugino del visconte di Narbonne, dapprima
abate di Grandselve, uno dei grandi monasteri cistercensi della Linguadoca, era originario del
paese nel quale veniva inviato, ed era tanto più deciso a combattervi l'eresia in quanto la
conosceva da vicino.
E' difficile comprendere come mai un ordine rinsaldato da san Bernardo nelle pure tradizioni
dell'austerità, dell'obbedienza e della preghiera avesse potuto scegliersi per capo questo
combattente nato, quest'uomo amante delle soluzioni radicali, questo fanatico lontanissimo
dalla carità cristiana. Se non aveva le virtù evangeliche capaci di ricondurre all'ovile della
Chiesa le pecore smarrite, egli seppe almeno organizzare una grande campagna di predicazione.
Ma quale che fosse il loro zelo apostolico, che cosa potevano fare questi monaci
pregiudizialmente sospetti al popolo, là dove aveva fallito san Bernardo? I legati, dunque,
misero in gioco la loro autorità personale. I dibattiti da loro organizzati ebbero un notevole
successo; per attirare ancor di più l'interesse degli ascoltatori, si decise di far istituire, in ogni
cittadina visitata, una giuria con funzioni arbitrali, che giudicasse del valore degli argomenti
portati dalle due parti. Da ufficiali detentori della verità assoluta, i legati si declassavano a
modesti predicatori, costretti a convincere e a provare razionalmente il primato della loro
dottrina. La giuria, composta per metà da cattolici e per metà da eretici, aveva in teoria il diritto
di dar loro torto, assegnando la vittoria ai loro avversari. Essi volevano trionfare con la sola
verità dell'ortodossia.
Nel 1204 Pietro di Castelnau e frate Raul tennero uno di questi grandi dibattiti pubblici a
Carcassonne, alla presenza del cattolicissimo Pietro Secondo d'Aragona. Per arbitri furono
scelti tredici cattolici e tredici catari. Bernardo di Simorre, vescovo cataro di Carcassonne,
tenne una predica davanti a tutti, esponendo la dottrina della sua Chiesa. Se la presenza del re
sembrò far pendere la bilancia dalla parte dei legati, non ci furono tuttavia conversioni. Pietro di
Castelnau e Arnaldo Amalrico, del resto, non dovevano farsi troppe illusioni. La loro
propaganda attirava una folla di curiosi, tanto più che le genti del Sud amavano le contese
oratorie; ma i loro discorsi potevano convincere solo i cattolici, per gli eretici restavano lettera
morta.
Questi dibattiti non esasperavano nemmeno le passioni popolari: non sembra che abbiano
fornito il pretesto a risse fra i fautori delle due religioni rivali. I cattolici del luogo mancavano
decisamente di spirito combattivo. E c'è di più: gli inviati papali, circondati da una splendida
scorta, con i loro superbi cavalli e il ricco seguito di animali da soma carichi di bagagli e
provviste, creavano uno stridente contrasto con l'austera semplicità dei ministri catari. «Questi -
si diceva - sono i ministri a cavallo di un Dio che andava solo a piedi, i missionari ricchi di un
Dio povero, gli inviati carichi di onori di un Dio umile e disprezzato (4)».
Una simile missione, condannata al fallimento fin dal principio, doveva trovare un insperato
soccorso da parte di quei religiosi spagnoli, ardenti di zelo apostolico, che tornavano allora da
Roma, dove il papa aveva rifiutato loro il permesso di recarsi nella Russia meridionale per
evangelizzare le terre dei Cumani. Indubbiamente Innocenzo Terzo pensava che questi aspiranti
missionari sarebbero stati impiegati più utilmente in Linguadoca. Nell'agosto del 1205 i legati
incontrarono a Montpellier il vescovo di Osma, don Diego di Acevedo, accompagnato dal
vicepriore del suo capitolo, Domenico di Guzman. L'anziano vescovo e il suo giovane
compagno (Domenico aveva allora trentacinque anni) offrirono ai legati il loro aiuto nella lotta
all'eresia; meglio, diedero loro dei consigli pratici. Questi consigli arrivavano forse un po'
troppo tardi, ma erano eccellenti: i missionari spagnoli suggerirono ai legati e a quanti li
seguivano di scendere da cavallo, di rinunciare alla scorta, di non farsi più ricevere e alloggiare
con tutti gli onori dovuti al loro rango, di andare a piedi e vivere di elemosina, di conservare
come unico segno esteriore della loro dignità l'abito monastico, come unica provvista il
breviario e i libri indispensabili durante le discussioni con gli eretici.
Quanti in precedenza avevano visto l'abate di Cîteaux circondato degli onori dovuti a un
principe della Chiesa rimasero stupefatti del cambiamento di costumi e poterono accusarlo, non
senza ragione, di essere «un lupo travestito da agnello»; i missionari catari, infatti, non avevano
atteso alcun consiglio per praticare la povertà. Da parte del legato e dei dodici abati che egli
aveva portato con sé nel 1207, dopo una riunione del capitolo dell'ordine, un simile
atteggiamento in realtà era solo un'abile mossa propagandistica: vedremo più avanti come
Arnaldo Amalrico non avesse alcuna propensione per l'umiltà e per la povertà. Quanto ai
religiosi spagnoli il discorso è differente.
Canonizzato tredici anni dopo la morte, Domenico di Guzman godette già in vita di una
grande fama di santità. Le informazioni a nostra disposizione sulla sua vita provengono da
discepoli entusiasti, quindi inclini a esagerare i meriti del loro eroe. Ma è certo che, fin dalla
giovinezza, Domenico aveva impressionato i suoi confratelli e i suoi superiori per l'ardore della
sua fede e per il vigore della sua intelligenza. Insieme al suo futuro vescovo, Diego di Acevedo,
egli svolse un ruolo attivo nella riforma dell'ufficio canonicale della sua diocesi; nel 1201 venne
nominato priore e capo del capitolo. Si è detto che aspirava a convertire a Dio le anime dei
pagani e che solo l'ordine formale del papa lo aveva distolto da questo proposito, per farne un
missionario fra gli eretici. La Chiesa non mancava di predicatori appassionati, ma l'intervento di
Domenico fu il solo che diede qualche risultato concreto. Come dice Guglielmo di Puylaurens:
«E' stato necessario che nel nostro tempo e nel nostro paese apparisse l'eresia, perché nascesse
il venerato ordine dei Domenicani, che ha portato frutti tanto abbondanti e utili, non solo da noi,
ma nell'intero universo (5)».
2. SAN DOMENICO: IL SUO APOSTOLATO E IL SUO INSUCCESSO.
Quel grande movimento di riforma religiosa, cui gli avvenimenti dovevano dare un carattere
sinistro, associandolo all'Inquisizione, nacque sulle strade sassose della Linguadoca, che due
uomini percorsero a piedi nudi nella polvere, sotto un bruciante sole d'estate, mendicando il
pane quotidiano e il diritto a essere ascoltati.
Il vescovo di Osma, avanti negli anni e stanco, l'anno seguente tornò in Spagna per morirvi.
Ciononostante accompagnò Domenico nella maggior parte dei suoi viaggi e partecipò ai
dibattiti di Servian, di Béziers, di Carcassonne, di Verfeil, di Montréal, di Fanjeaux, di Pamiers.
Nell'intervallo fra questi pubblici dibattiti ai quali venivano invitati i capi della Chiesa catara,
Domenico percorreva instancabilmente il paese, visitando villaggi, borghi e castelli, dando
esempio di una vita ancor più austera di quella dei 'perfetti'.
Non sempre veniva accolto bene. «Gli avversari della verità - dice Giordano di Sassonia - lo
prendevano in giro, gli lanciavano sterco e altre cose immonde, gli attaccavano della paglia alla
schiena». Trattamenti simili non bastavano a turbare un animo appassionato come quello di
Domenico. Lo stesso Giordano riporta la risposta data dal santo a degli eretici che gli avevano
chiesto: «Che faresti se ti prendessimo? Vi supplicherei - disse - di non uccidermi subito, ma di
staccarmi le membra una a una, per prolungare il mio martirio; vorrei essere ridotto a un tronco
senza arti, vorrei che mi si strappassero gli occhi, vorrei rotolare nel mio sangue per conquistare
una più fulgida corona di martirio! (6)».
L'esagerazione tutta spagnola di un simile discorso senza dubbio scoraggiò gli avversari di
Domenico che, se continuavano a vedere in lui un inviato del Diavolo, si rendevano conto di
non avere alcun potere su di un simile esaltato. Egli attraversava cantando villaggi dove era
accolto con minacce e insulti; vinto dalla stanchezza si addormentava sul ciglio delle strade.
Tuttavia anche i suoi più ferventi sostenitori parlano più dei suoi miracoli (poco convincenti)
che del numero di conversioni da lui ottenute.
L'elenco dei dibattiti che Domenico tenne è di per sé abbastanza edificante. Predicò a
Montpellier, senza successo, insieme al vescovo di Osma. Sempre insieme predicarono a
Servian, dove i ministri catari Baldovino e Teodorico, vista la loro umiltà e i loro piedi
sanguinanti, acconsentirono a discutere con loro: dopo otto giorni di dibattito, Domenico e il
suo compagno si ritirarono senza aver raggiunto altro risultato del rispetto dei cattolici locali. A
Béziers per quindici giorni essi predicarono insieme ai legati e discussero con i 'perfetti',
ottenendo solo poche conversioni.
A Carcassonne predicarono otto giorni, senza alcun risultato. A Montréal incontrarono
Guilberto di Castres, il più grande predicatore cataro dell'epoca, figlio primogenito del vescovo
cataro di Tolosa, Benedetto di Terme e Pons Jordan, nonché un gran numero di 'perfetti'. Il
cataro Arnaldo Hot sostenne pubblicamente (stando alla testimonianza di Guglielmo di
Puylaurens) che «la Chiesa romana, difesa dal vescovo di Osma, non era santa né era la sposa
di Cristo: era chiesa diabolica dalla dottrina demoniaca; era la Babilonia che Giovanni,
nell'Apocalisse, chiama madre delle fornicazioni e degli abomini, ebbra del sangue dei santi e
dei martiri di Gesù Cristo. Il suo ordinamento non era né santo, né buono né istituito dal
Signore Gesù Cristo. Mai il Cristo e gli apostoli avevano ordinato e istituito il rito della messa
come viene praticato oggi». Il vescovo di Osma si disse disponibile a provare il contrario sulla
base del Nuovo Testamento.
(«O dolore - esclama lo storico - la Chiesa e la fede cattolica erano talmente disprezzate fra
genti cristiane, che giudici laici erano chiamati a pronunciarsi su bestemmie di questo genere!
[7]». Constatazione del tutto pertinente: ma i giudici che dovevano pronunciarsi su questo
dibattito si trovarono talmente in disaccordo che si lasciarono senza aver deciso nulla.) A
Verfeil, dove già san Bernardo era stato accolto malamente, gli inviati del papa discussero con i
catari Pons Jordan e Arnaldo Arifat. Le parti faticarono a intendersi, sia per difficoltà
linguistiche (taluni catari non parlavano il latino) sia per mancanza di chiarezza nell'esposizione
delle proprie tesi: il vescovo di Osma si ritirò indignato, convinto che gli eretici si
rappresentassero Dio come un uomo seduto in cielo le cui lunghissime gambe colmavano la
distanza fra cielo e terra! «Che Dio vi maledica - disse - eretici grossolani nei quali vanamente
credevo di trovare una qualche finezza intellettuale (8)».
L'ultimo dibattito si svolse a Pamiers, sotto l'alto patronato del conte di Foix, che per
l'occasione mise a disposizione il suo castello di Castela. Il vescovo di Osma e Domenico vi
furono accompagnati da Folco, il nuovo vescovo di Tolosa, e Navarra, nuovo vescovo di
Couserans. A Pamiers c'erano tanti valdesi quanti catari, ed entrambe le sette delegarono i loro
oratori; la sorella del conte, Esclarmonde, lei stessa 'perfetta' e grande protettrice di eretici,
partecipò alla discussione. Qui la missione cattolica ebbe maggior successo che altrove, poiché
il valdese Durando di Huesca si pentì insieme a un certo numero di amici. Ma in generale i
risultati furono più che mediocri.
La missione cattolica si disperse. Il vescovo di Osma rientrò in Spagna, il legato Raul se ne
andò, Arnaldo Amalrico venne richiamato in Francia per sbrigare gli affari del suo ordine,
Pietro di Castelnau (peraltro molto impopolare in Linguadoca) era troppo preso dalle sue zuffe
con i feudatari per darsi alla predicazione. Solo Domenico continuò instancabilmente nel suo
compito, predicando per le strade e nei villaggi, d'estate e d'inverno, vivendo di pane e acqua,
dormendo sulla nuda terra, impressionando il popolo per la sua resistenza e per l'infiammata
autorità dei suoi discorsi.
Se si pensa che Domenico iniziò la sua predicazione nel 1205 e che nel giugno 1209
l'esercito crociato invase il paese, si può dispiacersi del fatto che quest'autentico apostolo della
Chiesa abbia avuto così poco tempo per condurre a termine un'opera che avrebbe potuto portare
risultati durevoli. Tuttavia un domenicano dei tempi di san Luigi, Stefano di Salagnac, mette in
bocca al fondatore del suo ordine parole crudeli, che sembrano indicare che la pazienza
cristiana non era fra le virtù coltivate dal santo: «Da parecchi anni - avrebbe detto Domenico
alla folla riunita a Prouille - vi ho portato parole di pace. Ho predicato, ho supplicato, ho pianto.
Ma come si usa dire in Spagna: dove la benedizione non serve, servirà il bastone. Noi vi
lanceremo contro principi e prelati i quali convocheranno nazioni e popoli, e un gran numero di
voi morirà di spada. Le torri verranno distrutte, le mura abbattute, e sarete ridotti in schiavitù.
Così dove la dolcezza ha fallito vincerà la forza». Ma che sono «parecchi anni» quando si
intraprende un'opera di evangelizzazione? San Domenico sembra abbandonare l'impresa prima
di averla incominciata.
La Chiesa cattolica non aveva bisogno di missionari di questo genere: aveva troppo da farsi
perdonare per potersi permettere di lanciare minacce, se davvero voleva riconquistare il cuore
dei fedeli. Parole come quelle appena citate rischiavano di allontanare per sempre da Domenico
quanti avrebbero potuto convertirsi di fronte all'esempio della sua carità e del suo coraggio. I
ministri catari non minacciavano di far ammazzare quanti resistevano alla loro predicazione.
Poiché conosciamo la personalità forte di Domenico, la sua energia, la sua fede, la sua totale
abnegazione, potremmo a priori meravigliarci del modesto numero di conversioni che riuscì a
ottenere in un paese cristiano, ove le verità che predicava dovevano essere vicine al cuore di
quanti l'ascoltavano. Per breve che il suo apostolato sia stato, la sua influenza personale era tale
da attirargli intorno un gran numero di seguaci; eppure siamo in grado di citare appena qualche
nome: le giovani recluse di Fanjeaux, Pons Roger, qualche donna e qualche fanciullo di cui non
si sa nulla. Certamente avrebbe fatto meglio presso i Cumani.
Ma questo fatto paradossale è spiegabile con la situazione ambigua nella quale si trovava:
rappresentante di una Chiesa sempre pronta a brandire «il bastone», non poteva ispirare la
fiducia in essa; e ci voleva un coraggio quasi sovrumano per convertirsi liberamente a una
religione che pretendeva di imporsi con la forza. Nello stesso periodo in cui Domenico si
esponeva allegramente alla derisione e alle ingiurie dei suoi avversari, il papa continuava a
scrivere al re di Francia per spingerlo all'intervento armato contro l'eresia, i legati usavano tutti i
loro strumenti di pressione per convincere il conte a perseguitare gli eretici e la Chiesa, pur
accettando i dibattiti teologici con i ministri catari, non rinunciava a una legislazione che, se
fosse stata messa in vigore, avrebbe condotto questi ministri al rogo, i loro fedeli all'esilio. In
condizioni simili, la più sincera, la più appassionata predicazione non poteva sembrare altro che
un'odiosa ipocrisia.
La Chiesa era costretta a lottare, ma le forze in campo non erano uguali. Santa, cattolica e
apostolica, forte della sua tradizione secolare di sapienza e di autorità, la Chiesa romana, nel
Sud della Francia, cominciava ad assumere l'aspetto di una forza poliziesca e per di più
straniera, che veniva disprezzata e derisa, che si sperava di ingannare con una sottomissione
simulata; insomma, essa era divenuta qualcosa di talmente miserevole da far versare lacrime di
sangue a tutti i suoi seguaci. I suoi sforzi per riguadagnare il terreno perduto dovevano
spingerla ancor più in basso, a causa di un'implacabile sequela di errori, di compromessi, di
ambizioni personali, di fedeltà fraintese, di involontari o consapevoli abusi di potere. Il male era
così antico che sarebbe ingiusto attribuirne tutta la responsabilità a Innocenzo Terzo e ai suoi
troppo zelanti ministri.
Se un santo come Domenico ha potuto soffrire dello scandalo rappresentato ai suoi occhi
dall'eresia al punto da dimenticare che il bastone non è arma degna di Cristo, come stupirsi che
uomini meno sicuri di sé si siano sentiti autorizzati a difendere la loro Chiesa con le armi? E se
la situazione era compromessa al punto che persino un santo era ridotto a svolgere il ruolo
ingrato del poliziotto mascherato, come meravigliarsi della legittima resistenza delle
popolazioni meridionali di fronte alla predicazione cattolica? San Domenico riuscì comunque a
convertire un uomo di valore, quel Pons Roger, di Tréville nel Lauraguais, cui impose le
seguenti penitenze: per tre domeniche camminare dall'ingresso del suo villaggio fino alla chiesa
a torso nudo, seguito da un sacerdote che lo colpisse con delle verghe; portare l'abito religioso,
con due piccole croci cucite sui due lati del petto; non mangiare più carne, uova e formaggio
per tutta la vita, salvo che nei giorni di Pasqua, Pentecoste e Natale; per tre giorni alla settimana
rinunciare anche al pesce, all'olio e al vino; osservare tre quaresime all'anno; ascoltare la messa
tutti i giorni; mantenersi sempre casto; mostrare mensilmente al curato del villaggio la sua
lettera di penitenza. In caso di disobbedienza egli sarebbe stato scomunicato come eretico e
spergiuro (9).
A parte questo caso di conversione autentica - il solo di cui ci sia giunto il ricordo - il
risultato dell'opera di san Domenico negli anni precedenti la crociata si riduce alla fondazione
del monastero di Prouille, destinato a divenire la prefigurazione e il punto di partenza
dell'ordine dei Frati Predicatori, che ben presto avrebbe assunto una posizione di primo piano
all'interno della Chiesa.
Una sera dell'anno 1206 san Domenico stava pregando in una chiesa di Fanjeaux, dopo aver
predicato in pubblico. Alcune fanciulle si gettarono ai suoi piedi e gli dissero che erano state
educate da un gruppo di 'perfette' nella fede eretica, ma che i suoi sermoni le avevano fatte
dubitare della verità della loro religione. «Pregate il Signore - dissero - perché ci riveli la fede
nella quale vivremo, morremo e saremo salvate. Fatevi coraggio - rispose il santo - il Signore
Iddio, che non vuole che nessuno si perda, vi mostrerà subito quale maestro abbiate seguito
finora». Una delle fanciulle raccontò in seguito che a quelle parole apparve loro il Demonio,
sotto forma di un orrendo gatto (10).
Che una simile visione fosse dovuta ai poteri di suggestione di san Domenico o
all'esaltazione delle fanciulle, è difficile prendere molto sul serio una conversione di questo
genere. La predicazione del santo ispirava forse più odio e orrore per l'eresia che amore per le
verità della Chiesa? Comunque sia, le giovani convertite temevano che la loro nuova fede
potesse indebolirsi di fronte alle suppliche o alle minacce dei loro congiunti, e san Domenico
decise di creare per loro un luogo di rifugio, dove potessero vivere lontane dalle tentazioni.
Il convento ricevette ben presto delle donazioni: nel 1207 l'arcivescovo di Narbonne accordò
alla nuova fondazione la chiesa di Saint-Martin di Limoux. Più tardi i successi della crociata
avrebbero arricchito questo convento grazie alla spoliazione dei signori eretici.
Avremo modo di tornare sull'attività svolta da san Domenico durante la crociata e sulla
fondazione dell'ordine dei Frati Predicatori. Per ora lasciamolo in questa Linguadoca 'infettata'
dall'eresia, ove egli proseguì una missione tanto più difficile in quanto i suoi avversari erano
predicatori non meno ascetici, non meno intrepidi, non meno fermi nella loro fede, e per di più
noti e venerati in tutto il paese. C'è da credere che i 'perfetti' abbiano presentato la fede e la
carità di Domenico come una tattica ipocrita, ispirata dal Demonio. Ma se non convertivano
molti eretici, le sue campagne di evangelizzazione servivano almeno a eccitare lo zelo di parte
della popolazione cattolica.
A Tolosa, dal 1206, un uomo straordinariamente attivo e appassionato stava organizzando
nella città e nei dintorni un vero e proprio movimento di resistenza cattolica contro gli eretici.
Folco di Marsiglia, vescovo di Tolosa, eletto al posto del poco raccomandabile Raimondo di
Rabastens, ottant'anni dopo la morte ebbe il privilegio di comparire nel "Paradiso" di Dante
coll'aspetto di un'anima festante il cui splendore, sfolgorante come il sorriso, colpiva la vista
come un rubino esposto alla luce del sole. Questo beato è collocato dal poeta nel cielo di
Venere, poiché arse d'amore più di Didone... «infin che si convenne al pelo (11)». Questo
borghese di Marsiglia, nato a Genova, ricco commerciante divenuto trovatore per vocazione,
come poeta aveva goduto di una fama notevole, cantando nei suoi versi le gran dame che aveva
amato. Quando i suoi capelli si fecero grigi, dimenticò l'ardore delle sue passioni per una
religiosità ancor più ardente, e nel 1195 pronunciò i voti nell'abbazia di Thoronet; dieci anni
dopo venne designato vescovo di Tolosa. Il suo zelo e la sua energia erano universalmente
riconosciuti; essendo un provenzale non aveva legami nel Tolosano, e si mostrò poco
accondiscendente e poco incline ai compromessi; infine era un uomo che conosceva il mondo,
un ottimo oratore, uno scrittore stimato che continuò ad appassionare il suo pubblico con i suoi
sirventesi e le sue canzoni religiose, come un tempo l'aveva affascinato con i suoi poemi
d'amore.
Arrivato nel 1206 in un vescovado in rovina, e potremmo dire ormai inesistente, Folco non
solo riuscì a pagare i debiti e a rimettere ordine nelle finanze (non per nulla proveniva da una
famiglia di mercanti), ma seppe anche acquistare nella sua città una reale popolarità, per lo
meno fra i cattolici. Lo storico Guglielmo di Puylaurens, che fu notaio presso il vescovado di
Tolosa dal 1241, e che dal 1242 al 1247 fu cappellano dei conti di Tolosa, parla del vescovo
(all'epoca della stesura della sua cronaca morto da una buona quarantina d'anni) con
ammirazione e venerazione: Folco evidentemente aveva lasciato un buon ricordo negli ambienti
ecclesiastici di Tolosa. (E' giusto fare questa precisazione, poiché coloro ai quali lasciò pessimi
ricordi dovettero essere moltissimi.) In effetti quest'inquietante figura di vescovo-trovatore che,
giunto all'età di ottant'anni, morì mentre componeva un cantico sulla venuta dell'aurora celeste,
ispira più meraviglia che rispetto. Lo vedremo agire con l'energia che si conviene al capo di un
partito estremista più che a un vescovo. Guglielmo di Puylaurens lo loda per aver portato ai
cittadini di Tolosa «non una cattiva pace ma una buona guerra». La sua eloquenza di tribuno
incitava ad azioni reali e concrete, ed è a Folco che spetta il dubbio onore di essere riuscito nel
tentativo di sollevare i cattolici contro i loro fratelli eretici. Ma si trattava solo di un piccolo
numero di militanti fanatici, e per il popolo Folco restò - come diranno un giorno gli abitanti di
La Bessède - «il vescovo dei diavoli».
Oltre ai legati e ai loro missionari, oltre ai vescovi di nuovo stile e di recente intronizzazione
come Folco di Marsiglia e Navarra, vescovo di Couserans, oltre ai vescovi di Comminges, di
Cahors, di Albi, di Béziers e altri ancora, la cui fedeltà alla Chiesa era indubbia, ma i cui sforzi
nella lotta all'eresia erano del tutto platonici, su quali altre forze poteva contare la Chiesa nelle
province occitane? Parte della nobiltà doveva essere cattolica: il legato Pietro di Castelnau era
riuscito a formare una lega di baroni destinata a combattere l'eresia; ma considerato che non si
fecero crociati, c'è da credere che questi baroni avessero preso una tale iniziativa solo per dar
fastidio al conte di Tolosa. I crociati meridionali provenivano soprattutto dalla Provenza, terra
poco toccata dall'eresia, dal Quercy o dall'Auvergne. I vescovi di Cahors e di Agen furono in
grado di formare qualche corpo armato di pellegrini che partecipò alla crociata. Ma sembra che
nell'intera regione compresa fra Montpellier e i Pirenei, fino a Comminges a sud e ad Agen a
nord, la Chiesa abbia avuto solo dei partigiani isolati e comunque poco attivi, coscienti più dei
legami di solidarietà che li univano ai loro concittadini eretici che dei loro obblighi verso la
Chiesa - almeno quando questi obblighi si spingevano fino all'espulsione e alla persecuzione
degli eretici. D'altra parte questi ultimi erano abbastanza forti da potersi difendere. Se anche
l'avesse voluto il conte non sarebbe stato in grado di scatenare una guerra civile.
Malgrado lo spirito combattivo dei suoi elementi sani, malgrado il fanatismo di alcuni capi,
malgrado i tentativi di persuasione e di intimidazione operati dal papa e malgrado il potere
amministrativo e finanziario che ancora aveva nel paese, la Chiesa si trovava incapace di
arginare i progressi della nuova religione, che cominciavano a paralizzare ogni volontà di
resistenza da parte della popolazione rimasta cattolica. Il papa e i legati vedevano nella forza
delle armi l'unico mezzo di lotta disponibile. E' in questo momento che l'assassinio di Pietro di
Castelnau diede il segnale per la levata degli scudi La Chiesa rimetteva il suo compito alla forza
della spada.
NOTE.
(1) Ep. CCCLXV.
(2) Ep. CCXLI, Migne, P.L., t. 182, col. 434.
(3) Confronta l'appendice 4.
(4) B. Jordanis de Saxonia, "Opera", Friburgo 1891.
(5) Guglielmo di Puylaurens, cap. 10.
(6) B. Jordanis de Saxonia, op. cit., p. 549.
(7) Guglielmo di Puylaurens, cap 9.
(8) Guglielmo di Puylaurens, cap. 8.
(9) Balme e Lelaidier, "Cartulaire de saint Dominique", t. 1, p.p. 186-188.
(10) Umberto de Romans, "L'Enquête de Toulouse pour la canonisation de saint
Dominique", cap. 13.
(11) Dante, "Paradiso", 9, v. 99.
Capitolo quarto

LA CAMPAGNA DEL 1209.


Nel giugno 1209 Raimondo Sesto venne flagellato a Saint-Gilles e solennemente si
riconciliò con la Chiesa. L'esercito dei pellegrini-guerrieri che avevano risposto all'appello del
papa aveva terminato i preparativi, si riunì a Lione e fissò la partenza per la festa di san
Giovanni (24 giugno). Persa ogni speranza di evitare la guerra, il conte giocò la sua ultima
carta: prese la croce.
La guerra, dichiarata all'indomani della morte di Pietro di Castelnau, stava per scatenarsi:
l'esercito crociato era pronto e non poteva più aspettare a mettersi in marcia. I crociati
prendevano la croce per quaranta giorni di effettiva campagna, i capi militari quindi non
avevano tempo da perdere.
I loro avversari, durante l'inverno del 1208-1209, mostrarono di non credere troppo alla
realtà del pericolo che incombeva su di loro e non organizzarono alcun sistema di difesa. Al
contrario, non si accordarono fra loro, esitarono fino all'ultimo sull'atteggiamento da prendere,
sperarono sempre di disarmare il papa e i suoi rappresentanti con promesse di sottomissione.
Secondo la "Chanson de la Croisade" (1), il conte di Tolosa avrebbe vanamente supplicato suo
nipote, visconte di Béziers, «di non fargli la guerra, di non sollevare controversie, e di preparare
insieme la difesa», e il visconte avrebbe risposto «non con un sì, ma con un no»; i due si
sarebbero lasciati in malo modo, cosa ben poco sorprendente se si pensa che le casate di Tolosa
e di Béziers da generazioni erano in permanente disaccordo e rivalità.
Gli storici che hanno biasimato la mancanza di unione tra i dirigenti del paese di fronte al
pericolo sembrano dimenticare quanto fosse difficile e ambigua la situazione in cui questi
uomini si trovavano: nel giugno del 1209 essi non potevano prevedere la piega che avrebbero
preso gli eventi; erano attaccati non da una potenza straniera ma dai soldati di Dio; la guerra era
stata dichiarata loro dal capo della loro stessa Chiesa, i loro avversari avevano alleati numerosi
e potenti sul loro stesso territorio. Dall'altro lato i re d'Occidente, i loro sovrani diretti e
indiretti, mantenevano una neutralità alquanto enigmatica e, se non facevano nulla in favore
della crociata, non sembravano nemmeno opporvisi.
Bisogna dunque pensare che l'atteggiamento dei baroni meridionali fosse il risultato di una
sorta di prudenza elementare: muoversi il meno possibile, lasciar passare la tempesta per
uscirne con il minimo di danni. Il conte di Tolosa, che pareva aver ben compreso il pericolo
rappresentato da una lotta aperta contro la Chiesa, passò dalla parte dei suoi nemici, mettendo
così i suoi domini - noti per essere uno dei centri di irraggiamento dell'eresia - sotto la
protezione della legge che dichiarava intangibili i beni dei crociati. I suoi vassalli più potenti
non si spinsero così avanti nel cammino della sottomissione e si prepararono alla resistenza. In
verità lo fecero in un pessimo modo, non certo per mancanza di coraggio o di mezzi, ma perché
una guerra dichiarata "all'eresia" era ancora qualcosa di troppo vago, di troppo indefinito perché
fosse possibile contare sull'assoluta fedeltà dei loro valvassori, che avevano già un'eccessiva
propensione a sfruttare la più insignificante occasione per disobbedire e rivoltarsi.
L'esercito crociato dunque entrò in un paese che non voleva la guerra, che non vi era
preparato, e che sperò fino all'ultimo momento di evitarla togliendo all'avversario qualsiasi
pretesto per battersi.
1. LA GUERRA MEDIEVALE.
Ma i crociati erano decisi a battersi.
Ora, che cos'era la guerra in quest'epoca che non conosceva i bombardamenti, i cannoni e il
servizio militare obbligatorio? Prima di iniziare a descrivere di che cosa si trattasse, è
necessario farsi un'idea di quali pericoli una guerra facesse correre a un paese, al suo esercito, al
suo popolo, alla sua economia e all'insieme della sua vita sociale. Anche se i nostri avi non
possedevano i mezzi di distruzione di cui noi disponiamo, sarebbe ingiusto credere che la
guerra fosse allora meno cruenta di oggi e che essi non avessero armi ancor più efficaci delle
nostre per terrorizzare i loro nemici.
E' vero che le battaglie in aperta campagna provocavano molti meno morti di oggigiorno,
anche tenuto conto dell'inferiorità numerica della popolazione di allora rispetto all'attuale. Un
esercito di ventimila uomini era già un esercito imponente; quello della prima crociata contro
gli Albigesi non doveva certo essere più numeroso, probabilmente era più piccolo.
L'imprecisione degli storici dell'epoca riguardo al numero degli effettivi di un qualche esercito
deriva dal fatto che essi in genere lo valutavano in rapporto al numero dei cavalieri; e un
cavaliere rappresentava un'unità militare assai variabile, potendo essere accompagnato da trenta
uomini come da quattro. Ogni cavaliere era seguito da un piccolo gruppo di soldati a cavallo e
di fanti, spesso suoi parenti o amici, comunque suoi fidatissimi vassalli. Scudieri o sergenti che
fossero, durante la battaglia essi agivano in accordo con il loro capo, e se la disciplina militare
era abbastanza debole nel tredicesimo secolo, lo spirito cameratesco fra il cavaliere e i suoi
compagni manteneva, specie fra la nobiltà del Nord, un valore quasi mistico. Molti uomini, del
tutto indifferenti alla causa per la quale combattevano, compivano miracoli di coraggio per
difendere la reputazione del signore cui erano ligi. La cavalleria rappresentava quindi il corpo
scelto dell'intero esercito, la cui potenza veniva quindi valutata in ragione del numero e del
valore dei cavalieri.
La guerra medievale era una guerra decisamente aristocratica: il combattente che contava era
il cavaliere, personaggio che inevitabilmente pagava di persona, ma che proprio per questo era
meno esposto al pericolo degli altri. Era protetto dall'armatura in modo tale che frecce, colpi di
lancia e di spada potevano piovere su di lui senza ferirlo: il cronista-poeta Ambrogio, ad
esempio, descrive il re Riccardo che tornava dalla battaglia coperto da così tante frecce da
sembrare un riccio. Per spuntate che fossero, una sola di quelle frecce era capace di uccidere un
uomo se non era coperto da una maglia di ferro, che era un capo caro, relativamente raro,
riservato all'élite dei combattenti. Se il giaco dei cavalieri copriva tutto il corpo, quello degli
scudieri non arrivava nemmeno alle ginocchia, mentre il semplice sergente indossava una
tunica fatta di pezzi di cuoio, solida ma incapace di resistere ai fendenti vibrati con la spada. Il
palafreniere portava solo uno scudo lungo circa un metro e mezzo; e l'equipaggiamento
difensivo del fante era alquanto sommario. Raramente mortali per i cavalieri e per i loro uomini
a cavallo, gli scontri militari lo erano per il grosso dell'esercito, per i soldati anonimi, per i
palafrenieri, per i sergenti, i cui cadaveri ricoprivano i campi di battaglia e i dintorni delle città
assediate.
Oltre alle unità regolari, battaglioni o piccole compagnie sotto il personale comando dei
cavalieri, l'esercito medievale era composto di truppe ausiliarie, sulle quali gravavano gli aspetti
tecnici della guerra. Si trattava innanzitutto di professionisti, specializzati nelle diverse funzioni
militari: arcieri, balestrieri, zappatori, guastatori, addetti alle macchine, che svolgevano
onestamente i loro compiti come un mestiere qualsiasi, servendo con esemplare fedeltà chi li
pagava.
Più in basso nella gerarchia militare, ma elemento di primaria importanza nella condotta
delle operazioni, sia nelle battaglie in campo aperto sia negli assedi, i "routiers" o soldati di
ventura (compagnie di mercenari che formavano il grosso dei fanti) costituivano l'arma più
terribile di cui potessero disporre i capi militari dell'epoca, l'arma riconosciuta come disumana e
messa fuori legge, ma in pratica usata da tutti. Se per la cavalleria la guerra era in primo luogo
un'occasione per coprirsi di gloria o per difendere cause più o meno nobili, per il popolo la
guerra era il terrore dei soldati di ventura.
Non è possibile parlare della guerra nel medioevo senza fermarsi un istante sulla grande
miseria e sull'ineffabile orrore evocato dal solo pensiero di quell'essere senza Dio, senza legge,
senza diritti, senza pietà e senza paura che fu il soldato di ventura. Temuto come un cane
rabbioso, era trattato come tale non solo dai nemici, ma spesso anche da quanti si servivano di
lui. Il suo solo nome bastava a spiegare ogni crudeltà e ogni sacrilegio, egli appariva come
l'immagine vivente dell'inferno sulla terra.
Le grandi compagnie di mercenari non avevano ancora l'importanza che avrebbero assunto
durante la Guerra dei Cent'Anni; ma già costituivano un flagello per le popolazioni, e uno dei
principali rimproveri mossi dal papa a Raimondo Sesto concerneva proprio la consuetudine del
conte di servirsi di mercenari durante le sue guerre private. Raimondo Sesto e i suoi vassalli
non avevano abbastanza soldati, e i "routiers" formavano buona parte degli effettivi dei loro
eserciti; ma essi - banditi temibilissimi proprio perché soldati di professione - esercitavano un
costante ricatto sui baroni che li assoldavano, minacciando di spogliarne le terre se non
venivano adeguatamente pagati. In caso di guerra, essi saccheggiavano il paese conquistato,
disputando il bottino all'esercito regolare; e le vittorie militari spesso avevano per esito scontri
fra la cavalleria e questi ribaldi. Vedremo che persino l'esercito crociato, benché fosse un
esercito di Dio, si sarebbe servito di queste truppe di mercenari il cui impiego era stato vietato
al conte di Tolosa.
I capi e i contingenti scelti di queste truppe generalmente provenivano da paesi stranieri
rispetto a quelli ove combattevano, e in Francia i "routiers" più spesso utilizzati erano Baschi,
Aragonesi o Brabantini. Ma in un'epoca nella quale le guerre, gli incendi e le carestie gettavano
continuamente sulle strade ragazzi pronti a procurarsi di che vivere con ogni mezzo, simili
compagnie di ventura reclutavano buona parte delle teste calde, dei ribelli, degli avventurieri
dei paesi che attraversavano.
Queste bande di uomini mal armati, spesso cenciosi e scalzi, privi di ordine e di disciplina e
pronti a obbedire solo ai loro capi, dal punto di vista militare presentavano due vantaggi
immensi. In primo luogo avevano fama di disprezzare la morte: non avendo nulla da perdere, si
gettavano in mezzo al pericolo con una frenesia che non si arrestava dinnanzi a nulla,
formavano battaglioni d'urto, tanto più facili da impiegare in quanto nessuno si faceva scrupolo
di sacrificarli. In secondo luogo, e soprattutto, essi ispiravano uno sconfinato terrore alle
popolazioni civili: questi uomini che non rispettavano Dio, che organizzavano orge nelle chiese
e che mutilavano le immagini sacre, non si accontentavano di saccheggiare e di violentare le
donne; massacravano e torturavano per il puro piacere di farlo, si divertivano ad arrostire sul
fuoco i fanciulli e a tagliare a pezzi gli uomini.
Oltre ai cavalieri e alle loro milizie, oltre ai professionisti e ai mercenari di ogni sorta,
l'esercito medievale comprendeva un importante nucleo di non combattenti. L'esercito si
portava dietro grandi carichi di bagaglio: le casse con le armi e le armature, le tende, le cucine,
gli strumenti necessari a costruire le fortificazioni o a montare le macchine da guerra. E si
portava dietro molte donne, lavandaie, rammendatrici, prostitute, mentre alcuni fortunati si
facevano talvolta accompagnare dalle mogli, e persino dai figli. Infine, il passaggio di un
grande esercito attirava una folla di vagabondi, mendicanti, curiosi, ladri allettati dalla
prospettiva del saccheggio, venditori ambulanti, giullari; insomma, una massa di civili dei quali
l'esercito non aveva alcun bisogno, ma che speravano di vivere grazie a esso, e che di fatto
rappresentavano un carico supplementare per il paese invaso.
Questa, all'incirca, era la struttura di un esercito durante una campagna militare. Per piccolo
che fosse, la sua semplice presenza in un paese costituiva un elemento di disordine, perché in
ogni caso un esercito paralizzava la circolazione sulle strade, seminava il panico e, per
procurarsi cibo e foraggio, taglieggiava le terre del circondario. La guerra generalmente era
guerra d'assedio più che scontro aperto sul campo; e l'artiglieria vi svolgeva un ruolo
fondamentale. Le torri e le mura delle città venivano bersagliate a colpi di pietre lanciate con
baliste, o con catapulte capaci di gettare a quattrocento metri proiettili fino a quaranta chili.
Montate su impalcature di legno, su torri mobili o su chiatte, queste macchine da lancio spesso
erano in grado di aprire brecce in mura spesse più metri; per non parlare dei danni che
provocavano all'interno della città assediata quando gli assedianti riuscivano a costruire torri
abbastanza alte da dominare le mura. Coperti dal tiro dell'artiglieria, gli assalitori colmavano i
fossati; i minatori aprivano gallerie sotterranee e scalzavano le fondamenta delle torri; l'assalto
in genere veniva fatto con le scale, e solo di rado aveva successo; la conquista di una
piazzaforte in genere comportava la preventiva demolizione delle mura. Essa richiedeva un
lavoro lungo e pericoloso, durante il quale gli assediati in genere si trovavano in vantaggio,
riuscivano a incendiare le torri mobili e a decimare gli assedianti, che non avevano il riparo
delle mura. Così la guerra d'assedio era per lo più una guerra di logoramento.
L'arrivo del nemico faceva fuggire la gente delle campagne verso i castelli e le città
fortificate che, oltre a rischiare di essere assediate, quindi private dei normali canali di
approvvigionamento, vedevano aumentare la loro popolazione di molte bocche inutili, per non
parlare degli animali. L'assedio quindi era foriero di carestia e di epidemie. D'altro canto, un
esercito che avanzava in territorio nemico spogliava le campagne, saccheggiava o dava fuoco ai
raccolti, abbatteva gli alberi da frutto, sempre che non l'avessero già fatto gli aggrediti per
affamare gli aggressori. Gli uni e gli altri inquinavano l'acqua dei pozzi, e le malattie e la
carestia facevano più vittime delle armi anche nell'esercito assediante. Solo di rado un esercito
di una certa entità restava a lungo in territorio nemico.
Il popolo, pur non facendola, soffriva per la guerra più di quelli che vi prendevano parte:
innanzitutto per la fame, poi per l'intervento dei soldati di ventura. Il Mezzogiorno della
Francia, da tempo abituato alle guerre e alle guerriglie feudali, era divenuto un paese di
cittadini: la maggior parte dei borghi e dei villaggi erano fortificati, e le fattorie dipendevano
dai castelli; al minimo pericolo i contadini correvano a mettersi al riparo. Sappiamo che i conti
di Tolosa e di Foix e i visconti di Béziers erano sempre in lotta; questi continui regolamenti di
conti fra vicini non sembra però che sconvolgessero in profondità la vita del paese, che vi si
adattava come a un male inevitabile. I mercenari, il cui impiego veniva rimproverato al conte di
Tolosa, non dovevano essere molti, e nemmeno particolarmente violenti, considerato che più
tardi lo stesso conte sarebbe apparso al popolo come il simbolo dell'ordine e della pace.
Forse per questo, la minaccia di una crociata non aveva turbato più di tanto un popolo che
credeva di sapersi difendere. Gli Occitani, probabilmente, si aspettavano di assistere a una
spedizione militare come le decine che avevano già visto, e pensavano di difendersi con i mezzi
tradizionali, oppure di sottomettersi, all'occorrenza, per la durata di una guerra che senza
dubbio sarebbe stata breve.
Ma all'inizio del luglio 1209, quando la notizia dell'avanzata dell'esercito crociato si diffuse
nel paese, quando i primi gruppi di fuggitivi cominciarono a dirigersi verso le città, quando
dall'alto delle loro torri di guardia le sentinelle dei castelli che dominavano la valle del Rodano
videro svolgersi per chilometri e chilometri l'interminabile nastro in movimento composto da
migliaia di uomini a cavallo e a piedi, quando videro il Rodano ingombro delle file di barche
che trasportavano i bagagli e le provviste dell'esercito, le popolazioni delle terre minacciate
restarono impressionate dall'imponenza dell'esercito nemico: nel paese, stando alla "Chanson de
la Croisade", in precedenza non si era mai visto nulla di simile.
Certo questa è la testimonianza degli sconfitti; ciononostante doveva corrispondere alla
realtà. Le descrizioni del cronista fanno pensare che la vista della massa di guerrieri che
discendevano la valle del Rodano abbia sconvolto i contemporanei come qualcosa di
mostruoso. Quale che potesse essere l'esito della guerra, la sola presenza di un tal numero di
soldati stranieri nel paese assumeva già i caratteri della catastrofe nazionale.
Da lontano quest'esercito appariva ancor più temibile di quanto non fosse poiché, oltre alle
bande di vagabondi che accompagnavano ogni formazione militare durante una campagna,
l'armata crociata era dilatata, seguita, circondata da una folla di pellegrini civili, partiti con
l'intenzione di guadagnare le indulgenze promesse ai crociati e desiderosi, nella loro santa
semplicità, di partecipare a un'opera pia aiutando a sterminare gli eretici. La tradizione del
pellegrinaggio dei crociati civili, solidamente stabilitasi durante un secolo di spedizioni in Terra
Santa, indirizzava verso il paese eretico questi singolari 'pellegrini', che si mettevano in marcia
non per raccogliersi davanti a delle reliquie venerate, ma per contemplare roghi e prendere parte
a massacri. Questi civili, che non erano una forza di combattimento, ma semmai un impaccio
per l'esercito crociato, potevano tuttavia contribuire a dargli l'aspetto formidabile di un'ondata di
invasori che si abbatteva sul paese.
2. BEZIERS.
Guidati dal legato Milone, i crociati avanzavano rapidamente: partiti da Lione agli inizi di
luglio, il 12 erano già a Montélimar; a Valence li aveva raggiunti il conte di Tolosa, la croce sul
petto, prendendo posto fra i grandi baroni a capo della crociata. Prima del 20 luglio i crociati si
fermarono a Montpellier, città amica, cattolica per tradizione, terra del re d'Aragona: fu l'ultima
sosta prima dell'inizio delle ostilità. Nel frattempo un altro esercito crociato, più piccolo,
comandato dall'arcivescovo di Bordeaux, accompagnato dai vescovi di Limoges, di Bazas, di
Cahors e di Agen, dal conte d'Auvergne e dal visconte di Turenna, penetrava nella Linguadoca
dal Quercy; quest'esercito conquistò la città di Casseneuil, dove parecchi eretici vennero
catturati e trascinati sul rogo.
Raimondo Sesto non era più un nemico della fede, ma i crociati non ne tennero conto per
nulla: i legati avevano già designato il primo avversario da combattere, il più titolato dei 'fautori
di eresia' della Linguadoca. I domini del visconte di Béziers da lunga data erano considerati
terre eretiche per antonomasia, e il giovane visconte non aveva né l'audacia né la doppiezza
dello zio e sovrano, il conte di Tolosa.
In quel mese di luglio del 1209 Raimondo Ruggero Trencavel, visconte di Béziers e di
Carcassonne, si trovò di fronte un esercito «come non se n'erano mai visti», che contava fra i
suoi ranghi il duca di Borgogna, il conte di Nevers, una moltitudine di grandi baroni e di
vescovi, il suo sovrano, conte di Tolosa, e che per giunta aveva tutta l'autorità della Chiesa.
L'altro sovrano, il re d'Aragona, non sembrava deciso ad appoggiarlo: re cattolico, egli non
poteva opporsi ufficialmente a un'impresa condotta dalla Chiesa. Divenuto sotto il peso delle
circostanze il campione dichiarato dell'eresia, il visconte, visti i nemici alle sue porte, cercò in
un primo tempo di trattare. Recatosi a Montpellier, tentò di difendere la sua causa presso i
legati: tenuto conto della sua giovane età, non doveva essere ritenuto responsabile di quanto era
avvenuto quando era minorenne, tanto più che non aveva mai cessato di essere cattolico ed era
pronto a sottomettersi alla Chiesa. Si trattava di un linguaggio puramente convenzionale con il
quale il visconte, come sempre facevano tutti i baroni del Sud, si sforzava di coprire con il suo
nome i popoli delle province che amministrava. I legati si rifiutarono di dargli ascolto. Costretto
all'insubordinazione, il visconte non poté far altro che prepararsi alla difesa.
Aveva il tempo contato: un esercito forte, che in due settimane aveva percorso il cammino
fra Lione e Montpellier, si trovava appena a una quindicina di leghe da Béziers, la prima grande
città dei domini dei Trencavel. La strada era aperta, il visconte non disponeva di forze in grado
di fermare, o anche solo di frenare l'avanzata dei crociati. Da Montpellier andò a Béziers, ma
non poteva pensare di restarci: prima città minacciata, Béziers stava per essere cinta d'assedio e
lui, capo militare del paese, non poteva correre il rischio di trovarsi tagliato fuori dal resto delle
sue terre. Quindi promise ai consoli di mandar loro dei rinforzi, e si accinse a preparare di
persona la difesa di Carcassonne, la sua capitale. Portò con sé alcuni eretici e gli ebrei della
città.
I cittadini di Béziers, rimasti «tristi e dolenti» per la partenza del visconte, si prepararono
rapidamente alla difesa; avevano a disposizione solo due o tre giorni, perché l'esercito nemico si
era già messo in marcia sulla strada romana che collegava direttamente Béziers a Montpellier.
La guarnigione, aiutata dalla popolazione civile, fece approfondire i fossati intorno alle mura
della città. Queste erano solide, la città non mancava di viveri e poteva predisporsi senza timore
a un assedio abbastanza lungo. Del resto la stessa immensità (ulteriormente esagerata
dall'immaginazione popolare) dell'esercito crociato rassicurava i suoi avversari: una simile
massa di soldati poteva presto essere costretta a togliere l'assedio per mancanza di rifornimenti.
Il 21 luglio l'esercito crociato arrivò dinnanzi a Béziers e dispose le tende lungo la riva
sinistra dell'Orb; il secondo capo della città, Rinaldo di Montpeyroux, il vescovo di Béziers, di
nomina recente, poiché il suo predecessore Guglielmo di Roquessels era stato assassinato nel
1205, cercò a sua volta di negoziare prima dell'inizio delle ostilità. Tornò dal campo crociato
con le seguenti proposte: Béziers sarebbe stata risparmiata se i cattolici locali avessero
acconsentito a consegnare ai legati gli eretici dei quali il vescovo stesso aveva steso l'elenco.
Quest'elenco si è conservato; dà duecentoventidue nomi, alcuni dei quali recano la menzione
"val" ("valdensis"). Queste duecentoventidue persone (o famiglie) con tutta evidenza erano
notabili o ricchi borghesi 'perfetti', oppure capi laici della setta.
Il vescovo convocò una riunione nella cattedrale, indirizzandosi ovviamente ai cattolici; gli
eretici a Béziers erano molto numerosi e potenti, quindi il vescovo ritenne impossibile
costringerli a consegnare i loro capi; propose perciò ai cattolici di lasciare la città,
abbandonando gli eretici, per avere salva la vita.
Difficile dire se queste parole nascondessero una minaccia precisa, oppure se il vescovo
semplicemente si riferisse ai pericoli cui si esponeva la popolazione di qualunque città che
subiva un lungo assedio nonché agli eccessi di qualsiasi assalto. In ogni caso i consoli di
Béziers rifiutarono sdegnati un simile patteggiamento, dichiarando che «preferivano essere
annegati nel mare salato» piuttosto che abbandonare i loro concittadini; dissero «che nessuno
avrebbe dovuto loro un solo quattrino perché cambiassero la loro signoria con un'altra (2)». La
loro risposta era dunque un'espressione di lealtà verso il loro visconte e verso le libertà della
loro città. Béziers, che già aveva pagato caro il suo amore dell'indipendenza, non intendeva
lasciarsi imporre la volontà degli invasori.
La posizione degli abitanti di Béziers mostrò ai crociati che non potevano contare sulla
popolazione cattolica del paese; in qualsiasi circostanza, di fronte e contro tutti, le città occitane
avrebbero fatto prevalere su qualsiasi altro interesse gli interessi nazionali; e fin dal primo
giorno, questa guerra di religione assunse quei caratteri di resistenza nazionale che conservò
sino alla fine. Per questo paese la Chiesa, pur rappresentata dai suoi vescovi, era già una
potenza straniera.
Rinaldo di Montpeyroux dunque si ritirò, conducendo con sé qualche cattolico più zelante o
più timoroso degli altri; non dovevano essere molti, poiché si sa che anche alcuni sacerdoti
rimasero in città.
Sotto gli ordini dell'abate di Cîteaux l'esercito crociato cominciò a stringere d'assedio
Béziers, installandosi sulle rive dell'Orb e procedendo ai preparativi dell'assalto. Dalla sorte di
Béziers dipendeva il successo della crociata, perché se le forze crociate fossero rimaste
immobilizzate in un assedio troppo lungo, rischiavano di esaurire rapidamente le loro provviste
di viveri, lasciando a Raimondo Ruggero e ai suoi alleati il tempo di organizzare la difesa. Ora,
quell'esercito così potente era un colosso dai piedi d'argilla: l'intesa non regnava fra i suoi capi
(il duca di Borgogna e il conte di Nevers avevano rapporti assai difficili), le truppe di mercenari
e di pellegrini rischiavano di sbandarsi nella ricerca di occasioni di saccheggio e gli stessi
cavalieri, in via di principio, erano disponibili solo per quaranta giorni. Bisognava colpire in
fretta, e dinnanzi a quella città imponente che era Béziers, con le sue mura robuste, i suoi
fossati, le sue porte ben difese, le alte torri della sua cattedrale, delle sue chiese, del suo castello
e dei suoi palazzi borghesi, i capi crociati dovettero chiedersi se l'assedio intrapreso non si
sarebbe risolto in una semplice dimostrazione di forza, votata a uno scacco piuttosto umiliante.
C'è da credere che fossero parecchio esasperati per l'atteggiamento dei cittadini, che
dimostravano di preoccuparsi ben poco delle loro minacce: la speranza di spaventare
l'avversario con un'avanzata folgorante sembrava perduta, come quella di potersi appoggiare sui
cattolici del luogo.
Il 22 luglio, giorno della festa di santa Maria Maddalena, una relativa tranquillità sembrava
regnare nei due campi: gli assedianti non erano ancora pronti per l'assalto; gli assediati, ben al
riparo dietro le loro mura, contemplavano senza eccessive apprensioni, forse con un po'
d'ironia, la distesa di tende e di bivacchi, le masse d'uomini, di cavalli, di carri, lungo l'Orb e
intorno alla città. Dominando dall'alto la valle, Béziers poteva facilmente respingere un assalto,
e quello dei crociati accampatisi proprio sotto le mura non appariva troppo temibile: le truppe
dei 'pellegrini' e dei "routiers", pericolose nei corpo a corpo, facevano modesta figura guardate
dall'alto dei bastioni. In ogni caso c'è da credere che la vista di quelle bande di fanti,
disorganizzati e straccioni, abbia provocato più disprezzo che paura; altrimenti non si
spiegherebbe lo strano avvenimento del quale poi Arnaldo Amalrico e i cronisti cattolici
avrebbero parlato come di un favore della Provvidenza divina.
Questa giornata, che doveva risultare decisiva nella storia di questa guerra, oltre che una
delle più tragiche dell'intera crociata, cominciò in un'atmosfera di semiindifferenza; assedianti e
assediati verosimilmente pensavano che i pericoli e le fatiche erano riservati ai giorni, alle
settimane a venire. La guarnigione organizzava i dispositivi di difesa; i capi crociati, insieme ai
loro cavalieri, tenevano un consiglio di guerra e prendevano accordi per l'assalto, che
probabilmente avrebbe avuto luogo solo l'indomani, o due giorni dopo. I soldati si apprestavano
a consumare il rancio.
Nel frattempo parte della guarnigione - o forse dei civili, trasformati in soldati occasionali
dall'esaltazione del pericolo - effettuò una ricognizione uscendo dalla porta prospiciente il
vecchio ponte che dominava l'Orb, da cui era separata da una ripida scarpata. Parlando
dell'imprudenza di questi uomini Guglielmo di Tudèle non sa contenere la sua indignazione.
Egli descrive in modo dettagliato la scena, evidentemente raccontatagli da un testimone oculare.
Quanto dice mostra come non si trattasse di una vera azione militare, ma di una semplice parata
destinata a schernire e a deridere il nemico.
«Pessimo regalo fece agli abitanti della città chi diede loro il consiglio di uscirne in pieno
giorno! - esclama il cronista - Perché sappiate che cosa fece questa gente meschina, questa
gente incosciente e folle: con le bandiere di grossa tela bianca che portavano, andavano avanti,
gridando a perdifiato, pensando di spaventare i nemici, come si fa con gli uccelli nei campi
d'avena, urlando, strillando, agitando le insegne al mattino, non appena fece chiaro! (3)».
Imprudenza folle, dice l'autore che continua parlando di un'armata paragonabile a quella di
Menelao, cui Paride sottrasse Elena, e nella quale «non c'era barone di Francia che non facesse i
suoi quaranta giorni». L'esercito certo non contava tutti i baroni di Francia e i cittadini usciti da
Béziers avevano di fronte uomini pressoché disarmati, considerato che gli altri erano accampati
a una certa distanza dalla città. I due campi verosimilmente avevano previsto al massimo
qualche inoffensiva scaramuccia, qualche scambio di sberleffi o di sfide, preliminari frequenti
dei combattimenti seri in un'epoca nella quale la guerra eccitava in ogni combattente il gusto di
mettersi in mostra, di dare spettacolo. Sta di fatto che i soldati di Béziers usciti di città si
avvicinarono parecchio all'accampamento crociato, e uccisero, gettandolo nell'Orb, un «crociato
francese» che si era spinto sul ponte per rispondere ai loro insulti. Fra i fanti, sempre rapidi a
mettersi in marcia, l'agitazione crebbe, e la parata si trasformò in scontro.
E' a questo punto, secondo Guglielmo di Tudèle, che intervenne il re dei ribaldi, che divenne
così il principale artefice della vittoria. Il re dei ribaldi era il capo dei mercenari francesi, un
personaggio non trascurabile, dal momento che comandava gli elementi più spietati e più
intrepidi dell'esercito. Comprese le opportunità della situazione creatasi, egli lanciò il segnale
d'attacco, e i suoi uomini si lanciarono all'assalto, gettando lo scompiglio negli aggressori e
costringendoli a risalire la scarpata, verso le porte della città: «Sono - dice la "Chanson" - oltre
quindicimila, tutti scalzi, tutti in camicia e calzoni, senza armatura ma con una gran quantità di
armi». Quindicimila è indubbiamente una cifra eccessiva, ma in ogni caso il distaccamento dei
cittadini di Béziers era meno numeroso e pensò solo a mettersi in salvo fuggendo. La folla
urlante e forsennata dei briganti salì di corsa la scarpata, raggiungendo la porta della città
contemporaneamente alla guarnigione che ripiegava.
Che cosa accadde poi? Guglielmo di Tudèle scrive che i ribaldi «si misero in cammino
intorno alla città per abbatterne le mura, si gettarono nelle fosse, per mettersi gli uni a lavorare
con il piccone, gli altri a sfondare, a forzare le porte... (4)»: prodezze, queste, che è difficile
attribuire a uomini seminudi, armati di un bastone. E' più verosimile supporre che parte di loro
sia riuscita a penetrare all'interno della città insieme alla guarnigione in ritirata, impadronendosi
così di una delle porte, mentre il grosso dell'esercito si lanciava a sua volta all'assalto, con
strumenti di combattimento più appropriati alla situazione. In effetti la scaramuccia fu
abbastanza vivace da attirare l'attenzione dei capi che, comprendendo che non c'era tempo da
perdere, fecero suonare la chiamata alle armi. Prima di avere il tempo di riprendersi, la
guarnigione vide l'intero esercito ai piedi delle mura, mentre bande di "routiers" correvano per
le strade della città seminandovi il panico.
Sopraffatta in questo modo, e d'altronde poco numerosa, la guarnigione, sotto il comando di
Bernardo di Servian, difese le mura sulle quali i crociati avevano già appoggiato le loro scale. Il
combattimento intorno e sulle mura durò solo qualche ora. La città, per così dire, venne invasa
ancor prima di essere presa, poiché quando ancora i soldati si battevano sui bastioni il panico
regnava per le strade - nelle quali ormai dettavano legge i briganti - rendendo inutile la
resistenza dei soldati, sopraffatti da un nemico molto superiore per numero ed esaltato da quella
fortuna insperata, «miracolosa», che fu quest'attacco improvviso.
L'estrema brutalità dell'assalto trasformò in pochi minuti una città relativamente tranquilla in
una città perduta. «I sacerdoti e i chierici vanno a indossare i paramenti, fanno suonare le
campane come se andassero a cantare la messa dei morti, per seppellire i corpi dei trapassati;
ma non possono impedire che prima che la messa venga celebrata i mascalzoni entrino nelle
chiese... (5)»: per tutti, cattolici ed eretici, le chiese erano l'ultimo rifugio. Quanti avevano
avuto il tempo di lasciare le loro case, dove i briganti avevano fatto irruzione, correvano, lungo
le strade strette e ingombre, verso le chiese della città, verso la cattedrale di Saint-Nazaire,
verso la grande chiesa dedicata alla Maddalena o a quella di san Giuda, nella speranza di
trovarvi rifugio sino alla fine dell'assalto. I ribaldi «sono già entrati nelle case, prendono quel
che vogliono, la scelta è ampia e ognuno si impadronisce liberamente di quel che gli piace. I
ribaldi sono eccitati dal saccheggio, non hanno paura della morte; uccidono, sgozzano chiunque
incontrino... (6)».
Le grida di guerra dei cavalieri e della guarnigione che ancora resisteva, le grida dei feriti e
dei moribondi, le urla di trionfo dei ribaldi, le urla di orrore delle loro vittime, i rintocchi
funebri di tutte le campane della città, il rumore di ferraglia delle armi dovevano contribuire a
formare un fragore abbastanza spaventevole da scoraggiare sia i vincitori sia i vinti. Le porte
delle chiese vennero forzate, e tutti quanti vi si trovavano, presi in trappola, furono massacrati
indistintamente, donne, malati, bambini in fasce, preti con in mano il calice o il crocifisso...
Pietro di Vaux de Cernay afferma che nella sola chiesa della Maddalena vennero uccise
settemila persone: questa cifra è indubbiamente eccessiva - la chiesa non poteva contenere tanta
gente - ma poco importa. Qualunque sia stato il numero delle vittime, tutti i testimoni
sostengono che il massacro fu generale e che non si fece eccezione per nessuno; se ci fu
qualche raro scampato, dovette la vita alla fuga o a casualità del tutto indipendenti dal volere
dei vincitori.
In poche ore, la ricca città di Béziers non era altro che un ricettacolo di cadaveri sanguinanti
e sfigurati; le case, le strade, le chiese erano divenute ricovero di banditi che, camminando nel
sangue, si spartivano e si disputavano l'incalcolabile bottino che costituiva l'eredità di tanti
morti.
«Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi!». Attribuita ad Arnaldo Amalrico dal tedesco Cesare
di Heisterbach, questa frase anche troppo famosa più che la registrazione di parole storicamente
pronunciate è un commento a quanto avvenne: e potrebbe servire da motto per qualsiasi guerra
ideologica, vera o presunta. Che Arnaldo abbia realmente avuto le doti di spirito necessarie per
inventare questa frase o che non l'abbia mai pronunciata, la consegna dei crociati, in occasione
della presa di Béziers, sembra essere stata «Uccideteli tutti», con o senza la preoccupazione di
che cosa Dio avrebbe fatto delle anime delle vittime.
Guglielmo di Tudèle su questo punto è esplicito: «I baroni di Francia, chierici, laici, principi
e marchesi, hanno convenuto fra loro che in qualsiasi castello davanti al quale si fossero
presentati, e che non avesse voluto arrendersi prima di essere preso, gli abitanti fossero passati a
fil di spada e uccisi; nella convinzione che nessuno avrebbe resistito loro, a causa della paura
che avrebbe preso chi avesse visto quanto accadeva (7)». Se i «baroni di Francia» avevano
davvero preso una simile decisione, avevano fatto bene i loro calcoli.
Arnaldo Amalrico, nella sua lettera al papa, si rallegra di questa vittoria inattesa e
miracolosa, e annuncia trionfalmente che «senza riguardo per il sesso e l'età, quasi ventimila
persone vennero passate a fil di spada».
Sarebbe interessante sapere se le intenzioni dei crociati erano davvero quelle che Guglielmo
di Tudèle attribuiva loro e, in questo caso, se gli eventi non siano andati oltre il loro volere. In
genere, dopo un assedio, quando veniva il momento di passare «a fil di spada» gli abitanti, si
trattava della popolazione maschile; donne e bambini subivano la legge della guerra solo per
contraccolpo, nel furore della mischia ma raramente per decisione dei capi. Per spietato che
fosse, Arnaldo Amalrico non poteva dare l'ordine di massacrare dei sacerdoti. D'altra parte, i
"routiers" dei quali la "Chanson" dice, in modo pittoresco, che «non hanno paura della morte:
uccidono chiunque incontrino», erano stati i primi a entrare in città, e la loro passione per
l'assassinio è nota: furono loro i principali artefici del massacro e non avevano né modo né
voglia di andare a chiedere consiglio ai capi della crociata. A uomini simili non c'era bisogno di
dire «Uccideteli tutti» ed essi non si curavano affatto della distinzione fra cattolici ed eretici.
Gli storici favorevoli ai crociati saranno dunque tentati di rigettare la responsabilità del
massacro di Béziers su queste bande di predoni, su quei Baschi, quegli Aragonesi e quegli altri
professionisti del crimine, uomini senza Dio per definizione, che non avevano quindi nulla in
comune con i crociati propriamente detti. Ma, innanzitutto, perché l'«armata di Cristo» - per
usare l'espressione delle cronache - si serviva di questi diabolici ausiliari? Vedremo inoltre che
nella devastata città di Béziers, quando venne l'ora di spartirsi il bottino, i cavalieri si lanciarono
su questi stessi «mascalzoni», cacciandoli a colpi di bastone; i ribaldi non si erano impadroniti
della città da soli, non erano i soli a trovarcisi, erano molto meno armati e forse meno numerosi
dei crociati francesi che avevano forzato le fortificazioni e scalato le mura: fra questi coraggiosi
guerrieri nessuno voleva essere l'ultimo a penetrare nella città.
E' evidentemente più facile cacciare a colpi di bastone dei soldati ebbri e soddisfatti che
arrestare un massacro, ma i crociati avevano di meglio dei bastoni, e se i capi lo avessero
ordinato loro, nulla impediva di ricondurre la soldataglia alla ragione. E' anche difficile credere
che non abbiano partecipato essi stessi alla carneficina, poiché dinnanzi a una catastrofe di
questa ampiezza, si stenta a immaginare che dei soldati vittoriosi, per disciplinati che fossero,
siano restati a braccia conserte, senza farsi contagiare dalla follia dell'omicidio.
Non bisogna nemmeno dimenticare la presenza, entro l'«armata di Dio», dei pellegrini,
uomini del popolo eccitati da una propaganda violenta, pieni di un ingenuo, superstizioso orrore
per gli eretici; fratelli di quanti, nel secolo precedente, credettero di scorgere Gerusalemme in
ogni villaggio straniero, queste anime semplici potevano vedere in Béziers il rifugio del
Diavolo. E la cavalleria francese (secondo ogni verosimiglianza e secondo quel che riportano i
cronisti) per lo più si accontentò di lasciar fare ai "routiers" e alla plebaglia proprio perché
sapeva che in questo modo il lavoro sarebbe stato compiuto meglio e più in fretta. Se non fece
nulla per arrestare il massacro è perché lo volle totale.
«Dopo di che - dice la "Chanson", dopo quest'incredibile scatenarsi del piacere di uccidere,
poiché per uccidere "tutti" gli abitanti di una grande città anche i briganti, anche i fanatici più
spietati dovettero profondere un eccezionale impegno - dopo di che i mascalzoni si
sparpagliano per le case, che trovano piene e rigurgitanti di ricchezze. Ma poco ci manca che,
"vedendoli", i Francesi non soffochino dalla rabbia: cacciano i ribaldi a colpi di bastone, come
cani (8)». Non vi è nulla di più crudele dello stacco con il quale il cronista constata la durezza
dei soldati, che non si commuovono per il massacro e «soffocano dalla rabbia» quando vedono
che altri si stanno impadronendo del bottino. Questi crociati non perdono tempo a cantare dei
"Te Deum" come dopo il sacco di Gerusalemme, e tantomeno restano atterriti alla vista di
migliaia di cadaveri di vecchi, di ragazze, di neonati, di matrone, di adolescenti... La principale
preoccupazione è quella di salvare il bottino. L'esercito ne ha bisogno per continuare la guerra;
d'altra parte l'occasione di arricchirsi è preziosa e quel che non è permesso al ribaldo lo è al
cavaliere. I soldati di ventura vennero spogliati dei beni appena presi e nella loro comprensibile
indignazione appiccarono il fuoco alla città. La vista degli incendi provocò il panico generale; i
crociati abbandonarono la città e le sue ricchezze, buona parte di Béziers bruciò, seppellendo
sotto le sue rovine i cadaveri dei suoi abitanti: «...bruciò anche la cattedrale edificata da mastro
Gervasio, scoppiò per la violenza delle fiamme, si spaccò nel mezzo e cadde in due parti... (9)».
Come epilogo di questa terribile giornata, il cronista aggiunge: «I crociati sono rimasti tre
giorni sui prati verdeggianti; il quarto partono tutti, sergenti e cavalieri, con le insegne levate e
spiegate al vento, per l'aperta campagna, ove nulla li ferma (10)». Aggiunge che, senza i
miserabili mascalzoni che hanno appiccato il fuoco alla città, i crociati sarebbero stati tutti
ricchi per il resto dei loro giorni, grazie al bottino trovato a Béziers. Questa allusione alle
ricchezze guadagnate o perdute ritorna spesso nella "Chanson": il diritto al bottino era il
naturale privilegio del soldato, e il disinteresse non era una virtù del cavaliere.
Non è possibile sopravvalutare l'importanza delle cause e delle conseguenze del sacco di
Béziers. Non bisogna fermarsi ai numeri (più o meno grandi a seconda degli storici) e
catalogare questo episodio feroce fra le atrocità inevitabili che caratterizzano ogni guerra.
Quanto sappiamo sulla crudeltà delle abitudini di guerra di quel tempo - come del resto di ogni
tempo - potrebbe indurre a pensare, a priori, che una soldatesca scatenata poteva facilmente
abbandonarsi a imprese di quel genere. Ma i fatti dimostrano che le cose non stanno così:
massacri come quelli di Béziers sono estremamente rari, poiché è lecito credere che anche la
ferocia umana abbia i suoi limiti. Fra le peggiori atrocità della storia universale, massacri di
questo genere rappresentano delle eccezioni; ed è a una 'guerra santa', diretta dal capo di uno
dei più importanti ordini monastici della cristianità romana che spetta l'onore di una di queste
mostruose eccezioni alle regole della guerra. E' un fatto il cui significato non va in alcun modo
sminuito.
Pietro di Vaux de Cernay, apologista della crociata, trova perfettamente giusta questa
punizione collettiva inflitta a una città eretica, i cui abitanti oltretutto, quarantadue anni prima
(esattamente lo stesso giorno!) avevano ucciso il loro visconte. Egli si dimentica di aggiungere
che per questo erano stati puniti, l'anno successivo, con il massacro della popolazione maschile.
E si rallegra per questa miracolosa coincidenza, che mostrerebbe come quella punizione fosse
stata voluta da Dio; tanto più che in quel giorno fatale cadeva la festa di santa Maddalena, che i
cittadini di Béziers si erano permessi di insultare; e proprio nella chiesa dedicata alla
Maddalena erano state massacrate settemila persone (11)! Quest'uomo, che possedeva una così
singolare idea di Dio, non doveva essere il solo a ragionare in questo modo. Ma egli sembra
vedere nella disgrazia abbattutasi su Béziers non tanto l'opera dell'uomo quanto una sorta di
catastrofe cosmica; altrimenti non avrebbe accennato a un terremoto. Forse il vento di follia che
aveva soffiato sugli aggressori in quella calda giornata di luglio era dovuto proprio a
un'esaltazione collettiva, che andò al di là del volere personale dei capi più implacabili...
L'esercito giunto nella regione occitana era perfettamente fresco e non aveva nemmeno la
scusa dell'esasperazione per le sofferenze di un lungo assedio. La sua collera era - potremmo
dire - 'pura', e più della rabbia dei ribaldi sguinzagliati come cani, bisognerebbe considerare
responsabile del massacro l'odio verso gli eretici, che quel giorno dovette essere ben più di un
pretesto per l'ambizione e la sete di saccheggio.
Questa guerra, quindi, iniziò in un'atmosfera di odio feroce, di un odio tale da spingere a
considerare l'avversario non come un essere umano, ma come un animale nocivo da eliminarsi,
la cui unica utilità risieda nelle spoglie che lascia dopo la morte. Certo i crociati amaramente
rimpiansero le ricchezze bruciate nella città. Se non osarono riservare la stessa sorte a
Carcassonne, fu solo per timore di perdere il bottino. Un odio simile supera ogni
immaginazione, e si è tentati di spiegare la condotta dei crociati con l'insensibilità dei soldati,
con la crudeltà dei costumi del tempo, con l'ambizione militare dei capi; con il disprezzo dei
guerrieri verso la borghesia, con l'antipatia che i Francesi del Nord provavano verso quelli del
Sud... Tutto questo ebbe certo un suo peso, ma c'era soprattutto un entusiasmo religioso
sovreccitato, e il desiderio di strappare a Dio 'il gran perdono' con qualsiasi mezzo.
Con questa mazzata l'esercito crociato paralizzò la volontà di resistenza del paese; ma si
precluse anche ogni possibilità di conquistare il favore dei cattolici locali. Questa crociata, che
voleva imporsi con la paura, poteva trovare qualche complicità solo nella paura. Appena
lasciata Béziers, i crociati incontrarono a Capestang una delegazione di Narbonne, guidata
dall'arcivescovo Berengario e dal visconte Emerico. I cittadini di Narbonne promettevano piena
e totale sottomissione alla Chiesa e prendevano misure severe contro gli eretici.
Da Capestang a Carcassonne i crociati proseguirono la loro marcia trionfale: dopo appena sei
giorni già si trovavano sotto le mura di Carcassonne, mentre i signori della regione avevano
aperto loro le porte dei castelli, giurando sottomissione; altri avevano lasciato le loro dimore ed
erano fuggiti sui monti o nelle foreste, con le famiglie e i vassalli. In pochi giorni i crociati
avevano conquistato un centinaio di castelli senza colpo ferire.
3. CARCASSONNE.
Raimondo Ruggero Trencavel era deciso a difendersi. Carcassonne era una città meglio
fortificata di Béziers e aveva fama di essere imprendibile. Come la vediamo oggi, ricostruita da
Filippo il Bello e restaurata da Viollet le Duc, Carcassonne dà un'idea di quel che era agli inizi
del tredicesimo secolo. Dominando la valle dell'Aude, circondata da una solida cinta di mura
sulle quali si appoggiavano trenta torri, quest'impressionante fortezza non lasciava ai crociati la
speranza che potesse ripetersi il 'miracolo' di Béziers: la presenza del visconte, con le sue truppe
migliori, era per la città una garanzia di relativa sicurezza. Ma i borghi - il Bourg a nord, il
Castellar a sud - che fiancheggiavano la città propriamente detta, non erano adeguatamente
fortificati; inoltre gli abitanti dei dintorni, all'avvicinarsi dei crociati, avevano cercato rifugio in
città, portandosi dietro il bestiame; e un gran numero di vassalli del visconte avevano raggiunto
a Carcassonne il loro signore.
Anche contando i borghi, lo spazio occupato dalla città di Carcassonne ci appare oggi
stranamente esiguo: già in tempo di pace i cittadini si accontentavano di uno spazio vitale assai
ridotto, e se le sale del palazzo erano ampie, le case erano accatastate le une sulle altre, le stanze
erano piccole, e le famiglie numerose di condizioni economiche modeste o medie alloggiavano
in un solo locale. In tempo di guerra la città diventava un vero e proprio formicaio, e nell'agosto
1209 parecchie decine di migliaia di persone (più i cavalli e il bestiame) dovettero insediarsi su
circa novemila - o con i borghi quindicimila - metri quadrati.
I crociati arrivarono davanti a Carcassonne il primo di agosto, esaltati da un successo tanto
rapido quanto imprevisto. Il 3 agosto si lanciarono all'assalto del Bourg, al canto di "Veni
Sancte Spiritus"; questo borgo, il più debole dei due, non resistette all'attacco malgrado
l'eroismo del visconte, e sia quanti avevano tentato di difenderlo sia la sua popolazione civile
furono costretti ad abbandonarlo, ritirandosi all'interno della città. Il Castellar, meglio
fortificato, respinse l'assalto, e gli assalitori misero in azione le macchine da guerra. I minatori
riuscirono a scalzare e a far crollare un lato della muraglia del Castellar, di cui i crociati si
impadronirono l'8 agosto, ritirandosi però per la notte, cosicché il visconte poté riprenderlo e
massacrare la guarnigione lasciata sul posto.
Per la prima volta si svolgevano vere operazioni militari e i crociati si trovavano a
confrontarsi con un avversario forte. Il giovane visconte era un guerriero coraggioso, ed era
circondato dal meglio dei cavalieri del paese. Ma l'estate calda e secca ben presto produsse
l'abituale alleato degli eserciti assedianti: la sete. Se non mancava di viveri, la città cominciò a
essere sprovvista di acqua. La città e i fossati cominciarono a riempirsi di carogne, la cui rapida
decomposizione, nelle calde giornate d'agosto, spandeva su tutta la città un odore pestilenziale e
nugoli di nere mosche.
Raimondo Ruggero si vide quindi costretto a intraprendere un dialogo con il nemico.
Secondo Guglielmo di Tudèle fece appello alla mediazione del re d'Aragona, suo sovrano.
Pietro Secondo, in effetti, tentò di intercedere e, insieme a suo cognato, il conte di Tolosa, fece
visita all'abate di Cîteaux patrocinando la causa del giovane Trencavel che - disse - non era
responsabile dei crimini dei suoi sudditi. Arnaldo Amalrico, da tempo infastidito dall'eterno
equivoco che tendeva a far assolvere tutti i crimini dei 'sudditi' in nome della pretesa innocenza
dei capi, rispose con un ultimatum insultante: poiché il visconte era personalmente innocente,
gli si prometteva salva la vita e il permesso di uscire «tredicesimo» (ossia con dodici cavalieri a
sua scelta) dalla città, purché ne lasciasse tutti gli abitanti in balia dei vincitori. Pietro Secondo
rientrò nella città assediata e informò di questa proposta il visconte, il quale rispose che
piuttosto avrebbe preferito essere scorticato vivo. Il re d'Aragona si ritirò, irritato dal poco peso
che i crociati avevano dato al suo intervento, e l'assedio continuò: la situazione degli assediati
diventava sempre più difficile.
«... Il vescovo, i priori, i monaci, gli abati gridano: 'Perdonatevi! che aspettate?'. Il visconte e
i suoi salgono sulle mura e lanciano con le balestre frecce impennate: molti muoiono da ambo
le parti. Se non ci fosse stata l'affluenza di gente che si era rifugiata in città, in un anno non
sarebbero stati presi ed espugnati, poiché le torri erano alte, e le mura provviste di feritoie. Ma
[i crociati] hanno tagliato loro l'acqua, e i pozzi si sono seccati per il gran calore e per l'intensa
estate. Il fetore degli uomini ammalati e del numeroso bestiame, raccolto in tutto il paese,
scorticato nella città, le grida lanciate da ogni parte dalle donne e dai fanciulli... Le mosche, a
causa del calore, li hanno tormentati in un modo tale, che in vita loro non si erano mai trovati in
una situazione tanto angosciosa (12)».
A questo punto si colloca un evento molto controverso e rimasto inspiegato; eppure si tratta,
in un certo senso, dell'evento decisivo di questa prima crociata. Secondo Guglielmo di
Puylaurens «il visconte Ruggero, in preda al terrore, propose come condizione di pace che i
cittadini uscissero con addosso solo i calzoni e abbandonassero la città, mentre il visconte
sarebbe rimasto in ostaggio sinché non fossero adempiuti i patti». Guglielmo di Tudèle, invece,
sostiene che il visconte si sarebbe recato nel campo crociato su invito di «un ricco uomo
dell'armata» (il che non è ancora in contraddizione con la versione di Guglielmo di Puylaurens),
ma che una volta giunto dinnanzi al legato sarebbe stato trattenuto con la forza. Questo, per lo
meno, è quanto sembra emergere dalla narrazione un po' confusa e reticente di questo cronista.
Egli non parla di trattati, né di negoziati; insiste sul fatto che il «ricco uomo» (non nominato,
ma presentato come un parente del visconte) aveva dato ripetute garanzie della sua incolumità.
Il visconte (che aveva portato con sé cento cavalieri) sarebbe poi andato nella tenda del conte di
Nevers, ove si sarebbe svolto un consiglio. Poi di lui non si parla più, salvo per dire che «si era
dato in ostaggio spontaneamente; e fu davvero un comportamento da pazzo... (13)». Non si dice
chiaramente, ma si suggerisce in modo molto esplicito, che si trattò di un abuso di fiducia.
E' verosimile che il visconte, capo militare del paese, amato dai suoi sudditi e dotato,
malgrado la giovane età, di un'incontestabile autorità morale, abbia acconsentito a darsi
spontaneamente in ostaggio, decapitando così il movimento di resistenza agli invasori? La
mancanza di particolari su quest'episodio porterebbe a credere che la buona fede del conte
venne tradita, e che non ci furono né regolari trattative né un accordo approvato da ambo le
parti. E' probabile che il visconte avesse rifiutato le condizioni propostegli, e che non lo si sia
lasciato tornare nella sua città.
Fatto prigioniero il visconte, la città restò senza il suo capo e dovette capitolare.
Diversamente da quanto era accaduto a Béziers, gli abitanti poterono uscire sani e salvi. In che
modo? Attraverso una porta segreta e un cunicolo sotterraneo, approfittando della disattenzione
dei crociati, secondo la versione dell'Anonimo. Ciò sembra inverosimile: la cosa sarebbe stata
possibile a una guarnigione, non alla gran massa dei civili, delle donne, dei bambini e dei malati
rinchiusi nella città. Secondo Guglielmo di Tudèle, invece, «uscirono in fretta senza portare con
sé nulla, in camicia e brache, e con nient'altro addosso. Essi [i crociati] non lasciarono loro
nulla che valesse più di un bottone». La condizione di resa della città, quindi, dovette essere
verosimilmente la seguente: si garantiva salva la vita a tutti gli abitanti che avrebbero
abbandonato tutti i loro beni (il che spiega l'espressione «il valore di un bottone»). Tuttavia in
città c'era un gran numero di eretici dichiarati, ed è parso strano che i capi crociati, il cui fine
era lo sterminio degli eretici, non abbiano approfittato di una così facile occasione per catturare
quelli di Carcassonne.
Alcuni storici ne hanno concluso che Raimondo Ruggero aveva comprato la vita degli
abitanti della sua città al prezzo della sua personale libertà. E' più verosimile supporre che la
capitolazione sia stata decisa da quanti erano rimasti a difendere la città. I crociati non avevano
bisogno di estorcere al visconte il sacrificio della sua persona: ad ogni modo, il loro primo
obiettivo era di risparmiare la città, e la promessa di salvare la vita agli abitanti era il solo
mezzo per ottenerlo.
Partiti gli abitanti (sembra che questi abbiano evacuato la città prima dell'ingresso delle
truppe nemiche), i crociati vi si insediarono in buon ordine, preoccupati innanzitutto di evitare
l'irruzione della fanteria e dei ribaldi, che avrebbe rischiato di compromettere i vantaggi
economici dell'operazione. La presa di Carcassonne si concluse con un gran bottino, di cui
l'esercito crociato aveva veramente bisogno.
Innanzitutto si trovarono riserve di viveri abbondanti, dal momento che l'assedio non era
durato a lungo (quindici giorni). Si trovarono inoltre oggetti di valore, oro e argento sia in
monete sia in gioielli, abiti, tessuti, armi; inoltre cavalli e muli «di cui c'è grande abbondanza»
(ciò che indurrebbe a credere che la situazione degli assediati non fosse poi tanto disperata, e
che il visconte sia stato veramente tradito: la mancanza d'acqua doveva essere relativa se molti
cavalli e muli erano ancora vivi). Insomma, c'erano tante derrate alimentari utilizzabili o
commerciabili che l'esercito crociato non doveva più temere di trovarsi a corto di viveri; ed esso
si era impadronito di una piazzaforte importante, quasi intatta, dove stabilire il suo quartier
generale.
In quest'occasione i capi procedettero a una cernita sistematica del bottino, facendone
l'inventario e affidandolo in custodia a dei cavalieri in armi, incaricati di proteggerlo dall'avidità
dei soldati. Di diritto questi beni appartenevano all'opera di Dio e il saccheggio individuale era
proibito. Arnaldo Amalrico dichiarò: «Daremo questi beni a un ricco barone, che terrà il paese
in modo da piacere a Dio (14)». Molti di quanti si erano fatti crociati nella speranza di
arricchirsi dovettero restare delusi, e persino i cavalieri incaricati di proteggere il tesoro furono
in seguito accusati di aver sottratto cinquemila lire.
La presa di Carcassonne, comunque, rappresentò un incontestabile successo della crociata:
«Vedete - dice l'abate di Cîteaux - quali miracoli compie per voi il re del cielo, poiché nulla può
resistervi (15)».
Ma la grande fortuna dei crociati, forse, non fu tanto di aver conquistato la città intatta,
quanto di aver preso Raimondo Ruggero.
Abbiamo appena visto come questi fosse stato fatto prigioniero in circostanze quantomeno
inquietanti. Durante la capitolazione della città egli, che ne era stato il padrone, il responsabile e
il difensore, venne tenuto in disparte, come se non esistesse più. Fu trattato non come un uomo
che aveva deposto le armi, ma come una preda di guerra: fu rinchiuso in prigione e messo ai
ferri, e se si pensa che era il più importante signore della Linguadoca dopo il conte di Tolosa, si
può spiegare un trattamento simile solo con l'ipotesi che non si fosse consegnato
spontaneamente.
Se un atto di slealtà di questo genere non meraviglia da parte di un uomo come Arnaldo
Amalrico, uomo senza scrupoli, capace, in quanto ecclesiastico, di disprezzare i diritti di un
gran barone, è verosimile che i capi laici della crociata abbiano potuto riservare un trattamento
simile a un loro pari? In questo caso bisognerebbe credere in primo luogo che i baroni della
Francia del Nord non avessero la minima stima di quelli del Sud; in secondo luogo che la posta
in gioco fosse troppo alta e che, inoltratisi nella via del crimine, essi non potessero più far
marcia indietro, e dovessero passar sopra i loro scrupoli (se ne avevano); infine che, accecati
dal fanatismo, potessero dirsi che in quanto eretico Raimondo Ruggero aveva perso i diritti
dovuti al suo rango.
Il visconte di Béziers era davvero eretico? Guglielmo di Tudèle lo descrive così: «Per quanto
si estende il mondo, non c'è cavaliere migliore, più prode e più generoso, più cortese e più
amabile... Fu cattolico, secondo la testimonianza di molti chierici e canonici... Ma, nella sua
gioventù, era amico di tutti, e gli abitanti del suo paese, di cui era signore, non avevano né
sfiducia né timore di lui (16)». L'autore della "Chanson" non dimostra particolare simpatia per
il visconte, e riporta solo un'opinione universalmente diffusa: Raimondo Ruggero era
estremamente popolare. Ma il poeta scriveva in un'epoca nella quale non si poteva scrivere
liberamente, quindi non si deve prenderlo alla lettera quando si fa garante dell'ortodossia di un
personaggio di cui intende parlare bene. D'altronde, fra gli innumerevoli personaggi della
"Chanson de la Croisade" non si incontra un solo eretico. In realtà, Raimondo Ruggero
proveniva da una famiglia da tempo favorevole all'eresia. Suo padre, Ruggero Secondo, stimava
a tal punto i catari che aveva affidato a Bertrando di Saissac, eretico dichiarato, la tutela del
figlio; sua madre, Adelaide, sorella del conte di Tolosa, aveva difeso la località eretica di
Lavaur dai crociati di Enrico d'Albano; sua zia, Beatrice di Béziers, moglie del conte di Tolosa,
si era ritirata in un convento di 'perfette'. Educato in un ambiente in cui la Chiesa catara era
tenuta in grande considerazione, probabilmente Raimondo Ruggero era tanto eretico quanto
poteva esserlo un signore del suo rango: ossia era cattolico per costrizione e per tradizione, ma
interiormente cataro. Il fatto doveva essere abbastanza risaputo, e i catari avrebbero sempre
venerato il visconte come un martire della loro fede. Questo in parte spiega l'inammissibile
mancanza di riguardi che dovette subire da parte dei suoi pari, i baroni di Francia.
Impadronendosi del legittimo signore del paese che volevano conquistare, i crociati avevano
raggiunto uno degli obiettivi indicati dal programma papale: potevano dare a una terra infettata
dall'eresia un signore cattolico che si sarebbe incaricato di far trionfare con la forza la vera
religione. A Carcassonne, la città conquistata, legati, vescovi e baroni tennero consiglio per
scegliere colui che avrebbe governato su quella terra, non in virtù dell'omaggio feudale,
secondo una tradizione secolare, ma in virtù dell'autorità (rivoluzionaria, bisogna ben dirlo) del
capo spirituale della cristianità.
La situazione dei baroni consultati da Arnaldo Amalrico era tutt'altro che semplice: per
devoti che fossero al papa e alla causa della Chiesa (forse lo erano), essi ben sapevano che il
papa non era la sola autorità in materia di diritto civile, e nemmeno la più competente. Inoltre, il
visconte di Béziers non aveva mai fatto aperta professione di eresia. Qualsiasi fossero i motivi
che avevano spinto all'azione i grandi baroni come il duca di Borgogna, il conte di Nevers e il
conte di Saint-Pol, era per loro difficile appoggiare con la propria autorità un'iniziativa che
violava il diritto feudale a vantaggio della Chiesa.
Ciononostante il legato, a nome del papa, offrì in un primo tempo proprio a loro la sovranità
sulle terre sottratte al casato dei Trencavel. Secondo la "Chanson", i legati si sarebbero rivolti
dapprima a Odo di Borgogna, poi a Erveo, conte di Nevers, quindi al conte di Saint-Pol; non
potevano fare altrimenti senza mancare di rispetto a questi tre potenti personaggi. Uno dopo
l'altro, i tre baroni rifiutarono. Il cronista mette loro in bocca parole nobili: non si erano fatti
crociati per impadronirsi dei beni altrui, avevano già terre a sufficienza. «Non c'era nessuno -
dice Guglielmo di Tudèle - che non pensasse di perdere l'onore accettando quelle terre (17)».
In quest'interpretazione dell'atteggiamento dei baroni di Francia c'è del vero e del falso. Si è
detto che Odo Secondo, arrivato per ultimo all'incontro dei crociati a Lione essendosi attardato
a saccheggiare alcuni convogli di mercanti (che rientrarono in possesso dei loro beni solo grazie
all'intervento del re di Francia), non doveva disdegnare così tanto i beni altrui. Si dimentica
tuttavia che, per un feudatario, i beni di un mercante non erano 'altrui'; e chi si gloriava di
spogliare borghesi e monaci, poteva considerare sacre le proprietà di un nobile. Fosse pure
eretico, sconfitto e prigioniero, Raimondo Ruggero era ciononostante il signore legittimo delle
terre in questione.
Quindi i baroni potevano davvero temere «di perdere l'onore». Ma anche se la loro cupidigia
avesse prevalso su questo timore, non avevano grande interesse ad accettare l'offerta dei legati.
Le terre del visconte dipendevano, per vincolo di omaggio, dal re d'Aragona e dal conte di
Tolosa, a sua volta vassallo del re di Francia. Se non si preoccupavano di Raimondo Sesto,
sapevano che l'offerta fatta loro calpestava i diritti del re d'Aragona. D'altro canto, come fa dire
loro l'autore della "Chanson", essi «avevano già terre a sufficienza», quindi non potevano
permettersi di distaccare buona parte della loro cavalleria e delle loro truppe per controllare un
territorio nemico grande quanto il loro: e non volevano prendere il titolo senza i compiti che
comportava, per vedersi rovesciare le insegne e massacrare le guarnigioni. Malgrado
l'incredibile rapidità dei loro primi successi, quella che veniva offerta loro non era una terra già
conquistata, ma da conquistare.
Così, per prudenza o per onestà, i tre grandi baroni rifiutarono il titolo di visconte di Béziers
e di Carcassonne. Essi non avevano preso la croce per ambizioni politiche: nessuno di loro
provò mai a rivendicare un qualsiasi diritto sulle terre conquistate, nel 1209 o in seguito. La
scelta di Arnaldo Amalrico si rivolse dunque verso un candidato meno ricco di terre, quindi più
interessato alla buona occasione di acquistarne altre, e più pronto a obbedire agli ordini del
capo spirituale della crociata.
Una commissione composta da due vescovi e quattro cavalieri designò Simone di Montfort,
conte di Leicester in Inghilterra. Questo signore, vassallo diretto del re di Francia, aveva un
feudo importante fra Parigi e Dreux, che si estendeva fra la valle di Chevreuse e la valle della
Senna, e annoverava numerosi proprietari di castelli dell'Ile-de-France fra i suoi vassalli.
Rispetto al duca di Borgogna o al conte di Nevers era, beninteso, solo un signore modesto, ma
non era un uomo privo di possedimenti. Non era nemmeno uno sconosciuto. Originario di una
famiglia di antica e buona nobiltà, si era distinto nel 1194 nell'esercito di Filippo Augusto, poi
nel 1199 in occasione della quarta crociata: era stato fra quanti si erano rifiutati di mettersi al
soldo dei Veneziani, e si era acquistata un'ottima fama in Terra Santa, dove aveva combattuto
per un anno.
Sui cinquant'anni (forse quarantacinque), era un guerriero esperto, noto per la sua capacità di
giudicare le situazioni con sicurezza e per le sue qualità militari. Inoltre, durante l'assedio di
Carcassonne si era distinto (così dice Pietro di Vaux de Cernay) con un'azione eroica: durante
l'assalto al Castellar, mentre i crociati battevano in ritirata, da solo con uno scudiero si era
lanciato nel fossato, sotto una gragnuola di pietre e di frecce scagliate dalle mura, per trarre in
salvo un ferito (18). Un gesto simile, compiuto da un capitano già famoso e avanti negli anni,
bastava a provare ai legati che si trattava di un uomo dotato delle qualità di un capo.
Anche Simone di Montfort, inizialmente, rifiutò la proposta. Infine accettò, dopo aver fatto
giurare ai capi della crociata di sostenerlo in caso di bisogno. Precauzione saggia e necessaria:
Simone era cosciente che i baroni gli caricavano sulle spalle un fardello che giudicavano troppo
pesante per se stessi, e temeva che una volta che egli fosse stato debitamente riconosciuto come
nuovo capo, essi si sarebbero sottratti alle loro responsabilità. Rifiutando quel titolo che
nessuno sembrava volere, Simone di Montfort non fingeva: l'onore era dubbio e rischioso.
Alla fine, tentato forse dalla prospettiva di giocare un ruolo importante, Simone accettò di
votarsi alla causa della Chiesa e di divenire conte di Béziers e di Carcassonne. 'Eletto' visconte
dai capi di un esercito straniero vittorioso, malgrado l'approvazione dei legati e poi del papa,
egli era solo il rappresentante della ragione del più forte, e poteva sperare di resistere solo con
la violenza. Ma il formidabile esercito che aveva seminato il terrore nelle regioni invase era
solo di passaggio e presto avrebbe ripiegato le tende. I legati vedevano avvicinarsi la fine dei
quaranta giorni, passati i quali nessun obbligo tratteneva più i volontari, che sarebbero tornati
liberi di andare a casa quando volevano. Per terrorizzato che fosse, il nemico sapeva bene che
quei baroni, quei cavalieri, quei pellegrini-guerrieri, non avevano la minima intenzione di
passare la loro vita nella Linguadoca, e che l'esercito crociato si sarebbe ben presto ridotto a
guarnigioni insignificanti.
Simone di Montfort, quindi, si affrettò a consolidare la sua posizione. Cominciò distribuendo
larghi doni a quegli abitanti della regione sui quali credeva di poter contare: le confraternite
religiose, e in particolare i monaci cistercensi. Poi impose una tassa di tre denari per famiglia, di
cui fece omaggio al papa. Quindi avanzò da trionfatore nei suoi nuovi domini: dopo la caduta di
Béziers e di Carcassonne, città e castelli aprirono le loro porte festeggiando i vincitori.
Fanjeaux, Limoux, Alzonne, Montréal, Lombers vennero occupate, e i crociati vi lasciarono
delle guarnigioni. Castres consegnò i suoi eretici. Forte del suo nuovo titolo, Simone di
Montfort si premurò di ricevere l'omaggio dei castellani, dei visconti, dei consoli; tutta la
regione compresa fra Béziers, Limoux e Castres gli era ufficialmente sottomessa, ed egli non
aveva il tempo di ricevere gli innumerevoli giuramenti di fedeltà; avrebbe avuto bisogno delle
ali per spostarsi più rapidamente da un castello all'altro. Era un trionfo precario ma al quale, da
uomo feudale, attribuiva un'importanza notevole: egli voleva assicurarsi, pur con tutti i limiti
del caso, la fedeltà dei suoi nuovi sudditi.
Nel frattempo l'esercito si stava disperdendo. Terminati i quaranta giorni, il conte di Tolosa si
ritirò, dopo aver garantito appoggio a Simone, proponendogli addirittura il figlio come marito
di una delle sue figlie. Il conte di Nevers, che aveva con il duca di Borgogna rapporti tanto tesi
che «si temeva ogni giorno che si ammazzassero l'un l'altro (19)», era furioso di trovarsi agli
ordini di Simone, che aveva preso la croce sotto le insegne del duca di Borgogna. Passati i suoi
quaranta giorni, Erveo Quarto di Nevers lasciò la crociata.
Il duca di Borgogna restò ancora per un po', ma si ritirò presto anche lui, scoraggiato dallo
scacco dell'assedio di Cabaret. I signori grandi e piccoli, le milizie guidate dai vescovi, i
pellegrini, i "routiers" lasciarono il paese, da soli o in gruppi, in un riflusso rapido e ininterrotto;
senza più entusiasmo, ma avendo guadagnato, bene o male, le indulgenze. Un esercito che in
qualche mese avrebbe potuto sconfiggere la resistenza di un paese impreparato alla guerra svanì
nel nulla, senza nemmeno proporsi di approfittare di un successo da tutti riconosciuto come
'miracoloso'. «... Le montagne sono selvagge, i passi stretti, e non vogliono restare ammazzati
in quel paese (20)». Forse la maggioranza dei crociati si era semplicemente resa conto che gli
eretici non si distinguevano dai cattolici per il colore della pelle, e che questa guerra santa non
era più esaltante di qualsiasi altra guerra; e quaranta giorni bastavano per guadagnare il perdono
promesso.
Nel settembre 1209 Simone di Montfort aveva con sé appena ventisei cavalieri. Era poco
per controllare un paese preso solo grazie al terrore ispirato da un'armata considerata
invincibile, un paese che in buona parte restava ancora da conquistare. Si sarebbe quasi tentati
di assolvere Simone dai crimini commessi in seguito, tanto la situazione in cui si trovava - non
certo per sua colpa - ci appare disperata. Solo una paura smisurata, incontrollabile, più forte
della ragione e dell'istinto di conservazione, la paura ispirata alle popolazioni del Mezzogiorno
di Francia dalle gesta dei crociati, può spiegare il fatto che, con un pugno di uomini e con
rinforzi intermittenti e mai sicuri, Simone di Montfort abbia potuto resistere e anche vincere in
un paese che gli era ferocemente ostile. E sul quale era destinato a regnare solo con il terrore.
NOTE.
(1) Op. cit., cap. 9, 193-202.
(2) "Chanson de la Croisade", cap. 17, 395-400.
(3) Op. cit., cap. 18, 430-440.
(4) Op. cit., cap. 19, 450-455.
(5) Op. cit., cap. 20, 467-471.
(6) Op. cit., ivi, 471-476.
(7) Op. cit., cap. 21, 481-489.
(8 Ivi, 500-505.
(9) Op. cit., cap. 22, 523-526.
(10) Op. cit., cap. 23, 532-536.
(11) Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., cap. 16.
(12) "Chanson de la Croisade", cap. 30, 685-702.
(13) Op. cit., cap. 32, 742-743.
(14) Op. cit., cap. 33, 774-776.
(15) Ivi, 769-770.
(16) Op. cit., cap. 15, 343-352.
(17) Op. cit., cap. 34, 796.
(18) Pietro di Vaux de Cernay, cap. 17.
(19) Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., cap. 21.
(20) "Chanson de la Croisade", cap. 36, 826-828.
Capitolo quinto

SIMONE DI MONFORT.
1. UN CAPO MILITARE.
In due mesi di campagna i crociati avevano riportato un successo tale che essi stessi lo
trovavano inesplicabile senza fare appello all'intervento divino. Ma l'obiettivo vero della
spedizione - la distruzione dell'eresia - non era stato raggiunto; peggio ancora, a parte il famoso
«ammazzateli tutti», apparentemente non si era ancora trovato alcun mezzo concreto per
raggiungerlo. Eccettuato qualche caso isolato di eretici consegnati dai loro concittadini a
Narbonne e a Castres, i crociati non avevano ancora veramente affrontato il nemico che
volevano combattere.
Il terrore che ispiravano innalzò fra loro e la popolazione della regione invasa un muro
impenetrabile: i ministri catari più noti si rifugiarono in nascondigli sicuri, i 'perfetti'
cambiarono le loro vesti nere con gli abiti dei borghesi e degli artigiani, i signori locali
proclamarono la loro fedeltà alla religione cattolica e si ritirarono in montagna, e l'eresia
divenne ancor più difficile a combattersi di quanto lo fosse l'anno precedente. Per non aver
distinto fra cattolici ed eretici a Béziers, i crociati si videro obbligati a trattare l'intero paese
come eretico.
Costretta a rinunciare a ogni speranza di vincere con la persuasione, la Chiesa, quanto al
braccio armato, disponeva solo di un capo militare in possesso di un titolo usurpato e
circondato da un pugno di soldati. A quale numero di effettivi combattenti poteva corrispondere
la «trentina» di cavalieri di cui parla Pietro di Vaux de Cernay? Forse parecchie centinaia di
uomini; non molti di più. Simone disponeva di alcuni mercenari, pochi però, poiché per lui non
era facile trovare di che pagarli. Le città conquistate, i cavalieri sottomessi gli fornivano
contingenti di uomini motivati solo dalla paura o dall'interesse, mai troppo sicuri. Di fatto egli
poteva contare solo sul suo piccolo gruppo di Francesi.
Era - i fatti lo avrebbero dimostrato - un gruppo fidato, votato anima e corpo al suo capo,
formato da guerrieri di grande valore. Alcuni erano parenti o vicini di Simone, come Guido di
Lévis, Boccardo di Marly, i tre fratelli Amalrico, Guglielmo e Roberto di Poissy; altri erano
Normanni, e in quanto tali costituivano un gruppo omogeneo - Pietro di Cissey, Ruggero di
Essarts, Ruggero d'Andelys, Simone il Sassone; altri ancora venivano dalla Champagne - Alano
di Roucy, Raul d'Acy, Gilberto d'Essigny; infine, c'erano altri cavalieri provenienti dalle
province della Francia settentrionale o dall'Inghilterra, come Roberto di Piquingny, Guglielmo
di Contres, Lamberto di Croissy, Ugo di Lacy, Gualtieri Langton. In seguito, Simone di
Montfort avrebbe potuto contare anche su di un altro prezioso ausiliario, il fratello Guido, che
avrebbe lasciato la Terra Santa per raggiungerlo. La maggior parte di questi baroni si sarebbero
messi in mostra durante le campagne della crociata al fianco del loro capo, molti vi avrebbero
trovato la morte. E a loro, come a Simone di Montfort, che sarebbe spettata la difesa degli
interessi della Chiesa in Linguadoca; essi sarebbero stati dei collaboratori attivi ed esperti più
che dei subordinati e, come le cronache mostrano ripetutamente, Simone non avrebbe preso
alcuna decisione senza tenere un consiglio e consultare i baroni. Per unità e volontaria
disciplina questo gruppo rappresentava una forza temibile malgrado la sua esiguità numerica;
nella fortuna e nella sfortuna questi uomini avrebbero formato un blocco compatto, mostrando
un coraggio capace di qualsiasi prova.
In effetti essi avevano un gran bisogno di coraggio. Innanzitutto avevano contro tutto il
paese, che dovevano sottomettere direttamente e di cui, in teoria, Simone era il visconte: nel
Razès e nella regione di Albi numerose piazzeforti resistevano e sembravano imprendibili. A
sud, nei monti dell'Ariège, il conte di Foix, Raimondo Ruggero, valente capitano e grande
protettore di eretici, disponeva ancora di tutte le sue forze intatte. A ovest si estendevano i
domini del conte di Tolosa, ex crociato, secondo la legge inattaccabile, ma alleato infido, pronto
a trasformarsi in nemico alla prima occasione. I soli veri alleati di Simone, i legati, non
rappresentavano una potenza militare: il clero locale, incoraggiato dal successo della crociata
stava rialzando la testa, ma poteva dare una mano al nuovo visconte solo garantendogli un aiuto
finanziario; e i prelati tendevano a vedere in lui innanzitutto il difensore dei loro interessi e dei
loro benefici. Il re d'Aragona non vedeva di buon occhio questo nuovo vassallo, e malgrado
l'insistenza di quest'ultimo per molto tempo avrebbe evitato di riceverne l'omaggio.
E' vero che Simone di Montfort era appoggiato da una parte della nobiltà del paese, che gli
aveva giurato fedeltà, e, soprattutto, aveva dalla sua la minaccia sempre incombente di nuove
crociate; nondimeno la sua situazione era incerta e precaria e le sue forze risibilmente
insufficienti di fronte al compito da realizzare. Tuttavia gli odi che ispirò bastano a provare il
ruolo di primo piano che dovette svolgere nella conquista del paese; per anni e anni la causa
della Chiesa in Linguadoca si identificò con la persona e l'opera di Simone di Montfort.
Chi era quest'uomo cui il papato, tramite i legati, aveva affidato la difesa della Chiesa nel
Mezzogiorno della Francia? I giudizi degli storici contemporanei sul suo conto variano a
seconda delle loro convinzioni personali: l'eroe senza paura e senza macchia di Pietro di Vaux
de Cernay diventa un tiranno feroce e sanguinario per il continuatore di Guglielmo di Tudèle,
mentre quest'ultimo descrive Simone come «un ricco barone, prode e coraggioso, ardito e
bellicoso, saggio ed esperto, buon cavaliere e generoso, valoroso e gentile, dolce e franco... (1)»
e Guglielmo di Puylaurens ne loda la condotta durante i primi anni della guerra, per accusarlo
poi di rapacità e di ambizione. Tutti sono unanimi nel riconoscere il suo coraggio e
specialmente l'immenso prestigio - fatto di timore e di ammirazione al contempo - di cui godeva
anche presso i nemici. Era un uomo che valeva da solo un esercito, che sarebbe entrato da vivo
nella leggenda - Giuda Maccabeo o flagello di Dio. Con forze insignificanti era riuscito a
diventare forte come quei tiranni il cui solo nome faceva piegare il capo: non era un merito da
poco per un condottiero militare.
I contemporanei ce lo descrivono come un cavaliere magnifico, imponente, dotato di una
forza erculea, «meravigliosamente abile nell'esercizio delle armi»; il suo panegirista, Pietro di
Vaux de Cernay, esalta in un modo un po' convenzionale l'eleganza e la bellezza del suo
portamento, così come la sua amabilità, la sua dolcezza, la sua modestia, la sua castità, la sua
prudenza, il suo ardore e la sua intraprendenza... «infaticabile, e votato totalmente al servizio di
Dio (2)».
Quello che colpisce di più, leggendo la storia delle campagne da lui condotte per una decina
d'anni, è la sua capacità di trovarsi contemporaneamente ovunque, l'estrema rapidità delle sue
decisioni, l'audacia calcolata dei suoi attacchi. Questo soldato pagava di persona quasi al di là
dei limiti del ragionevole, come si è visto durante l'assedio di Carcassonne e come vedremo più
avanti, in occasione del passaggio della Garonna nei pressi di Muret, quando riattraversò il
fiume in piena per non abbandonare un gruppo di uomini della sua fanteria, restando con loro
per parecchi giorni e riunendosi al grosso dell'esercito solo quando anche l'ultimo di quei fanti
ebbe guadagnato l'altra sponda. Molti altri passi, sia dell'"Hystoria" (3) sia della "Chanson",
mostrano il capo della crociata come un uomo animato da una vera e propria passione per la
guerra e molto affezionato ai suoi soldati.
Gli storici parlano dei suoi costumi austeri, della sua grande religiosità. Religiosità
interessata, se vogliamo, poiché egli doveva tutto alla Chiesa e solo dalla Chiesa si aspettava di
ricevere aiuto. Religiosità sincera, poiché un simile guerriero era abbastanza temuto da non
dover simulare una religiosità fittizia. In piena buona fede si considerava un soldato di Cristo; e
lo credeva al punto che, di fronte a dei rovesci, accusava Dio di ingratitudine o di negligenza. Il
racconto di Pietro di Vaux de Cernay dell'ultima messa sentita dal suo eroe sembra tratto da
qualche pio racconto cavalleresco; se è veridico, è abbastanza commovente. I messaggeri fanno
fretta al conte (Simone di Montfort) perché corra all'assalto. Lui non si muove e dice:
«Permettete che io assista ai divini misteri e che prima partecipi al sacramento, pegno della
nostra redenzione». E quando un altro messaggero di nuovo lo invita ad affrettarsi, dicendo
«Presto, il combattimento si fa più acceso, e i nostri non possono reggere a lungo lo sforzo», il
conte risponde: «Non uscirò prima di aver contemplato il Redentore». Poi, davanti al calice
levato, tende le braccia e recita il "Nunc dimittis", aggiungendo: «Andiamo, se è necessario
morremo per colui che si è degnato di morire per noi (4)». Questa scena, forse, è stata
totalmente inventata da un narratore che sapeva come, effettivamente, Simone sarebbe morto
qualche istante dopo; essa non ha nulla di inverosimile - per un soldato i momenti che
precedono qualsiasi battaglia sono una preparazione alla morte. Si potrà dire che la pietà di un
uomo come Simone di Montfort può sembrare un oltraggio alla religione; ma è difficile negare
l'intensità di una simile pietà.
Detto questo, bisogna riconoscere che i soldati di Cristo difficilmente avrebbero potuto
scegliersi un capo meno degno del nome di cristiano.
Nel 1210, dopo la presa di Bram, che gli aveva resistito per tre giorni, Simone di Montfort,
catturata la guarnigione - oltre cento uomini in tutto - fece strappare loro gli occhi, tagliare il
naso e il labbro superiore. A uno solo venne lasciato un occhio: Simone lo incaricò di guidare i
suoi compagni, ciechi, a Cabaret, per seminare il panico fra quanti difendevano questo castello.
Si è detto che lo stesso trattamento era stato inflitto a due cavalieri francesi, e che un
invasore straniero, sempre numericamente inferiore, è costretto a rappresaglie feroci per farsi
rispettare. Simone di Montfort non ha inventato le leggi della guerra, e le mutilazioni dei
prigionieri erano un mezzo sicuro per spaventare gli avversari. I morti non si muovono e
vengono dimenticati presto; la vista di un uomo con gli occhi strappati e il naso tagliato può
provocare un'agghiacciante paura anche nei più coraggiosi. Ai prigionieri si tagliavano anche le
mani, i piedi, le orecchie... Trattamenti simili, in genere, venivano inflitti a mercenari, che
nessuno si preoccupava di vendicare, ma che servivano ugualmente da spauracchio. In una
guerra come questa, una delle più feroci del medioevo, ci furono da ambo le parti cavalieri
scorticati vivi, fatti a pezzi, mutilati; la fede, il patriottismo o la vendetta legittimavano qualsiasi
crudeltà. Dopo la presa di Béziers pare che un clima di totale disprezzo del nemico si sia
stabilito fra i due schieramenti contrapposti. Questa guerra guidata dai cavalieri non era una
guerra cavalleresca, ma una lotta mortale.
Simone di Montfort, che non aveva responsabilità nel massacro di Béziers, venne lasciato
solo in un paese che conservava troppo bene il ricordo delle recenti imprese dell'armata
crociata; egli seppe rendersi degno di quest'eredità di odio e di paura che gli fu consegnata
insieme al titolo di visconte. Ciononostante, tenuto conto delle sue indiscutibili capacità di
comandante e dell'ammirazione che il suo coraggio suscitava anche fra i suoi peggiori nemici,
forse avrebbe potuto trovare il modo di farsi odiare un po' meno. La cavalleria occitana non
differiva sostanzialmente da quelle degli altri paesi. Per popolare che fosse, Raimondo Ruggero
Trencavel aveva un discreto numero di vassalli scontenti: i piccoli feudatari erano spesso e
facilmente insoddisfatti. Quelli che nell'agosto del 1209 avevano prestato giuramento a Simone
avrebbero potuto diventare suoi alleati fedeli se il nuovo signore avesse mostrato più tatto. Nei
primi anni di guerra la brutalità di Simone ha indubbiamente fatto più patrioti di quanti non ne
abbiano fatti il coraggio e la sventura del giovane visconte Raimondo Ruggero.
Simone di Montfort non poteva ovviamente essere «generoso»: non aveva soldi. Ma almeno
avrebbe potuto essere cortese e pare che con i suoi nuovi vassalli - indubbiamente non facili -
abbia mancato di pazienza. Così, dopo la defezione di Guglielmo Cat, cavaliere di Montréal, lo
si sentì gridare: «Non voglio più aver a che fare con gli uomini di questa maledetta razza
provenzale! (5)». E' vero che allora si trovava nel paese ormai da anni e ne aveva abbastanza
degli incessanti 'tradimenti' e defezioni di coloro che considerava suoi vassalli. Ma, fin dal
principio, aveva preteso di porsi come legittimo e indiscutibile padrone di una terra sulla quale
non aveva alcun diritto; aveva distribuito largamente ai suoi cavalieri, alle abbazie, agli ordini
monastici i beni dei signori "faidits", ossia di quanti avevano preferito fuggire abbandonando i
loro castelli piuttosto che patteggiare con l'invasore. Anziché mostrare un particolare riguardo
per i signori occitani che si erano alleati con lui - ed erano molti - li aveva trattati (la sua
invettiva contro la maledetta razza provenzale ne fa fede) da inferiori, ferendone continuamente
la suscettibilità.
Quando volle fare il legislatore, tentò, con lo statuto di Pamiers, di impiantare in Linguadoca
le leggi e le usanze francesi, senza pensare quanto una decisione simile fosse vessatoria per un
popolo appassionatamente attaccato alle sue tradizioni, incline a vedere un sopruso intollerabile
nella minima infrazione ai suoi costumi. Si può fare la guerra senza trattare gli avversari come
un popolo colonizzato.
Ma più che con le sue scelte inopportune, con la sua ristrettezza di spirito, tipica del
professionista della guerra, e con la sua ambizione, che lo avrebbe condotto a prendere la
crociata per una guerra di conquista da cui trarre solo vantaggi, è con la sua crudeltà che
Simone di Montfort compromise per sempre la causa della crociata - per quanto potesse essere
ulteriormente compromessa. Crudeltà obbligata, necessaria, calcolata. Crudeltà che nondimeno
ha sorpreso i contemporanei e scandalizzato persino un fanatico ammiratore come Pietro di
Vaux de Cernay che, parlando dei cento prigionieri di Bram, si sente in dovere di scusare il
«nobile conte» affermando che qui egli non agiva per piacere, ma per necessità: i suoi nemici
«dovevano bere il calice che avevano preparato agli altri (6)». Se il principio era lo stesso, è
chiaro che c'era una terribile differenza fra il mutilare due uomini e il mutilarne cento. Per agire
in questo modo, l'uomo doveva essere naturalmente, profondamente crudele.
A Biron, Martino d'Algais, che aveva tradito Simone due volte, venne messo alla berlina,
coperto con un drappo nero, insultato, solennemente spogliato del titolo di cavaliere; poi fu
attaccato alla coda di un cavallo e trascinato di fronte all'esercito schierato; infine, quel che
restava di lui fu impiccato a una forca. E' vero che Martino d'Algais era capo di una banda di
"routiers" della Navarra, quindi era un personaggio che, nella gerarchia militare, meritava meno
riguardi di un cavaliere locale. Tuttavia, i dettagli del supplizio inflittogli danno ugualmente
un'idea sinistra dell'uomo che si era dilettato a organizzare questa macabra cerimonia.
Nelle guerre condotte in seguito in difesa della sua fede, Simone avrebbe presieduto a tre
grandi esecuzioni di 'perfetti'; a Minerve avrebbe addirittura visitato in carcere i condannati, per
invitarli alla conversione. Se con le sue vittorie rese possibili i roghi, la responsabilità di aver
bruciato gli eretici spetta ai legati. Il capo dei crociati dovette tuttavia condividere «la gioia
intensa» che, secondo la testimonianza di Pietro di Vaux de Cernay, i soldati di Cristo
provavano dinnanzi a quel terribile spettacolo.
Saccheggi, massacri, incendi, distruzioni sistematiche dei raccolti, delle vigne, del bestiame:
questa tattica di guerra, vecchia quanto il mondo, venne applicata da Simone di Montfort su
vasta scala in un paese che, in teoria, egli considerava suo dominio. Sembra sia riuscito a
restare così a lungo in Linguadoca solo per causare danni maggiori, per distruggere fino in
fondo la vita economica del paese. Tutto sommato, il crimine principale di Simone di Montfort
fu forse di essere stato un soldato troppo abile, e di non essere stato altro che questo: in quanto
comandante militare ha fatto tutto quanto ci si poteva attendere da lui, andando ben al di là
delle speranze dei suoi capi spirituali e rendendo concretamente possibile la distruzione
dell'eresia tramite l'indebolimento delle forze fisiche e morali del paese.
Non è possibile, nel quadro della presente opera, raccontare nei dettagli la storia delle
campagne di Simone di Montfort; bisogna accontentarsi di seguirne le tappe principali, in
parallelo all'attività dei suoi alleati e dei suoi avversari. Mentre, con un'energia degna di
migliore impiego, svolgeva il suo compito di soldato e di conquistatore, il papa cercava di
controllare gli eventi e lanciava nuovi appelli alla crociata; i legati manovravano per trovare il
modo di estendere il loro dominio sull'intero paese; il conte di Tolosa e i grandi baroni del
Mezzogiorno preparavano un piano di difesa.
Come abbiamo visto, i primi mesi della crociata, pur portando alla Chiesa un successo
insperato, le avevano dato coscienza della difficoltà dell'impresa. Il risultato concreto più
apprezzabile della campagna era la eliminazione di Raimondo Ruggero Trencavel e l'elezione
di un barone cattolico al titolo di visconte di Béziers. Ma il legittimo possessore di quelle terre
era ancora in vita; non bisognava lasciarvelo a lungo. Il 10 novembre 1209, dopo tre mesi di
prigionia, Raimondo Ruggero morì di dissenteria. Che sia stato avvelenato o che sia perito per
il rigore del carcere e la mancanza di cure, non si può in alcun modo ritenere che la sua morte
sia stata naturale: i suoi carcerieri avevano fatto il possibile per accorciargli la vita, ed erano
riusciti a raggiungere lo scopo in un tempo singolarmente breve. Il visconte era un uomo di
ventiquattro anni, che prima di essere gettato in prigione si trovava nel pieno delle forze e
dell'energia.
Egli lasciava un figlio di due anni; dieci giorni dopo la morte del marito, la vedova, Agnese
di Montpellier, concluse con Simone di Montfort un accordo in base al quale ella rinunciava ai
suoi diritti e a quelli di suo figlio in cambio di venticinquemila soldi di Melgueil e di una
rendita annuale di tremila lire. La viscontea di Béziers, da quel momento, aveva come unico
signore legittimo il Montfort. Ma il re Pietro Secondo d'Aragona non confermò il nuovo
vassallo nei suoi diritti e parve poco ansioso di ricevere da lui l'omaggio feudale. Numerosi
vassalli di Raimondo Ruggero, costernati dalla notizia della sua morte, si rivoltarono, e diedero
l'assalto ai castelli nei quali Simone aveva lasciato solo piccole guarnigioni. Uno dei signori che
si erano alleati con l'invasore, Guiraud di Pépieux, per vendicare la morte di un suo zio, ucciso
da un cavaliere francese, conquistò grazie a un'azione a sorpresa il castello di Puisserguier, dove
Simone aveva lasciato due cavalieri e cinquanta uomini; e quando quest'ultimo marciò verso il
castello insieme al visconte di Narbonne e alla sua milizia di cittadini, questi si rifiutarono di
attaccare e se ne andarono. A Castres la cittadinanza si rivoltò, sopraffacendo la guarnigione. In
pochi mesi Simone perse oltre quaranta castelli, i suoi uomini erano scoraggiati, le sue casse
vuote. Il conte di Foix, che in un primo tempo aveva tenuto un atteggiamento neutrale, riprese
ai crociati il castello di Preixan e tentò di conquistare Fanjeaux.
Nel frattempo il papa confermò solennemente Simone in tutti i suoi possedimenti e gli fece
dono dei beni sottratti agli eretici.
Per Simone di Montfort il compito era chiaro: si trattava di sottomettere le piazzeforti che
dominavano le strade principali, ottenere l'omaggio dei grandi vassalli della sua viscontea,
impedire al nemico di riorganizzare le sue forze. Agli inizi del 1210 ricevette dei rinforzi: in
marzo sua moglie Alice di Montmorency gli portò alcune centinaia di soldati, che gli resero
possibile riconquistare alcuni castelli, impiccare dei 'traditori', punire in modo ancor più crudele
la guarnigione di Bram e marciare su Minerve, una delle più grandi fortezze del paese, nonché
capitale della regione circostante. Abile nello sfruttare la vecchia ostilità fra il visconte di
Minerve, Guglielmo, e gli abitanti della regione di Narbonne, si assicurò l'alleanza di questi
ultimi. Giunto davanti a Minerve in piena estate (nel giugno del 1210), riuscì a piegare i
difensori con la fame e la sete, quindi trattò la capitolazione con Guglielmo. In questa fase -
dettaglio significativo - i legati Teodosio e Arnaldo Amalrico intervennero nel mezzo del
negoziato, rimproverandogli di mostrarsi troppo conciliante. Indubbiamente, con il buon senso
del soldato, Simone pensava che, prima di intraprendere una sistematica repressione dell'eresia,
bisognava essere solidamente impiantati nel paese; in ogni caso, durante la campagna contro
Minerve, egli sembra aver frenato lo zelo dei legati. Ora, un gran numero di 'perfetti' e 'perfette'
si erano rifugiati entro Minerve; Arnaldo Amalrico lo sapeva, e temeva che una mossa sbagliata
di Simone privasse la Chiesa di una preda così interessante. Durante le trattative l'abate di
Cîteaux, imbarazzato di mostrarsi più severo del suo spietato compagno - perché «se desiderava
la morte dei nemici di Cristo, non osava condannarli a morte, essendo monaco e sacerdote» -
ricorse a uno stratagemma che fece rompere la tregua. Minerve si arrese, e gli occupanti ebbero
salva la vita in cambio della sottomissione alla Chiesa; gli eretici, beninteso, dovevano scegliere
fra l'abiura e la morte.
In proposito Pietro di Vaux de Cernay riporta l'opinione di uno dei migliori capitani di
Simone, Roberto di Mauvoisin: questo buon cavaliere trovava inammissibile che una scelta
simile venisse consentita ai 'perfetti', che avrebbero potuto scampare la morte simulando una
abiura; aveva preso la croce per «perdere» gli eretici, non per graziarli. L'abate di Cîteaux lo
rassicurò: «Non temete, credo che ben pochi si convertiranno (7)». L'abate di Vaux de Cernay,
zio dello storico, e Simone di Montfort in persona tentarono però di convertire i condannati.
Non avendo ottenuto nulla, «furono fatti uscire dal castello e, preparato un gran fuoco, vi
furono gettati insieme centoquaranta e più di questi eretici 'perfetti'. Non fu necessario che i
nostri li spingessero perché, ostinati nella loro malvagità, tutti si precipitarono con gioia nel
cuore delle fiamme. Tuttavia vennero risparmiate tre donne che, sottratte al rogo dalla
nobildonna madre di Boccardo di Marly, vennero riconciliate con la santa Chiesa romana (8)».
Minerve vide quindi il primo grande rogo di eretici. Ciononostante, in questa grande guerra
condotta contro l'eresia, gli eretici in quanto tali non sembrano aver avuto alcun ruolo; si viene
a sapere solo che in un tale o talaltro castello molti di loro avevano trovato rifugio; in caso fosse
preso, essi venivano mandati al rogo. Evidentemente si trattava solo dei 'perfetti', ossia degli
uomini e delle donne che già avevano solennemente abiurato la fede cattolica, e che ispiravano
ai crociati una sorta di orrore sacro; queste esecuzioni di massa, volute e approvate dalla
Chiesa, erano comunque atti di giustizia sommaria, senza procedimento e senza giudizio,
imputabili alla presenza di un esercito vittorioso e fanatico.
Ci è difficile immaginare la forza delle credenze e delle superstizioni di questa gente, e fino
a che punto considerassero reale lo spirito del male che pensavano abitasse nei nemici della
Chiesa. Quanti si erano dati corpo e anima alla fede eretica non erano più esseri umani, bensì
creature infernali; e questo spiega le volgari leggende sulle orge e gli abomini ai quali i catari si
sarebbero abbandonati. La fantasia popolare, andando più in là della Chiesa, deturpava e
sfigurava a piacere l'immagine di questi reietti, sapendo spiegare il loro errore solo con una
qualche sovrumana forma di depravazione. Di qui la «gioia» dei pellegrini dinnanzi ai roghi:
essi non credevano di punire dei criminali, credevano di veder annientare dal fuoco purificatore
una potenza diabolica.
I 'perfetti' non erano molti; i semplici credenti erano una legione; e in fondo, per i crociati,
chiunque proteggesse i 'perfetti', e persino chi non fosse loro alleato, era un potenziale eretico.
Si trattava di cattolici solo in apparenza, che si sottomettevano, giuravano fedeltà alla Chiesa, e
attaccavano, massacravano i soldati di Cristo dove e quando potevano; si ritiravano nei loro nidi
d'aquila da dove minacciavano incessantemente i distaccamenti crociati; si rivoltavano contro
l'autorità degli occupanti nei borghi e nelle città. Bisognava combattere non gli eretici, ma un
intero paese, fautore dell'eresia.
L'estate del 1210 portò nuovi contingenti crociati. Il forte castello di Termes cadde dopo un
lungo assedio cui presero parte i vescovi di Beauvais e di Chartres, il conte di Ponthieu,
Guglielmo, arcidiacono di Parigi, noto per le sue capacità ingegneristiche, e numerosi pellegrini
francesi e tedeschi. L'assedio fu duro. «Se si voleva raggiungere il castello - dice Pietro di Vaux
de Cernay - bisognava prima precipitare nell'abisso poi, per così dire, strisciare verso il cielo
(9)». Raimondo, signore di Termes, era un valido guerriero, la sua guarnigione era forte ed
effettuò numerose sortite, mortali per gli assedianti. Nel campo crociato mancavano i viveri, e
lo stesso Simone di Montfort talvolta non aveva «nulla da mettere sotto i denti». L'estate era
torrida e i nuovi crociati parlavano di ripartire ancor prima dello scadere dei quaranta giorni.
Quando la sete costrinse gli assediati a negoziare, il vescovo di Beauvais e il conte di Ponthieu
levarono le tende; solo il vescovo di Chartres acconsentì a restare ancora qualche giorno,
commosso dalle suppliche della contessa Alice, moglie del Montfort. Alcune piogge torrenziali
riempirono le cisterne del castello, ove si riorganizzò la difesa mentre l'esercito crociato era
meno che dimezzato; solo un'epidemia sopraggiunta per l'inquinamento dell'acqua costrinse
Raimondo di Termes ad abbandonare il castello con i suoi uomini, di notte. Catturato, venne
gettato in una segreta dove sarebbe morto qualche anno dopo.
L'assedio era durato oltre tre mesi. Simone era nuovamente padrone della situazione, il suo
prestigio era aumentato, ma di nuovo gli effettivi a sua disposizione erano ben pochi: come si
vede, i rinforzi inviatigli dalla propaganda papale non erano né molto regolari né sicuri.
Secondo Pietro di Vaux de Cernay, Dio volle che molti peccatori potessero lavorare per la loro
salvezza partecipando alla crociata, e perciò permise che questa guerra durasse tanti anni; ma
questi peccatori erano veramente molto più preoccupati per la loro salvezza che per il buon
esito della crociata. Andavano e venivano a piacere, e Simone era costretto ad adattare i piani
delle sue campagne al volere dei cacciatori di indulgenze.
Questi pii personaggi (come il vescovo di Beauvais, Filippo di Dreux, futuro eroe di
Bouvines, che durante gli scontri si serviva di una mazza ferrata, non volendo, per scrupolo
verso il suo stato ecclesiastico, usare la spada o la lancia) adempivano a modo loro ai doveri
religiosi, ma non si preoccupavano di sapere in che modo si potesse combattere efficacemente
l'eresia; forse non avrebbero chiesto di meglio che avere a lungo degli eretici a portata di mano,
in modo da poter ottenere nuove indulgenze. Ma le autorità della Chiesa, e in particolare i
legati, più realisti e più lucidi, sapevano che per venire a capo dell'eresia non bastavano le armi,
ma era necessaria anche l'estensione dell'influenza politica dei cattolici sul paese.
Ora, primo signore della Linguadoca restava il conte di Tolosa, e sulle sue terre, come su
quelle dei suoi potenti vassalli, i conti di Foix e di Comminges, si trovavano allora i grandi
centri di diffusione dell'eresia. La tattica del terrore, inaugurata a Béziers, aveva spinto i
'perfetti' e i loro più devoti seguaci a rifugiarsi in province nelle quali non erano direttamente
esposti; e se, nel 1210, nei territori del visconte di Béziers si rifugiavano ancora molti 'perfetti'
(centoquaranta erano stati presi a Minerve, e quattrocento lo sarebbero stati a Lavaur), le
località non ancora investite dalla guerra divenivano i centri di una resistenza catara tanto più
attiva quanto più le crudeltà commesse dai crociati aumentavano nel popolo la simpatia verso
quella Chiesa perseguitata. Per colpire l'eresia quindi bisognava, in primo luogo e soprattutto,
abbattere il conte di Tolosa.
2. IL CONTE DI TOLOSA.
Nel settembre 1209 i legati Milone e Ugo, vescovo di Riez, indirizzarono a Innocenzo Terzo
una requisitoria contro Raimondo Sesto che - dicevano - non aveva rispettato nessuno degli
impegni verso la Chiesa presi all'atto della sua riconciliazione, a Saint-Gilles. Ora questi
impegni, e in particolare quelli concernenti l'indennizzo delle abbazie saccheggiate e la
distruzione delle fortificazioni, erano difficili da mantenere. Il conte in persona partì per
perorare la sua causa, e dopo una sosta a Parigi, dove fece confermare la sovranità regale sui
suoi domini, venendo ricevuto con onore, arrivò Roma nel gennaio del 1210 e ottenne udienza
dal papa.
Milone (che poco dopo sarebbe morto improvvisamente a Montpellier) scrisse al papa del
conte: «Diffidate di questa lingua abile a distillare la menzogna e l'oltraggio». Raimondo, in
effetti, protestò dinnanzi a Innocenzo Terzo la purezza della sua fede, e accusò i legati di
accanirsi contro di lui per risentimento personale. «Raimondo conte di Tolosa - scrisse il papa
agli arcivescovi di Narbonne e di Arles e al vescovo di Agen - si è presentato dinnanzi a noi, si
è lamentato dei legati, che l'avrebbero maltrattato benché avesse già adempiuto la maggior parte
degli obblighi cui il compianto Milone, nostro notaio, l'aveva assoggettato...». E' probabile che
il papa abbia trattato il conte con una certa accondiscendenza; infatti persino Pietro di Vaux de
Cernay dice: «Il signor papa pensava che, costretto alla disperazione, il suddetto conte avrebbe
attaccato la Chiesa più crudelmente e più apertamente... (10)».
Forse il papa, sia per interesse sia per timore, cercava di attirare Raimondo Sesto nel campo
degli alleati della Chiesa. Non è improbabile che egli abbia persino provato una qualche
simpatia personale per questo gran signore, brillante e colto; ma non era uomo da orientare la
sua politica in base alle simpatie o alle antipatie. Nelle sue lettere ai vescovi e all'abate di
Cîteaux egli presentava la sua relativa indulgenza nei confronti del conte come un espediente
destinato a ridurre la diffidenza dell'avversario. Come gli aveva un tempo affiancato Milone,
inviò ad Arnaldo Amalrico il maestro Teodosio, scrivendogli: «Egli [Teodosio] sarà come un
amo che userete per prendere nell'acqua il pesce, cui è necessario, con un prudente artificio,
nascondere il ferro per il quale prova orrore... (11)» (ove il ferro era lo stesso abate di Cîteaux).
Arnaldo Amalrico non si considererà sconfitto, tutt'altro; poiché il papa gli raccomandava di
permettere al conte di giustificarsi sul piano canonico, e di condannarlo in caso avesse rifiutato,
si trattava di non lasciare a Raimondo Sesto la possibilità di giustificarsi. «Maestro Teodosio era
un uomo cauto e prudente, pieno di zelo per gli interessi di Dio. Desiderava ardentemente
"trovare un mezzo legale per non ammettere il conte a provare la sua innocenza". Poiché ben
sapeva che se si autorizzava il conte a discolparsi, ciò che avrebbe potuto fare con l'astuzia o la
falsità, l'intera opera della Chiesa in questo paese sarebbe stata distrutta (12)». E' difficile
esprimersi più chiaramente. Questa esplicita confessione di malafede mostra quale pericolo il
conte rappresentasse agli occhi dei legati.
Raimondo Sesto fu dunque chiamato a giustificarsi dinnanzi a un concilio riunito a Saint-
Gilles, entro il termine di tre mesi. Doveva provare che non era colpevole di eresia, e che non
era responsabile dell'assassinio di Pietro di Castelnau. Ma poiché le due cose non dovevano
essere difficili da dimostrare, ci si rifiutò di ascoltarlo, con il pretesto che non aveva rispettato
gli impegni presi su altri punti di minor peso (ossia che non aveva cacciato gli eretici dalle sue
terre, che non aveva licenziato le sue truppe di mercenari, né abolito i pedaggi che gli si
contestavano) e che, essendo spergiuro su questioni secondarie, non sarebbe stato credibile su
quelle principali. Il pretesto non reggeva, ma poco importava. Il conte, tuttavia, mostrò molta
buona volontà, proclamò la sua totale sottomissione e chiese solo un giudizio formale;
giuridicamente la ragione stava dalla sua parte, tanto che persino il papa dovette riconoscerlo,
abbastanza a malincuore, scrivendo a Filippo Augusto: «Sappiamo che il conte non si è
giustificato, ma ignoriamo se ciò sia accaduto per sua colpa...».
Raimondo cercò di prendere tempo, di accordarsi con Simone di Montfort; alla fine del
gennaio 1211 incontrò il nuovo visconte a Narbonne, alla presenza del re d'Aragona e del
vescovo di Uzès. Pietro Secondo tentò di giocare il ruolo del mediatore, accettando infine dalle
mani di Simone l'omaggio che aveva così a lungo rinviato. Più tardi concluse addirittura un
accordo di matrimonio fra suo figlio Giacomo, di quattro anni, e Amicia, la figlia di Simone di
Montfort, affidando a quest'ultimo la tutela del bambino. Al contempo diede sua sorella Sancia
in sposa a Raimondo, figlio del conte di Tolosa (l'altra sua sorella, Eleonora, era già moglie di
Raimondo Sesto: il giovane Raimondo diventava così cognato di suo padre).
Pietro Secondo tentò di rabbonire Simone di Montfort, forse nella speranza di fargli capire
che il suo interesse, in quanto visconte di Béziers, sarebbe stato di vivere in buoni rapporti con i
vicini. Ma mostrò anche il suo attaccamento al casato di Tolosa, pensando di mettere in tal
modo Raimondo Sesto al riparo dai fulmini della Chiesa: la questione albigese non era certo
l'unica preoccupazione del papa, e il re d'Aragona era, in Spagna, il gran campione della
cristianità nella lotta contro i Mori.
I negoziati proseguirono. Il conte non intendeva rinunciare al suo atteggiamento di figlio
obbediente della Chiesa. I legati non potevano impedirgli per un tempo indefinito di provare la
sua innocenza. Bisognava fare in fretta, bisognava, prima dell'arrivo dei nuovi rinforzi crociati,
forzare la mano a quest'avversario che cominciava a passare per un giusto perseguitato.
Ci riuscirono: ad Arles, ove si teneva un concilio (menzionato solo da Guglielmo di Tudèle),
Raimondo Sesto ricevette dai legati una specie di ultimatum, ove si specificavano le condizioni
da adempiere per ottenere il perdono per i crimini dei quali si protestava innocente. Queste
condizioni sono tali che taluni storici hanno potuto pensare si trattasse di una fantasiosa
invenzione del cronista. Costui racconta che Raimondo Sesto e il re d'Aragona dovettero
attendere fuori, al freddo, «al vento», la comunicazione del documento elaborato dai legati. E'
verosimile una tale mancanza di rispetto verso signori tanto potenti? E' possibile che Arnaldo
Amalrico abbia cercato di esasperare l'avversario in tutti i modi: quanto sappiamo del carattere
di quest'uomo ce lo mostra violento e poco rispettoso delle autorità laiche.
Il conte si fece leggere ad alta voce il documento, poi disse al re: «Venite, sire, e ascoltate
questa carta, e lo strano comandamento al quale i legati mi ingiungono di obbedire». Il re disse:
«Ecco chi ha bisogno di essere reso migliore dal Padre onnipotente (13)». Era il minimo che si
potesse dire. Questo documento ordinava al conte, beninteso, di cacciare i mercenari, di non
proteggere più gli ebrei e gli eretici, di consegnare questi ultimi «entro un anno»; inoltre il
conte, i suoi baroni, i suoi cavalieri, non dovevano mangiare «più di due tipi di carne», non
dovevano più vestirsi «di stoffe preziose», ma «di grezze cappe brune», dovevano
integralmente distruggere i loro castelli e le loro fortezze, non abitare più in città, ma solo in
campagna «come i contadini»; non avrebbero dovuto opporre alcuna resistenza ai crociati in
caso di attacco; infine il conte avrebbe dovuto attraversare il mare e restare in Terra Santa
quanto sarebbe piaciuto ai legati. Le condizioni di questo trattato sono tali che si potrebbe quasi
sospettare che fossero state inventate dal conte stesso per giustificare la sua rottura con i legati -
se egli avesse avuto interesse a giungere a questa rottura; ma è invece evidente che egli cercava
con ogni mezzo di evitarla.
Pietro di Vaux de Cernay non parla di questo documento, ma sostiene che il conte - il quale
«come i Saraceni credeva nel volo e nel canto degli uccelli, e in altri presagi (14)» - sarebbe
partito improvvisamente, sconvolto da un presagio sfavorevole; ciò che quadra male con il
carattere del personaggio. Il panegirista della crociata non vuole far ricadere sui legati la
responsabilità di questa brusca partenza, che in ogni caso si spiega solo con una loro
provocazione.
Dopo aver ascoltato quanto gli si chiedeva, il conte partì per Tolosa, «senza salutare i legati»,
con in mano il documento che fece leggere ovunque, «perché lo conoscessero chiaramente i
cavalieri, i cittadini, e i sacerdoti che cantano la messa». Era la dichiarazione di guerra. I legati
scomunicarono il conte, decretando che i suoi domini fossero lasciati al primo occupante (6
febbraio 1211). Fecero ricadere su di lui la colpa dell'interruzione dei negoziati, e il 17 aprile il
papa ratificò la scomunica.
Il conte, malgrado il mutamento del suo umore e malgrado la pubblicità che diede
all'oltraggio di cui era stato vittima, non aveva comunque alcuna voglia di battersi. Era,
decisamente, un sovrano pacifico, e dopo tutto è difficile biasimarlo per aver voluto, a qualsiasi
prezzo, evitare al suo popolo la sventura di una guerra. Avrebbe cercato di risistemare le cose
fino all'ultimo: la sua instancabile buona volontà dovette esasperare i legati più di una politica
aggressiva.
Simone di Montfort continuava la sua metodica conquista dei domini dei Trencavel.
L'imprendibile castello di Cabaret si arrese prima di essere cinto d'assedio. Padrone di Cabaret,
Simone marciò su Lavaur con nuovi, importanti rinforzi: questa città fortificata, che prendeva il
nome dal suo castello, venne presa dopo un assedio lungo e penoso. Lavaur era difesa da
Emerico di Montréal, fratello della castellana, Guiraude di Laurac. Questa era figlia della
celebre 'perfetta' Bianca di Laurac ed era una delle più nobili dame del paese, persona
rispettabilissima, una di quelle vedove 'credenti' che consacravano la loro vita alla preghiera e
alle opere pie; era ancor più nota per la sua carità che per la sua dedizione alla Chiesa catara.
Lavaur si difendette eroicamente per oltre due mesi, fu presa d'assalto, le sue mura vennero
smantellate con le macchine da guerra e con il lavoro degli zappatori. Emerico di Montréal, che
inizialmente era stato alleato del Montfort, venne impiccato come traditore insieme a ottanta
cavalieri; poiché il patibolo, costruito in tutta fretta, crollò, parte di questi sventurati vennero
semplicemente sgozzati. Questi signori sottomessi con la forza, che approfittavano della prima
occasione per scalzarsi di dosso il giogo dell'invasore, eccitavano un odio del tutto particolare
in Simone, che sembrava non vedere alcuna differenza fra il giuramento di fedeltà prestatogli
dai suoi piccoli vassalli di Chanteloup o di Grosrouvre e una sottomissione imposta con la
paura a dei vinti. Emerico di Montréal, primo signore del Lauraguais, per due volte aveva
stretto alleanza con Simone. Come si è detto sopra, i crociati non erano, agli occhi delle
popolazioni del Mezzogiorno della Francia, avversari degni di stima, e i cavalieri occitani il più
delle volte si sottomettevano solo nell'intento di prendersi meglio la rivincita. Ma Simone di
Montfort aveva un modo del tutto personale di intendere la lealtà: «Mai nel mondo cristiano un
così alto barone venne impiccato insieme a così tanti suoi cavalieri (15)».
All'interno della città di Lavaur si trovavano quattrocento 'perfetti', uomini e donne; è
perlomeno quanto possiamo supporre, visto che quattrocento persone vi furono bruciate come
eretiche, dopo l'ingresso dell'esercito crociato. Si tratta di un numero sorprendente; tuttavia,
esso potrebbe costituire una testimonianza della bontà e del coraggio di Guiraude, la castellana
di Lavaur, che non aveva temuto di fare della sua fortezza il rifugio dei 'buonuomini'. Questa
gran dama dovette pagare cara la sua devozione: in disprezzo di ogni legge della guerra e della
cavalleria, fu abbandonata alla brutalità dei soldati, che la trascinarono fuori del castello e la
gettarono in un pozzo, dove fu lapidata e infine seppellita sotto le pietre. «Fu cosa dolorosa, un
peccato, poiché sappiate che nessuno mai l'aveva lasciata senza aver fatto un buon pasto (16)».
I quattrocento eretici furono condotti sul prato dinnanzi al castello, ove i pellegrini nel loro
fanatismo avevano rapidamente ammassato un immenso rogo. I quattrocento furono bruciati
"cum ingenti gaudio", e mostrarono un coraggio che i loro carnefici attribuirono a un
incredibile indurimento nel crimine. Fu il più grande rogo di tutta la crociata. Dopo Lavaur
(1211) e dopo la presa di Cassès, il mese seguente, quando vennero bruciati sessanta eretici, i
'perfetti' per sfuggire alle persecuzioni trovarono rifugi differenti dai castelli fortificati.
Va notato che questi uomini, che salivano sul rogo con una serenità che avrebbe scosso la
fede di avversari meno fanatici, non cercavano minimamente il martirio e facevano il possibile
per scampare alla morte. Non supplicavano i carnefici - come san Domenico - di torturarli e di
mutilarli; non erano degli esaltati avidi di conquistarsi una 'corona', ma dei combattenti che
tenevano a vivere per poter continuare il loro apostolato. Solo quando cadevano nelle mani del
nemico, e quando si ingiungeva loro di scegliere fra l'abiura e la morte, essi mantenevano sino
alla fine la promessa fatta il giorno della loro ammissione nella Chiesa dei puri. Del resto
vedremo che furono anzi abilissimi a nascondersi, a depistare gli inseguitori. Ciò sembra
dimostrare che a torto li si è accusati di ricercare il suicidio: la crociata forniva loro una
magnifica occasione per farlo, e non ne hanno mai approfittato.
Le svariate centinaia di donne e di uomini bruciati vivi a Minerve, Lavaur e Cassès (circa
seicento) erano formate dai capi, dalle forze attive della Chiesa catara. I loro nomi non sono
citati in nessun documento. Si sa che alcune delle persone che avevano sostenuto le
controversie contro san Domenico e i suoi seguaci - Siccardo Cellerier, Guilberto di Castres,
Benedetto di Termes, Pietro Isarn, Raimondo Aiguilher e altri - sopravvissero ai primi dieci
anni di crociata. Se fra quanti vennero bruciati sul rogo a Minerve e Lavaur ci furono dei
vescovi, nessun documento lo riporta. E' probabile che i principali capi di questa Chiesa, dotata
già di un'organizzazione potente, abbiano cercato rifugio in luoghi diversi dai castelli fortificati,
luoghi strategici sempre presi di mira dal nemico, dove troppo facilmente potevano essere presi
in trappola.
Si capisce allora perché i legati pensassero che, se il conte di Tolosa fosse stato autorizzato a
discolparsi, «tutta l'opera della Chiesa in questo paese sarebbe stata distrutta»; perché Milone
avesse scritto al papa: «Se il conte ottenesse da voi la restituzione dei suoi castelli... tutto
quanto è stato fatto per la pace della Linguadoca sarebbe annullato. E allora sarebbe stato
meglio non cominciare l'impresa, piuttosto che abbandonarla in questo modo». Essi sapevano
che la Chiesa loro avversaria, galvanizzata dal pericolo, più combattiva che mai, aveva
trasferito il suo quartier generale nella regione di Tolosa, che il sangue dei martiri e la crescente
impopolarità dei crociati le restituivano un nuovo prestigio, forse mai raggiunto prima.
Abbiamo solo poche testimonianze sull'attività della Chiesa catara durante questi anni
terribili. Tuttavia i registri dell'Inquisizione riportano le confessioni di uomini che avevano
assistito a riunioni, a "consolamenta", a pranzi presieduti da 'perfetti', nel 1211, nel 1215... fin
nei dintorni di Fanjeaux, il principale centro della predicazione di san Domenico. I cronisti
dell'epoca non ci raccontano (e non per caso) come i vescovi catari mantenessero i legami con
le loro diocesi, che cosa predicassero, come lottassero contro la Chiesa che li perseguitava. Le
confessioni strappate dagli inquisitori ci danno un'idea molto vaga della loro attività: li si è
visti, li si è ascoltati, talvolta li si è aiutati; ed è tutto. Benché, probabilmente, avessero
incoraggiato i loro fedeli a difendersi, nessuna parola focosa, o semplicemente patriottica,
venne loro attribuita; nei verbali dei processi non traspare nulla della loro eloquenza, peraltro
celebre. O quanti li ascoltarono hanno saputo stare zitti, oppure i giudici non hanno ritenuto
opportuno parlarne.
Non si vede mai un 'perfetto' svolgere un qualsiasi ruolo, anche poco spettacolare, negli
innumerevoli movimenti di rivolta che si sviluppavano incessantemente in tutto il paese. Non ci
furono fra loro delle Giovanne d'Arco o dei Savonarola; questi combattenti tanto temuti dalla
Chiesa cattolica sembrano applicare alla lettera le parole di Isaia: «Non griderà, non alzerà la
voce, non la farà sentire per le strade... non romperà la canna spezzata...».
Fra questi uomini che godevano di un prestigio tanto grande, il cui ascendente doveva essere
enorme, nessuno ha cercato di farsi avanti, di innalzare la bandiera della sua Chiesa contro una
Chiesa odiata da tutti, di trascinare le masse verso una qualche contro-crociata vendicatrice.
Non si può non restare sorpresi dalla forza d'animo di questi pacifici fra i pacifici, che di fronte
a una tentazione tanto terribile, hanno saputo restare fedeli alla purezza della loro vocazione. Né
per paura né per mancanza di coraggio scelsero di rappresentare solo il ruolo dei martiri in quel
dramma sanguinario che fu la crociata: la loro forza, lo sapevano, non era di questo mondo.
Nemici della violenza, potevano lottare esclusivamente con armi spirituali, ben diverse da
quelle di una Chiesa nella quale lo spirituale e il temporale si erano talmente mescolati fra loro
che nemmeno i migliori erano più in grado di distinguerli. La lotta era troppo impari, e nel
momento in cui Arnaldo Amalrico poteva considerarsi espressione di una forza spirituale, in cui
san Domenico, rinunciando alla benedizione per il bastone, dava esca ai roghi, la Chiesa catara
diveniva, nel Sud della Francia, la sola vera Chiesa; e i 'buonuomini', venerati come santi,
potevano essere sicuri della complicità di tutto il paese.
Così, in quegli anni di tormento, Guilberto di Castres, figlio maggiore del vescovo cataro di
Tolosa, poi vescovo lui stesso, non cessò di percorrere le sue diocesi, di predicare, di ordinare
nuovi 'perfetti'. A predicatori meno noti doveva essere ancora più facile spostarsi per esercitare
l'apostolato. Non vennero mai traditi. I cavalieri del paese consideravano un onore scortarli e
proteggerli, i borghesi li nascondevano nelle loro case, gli artigiani e le donne del popolo si
dedicavano a portare i loro messaggi e ad assicurare il legame fra i fedeli.
La crociata poteva trionfare solo grazie a una conquista totale delle terre 'eretiche', e i legati
conoscevano troppo bene i loro avversari per farsi illusioni in proposito. «Per la pace della
Linguadoca» era necessaria la guerra a oltranza, e questi pacificatori rifiutarono tutti i tentativi
del conte di Tolosa che, anche dopo essere stato scomunicato, continuò a proporre loro una
composizione amichevole. Simone di Montfort penetrò nelle terre della contea di Tolosa nel
giugno del 1211, e il rogo di Cassès inaugurò questa nuova tappa della guerra santa. La
inestricabile situazione nella quale la Chiesa cattolica si era cacciata era tale che ogni nuova
vittoria diventava una sconfitta morale, che le alienava sempre di più i cuori di quanti voleva
ricondurre alla sua fede.
Il conte si era trincerato all'interno di Tolosa. La grande città, cuore del paese, centro di ogni
forma di resistenza, era da tempo l'obiettivo dei legati: non per nulla Raimondo Sesto, nelle
offerte di pace che aveva fatto loro aveva proposto di rimettere nelle loro mani tutti i suoi
domini "eccettuata la città di Tolosa". Padrone di Tolosa, egli restava sempre padrone del paese
che, pur provvisoriamente occupato dal nemico, avrebbe finito per raccogliersi intorno alla sua
capitale intatta e al suo legittimo sovrano. Simone di Montfort, quindi, doveva marciare su
Tolosa.
La crociata aveva sul posto un alleato temibile. Il vescovo Folco non era solo un feroce
partigiano delle misure più radicali contro gli eretici; era anche un uomo ambizioso, che
cercava di occupare nella città e nel vescovado quel ruolo primario di cui il conte, scomunicato,
si era reso indegno. Durante tutta la crociata agì come se Tolosa fosse un suo possesso
personale, come se egli si considerasse padrone non solo delle anime, ma anche dei corpi dei
Tolosani. Il suo fanatismo è ben noto: del resto aveva incoraggiato la missione di san Domenico
e già dal 1209 aveva creato nella sua diocesi un centro di predicazione cattolica, segnalandosi
per il suo zelo nella ricerca e nella punizione degli eretici.
La grande città, ove gli eretici erano venerati al punto che poteva accadere di vedere dei
cavalieri smontare da cavallo, in mezzo a una strada, incrociando un vescovo cataro (è quanto
fece nel 1203 Oliviero di Cuc dinnanzi al vescovo Gaucelmo), contava anche un buon numero
di cattolici. Come le grandi città italiane dell'epoca, anche Tolosa era sempre in preda a lotte
intestine, prive di una reale gravità, che vedevano le fazioni rivali affrontarsi e sfidarsi,
prendendo partito le une per il conte, le altre per i consoli, le altre per il vescovo. Tolosa
svolgeva nella Linguadoca il ruolo che Parigi avrebbe svolto, qualche secolo dopo, nella vita
della Francia: era più di una città, era un mondo, un simbolo, un centro d'irraggiamento, la testa
e il cuore della provincia. Tutte le tendenze, tutti i movimenti vi erano rappresentati, tutti vi
godevano dei diritti propri del cittadino, in una libertà spesso turbolenta ma reale. Il giorno in
cui venne nominato vescovo, Folco di Marsiglia faticò a farsi accettare dai suoi nuovi
parrocchiani. Ma, uomo eloquente ed energico, riuscì presto a raccogliere intorno a sé la
popolazione cattolica della città, e cinque anni dopo la nomina a Tolosa era una vera potenza,
non per il suo mandato di vescovo, ma per la sua influenza personale.
«Il vescovo Folco - dice Guglielmo di Puylaurens - cui stava molto a cuore di impedire che
tutti gli abitanti di Tolosa venissero esclusi dalla partecipazione alle indulgenze accordate agli
stranieri (ossia ai crociati), decise di unirli alla causa della Chiesa tramite una pia istituzione...
(17)». Questa pia istituzione non era altro che una confraternita di cattolici militanti incaricati di
un'attività apertamente terroristica: i membri di questa confraternita, chiamata Confraternita
bianca (perché gli affiliati portavano sul petto una croce bianca) infierivano contro gli usurai
(gli ebrei) e gli eretici della città e distruggevano le loro case «dopo averle saccheggiate». Le
vittime di questi attacchi si difesero, «guarnirono di merli le loro dimore» e da allora - dice lo
storico - «la divisione regnò nella città». Si formò un'altra confraternita, che aveva per fine la
lotta contro la Confraternita bianca, e che perciò si chiamò Confraternita nera. «Ogni giorno si
incontravano, con le armi in pugno, le bandiere spiegate, e persino con la cavalleria. Grazie al
vescovo, suo servo, il Signore era venuto a mettere fra loro non una cattiva pace, ma una buona
spada (18)».
Questo vescovo, che era già riuscito ad arruolare fra i membri della sua confraternita una
milizia di cinquecento Tolosani inviati a combattere insieme ai crociati davanti a Lavaur
malgrado la formale opposizione del conte, era a modo suo popolare. I suoi uomini andavano in
battaglia cantando pii 'sirventesi' da lui composti per l'occasione. La sua confraternita di fanatici
creava nella città un vero e proprio clima da guerra civile. Fin dall'inizio il vescovo era stato
nemico dichiarato del conte, cui rimproverava la tolleranza verso gli eretici. Dopo la nuova
scomunica del conte, il vescovo spinse apertamente i cittadini a rivoltarsi contro il loro signore.
Evidentemente egli si considerava, di diritto, il padrone della città.
Al conte, attaccato sulle sue terre, minacciato d'assedio, mancava solo un simile nemico
interno. Il giorno in cui Folco spinse la sua insolenza fino a invitare Raimondo a fare una
passeggiata fuori Tolosa, poiché la presenza in città di uno scomunicato gli impediva di
procedere a delle ordinazioni sacerdotali, il conte gli mandò a dire «di andarsene al più presto
da Tolosa e da tutto il territorio del suo dominio». Folco dapprima fece sfoggio del suo
coraggio: «Non è il conte di Tolosa - disse - che mi ha fatto vescovo, non è grazie a lui né per
lui che sono stato inviato in questa città; sono stato eletto dall'umiltà ecclesiastica, e non ci sono
venuto per la violenza di un principe; quindi non ne uscirò a causa sua. Che venga, se osa: sono
pronto a ricevere il pugnale, per guadagnare la maestà beata attraverso il calice della passione.
Sì, venga il tiranno con i suoi soldati e le sue armi, mi troverà solo e disarmato: attendo il
premio e non temo affatto quanto l'uomo può farmi (19)».
In realtà il capo della Confraternita bianca non era né solo né disarmato; e Raimondo Sesto
non teneva certo ad assumersi la responsabilità dell'assassinio di un vescovo. Il discorso di
Folco era dunque una bravata gratuita, e l'uomo aveva il senso della teatralità. Dopo qualche
giorno, finito di attendere un martirio o almeno una provocazione che non arrivava, e
probabilmente sentendo che la sua popolarità non poteva controbilanciare quella del conte,
lasciò la città e si diresse al campo dei crociati.
Tolosa, come abbiamo visto, non era una città eretica; i cattolici erano molti e influenti.
L'anno precedente i consoli avevano accompagnato il conte a Roma, per ottenere dal papa la
revoca dell'interdetto lanciato sulla loro città. I Tolosani tenevano a fare la pace con il loro
vescovo. Folco rispose con un ultimatum: dovevano rifiutare obbedienza al loro signore
scomunicato e cacciarlo da Tolosa, altrimenti la città sarebbe stata messa al bando dalla Chiesa.
Questa proposta venne respinta con indignazione, e Folco ordinò al clero di lasciare la città, a
piedi nudi, e portando il Santo Sacramento. L'interdetto venne nuovamente lanciato contro
Tolosa, che divenne la città eretica promessa alla spada dei crociati.
Simone di Montfort la cinse d'assedio, insieme a truppe crociate di rinforzo nelle quali
militavano il conte di Bar, il conte di Chalons e un gran numero di crociati tedeschi. La guerra
di Tolosa era già cominciata: il Montfort aveva già preso alcuni castelli dei dintorni, mandato al
rogo i sessanta eretici di Cassès, ottenuto la capitolazione di Baldovino, che dopo una bella
resistenza era passato al nemico per rancore verso il fratello maggiore, il conte Raimondo; e con
le truppe fresche portategli dal conte di Bar si credeva abbastanza forte per assediare Tolosa.
Capì ben presto il suo errore e levò le tende dopo appena dodici giorni di assedio; i quaranta
giorni di consegna dei crociati volgevano al termine e l'esercito era a corto di viveri.
Questo scacco, prevedibile ed evitabile dal punto di vista strategico, rappresentò però per
Simone una grossa perdita di prestigio: l'uomo che fino ad allora aveva trionfato ovunque aveva
dovuto ritirarsi davanti a Tolosa; la cavalleria occitana e le milizie cittadine cominciarono a
dirsi che il nemico non era invincibile. Un vento di coraggio e di speranza soffiava sul paese.
D'ora in avanti Simone non avrebbe più potuto accontentarsi di assediare i castelli uno dopo
l'altro, sarebbe stato attaccato da ogni lato, 'tradito' a ogni istante dai suoi nuovi vassalli,
sarebbe stato al contempo assediante e assediato, all'attacco e in fuga, in un succedersi
ininterrotto di scorrerie che l'avrebbero condotto da Pamiers a Cahors, dalla regione di Agen a
quella di Albi; talora respinto, mai battuto.
Lo scacco davanti a Tolosa spinse i crociati dapprima verso la contea di Foix, dove si
affrettarono a seminare il terrore, bruciarono Auterive, saccheggiarono i castelli, incendiarono i
borghi, strapparono le vigne. Avendo fallito a Foix, risalirono verso Cahors, il cui vescovo
reclamava per signore Simone, al posto dello scomunicato Raimondo. Ricevuta la
sottomissione di Cahors, Simone seppe che il conte di Foix aveva fatto prigionieri due dei suoi
migliori compagni, Lamberto di Thury (o di Croissy) e Gualtieri Langton. Tornò in fretta verso
Pamiers e apprese che il popolo di Puylaurens aveva richiamato i suoi antichi signori, e teneva
assediata nel torrione la guarnigione che vi aveva lasciato. Ripartì quindi in direzione di
Puylaurens, poi finalmente si ritirò a Carcassonne.
Nel frattempo il conte di Tolosa aveva radunato le sue forze e insieme al conte di Foix e a un
rinforzo di duemila Baschi mandatigli dal re d'Inghilterra passò all'attacco, apprestandosi a sua
volta ad assediare l'avversario. Simone, che dai suoi stessi successi aveva imparato il rischio
della condizione di assediato, si lanciò su Castelnaudary, «il castello più debole», mal protetto e
per di più bruciato da poco dal conte: un sistema di fortificazione troppo perfetto impedisce sì
agli assalitori di penetrare entro una postazione, ma impedisce anche agli assediati di uscirne.
Assediato a Castelnaudary da un esercito numericamente molto superiore al suo, Simone ne
uscì, vi ritornò, inviò emissari a cercare aiuto, diede battaglia in aperta campagna, mise in rotta
le truppe del conte di Foix (malgrado l'eroismo di quest'ultimo e di suo figlio Ruggero
Bernardo); e gli assedianti, scoraggiati dalla sua resistenza, finirono per ritirarsi.
Ma questa resistenza, per meritoria che sia stata, non fu un trionfo. Coloro ai quali Simone
aveva chiesto rinforzi non avevano risposto al suo appello: gli abitanti di Narbonne si erano
detti disposti a mettersi in marcia solo sotto il comando del loro visconte Emerico, che si era
rifiutato di intervenire; Guglielmo Cat, cavaliere di Montréal, incaricato di portare rinforzi,
aveva reclutato sì degli uomini, ma per attaccare i crociati; Martino d'Algais, comandante delle
truppe mercenarie, era fuggito durante le operazioni con i suoi uomini: in seguito si scusò
facendo ricadere la colpa di questa defezione sull'indisciplina dei suoi soldati. Divenne evidente
che il Montfort poteva contare esclusivamente sul suo gruppo di Francesi e sui rinforzi
provenienti dall'estero. D'altra parte, i conti di Foix e di Tolosa presentarono quanto avvenuto a
Castelnaudary come una vittoria: tutti i castelli presi dai crociati avevano aperto loro le porte,
massacrando le guarnigioni e facendo festa ai liberatori. Gli eserciti dei due conti, meno
organizzati e omogenei della guardia scelta di Simone di Montfort, ma superiori
quantitativamente e sicuri dell'appoggio della popolazione, incalzarono l'avversario,
l'inseguirono e si ritirarono, senza aver mai vinto e senza essere mai stati battuti.
Poi, nella primavera del 1212, con l'arrivo di nuovi contingenti crociati dal Nord, la
situazione cambiò, e Simone di Montfort si ritrovò in vantaggio; e, a partire dalla Pasqua,
cominciò a riprendersi i castelli che gli erano stati tolti, uno dopo l'altro.
Malgrado l'importanza di queste truppe di pellegrini - fra i quali si trovavano l'arcivescovo
di Rouen, il vescovo di Laon, l'arcidiacono di Parigi, Guglielmo, alcuni Tedeschi, provenienti
dalla Sassonia, dalla Westfalia, dalla Frisia, con i conti di Berg e di Juliers, con Engleberto,
prevosto della cattedrale di Colonia, e con Leopoldo Quarto d'Austria - la crociata veniva
sempre più assumendo i caratteri di una guerra di conquista a beneficio di Simone di Montfort.
Con le sue truppe provvisorie Simone intraprese la conquista della regione di Agen
(appartenente al re d'Inghilterra, e che Raimondo Sesto aveva avuto in dote dalla sua quarta
moglie, Giovanna Plantageneto); assediò Penne, che capitolò dopo un mese, il 25 luglio; prese
Marmande, marciò su Moissac che capitolò a sua volta, dopo un'energica resistenza. Terminata
la campagna d'estate, i crociati di Montfort, dopo aver devastato i dintorni di Tolosa, si
ritirarono per l'inverno a Pamiers.
Simone, e con lui i legati, avevano superato una nuova prova: come negli anni precedenti, il
talento militare del capo della crociata e le truppe di pellegrini-guerrieri che i paesi
settentrionali gli inviavano periodicamente avevano consentito di avere ragione delle resistenze
locali. Ma questa volta, i risultati raggiunti erano talmente importanti che Simone poté credere
di essere divenuto padrone di tutta la Linguadoca e che non ci fossero più avversari sul campo.
I conti di Foix e di Tolosa si erano ritirati alla corte del re d'Aragona, dove preparavano la
rivincita; cittadini e signori avevano di nuovo prestato giuramento al vincitore - eccettuati i
"faidits", i cui beni venivano felicemente a ricompensare la devozione dei cavalieri francesi; i
vescovi locali erano stati gradualmente sostituiti con fedeli esecutori degli ordini del papa;
Tolosa non era stata ancora ridotta all'obbedienza, ma Simone contava di farlo entro la
primavera. E già pensava a come organizzare la conquista.
Gli statuti di Pamiers mostrano che il Montfort si considerava fin da allora signore legittimo
della Linguadoca. Egli convocò a Pamiers una assemblea, una sorta di stati generali, dove
furono convocati i vescovi, i nobili e i borghesi. Mancavano i legati, il che mostra come Simone
di Montfort cercasse di assicurarsi l'appoggio della Chiesa locale, ma soprattutto tenesse a
liberarsi della tutela dei legati, che tendevano a ricordargli troppo spesso che tutta l'operazione
era stata intrapresa per conto della Chiesa e con fini 'spirituali'. Simone era già quasi in rotta
con l'abate di Cîteaux che, eletto vescovo di Narbonne, si era fatto dare anche il titolo di duca,
ricevendo direttamente l'omaggio del visconte Emerico.
Con gli 'statuti' elaborati a Pamiers Simone accordò alla Chiesa vantaggi materiali
considerevoli: protezione dei beni e dei privilegi, conferma delle decime e dei canoni,
liberazione da alcune imposte (taglia), giustizia ecclesiastica per tutti i chierici, eccetera. D'altro
canto - e si tratta di una misura spiegabile con l'irritazione verso l'abate di Cîteaux - non
riconobbe ai prelati alcun ruolo nel governo del paese. Il potere di fatto sarebbe spettato a lui
solo, e al suo gruppo di cavalieri francesi.
Sostituiti ai signori locali, eretici o semplicemente spodestati, i compagni di Simone di
Montfort vennero chiamati a diventare l'aristocrazia, la classe dirigente del paese. Feudi
importanti vennero affidati loro, ed essi in cambio si impegnarono a servire il conte, Simone di
Montfort, in tutte le sue guerre, a non lasciare mai il paese senza il suo permesso, a non
prolungare l'assenza oltre i termini pattuiti, a reclutare, per vent'anni, solo cavalieri "francesi";
le loro vedove o ereditiere che possedessero castelli non avrebbero potuto sposarsi (per sei
anni) senza il permesso del conte, salvo che con dei "Francesi". Infine gli eredi avrebbero
ereditato «secondo il costume e l'uso di Francia, intorno a Parigi». Simone dunque pensava a
una vera e propria colonizzazione del paese conquistato, o almeno alla progressiva eliminazione
della nobiltà locale, che sarebbe stata sostituita dalla nobiltà di origine francese. Il suo
risentimento contro la cavalleria occitana era profondo e non ingiustificato. Da militare, egli
mirava soprattutto alla eliminazione della classe che, nel paese, deteneva il potere militare.
Egli non mostrava di preoccuparsi più di tanto degli eretici, e non istituì alcuna
organizzazione speciale incaricata di dare loro la caccia. Questo compito, a suo parere, spettava
alla Chiesa. Del resto questo crociato sembrava ormai considerare l'eresia solo un pretesto per
spogliare i signori che gli erano ostili o di cui bramava i beni. Tuttavia proclamò sino alla fine -
senza dubbio in perfetta buona fede - che combatteva per la causa di Cristo.
Infine, gli statuti di Pamiers prevedevano una serie di misure destinate a migliorare le
condizioni del popolo e a proteggerlo dall'arbitrio dei signori. Misure generose, ma un po'
demagogiche in quanto difficilmente applicabili in un paese in guerra: la promessa di una
tassazione meno gravosa e di una giustizia più equa rappresentava un modesto compenso per i
danni subiti dalle campagne, le tasse di guerra e l'aumento delle imposte ecclesiastiche. In ogni
caso, Simone prese sul serio il suo ruolo di legislatore, e in un paese ostile, conquistato a metà e
nel quale si manteneva a stento, si comportò già come se vi si dovesse installare per dei secoli.
In realtà, il conte di Tolosa era sempre il legittimo padrone del paese, e nel settembre del
1212 il papa aveva scritto ai legati chiedendo loro perché mai egli non fosse stato ammesso a
giustificarsi, se il suo crimine fosse stato davvero provato, e se era stabilito che si aveva il
diritto di spodestarlo in favore di un altro. Si deve supporre che questa lettera non sia tanto una
dimostrazione dello spirito di equità di Innocenzo Terzo, quanto il risultato della diplomazia del
conte di Tolosa che, tramite l'intermediazione del re d'Aragona, tentava di screditare la crociata
agli occhi del papa stesso.
Dopo tre anni di guerra, di successi militari indiscutibili e l'apparente annientamento della
resistenza armata nel paese degli eretici, il papa parve improvvisamente disinteressarsi di un
affare così ben incominciato: dichiarò finita (almeno provvisoriamente) la crociata e rimproverò
ai legati e a Simone di Montfort il loro zelo esagerato e del resto inutile: «Delle volpi
"distruggevano" nella Provenza (la Linguadoca) la vigna del Signore. "Sono state catturate"...
Adesso si tratta di rispondere a un pericolo più temibile... (20)».
In effetti il grande avversario della crociata non era più Raimondo Ruggero Trencavel e
neppure il conte di Tolosa; era Pietro Secondo d'Aragona, il capo della crociata contro i Mori, il
recente trionfatore a Las Navas de Tolosa (21), il campione della cristianità nella lotta contro
l'Islam.
Per divenire padroni della Linguadoca, Simone di Montfort e i legati dovevano ancora
superare una tappa decisiva: il meno che si possa dire è che erano ancora tutt'altro che sicuri
della vittoria. Battuto dal cattolicissimo Pietro Secondo, Simone non sarebbe stato più altro che
un avventuriero e un usurpatore, e il papa stesso, malgrado il suo odio per l'eresia,
indubbiamente sarebbe stato costretto a inchinarsi dinnanzi al fatto compiuto, lasciando al re
d'Aragona il compito di perseguitare gli eretici negli stati che avesse preso sotto la sua
protezione.
Del resto, nel gennaio del 1213, Pietro Secondo non si augurava affatto che si giungesse allo
scontro armato; credeva che il suo prestigio sarebbe bastato a incutere rispetto al papa e al
Montfort. Carico di gloria dopo la sua brillante vittoria sui Mori, questo valoroso guerriero
pensava, non senza ragione, che il papa gli dovesse una considerazione del tutto particolare; e
nel momento in cui intervenne in favore di suo cognato, il conte di Tolosa, certo non si
aspettava di vedersi scrivere, cinque mesi dopo, da Innocenzo Terzo: «Fosse piaciuto a Dio che
la tua saggezza e la tua pietà fossero cresciute in proporzione [alla tua fama]! Ti sei comportato
male sia verso te stesso sia verso di noi... (22)».
Il re d'Aragona, diretto sovrano dei visconti di Trencavel, dei conti di Foix e di Comminges
per una parte delle loro terre, considerava da tempo la crociata come un'impresa che lo ledeva
nei suoi diritti. Durante il secolo precedente i conti di Tolosa avevano dovuto difendere la loro
indipendenza di fronte alle pretese degli Aragonesi innumerevoli volte: anche in piena crociata,
alcuni vassalli del visconte di Béziers, pur cercando l'appoggio di Pietro Secondo, avevano
esitato a consegnargli le piazzeforti che egli domandava loro e avevano preferito sottomettersi
al Montfort. Ma le crudeltà e il comportamento tirannico del nuovo venuto avevano presto
reindirizzato le simpatie dei signori e dei cittadini occitani verso il loro potente vicino al di là
dei Pirenei.
Qualsiasi pretesa avesse, il re d'Aragona, se riusciva a cacciare i Francesi, non poteva che
apparire come un salvatore. «I popoli di Carcassonne, di Béziers e di Tolosa - scriverà più tardi
il re Giacomo Primo - vennero a trovare mio padre (Pietro Secondo) e gli dissero che poteva
divenire il signore di quel paese, se solo avesse voluto conquistarlo... (23)». Di fatto, già nel
1211 i consoli di Tolosa avevano fatto appello al re, inviandogli una lettera nella quale si
lamentavano le malefatte dei crociati e lo si supplicava di intervenire in difesa di un paese così
vicino al suo: «Quando il muro del vicino brucia tutti accorrono (24)». Pietro Secondo era
cattolico e aveva persino perseguitato e bruciato gruppi di eretici insediatisi sulle sue terre. Ma i
baroni, i consoli e i borghesi pretendevano tutti di essere eccellenti cattolici e giuravano che nel
paese non c'erano più eretici.
Il conte di Tolosa, d'accordo con i suoi vassalli, i conti di Foix e di Comminges, aveva deciso
di giocare la sua ultima carta: l'alleanza li metteva tutti alle dirette dipendenze del re d'Aragona;
ma almeno poteva permettere loro di cacciare l'invasore straniero.
Nel frattempo Pietro Secondo aveva preso le difese della Linguadoca devastata e oppressa.
Anche se il suo desiderio di aiutare i suoi cugini non era disinteressato, non bisogna
dimenticare che questo sovrano feudale si sentiva gravemente colpito nel suo onore per le
vessazioni inflitte ai suoi vassalli; e che la solidarietà familiare e nazionale poteva spingerlo a
difendere l'eredità delle sue sorelle, nonché una terra di cui parlava la lingua e ammirava i poeti.
I suoi ambasciatori, con in testa il vescovo di Segovia, avevano tentato di dimostrare al papa
che l'eresia era stata vinta; che i legati, d'accordo con Simone di Montfort, attaccavano terre mai
sospettate di eresia; che utilizzavano la crociata a fini di conquista e di interesse personale; che,
per di più, attaccando dei vassalli del re d'Aragona, impedivano a quest'ultimo di proseguire la
crociata da lui intrapresa contro i Mori, che aveva già dato risultati tanto soddisfacenti. Del
resto, preoccupato per la sua guerra contro gli infedeli, il re sperava, fermando la crociata
contro gli eretici, di attrarre in Spagna il flusso di crociati che ogni anno si riversava sul
Mezzogiorno della Francia e del quale aveva potuto personalmente ammirare la forza
combattiva.
Il papa, dapprima influenzato dagli emissari del re, aveva scritto a Simone di Montfort una
lettera estremamente severa: «Il re d'Aragona si lagna... che, non contento di esserti levato
contro gli eretici, hai portato le armi crociate contro popoli cattolici; che hai sparso il sangue
degli innocenti e invaso a loro danno le terre dei conti di Foix e di Comminges e di Gastone di
Béarn, suoi vassalli, benché i popoli di queste terre non fossero in alcun modo sospetti di
eresia... Non volendo privarlo [il re] dei suoi diritti, né distoglierlo dai suoi lodevoli progetti,
noi ti ordiniamo di restituire a lui e ai suoi vassalli tutte le loro signorie da te occupate, nel
timore che, in caso tu le trattenga ingiustamente, si dica che hai agito per il tuo personale
vantaggio, e non per la causa della fede... (25)». Le indulgenze concesse ai pellegrini che
prendevano la croce contro gli eretici vennero annullate e «trasferite alle guerre contro i pagani
o in soccorso della Terra Santa».
Mentre il papa scriveva le sue lettere, i legati tenevano a Lavaur un concilio nel quale il re,
invitato a presentare la difesa del conte di Tolosa, venne minacciato lui stesso di scomunica da
Arnaldo Amalrico. Per la causa della Chiesa in Linguadoca era indispensabile non lasciare al
conte alcuna possibilità di essere reintegrato nei suoi diritti, né in via di principio né di fatto; i
legati preferirono correre il rischio - benché terribile - di una guerra contro il re d'Aragona. A
leggere le loro lettere, i resoconti dei concili e la cronaca di Pietro di Vaux de Cernay sembra
che la vita stessa della Chiesa nel Mezzogiorno della Francia dipendesse dall'eliminazione del
conte di Tolosa. Il fatto è che, meglio informati della situazione di quanto non lo fossero il papa
e il re d'Aragona, essi sapevano che quest'uomo in apparenza pacifico, conciliante, pronto a
qualsiasi forma di sottomissione, era davvero, per la Chiesa, il «leone ruggente» di cui
parlavano nelle loro lettere; il loro accanimento si spiega solo con la conoscenza che essi
avevano del carattere del conte, che hanno giudicato meglio di quanto non l'abbia fatto la
maggior parte degli storici dei secoli successivi. Questo «protettore di eretici» era fermamente
deciso a rimanere tale sino alla fine, contro qualsiasi avversità: che abbia agito in questo modo
per simpatia personale, o più verosimilmente per spirito di giustizia, Raimondo Sesto
rappresentava per gli eretici una garanzia di sicurezza, un appoggio sicuro. Su questa questione
egli non si sarebbe mai piegato. Questo 'debole' verosimilmente era solo un diplomatico
flessibile, realista, estremamente tenace, che non si lasciava intimidire facilmente. Raimondo
Sesto capiva, forse meglio di chiunque altro, che la Chiesa era una potenza praticamente
invincibile, contro la quale si poteva lottare solo con una sottomissione il più possibile
spettacolare. Avrebbe rinunciato a quest'atteggiamento di sottomissione solo il giorno in cui i
cattolici del suo paese avessero visto nella sua causa la causa di Dio e del buon diritto.
3. IL RE D'ARAGONA.
Avendo trascinato il re d'Aragona in un'impresa che, con grande scandalo dell'opinione
pubblica, faceva del cattolicissimo Pietro Secondo il protettore dell'eresia, il conte di Tolosa
poteva sperare, non senza ragione, che la guerra che gli si faceva cambiasse volto: una 'guerra
santa' condotta contro un'eresia della quale i belligeranti stessi sembravano non preoccuparsi
più sarebbe divenuta una pura e semplice guerra di conquista, condotta da un avventuriero
senza scrupoli su di una terra cristiana e alimentata da pochi prelati ambiziosi.
Il papa ebbe forse un attimo di incertezza. Disingannato dai legati che, bisogna crederlo, non
esitavano a rendere più cupo il quadro della situazione per giustificarsi, Innocenzo Terzo fece
voltafaccia e rimproverò l'orgoglioso re d'Aragona come un bambino indisciplinato,
aggiungendo (lettera del 21 marzo 1213): «Questi sono gli ordini ai quali la Tua Serenità è
invitata a conformarsi esattamente; in caso contrario... noi saremo costretti a minacciarti
dell'indignazione divina e a prendere contro di te misure che ti provocheranno un grave e
irreparabile danno».
Pietro Secondo, offeso o forse indignato per l'ingratitudine di un papa che aveva sempre
servito fedelmente (e tanto più scontento in quanto Innocenzo Terzo aveva rifiutato di dare
seguito alla causa di divorzio da lui intentata contro sua moglie, Maria di Montpellier), non
tenne alcun conto di queste minacce. Aveva già iniziato i preparativi di guerra, ben sapendo che
il Montfort poteva essere tenuto a bada solo con la forza. Ricevette la lettera del papa a Tolosa,
dove stava concentrando le sue truppe; formalmente promise di obbedire, ma non fu nemmeno
sfiorato dal pensiero di abbandonare i suoi alleati. Le forze del re d'Aragona, unite a quelle dei
baroni occitani, erano di gran lunga superiori a quelle del Montfort e, nella sua saggezza
d'uomo di guerra, Pietro Secondo doveva dirsi che, in fin dei conti, chi vince ha sempre
ragione. «Ha inviato tutta la gente della sua terra - dice la "Chanson" - e così ha messo insieme
una grande e bella compagnia. Ha dichiarato a tutti che vuole andare a Tolosa per combattere la
crociata che devasta e distrugge interamente quella contrada. Il conte di Tolosa lo ha implorato
che la sua terra non sia bruciata né saccheggiata, poiché egli non ha fatto torto né ha colpa verso
nessuno al mondo (26).» Pietro Secondo fece poi ritorno a Barcellona, dove arruolò un esercito
di mille cavalieri; alla campagna avrebbero partecipato i migliori guerrieri di Aragona e
Catalogna. Dobbiamo supporre che il re - che per usare la terminologia del diciassettesimo
secolo era un 'glorioso' - vedesse in questa guerra qualcos'altro che una occasione per mettere le
mani sulla Linguadoca: il re e i suoi cavalieri andavano a difendere la gloria della cavalleria
occitana umiliata dai Francesi del Nord, la libertà dei loro fratelli e la causa del 'Paraggio' -
'Cortesia' in lingua d'oc. Questa parola, il cui senso, come quello di tante altre, si è
singolarmente indebolito e impoverito nel corso dei secoli, all'epoca evocava i più alti valori
morali della società laica: il più grande elogio che il più appassionato degli amanti potesse fare
alla sua dama era di dire che era 'cortese'; e i cavalieri descritti dal continuatore di Guglielmo di
Tudèle, nella "Chanson", invocano incessantemente 'Paraggio' come fosse una divinità.
Le canzoni dei trovatori testimoniano questa atmosfera spirituale. L'abbia voluto o no, il re
lottava per la sopravvivenza di una cultura, di una tradizione nazionale. «... Allora dame e
amanti potranno ritrovare la gioia perduta», canta Raimondo di Miraval auspicando la vittoria
di Pietro Secondo. Viene da chiedersi che cosa dame e amanti avessero a che fare con questa
avventura cruenta, ed è evidente che non si trattava solo di famiglie separate e di cavalieri
condannati all'esilio: era un intero stile di vita che veniva minacciato di distruzione, uno stile di
vita nel quale l'amor cortese, con i suoi fasti, le sue raffinatezze, la sua audace mistica e il suo
eroismo smisurato, valeva da simbolo di una società avida di libertà spirituale.
Secondo Guglielmo di Puylaurens (27), alla vigilia della battaglia di Muret Simone di
Montfort avrebbe intercettato una lettera del re d'Aragona a una nobildonna di Tolosa, nella
quale il re affermava che solo per amore di lei era venuto a scacciare i Francesi. Se questa
lettera non era indirizzata - come crede Moline de Saint-Yon nella sua "Histoire des comtes de
Toulouse" - a una delle sue sorelle (il re, da uomo feudale, prendeva a cuore gli interessi della
sua famiglia e non ne faceva mistero), un dettaglio del genere non costituirebbe solo una prova
della frivolezza del re d'Aragona: secondo le leggi della tradizione cortese era un onore, per un
cavaliere, poter offrire alla dama dei suoi pensieri l'omaggio di una grande impresa compiuta in
suo nome. E anche supponendo che le intenzioni non dichiarate di Pietro Secondo non siano
state puramente cavalleresche, quel che ci interessa è l'atmosfera nella quale si svolsero i
preparativi di questa campagna militare; ed è certo che, sia fra gli uomini più vicini al re
d'Aragona, sia fra i suoi alleati, i combattenti erano consapevoli di combattere per una bella
causa, per 'Paraggio', per la civiltà (ma il termine è anacronistico) contro la barbarie delle
popolazioni del Nord. Bisogna ammettere che Simone di Montfort non dava ai suoi nemici
un'idea molto lusinghiera delle qualità morali della cavalleria francese; ma il fatto significativo
è che la Chiesa cattolica si trovasse ora dalla parte dei barbari.
Quando i vescovi che accompagnavano il Montfort, spaventati dalla imponenza dell'esercito
che si stava preparando a marciare contro di loro, tentarono di negoziare, il re si rifiutò di
riceverli, dichiarando che prelati scortati da un esercito non avevano alcun bisogno di
salvacondotto: non avrebbe potuto esprimere loro più chiaramente il disprezzo che gli ispirava
questa guerra che continuava a volersi avvantaggiare della sua equivoca 'santità'. Egli non
aveva impegnato tutti i suoi beni, non aveva condotto a Tolosa il meglio della sua cavalleria per
sentirsi dire che, combattendo Simone di Montfort, combatteva il Cristo in persona. Ma questo
era quanto credevano, o volevano credere, i suoi avversari. Simone di Montfort era intimorito
perché in quel momento - siamo nel settembre 1213 - oltre alla sua vecchia guardia, disponeva
solo di modesti rinforzi portati dai vescovi di Orléans e di Auxerre; e l'esercito che gli si parava
di fronte contava oltre duemila cavalieri e circa cinquantamila fanti reclutati soprattutto nella
Linguadoca, "routiers" e milizie cittadine, specie di Tolosa e Montauban.
Entrato a Tolosa da trionfatore, acclamato, festeggiato, Pietro Secondo si preparò a marciare
contro il Montfort e si accampò davanti a Muret, «castello nobile, ma abbastanza debole che,
malgrado le sue modeste fortificazioni, era difeso da trenta cavalieri del Montfort e da pochi
fanti» (Pietro di Vaux de Cernay). L'assedio cominciò il 30 agosto: Simone di Montfort,
informato, accorse alla testa delle sue truppe. Durante il cammino, sentendo la gravità del
momento, si fermò all'abbazia cistercense di Bolbonne e consacrò a Dio la sua spada: «O buon
Signore, benigno Gesù! Tu mi hai scelto, malgrado fossi indegno, per condurre la tua guerra. In
questo giorno, io ricevo le mie armi sul tuo altare perché, combattendo per te, ne riceva
giustizia in questa causa (28)». Manifestazione di pietà quantomai opportuna: prive di fiducia
nella loro forza numerica, le sue truppe avevano bisogno dell'esaltazione data dalla certezza di
battersi per Dio.
Ma, come abbiamo visto, i vescovi (i vescovi di Orléans e di Auxerre, e Folco, il fuggitivo
vescovo di Tolosa, compagno inseparabile dei crociati) non speravano troppo in un miracolo e,
dopo aver nuovamente scomunicato i loro avversari - fra i quali il re d'Aragona non veniva
espressamente nominato - cercarono di farli desistere. Fu il Montfort a tagliar corto con le
trattative, sapendo che non sarebbero servite a nulla.
Il 12 settembre si diede battaglia. Simone sapeva che il suo esercito non poteva correre il
rischio di essere accerchiato e che, ricacciato nel castello di Muret, doveva tentare di dividere
gli avversari con un attacco fulminante: «... Se non riusciamo ad allontanarli dalle loro tende,
non ci resta che scappare (29)», disse al consiglio di guerra.
I suoi avversari avevano solidamente stabilito il loro campo sulle alture dominanti la piana, a
tre chilometri circa dal castello, situato sulla riva della Garonna. Raimondo Sesto, che
conosceva Simone, propose di attendere l'attacco nel campo, di respingerlo dapprima con il tiro
dei balestrieri, per poi attaccare, accerchiando i nemici nel castello, dove avrebbero
rapidamente capitolato. Il consiglio era buono, ma non venne seguito. Il conte di Tolosa si
trovava in una situazione sfortunata: per una volta che, in questa guerra nella quale era il
maggiore interessato e la principale vittima, aveva l'occasione di prendersi la rivincita, non gli
si riconosceva il diritto di parola. I familiari del re (in particolare Michele di Luezia) derisero il
suo piano e l'accusarono di vigliaccheria. Irritato, Raimondo Sesto si ritirò nella sua tenda.
Abbandonando il suo campo fortificato e perdendo quindi il controllo delle operazioni,
Pietro Secondo realizzò i voti di Simone di Montfort. Il re-cavaliere voleva una battaglia nella
quale il suo esercito potesse misurarsi con l'invincibile cavalleria francese che - egli credeva -
fino a quel momento non aveva incontrato avversari alla sua altezza: voleva schiacciarla in
aperta campagna. Quando Simone attaccò, le truppe del conte di Foix gli si lanciarono contro
per prime, ma dovettero presto ripiegare di fronte alla violenza della carica francese. Allora
Pietro Secondo si gettò nella mischia con i suoi Aragonesi.
Simone, che disponeva appena di novecento cavalieri contro duemila, manovrò con grande
abilità, in modo da non lasciare alle truppe nemiche il tempo di riorganizzarsi e di conservare,
in questo modo, il vantaggio numerico in ogni singolo attacco: concentrò tutti i suoi sforzi
contro le truppe aragonesi e lo scontro fra i due eserciti fu terribile. «Si sentiva - dirà più tardi il
giovane Raimondo Settimo - come una foresta d'alberi che crollano sotto i colpi della scure
(30)». Fu una mischia inestricabile, nella quale le lance e gli scudi volavano in pezzi, i cavalli
crollavano a terra calpestando i cavalieri, le spade ferivano, tagliavano, risuonavano sul ferro
degli elmi, le mazze fracassavano le teste, e il rimbombare delle armi copriva le grida di guerra.
Non fu, ciononostante, una gran battaglia, ma semmai un confronto molto vivace fra due
avanguardie relativamente poco numerose. Sfortuna volle che alla testa di una di queste si
trovasse proprio il re.
L'obiettivo di Simone di Montfort era di colpire il re a ogni costo: due dei suoi cavalieri,
Alano di Roucy e Fiorenzo di Ville, avevano solennemente giurato di uccidere il re oppure di
morire. Ora Pietro Secondo, dando prova di coraggio più che di abilità, si era lanciato a corpo
morto nella mischia; prima del combattimento aveva addirittura scambiato l'armatura con uno
dei suoi cavalieri: aveva voluto affrontare Simone da semplice cavaliere, con la sola forza delle
sue armi.
Pietro Secondo aveva trentanove anni; era di taglia imponente, possedeva una forza erculea e
passava per il miglior cavaliere del suo paese. Alano di Roucy, essendo riuscito ad aprirsi un
varco sino al cavaliere che indossava l'armatura reale, lo atterrò al primo colpo e gridò: «Non è
il re! Il re è un cavaliere migliore di questo!». Vedendo la scena, Pietro Secondo gridò: «Ecco il
re!», e si lanciò in soccorso del suo compagno (31). Alano di Roucy e Fiorenzo di Ville, con i
loro uomini, lo circondarono da ogni lato senza farlo scappare: presto si scatenò un
combattimento così accanito che Pietro Secondo venne ucciso e tutta la sua "maynade" (i
cavalieri della casa d'Aragona) si fece ammazzare piuttosto che ritirarsi e abbandonare il corpo
del re.
La notizia della morte del re diffuse il panico negli altri corpi d'armata. Sorpresi da un
attacco laterale del Montfort, i cavalieri catalani si diedero alla fuga; l'esercito del conte di
Tolosa non aveva ancora attaccato quando, sommerso dall'ondata degli Aragonesi e dei Catalani
che si ritiravano disordinatamente, non poté nemmeno pensare all'attacco e fuggì a sua volta.
Mentre la cavalleria veniva messa in rotta, la fanteria, composta di milizie tolosane, tentò
l'assalto al castello di Muret. Ma parte della cavalleria francese rinunciò a inseguire i vinti,
ritornò al castello e piombò sui fanti (erano circa quarantamila), facendoli a pezzi e spingendoli
verso la Garonna: in quel punto l'acqua era profonda e la corrente rapida, così moltissimi
fuggiaschi finirono annegati. Massacrati o annegati morirono fra quindicimila e ventimila
uomini, ossia la metà della fanteria.
La vittoria del Montfort era totale. Anzi, era più di una vittoria: era l'eliminazione, almeno
provvisoria, dell'Aragona come potenza politica. La morte di Pietro Secondo lasciava sul trono
un fanciullo in tenera età, tenuto in ostaggio dal vincitore.
Terminata la battaglia, Simone fece cercare il corpo del re, che fu difficile trovare, perché la
fanteria francese aveva già completamente spogliato i cadaveri. Fattolo riconoscere, gli rese un
estremo omaggio, poi, scalzo, lasciate ai poveri le sue armi e il suo cavallo, andò in chiesa per
ringraziare Dio. In poche ore di parapiglia, dalle quali il suo esercito usciva senza grandi
perdite, non solo si era sbarazzato del suo avversario più potente, ma aveva abbattuto uno dei
grandi re della cristianità senza che nessuno potesse imputargli come crimine questa morte
tanto opportuna: la battaglia di Muret valeva da giudizio di Dio.
Il vescovo e i chierici - fra i quali si trovava san Domenico - riuniti nella chiesa di Muret, nel
frastuono della battaglia avevano ardentemente pregato per la vittoria; vedendo le loro
preghiere così bene esaudite, si impegnarono a diffondere la grande notizia in tutta la
cristianità: le forze eretiche erano state spazzate via «come il vento spazza la polvere sulla
superficie della terra» (Guglielmo di Puylaurens); un re cattolico, che aveva osato prendere la
difesa dei nemici della fede, era stato ucciso con tutta la sua cavalleria, un immenso esercito era
stato annientato in poche ore da un manipolo di crociati le cui perdite (miracolo!) ammontavano
a qualche sergente e un solo cavaliere! (Esagerazione manifesta: il combattimento, secondo
tutte le testimonianze, era stato acceso e Pietro Secondo con la sua "maynade" non si era certo
lasciato sgozzare come un agnello; d'altra parte, le truppe aragonesi e quelle del conte di Foix
erano state le sole a battersi, quindi le forze effettivamente scontratesi erano sostanzialmente
uguali; il genio strategico di Simone, e soprattutto la sua temerarietà un po' crudele nell'ordinare
l'uccisione del re, avevano impedito al resto dell'esercito di intervenire in tempo, e due terzi
dell'esercito alleato avevano lasciato il campo senza combattere.) La morte del re d'Aragona
lasciò l'intera Linguadoca nello sconforto; quel liberatore che solo il giorno prima era stato
tanto acclamato, che aveva appena attraversato il paese alla testa della sua superba cavalleria,
scintillante per il bagliore delle armi e pronta al combattimento, si era rivelato un aiuto tanto
fragile che il Montfort, al primo scontro, aveva potuto annientarlo.
I principi alleati, disorientati, si accusarono a vicenda di tradimento, e si ritirarono senza
tentare di riunire le forze per prendersi la rivincita. Gli Spagnoli riattraversarono i Pirenei, i
conti di Foix e di Comminges fecero ritorno alle loro terre, il conte di Tolosa e suo figlio
abbandonarono il loro paese, rifugiandosi in Provenza. La vittoria di Muret lasciò al Montfort e
alla Chiesa un paese non ancora vinto, ma demoralizzato per il crollo troppo brutale di una
grande speranza.
Tutto sommato, in questa vicenda era stata la città di Tolosa a pagare il più alto tributo in vite
umane, e di gran lunga. Il forsennato attacco della cavalleria francese contro la fanteria tolosana
era stato un massacro più che una battaglia, e se i Francesi dovevano vendicare due dei loro
(Pietro di Cissey e Ruggero di Essart, vecchi compagni del Montfort, condotti a Tolosa come
prigionieri e torturati crudelmente prima di essere uccisi), Tolosa, «dove non c'era casa che non
piangesse qualcuno», non avrebbe dimenticato gli uomini trucidati e annegati a Muret.
All'indomani della sua vittoria, Simone non marciò sulla capitale. Sembra che quella grande
città, per quanto desolata, sgomenta, abbandonata dai suoi difensori, rappresentasse agli occhi
del vincitore se non un pericolo, almeno una difficoltà che egli non si sentiva ancora in grado di
affrontare.
Vi sarebbero entrati i vescovi, Folco in testa, che cercarono di negoziare la sottomissione
della città. I consoli tirarono per le lunghe le trattative, discutendo sul numero degli ostaggi, e
finirono per rifiutare la sottomissione. Il Montfort, tuttavia, attraversò il Rodano, per proseguire
la conquista e il sistematico assoggettamento dei domini del conte, aspettando che, domate le
altre province, Tolosa gli cadesse in mano come un frutto maturo.
Durante i diciotto mesi che seguirono la spettacolare disfatta delle truppe meridionali,
Simone di Montfort poté credere che la guerra fosse praticamente terminata; incontrò resistenze
rare e rapide a piegarsi. Tuttavia si trovò di fronte a un'ostilità sorda e sistematica, che non
doveva lasciargli molte illusioni: Narbonne gli chiuse le porte in faccia, Montpellier fece
altrettanto, Nîmes lo ricevette solo dietro minaccia di rappresaglia; in Provenza, dove proseguì
il suo piano di progressiva occupazione dei domini del conte di Tolosa, la nobiltà del paese si
sottomise, ma di mala voglia; Narbonne si sollevò e Simone, con l'aiuto dei crociati portatigli
dal suocero Guglielmo di Barres, riuscì a respingere l'attacco dei rivoltosi, ma non a espugnare
la piazzaforte, perché il cardinale legato Pietro di Benevento si intromise e ottenne una tregua.
A Moissac la popolazione si rivoltò e Raimondo Sesto cinse d'assedio la città, tenuta da una
guarnigione francese; ma all'arrivo del Montfort si ritirò. Risalendo nel Rouergue, nell'Agenais
e nel Périgord, Simone procedette allo smantellamento dei castelli che gli avevano resistito,
espugnò, dopo tre settimane di assedio, quello di Casseneuil, poi quelli di Montfort e di
Capdenac; poi Séverac, piazzaforte inespugnabile, cittadella di una delle più vecchie famiglie
del Rouergue; il conte di Rodez prestò giuramento al vincitore di Muret, senza eccessivo
entusiasmo, e ricordando che parte dei suoi domini dipendeva dal re d'Inghilterra.
Avendo ottenuto l'omaggio della maggior parte dei vassalli diretti e indiretti del conte di
Tolosa, dal Périgord alla Provenza, Simone di Montfort avrebbe eguagliato in potenza i più
grandi baroni della cristianità se i giuramenti di fedeltà ricevuti fossero stati presi sul serio da
quanti li prestavano. A leggere la storia delle sue campagne si potrebbe crederla abbellita da
qualche panegirista poco rispettoso della verità, ma gli autori della "Chanson" (che non possono
essere annoverati fra i suoi amici), le lettere dei legati, del papa, del re di Francia, tutte le
testimonianze concordano nel confermare un fatto, a priori poco credibile: Simone di Montfort,
dal 1209, non aveva subito una sola vera sconfitta, era passato di vittoria in vittoria, per cinque
anni, con una costanza quasi monotona. Si può immaginare la rassegnata esasperazione dei suoi
avversari di fronte alla costante buona sorte di quest'uomo che, protetto da Dio o dal diavolo,
pareva decisamente dotato di qualche potere sovrumano.
L'odio che ispirava - e del quale beneficiavano al contempo tutti i Francesi - aumentava
senza che il suo potere ne uscisse diminuito. I massacri delle guarnigioni venivano repressi con
una crudeltà tale che divenivano sempre più rari, ma le popolazioni della Linguadoca, lasciando
che gli occupanti dettassero legge in casa loro, dovevano pensare che ad attendere non ci
rimettevano nulla. Solo qualche indizio, qualche fatto riportato casualmente dai cronisti, ci
lascia intuire quale fosse la violenza delle passioni scatenate da questa guerra; gli atti ufficiali
registrano pacificazioni e sottomissioni, perché i vincitori già cercavano di regolare i conflitti
per via diplomatica e si spartivano un paese nel quale si trovavano solo a titolo di provvisori
occupanti. Il poeta della "Chanson" attribuisce a Filippo Augusto delle parole che egli forse non
ha mai pronunciato, ma che esprimono con grande efficacia i desideri delle popolazioni
meridionali in quegli anni bui: «Signori, conservo ancora la speranza che, senza troppo
attendere, il conte di Montfort e suo fratello, il conte Guido, moriranno fra molte sofferenze...»
Nel frattempo fu il papato, nella persona del nuovo legato Pietro di Benevento, che si incaricò
di organizzare la conquista; e, di fronte alle crescenti pretese del Montfort e all'odio implacabile
che ispirava ovunque, cercò di prendere le distanze, nella misura del possibile, da
quest'imbarazzante collaboratore. D'altro canto, i più accesi partigiani di Simone erano i
vescovi del paese, perché la sua presenza assicurava quella sicurezza e quei vantaggi materiali
che il conte non avrebbe mai riconosciuto loro; i legati, quindi, dovettero usare dei riguardi
verso il solo uomo capace di difendere con le armi i diritti della Chiesa. Fu Roberto di Courçon,
cardinale legato di Francia, a confermare il Montfort nel possesso del paese che aveva
conquistato: l'Albigeois e l'Agenais, il Rouergue e il Quercy, terre indirettamente sottoposte alla
sovranità di Filippo Augusto. Vale la pena di notare che il re, apparentemente, si disinteressò
della questione: all'indomani di Bouvines aveva ben altre preoccupazioni, e si sarebbe
pronunciato solo il giorno in cui la situazione di Simone gli sarebbe parsa abbastanza solida.
Pietro di Benevento, per parte sua, volle sottomettere alla Chiesa i legittimi possessori delle
terre che il Montfort si era accaparrato per diritto di conquista: Raimondo Ruggero, conte di
Foix, Bernardo, conte di Comminges, Emerico, visconte di Narbonne, Sancio, conte di
Roussillon, i consoli e infine lo stesso conte di Tolosa si recarono da lui, fecero atto di totale
sottomissione alla Chiesa e al suo legato, promisero di combattere l'eresia sulle loro terre, di
fare penitenza e di non attaccare i territori conquistati dai crociati (Narbonne, aprile 1214). Il
conte di Tolosa acconsentì ad abbandonare i suoi domini e ad abdicare in favore del figlio; ma
fu un'abdicazione puramente formale, dato che il giovane Raimondo era affezionatissimo al
padre e pronto a obbedirgli in tutto.
Il conte moltiplicò le sue testimonianze di obbedienza e di sottomissione, nella speranza di
togliere alla Chiesa qualsiasi pretesto per spodestarlo. E mentre Simone si insediava nella
Linguadoca come un padrone, Raimondo continuava a proclamarsi legittimo signore di quelle
province, mettendole a disposizione del papa: «Di modo che tutti i miei domini siano
sottomessi alla misericordia e al potere assoluto del sovrano pontefice della Chiesa romana...».
Né lui né il conte di Foix rinunciarono a questa tattica, abile se non efficace: trattare il Montfort
da usurpatore, riconoscendo al contempo la sovranità della Chiesa.
Il cardinale legato accettò questa sottomissione che, dopo tutto, rappresentava un'implicita
negazione delle pretese del Montfort. L'averlo fatto apparve un tale attentato ai diritti del
vincitore di Muret che i suoi fautori, cui Pietro di Vaux de Cernay dà voce, spiegano
l'atteggiamento di Pietro di Benevento come una pia frode, destinata a far cadere i sospetti del
conte. «O legati fraus pia! O pietas fraudolenta! (32)», esclama lo storico, senza alcuna ironia.
Questo singolare cattolico dà più volte prova di un'amoralità abbastanza gustosa. Se i capi della
Chiesa non avevano maggiori scrupoli (il loro comportamento lo dimostra abbastanza
chiaramente), forse avevano timori di altra natura, ossia pensavano che un uomo come Simone
di Montfort, con i suoi eccessi, potesse nuocere alla causa della Chiesa, restringendone il potere
temporale con la sua ambizione.
Nel dicembre 1213 Simone aveva concordato il matrimonio del suo primogenito, Amalrico,
con Beatrice, figlia unica di Andrea di Borgogna, destinata a ereditare il Delfinato; le sue mire
politiche e dinastiche divenivano sempre più evidenti. E mentre i suoi avversari, alla curia di
Roma, si lagnavano di lui e proclamavano (spesso contro ogni evidenza) che né loro né le loro
terre erano mai stati sospettati di eresia, il Montfort e i vescovi della Linguadoca, schierati al
suo fianco, vedevano eresia (o, qualora mancassero gli eretici, vedevano soldati di ventura)
ovunque intendessero stabilire il loro dominio.
Il concilio di Montpellier (gennaio 1215), presieduto da Pietro di Benevento, regolò
provvisoriamente la situazione, in attesa del concilio ecumenico che doveva tenersi a Roma,
quello stesso anno. Alla presenza degli arcivescovi di Narbonne, di Auch, di Embrun, di Arles e
di Aix, di ventotto vescovi e di numerosi abati e chierici, il legato propose di indicare colui «al
quale meglio e più utilmente, per l'onore di Dio e di nostra santa madre Chiesa, per la pace di
queste contrade, per la rovina e lo sterminio dell'eretica insolenza, convenisse concedere e
assegnare Tolosa, già posseduta dal conte Raimondo, e le altre terre delle quali l'esercito
crociato si era impadronito (33)». I prelati consultati designarono Simone di Montfort
all'unanimità; un'unanimità che sorprende solo Pietro di Vaux de Cernay, incline a vedere
dappertutto la mano di Dio. Ora, l'uomo cui «conveniva» tenere Tolosa e le altre terre del paese
vi era così unanimemente detestato che non poteva assistere personalmente al concilio: gli
abitanti di Montpellier (città cattolica, e in via di principio neutrale) gli avevano vietato
l'accesso, e il giorno in cui tentò di entrare insieme al legato venne accolto così bene che
dovette mettersi al sicuro in fretta, passando per un'altra porta.
La decisione del concilio spodestava il conte di Tolosa e suo figlio, ma conferiva a Simone
solo il titolo alquanto vago di «signore e unico capo» ("dominus et monarcha"), una sorta di
luogotenente del papato, incaricato di funzioni poliziesche all'interno dello stato appena
conquistato. Simone avrebbe voluto ottenere di più, mentre il conte di Tolosa, appoggiato da
suo cognato, zio di suo figlio, Giovanni Senzaterra, attendeva la riunione del concilio
ecumenico per far valere i suoi diritti.
Nel febbraio 1214 accadde un episodio significativo della guerra sorda e instancabile che si
svolgeva nel paese, alle spalle dei prelati occupati a legiferare e di Simone, impegnato a
rafforzare le basi della sua dominazione. Baldovino di Tolosa, il fratello di Raimondo Sesto che
si era alleato con il Montfort, cadde vittima di un complotto, o meglio, di un colpo di mano.
Tutti quanti vi presero parte apparentemente lo fecero nella comune certezza di compiere il loro
dovere di patrioti; e tuttavia Baldovino venne catturato e consegnato da dei signori che avevano
giurato, secondo le formule dovute, la loro sottomissione al Montfort. Baldovino di Tolosa
aveva ricevuto da Simone le terre del Quercy, ne aveva appena preso possesso e si era fermato
al castello di Olme, presso Cahors. Il castellano lo consegnò a Raterio di Castelnau dopo aver
fatto massacrare la sua scorta; il prigioniero fu condotto a Montauban, in attesa del giudizio di
suo fratello, che, informato dell'accaduto, accorse in fretta insieme al conte di Foix.
Il 'conte' Baldovino, questo traditore della causa del suo paese, era stato allevato alla corte
del re di Francia, e di fatto era più francese che tolosano; ciò che, senza scusarla, spiega la sua
condotta. Nato in Francia in un periodo durante il quale suo padre non era in buoni rapporti con
la moglie Costanza di Francia (dalla quale in seguito si sarebbe separato), Baldovino era venuto
a Tolosa solo nel 1194, dopo la morte di Raimondo Quinto, e Raimondo Sesto lo aveva accolto
in modo tale che fu costretto a rientrare a Parigi, per cercare delle lettere che provassero che era
davvero figlio del conte di Tolosa! I due fratelli, separati del resto da una notevole differenza di
età, non avevano trovato alcuna intesa, e Baldovino, trattato da parente povero, doveva essersi
sentito alquanto spaesato alla corte di suo fratello. Era comunque un valoroso cavaliere, e aveva
difeso brillantemente il castello di Montferrand contro il Montfort. Ma, passato dalla parte del
nemico, rimase fedele ai suoi nuovi padroni sino alla fine.
Comunque sia, Raimondo Sesto non mostrò alcuna pietà per questo fratello tanto sfortunato
quanto indegno: arrivato a Montauban, tenne un consiglio di guerra cui parteciparono il conte di
Foix e il cavaliere catalano Bernardo di Portella, e condannò senza esitazioni il traditore
all'impiccagione. Quando Baldovino, buon cattolico, gli chiese di ricevere i sacramenti prima di
morire, Raimondo gli fece rispondere che un uomo che aveva combattuto così bene per la sua
fede non aveva bisogno di assoluzione. Gli fu permesso, però, di confessarsi, ma non di
ricevere la comunione; poi, condotto su di un prato dinnanzi al castello, sotto gli occhi del
fratello venne impiccato a un noce dal conte di Foix in persona, assistito nel compito di boia da
Bernardo di Portella, che con l'esecuzione del traditore intendeva vendicare la morte del re
d'Aragona.
Questa storia crudele mostra che Raimondo Sesto, che due mesi dopo avrebbe offerto con
tanta umiltà la sua persona e i suoi beni alla Chiesa, non era minimamente disposto a rinunciare
alla lotta, ma si limitava ad attendere la sua ora, colpendo ovunque potesse colpire. Facendo
freddamente giustiziare suo fratello per soddisfare l'odio patriottico dei suoi vassalli, obbediva
allo stesso istinto politico che l'avrebbe spinto a proclamare, dinnanzi al papa, la sua devozione
alla Chiesa. Quest'uomo sconcertante seppe farsi amare perché rimase sempre il primo
servitore, più che il padrone, del suo paese.
La punizione di Baldovino provocò nella Linguadoca un'esplosione di gioia e ispirò ai
trovatori canti di trionfo.
Nel frattempo Simone di Montfort, designato dal concilio di Montpellier a tenere «Tolosa e
le altre terre già possedute dal conte», non osava ancora presentarsi dinnanzi alla città. Chiave
della Linguadoca, Tolosa fingeva ancora di ignorare il nuovo sovrano. Simone vi sarebbe
entrato solo accompagnato da un personaggio il cui rango e la cui qualità potevano, in qualche
modo, legittimare una sottomissione che al Montfort sarebbe stata rifiutata.
Filippo Augusto, dopo Bouvines, non doveva più temere i 'due leoni' - Giovanni Senzaterra e
l'Imperatore - che minacciavano le sue province settentrionali, e si decise infine a interessarsi a
quanto accadeva a sud. I domini del conte di Tolosa, nei quali la sua potenza era sempre stata
puramente nominale, facevano parte delle terre dipendenti dalla corona di Francia. Il giorno in
cui credette che il conflitto fosse stato vinto dal Montfort, si preoccupò di sapere se la Chiesa
non avesse oltrepassato i limiti, attribuendo a uno dei suoi vassalli una terra della quale era
sovrano. Si guardò bene dall'andarci di persona, per non essere costretto ad appoggiare con la
sua autorità un'impresa della quale ancora ignorava i vantaggi e le difficoltà future. Mandò, o
meglio lasciò partire, suo figlio, che da tempo manifestava il pio desiderio di partecipare alla
crociata.
Il principe Luigi fece, in un paese in teoria pacificato, un 'pellegrinaggio' e non una
spedizione militare. Portò con sé molti cavalieri - in particolare i conti di Saint-Pol, di Ponthieu,
di Sées e di Alençon - e il suo esercito, pur non avendo intenzioni deliberatamente bellicose, era
destinato a impressionare quanti, fra i baroni occitani, potessero avere l'intenzione di opporsi
all'autorità regale. Per il momento nessuno pensò di fare resistenza: al confronto del Montfort
chiunque sarebbe apparso un buon padrone, e a maggior ragione il «dolce e bonario» Luigi.
Non pare che il principe, in occasione di questa pacifica crociata, sia stato male accolto;
semmai lo si attendeva come arbitro.
Il legato si affrettò a far sapere a Luigi che «non poteva né doveva in alcun modo intaccare
(34)» quanto era stato deciso dai concili, considerato il fatto che le forze della Chiesa avevano
trionfato da sole, senza il minimo soccorso (pur sollecitato innumerevoli volte) del re di
Francia. In effetti, il pio Luigi non assunse alcuna iniziativa in contrasto con le decisioni della
Chiesa, ma nei contrasti che sarebbero seguiti diede semmai ragione al Montfort.
Così, nella controversia che opponeva a Simone di Montfort Arnaldo Amalrico, arcivescovo
di Narbonne, il principe diede il suo sostegno al primo, e ordinò la demolizione delle mura di
Narbonne che l'arcivescovo, d'accordo con i consoli, intendeva invece conservare.
Analogamente, Luigi ordinò di abbattere le mura di Tolosa che, pur provvisoriamente
sottomessa all'autorità della Chiesa, doveva prepararsi a ricevere il suo nuovo padrone. Il papa,
appreso che il figlio del re di Francia era giunto a capo di un esercito per ispezionare le terre
conquistate dalla Chiesa, si era affrettato a confermare a Simone di Montfort la «custodia» di
queste terre, per paura che quest'ultimo, staccandosi dall'autorità di Roma, si facesse accordare
il titolo di conte dal suo legittimo sovrano.
Infine, nel maggio 1215, il principe Luigi, il legato e il Montfort fecero il loro ingresso a
Tolosa, dalla quale il conte Raimondo era partito, non avendo la minima voglia di fare da
ornamento al trionfo del vincitore. Fu stabilito che i fossati della città sarebbero stati colmati,
che le torri, le mura e i trinceramenti sarebbero stati abbattuti sino alle fondamenta; «che nessun
difensore potesse difendervisi con una qualsiasi armatura». Disarmata preventivamente e
trasformata in città aperta nel senso letterale del termine, Tolosa non poté far altro che lasciar
entrare il vincitore; Simone di Montfort vi si insediò ben presto, conservando le fortificazioni
del Castello Narbonese che eresse a sua residenza. Il principe Luigi si ritirò, conclusi i suoi
quaranta giorni, portando come trofeo di questa pia spedizione metà della mascella di san
Vincenzo, venerata a Castres: per ringraziare il principe della sua benevolenza, Simone si era
premurato di ottenere dai religiosi di Castres questa preziosa reliquia, che gli fu data «in
considerazione del vantaggio e dell'avanzamento che egli aveva procurato alla causa di Gesù
Cristo». Simone tenne per sé l'altra metà della mascella e la donò alla chiesa di Laon.
NOTE.
(1) Op. cit., cap. 35, 800-802.
(2) Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., cap. 19.
(3) «Un giorno - racconta Pietro di Vaux de Cernay (Simone allora era assediato a
Castelnaudary) - il nostro conte, uscito dal castello, avanzava per mettere fuori uso la suddetta
macchina da guerra, e poiché i nemici l'avevano circondata di fossati e di ostacoli in modo che i
nostri non riuscivano a raggiungerla, questo prode guerriero, intendo dire il conte di Montfort,
voleva passare a cavallo un fosso molto largo e profondo per affrontare coraggiosamente quelle
canaglie; ma alcuni dei nostri, visto il pericolo inevitabile nel quale si sarebbe cacciato così
facendo, presero per la briglia il suo cavallo e lo trattennero, per impedirgli di esporsi...». Op.
cit., cap. 56.
(4) Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., cap. 86.
(5) Guglielmo di Puylaurens, cap. 19.
(6) Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., cap. 34.
(7) Ivi, cap. 37.
(8) Ibidem.
(9) Ivi, cap. 40.
(10) Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., cap. 33.
(11) Lettera di Innocenzo Terzo all'abate di Cîteaux.
(12) Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., cap. 39.
(13) "Chanson de la Croisade", cap. 59, 1360-1366.
(14) Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., cap. 47. (15) "Chanson de la Croisade", cap. 68,
1552-1553.
(16) Ivi, 1560-1561.
(17) Guglielmo di Puylaurens, cap. 11.
(18) Ibidem.
(19) Pietro di Vaux de Cernay, cap. 51.
(20) Lettera di Innocenzo Terzo ad Arnaldo Amalrico, 15 gennaio 1213.
(21) 16 luglio 1212.
(22) Lettera di Innocenzo Terzo al re d'Aragona, 21 maggio 1213.
(23) "Cronica o commentari del rey en Jac me" (Nouv. éd. de Barcelone).
(24) Lettera dei consoli di Tolosa, Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., Appendice 4.
(25) Lettera di Innocenzo Terzo a Simone di Montfort, 15 gennaio 1213.
(26) Op. cit., CXXXI, 2756-2765.
(27) Guglielmo di Puylaurens, cap. 21.
(28) Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., cap. 71.
(29) "Chanson de la Croisade", cap. 139, 3046-3047.
(30) Guglielmo di Puylaurens, cap. 27.
(31) Si veda l'edizione originale dell'"Histoire du Languedoc" di Dom Vaissette, t. 3, p. 252 e
la nota di A. Molinier nell'edizione del 1879, t. 6, p. 427.
(32) Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., cap. 78.
(33) Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., cap. 81.
(34) Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., cap. 82.
Capitolo sesto

CONSACRAZIONE E SCACCO DELLA CROCIATA.


1. IL CONCILIO LATERANO.
Nel novembre 1215 il papa riunì finalmente il suo concilio ecumenico, il quarto Concilio
Laterano. Questa vera e propria conferenza internazionale, solennemente preparata per due
anni, alla quale presero parte due patriarchi (di Costantinopoli e di Gerusalemme), settantun
arcivescovi, quattrocentodieci vescovi e ottocento abati, nella quale erano rappresentate le
Chiese del Nord e del Sud, d'Occidente e d'Oriente, cui assistettero ambasciatori e delegati dei
re e delle grandi città, non aveva come obiettivo principale di regolare la questione albigese.
Questa questione era, nelle intenzioni del pontefice, uno dei punti secondari e, per così dire, di
ordine amministrativo, che sarebbe stato necessario esaminare alla fine, una volta che il
concilio avesse promulgato quelle risoluzioni che costituivano il vero oggetto di
quest'impressionante riunione di dignitari ecclesiastici.
Tuttavia il problema dell'eresia e dei mezzi per combatterla era di un'attualità bruciante; e
proprio per difendere la Chiesa da questo pericolo - del quale gli avvenimenti della Linguadoca
avevano permesso di misurare la gravità - il concilio stabilì la sua definizione della fede
cattolica e dell'ortodossia. Gli eretici, catari e valdesi - sia quelli della Linguadoca sia quelli dei
Balcani e dell'Italia (nonché degli altri paesi, dove erano meno potenti) - vennero condannati
senza riserve e colpiti da anatema, mentre furono nuovamente definite e confermate le sanzioni
da prendersi contro di loro; la Chiesa impose alle potenze secolari l'obbligo di combattere
l'eresia, sotto pena di scomunica.
I capi temporali che non fossero stati capaci di realizzare questo compito sarebbero stati
dichiarati decaduti dai loro diritti dal papa, che sarebbe stato libero di attribuire i loro domini a
qualsiasi signore cattolico che li volesse. Il concilio non avrebbe potuto approvare in modo più
categorico l'operato dei crociati, né definire in modo più esplicito l'atteggiamento teocratico
della Chiesa. Se il papa non aveva il potere effettivo di spodestare i re, si attribuiva, tramite la
decisione del concilio, il diritto legale di farlo, proclamando la supremazia assoluta dell'autorità
della Chiesa sulla giurisdizione secolare.
Inaugurato l'11 dicembre 1215 dal discorso del papa, del patriarca di Gerusalemme e del
vescovo di Agda, Teodosio (già legato in Linguadoca), il concilio sin dall'inizio si presentò
come una implicita giustificazione dell'opera di Simone di Montfort. Solo il 30 novembre la
questione della definitiva sistemazione della Linguadoca venne trattata ufficialmente. Poiché
questa sistemazione era di grande importanza politica e rivestiva un interesse vitale sia per il
clero occitano sia per i baroni spodestati, divenne oggetto di un'intensa attività diplomatica, che
si protrasse parallelamente ai dibattiti conciliari. Come dice Pietro di Vaux de Cernay, «...
alcuni di quanti assistevano al concilio, anche fra i prelati, essendo nemici dell'interesse della
fede, lavorarono per il reinsediamento dei conti (di Tolosa e di Foix) nei loro domini... (1)».
Le decisioni del concilio, di cui abbiamo già parlato, sembravano approvare
incondizionatamente il principio della crociata che (si credeva) era appena terminata. Ma il
conte di Tolosa non si sentiva ancora sconfitto. Beneficiava dell'appoggio del re d'Inghilterra
(recentemente riconciliatosi con il pontefice), in mancanza di quello del re di Francia; a dire il
vero, si trattava di una carta abbastanza mediocre, poiché il papa teneva maggiormente
all'alleanza con Filippo Augusto che non a quella col debole e capriccioso Giovanni Senzaterra,
e le sue simpatie inglesi semmai danneggiarono Raimondo Sesto. Ma, se non altro, fra i prelati
inglesi poteva annoverare un appassionato difensore nella persona dell'abate di Beaulieu (presso
Southampton). Poteva contare anche sull'appoggio dell'antico legato Arnaldo Amalrico, ormai
arcivescovo di Narbonne e primate della Linguadoca, che poteva essergli tanto più utile in
quanto era stato uno dei capi della crociata. Infine, egli contava sulla sua influenza personale e
sulla forza giuridica dei suoi argomenti. Del resto il conte insisteva sul fatto che, sulla strada
della sottomissione, si era già spinto più avanti di quanto gli si chiedeva: poiché la sua persona,
a torto, sembrava tanto sospetta ai rappresentanti del papa, aveva abdicato, aveva affidato tutte
le sue terre a suo figlio che, considerata la sua giovane età, non poteva suscitare sospetti in
nessuno; chiedeva solo di farlo educare nei sentimenti più cattolici; quanto a lui, intendeva
ritirarsi in Terra Santa o in qualsiasi altro posto. Raimondo Sesto fece venire dall'Inghilterra
questo suo figlio, abbastanza grande per assistere ai dibattiti, abbastanza giovane da intenerire
l'assemblea con la sua grazia adolescenziale. Si può supporre che il papa stesso sia stato toccato
dalla vista di questo giovane principe, nipote di re, che si riteneva necessario immolare alla
ragion di stato. Le testimonianze di simpatia che (secondo la "Chanson") egli rivolse al giovane
non dovevano essere pura ipocrisia.
Innocenzo Terzo (sembrano indicarlo il suo atteggiamento verso Raimondo Sesto e i suoi
successivi voltafaccia nella questione del re d'Aragona) doveva essere entro certi limiti un
uomo impulsivo e influenzabile. E' tuttavia poco probabile che abbia davvero potuto sostenere
il conte di Tolosa, come lascerebbero credere il racconto del continuatore di Guglielmo di
Tudèle, e anche Pietro di Vaux de Cernay, che discretamente lo rimprovera.
L'autore della "Chanson", che è ostile alla crociata e che, d'altra parte, sembra ben informato
sui dibattiti che precedettero la decisione finale del concilio, ha tutto l'interesse a mettere in
bocca al papa (un papa ormai morto, quando scrive) parole di condanna per Simone di
Montfort. In realtà, le esitazioni di Innocenzo Terzo, siano state di ordine sentimentale o
diplomatico, non potevano che essere un artificio destinato ad attenuare la sua responsabilità in
una vicenda nella quale - come ben sapeva - veniva leso il diritto comune a vantaggio della
dittatura della Chiesa. Avendo fatto erigere a legge il principio tramite il concilio, non poteva
sinceramente condannarne l'applicazione pratica. Tuttavia, il racconto di questi dibattiti
offertoci dalla "Chanson" deve corrispondere, in linea generale se non nei dettagli, alla verità.
L'avvenimento che essa riporta è di tale importanza per tutti gli interessati, tante persone vi
avevano assistito, una tale pubblicità deve essergli stata data da ambo le parti, che l'autore, al
massimo, poté rimaneggiare un po' il discorso nel senso favorevole alla sua tesi. La descrizione
del papa commosso e turbato dai dibattiti, che esce per rilassarsi nel suo giardino, dove viene
seguito e molestato dai vescovi occitani che parlano tutti insieme, accusandolo di favorire
eccessivamente i conti, non ha nulla dell'epica cavalleresca e sembra presa dal vivo. Ed è certo
che l'atteggiamento del papa poté prestarsi a degli equivoci.
Ritenendo più utile la sua presenza in Linguadoca, Simone di Montfort non era venuto di
persona, ma aveva mandato al concilio suo fratello Guido; sapeva del resto che non gli
mancavano buoni avvocati: tutto l'alto clero della Linguadoca era dalla sua parte. Poiché
l'assemblea del concilio era formata da prelati, la causa del conte Raimondo andava considerata
persa in partenza, dal momento che la solidarietà ecclesiastica doveva necessariamente giocare
in favore del partito sostenuto dai vescovi.
Il conte di Tolosa, indubbiamente stimandosi personaggio di rango troppo elevato per
perorare la sua causa, affidò il compito di difenderlo al conte di Foix: Raimondo Ruggero, buon
retore oltre che valoroso combattente, si mostrò molto più combattivo del suo sovrano. Ma tutti,
sia il conte di Foix sia il conte di Tolosa sia il conte di Béarn, proclamarono di non aver mai
tollerato né incoraggiato l'eresia. «... Posso sinceramente giurare - disse Raimondo Ruggero -
che non ho mai amato gli eretici, che respingo la loro compagnia, che il mio cuore non si
accorda affatto con il loro. Poiché la santa Chiesa trova in me un figlio obbediente, sono venuto
alla tua corte [quella del papa] per essere giudicato lealmente, io e il mio potente signore,
nonché suo figlio, che è bello, buono, giovane, e non ha fatto torto a nessuno... Il conte mio
signore, cui appartengono queste grandi terre, si è rimesso alla tua discrezione, consegnandoti
la Provenza, Tolosa e Montauban, i cui abitanti furono poi affidati al peggior nemico, al più
crudele, a Simone di Montfort, che li incatena, li impicca, li stermina senza pietà... (2)».
Il conte di Foix alterava i fatti almeno su di un punto, dal momento che sua sorella e sua
moglie erano divenute 'perfette' e vivevano in conventi catari, che l'altra sua sorella era valdese,
e che la valle dell'Ariège era nota come una delle regioni più 'eretiche'. Glielo fece notare Folco,
il vescovo di Tolosa, senza peraltro che il conte ne fosse minimamente turbato. Folco, per
provocare l'indignazione dell'uditorio, parlò di «... pellegrini uccisi e fatti a pezzi dal conte,
tanto numerosi che il campo di Montgey ne è ancora coperto, che la Francia ancora li piange e
che tu [il conte?] ne sei disonorato! Là fuori, davanti alla porta, si odono tali lamenti e grida di
ciechi, di proscritti, di mutilati incapaci di camminare senza guida, che chi li ha uccisi, storpiati,
mutilati non merita più di possedere delle terre!». (Folco alludeva al massacro, compiuto dal
conte di Foix presso Montgey, di un contingente di crociati tedeschi.) Raimondo Ruggero
protestò con veemenza, riportando la discussione sul suo vero terreno: disse di non avere mai
attaccato «buoni pellegrini... religiosamente in marcia verso qualche luogo santo. Ma quanto a
quei ladri, quei traditori senza onore e senza fede, portatori di questa croce che ci ha oppresso, è
vero che io e i miei uomini non ne abbiamo preso nessuno che non abbia perso gli occhi, i
piedi, le mani o le dita (3)». Ci voleva evidentemente un bel coraggio ad attaccare in questo
modo il principio stesso della crociata: il conte sembrava rifiutarsi di credere che il papa
«galantuomo» che egli implorava avesse promesso la remissione dei peccati a quei «ladri e
traditori». La sua protesta è energica, e pare autentica, considerato che l'accusa di crudeltà
rivoltagli aveva fatto rumore durante il dibattito. Raimondo Ruggero, del resto, contrattaccò con
forza, rivolgendosi proprio al vescovo di Tolosa e accusandolo di essere il principale
responsabile di tutto il male che era stato fatto in Linguadoca: «Quanto al vescovo, che
dimostra tanta veemenza, vi dico che nella sua persona Dio stesso e noi siamo stati traditi...
Quando è stato eletto vescovo di Tolosa, un tale incendio ha infiammato tutta la terra, che mai si
troverà abbastanza acqua per spegnerlo. Ha fatto perdere la vita, il corpo e l'anima a oltre
cinquecentomila persone, più o meno avanti negli anni. Per la fede che vi devo, stando ai suoi
atti, alle sue parole, al suo comportamento egli sembra l'Anticristo più che un legato di Roma!».
Il conte tentò di presentare la crociata come un'impresa banditesca nella quale il papa non
aveva nulla a che vedere. E il papa stesso si sentì in dovere di ricordare che i suoi discepoli
dovevano procedere «illuminati, portando il fuoco, l'acqua, il perdono e la luce, dolce penitenza
e franca umiltà...» aggiungendo: «Che essi portino la croce e la spada». Egli ricordò anche che
in quella guerra, che avrebbe dovuto colpire esclusivamente gli eretici, erano morti anche dei
cattolici. Lasciò parlare gli altri avvocati della difesa, e in particolare Rinaldo, arcidiacono di
Lione (che in seguito sarebbe stato scomunicato per eresia), il quale dichiarò che la Chiesa
avrebbe dovuto proteggere il conte Raimondo: «Il conte Raimondo ha preso la croce sin
dall'inizio, ha difeso la Chiesa ed eseguito i suoi ordini; e se la Chiesa, che dovrebbe
proteggerlo, lo accusa, la colpa ricadrà su di lei, e il suo credito diminuirà...». L'arcivescovo di
Narbonne, a sua volta, supplicò il papa di non lasciarsi influenzare dai nemici del conte. Un
atteggiamento simile da parte dell'uomo che, per anni, aveva dato la caccia a Raimondo Sesto è
sorprendente, ma ben si spiega con il suo odio verso il Montfort. Viene da chiedersi se il papa
accordasse ancora qualche valore alla voce di questo vecchio legato che anteponeva gli interessi
dell'arcivescovado di Narbonne a quelli della Chiesa.
Durante questo dibattito che avrebbe condotto a spodestare il conte di Tolosa e i suoi vassalli
per eresia (o almeno per compiacenza verso l'eresia) non si fece mai questione dell'eresia in
quanto tale: tutti unanimemente la respinsero, e il conte di Foix definì sua sorella (la venerabile
e venerata Esclarmonde) come una «donnaccia peccatrice»; tutti si dissero cattolici
irreprensibili, fiduciosi nella giustizia del papa. Malgrado tutto, quindi, la situazione di
quest'ultimo era abbastanza scabrosa; questo spiega perché egli finse di essersi lasciato forzare
la mano nell'accordare a Simone di Montfort l'investitura richiesta dai suoi fautori, e pretese di
avere ceduto solo di fronte alla voce della maggioranza dei rappresentanti della Chiesa. Tuttavia
è probabile che abbia effettivamente pronunciato le parole seguenti: «Che Simone si tenga le
terre e le governi! Baroni, poiché non posso togliergliele, che le tenga pure, se ne è capace, e
non se le lasci togliere, poiché mai, per mia volontà, si predicherà di andare a soccorrerlo (4)».
Ora, i successori di Innocenzo (che sarebbe morto l'anno seguente) predicarono senza
interruzione crociate in aiuto del Montfort, e più tardi di suo figlio. Il papa doveva essere il
primo a sapere che l'eresia, lungi dall'essere distrutta, si era attirata la simpatia, segreta o
dichiarata, di molta gente che, prima del 1209, probabilmente l'avrebbe condannata. Per far
trionfare la causa della Chiesa poteva contare solo sulla forza delle armi, quindi su Simone di
Montfort. In rapporto al pericolo rappresentato ai suoi occhi dall'eresia, l'ingiustizia fatta al
conte di Tolosa era poca cosa; per questo teorico della teocrazia poteva essere giusto solo
quanto serviva la causa della Chiesa.
Così il concilio stabilì che: «Raimondo, conte di Tolosa, che è stato giudicato colpevole in
questi due articoli e che svariati indizi certi dimostrano incapace di governare il paese nella
fede, sia escluso per sempre dall'esercizio del suo dominio, del quale ha solo fatto sentire
l'eccessivo peso; che risieda in un luogo conveniente, fuori del paese, per farvi degna penitenza
dei suoi peccati; tuttavia che riceva per mantenersi quattrocento marchi d'argento all'anno, fin
quando obbedirà umilmente. Che tutti i domini conquistati dai crociati agli eretici, ai loro
seguaci, a quanti li aiutano e li proteggono, comprese le città di Montauban e di Tolosa, che è la
più corrotta dall'eresia, siano dati al conte di Montfort, uomo coraggioso e cattolico, che più
d'ogni altro si è impegnato in questa vicenda, perché li riceva da coloro dai quali deve riceverli
secondo il diritto. Il resto del paese, non conquistato dai crociati, sarà affidato secondo il
mandato della Chiesa a gente capace di mantenere e difendere gli interessi della pace e della
fede, allo scopo di assegnarlo al figlio unigenito del conte di Tolosa, quando avrà raggiunto l'età
legittima, se si mostrerà tale da meritare di averlo tutto, o solo una parte, come sarà più
conveniente (5)».
Questo decreto è eloquente: mai un vincitore ha imposto al vinto le sue condizioni con
altrettanta arrogante sicurezza. Tramite una soperchieria, della quale i membri del concilio non
sembravano nemmeno coscienti, una vittoria militare dovuta in parte al caso, in parte ai meriti
di un buon condottiero, diveniva la vittoria della verità cristiana sull'errore. La strada era stata
preparata dalle vittorie dei crociati in Terra Santa, durante guerre disumane in quanto agli
infedeli si negava il diritto al nome di uomini; e l'Islam poteva almeno ispirare il rispetto
istintivo dovuto al prestigio di una grande potenza.
In una terra cristiana, la Chiesa si comportava come un giudice che si metta a colpire a
bastonate un imputato, impedendogli di difendersi in nome della sacralità della persona del
giudice. E' abbastanza sorprendente constatare che in questa venerabile assemblea di prelati,
provenienti da tutti i paesi cattolici, ce ne fossero così pochi in grado di comprendere quanto un
atteggiamento simile fosse odioso; di rendersi conto che un giudice del genere si colloca, sul
piano morale, molto più in basso dell'imputato (fosse anche colpevole), e non merita altro che
di vedersi restituire le sue bastonate. Per spiegare un atteggiamento simile bisognerebbe
supporre che l'eresia fosse allora molto più potente e diffusa di quanto i documenti giunti sino a
noi lascino pensare.
Il Concilio Laterano consacrò ed eresse a legge la sconfitta morale della Chiesa. Il papa non
ignorava le atrocità commesse dai crociati. All'indomani della presa di Béziers, l'abate di
Cîteaux gli aveva scritto con terribile franchezza che «"senza riguardo per l'età e il sesso",
vennero passate a fil di spada quasi ventimila di queste persone»; e l'unica reazione del papa era
stata quella di felicitarsi col legato. Le lamentele dei conti, dei consoli, del re d'Aragona, le
relazioni sulle vittorie del Montfort, sui roghi, sui massacri, sulla distruzione di terre e raccolti
erano giunte alla cancelleria della Santa Sede, quindi il papa e i cardinali non potevano
ignorarle; durante il concilio i vescovi avevano sentito le accuse rivolte ai crociati dai baroni
occitani, accuse che nessuno aveva tentato di smentire. Il vescovo di Tolosa si era commosso
per i 'pellegrini' massacrati, ma tutti sapevano che questi 'pellegrini' avevano attaccato per
primi.
Nessuna decisione del concilio biasimava le atrocità commesse dai crociati, nessuna le
proscrisse per il futuro. Al contrario, Simone di Montfort, «uomo coraggioso e cattolico»,
veniva ricompensato per essersi «impegnato più d'ogni altro in questa vicenda», e tutti
sapevano in quale modo l'avesse fatto. Gli scrupoli del papa non provenivano, sembrerebbe,
dall'orrore di fronte al sangue versato, ma dalla riluttanza a maltrattare un personaggio che
poteva avere un certo peso politico. Dopo tutto, il giovane Raimondo era molto meno innocente
dei neonati massacrati a Béziers.
Dopo la decisione del concilio sarebbe ingiusto biasimare il fanatismo di un Folco o di un
Arnaldo Amalrico, la brutalità di un Simone di Montfort: il papa, e la Chiesa per bocca dei suoi
prelati, li avevano assolti dai loro crimini.
Al conte di Tolosa non restava che ritirarsi nel luogo d'esilio «fuori del paese» che gli
sarebbe stato assegnato. Innocenzo Terzo gli rivolse qualche formale espressione di
condoglianza, e si mostrò pieno di riguardi verso il giovane Raimondo, cui consigliò di servire
sempre Dio, lasciandogli la speranza (se dobbiamo credere alla "Chanson") che un giorno
avrebbe riconquistato le terre perdute. Si tratta di una pura e semplice invenzione del cronista,
oppure delle parole di consolazione rivolte a un fanciullo da un uomo avanti negli anni?
Comunque sia, istruito dall'esperienza, il giovane conte non si sarebbe più rivolto alla giustizia
papale per difendere i suoi diritti.
Dopo aver appreso le decisioni del concilio che lo proclamavano padrone delle terre
conquistate, Simone di Montfort, per divenire conte di Tolosa, doveva solo ricevere l'investitura
da parte del re di Francia.
E' significativo che il suo primo atto d'autorità da sovrano (quasi) legittimo fu diretto contro
l'arcivescovo di Narbonne, suo ex alleato e principale artefice della sua nomina. In quanto
possessore dei domini del conte di Tolosa, Simone aveva diritto al titolo di duca di Narbonne. Il
legato, nel 1212, si era attribuito questo titolo; e l'ostilità fra i due uomini si era continuamente
inasprita. Entrambi avevano fatto appello a Roma, e il papa aveva risolto la controversia in
favore dell'arcivescovo (2 luglio 1215). Sappiamo che, giunto al concilio, Arnaldo aveva fatto
di tutto per nuocere alla causa del Montfort. Quest'ultimo non glielo avrebbe perdonato; come
non gli avrebbe perdonato l'arroganza di vantarsi di averlo «colmato di onori», convinto
com'era, non senza qualche ragione, di dovere la sua fortuna a se stesso.
Si affrontarono come due nemici, in un conflitto che dovette riempire di gioia il cuore degli
Occitani; ma l'arcivescovo non aveva la statura per lottare contro il Montfort. Entrato da
padrone a Narbonne, Arnaldo costrinse il visconte Emerico a rendergli l'omaggio, e ordinò di
ricostruire le mura che Simone, d'accordo con il principe Luigi, aveva fatto abbattere. Di fronte
alle proteste del rivale, gli fece rispondere: «Se il conte di Montfort si proverà a usurpare il
ducato di Narbonne, e se opporrà qualche ostacolo alla ricostruzione delle mura della città, io
scomunicherò lui, i suoi sostenitori, e tutti quanti gli daranno aiuto o consiglio». Come
intendere il totale capovolgimento dell'atteggiamento del prelato nei confronti di Simone di
Montfort? Questo vecchio irascibile difese la sua Narbonne con lo stesso ardore con il quale
aveva difeso la Chiesa dall'eresia e, quando Simone entrò di forza nella città, corse con i suoi
soldati a fermarlo, si fece prendere a spintoni dai cavalieri dell'avversario, precipitandosi poi
nella cattedrale per lanciare contro il capo della crociata una sentenza di scomunica, e gettare
l'interdetto su tutte le chiese della città violate dall'usurpatore.
Simone, per parte sua, non si lasciò intimidire, e fece celebrare la messa nella cappella della
cattedrale, facendone suonare a distesa le campane. Ciò significa che la situazione
dell'arcivescovo era compromessa al punto che Simone poteva permettersi di sfidare
apertamente il capo spirituale di quel paese di cui era solo il capo temporale? In ogni caso
quest'episodio ci mostra che il conquistatore, invecchiando, era divenuto troppo collerico e
vanitoso, ebbro del suo potere al punto da colpire ciecamente chiunque gli opponesse
resistenza.
Affermato in questo modo il suo dominio su Narbonne, Simone andò a Tolosa (7 marzo
1216). Costrinse i consoli a prestare giuramento a lui e a suo figlio, Amalrico; mise
definitivamente la città in condizione di non nuocere abbattendo quelle parti di mura che erano
rimaste in piedi, facendo demolire o abbassare le torri dei palazzi borghesi, e togliendo le
catene dagli incroci. Poi fece rinforzare il Castello Narbonese, sua residenza personale,
isolandolo dalla città con un largo fossato, che fu riempito d'acqua. Tutte queste precauzioni
mostrano come, in questa città che di diritto considerava sua, egli più che altrove si sentisse in
un paese nemico.
Infine intraprese il viaggio verso Parigi ove, ormai coperto d'alloro e forte dell'appoggio
della Santa Sede, doveva ricevere la solenne investitura dalle mani del re di Francia.
Indubbiamente, dopo tanti anni di guerra, questo breve soggiorno nella sua terra natale, dove
venne accolto come un eroe nazionale, fu un balsamo per il suo cuore: doveva aver perso
l'abitudine a vedersi ammirato e acclamato. Pietro di Vaux de Cernay, che certo esagera un po',
deve tuttavia basarsi su fatti realmente accaduti quando scrive: «Non è possibile descrivere, e
credere, ascoltandoli, quali onori gli vennero resi in Francia; in tutte le città, i paesi e i castelli
in cui entrava il clero e il popolo gli venivano incontro in processione; la devozione del popolo
era così pia e così religiosa che chi riusciva a toccare un lembo del suo mantello si diceva
fortunato (6)». Trascinato dal clero, il popolo vedeva in lui un nuovo san Giorgio, lo
sterminatore del dragone dell'eresia.
Il re, «dopo una conversazione gioiosa e molto familiare» (Pietro di Vaux de Cernay), gli
accordò l'investitura. Nell'editto di Melun, del 10 aprile 1216, veniva annunciato quanto segue:
«Abbiamo ricevuto come uomo a noi ligio il nostro caro e fido Simone, conte di Montfort, per
il ducato di Narbonne, la contea di Tolosa, le viscontee di Béziers e di Carcassonne, ossia: per i
feudi e le terre che Raimondo, un tempo conte di Tolosa, aveva in nostro nome, e che sono state
conquistate agli eretici e ai nemici della Chiesa di Gesù Cristo».
Così facendo il re si sottometteva docilmente alla decisione della Chiesa; ma è lecito pensare
che questa presa di possesso da parte di uno dei suoi vassalli su un territorio sul quale la sua
influenza in precedenza era stata quasi nulla non dovesse dispiacergli. Trionfatore, adulato,
divenuto per unanime decisione del papa e del re uno dei maggiori baroni del regno di Francia,
Simone di Montfort tornò nei suoi nuovi domini per accorgersi che vi era padrone solo dove
poteva presentarsi armato da capo a piedi, al comando delle sue truppe; ma non un centimetro
più in là.
2. LA GUERRA DI LIBERAZIONE.
Nell'aprile 1216 il vecchio conte di Tolosa e suo figlio sbarcarono a Marsiglia. La Provenza,
secondo il decreto del Concilio Laterano, faceva parte della futura eredità del giovane
Raimondo, ma suo padre, che invece di restare fuori del paese per scontare la sua penitenza lo
accompagnava, evidentemente non pensava affatto che egli dovesse accontentarsi del «resto del
paese, che non è stato conquistato dai crociati». La sentenza del concilio dava il segnale della
rivolta generale.
A Marsiglia i conti vennero ricevuti con entusiasmo; la notizia del loro arrivo si diffuse in
tutto il paese. Avignone inviò loro dei messaggeri, e quando essi si presentarono dinnanzi alla
città, una delegazione di signori e di cittadini li ricevette in ginocchio, offrendo loro la città.
«Sire, conte di Saint-Gilles - disse, secondo la "Chanson", il capo di questa delegazione - voi e
il vostro beneamato figlio, del nostro lignaggio, accettate quest'onorevole dono: tutta Avignone
si sottopone alla vostra signoria; tutti vi offrono la loro persona e i loro beni, le chiavi della
città, i giardini e le porte, eccetera». Il conte ringraziò gli Avignonesi per la loro accoglienza,
promettendo loro «la stima di tutta la cristianità e del vostro paese, poiché voi ridate vita ai
prodi, e alla Gioia e al Paraggio (7)».
Padre e figlio entrarono nella città. «Non c'era vecchio o giovane che non accorresse,
gioioso, lungo le strade. Chi riusciva a correre più forte si riteneva fortunato! Gli uni gridavano:
'Tolosa!', in onore del padre e del figlio; gli altri 'Gioia! D'ora in avanti Dio sarà con noi!'. Con
animo risoluto e gli occhi bagnati di lacrime, tutti venivano a inginocchiarsi davanti al conte,
dicendo insieme: 'Cristo, Signore glorioso, dateci il potere e la forza di rendere a entrambi la
loro eredità!'. La calca e l'andirivieni della gente erano tali che si dovette ricorrere alle minacce,
alle verghe, al bastone!». Avignone non aveva sofferto né le razzie della guerra né la tirannia dei
Francesi. Lo slancio di entusiasmo che gettò questa città ai piedi del suo signore esiliato e
spogliato è una delle manifestazioni di quell'acceso patriottismo che la guerra aveva scatenato
in tutta la regione meridionale.
La maggior parte della Provenza testimoniò un analogo entusiasmo e lo stesso desiderio di
liberare le terre oppresse. Raimondo Sesto ricevette l'omaggio delle città e dei castelli, e riunì
ad Avignone le sue truppe. Si tenne un consiglio di guerra: il vecchio conte decise di andare in
Aragona per reclutarvi altre truppe, attaccare il nemico da sud e liberare Tolosa, mentre suo
figlio avrebbe cinto d'assedio la città di Beaucaire, presidiata da una guarnigione del Montfort.
Sarebbe stata una guerra senza quartiere, senza tentativi di conciliazione, senza appelli al
papa o ai legati; una pura e semplice guerra di liberazione, una nuova 'guerra santa' combattuta
in nome della Grazia e del Paraggio, di Tolosa e di Gesù Cristo. Per il fatto di essere andato sino
in fondo nel suo atteggiamento di sottomissione e di fiducia nella giustizia papale, il conte
spodestato era tornato nel suo paese aureolato del suo prestigio di vittima immolata alla tirannia
della Chiesa; per i popoli della Linguadoca, cattolici o eretici che fossero, la Chiesa era ormai
un nemico detestato quanto il Montfort. Il conte, vinto, umiliato, beffato, se solo si presentava
veniva portato in trionfo, fra grida di entusiasmo e lacrime di gioia. All'inizio non si lanciò
personalmente nella mischia, risparmiandosi per Tolosa. Fu suo figlio, il vero conte (poiché suo
padre aveva abdicato in suo favore), che diede inizio alla riconquista.
Il giovane Raimondo marciò con le sue truppe di Avignonesi in direzione di Beaucaire, i cui
abitanti lo chiamavano offrendo di consegnargli la guarnigione francese. Entrato in città da
liberatore, il giovane conte non riuscì a catturare la guarnigione, comandata dal maresciallo
Lamberto di Croissy (o di Limoux, dal nome dei domini concessigli in Linguadoca), che si
ritirò nel castello, restandovi assediata. Guido di Montfort, fratello di Simone, e il figlio
Amalrico di Montfort accorsero davanti a Beaucaire per liberare gli assediati, mandando dei
corrieri a Simone, che stava tornando dalla Francia. Il 6 giugno Simone in persona si presentò
davanti alla città.
Tentò un assalto, senza successo. Rifornita attraverso il suo porto, la città non correva il
rischio di restare senza viveri o senz'acqua. Ricevette, tramite il Rodano, incessanti rinforzi da
Avignone, da Marsiglia e da altre città della Provenza: «Così i crociati in qualche modo
assediavano tutte le città che avevano mandato rinforzi, ossia quasi tutta la Provenza (8)».
Simone di Montfort disponeva solo delle sue truppe personali, e di alcuni mercenari e cavalieri
senza ricchezze venuti con lui dalla Francia nella speranza di far fortuna. Per assediare
Beaucaire bisognava costruire le macchine da guerra e fortificare il campo, e la mano d'opera
mancava. Bloccata all'interno del castello, la guarnigione si trovava in una situazione disperata,
e Lamberto di Limoux fece issare una bandiera nera, per comunicare al suo capo che non era in
grado di reggere a lungo.
Tutti gli assalti del Montfort vennero respinti. «C'erano pochi fanti del paese, ed erano tiepidi
e poco utili all'armata di Cristo, mentre gli avversari erano molto coraggiosi e arditi (9)». I
Francesi fatti prigionieri venivano impiccati o mutilati, e i loro piedi, tagliati, servivano da
proiettili all'esercito degli assalitori, assediati nella città. La guarnigione, affamata e decimata,
reggeva ancora, ma tutti gli sforzi dei crociati per penetrare nella città risultarono vani. Per tre
mesi Simone di Montfort tenne sul posto il suo esercito, mettendo a dura prova le sue forze e la
pazienza dei suoi capitani in assalti che fallivano continuamente, fra la gioia crescente degli
avversari. Questo soldato, la cui grande e principale virtù era di non abbandonare mai i suoi
uomini nel pericolo, non poteva permettersi di sospendere un assedio destinato all'insuccesso; e
Lamberto, ormai stremato, fece esporre di nuovo la bandiera nera.
Venuto a sapere che il vecchio conte, attraversati i Pirenei al comando di un esercito,
marciava su Tolosa, Simone si decise a negoziare. Promise di togliere l'assedio, in cambio della
vita dei suoi uomini. Raimondo accettò queste condizioni. Non era assolutamente costretto a
farlo, trovandosi in una posizione di forza: la guarnigione che così valorosamente aveva tenuto
prigioniera capitolò il 24 agosto e venne consegnata illesa al Montfort.
Avendo a stento salvato il suo onore, non senza compromettere considerevolmente il suo
prestigio, l'invincibile Simone di Montfort fu costretto a battere in ritirata, sconfitto da un
ragazzo diciannovenne, privo di esperienza nel mestiere della guerra. Scese verso i Pirenei,
incontro al vecchio conte, che si guardò bene dall'attenderlo e rientrò in Spagna: conosceva
troppo bene il suo nemico e non voleva compromettere le sue possibilità di successo con una
sconfitta, proprio quando la vittoria del figlio stava ridando la speranza al paese conquistato.
Simone ripiegò su Tolosa, per colpire i conti tramite questa città, che sapeva essere loro legata
da un solidissimo vincolo di fedeltà.
Nuovo legittimo sovrano di questa città, Simone voleva farle pagare quel che considerava un
tradimento: parlò di distruggerla completamente. Il progetto era tanto irrealizzabile quanto
mostruoso, ma in certa misura comprensibile: per esperienza e per intuito, Simone sapeva quale
fosse la potenza di una grande città, e quale ruolo essa potesse giocare nella resistenza di un
paese. Con Tolosa in piedi, i conti non sarebbero mai stati battuti, in quanto la vita dell'intero
paese ruotava intorno alla sua capitale.
Spaventati per l'avvicinarsi del Montfort, i Tolosani si affrettarono a mandargli una
delegazione, proclamando la loro fedeltà verso di lui. Ma di fronte all'atteggiamento ostile del
nuovo conte e agli eccessi cui si abbandonarono i soldati da lui mandati in avanguardia, si
rivoltarono. Simone, armi in pugno, penetrò in una città ormai priva di fortificazioni, e fece
appiccare il fuoco a tre quartieri: Saint-Remésy, Joux-Aigues e la piazza Saint-Etienne. Ma i
cittadini, «opponendo la forza alla forza e gettando travi e botti per le strade davanti agli
assalitori, respinsero tutti i loro attacchi e, lavorando tutta la notte, combatterono senza sosta sia
gli assalitori sia l'incendio (10)». Il primo ingresso del nuovo conte nella sua capitale, dopo
l'ufficiale investitura, non poteva svolgersi sotto auspici più sinistri.
Tolosa accolse il padrone che le era stato imposto con una tale esplosione di collera che la
cavalleria francese, respinta, tenuta in scacco negli accaniti combattimenti per le strade, fu
costretta a rifugiarsi nella cattedrale. I cittadini corsero alle barricate, brandendo armi
improvvisate, «asce affilate, falci o mazze, archi o balestre... (11)». Mentre l'incendio infuriava,
Simone percorreva a cavallo la città, cercava di radunare le sue truppe; in rue Droite lanciò
«una carica furiosa che fece tremare la terra» e cercò di forzare la porta Cerdane per entrare nel
borgo. Quando l'attacco venne respinto, si ritirò nel Castello Narbonese, sua dimora, che con
saggia precauzione qualche mese prima aveva fatto fortificare adeguatamente.
La sommossa aveva vinto. Ma il Montfort disponeva ancora, nel paese, di forze sufficienti a
vendicare la sconfitta. La città non aveva né esercito regolare né fortezze, e non poteva contare
su rapidi soccorsi. Il vescovo Folco intervenne per ristabilire la pace fra il nuovo conte e i
rivoltosi.
L'autore della "Chanson" presenta il comportamento del vescovo sotto una luce
particolarmente odiosa. Folco, con un discorso dolce e mellifluo, avrebbe dichiarato la sua
totale devozione verso le sue pecorelle garantendo loro, sotto giuramento e cauzione della
Chiesa, l'inviolabilità delle persone e dei beni e il perdono del Montfort; poi, quando la
cittadinanza depose le armi consegnandosi a Simone, avrebbe incoraggiato quest'ultimo a
trattarla con la massima durezza. Il vescovo, insomma, avrebbe agito con cosciente e deliberata
perfidia; e viene da chiedersi se l'autore, il cui odio verso Folco è fin troppo evidente, non abbia
calcato sugli aspetti negativi. Tuttavia, quanto sappiamo dell'atteggiamento di questo temibile
vescovo durante la crociata e dell'odio che sempre ispirò ai Tolosani farebbero credere che il
cronista esageri solo un po'; Folco provava un personale risentimento verso una città che aveva
osato mostrarsi ribelle alla sua influenza.
I consoli intavolarono trattative e Simone si recò al palazzo comunale per siglare l'accordo.
Ma non appena i cittadini furono disarmati le truppe francesi occuparono le case più protette,
arrestarono i notabili, confiscarono i loro beni e li espulsero dalla città: «Gli esiliati escono
dalla città, il fior fiore degli abitanti, cavalieri, borghesi e cambiavalute [banchieri]; sono
scortati da truppe furiose e armate che li colpiscono e li minacciano, li ingiuriano, li insultano e
li fanno andare di corsa... (12)». Sbarazzatosi dei borghesi più ricchi e più influenti, Simone
fece pubblicare nella regione un editto che intimava a chiunque sapesse maneggiare pala e
piccone di recarsi a Tolosa, per dare inizio alla demolizione della città. «Allora, avreste visto
abbattere case e torri, muri, sale e merlature! Si demolivano le abitazioni e le botteghe artigiane,
le gallerie, le camere decorate di pitture, i portali, le volte, gli alti pilastri. Dappertutto il gran
rumore, la polvere, il fracasso, la fatica, l'agitazione erano tali che tutto era confuso, che
sembrava ci fosse un terremoto, che rombassero i tuoni o i tamburi». Il dolore dei Tolosani era
al culmine: «Per tutta la città si levano le grida, il dolore, i pianti dei mariti, delle dame, dei
fanciulli, dei figli, dei padri, delle madri, delle sorelle, degli zii, dei fratelli e di tante persone
degne di considerazione. 'Dio - si dicevano l'un l'altro - che padroni crudeli! Signore, ci avete
abbandonato nelle mani dei briganti! Dateci la morte o restituiteci ai nostri legittimi sovrani!'
(13)».
Simone, comunque, non pretese di distruggere l'intera città, ma solo i quartieri meglio
fortificati. Tuttavia, malgrado i consigli di alcuni dei suoi amici e persino di suo fratello, era
deciso a mostrarsi spietato: non potendo sperare nulla dai Tolosani, e avendo un gran bisogno di
denaro, voleva approfittare del suo vantaggio per spogliare la città. Annunciò che avrebbe
concesso il suo perdono in cambio della somma di trentamila marchi d'argento. Era una somma
talmente enorme che Guglielmo di Puylaurens suppone che il Montfort l'abbia richiesta dietro
le pressioni di consiglieri perfidi, che desideravano una nuova sollevazione della popolazione e
il ritorno dei conti. Non c'è bisogno di fare una simile supposizione: era impossibile spingere
oltre l'esasperazione degli abitanti di Tolosa, Simone non aveva niente da perdere; contava sui
suoi soldati per dissanguare completamente la città, convinto di non aver più nulla da temere da
una cittadinanza disarmata e privata dei suoi capi.
Simone lasciò Tolosa i cui abitanti erano «... dolenti, amareggiati, afflitti e tristi, addolorati e
sofferenti, con gli occhi pieni di lacrime brucianti... perché non si lasciava loro né farina né
frumento, né porpora né bei vestiti... (14)». Andò nel Bigorre per trattare una nuova operazione
finanziaria e politica al contempo: voleva ottenere per il suo secondogenito, Guido, la mano di
Petronilla, figlia di Bernardo di Comminges ed ereditiera del Bigorre per parte di madre.
Petronilla, già sposa in seconde nozze di Nuno Sanche, figlio del conte di Roussillon, si separò
dal marito e venne data al giovane Guido, che la sposò a Tarbes, divenendo possessore della
contea di Bigorre (7 novembre 1216). Dopo questo matrimonio celebrato in fretta e dopo un
insuccesso davanti al castello di Lourdes, che non riuscì a espugnare, Simone, nuovamente a
corto di denaro, ripassò da Tolosa per esigere nuove tasse, imposte sotto forma di un'ammenda
sugli assenti, vale a dire sulle persone che lui stesso aveva espulso.
Non potendo ancora iniziare una campagna contro i conti di Tolosa, che preparavano una
nuova offensiva in una Provenza ancora risparmiata dalla guerra e tutta votata alla loro causa, il
Montfort tentò di ridurre all'obbedienza Raimondo Ruggero di Foix, il suo nemico più accanito;
lo assediò nel castello di Montgaillard - o Montgrenier - che era tenuto dal figlio di questo
valoroso guerriero. Il castello capitolò il 25 marzo. Pareva che tutto fosse da rifare: doveva di
nuovo assediare le piazzeforti del paese, castello per castello. Espugnò in maggio Pierrepertuse,
nella regione di Termes, poi diresse su Saint-Gilles, dove gli abitanti in rivolta, che avevano
cacciato l'abate, gli rifiutarono l'ingresso.
Il vento era cambiato, definitivamente: Simone non era più il capo dei crociati, ma un uomo
che cercava di difendere le sue conquiste. Innocenzo Terzo era morto il 15 luglio 1216. Onorio
Terzo, suo successore, non aveva ancora avuto il tempo di adattarsi alla nuova situazione
venutasi a creare in Linguadoca. Il nuovo legato, Bertrando, cardinale presbitero dei santi
Giovanni e Paolo, incontrava ovunque un'ostilità tale che le città gli chiudevano le porte; i conti
di Tolosa erano padroni della Provenza e il giovane Raimondo, che si faceva chiamare «il
giovane conte di Tolosa, figlio del signore Raimondo, per grazia di Dio duca di Narbonne,
conte di Tolosa e marchese di Provenza», rifiutava senza ambiguità le decisioni del Concilio
Laterano e l'autorità del re di Francia.
Lo scacco subito da Simone di Montfort davanti a Beaucaire aveva però provocato la
vigorosa reazione dei poteri ecclesiastici, e l'anno 1217 avrebbe portato in Linguadoca un
nuovo contingente di crociati, poiché il concilio aveva accordato una volta per tutte indulgenze
simili a quelle di cui beneficiavano i crociati della Terra Santa a quanti, in qualsiasi paese,
avessero preso la croce per combattere gli eretici. Con questi nuovi contingenti guidati
dall'arcivescovo di Bourges e dal vescovo di Clermont, Simone prese i castelli di Vauvert e di
Bernis, e passò il Rodano a Viviers; se non poteva intraprendere la conquista della Provenza,
voleva almeno intimidire il nemico. L'arrivo dei nuovi crociati, il soccorso militare offerto loro
dai vescovi del paese diedero qualche risultato. Adhémar di Poitiers, conte di Valentinois, si
sottomise e offrì addirittura uno dei suoi figli come sposo di una delle figlie di Simone. Ma
quest'ultimo non aveva più tempo da perdere in Provenza, era stato chiamato in fretta a Tolosa.
«I cittadini di Tolosa - dice Pietro di Vaux de Cernay - o per meglio dire la città degli inganni
("dolosa"), scossi da un diabolico istinto, apostati di Dio e della Chiesa (15)» avevano accolto
fra le loro mura il conte Raimondo in persona, giunto a capo di un esercito di Aragonesi e di
"faidits". Ora, tutta la famiglia di Simone si trovava nel Castello Narbonese: sua moglie, la
moglie di suo fratello, le mogli dei suoi figli e bambini dei suoi due fratelli.
La cittadella era presidiata dalla guarnigione del Montfort, ma l'esercito del conte si era
avvicinato a Tolosa e, approfittando della nebbia, aveva attraversato la Garonna al guado dei
mulini di Bazacle, penetrando nella città il 13 settembre 1217. Il conte era stato accolto
trionfalmente. «... Quando i cittadini hanno riconosciuto le insegne [del conte] gli si sono
avvicinati come se fosse resuscitato. E quando è entrato a Tolosa dalle postierle, tutti gli abitanti
sono accorsi, grandi e piccoli, dame e baroni, uomini e donne, inginocchiandosi davanti a lui,
baciandogli le vesti, i piedi, le gambe, le braccia, le dita. E' accolto con lacrime di gioia, perché
è la fortuna che ritorna, carica di fiori e frutti! (16)».
Non era ancora la fortuna, ma la possibilità di lottare: Raimondo Sesto aveva radunato tutti i
suoi vassalli, i conti di Foix e di Comminges, i signori banditi da Tolosa, quelli della
Guascogna, del Quercy, di Albi, i cavalieri "faidits" che si nascondevano nelle foreste, che
vivevano in esilio in Spagna e per i quali questo ritorno a Tolosa era il simbolo della
liberazione. «... e quando scorgono la città, non c'è nessuno così insensibile da non avere gli
occhi bagnati da un pianto che proviene dal cuore, e tutti interiormente si dicono: 'Vergine
imperatrice, rendetemi il luogo ove sono stato allevato! Preferisco viverci e morirci che andare
per il mondo, nella disperazione e nella vergogna!' (17)».
Tutti i Francesi che non avevano avuto il tempo di asserragliarsi nel castello erano stati
massacrati, ma la cittadella, ben fortificata, era in grado di resistere a lungo; tuttavia, i tentativi
compiuti da Guido di Montfort per liberarla erano falliti. Questo spiega perché Simone giunse
con le sue truppe in gran fretta, deciso a lanciarsi all'assalto contro la città ribelle; venne accolto
da una tale pioggia di frecce scagliate con archi e balestre che la sua cavalleria indietreggiò
disordinatamente; suo fratello e il suo secondogenito rimasero feriti. I Tolosani contrattaccarono
e i Francesi, costretti a battere in ritirata, dovettero rassegnarsi ad assediare la città.
Se fino ad allora i crociati erano riusciti a prendere con la fame e con i tiri dell'artiglieria
castelli e anche città come Lavaur e Carcassonne, era praticamente impossibile isolare una città
come Tolosa, considerevole per dimensioni e posta sulla riva di un fiume; per farlo ci sarebbe
voluto un esercito ben più imponente di quello della crociata del 1209. La città non aveva più
mura, ma i Tolosani non avevano perso tempo e il conte, appena entrato in città, aveva dato
ordine di scavare fossati, di innalzare barricate con pali e travi, di costruire contrafforti di legno.
Malgrado la loro apparente fragilità, queste fortificazioni improvvisate, ma ben difese,
potevano reggere, a meno che gli assedianti disponessero di una superiorità numerica
schiacciante. In realtà, non solo gli assediati avevano più militari effettivi del Montfort, ma la
popolazione civile, dal vecchio all'adolescente, dalla castellana alla servetta, si era trasformata
in milizia di combattenti e di ausiliari. «Mai in nessuna città si videro tanti uomini al lavoro:
lavorano i conti e tutti i cavalieri, i cittadini e le cittadine, i mercanti, gli uomini e le donne, i
cortesi fabbricanti di monete, i ragazzi e le ragazze, i sergenti e i fanti, tutti portano pala e
piccone... ognuno si dà da fare. Di notte, tutti montano la guardia; si sono disposte luci e
fiaccole lungo le strade, si fa baccano con tamburi, campanelli e trombe. Le ragazze e le donne
manifestano la gioia generale ballando e danzando al suono di arie gioiose (18)». Durante
l'assedio le mura abbattute vennero in gran parte ricostruite, sotto gli occhi di un avversario
impotente.
La lotta era impari: lasciando la Provenza, Simone di Montfort aveva vietato al corriere che
gli aveva portato la lettera della moglie, sotto pena di morte, di parlare della sollevazione di
Tolosa e della presenza del conte nella città; ma la notizia si era già diffusa in tutto il paese. Le
truppe di Provenzali che voleva portare con sé lo abbandonarono: chiamato da Guido di
Montfort, l'arcivescovo di Auch aveva radunato delle truppe, che durante l'avvicinamento si
sbandarono, rifiutandosi di marciare sulla capitale. I soldati e i cavalieri francesi, i soli sui quali
Simone potesse contare, erano immobilizzati nelle guarnigioni delle città che erano state
affidate loro in custodia.
Montfort lanciò un appello alle potenze cattoliche: Folco lasciò nuovamente Tolosa e si
diresse in Francia, dietro richiesta del cardinale legato, per predicare una crociata contro la sua
città ribelle, luogo di rifugio degli eretici. La contessa Alice, moglie del Montfort, si recò di
persona a implorare il re di Francia; forse contava sulle sue relazioni personali (suo fratello era
il conestabile dell'esercito di Francia) più che sull'appoggio del re, che sembrava interessarsi
solo alle cause già vinte. E gli insuccessi del Montfort avevano seguito troppo presto la sua
investitura perché il re avesse interesse a sostenere un vassallo tanto poco padrone dei suoi
domini.
Fu il papa, ancora una volta, che tentò di salvare la situazione. Onorio Terzo lanciò una
nuova campagna di propaganda contro l'eresia e cercò di indirizzare una nuova crociata verso la
Linguadoca. Quando la sorte del primo paese cristiano mostratosi infedele alla Chiesa sembrava
decisa, bisognava ricominciare tutto daccapo e in condizioni assai più difficili che nel 1208.
L'entusiasmo dei crociati del Nord era svanito da tempo, e la Chiesa non aveva come avversari
pochi eretici nemici della violenza, e quindi passivi, e dei baroni sempre pronti a giurarle
fedeltà, ma un intero popolo che rifiutava apertamente e coscientemente la sua autorità.
Tolosa continuava a fortificarsi e a rifornirsi, sia via terra sia attraverso il fiume, sotto gli
occhi di un assediante troppo debole, che non aveva altra possibilità che ritirarsi lui stesso in un
campo fortificato ad aspettare rinforzi. I combattimenti proseguirono per tutto l'inverno, ma
solo con brevi scaramucce, e le due parti gareggiavano in crudeltà verso i prigionieri: a Tolosa
l'odio verso i Francesi era tale che gli sfortunati che si lasciavano prendere vivi venivano portati
in trionfo per le vie della città; poi, ad alcuni venivano strappati gli occhi e tagliata la lingua,
altri venivano fatti a pezzi, bruciati, trascinati dai cavalli. Nel campo del Montfort l'odio
cominciò a cedere il passo allo sconforto.
I combattimenti veri e propri ripresero a primavera. Tutti gli assalti di Simone di Montfort
vennero respinti con tanto vigore che, secondo la "Chanson", i suoi cavalieri mostrarono chiari
segni di esasperazione. L'autore, probabilmente, non ha potuto assistere alle discussioni fra
Simone e i suoi luogotenenti, e il discorso che mette in bocca a un Gervasio di Champigny, o ad
Alano di Roucy sono indubbiamente immaginari; tuttavia nulla ci permette di escludere che lo
storico si sia ispirato alle voci che realmente correvano nel campo francese. Si potrebbe
sospettarlo di prudenza o di opportunismo quando attribuisce propositi moderati a Guido di
Lévis o a Guido di Montfort i cui figli, all'epoca in cui scriveva, erano solidamente impiantati in
Linguadoca; ma non è il caso di Foucaut di Berzy, cavaliere brigante giustiziato nel 1221 da
Raimondo Settimo. Nei lunghi conciliaboli che i cavalieri francesi tenevano con il loro capo, si
sente che erano al limite della sopportazione, quasi fuori di senno, e tentati di far ricadere su
Simone la responsabilità delle loro sconfitte; tuttavia gli rimasero fedeli sino alla fine, sia per
devozione personale, sia per il legame che l'odio dal quale erano circondati creava fra loro.
«Orgoglio e durezza si sono impadroniti di voi -dice Alano di Roucy al suo capo. - Voi amate
quel che è triste e vile... (19)».
I rinforzi di crociati del Nord infine arrivarono: un contingente fiammingo guidato da
Michele di Harnes e da Amalrico di Craon. Durante combattimenti accaniti, il Montfort riuscì a
impadronirsi del sobborgo di Saint-Cyprien, sulla riva sinistra del fiume, e attaccò i ponti che
aprivano l'accesso alla città; ma non riuscì ad attestarcisi e batté in ritirata.
L'assedio durava da otto mesi. Il giorno di Pentecoste il giovane Raimondo Settimo arrivò
con nuovi rinforzi, entrando in città sotto il naso degli assedianti. La popolazione lo accolse con
uno slancio di felicità: ci si accalcava per vederlo, lo si ammirava come «il fiore del roseto». «Il
figlio della Vergine, per confortarli [i Tolosani] mandò loro una gioia con un ramo d'olivo, una
chiara stella, la stella del mattino sopra la montagna. Questo splendore era il valoroso giovane
conte, l'erede legittimo, che varcò la porta con la croce e il ferro (20)». L'autore qui esprime la
fervente tenerezza del popolo verso il giovane eroe di Beaucaire, e questi soli versi bastano a
farci misurare l'abisso che separava i due campi: gli uni sapevano perché e per chi battersi, gli
altri tentavano solo di mantenere un bene appena conquistato, che già sfuggiva loro dalle mani;
la loro combattività e la loro collera, ampiamente sottolineate dal cronista, nascevano
dall'umiliazione di vedersi tenere in scacco da gente che consideravano inferiore, da «dei
borghesi disarmati».
Mentre Simone, malgrado l'arrivo di un importante contingente di crociati al comando del
conte di Soissons, riusciva a stento a difendersi dagli attacchi degli assediati, il cardinale legato
Bertrando gli rimproverava la sua mancanza di ardore: «Il conte [di Montfort] era preso dal
languore e dalla noia, aveva dato tanto ed era senza risorse; non sopportava più il pungolo del
legato, che quotidianamente lo rimproverava di essere pigro e svogliato: perciò, come si diceva,
egli pregava il Signore di dargli la pace guarendolo con la morte da tante sofferenze (21)».
Il legato poteva a buon diritto accanirsi contro il vecchio guerriero: colui che tante volte
aveva vinto, attribuendo le sue vittorie alla protezione divina, con le sue sconfitte si rendeva
sospetto di una qualche colpa tale da meritargli la punizione del Signore. L'uomo coraggioso e
cattolico che la Chiesa aveva onorato al punto di affidargli domini più grandi di quelli del re di
Francia, che beneficiava dell'aiuto dei soldati che la Chiesa gli faceva mandare da anni, si
dimostrava incapace di aver ragione di una città malamente fortificata e difesa da uomini da lui
stesso battuti tante volte! In giugno, nono mese di quest'assedio disastroso, il Montfort decise di
costruire una gigantesca 'chiatta', una torre mobile che si sarebbe potuto avvicinare pian piano
alle fortificazioni nemiche e dalla quale i soldati avrebbero potuto dominare i quartieri degli
assediati, schiacciandoli con un tiro serrato. I Tolosani danneggiarono la macchina da guerra
lanciando pietre; poi, quando fu riparata e fu pronta a essere messa in movimento, fecero una
sortita all'alba, attaccando il campo nemico da due lati. Simone stava ascoltando la messa
quando gli comunicarono che i Tolosani avevano già invaso il campo e che i Francesi stavano
ripiegando. Finito di pregare, si lanciò nel combattimento, riuscendo a respingere i nemici fino
al fossato.
Guido di Montfort, impegnato nella difesa delle macchine da guerra, venne ferito da una
freccia lanciata dalla città. Simone, che si precipitò verso di lui lamentandosi, fu colpito alla
testa da una pietra scagliata con una petriera maneggiata (dice la "Chanson") da alcune donne e
fanciulle. «Una pietra arrivò dritta dove occorreva e colpì il conte Simone sull'elmo d'acciaio, in
modo tale che gli occhi, il cervello, i denti, la fronte e la mascella gli volarono in pezzi, e cadde
a terra morto, sanguinante e nero (22)».
Questa morte improvvisa e brutale, in pieno combattimento, sotto gli occhi di entrambi gli
eserciti, venne salutata nel campo dei Tolosani con un'esplosione di gioia: «I corni, le trombe, i
campanelli, i rintocchi e lo scampanio delle campane, i tamburi, i timpani e le trombette
rimbombano nella città e per le strade (23)». A quest'immenso grido di sollievo rispondeva la
costernazione del campo francese. La morte del capo demoralizzava un esercito già scoraggiato
dalle sconfitte subite durante l'assedio, e il figlio del Montfort, che si fece conferire dal legato i
titoli del padre, dopo un tentativo di appiccare il fuoco alla città, si ritirò nel Castello
Narbonese; un mese dopo tolse l'assedio.
Tolosa aveva trionfato e Amalrico, rientrato a Carcassonne dove fece tumulare suo padre con
gran pompa, dovette assistere alla sistematica riconquista dei domini tenuti da Simone da parte
del giovane conte Raimondo Settimo, nonostante gli appelli del papa e l'intervento del re di
Francia nella persona del figlio. Ci sarebbero voluti sette anni, ma il colpo di grazia era già stato
dato all'invasore che, sempre meno combattivo, abbandonava una città e una piazzaforte dopo
l'altra fino a ritrovarsi senza soldati e senza i soldi necessari al viaggio di ritorno.
Scomparso Simone di Montfort, la crociata si trovava decapitata. Del resto, malgrado gli
sforzi del papa e dei legati, da tempo questa guerra aveva cessato di essere una crociata.
Amalrico lottava per la sua eredità personale e, come ogni figlio di dittatore, non ispirava
timore ai suoi nemici né fiducia in quelli che dovevano sostenerlo. Spodestando il conte di
Tolosa tramite la decisione del concilio, la Chiesa sembrava aver dimenticato che Simone di
Montfort non era immortale, e che quell'uomo che in effetti era in grado di 'tenere' il paese, era
anche l'unico a saperlo fare. Con la sua morte il papa si trovava nella situazione alquanto
assurda di chi affida un compito schiacciante a una persona manifestamente incapace di
adempierlo. Quindi essa si sarebbe ben presto distaccata dallo sfortunato Amalrico per disporre
dei suoi diritti in favore di un alleato più potente e investito di un prestigio tale da incutere
rispetto a tutti i paesi d'Occidente. Sarebbe stato il re di Francia a condurre a termine l'opera di
Simone di Montfort.
«Lo portano dritto a Carcassonne per seppellirlo, per celebrare il servizio religioso nel
monastero di Saint-Nazaire. E chi sa leggere può leggere sull'epitaffio che è santo e martire, che
deve resuscitare, avere l'eredità e fiorire di una felicità senza pari, portare la corona e sedere nel
regno. E ho sentito dire che deve essere così: se in questo mondo uccidendo uomini e spargendo
sangue, perdendo anime e acconsentendo a omicidi, fidandosi di consigli perversi, appiccando
incendi, distruggendo baroni, disprezzando il Paraggio, prendendo terre con la violenza,
facendo trionfare l'orgoglio, attizzando il male e soffocando il bene, uccidendo donne e
sgozzando fanciulli si può conquistare Gesù Cristo, egli deve portare la corona e risplendere in
cielo! (24)».
Quale che sia la sorte riservata per l'eternità a Simone di Montfort, quanti ammirano
Napoleone, Cesare, Alessandro e gli uomini della loro specie non dovranno rifiutare, per spirito
di equità, la loro ammirazione a questo gran soldato; gli altri sono liberi di constatare che, tutto
sommato, egli fu un individuo abbastanza mediocre, scelto per un compito crudele che svolse
come meglio poté. La responsabilità morale delle sue azioni non ricade tanto su di lui, quanto
su coloro che avevano il potere di benedirle e di assolverle in nome di Gesù Cristo.
NOTE.
(1) Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., cap. 83.
(2) "Chanson de la Croisade", cap. 144.
(3) Ivi, cap. 145, 3265-3274.
(4) Ivi, cap. 150, 3547-3553.
(5) Decreto del concilio, promulgato il 14 dicembre 1215.
(6) Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., cap. 83.
(7) "Chanson de la Croisade", cap. 153.
(8) Pietro di Vaux de Cernay, op. cit., cap. 83.
(9) Ibidem.
(10) Guglielmo di Puylaurens, cap. 29.
(11) "Chanson de la Croisade", cap. 172, 5112-5l13.
(12) Ivi, cap. 178, 5532-5537.
(13) Ibidem, 5542-5548.
(14) Ivi, cap. 179, 5640-5647.
(15) Op. cit., cap. 134.
(16) "Chanson de la Croisade", cap. 182, 5861-5868.
(17) Ibidem, 5852-5858.
(18) Ivi, cap. 183, 5952-5963.
(19) Ivi, cap. 189, 6486-6488.
(20) Ivi, cap. 200, 7913-79l7.
(21) Guglielmo di Puylaurens, cap. 30.
(22) "Chanson de la Croisade", cap. 205, 8452-8456.
(23) Ibidem, 8479-8484.
(24) Ivi, cap. 208, 8681-8693.
Capitolo settimo

IL RE DI FRANCIA.
1. LA VITTORIA DI RAIMONDO SETTIMO.
La morte di Simone di Montfort fu accolta nella Linguadoca con grande gioia; questa gioia
si diffondeva a macchia d'olio per tutto il paese, ridava nuove forze a quanti da tempo si
disperavano nel vedere quest'uomo spietato vincere dappertutto. Questa morte sembrava la fine
di un incubo, il miracolo tanto atteso.
"Montfort Es mort Es mort Es mort! Viva Tolosa Ciotat gloriosa Et poderosa! Tornan lo
paratge et l'onor! Montfort Es mort! Es mort! Es mort!" esclama una canzone popolare
dell'epoca. Il Paraggio e l'onore ritornavano. Il tiranno - i popoli del Mezzogiorno volevano
sperare che tutto il male che li opprimeva provenisse dal Montfort - era ormai un cadavere
disteso in una sontuosa tomba di Carcassonne. I suoi amici ne fecero un martire, paragonandolo
a Giuda Maccabeo e a santo Stefano. Con la sua morte l'opera della crociata era distrutta;
malgrado lasciasse nel paese parenti e compagni d'arme coraggiosi e ancora temibili, essi
avevano perso con il loro capo anche la fiducia in se stessi. Amalrico di Montfort invocò l'aiuto
del re di Francia e il papa predicò una nuova crociata, spingendo Filippo Augusto a mandare
un'armata in Linguadoca. Nel frattempo, Raimondo Settimo riconquistava l'Agenais e il
Rouergue e riportava, davanti a Baziège, una vittoria in campo aperto contro i Francesi.
Il principe Luigi fece una seconda apparizione nel Mezzogiorno della Francia: questa volta il
padre non aveva sollevato difficoltà nel fargli prendere la croce. Luigi portò con sé venti
vescovi, trenta conti, seicento cavalieri e diecimila arcieri; era un'armata temibile che - pare -
avrebbe dovuto spaventare popolazioni già sfinite da dieci anni di guerra. Si riunì alle truppe di
Amalrico di Montfort davanti a Marmande e prese la città, dove si compì un terribile massacro.
Se la guarnigione e il suo capo Centulle, conte di Astarac, vennero risparmiati (perché si
pensava di scambiarli con dei prigionieri francesi), i vincitori si accanirono sulla popolazione
civile: «... si corre verso la città con armi taglienti, e allora comincia il massacro e lo
spaventevole macello. I baroni, le dame, i fanciulli, gli uomini, le donne, spogliati e nudi,
vengono passati a fil di spada. Le carni, il sangue, le cervella, i tronchi, le membra, i corpi
aperti e squartati, i fegati, i cuori fatti a pezzi giacevano sulle piazze come se fossero piovuti. La
terra, il suolo, le sponde del fiume erano rosse per il sangue versato. Non restava uomo o donna,
giovane o vecchio; nessuno è scampato se non è riuscito a nascondersi. La città è distrutta, il
fuoco la brucia (1)».
L'autore della "Chanson" ritiene che la maggior parte della popolazione della città sia stata
massacrata. Guglielmo il Bretone, per parte sua, riconosce che a Marmande vennero uccisi
«tutti i cittadini, con le donne e i fanciulli, tutti gli abitanti, per un numero di cinquemila (2)».
Si può vedere in questo massacro eseguito a sangue freddo (infatti fu preceduto da una lunga
discussione sulla sorte della guarnigione) un effetto della collera di Amalrico, desideroso di
vendicare il padre. Era, più probabilmente, una consapevole ripetizione del massacro di Béziers
che, terrorizzando la popolazione, aveva dato risultati tanto buoni. E' abbastanza curioso vedere
vescovi e baroni che discutono sul «disonore» che ricadrebbe su di loro se mettessero a morte
dei soldati, e che poi sguinzagliano le loro truppe contro cittadini inermi, donne e bambini.
Sembra che (per i cavalieri del Nord più che per quelli del Sud) i cittadini fossero esseri di
razza inferiore il cui massacro era quasi irrilevante. Il pio principe Luigi non fece nulla per
impedire quest'odiosa manovra intimidatoria. Ma, per parte loro, i popoli della Linguadoca,
agguerriti da dieci anni di crociate, si guardarono bene dal rispondere - come dopo Béziers -
con capitolazioni in massa. Il paese da tempo si era abituato al terrore.
Quando, all'indomani di quest'impresa sanguinosa, l'armata reale marciò su Tolosa, trovò una
città fortificata, pronta a difendersi. Raimondo Settimo vi si era rinchiuso con mille cavalieri.
Di fronte al pericolo lanciò un appello al popolo e fece esporre sotto la volta della cattedrale le
reliquie di sant'Esuperio (3); per la terza volta il popolo di Tolosa si preparava a subire l'assedio
nell'entusiasmo.
L'assedio ebbe inizio il 16 giugno 1219 e fu tolto il primo di agosto: il grande esercito del
principe Luigi, dopo avere completamente circondato e isolato la città, e dopo aver sferrato
vigorosi attacchi, constatò che gli assediati non erano minimamente disposti a capitolare. Sceso
nel paese occitano per seminarvi la paura dovuta al prestigio della potenza reale, il principe capì
di avere a che fare con un avversario forte e, come avevano fatto le truppe crociate durante i
primi anni di guerra, preferì che Amalrico di Montfort provasse a resistere a suo rischio e
pericolo. Appena terminati i suoi quaranta giorni, Luigi tolse l'assedio, abbandonando le sue
macchine da guerra. Questa brusca partenza ha sorpreso i contemporanei, che l'hanno attribuita
a un tradimento dei cavalieri francesi, oppure a un accordo segreto fra il principe e Raimondo
Settimo, o ancora a un perfido calcolo di Luigi che, desiderando il Tolosano per sé, non aveva
alcun interesse a riconquistarlo a profitto di Amalrico. Comunque sia, con questo nuovo trionfo
di Tolosa la corona di Francia subiva un clamoroso insuccesso. La gloria del giovane conte si
ingrandiva sempre più, mentre la nobiltà del Mezzogiorno dava la caccia ai baroni del Nord
installatisi sulle sue terre, li spodestava dei loro domini, riprendeva loro i titoli che avevano
usurpato.
Questi baroni, che Simone di Montfort aveva sistemato nei castelli e nelle piazzeforti da lui
conquistati per assicurarsene la fedeltà, non erano, a quanto pare, zelanti difensori della fede.
Infatti il cattolico Guglielmo di Puylaurens li descrive così: «Del resto non si deve né si può
raccontare a quali infamie essi (i servitori di Dio) si abbandonassero; i più avevano concubine,
e le mostravano in pubblico; rapivano a forza le donne altrui, e impudentemente compivano
queste malefatte e mille altre di questo genere. Lo spirito del loro comportamento non era certo
quello che li aveva condotti lì, la fine non corrispondeva all'inizio (4)». I fratelli Foucaut e
Giovanni di Berzy, due cavalieri che, secondo la "Chanson", Amalrico e il principe Luigi
ritenevano così preziosi che per liberarli avevano risparmiato la guarnigione di Marmande,
erano veri e propri banditi, noti per la loro avarizia e la loro ferocia: Guglielmo di Puylaurens
dice che mettevano a morte tutti i prigionieri che non potevano pagare loro cento soldi d'oro
(una somma esorbitante), e che una volta avevano costretto un padre a impiccare suo figlio.
Fatti prigionieri da Raimondo Settimo, vennero decapitati.
La guarnigione francese di Lavaur venne massacrata; Guido, fratello di Amalrico, rimase
ferito e morì in prigione. Malgrado gli sforzi del papa, che intimò ai conti - il giovane
Raimondo e il conte di Foix - di sottomettersi, i Francesi non facevano che subire sconfitte.
Alano di Roucy, lo stesso che aveva ucciso il re d'Aragona, fu ammazzato nel castello di
Montréal, datogli dal Montfort. I rinforzi portati dai vescovi di Clermont e di Limoges e
dall'arcivescovo di Bourges ad Amalrico non impedirono a Raimondo Settimo di sottomettere
interamente l'Agenais e il Quercy. Amalrico resisteva solo nel Sud, dove Narbonne e
Carcassonne gli restavano ancora fedeli.
Il re di Francia, malgrado i reiterati appelli del papa, rifiutava di interessarsi della questione.
L'insuccesso del figlio aveva scoraggiato lui, come aveva scoraggiato i baroni francesi, e
l'esempio di Simone di Montfort dava da riflettere a quanti fossero spinti verso la Linguadoca
dal desiderio di conquiste. Il giovane conte trionfava e ridiventava, agli occhi di tutti, il cugino,
il nipote, il pari della maggior parte dei potenti - coronati o meno - dell'Occidente. Raimondo,
per parte sua, fece alcuni passi presso il re di Francia per ottenere una riconciliazione con la
Chiesa, e gli offrì il giuramento di vassallo per delle terre che, cinque anni prima, il re aveva
accordato ai Montfort.
Non sappiamo che cosa infine Filippo Augusto avesse deciso in merito a questo vassallo
spodestato dalla Chiesa. Amalrico di Montfort, vedendo che la partita era persa, gli aveva
offerto i suoi domini, ma il re aveva rifiutato la proposta: senza dubbio preferiva lasciare che i
due rivali si esaurissero in una guerra di cui lui non avrebbe fatto le spese.
Nell'agosto 1222, il vecchio conte di Tolosa morì all'età di sessantasei anni. Quest'uomo che
era stato, se non la causa, almeno il pretesto della crociata, quest'uomo calunniato, umiliato,
cacciato, spogliato, aborrito dalla Chiesa, venerato dai suoi sudditi, tornato da trionfatore dopo
la più totale disfatta e accolto nel suo paese come un salvatore quando ormai non possedeva più
nulla, questo legittimo sovrano spodestato dalla Chiesa e dal suo re e ristabilito nei suoi diritti
dalla volontà popolare, poté credere, in punto di morte, che la sua causa avesse vinto. Suo
figlio, cui abilmente aveva ceduto il posto, almeno ufficialmente, era ormai il capo del paese e
poteva continuare la sua opera; l'eliminazione di Amalrico di Montfort era solo questione di
tempo; la Linguadoca, insieme alla libertà, ritrovava un'unità nazionale mai conosciuta prima
della crociata, e i conti di Tolosa avevano acquisito una popolarità che un tempo non si
sarebbero nemmeno sognata.
Tuttavia, il conte moriva scomunicato, e malgrado le sue richieste e le sue preghiere, venne
privato, sul letto di morte, degli ultimi sacramenti. Il suo testamento e tutte le testimonianze
(prodotte in occasione dell'inchiesta ordinata da suo figlio) attestano che era morto nella fede
cattolica, era affiliato all'ordine dei Cavalieri dell'Ospedale, e aveva espresso il desiderio di
essere sepolto nell'ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, edificio appartenente a
quest'ordine.
Se la sua morte fu rattristata dal dolore di essere privato del soccorso della religione, le sue
spoglie dovettero subire fino in fondo tutte le umiliazioni riservate agli scomunicati: privato di
una sepoltura in uno spazio consacrato, il suo corpo rimase per anni chiuso in una bara
abbandonata nel giardino presso il cimitero; suo figlio per venticinque anni avrebbe vanamente
implorato la Santa Sede, moltiplicando le indagini e i passi per ottenere soddisfazione. Mal
protetto, il corpo fu mangiato dai topi; le ossa vennero disperse; il cranio, estratto dalla bara, fu
conservato dagli Ospitalieri.
Dopo la morte del padre, il giovane conte (aveva ormai ventisei anni) continuò la metodica
riconquista del paese. I Francesi non erano più i tiranni detestati di un tempo, ma degli stranieri
indesiderabili da cacciare al più presto. Entrambe le parti erano spossate da questa guerra che
non appariva più una necessità vitale. Nel maggio 1223 venne conclusa fra il giovane conte e
Amalrico di Montfort una tregua, che doveva fungere da preliminare a una conferenza di pace
da tenersi a Saint-Flour. E se, a Saint-Flour, i due rivali non giunsero a un accordo, si constatò
almeno una certa distensione, e Raimondo Settimo manifestò così tanta buona volontà verso
Amalrico da impegnarsi a sposarne la sorella dopo aver ripudiato Sancia d'Aragona.
Guglielmo di Puylaurens (5) racconta che durante questa tregua il conte fece uno scherzo di
dubbio gusto, lasciando credere, un giorno in cui si trovava a Carcassonne da Amalrico di
Montfort, di essere stato arrestato; il suo seguito fuggì spaventato e i due conti ne risero
insieme. Apprendiamo che Raimondo Settimo «amava ridere»; si può dire lo stesso anche di
Amalrico? La guerra nella quale i loro padri avevano consumato le loro forze e perso la vita,
per questi ragazzi di venticinque anni era già un tema su cui scherzare? Raimondo trionfava
senza risentimento, Amalrico si difendeva senza disperazione, si conoscevano fin
dall'adolescenza e, vivendo da una quindicina d'anni in un'atmosfera di sangue, di crudeltà, di
tradimenti e di vendette, dovevano essere stanchi di odiare; e non dovevano essere i soli.
La tregua non condusse alla pace, entrambe le parti si appellarono al re di Francia e venne
riunito un concilio a Sens. Ma Filippo Augusto, già gravemente malato, morì prima di poterci
andare, il 14 luglio 1223; suo figlio, preoccupato dai compiti urgenti impostigli dalla
successione al trono paterno, non poté prendere alcuna decisione e si limitò a far inviare ad
Amalrico un sussidio di diecimila marchi d'argento. La guerra ricominciò.
La situazione di Amalrico divenne così critica che, malgrado l'aiuto procuratogli dal vecchio
arcivescovo di Narbonne, Arnaldo Amalrico (che aveva dimenticato il suo odio verso Simone di
Montfort e aveva addirittura impegnato parte dei beni della sua chiesa per permettere al giovane
conte di Montfort di pagare le sue truppe), riuscì a tenere con sé solo venti cavalieri, per lo più
vecchi compagni d'arme di suo padre. Benché offrisse in pegno i suoi possedimenti in Francia,
nessuno voleva più prestargli denaro; ormai pensava solo a organizzare la sua partenza.
Troppo felici di essersi infine sbarazzati di lui, i conti di Tolosa e di Foix firmarono con
Amalrico un accordo (il 14 gennaio 1224). Promisero di rispettare le persone e i beni di quanti,
durante la guerra, avevano patteggiato con i Montfort, di non toccare le guarnigioni lasciate a
Narbonne, Agde, Penne d'Albigeois, Valzergues e Termes; Carcassonne, Minerve e Penne
d'Agenais restavano, in teoria, ai Montfort. Amalrico lasciò Carcassonne portando con sé i corpi
del padre e del fratello; non aveva più soldi, al punto che, lungo la strada, dovette lasciare suo
zio Guido e altri cavalieri in pegno a dei mercanti di Amiens, per la somma di quattromila lire.
Poco dopo la sua partenza Carcassonne fu ripresa dal conte di Tolosa, che la restituì al giovane
Raimondo Trencavel, figlio del visconte Raimondo Ruggero. Il giovane principe rientrò in
possesso dei suoi domini fra le acclamazioni del popolo: quindici anni dopo il massacro di
Béziers le terre occitane ritrovavano i loro antichi signori (o almeno i loro figli) e il popolo per
un momento poté illudersi di avere riconquistato l'indipendenza di un tempo.
2. LA CROCIATA DEL RE LUIGI.
Le cose non stavano così: quell'indipendenza era solo un'illusione. Dal punto di vista
giuridico era messa in questione sia dalla Chiesa sia dalla dinastia capetingia; di fatto essa era
esposta ai rischi di una nuova guerra, che un paese sfinito, dissanguato, non era in grado di
sostenere.
Per rimediare alle perdite subite la Linguadoca avrebbe avuto bisogno di venti, trent'anni di
pace; le fu concesso un breve respiro di tre anni appena: la prospettiva di una nuova crociata
incombeva sempre sulla sua testa e dall'inizio del 1225 (nemmeno un anno dopo la partenza di
Amalrico) il papa Onorio Terzo fece energiche pressioni sul re di Francia per convincerlo a
prendere la croce.
I negoziati che si svolsero fra il re e il papa fecero tirare in lungo i preparativi della crociata;
ma si trattava solo di mercanteggiamenti per spartirsi le reciproche zone d'influenza nei quali
ciascuno voleva ottenere dall'altro promesse e garanzie per l'avvenire. Entrambi però sapevano
che l'opera iniziata così bene doveva essere condotta a buon fine, e rapidamente, prima che il
nemico avesse il tempo di riprendere le forze.
Il re rispose agli appelli papali ponendo delle condizioni: chiese per i suoi crociati
indulgenze plenarie, pretese la scomunica contro chiunque, in sua assenza, avesse attaccato i
suoi territori, e perfino contro quanti si rifiutassero di seguirlo e di sostenerlo finanziariamente;
domandò alla Chiesa sussidi di sessantamila lire all'anno, per un periodo di dieci anni; volle che
il papa nominasse legato l'arcivescovo di Bourges e, infine, che spodestasse solennemente e
definitivamente i conti di Tolosa e i Trencavel, confermandolo nel possesso dei loro domini.
Il papa esitò, certo pensando che il re mirasse solo a ingrandire i suoi domini a spese della
Chiesa. Un conte di Tolosa indebolito, scomunicato e sempre minacciato sia dal re di Francia
sia dalla Chiesa, avrebbe potuto fare il gioco del papato meglio di un re di Francia troppo
potente: in questo il papa non si sbagliava; e se per la Chiesa un re di Francia come san Luigi
doveva essere un'occasione insperata, suo nipote Filippo il Bello avrebbe fatto vedere ad
Anagni che una Francia troppo forte e troppo centralizzata non si sarebbe preoccupata di
rimanere sempre «il soldato di Dio». Ma ammesso che Onorio Terzo lo prevedesse, questo
pericolo era meno imminente della rinascente eresia. D'altro canto, preoccupato per le sorti
della Terra Santa e non volendo rischiare di immobilizzare in Linguadoca tutta la cavalleria
francese disponibile, il papa non perse di vista il vero scopo della crociata albigese: facendo
pesare su di lui la minaccia di una nuova invasione francese, tentò di costringere il conte
Raimondo a perseguitare lui stesso gli eretici. Per parte sua il re, vedendo che il papa era
disposto a trattare con Raimondo, dichiarò che così stando le cose il problema dell'eresia non
gli interessava più. Il conte di Tolosa, riconoscente, tentò di dimostrare alla Santa Sede la sua
buona volontà e giurò al concilio di Montpellier (agosto 1224) di perseguitare gli eretici, di
cacciare le truppe mercenarie, di risarcire le chiese spogliate nonché il conte di Montfort, se si
fosse impegnato a rinunciare alle sue pretese.
Poco soddisfatto delle promesse di Raimondo, e timoroso di scontentare il re di Francia, il
papa fece tirare in lungo la trattativa, e finì per convocare un concilio, da tenersi a Bourges, nel
quale gli argomenti dei due pretendenti alla contea di Tolosa sarebbero stati ascoltati da
un'assemblea di rappresentanti della Chiesa. Il 30 novembre 1225 quattordici arcivescovi,
centotredici vescovi e centocinquanta abati di tutte le province della Francia meridionale e
settentrionale si riunirono a Bourges; era chiaro che una giuria composta di prelati non poteva
dare ragione a Raimondo Settimo, scomunicato e sospetto di favorire l'eresia; la sua causa,
quindi, era persa in partenza.
Presieduto dal nuovo cardinale legato, Romano di Sant'Angelo, il concilio si limitò a
raccogliere i dossier di entrambe le parti e a licenziare il conte di Tolosa, rinviando la decisione
a una data successiva. Come al tempo in cui i legati si rifiutarono di sentire le giustificazioni di
Raimondo Sesto, i prelati di Bourges cercavano solo un mezzo legale per condannare il conte
senza ascoltarlo; non bisognava permettergli di dare pubblicamente quelle garanzie che la
Chiesa gli richiedeva e che lui era pronto a offrire. I vescovi dubitavano della sua buona fede, e
il re non voleva correre il rischio di perdere, con quelli di Amalrico, i suoi propri diritti sulla
Linguadoca.
Così, in assenza dell'interessato venne pronunciata una nuova sentenza di scomunica contro
Raimondo Settimo, il conte di Foix e il visconte di Béziers (28 gennaio 1226). Nel frattempo,
Amalrico di Montfort vendeva al re di Francia i suoi diritti e i suoi titoli; d'accordo con la
Chiesa, il re diventava infine il legittimo padrone della Linguadoca, a danno dei veri sovrani di
quel paese.
Questa volta non si trattava più di una crociata predicata sui sagrati delle chiese e dai pulpiti
delle cattedrali; era una crociata solo di nome, di fatto il re di Francia partiva in guerra per
prendersi una provincia, dopo una serie di passi diplomatici più o meno laboriosi destinati a
fornire un pretesto legale alla conquista. E' del tutto evidente che questo gran traffico di omaggi
ricevuti, offerti, rifiutati, venduti, accettati, non aveva in sé alcun valore e, pur sanzionato dalla
Chiesa, aveva come unica giustificazione il diritto del più forte. Non fu l'odio per l'eresia che
spinse il re a pretendere il concorso, finanziario e morale, della Chiesa e a prendere la croce
solo dopo avere avuto dal papato il formale riconoscimento dei suoi diritti al possesso integrale
e senza riserve delle terre del Mezzogiorno. Egli si servì della Chiesa come la Chiesa si servì di
lui.
Per questa guerra di conquista Luigi Ottavo intendeva beneficiare di tutti i vantaggi accordati
dalla Chiesa ai soldati di Dio, nonché dei sussidi ecclesiastici. Con simili carte in mano, il re
riuscì a reclutare un esercito notevole. Vedremo che quest'esercito, malgrado la sua imponenza
numerica, il valore dei suoi cavalieri e la magnificenza del suo equipaggiamento, non era né
particolarmente unito, né animato da un eccessivo entusiasmo. La questione della Linguadoca,
divenuta impresa personale del re, certo non esaltava né i fanatici né i grandi ambiziosi; per
costringere i suoi baroni a farsi crociati, il re fu costretto a imporre forti penalizzazioni a quanti
rifiutassero di partire. Gli stessi chierici erano scontenti, perché li si obbligava a versare in
favore della crociata le decime delle loro rendite, che venivano prelevate loro d'ufficio. Il re
prese la croce nel gennaio 1226, e in giugno il suo esercito si mise in marcia. Sembra che
numericamente fosse più forte di quello che aveva disceso il Rodano nel 1209, dirigendo su
Béziers; probabilmente era meno temibile. Ma avvicinandosi gettò le popolazioni del
Mezzogiorno in una tale costernazione che il conte di Tolosa, pur deciso a difendersi, dovette
rendersi conto che la partita era già persa.
Luigi Ottavo, l'autore della carneficina di Marmande, non poteva ispirare agli uomini del
Mezzogiorno né fiducia né rispetto. Per pio e benevolo che fosse, doveva godere nel paese di
una grande fama di crudeltà perché, alla notizia della sua imminente partenza, nella primavera
del 1226, numerosi signori locali si affrettarono a fare atto di sottomissione nei suoi confronti: è
quanto fecero Eracle di Montlaur e Pietro di Sauve (genero del defunto Raimondo Sesto), che
addirittura si recarono direttamente a Parigi; e inoltre Pons di Thézan, Berengario di
Puisserguier, Pons e Frotard d'Olargues, Pietro Raimondo di Corneilhan, Bernardo Ottone di
Laurac, Raimondo di Roquefeuil, Pietro di Villeneuve, Guglielmo Méchin, e altri. Questi
signori appartenevano alla nobiltà fedele al conte di Tolosa; i loro nomi compaiono nelle liste di
coloro che accompagnarono Raimondo Sesto al Concilio Laterano, e che in seguito si
rivoltarono all'autorità francese sotto Raimondo Settimo. Bernardo Ottone di Laurac (o di
Niort) era eretico e, qualche anno più avanti, avrebbe subito innumerevoli persecuzioni per la
sua fede; ma fu lui a scrivere (o a fare scrivere) a Luigi Ottavo: «Siamo ansiosi di porci
all'ombra delle vostre ali e sotto la vostra saggia dominazione». Bisognerebbe essere parecchio
ingenui per credere alla lealtà di simili dichiarazioni di fedeltà.
Le città, saputo che l'esercito del re si era messo in cammino, mandarono le loro delegazioni
a giurargli fedeltà. Prima Béziers, poi Nîmes, Puylaurens, Castres; durante l'assedio di
Avignone fu la volta di Carcassonne, Albi, Saint-Gilles, Marsiglia, Beaucaire, Narbonne,
Termes, Arles, Tarascona e Orange. Questa lista è di per sé abbastanza eloquente. Solo il terrore
poteva provocare una simile pioggia di sottomissioni spontanee: quelle città nelle quali i
Francesi erano odiati, e che erano gelosissime della loro indipendenza, non potevano avere la
minima voglia di mettersi sotto l'ombra delle ali del re; si ricordavano di Béziers e di
Marmande.
Il conte di Tolosa, lungi dal sottomettersi, riunì i suoi vassalli più fedeli, in primo luogo
Ruggero Bernardo di Foix e Raimondo Trencavel; inoltre chiamò in aiuto Enrico Terzo
d'Inghilterra, suo cugino primo, e Ugo Decimo di Lusignano, conte della Marca, al cui figlio
progettava di dare in sposa la sua unica figlia. Quest'ultimo non osò marciare contro il re di
Francia, ed Enrico Terzo, minacciato di scomunica dal papa, si limitò ad abbozzare un progetto
di alleanza. Di fatto, Raimondo Settimo poteva contare quasi solo su Tolosa e su di un esercito
abbastanza debole a causa delle defezioni di un gran numero di baroni; ma contava anche sul
tempo, che gli avrebbe riavvicinato i suoi sudditi, passato il primo momento di terrore.
L'armata reale si fermò davanti ad Avignone che, dopo avergli prestato obbedienza, gli
rifiutò il passaggio; il 10 giugno il re, «per vendicare l'ingiuria fatta all'armata di Cristo», giurò
di non muoversi di lì prima di aver preso la città e fece innalzare le macchine da guerra. Passato
il primo spavento, Avignone era decisa a resistere; non solo, in quanto città dell'Impero, non
intendeva farsi dettare legge dal re di Francia. Le mura della città, ben solide, erano difese da
una numerosa milizia e da una forte guarnigione di mercenari. Avignone si difese con tanta
energia che per due mesi l'esito della guerra rimase incerto. Ma mentre i suoi soldati erano
esposti alla fame, alle epidemie, alle frecce e ai proiettili lanciati dagli assediati, nonché agli
attacchi delle truppe del conte di Tolosa, che li incalzavano alle spalle, il re riceveva le
delegazioni dei signori e delle città meridionali spinti alla sottomissione dal timore di nuovi
massacri da parte dei crociati. I prelati, specie Folco e il nuovo arcivescovo di Narbonne, Pietro
Amiel, negoziavano queste capitolazioni anticipate, promettendo pace e clemenza da parte del
re di Francia.
A Carcassonne i consoli e il popolo, terrorizzati, cacciarono il visconte Raimondo e il conte
di Foix. Il conte di Provenza venne dinnanzi ad Avignone, durante l'assedio, per sollecitare la
protezione del re. Narbonne, ove il partito cattolico era sempre stato potente, Castres e Albi si
arresero prima dell'arrivo dell'esercito reale. Ciononostante Avignone reggeva bene e i suoi
difensori osavano perfino attaccare il campo del re. Lo scontento cresceva nell'esercito crociato,
e baroni come il conte di Champagne e il duca di Bretagna manifestavano il loro desiderio di
tornare in patria.
Tebaldo di Champagne lasciò il re ben prima della fine dell'assedio, giunti al termine i suoi
quaranta giorni. Ma la città bloccata, cominciava a soffrire per la carestia, e il legato Romano di
Sant'Angelo trattò la capitolazione. Dopo tre mesi di assedio Avignone si arrese e dovette
accettare le condizioni del vincitore; consegna degli ostaggi, distruzione dei bastioni e degli
edifici fortificati, pesanti tributi finanziari. Questa grande città libera, vassalla dell'Imperatore e
ritenuta imprendibile, non aveva mai subito, prima di allora, un trattamento simile. Federico
Secondo, del resto, avrebbe (abbastanza inutilmente) protestato presso il papa contro questa
violazione dei suoi diritti. Il re di Francia non ne tenne conto, e lasciò nella città una sua
guarnigione. La capitolazione di Avignone fu un colpo di fortuna per l'esercito reale: infatti,
qualche giorno dopo, una piena della Durance allagò l'area del campo crociato.
Una fortuna ancor maggiore, comunque, fu che le città delle regioni di Albi e Carcassonne,
che fintanto che il re era immobilizzato davanti ad Avignone si erano limitate a una
sottomissione puramente teorica, gli aprirono le porte, accettando senza discutere tutte le sue
condizioni: la caduta di Avignone, una delle più grandi città della Gallia, impressionò il paese
quasi come se a cadere fosse stata Tolosa.
Il re occupò senza colpo ferire Beaucaire, poi tutte le grandi città che tracciano il cammino
verso Tolosa, da Béziers a Puylaurens. Dinnanzi a Tolosa si fermò. La capitale della
Linguadoca non aveva mandato nessun messaggio, nessuna delegazione, e il conte, con le sue
truppe numericamente molto inferiori a quelle del re, tallonava l'esercito reale e lo impegnava
in una guerra di imboscate e di scaramucce, lanciandosi sulle avanguardie e sulle retroguardie.
Gli stessi signori che, qualche mese prima, avevano inviato al re lettere in cui lo salutavano
come un salvatore, «bagnando di lacrime i suoi piedi e con preghiere cariche di pianto» (lettera
di Siccardo di Puylaurens), anziché prestargli l'omaggio, si ritiravano sulle montagne per
prepararsi alla difesa.
Il re ristabilì nei loro feudi gli antichi compagni del Montfort, e diede (o rese) Castres a
Guido di Montfort; lasciò dei siniscalchi in tutte le città occupate; ricevette le chiavi delle città
sottomesse, dai Pirenei al Quercy, dal Rodano alla Garonna, e si trascinò dietro un esercito
demoralizzato, decimato dalle malattie, ma la cui forza stava nell'immensa miseria di un paese
sfinito da quindici anni di guerra. Nell'ottobre 1226 l'armata reale non aveva né la forza né la
volontà di iniziare l'assedio di Tolosa: i cronisti del tempo sono unanimi nel rilevare che era
demoralizzato, stanco, che le malattie e gli scontri militari gli avevano inflitto numerose
perdite; lui stesso malato, il re sarebbe morto in cammino, qualche giorno dopo avere lasciato la
Linguadoca.
Se tutte le città avessero resistito come Avignone, la crociata reale si sarebbe risolta in un
completo disastro. Ma il re e il legato avevano studiato bene la loro mossa: avevano attaccato
un ferito appena convalescente, ancora incapace di reggersi in piedi. Ai tempi di Simone di
Montfort Avignone non aveva sofferto per la guerra. Eppure questi mezzi vincitori si ritiravano
sfiniti essi stessi, perché la capacità di resistenza passiva del paese era ancora abbastanza
grande da rendere la campagna penosa e piena di imboscate. Il ritorno dei crociati che
riportarono, cucita in una pelle di bue, la salma del pio re, non ebbe nulla di trionfale.
Morto a trentasette anni, Luigi Ottavo lasciava il trono a un bambino di undici anni, e la
reggenza a una vedova costretta a fronteggiare la rivolta dei grandi vassalli. Per sfortuna della
Linguadoca, questa vedova era Bianca di Castiglia, donna dotata di un'energia e di
un'ambizione sconosciute a suo marito e a suo figlio. Se le popolazioni meridionali si
rallegrarono della morte di Luigi, dovettero comprendere ben presto che da Scilla erano finiti a
Cariddi; e i trovatori, tempo dopo, avrebbero rimpianto il «buon re Luigi (6)».
L'esercito lasciato in Linguadoca dal re a difesa dei territori conquistati era più grande di
quello di cui disponeva Simone di Montfort nel 1209. La sua situazione era meno precaria:
luogotenente del re, il siniscalco Umberto di Beaujeu non dipendeva dai favori dei crociati di
passaggio; il re di Francia era tenuto a inviargli aiuti. Tuttavia, durante l'inverno 1226-1227, i
conti di Tolosa e di Foix ripresero Auterive, La Bessède e Limoux; la nobiltà meridionale serrò
i ranghi e il popolo si sollevò contro i Francesi. Umberto di Beaujeu chiese rinforzi perché,
sebbene fosse solidamente attestato a Carcassonne (che, servita da quartiere generale al
Montfort per quindici anni, era stata prescelta anche dall'esercito reale), aveva perso i castelli e
le città dei dintorni, tornati sotto il controllo dei loro antichi signori.
La reggente, alle prese con la coalizione dei grandi vassalli - i conti della Marca, di
Champagne, di Boulogne, di Bretagna - aveva bisogno di soldi, e pensava di utilizzare per la
sua guerra feudale la decima accordata dalla Chiesa per la crociata albigese; i prelati rifiutavano
di pagare, malgrado la collera del legato Romano di Sant'Angelo, che prese partito per la regina
contro la Chiesa. Ma poiché i vescovi si appellarono al papa, Bianca di Castiglia ottenne il
denaro solo inviando rinforzi a Umberto di Beaujeu. E se, con promesse e minacce, giunse a
sconfiggere rapidamente la lega dei vassalli, la questione della Linguadoca restava per lei fonte
di notevoli difficoltà. Questa provincia, la cui conquista era stata intrapresa da suo marito, e a
cui la corona di Francia non poteva più rinunciare senza perdere la faccia, sembrava potesse
essere soggiogata solo con spedizioni militari importanti, rinnovate ogni anno; ma con la
costante minaccia dell'Inghilterra, la regina non poteva permettersi di immobilizzare le sue
forze nel Sud, mentre il papa incessantemente la spingeva a riprendere la guerra santa contro
l'eresia.
Bianca di Castiglia non volle approfittare della sua condizione di donna e di vedova per
sbarazzarsi delle sue responsabilità: malgrado le minacce provenienti dal Nord, riuscì a
mantenere in Linguadoca truppe sufficienti a vessare e a indebolire l'avversario, pur senza
schiacciarlo. Con i rinforzi inviatigli nella primavera del 1227, Umberto di Beaujeu riprese il
castello di La Bessède, facendovi massacrare la guarnigione, e saccheggiò le campagne nella
regione del Tarn. L'anno dopo penetrò nella contea di Foix (dove Guido di Montfort fu ucciso
davanti a Varilles) e, pur perdendo Castelsarrasin, riconquistò il castello di Montech. Poi, con
nuovi rinforzi portatigli dagli arcivescovi di Auch, di Narbonne, di Bordeaux e di Bourges,
marciò su Tolosa, sempre inespugnabile. Il piano dei Francesi non era più di riportare vittorie
militari, ma di distruggere il paese per renderlo a poco a poco incapace di difendersi.
E' quanto mostra in modo assai esplicito Guglielmo di Puylaurens, descrivendo i saccheggi
compiuti dall'esercito di Umberto di Beaujeu davanti a Tolosa: guidati e incitati da Folco (il
vescovo transfuga che, non potendo rientrare nella sua città, era carico di sacro furore contro i
suoi diocesani), i crociati si abbandonarono a una sistematica distruzione dei dintorni della città.
Nell'estate del 1227, i Francesi installarono il loro campo a est di Tolosa e, giorno dopo giorno,
organizzarono spedizioni contro i vigneti, i campi dl grano, i frutteti e - come contadini alla
rovescia - falciavano i campi, strappavano le vigne, demolivano le cascine e gli edifici
fortificati.
«... Non appena faceva giorno - dice lo storico - i crociati ascoltavano la messa, facevano
una sobria colazione e si mettevano in cammino, preceduti da un'avanguardia di arcieri...
Cominciavano a danneggiare le vigne più vicine alla città, nell'ora in cui gli abitanti si erano
appena svegliati; poi si ritiravano verso i campi, seguiti passo passo dalle milizie pronte a dare
battaglia, e continuavano la loro opera di distruzione. Fecero così ogni giorno, per circa tre
mesi, finché la devastazione fu quasi completa (7)».
Lo storico, grande ammiratore di Folco, aggiunge: «Ricordo che il pio vescovo diceva,
vedendo tornare questi devastatori che sembravano gente in fuga: 'E' fuggendo così che
trionferemo in modo meraviglioso sui nostri nemici'. Difatti, in questo modo si invitavano i
Tolosani a convertirsi e a umiliarsi, togliendo loro quel che faceva il loro orgoglio. Ci si
comporta saggiamente così anche con i malati, allontanandogli dalle mani quanto potrebbe
nuocergli, se preso in quantità eccessiva. Il pio vescovo agiva come un padre che solo per
affetto castiga i suoi figli».
Si tratta di un'osservazione abbastanza cinica, se si pensa che ciò che faceva «l'orgoglio» dei
Tolosani, e che rischiavano di prendere «in quantità eccessiva» era semplicemente il loro pane
quotidiano.
Il conte, impegnato nella guerra, desideroso di riconquistare ai Francesi le piazzeforti e i
punti strategici, non disponeva di truppe sufficienti per opporsi a questa devastazione dei suoi
domini. Non erano truppe di vagabondi, ma un esercito potente e ben organizzato che si dava
metodicamente a questa guerra priva di combattimenti, i cui avversari erano il grano, i ceppi
delle vigne e il bestiame.
Malgrado ciò, la lotta aveva ritrovato l'asprezza di un tempo e, in risposta al massacro della
guarnigione di La Bessède, i conti mutilarono atrocemente i prigionieri (non cavalieri) catturati
in una battaglia presso Montech e li abbandonarono nella foresta con gli occhi strappati e le
mani mozzate. Umberto di Beaujeu, i crociati e i vescovi che li accompagnavano sapevano
dunque che il paese non si sarebbe mai sottomesso di buon grado all'autorità reale; che quelle
terre avrebbero compreso «il loro vero interesse» - come dice Guglielmo di Puylaurens - solo il
giorno in cui il popolo che le abitava avesse cessato di esistere come nazione.
Il conte di Tolosa cominciò a rendersi conto della necessità di raggiungere una tregua, sia
pure al prezzo di una capitolazione; una tregua che permettesse al paese di medicare le sue
ferite e di preparare la rivincita. Ma se, acconsentendo alle trattative in vista di un trattato di
pace con il regno di Francia, Raimondo Settimo sperava di dare al suo popolo un'occasione per
ritrovare un po' di riposo e un minimo di prosperità, sottovalutava l'intelligenza e soprattutto la
mancanza di scrupoli dei suoi avversari. La pace che stava per firmare doveva rivelarsi più
crudele di una guerra; e senza essere stato veramente sconfitto, egli si sarebbe visto imporre
condizioni che mai nessun monarca impose al suo nemico, nemmeno dopo la più schiacciante
delle vittorie.
Se la lettura delle clausole di quel trattato ci sorprende ancor oggi, se si è tentati di cercarne
la spiegazione nella rudezza dei costumi dell'epoca, non dobbiamo dimenticare che anche i
contemporanei ne rimasero stupefatti, e che questo appariscente trionfo della causa del più forte
era del tutto contrario alle leggi feudali. Ci si può chiedere per quale strano malinteso il conte,
che sembra non essere stato privo di buon senso né di coraggio, abbia potuto firmare un simile
trattato; bisogna cercare la spiegazione nell'estrema miseria nella quale il popolo era stato
ridotto dalla guerra.
La crociata organizzata dal re era servita solo a esasperare l'odio, e che cosa ci si poteva
aspettare di buono da un sovrano i cui sforzi erano principalmente rivolti a saccheggiare le terre
e a sradicare gli alberi? Nel 1229 il conte resisteva ancora, ma i suoi vassalli più fedeli, come i
fratelli di Termes e Centulle d'Astarac, deposero le armi nel timore di vedere i loro domini
sottoposti allo stesso trattamento dei dintorni di Tolosa. La capitale era minacciata dalla
carestia. Le sconfitte inflitte ai soldati nemici, che non si battevano sulla loro terra e che erano
liberi di tornare in patria quando volevano, sembravano risibili a confronto delle devastazioni
che i combattimenti infliggevano al paese da oltre vent'anni.
I Francesi, in tre anni, avevano perduto il re, l'arcivescovo di Reims, il conte di Namur, il
conte di Saint-Pol, Boccardo di Marly, Guido di Montfort, per limitarsi ai soli capi. Le perdite
di uomini d'arme erano valutate a ventimila per la sola campagna del 1226, e benché gli storici
del periodo non abbiano saputo redigere delle statistiche esatte e abbiano indubbiamente fornito
cifre esagerate, sembra che le perdite francesi fossero state molto pesanti. Ciononostante la
regina e il legato (il cui impegno non poteva essere messo in dubbio) si sentivano rimproverare
dal papa per la lentezza nello sterminio dell'eresia.
Il papa Gregorio Nono, eletto al posto di Onorio Terzo, morto nel 1227, altri non era che
Ugolino, cardinale arcivescovo di Ostia, grande amico di san Domenico; questo vecchio,
parente di Innocenzo Terzo, era dotato di un temperamento più intransigente e più autoritario
ancora di quello del cugino, suo predecessore. La reggente di Francia, quali che fossero la sua
ambizione politica e il suo zelo religioso, doveva indubbiamente sentire dell'amarezza davanti
alle pretese e alle minacce con le quali questo papa la subissava, proprio nel momento in cui già
faticava tanto a fare rispettare i diritti di suo figlio, ancora minorenne.
Fu così da parte francese che vennero le proposte di pace, indirizzate a Raimondo Settimo
grazie all'intermediazione di Elia Guérin, abate di Grandselve. Gli eretici, beninteso, erano
destinati a fare le spese di questa pace: su questo né il conte né i suoi amici potevano farsi
illusioni. Ma essi non prevedevano un trattato di pace che sarebbe stata una pura e semplice
annessione del loro paese, un trattato di pace del quale ciascuna clausola da sola - constata
stupefatto Guglielmo di Puylaurens - sarebbe valsa da riscatto del conte se fosse stato fatto
prigioniero. Quest'ecclesiastico ragionava ancora da uomo del feudalesimo, e giudicava
secondo nozioni giuridiche che le tendenze totalitarie delle grandi monarchie e della Chiesa
stavano rendendo sempre più fragili. «Questo trattato va attribuito a Dio, e non agli uomini
(8)», conclude il cronista, in modo più melanconico di quanto non voglia ammettere.
NOTE.
(1) "Chanson de la Croisade", cap. 212, 9306-9~21.
(2) Guglielmo il Bretone, "Bouquet", 17, 11 d.
(3) Il vescovo di Tolosa che aveva protetto la città dai Vandali nel quinto secolo.
(4) Guglielmo di Puylaurens, cap. 33.
(5) Ivi, cap. 34.
(6) Confronta Dom Vaissette, op. cit. Cap. 65 del libro 23: "Poètes provençaux", nel t. 6
dell'edizione 1879, p.p. 556-559.
(7) Guglielmo di Puylaurens, cap. 38.
(8) Guglielmo di Puylaurens, cap. 39.
Capitolo ottavo

GLI ULTIMI ANNI DELL'INDIPENDENZA OCCITANA.


1. LE CONSEGUENZE DELLA GUERRA.
Prima di esaminare le cause e le conseguenze di questo disastroso trattato, bisognerà tentare
di capire quale sia stata la vita della Linguadoca durante gli anni travagliati ma ricchi di
speranze che seguirono la morte di Simone di Montfort.
I cori e le trombe, gli schiamazzi e le scampanate che a Tolosa salutarono la morte del
conquistatore risuonarono in decine di città, in centinaia di castelli che, ripresi dai conti,
riconquistati dai loro antichi proprietari, festeggiavano la ritrovata libertà.
Il poeta della "Chanson", che interrompe improvvisamente il suo racconto nel mezzo dei
preparativi dell'assedio di Tolosa da parte del principe Luigi, non ci narra l'epopea di quegli
anni tragici nel corso dei quali il Mezzogiorno della Francia sembrò sollevare la testa solo per
farsi colpire più facilmente; ma è il solo a darci un'idea di quale potesse essere l'atmosfera di
gioia febbrile, di fervore, di odio, di angoscia e di speranza nella quale le popolazioni della
Linguadoca vissero le ore della loro incerta liberazione.
Lui solo ci descrive Tolosa che si prepara a respingere il Montfort, che lavora a costruire le
barricate, mentre alla fioca luce delle fiaccole e delle torce i tamburi, le campanelle e le trombe
risuonano per le strade e sui bastioni, e le donne danzano nelle piazze cantando ballate. Il poeta
esprime e condivide l'esaltata tenerezza del popolo verso i conti - il vecchio e il giovane - e
mostra il popolo che in ginocchio bacia le vesti di Raimondo Sesto piangendo di gioia, per
correre poi a impugnare armi improvvisate e lanciarsi alla caccia dei Francesi, braccati nelle
strade e sgozzati. Descrive l'accanimento terribile e quasi gioioso dei combattimenti,
l'incessante andare e venire dei soldati vittoriosi o respinti, sui bastioni e sui ponti, nei fossati o
nei sobborghi. Ritrae la scena impressionante delle armature brillanti, degli elmi e degli scudi
dipinti, lucidi, scintillanti al sole, che nel fracasso delle armi si mescolano ai piedi, alle braccia,
alle gambe tagliate, alle teste fatte a pezzi, sparse a terra in un fiume di sangue.
Testimone di quei giorni terribili, nel narrarli prova la gioia e l'orgoglio di un intero popolo;
e sarebbe difficile negare l'autenticità della sua testimonianza, che è parziale solo perché troppo
veridica, mostrando che cosa sia la libertà per un popolo che rischia di perderla. Nei primi anni
dopo la morte di Simone di Montfort il paese dovette vivere momenti simili, nella stessa
ebbrezza, fra il sangue, la miseria, gli incendi e gli slanci di gioia, le feste e i regolamenti di
conti.
Se i capi del paese sapevano quali pericoli rappresentassero ancora le pretese del re e gli
anatemi della Chiesa, il popolo, sbarazzatosi degli oppressori, poté illudersi che i giorni più neri
fossero passati. Ma i conti e i signori legittimi, ristabiliti nei loro diritti, portavano con sé solo
«l'onore e il Paraggio», e nient'altro. La Provenza e l'Aragona avevano fornito loro rinforzi
notevoli in armi e uomini, ma i costi della guerra erano stati sopportati soprattutto dalle
popolazioni della Linguadoca.
I cittadini di Tolosa avevano messo a disposizione i loro beni e avevano pagato di persona,
nella convinzione che era meglio morire piuttosto che vivere nella vergogna. Ma dopo avere
vinto il Montfort e il principe Luigi, la capitale, una delle prime città d'Europa, si trovava con le
case distrutte, le casse vuote, gli scambi commerciali rovinati, la popolazione maschile
decimata - non fu un caso che la fionda che lanciò il proiettile che uccise Simone di Montfort
fosse in mano a una donna. Gran parte dei soldati di Tolosa erano periti a Muret; non sappiamo
quale sia stato il numero dei cittadini morti per le strade in occasione della rivolta, ma fu
senz'altro grande, perché la cavalleria francese aveva dovuto lottare per due giorni contro una
popolazione male armata, in una città non fortificata. Durante gli otto mesi di assedio, le milizie
della fanteria, dell'artiglieria e degli ausiliari, come sempre accadeva nei combattimenti del
medioevo, subirono perdite infinitamente più pesanti dei cavalieri, protetti dalle loro armature.
Ma, al di là dei combattenti, anche la popolazione civile dovette essere duramente provata dalla
fame, dal freddo e dalle malattie, in seguito alla demolizione di interi quartieri, alle mostruose
tasse pretese dal Montfort, alle privazioni imposte dall'assedio. Inoltre, il conte Raimondo
aveva portato in città la sua cavalleria e le sue truppe mercenarie, e durante l'assedio, pur
approvvigionato dall'esterno, l'esercito visse a spese dei Tolosani. Se incrementò alcuni
commerci, la guerra ne paralizzò altri, e negli anni della crociata Tolosa (come le altre grandi
città del Mezzogiorno) aveva cessato di essere il grande centro industriale e commerciale che
era prima del 1209; inagibile per le grandi fiere, con i magazzini vuoti, essa aveva bisogno di
più di un anno di pace per rimediare alle perdite.
Se Narbonne era stata praticamente risparmiata, Carcassonne, i cui beni erano stati
integralmente requisiti dai crociati nel 1209, aveva ritrovato ben presto una specie di prosperità,
perché il Montfort, che vi si era installato, aveva tutto l'interesse a incoraggiarvi il commercio:
questa città annoverò fra i suoi cittadini un gran numero di arricchiti di guerra. Béziers,
devastata e data alle fiamme, si era risollevata quasi subito, ripopolandosi senza dubbio di gente
rimasta senza riparo e dei parassiti dell'esercito crociato, oltre che dei cittadini fuggiti prima del
disastro e tornati a quel che restava delle loro case; ma era ormai una città rovinata, che non
poteva pensare di riconquistare la potenza e la prosperità di un tempo. Città come Limoux,
Castres, Pamiers erano state date in feudo ai compagni del Montfort, che ne avevano sfruttato
senza ritegno le risorse, sia per proseguire la crociata, sia per trarne vantaggi personali. Le città
dell'Agenais e del Quercy avevano patito meno delle altre; tuttavia Moissac aveva subito un
assedio, Marmande era stata saccheggiata e i suoi abitanti erano stati massacrati, Montauban,
fedele ai conti di Tolosa, aveva svolto parte attiva nella guerra, perdendo molti soldati nella
battaglia di Muret. Anche quando non avevano subito i disastri della guerra, le grandi città del
Mezzogiorno, gravate dalle tasse dei vescovi e dei crociati, private dalla guerra di parte della
loro attività commerciale, erano divenute molto più povere.
I grandi castelli, come Lavaur, Fanjeaux, Termes, Minerve e altri, che erano centri di una
intensa vita mondana, intellettuale e spirituale, avevano sofferto più delle città e, presi d'assalto,
spopolati, smantellati, oppure tenuti con durezza dagli occupanti, lamentavano i loro difensori
uccisi, le cui famiglie disperse si ritrovarono, dopo la liberazione, per contare i morti e i
dispersi. I roghi di Minerve e Lavaur, il pozzo dove donna Guiraude era stata sepolta sotto le
pietre, la forca di Emerico di Montréal e dei suoi ottanta cavalieri, i cento mutilati di Bram, e
tanti altri ricordi tragici che non sono giunti sino a noi ma dovevano essere vivi nella memoria
degli uomini di allora, invitavano alla vendetta e all'odio più che alla gioia.
Il conte di Foix parla (nella "Chanson de la Croisade") di tutti i crociati «traditori e senza
fede» che aveva avuto occasione di ammazzare o di mutilare: «Quelli che ho ucciso o soppresso
danno gioia al mio cuore, quelli che mi sono scappati o sono fuggiti provocano il mio dolore
(1)». Questo era il sentimento popolare. Poco prima della presa di Lavaur, un contingente di
crociati tedeschi disarmati (o comunque colti di sorpresa) (2) era stato massacrato dal conte di
Foix e da suo figlio: il crociato non era un avversario, ma un animale nocivo da distruggersi con
ogni mezzo. E se Baldovino di Tolosa era stato solo impiccato, i prigionieri di rango minore,
persino alcuni cavalieri, erano stati torturati e seviziati nelle pubbliche piazze fra i clamori di
gioia della folla. Raimondo Settimo si mostrò ripetutamente cavalleresco verso i vinti: a
Puylaurens lasciò in vita la guarnigione e trattò con rispetto la vedova del bandito Foucaut di
Berzy; quando Guido, figlio del Montfort, morì in prigione, mandò la sua salma ad Amalrico,
con gli onori militari. Ma né il popolo né i cavalieri "faidits", e neppure il conte di Foix avevano
scrupoli simili: la crociata aveva acceso nel paese un odio implacabile verso i Francesi, che non
si sarebbe spento presto.
Se, come abbiamo visto, la cavalleria occitana aveva pagato alla guerra un pesante tributo,
questo non era nulla a confronto del prezzo pagato dai fanti - si trattasse di cittadini o di soldati
di mestiere, per non parlare dei "routiers", la cui morte non era un male per nessuno, ma che
erano potenti strumenti di combattimento - e dalla popolazione civile. Ai ventimila o più civili
massacrati a Béziers, ai cinque o seimila di Marmande bisogna aggiungere le innumerevoli
vittime del caso, degli assedi e delle razzie; gli eserciti, di cui le truppe mercenarie erano una
componente fissa e i cui reparti regolari erano anch'essi formati da professionisti della guerra e
da teste calde, non erano mai teneri verso i civili. L'odio e il disprezzo dei militari verso i civili,
che avevano avuto libero corso durante i massacri, dovettero manifestarsi in molte altre
occasioni; odiati, inseguiti, in pericolo di vita in ogni strada deserta, in ogni sentiero isolato, i
soldati crociati non potevano certo comportarsi da protettori delle vedove e degli orfani.
Se Napoléon Peyrat indiscutibilmente esagera quando parla di un milione di Occitani uccisi
durante i quindici anni di guerra, è certo che il paese dovette subire perdite in vite umane che
non sono registrate da nessuna cronaca e da nessun documento, di gran lunga superiori a quelle
che risultano dal semplice esame dei testi. In quest'epoca in cui non esistevano né censimenti
regolari né statistiche, se la morte dei cavalieri viene segnalata, la folla dei morti anonimi
traspare solo qua e là, quando si parla di cervelli spappolati o di petti squartati trascinati nel
fango. La gente comune, anche nella disgrazia, non ha storia.
Con le sue città impoverite, i suoi commerci distrutti, la sua popolazione decimata, la
Linguadoca liberata era oltretutto minacciata da un flagello sempre presente durante il
medioevo: le carestie. Le sue terre, fertili intorno a Tolosa e Albi, povere nelle regioni montane,
erano state saccheggiate negli anni precedenti in modo meno sistematico di quanto non fosse
stato fatto in occasione della campagna di Umberto di Beaujeu nel 1228, ma con altrettanto
accanimento. Ogni anno, fra il 1211 e il 1217, Simone di Montfort aveva saccheggiato le valli
dell'Ariège, nella speranza di piegare in questo modo il conte di Foix, e viene da chiedersi di
che cosa avessero potuto vivere, in quel periodo, quelle terre già di per sé povere. Nelle regioni
di Tolosa e di Carcassonne ripetutamente erano state sradicate le vigne e bruciati i raccolti; e ci
si rende conto di che cosa significassero le vigne per le popolazioni semiurbane e semiagricole
del Mezzogiorno se si pensa che gli abitanti di Moissac, nel 1212, capitolarono «perché era
giunto il tempo della vendemmia». Le vigne possono essere ripiantate e il grano ricresce, ma
tanti uomini erano stati uccisi, o gettati per le strade dalla miseria, per divenire mendicanti,
briganti, o soldati di ventura; tanti altri, sfiniti dalla fame e dalle malattie, non potevano dare il
loro contributo per rendere nuovamente vitali le terre saccheggiate; ci sarebbero voluti degli
anni. E anche ai contadini più attaccati alla terra, la minaccia permanente di un esercito nemico
faceva venire la voglia di abbandonare tutto, nello sconforto.
Certo, per onnipresente che Simone di Montfort fosse stato, non tutti i campi e non tutte le
vigne della Linguadoca erano stati toccati dalla guerra, e le popolazioni locali erano da secoli
abituate a disastri di questo genere, pur se su scala più ridotta. Resta comunque vero che la
devastazione della campagna di Tolosa produsse un terrore pari al sacco di una grande città.
Tuttavia, se ci si rifà ancora una volta all'autore della "Chanson", la politica dei capi era
orientata più verso le spese che verso il risparmio delle risorse. Fin dagli inizi della riconquista,
gli Avignonesi dissero a Raimondo Sesto: «Non temete di donare né di spendere...», mentre il
conte e i loro amici parlavano «di armi, di amori e di doni (3)». Il conte promise molte volte di
rendere più ricchi quanti lo sostenevano, e lo stesso Montfort provava dispetto a vedere i suoi
nemici «così fieri, così valorosi, così poco attenti alle spese». Lo spirito pratico non era l'ultima
delle qualità di Simone di Montfort, che infatti non era per nulla spendaccione e mostrava la sua
generosità specie quando era il paese conquistato a farne le spese. Per il conte di Tolosa,
«donare» era la gloria maggiore, ma egli al massimo poteva riprendere ai Francesi i domini
occupati e restituirli ai proprietari; e questi domini, riconquistati con le armi, venivano
recuperati in uno stato abbastanza penoso. Per poter donare con larghezza, il conte avrebbe
dovuto taglieggiare le sue proprie terre, già abbastanza impoverite; e per grande che fosse lo
spirito di sacrificio delle città di Provenza, il loro slancio patriottico non poteva durare a lungo.
E' evidente che i loro signori legittimi rappresentavano per il popolo un onere meno gravoso
di quello di un esercito occupante; essi avevano tutto l'interesse ad amministrare bene il paese.
Ma non si deve credere che Raimondo Settimo e i cavalieri che lo circondavano avessero
adottato, dopo le loro prime vittorie, lo stile di vita prescritto alla nobiltà della Linguadoca nel
famoso documento emanato dal concilio di Arles che aveva provocato la rivolta di Raimondo
Sesto; ossia di vestirsi solo «di cappe nere di cattiva qualità» e di non abitare più «nelle città,
ma esclusivamente in campagna». L'ostentazione della ricchezza era legata ai concetti di onore
e libertà; il ritorno del 'Paraggio' doveva essere segnalato da festeggiamenti, e se il popolo si
accontentava di danzare cantando ballate o di far suonare le campane, i cavalieri organizzavano
feste e offrivano alle loro dame e ai loro amici gioielli e cavalli di razza. Il vescovo Folco è
lodato da Guglielmo di Puylaurens per il modo magnifico in cui trattò i prelati convocati al
concilio di Tolosa «benché quell'estate non avesse raccolto grandi benefici (4)». E se dalle loro
diocesi depauperate i vescovi riuscivano a prelevare viveri sufficienti ad abbagliare i loro ospiti
stranieri, non è possibile che i signori facessero meno per i loro alleati e amici, perché ne
andava del loro prestigio.
I trovatori cantavano il ritorno della primavera e della libertà, e la gloria del conte
Raimondo. Vennero celebrati matrimoni principeschi. Tramite alleanze, scambi di doni, legami
di vassallaggio rinnovati o rinforzati, la nobiltà meridionale ritrovava un'unità dopo gli anni di
dispersione vissuti durante l'occupazione francese. Gran parte della cavalleria era stata costretta
ad andare in esilio o a scappare fra le montagne; i signori francesi che le erano subentrati
avevano sposato vedove ed ereditiere occitane. Il vecchio Bernardo di Comminges, dall'alto
delle mura di Tolosa, aveva mirato e colpito il genero Guido di Montfort, che sua figlia
Petronilla era stata costretta a sposare: la politica dei matrimoni preconizzata dal Montfort non
aveva dato buoni frutti. Questi indesiderati generi o cognati erano stati in gran parte uccisi o
cacciati dal paese. La restaurazione del 'Paraggio' e delle tradizioni cortesi era la prima
preoccupazione di questa società aristocratica e fiera, per la quale la crociata aveva
rappresentato un disonore personale oltre che un affronto nazionale.
In questa guerra, il patriottismo di casta andava di pari passo con il patriottismo puro e
semplice. I cittadini lottavano per i loro privilegi, i cavalieri per il loro onore e per le loro terre,
il popolo per la sua libertà, tutti per la loro 'lingua' e per l'indipendenza nazionale. La nobiltà,
forte del prestigio delle vittorie militari e della sua posizione di classe dirigente, aveva
rimediato alle perdite più rapidamente delle classi medie e del popolo; d'altronde continuava a
battersi e aveva sempre bisogno di soldi per la guerra. Ma in realtà il paese resisteva da troppo
tempo al di sopra delle sue forze.
2. IL CATARISMO, RELIGIONE NAZIONALE.
La Chiesa, che dal tempo delle vittorie del Montfort aveva goduto della protezione del
vincitore e si era arricchita di molti doni, in particolare dei beni espropriati agli eretici, si
trovava ora in una situazione più critica di quella del 1209, perché i conti e i cavalieri "faidits"
cercavano di riprenderle non solo i beni confiscati, ma anche quelli che Raimondo Sesto era
stato costretto a restituirle. Incoraggiato dai suoi successi militari, Raimondo Settimo aveva
addirittura riconquistato la contea di Melgueil, divenuta feudo diretto del papato e tenuta dal
vescovo di Maguelonne. I vescovi consacrati durante la crociata avevano dovuto fuggire dalle
loro città: Guido di Vaux de Cernay, vescovo di Carcassonne, era tornato a morire in Francia ed
era stato sostituito dal suo predecessore destituito (e popolare) Raimondo Bernardo di
Roquefort; Folco, vescovo della scomunicata Tolosa, non osava rientrare in questa città che lo
riteneva responsabile di tutte le sue disgrazie; il vescovo Teodosio d'Agde, che era stato legato e
uno dei principali artefici della crociata, e i vescovi di Nîmes e di Maguelonne avevano dovuto
rifugiarsi nella cattolica Montpellier, insieme al primate d'Occitania, il vecchio arcivescovo di
Narbonne, Arnaldo Amalrico. Lì, al riparo dalle sommosse popolari, essi conducevano
un'intensa campagna diplomatica a colpi di scomuniche e di appelli al papa, provando ora a
riconciliarsi con i conti, ora ad attrarre sulle loro teste i fulmini dei re e dei pontefici.
Il vecchio abate di Cîteaux, dopo avere sostenuto Amalrico di Montfort, giocava la carta del
sentimento nazionale: pare si fosse infine reso conto del pericolo che la minaccia francese
rappresentava per il suo paese, e forse per l'indipendenza politica della Chiesa occitana. Avendo
constatato che il re di Francia intendeva farsi carico della crociata solo a condizione di
annettersi le province meridionali, Arnaldo Amalrico si era definitivamente avvicinato a
Raimondo Settimo e aveva cercato di farlo riconoscere dalla Chiesa come legittimo signore
delle sue terre. Fatto curioso, l'antico capo della crociata fu quasi il solo, fra i vescovi occitani,
ad avere (forse) pensato non solo a estirpare l'eresia e a garantire gli interessi immediati e
materiali della Chiesa. Ma questo prelato bellicoso e turbolento doveva morire nel 1225, dopo
aver regalato all'abbazia di Fontfroide, i suoi libri, le sue armi e il suo cavallo di battaglia. Con
lui il partito dell'indipendenza perdeva un alleato, se non influente, almeno energico. Arnaldo
Amalrico venne sostituito da Pietro Amiel, dichiarato fautore della crociata e del re. Il clero
occitano rappresentava ormai un partito politico la cui aggressività cresceva con l'impopolarità,
e che era tanto più pericoloso in quanto ogni sua sconfitta veniva percepita a Roma come una
sconfitta della Chiesa.
Il fatto che la Chiesa, in Linguadoca, fosse straordinariamente impopolare non ha nulla di
sorprendente: approvando apertamente e violentemente la crociata, vescovi e abati si erano
inevitabilmente alienata la simpatia degli stessi cattolici. I trovatori uniscono nelle loro
maledizioni i Francesi e il clero, "Francès et clergia", e la "Chanson" ripetutamente mette in
bocca ai signori occitani parole come «Non saremmo mai stati vinti, "se non ci fosse stata la
Chiesa"...». La Chiesa, anche per quanti invocavano i santi e veneravano le reliquie, era il
nemico per definizione. Dobbiamo concluderne che non aveva più sostenitori nel paese? Ogni
grande città aveva un vescovo, che era un signore potente, spesso il 'cosovrano' della città,
talvolta l'unico sovrano. Béziers e Tolosa prestavano omaggio sia al conte (o al visconte) sia al
vescovo, e le pretese di un Arnaldo Amalrico, in quanto arcivescovo, al ducato di Narbonne,
erano contestabili ma non stravaganti. Anche nel caso - come a Tolosa prima dell'avvento di
Folco - in cui l'autorità del vescovo era praticamente inesistente, il vescovado disponeva di un
grande apparato amministrativo, giudiziario, fiscale, che impiegava un gran numero di persone,
in maggioranza chierici, che lavoravano per lui e ne traevano di che vivere. Prima della
crociata, all'epoca in cui la Chiesa era debole e poco considerata, la Linguadoca contava
numerose abbazie potenti e prospere; la riforma cistercense aveva prodotto un rinnovamento
della fede cattolica, e il trovatore Folco di Marsiglia, lungi dal farsi cataro, si era fatto monaco a
Fontfroide. I conventi non erano tutti corrotti o disertati in massa, abbazie come quelle di
Grandselve o di Fontfroide erano centri di un'intensa vita religiosa, e i monaci che vi vivevano
nel digiuno e nella preghiera potevano rivaleggiare in austerità con i 'perfetti'. Il numero e le
grandi ricchezze di queste abbazie mostrano come, malgrado i lamenti dei papi e dei vescovi, la
Chiesa in Linguadoca non fosse affatto annientata; persino l'odio che essa suscitava testimonia
della sua relativa potenza, e se anche non avesse avuto altri sostenitori degli stessi chierici,
questi chierici costituivano già, in seno al paese, una minoranza abbastanza esigua, ma non
disprezzabile.
Il solo fatto di condurre una vita abbastanza agiata e di essere, in ogni caso, quasi al riparo
dal bisogno, conferiva ai chierici già una sorta di superiorità. Capaci di leggere e scrivere, essi
fornivano un aiuto spesso indispensabile nella maggior parte degli atti della vita civile.
Segretari, contabili, traduttori, notai, talvolta uomini di scienza, ingegneri, architetti,
economisti, giuristi e altro ancora, anche in un paese che si secolarizzava a vista d'occhio, essi
formavano una élite intellettuale della quale non si poteva fare a meno.
E' certo che, nella disgrazia abbattutasi sulla loro patria, molti chierici scelsero la causa
nazionale, ma si trattava di una scelta pericolosa: uomini di Chiesa, essi non potevano rompere
apertamente con la Chiesa. Se, prima della crociata, non mancarono casi di curati e anche di
abati favorevoli all'eresia (o per lo meno ben poco fanatici), se più tardi alcuni conventi diedero
rifugio a degli eretici e qualche religioso assistette ai sermoni dei 'perfetti', simili sentimenti di
tolleranza non potevano essere quelli della maggioranza né, comunque, degli elementi
combattivi del clero.
Inoltre gli abati e i vescovi - eccettuati quelli che erano stati imposti durante la crociata -
avevano nel paese parenti, amici o persone loro legate da vincoli di interesse: i commercianti,
dei quali erano i migliori clienti, i proprietari delle imprese che lavoravano per loro, e così via.
Non c'è dubbio che fra costoro essi avessero sostenitori fedeli. Il partito della Chiesa, infine,
poteva contare sulla devozione di quanti, durante la crociata, si erano schierati troppo
apertamente dalla parte degli occupanti, di coloro che avevano stabilito legami familiari o di
amicizia con i Francesi, e dei cattolici sinceri e fanatici come quelli che, a Tolosa, avevano
formato la Confraternita bianca del vescovo Folco. Vedremo che un movimento potente, nato
dalla crociata e divenuto in pochi anni una vera organizzazione internazionale di reazione
cattolica, aveva investito la Chiesa e mirava a coinvolgere le masse.
In un paese in cui l'odio verso l'occupante straniero sembra essere stato pressoché generale,
elementi simili erano solo minoritari; ma la stessa violenza delle passioni scatenate dalla guerra
doveva esasperare il loro desiderio di rivincita. Non bisogna dimenticare che il patriottismo
meridionale era cosa relativamente recente, e che cinquant'anni prima gli stessi cittadini di
Tolosa si erano appellati ai re di Francia e d'Inghilterra per cercare protezione dalle minacce del
conte.
Dunque, malgrado l'unità nazionale creatasi nel paese dopo la morte di Simone di Montfort e
la partenza di Amalrico, la Linguadoca non poteva godere della pace interna finché la Chiesa
continuava a minacciare con i suoi fulmini i sovrani legittimi che avevano riconquistato i loro
territori. La pace con la Chiesa era per Raimondo Settimo una necessità, sia per la tranquillità
interna del paese sia per ragioni di politica estera. Non si sa se egli abbia mercanteggiato o
meno la sorte degli eretici, perché la Chiesa non gli permise mai di offrire le prove della sua
buona volontà. Era destinato a ricevere l'assoluzione solo con i piedi e le mani legate.
A leggere gli storici contemporanei della guerra della Linguadoca viene da chiedersi come
mai la Chiesa si accanisse tanto a opprimere un paese già sfinito e che, tutto sommato, lottava
solo per la sua indipendenza. Nei testi, infatti, in un certo senso non si fa mai questione
dell'eresia, e questo avversario del quale di tanto in tanto si deplorano i progressi è così
anonimo, così inafferrabile che si potrebbe prenderlo per una misteriosa epidemia più che per
un vasto movimento religioso e nazionale. Gli autori cattolici constatano che l'eresia seguita a
esistere, che si diffonde, che le autorità rifiutano di combatterla; gli autori occitani non ne
parlano affatto.
Nulla di più caratteristico, da questo punto di vista, della "Chanson de la Croisade": il poeta
della libertà occitana menziona gli eretici solo per dire che il conte di Foix, il conte di Tolosa e
gli altri capi del paese non li hanno mai amati né frequentati. Le accuse di eresia lanciate contro
di loro e contro i loro sudditi sono pure calunnie e fantasie dei loro nemici. I principi e i
cavalieri che lottano per liberare il loro paese sono buoni cristiani come gli altri (e anche
migliori); essi invocano incessantemente Dio, Gesù Cristo, la Vergine; se gridano più spesso
«Tolosa!» che «Dio è con noi!», i crociati, dal canto loro, gridano «Montfort!». E i due campi,
con identica convinzione, dicono che non potranno essere battuti perché hanno Gesù Cristo
dalla loro parte. Se i baroni che parlano di ristabilire «Paraggio e onore» non risparmiano
rimproveri alla Chiesa, si ha l'impressione di ascoltare dei cattolici saldi nella loro fede ma
scandalizzati dalla tirannia politica del papa, più che degli uomini che combattono in nome di
un'altra religione. I loro nemici si propongono di sterminare «gli eretici e i sandaliati» (ossia i
catari e i valdesi), ma nessuno nel campo occitano si crede tale. Per gli uni come per gli altri
l'eresia sembra essere solo un pretesto.
Le cose stavano certamente così sui campi di battaglia, e il cronista-poeta parla soprattutto
dei combattimenti e degli assedi. Il suo racconto - come le canzoni dei trovatori arrivate fino a
noi - è stato redatto, e comunque copiato, in un'epoca nella quale per il solo sospetto di eresia si
rischiava di essere imprigionati a vita, di essere esiliati o rovinati. Se anche esistette una
letteratura profana apertamente favorevole all'eresia, per ragioni comprensibili essa venne
distrutta. Se i secoli ci avessero trasmesso l'opera di un qualche Pietro di Vaux de Cernay
cataro, che ci raccontasse gli eventi, le gesta dei suoi capi spirituali, i miracoli compiuti da Dio
in loro favore e la grandezza della loro opera, indubbiamente la crociata ci apparirebbe in una
luce ben diversa. Ma la storia esiste solo grazie ai documenti, e anche ad avere l'immaginazione
di un Napoléon Peyrat, si possono opporre alle figure magari terribili ma vive del Montfort, di
Domenico, di Innocenzo Terzo, di Folco, di Arnaldo Amalrico e degli altri, solo pochi nomi e
delle ombre.
Tuttavia, per piegare questi grandi sconosciuti, non erano bastati quindici anni di guerra e di
terrore, e in un paese prostrato e distrutto essi rappresentavano ancora, agli occhi della Chiesa,
un pericolo tale che il papa non cessava di lanciare appelli alla cristianità, di incalzare il re di
Francia, di subissare di maledizioni i capi della Linguadoca, insomma, di agire come se la
salvezza della Chiesa dipendesse dalla repressione dell'eresia albigese. Ma egli ritenne
necessario distruggere la Linguadoca in quanto paese indipendente non solo per favorire le mire
del re di Francia, il suo alleato più fedele. Lo fece perché l'eresia, malgrado o grazie alla
crociata, vi aveva compiuto tali progressi che un sovrano autoctono, per buon cattolico che
fosse, non poteva più combatterla; perché l'eresia rischiava di allontanare definitivamente dalla
Chiesa l'intero paese.
Moralmente esso se ne era già allontanato. Il popolo di quel paese avrebbe avuto bisogno di
una forza d'animo e di una pazienza a dir poco eroiche per perseverare nella fede in una Chiesa
che si presentava sotto le specie di un conquistatore straniero e odiato - soprattutto quando c'era
già nel paese un'altra Chiesa che, perseguitata, diveniva per forza di cose la Chiesa nazionale.
E' opinione diffusa che quella medievale sia stata un'epoca di fede. Generalizzazioni simili
sono spesso arbitrarie, e sarebbe più esatto dire che le testimonianze che la civiltà medievale ci
ha lasciato il più delle volte sono impregnate di uno spirito profondamente religioso. Come ogni
cultura, quella medievale era nata dalla sua religione; nel dodicesimo secolo già se ne
emancipava, e la letteratura e la poesia profane danno prova di un'indifferenza religiosa quasi
completa. La politica dei re, dei principi (talvolta dei prelati) obbediva alle eterne leggi che
Machiavelli avrebbe teorizzato, e che non avevano nulla a che vedere con la fede. Il popolo
venerava i santi come un tempo aveva venerato le divinità del sole, del vento e della pioggia. La
Chiesa era spesso detestata e derisa anche nei paesi nei quali la gente si faceva il segno della
croce, inorridita, al solo sentir pronunciare il termine 'eresia'. Il medioevo fu ciononostante una
grande età di fede, poiché non esisteva alcun valore, alcun sistema di valori che potesse
degnamente confrontarsi con la religione; tutte le aspirazioni, tutte le esperienze veramente
profonde confluivano nella fede come i fiumi nel mare. E se l'ideale cavalleresco e il
movimento sociale dei comuni erano, di fatto, estranei alla religione, pochi uomini pensavano
di fare a meno di una Chiesa.
Se esistettero società scettiche e agnostiche - sembra che nella Linguadoca, aperta a tutte le
correnti intellettuali e in parte libera dal dominio della Chiesa, ci siano stati più miscredenti che
altrove - lo scetticismo raramente forniva una ragione per vivere, e ancor meno per morire. Le
sventure della crociata avevano creato nel paese uno slancio di patriottismo appassionato, ma
gli uomini che si immolavano per la patria gridavano «Gesù Cristo è con noi!». Accusando la
Chiesa delle loro disgrazie, non potevano che avvicinare il loro cuore a quell'altra Chiesa che da
tempo ripeteva loro che Roma era l'incarnazione di Satana.
C'è però un equivoco che non ci permetterà mai di determinare sino a che punto in
Linguadoca, dopo la morte di Simone di Montfort, si fosse realmente imposto il catarismo (e il
movimento valdese che, secondo le testimonianze, guadagnò in quegli anni molti seguaci).
Quando i fautori del conte di Tolosa, persino lo stesso autore della "Chanson" e i trovatori,
parlano di Dio e di Gesù Cristo è probabile che ne parlino da catari, e che il loro Dio sia il Dio
Buono della fede manichea. Ma ci è impossibile stabilirlo con sicurezza. D'altra parte, queste
persone andavano in chiesa, veneravano le reliquie e la croce, e non sappiamo se lo facessero
per tolleranza e per abitudine, oppure per profonda convinzione.
Di fronte alla catastrofe abbattutasi sul paese, è probabile che i 'perfetti' catari siano in
qualche modo venuti a patti con gli elementi cattolici loro favorevoli, tollerando una sorta di
fede nazionale e patriottica che metteva d'accordo il culto cataro con alcune manifestazioni
tradizionali della fede cattolica. Il paese aveva i suoi propri santi, i suoi propri santuari, persino
i suoi propri vescovi cattolici (5). I catari, che onoravano la memoria degli Evangelisti e degli
Apostoli, per riguardo alle debolezze umane potevano autorizzare i loro fedeli a invocare questi
santi.
Benché in proposito non si abbia nessuna informazione precisa, è legittimo supporre che il
catarismo degli anni 1220-1230 abbia spesso avuto questo carattere mitigato, che in apparenza
tendeva ad avvicinarlo al cattolicesimo. Una frase del rituale cataro (redatto, è vero, verso la
fine del tredicesimo secolo) sembrerebbe indicarlo, perché dice: «Tuttavia nessuno pensi che a
causa di questo battesimo [il "consolamentum"] voi dobbiate disprezzare "l'altro battesimo", né
tutto quanto voi abbiate potuto fare o dire da cristiani, o di buono, fino a ora (6)». Queste parole
sono indirizzate al postulante già giudicato degno di ricevere la veste. Quanti non aspiravano a
questa dignità potevano quindi essere buoni credenti catari, pur restando attaccati alle pratiche
cattoliche. Per essere credente cataro bastava odiare Roma e i Francesi.
Sarebbe temerario affermare che l'intera Linguadoca fosse divenuta catara; in compenso è
più che probabile che quanti cercavano Dio con sincerità (e in quest'epoca di angoscia
dovevano essere molti) si volgessero alla Chiesa catara e non alla Chiesa cattolica.
Quando il papa, i vescovi i re parlavano di cacciare "gli eretici", è chiaro che questo termine
non designava tutte le persone che aderivano a una setta eterodossa. I credenti, anche quelli
giudicati e condannati per fatti d'eresia, non erano mai degli eretici. Il termine, nel linguaggio
del tempo, equivaleva al titolo di 'perfetto', e più precisamente al 'perfetto' cataro; e veniva così
chiaramente inteso in questo senso che gli inquisitori chiamavano i vescovi catari 'eresiarchi',
per distinguerli dai semplici 'perfetti'. Se non sappiamo quasi nulla sulla gran massa dei credenti
- le persone interrogate dall'Inquisizione erano, a diverso titolo, membri attivi della setta, quindi
una minoranza - abbiamo migliori notizie sui 'perfetti'.
Queste notizie, tuttavia, sono estremamente scarne e monotone. Si riducono all'incirca a
quanto segue: nel tale anno, nella tale località, il tale diacono o 'perfetto' ha predicato davanti
alle tali persone, ha impartito il "consolamentum" alle tali altre; è stato accolto nella casa del
tale credente, ha ricevuto doni dal tale altro credente. Nomi, luoghi, date. Si aggiunga che non
tutti i registri dell'Inquisizione sono giunti sino a noi, in quanto molti sono stati fatti a pezzi
all'epoca dagli interessati stessi, altri sono andati distrutti o persi nelle biblioteche e negli
archivi. Ma, per quanto incompleti, questi documenti danno già un'impressionante idea
dell'attività della Chiesa catara sia durante la crociata sia negli anni successivi.
Innanzitutto possiamo constatare che, malgrado la guerra che devastava il paese, malgrado i
roghi di Minerve e di Lavaur, le varie chiese catare avevano continuato la loro attività e la loro
organizzazione, nel 1225, non era inferiore a quella dei tempi precedenti la crociata. In
quell'anno la Linguadoca aveva quattro chiese, o meglio diocesi catare: quella di Albi, quella di
Tolosa, quella di Carcassonne e quella di Agen. Al concilio di Pieusse ne venne creata un'altra,
quella del Razès, vescovo della quale fu eletto Benedetto di Termes. Le circostanze della
creazione di questo vescovado mostrano fino a che punto la Chiesa catara facesse parte
organica della vita del paese. Gli abitanti del Razès, infatti, si lamentavano delle difficoltà
provocate dal fatto che una parte della loro provincia dipendesse dal vescovado di Tolosa, l'altra
dal vescovado di Carcassonne. Il concilio decise di soddisfare le richieste dei fedeli, e fu
stabilito che il vescovo di Carcassonne avrebbe scelto fra i suoi diaconi il nuovo vescovo, che
sarebbe stato consacrato dal vescovo di Tolosa. Una situazione simile non sarebbe
immaginabile se la Chiesa catara fosse stata formata da uomini costretti a nascondersi e
timorosi di essere accusati di eresia.
Dopo la morte di Simone di Montfort, la Chiesa eretica era tornata allo scoperto, e nel 1225,
anno del concilio di Pieusse, si occupava di questioni gerarchiche e amministrative proprio
come una Chiesa ufficialmente riconosciuta. Nel 1223 il legato Corrado di Porto, convocando i
prelati francesi al concilio di Sens, scrisse che i catari di Bulgaria, Croazia, Dalmazia e
Ungheria avevano appena eletto un nuovo papa, un emissario del quale - Bartolomeo Cartès -
era arrivato nella regione albigese dove aveva ordinato alcuni vescovi, attirando folle di fedeli.
L'esistenza di un 'papa' bulgaro è alquanto improbabile, ma è significativo vedere che i catari
della Linguadoca riannodavano i legami con la più antica e venerata delle Chiese manichee,
attingendovi nuove forze: anch'essi avevano bisogno di sentirsi membri di una comunità
universale. In quest'epoca, temendo il ritorno delle persecuzioni, molti eretici cominciarono ad
assicurarsi dei rifugi in province meno provate, dove le loro chiese godevano di una pace
relativa: in Lombardia, e perfino in Oriente. D'altra parte, alcuni indizi mostrano che i catari
orientali non dimenticavano i loro fratelli perseguitati.
Se i poteri pubblici sembravano ignorare la Chiesa catara, se addirittura negavano la sua
esistenza, lo facevano per scopi politici facili a comprendersi; se non si impegnavano
minimamente a combatterla, quando erano in gioco gli interessi vitali e l'indipendenza stessa
del paese, è perché l'eresia era davvero troppo forte e popolare, e perché il trionfo della causa
nazionale era anche il suo trionfo. Secondo alcuni storici cattolici, i catari avevano avuto
l'abilità di confondere la loro causa con quella nazionale, ma non ci voleva molta abilità, e
viene da chiedersi che altro avrebbero potuto fare, a meno di consegnarsi ai crociati dichiarando
che la loro religione meritava d'essere distrutta. La loro causa si è confusa con quella della
resistenza perché il popolo aveva deciso di difenderli anziché sterminarli. Non pare che il
rancore popolare abbia mai fatto pagare a dei 'buonuomini' la colpa di avere attirato sul paese la
guerra; per lo meno, i documenti noti non ci informano di nessun episodio del genere.
Per quindici anni la Linguadoca si estenuò in una lotta mortale. Da ambo le parti non
mancarono crudeltà, tradimenti, vigliaccherie e ingiustizie; nemmeno il nome di un 'perfetto'
venne mai, direttamente o indirettamente collegato a questi atti, che rendevano orribile la più
legittima delle guerre. I peggiori nemici degli eretici non hanno rimproverato loro altro che il
rifiuto di convertirsi. Si capisce che un popolo in pericolo guardasse questi uomini braccati,
imperturbabili e pacifici, come gli unici padri e consolatori, l'unica forza morale di fronte alla
quale ci si doveva inchinare.
In piena crociata i diaconi e i 'perfetti' catari continuarono a esercitare il loro ministero. La
diocesi di Tolosa ebbe addirittura due vescovi: nel 1215, quando Gaucelmo già esercitava
questa funzione, venne elevato alla dignità episcopale anche Bernardo di La Mothe, certamente
perché la Chiesa minacciata aveva bisogno di un maggior numero di pastori. Il diacono
Guglielmo Salomone tenne riunioni clandestine a Tolosa quando il Montfort era padrone della
città; il diacono Bofils predicò nel 1215 a Saint-Félix; nel 1210 tutta la nobiltà di Mirepoix
assisteva alle prediche del diacono Mercier. Ma è soprattutto a partire dal 1220 che l'attività dei
ministri catari divenne più intensa, o almeno più facile a controllarsi: le testimonianze sulle loro
riunioni e sulle diverse fasi del loro ministero sono molto più numerose. Non essendo più
obbligati a nascondersi, essi andavano nelle case dei credenti senza timore di comprometterli,
predicavano pubblicamente, ordinavano nuovi 'perfetti', 'consolavano' i moribondi,
presiedevano a banchetti liturgici; se era ancora semiclandestina, la loro attività non era più
segreta. Grandi signori ricevevano il "consolamentum" sul letto di morte, ricchi borghesi
lasciavano in eredità somme notevoli alla Chiesa catara.
Negli anni della riconquista della Linguadoca da parte di Raimondo Settimo si ritrovano le
tracce di una cinquantina di diaconi. Questi, inferiori ai vescovi e dotati di poteri la cui esatta
natura è difficile a determinarsi per la mancanza di dati precisi, erano i capi delle comunità; e il
numero di cinquanta fa supporre l'esistenza di svariate centinaia di eretici 'rivestiti', uomini e
donne. Nei grandi roghi del 1210-11 ne erano morti circa seicento (ma il dato non è certo: fra
quanti vennero mandati al rogo potevano esserci dei credenti che si fecero 'consolare' all'ultimo
istante pur di non abiurare, come un certo G. de Cadro, «bruciato ["combustus"] a Minerve dal
conte di Montfort [7]»). Ma la Chiesa catara aveva dovuto riprendersi abbastanza rapidamente
da questo colpo terribile, poiché riuscì a conservare la sua organizzazione, la sua gerarchia e un
numero considerevole di 'perfetti'.
Questo migliaio (scarso) di apostoli poteva essere pericoloso solo per l'ascendente che aveva
sul popolo, e quest'ascendente era enorme, a giudicare dal fatto che, in un paese nel quale tutti li
conoscevano, l'Inquisizione ebbe ragione di loro solo dopo una decina d'anni di spietato terrore
poliziesco. Il rigore delle misure che furono prese contro quanti li proteggevano permette di
capire sino a qual punto il popolo fosse loro devoto.
Erano ovunque. Abbiamo visto che organizzavano riunioni persino nella Tolosa sottomessa
al Montfort; dopo la riconquista del paese da parte dei signori legittimi - quasi tutti credenti essi
stessi - nulla fu più in grado di frenare la diffusione del loro movimento. Non sembra che
abbiano goduto della stessa libertà dei tempi precedenti alla crociata; per quanto i conti fossero
favorevoli all'eresia (Ruggero Bernardo di Foix lo era apertamente, Raimondo Settimo con
discrezione) il pericolo che attiravano sulla loro patria spingeva i 'perfetti' alla prudenza. In
quest'epoca vennero istituiti laboratori di tessitura che in realtà costituivano dei seminari catari:
è il caso di quello di Cordes, diretto da Siccardo di Figueiras e visitato da tutta la nobiltà della
regione. Guilberto di Castres, promosso vescovo di Tolosa nel 1223, aveva una casa e un
ospizio a Fanjeaux, vicino a Prouille, dove si trovava il primo convento domenicano; e il papa
proteggeva apertamente il nuovo ordine dei Frati Predicatori, il cui illustre fondatore era morto
nel 1221. L'infaticabile vescovo cataro spese la sua vita compiendo viaggi pastorali; dirigeva le
comunità di Fanjeaux, di Laurac, di Castelnaudary, di Montségur, di Mirepoix, senza contare
Tolosa che si onorava di averlo come vescovo. In quell'epoca doveva avere circa sessant'anni,
dal momento che già trent'anni prima dirigeva la casa di Fanjeaux, e che sarebbe morto una
ventina d'anni più tardi. Nel 1207 aveva tenuto testa a san Domenico e ai legati in occasione
della conferenza e del dibattito di Montréal; dal 1220 al 1240 si trovano tracce del suo
passaggio nella maggior parte delle città e dei castelli delle regioni di Tolosa, di Carcassonne e
nella contea di Foix. Era a Castelnaudary quando la città subì l'assedio di Amalrico di Montfort
nel 1222; più tardi, quando i catari furono nuovamente esposti alle persecuzioni, fu lui a
chiedere a Raimondo di Perella, signore di Montségur, di mettere il castello a disposizione della
sua Chiesa e di organizzarvi il quartier generale della resistenza catara. La data e le circostanze
della sua morte restano oscure.
Sconcerta un po' constatare che di quest'uomo che sembra essere stato una delle grandi
personalità della Francia del tredicesimo secolo (come degli altri capi del movimento, quali
Bernardo di Simorre, Siccardo Cellerier, vescovo di Albi, Pietro Isarn, vescovo di Carcassonne
mandato al rogo nel 1226, Bernardo di La Mothe, Bertrando Marty, successore di Guilberto, e
di tanti altri) la storia ci dica tanto poco, mentre invece non ignoriamo nulla della
corrispondenza di Innocenzo Terzo, o degli scatti d'ira e degli slanci di pietà di Simone di
Montfort. La storia delle vicende e delle azioni di questi apostoli perseguitati forse sarebbe stata
altrettanto feconda di ispirazione e di insegnamenti di quella di un san Francesco d'Assisi;
anch'essi erano messaggeri dell'amore di Dio. Non lascia indifferenti il pensiero che quelle
fiaccole siano state spente per sempre, che i loro volti siano stati cancellati, che il loro esempio
sia andato perduto per quanti, nei secoli seguenti, essi avrebbero potuto aiutare a vivere. Se
nulla può riparare questo crimine contro lo spirito, per lo meno, confessando la nostra
ignoranza, dobbiamo riconoscere che venne distrutto qualcosa di grande. La storia del
medioevo quale la conosciamo sarebbe falsa senza questo grande spazio rimasto vuoto.
Di fronte alla crescente potenza dell'eresia, la Chiesa della Linguadoca non pare disponesse
più di strumenti di intimidazione sufficienti; e se gli stessi vescovi erano costretti a rifugiarsi a
Montpellier, che cosa potevano fare i semplici chierici e curati? Malgrado le reiterate offerte del
conte di Tolosa, che prometteva di espellere gli eretici, il clero non poteva sentirsi sicuro se non
sotto l'autorità del re di Francia; se anche avesse avuto il più grande desiderio di cacciare gli
eretici, il conte non avrebbe potuto farlo senza l'aiuto di un esercito straniero, la cui presenza
evidentemente egli non si augurava.
Tuttavia, se durante gli anni della liberazione la Chiesa era praticamente impotente, non
restò però inattiva. L'ordine dei Frati Predicatori, creato da san Domenico e riconosciuto l'11
febbraio 1218 da Onorio Terzo, si era radicato nella regione di Tolosa già prima della crociata
sotto il patronato di Folco, quando ancora non era un ordine monastico indipendente, ma solo
una comunità di religiosi particolarmente votati alla lotta contro l'eresia.
Abbiamo visto quali siano stati gli esordi dell'attività di san Domenico in Linguadoca. La
fondazione del monastero di Prouille, a qualche chilometro dal grande centro cataro di
Fanjeaux, fu un atto di coraggio in un momento in cui gli eretici erano padroni della regione.
Tre anni dopo la crociata ribaltò la situazione al punto che i nemici di san Domenico venivano
perseguitati e privati delle loro terre; Simone di Montfort, che venerava il canonico di Osma,
attribuì al nuovo monastero parte dei domini confiscati ai signori di Laurac, padroni di
Fanjeaux. Essi avrebbero ripreso le loro terre dopo la vittoria di Raimondo Settimo; ma i
monaci di Prouille già godevano della speciale protezione del papato, e i loro confratelli
avevano dato vita a nuove comunità non solo in Linguadoca, ma in tutta Europa.
Incontestabilmente san Domenico fu uno dei capi della lotta all'eresia in Linguadoca, forse
anche il suo vero grande capo spirituale. Durante la crociata i legati erano troppo presi dalla
guerra e dalla diplomazia per avere il tempo di occuparsi degli eretici; fra i vescovi, il solo che
diede prova di grande determinazione nella lotta all'eresia fu Folco di Tolosa, che fin dall'inizio
venne ispirato e forse aiutato da san Domenico. Uno storico eminente come Jean Guiraud
suggerisce addirittura che quest'ultimo non sia stato estraneo alla creazione della Confraternita
bianca di Tolosa: il vescovo e il canonico di Prouille erano animati dalla medesima passione per
la fede e dal medesimo spirito combattivo.
Per dieci anni san Domenico esercitò in Linguadoca un apostolato reso equivoco e al
contempo penoso dai successi della crociata; si deve supporre che i Frati Predicatori venissero
reclutati fra i cattolici più fanatici e non fra gli eretici convertiti. In ogni caso, dopo avere
lasciato Prouille sotto la direzione dei fratelli Claret e Natale, Domenico si trasferì a Tolosa,
dove divenne il più fedele collaboratore del vescovo. Nel luglio 1214 Folco emanò un atto in
base al quale «per estirpare l'eresia ed eliminare il vizio, insegnare la regola della fede...,
istituiamo come predicatori nella nostra diocesi fratello Domenico e i suoi compagni (8)».
Domenico fece parte del seguito del vescovo costretto all'esilio e - a Muret - l'abbiamo visto
distinguersi per l'ardore con il quale pregava Dio di concedere la vittoria ai crociati,
invocandolo con grida e suppliche. L'impetuoso predicatore - che era stato visto in sogno dalla
madre sotto forma di un cane che abbaiava (contro i nemici di Dio) - non poteva restare
inattivo durante l'attesa del trionfo dell'armata di Cristo; continuò la sua opera di predicazione e
formò i quadri del suo futuro ordine; raccolse intorno a sé uomini appassionati e intrepidi,
votati anima e corpo alla predicazione e alla lotta per estirpare l'eresia.
Protetto dal vescovo di Tolosa che gli aveva specificamente affidato il compito della
predicazione, Domenico era anche stato investito dal legato Arnaldo del potere
dell'Inquisizione: in altri termini, egli era riconosciuto come un'autorità competente in materia
di ortodossia; spettava a lui 'convincere' gli eretici e dichiarare assolti e riconciliati quanti si
convertivano; imporre loro penitenze e consegnare certificati comprovanti che erano tornati in
seno alla Chiesa. Se possediamo uno solo di questi certificati (forse ne esistettero di più...),
abbiamo la testimonianza di varie persone convertite durante la crociata, nel 1211, nel 1214,
specie nella zona di Fanjeaux. I biografi di Domenico (9) segnalano un ulteriore episodio che
mostra come egli fosse in rapporti diretti con la giustizia ecclesiastica e procedesse
all'interrogatorio di persone accusate di eresia. Quando numerosi eretici, che malgrado gli aspri
rimproveri del santo avevano insistito nei loro errori, vennero consegnati al braccio secolare,
Domenico, guardandone uno negli occhi, capì che poteva essere ricondotto a Dio e intervenì
per risparmiargli il rogo: vent'anni più tardi quest'eretico incallito si sarebbe davvero convertito
(10). Un simile atto di clemenza compiuto da san Domenico ci fa supporre che, se avesse
voluto, avrebbe potuto salvare dal rogo gli altri condannati, nella speranza che un giorno -
cinque, dieci o vent'anni dopo - si sarebbero convertiti. Dato il suo carattere deciso, è poco
probabile che si sia rifiutato di intervenire in favore di quegli sfortunati per timore del legato, o
per paura di indebolire l'autorità della Chiesa. Per giustificare un uomo che ha il potere di
salvare il suo prossimo da una morte atroce e non lo impiega fino in fondo si può invocare la
vigliaccheria, una grande durezza di cuore oppure il fanatismo; se è difficile scusare un uomo
simile, è ancora più difficile ammirarlo.
Fu in Domenico, comunque, che la resistenza cattolica all'eresia trovò la sua incarnazione, e
il suo spirito avrebbe dominato l'ordine dei Frati Predicatori da lui creato; ordine che in pochi
anni avrebbe compiuto progressi folgoranti. Quando egli morì, nel 1221, il suo ordine contava
numerosi conventi e godeva del più grande favore della Santa Sede. Ritorneremo più volte
sull'ordine domenicano, sullo spirito che lo animava e sulla storia del suo sviluppo. Un fatto è
certo: nacque dalla crociata, e restò a lungo impregnato del ricordo di quegli anni sanguinosi;
non era stato creato per portare la pace degli spiriti, e non predicava né la carità né il perdono.
La crociata del re Luigi aveva gettato la Linguadoca, mentre cercava di risollevarsi ed era
ancora tramortita, in una disperazione documentata in modo inequivocabile dalle innumerevoli
defezioni e capitolazioni in massa che, in pochi mesi, consegnarono all'esercito reale più della
metà del paese. Questa disperazione dovette durare poco, la resistenza si riorganizzò
rapidamente, la morte del re consentì nuovamente di coltivare ogni speranza e gli occupanti
francesi tenevano le posizioni solo a fatica, grazie agli aiuti inviati dalla madrepatria. Tuttavia
quell'uomo di legge che era Romano di Sant'Angelo aveva trovato il tempo, durante la breve
campagna del 1226, per riorganizzare la conquista reale sul modello degli statuti di Pamiers,
inasprendo ulteriormente le misure contro gli eretici. Ove i Francesi non erano i padroni, queste
misure restavano lettera morta, ma la caccia agli eretici, dal 1226, ricominciò: il vescovo cataro
di Carcassonne, Pietro Isarn, venne bruciato sul rogo a Caunes, e il diacono Gerardo di La
Mothe fece la stessa fine dopo la presa di La Bessède. La crociata era ricominciata; e se il paese
era più deciso a resistere di quanto non lo fosse nel 1209, era troppo sfinito per resistere a
lungo.
Grazie alla crociata la Linguadoca era divenuta più 'eretica' che mai; ma almeno la guerra
l'aveva ridotta in tali condizioni di debolezza da rendere infine possibile la vera repressione
dell'eresia. Il re, o meglio la reggente, indubbiamente pensava anzitutto ad annettersi una
provincia con il concorso della Chiesa. Per la Chiesa l'eresia rappresentava un pericolo tale che
essa si preoccupava poco dell'incalcolabile danno morale e materiale che quest'annessione
poteva causare al paese. La tristezza dei tempi aveva voluto che - secondo le dolorose parole di
Dante a proposito di Folco - i pastori si fossero trasformati in lupi.
E in realtà sembra che per la Linguadoca l'Inquisizione sia stata una disgrazia ancora più
grande dell'annessione al regno di Francia.
3. IL TRATTATO DI MEAUX.
Dopo vent'anni di guerra, la Linguadoca venne riunita alla Francia nel modo più
tradizionale e, in apparenza, più legale del mondo: tramite il matrimonio di colei che aveva in
eredità la contea di Tolosa con un fratello del re di Francia. Se Raimondo Settimo avesse avuto
un figlio anziché una figlia, forse la conquista francese avrebbe potuto essere contestata ancora
a lungo, e forse, col tempo, il casato di Tolosa sarebbe riuscito a recuperare parte della sua
indipendenza. La casata di Saint-Gilles era troppo popolare nel paese, il diritto ereditario troppo
universalmente riconosciuto come sacro perché la spoliazione pura e semplice dei conti di
Tolosa fosse possibile; l'avventura di Simone di Montfort l'aveva provato chiaramente.
Raimondo Settimo aveva solo una figlia e la contessa Sancia, da nove anni, non aveva dato
altri figli al suo sposo. Se, nel 1223, il conte già pensava di ripudiare l'"infanta" d'Aragona per
sposare la sorella di Amalrico di Montfort, è certo perché egli sapeva che la moglie non gli
avrebbe più dato eredi. La Chiesa non intendeva accondiscendere a un divorzio che avrebbe
favorito le mire dinastiche di Raimondo. (I matrimoni dei principi, a quel tempo, si facevano e
si scioglievano secondo gli interessi politici, ma solo la Chiesa aveva il potere di annullarli, e
approvava solo quei ripudi che potevano servire la sua causa o che, almeno, non le creavano
ostacoli.) La piccola principessa Giovanna era quindi predestinata a divenire lo strumento della
conquista reale. Suo padre, preoccupato di trovarsi un genero che potesse divenire suo alleato,
l'aveva promessa al figlio di Ugo di Lusignano, conte della Marca, il più potente signore del
Poitou e avversario dichiarato del re di Francia. In seguito alle insistenze e alle minacce di
Luigi Ottavo, il conte della Marca dovette, nel 1225, rimandare a suo padre la bambina, che già
gli era stata affidata.
Fu dunque sulla base di un'alleanza matrimoniale che la reggente concepì il trattato di pace
da proporre al conte tramite la mediazione dell'abate di Grandselve. La piccola contessa di
Tolosa veniva destinata al secondogenito di Bianca, Alfonso di Poitiers; nel 1229 entrambi
avevano nove anni.
Per rendere possibile questo matrimonio fu necessaria una dispensa papale: Raimondo
Settimo era parente sia di Luigi Ottavo (Costanza, sua nonna materna, era sorella di Luigi
Settimo) sia di Bianca di Castiglia (sua madre, Giovanna d'Inghilterra, era sorella di Eleonora,
madre di Bianca; entrambe erano figlie di Eleonora d'Aquitania). Se, in via di principio, questa
parentela abbastanza stretta costituiva un ostacolo canonico al matrimonio, sembrava, a prima
vista, rappresentare una garanzia per l'avvenire: la soluzione della questione della Linguadoca
assumeva quasi l'aspetto di un affare di famiglia; sollecitando per suo figlio la mano della
principessa Giovanna, Bianca di Castiglia sembrava trattare Raimondo da parente più che da
nemico.
Tuttavia, le condizioni proposte dalla regina e trasmesse a Raimondo Settimo tramite i buoni
uffici dell'abate di Grandselve erano eccezionalmente dure, se si pensa che, oltre a questo
matrimonio obbligato che portava la Linguadoca in dote alla corona di Francia, si chiedevano al
conte garanzie e indennità tali da mettere fin d'ora la provincia occitana sotto le dipendenze
della casa reale.
Verso la fine del 1228, a Baziège, Raimondo incontrò Elia Guérin, abate di Grandselve, che
gli comunicò le proposte di pace; in ogni caso, in un atto datato 10 dicembre e da lui firmato, il
conte dichiarava di accettare la mediazione dell'abate e prometteva di «ratificare tutto quanto
sarà fatto da lui e con lui in presenza del nostro carissimo cugino Tebaldo, conte di
Champagne». La lettera aggiunge che tale decisione era stata approvata dai baroni e dai consoli
di Tolosa. La personalità cui il conte chiedeva di svolgere un ruolo di mediazione e, in certo
modo, di arbitrato, era parente sia della regina sia di Raimondo Settimo, per parte della nonna
Maria di Francia, anche lei figlia di Eleonora d'Aquitania. Tebaldo di Champagne, vassallo
alquanto recalcitrante del regno di Francia (malgrado avesse fama di amante della regina),
apparteneva a quel gruppo di grandi feudatari sempre oscillanti fra l'obbedienza al re e le
velleità indipendentiste. Uomo versatile, ma brillante e colto, innamorato degli ideali cortesi e
della letteratura, lui stesso poeta, era noto per le sue tendenze liberali e persino anticlericali. (Si
trovano nelle sue canzoni versi che apertamente stigmatizzano il comportamento della Chiesa
che ha «abbandonato la predicazione per guerreggiare e ammazzare la gente». «Il nostro capo
[il papa] fa soffrire tutte le membra!» [11].) Questo conte, quindi, aveva tutte le ragioni per
provare simpatia verso Raimondo Settimo e, nel 1226, aveva partecipato alla crociata contro
voglia; ma, proprio per questo, non era troppo ascoltato da Bianca di Castiglia. Comunque, la
sua mediazione pare non sia servita a nulla, salvo forse ad alimentare false speranze in
Raimondo Settimo. Se, come vedremo, Tebaldo di Champagne non ottenne granché, la regina
doveva però essere molto ansiosa di concludere la pace con il conte, perché già nel gennaio
1229, malgrado i rigori dell'inverno e le difficoltà del viaggio, l'abate di Grandselve fece ritorno
a Tolosa, latore del progetto di trattato elaborato dalla reggente e dal legato.
Secondo questo progetto il re di Francia (nella persona di sua madre) riconosceva come suoi,
senza riserve e senza discussioni, l'antico dominio dei Trencavel, ossia: il Razès, il Carcassès e
l'Albigeois, la città di Cahors e le terre dipendenti dal conte di Tolosa in Provenza (al di là del
Rodano). Il re «lasciava» al conte il vescovado di Tolosa e gli «cedeva» quelli di Agen e di
Rodez (l'Agenais e il Rouergue meridionale); ma in queste terre Raimondo Settimo doveva far
smantellare trenta piazzeforti, venticinque delle quali venivano specificate (vi erano fra l'altro
città importanti come Montauban, Moissac, Agen, Lavaur e Fanjeaux), mentre la scelta delle
altre cinque veniva lasciata alla discrezione del re. I beni delle persone «spodestate» dalla
riconquista (ossia i beni dei crociati del Montfort) dovevano essere restituiti. Il conte doveva
lasciare al re nove fortezze (fra le quali le due Penne, quella presso Agen e quella presso Albi)
per una durata di dieci anni.
Per di più, il conte doveva «consegnare» sua figlia, che sarebbe stata data in moglie a un
fratello del re (non designato) e che sarebbe divenuta l'unica erede dei domini di Tolosa,
escludendo così gli altri figli che suo padre avrebbe potuto avere in seguito (eccettuato il caso
che ella morisse prima di lui, e che a questa data egli avesse dei figli legittimi).
Solo a questo prezzo il conte poteva riconciliarsi con la Chiesa, condizione preliminare del
trattato perché - si aggiungeva - «se la Chiesa non ci perdona... il re non sarà tenuto a osservare
questa pace, e se il re non l'osserva nemmeno noi vi saremo tenuti».
In questo progetto di pace, diffuso dagli araldi nelle città del Mezzogiorno, si accennava
appena agli eretici; l'obbligo di perseguitarli era indubbiamente sottinteso dal fatto stesso della
riconciliazione con la Chiesa, ma non si parlava esplicitamente delle misure da prendere contro
di loro, che sembravano lasciate all'iniziativa del conte.
Per duro che fosse, questo trattato non fu considerato del tutto inaccettabile dai baroni e dai
consoli che Raimondo Settimo convocò al capitolo di Tolosa per sottoporre al loro giudizio le
proposte reali. Si decise che in ogni caso il conte si sarebbe recato a Parigi, accompagnato da
una delegazione di baroni e di dignitari delle città più importanti, per tentare di negoziare, sulla
base di quel progetto, una pace più vantaggiosa. L'abate di Grandselve portò la risposta del
conte alla regina, che decise di convocare, entro la fine di marzo, una conferenza a Meaux (città
in qualche modo neutrale, in quanto dipendente dal conte di Champagne) per fissare le
condizioni definitive della pace.
Il trattato non era ancora stato firmato. Il fatto stesso che a chiedere il negoziato, e con una
urgenza poco comune, fosse il nemico, indubbiamente spingeva i baroni del Sud a credere che
si trattasse della manovra di chi era deciso a mercanteggiare, e deliberatamente cominciava con
delle pretese esorbitanti per lasciarsi in seguito la libertà di ridimensionarle. Data la terribile
situazione economica del paese, sarebbe stato imprudente respingere delle offerte di pace; è
quindi certo che il conte si recò a Meaux con l'intenzione di negoziare e di discutere, non di
capitolare senza condizioni.
Ci si può chiedere quali considerazioni abbiano costretto Raimondo Settimo a firmare un
trattato ben più oneroso di quello che gli era stato proposto e che i suoi consiglieri e vassalli
avevano accettato solo con alcune riserve. Se anche un contemporaneo ben informato e per
nulla sospetto di fanatismo antifrancese come Guglielmo di Puylaurens stenta a capire, noi
capiamo ancora meno. La logica della storia vuole che il vincitore schiacci il vinto fino ai limiti
del possibile, e si deve credere che la Linguadoca, malgrado apprezzabili successi militari, si
trovasse in uno stato di miseria del quale le testimonianze giunte sino a noi danno solo una vaga
idea. Ma resta vero che fu un trattato scandaloso e, se possibile, più crudele della pura e
semplice deposizione di Raimondo Settimo compiuta dal Concilio Laterano.
Il conte di Tolosa giunse in Francia a capo di una grande delegazione, composta da
rappresentanti della nobiltà, della borghesia e del clero della Linguadoca.
Fra queste personalità si trovavano venti notabili tolosani, consoli o baroni; fra gli altri,
Bernardo Sesto, conte di Comminges, Ugo d'Alfaro, cognato (naturale) del conte, Raimondo
Maurand, figlio di quel Pietro Maurand che venne flagellato ed esiliato nel 1173, Guido di
Cavaillon, Ugo di Roaix, Bernardo di Villeneuve, e altri. Il conte di Foix, Ruggero Bernardo,
non accompagnava il suo sovrano: indubbiamente la sua propensione verso l'eresia era troppo
nota, ed egli poteva temere di far fallire i negoziati presentandosi di persona. Privata dell'uomo
che, più dello stesso conte di Tolosa, era l'anima della resistenza occitana, la delegazione, in
compenso, non mancava di rappresentanti del clero: accompagnavano il conte, decisi a
difendere dinnanzi al concilio di Meaux i diritti della Chiesa, l'energico Pietro Amiel, nuovo
arcivescovo di Narbonne, il vecchio vescovo di Tolosa, i vescovi di Carcassonne e di
Maguelonne, gli abati di La Grasse, di Fontfroide, di Belleperche e naturalmente quello di
Grandselve. Il corteo comprendeva inoltre i nuovi signori di Albi, i vecchi compagni del
Montfort (o i loro eredi), Guido di Lévis il 'maresciallo', Filippo di Montfort, Giovanni di
Bruyère, il figlio di Lamberto di Goissy, e altri ancora, i quali venivano tutti a ricevere dal re
l'investitura che li confermasse nei loro nuovi possedimenti.
La reggente aveva fatto riunire a Meaux un grande concilio, in cui erano stati convocati i
vescovi e gli abati del Nord come del Sud. L'assemblea era presieduta dall'arcivescovo di Sens,
assistito dagli arcivescovi di Bourges e di Narbonne; ma il vero capo della delegazione
ecclesiastica era il cardinale legato Romano di Sant'Angelo, nella sua qualità di legato delle
Gallie, che aveva al suo fianco i legati d'Inghilterra e di Polonia. A capo dei rappresentanti della
corona vi erano il conestabile Matteo di Montmorency e Matteo di Marly (entrambi parenti dei
Montfort), e il conte Tebaldo di Champagne, il mediatore ufficiale della pace che stava per
essere conclusa.
Fatta eccezione per il conte di Champagne, Raimondo Settimo, arrivando a Meaux, si
trovava quindi in un'assemblea composta in parte dai suoi peggiori nemici, in parte da potenti
ecclesiastici che non potevano certo discutere con lui alla pari, ma che, nella migliore delle
ipotesi, potevano trattarlo da criminale pentito. Era venuto per trattare con il re di Francia e si
trovava in un certo senso tradotto davanti a un tribunale ecclesiastico; anche se è vero che il
potere laico era rappresentato da una reggente che da sola valeva dieci vescovi.
L'attaccamento di Bianca di Castiglia alla fede cattolica è troppo noto perché ci sia bisogno
di insistervi. Lungi dall'imitare la sua antenata Eleonora d'Aquitania nell'ispirare la poesia
cortese e nel condurre vita mondana e brillante, questa regina consacrava alla preghiera e allo
studio il tempo lasciatole libero dai suoi compiti di madre: ebbe undici figli, e se la leggenda
che vuole che li abbia allattati di persona è falsa (si sa che san Luigi ebbe varie nutrici), resta
vero che si occupò direttamente della loro educazione, conservando per tutta la vita una
profonda influenza su di loro. Estremamente autoritaria, anche dopo che il figlio raggiunse la
maggiore età ella rimase la vera reggente del regno. La responsabilità del trattato di Meaux va
quindi attribuita a lei più che al cardinale legato; ma lei stessa era spinta da un'autorità superiore
che serviva con una devozione cieca, benché interessata. Per un concorso di circostanze
eccezionalmente favorevoli, nella questione della Linguadoca la sua pietà veniva a servire i suoi
interessi.
Per Raimondo Settimo dover trattare con una donna, quando si decidevano le sorti del suo
paese, era senza dubbio una sfortuna. Un uomo, magari lo stesso Filippo Augusto, forse si
sarebbe vergognato di rendersi colpevole di un simile abuso di potere; forse sarebbe stato
frenato dal rispetto delle tradizioni feudali, dal timore del biasimo pubblico, dalla necessità di
trattare con riguardo l'avversario nella speranza di farsene un alleato. Nell'atteggiamento di
Bianca si sente invece la durezza della donna rimasta vedova quando ancora aveva i figli in
braccio, e costretta a 'difendersi'. Donna, per la debolezza del suo sesso ella era al di fuori delle
tacite convenzioni che regolavano i rapporti fra gli uomini: in politica aveva il coraggio (spesso
premiato dalla fortuna) dei dilettanti, che osano molto per ignoranza e per disprezzo delle
regole, più che per calcolo. Donna, ella si lasciò dominare dai suoi sentimenti e, cattolicissima,
non trovò affatto riprovevole ascoltare, in una questione di stato, più il parere dei preti che
quello dei laici. Il suo attaccamento al legato Romano di Sant'Angelo prova fino a che punto
ella si fosse schierata, anima e corpo, dalla parte della Chiesa.
Poco importa sapere se fra i due ci furono o meno quelle relazioni colpevoli che i
contemporanei hanno attribuito loro (il legato era ancora giovane e l'affetto che la regina gli
manifestava era troppo evidente). Fiera e devota, undici volte madre e oppressa dalle
preoccupazioni di un compito schiacciante, la reggente aveva ancora tempo e sentimenti da
sprecare in un intrigo amoroso? La voce pubblica l'accusò, come avrebbe accusato più tardi
Anna d'Austria, un'altra reggente costretta ad appoggiarsi a un sacerdote per governare. Quel
che importa, e che è certo, è che l'influenza di Romano di Sant'Angelo fu grandissima, e che in
ogni circostanza la regina approvò il suo legato e gli lasciò mano libera.
Il programma di repressione sistematica dell'eresia, che trasformava il trattato di Meaux in
una vera e propria dominazione della Chiesa sulla Linguadoca, venne elaborato sotto la
direzione del legato; ma anche la regina aveva un tale orrore dell'eresia che, più tardi, san Luigi,
suo figlio e fedele discepolo, avrebbe consigliato ai suoi amici di affondare la spada nel ventre
di chiunque facesse loro discorsi viziati da eresia o da incredulità. Una donna simile non poteva
non approvare senza riserve tutte le misure che il legato prese contro i nemici della Chiesa.
Alla base delle trattative proposte a Raimondo Settimo c'era un malinteso volontario: da un
lato egli era il capo di un paese belligerante, intenzionato a concludere la pace; dall'altro era uno
scomunicato, senza diritti né titoli, che aveva commesso il crimine di contendere al re terre che
appartenevano a quest'ultimo per decisione della Chiesa. La missione dell'abate di Grandselve
era indirizzata al conte di Tolosa; arrivato a Meaux, Raimondo Settimo si ritrovò come un
semplice scomunicato cui si faceva l'eccessivo onore di accettare la sua incondizionata
sottomissione. I negoziati precedenti erano stati solo una finzione destinata ad attirare il conte
nella trappola.
Recatosi a Meaux, egli non aveva altra alternativa che accettare le condizioni dei suoi
giudici, oppure interrompere le trattative. Del resto non è del tutto certo che, in caso di aperta
rottura, sarebbe stato libero di ripartire e di riprendere la guerra: dopo avere firmato il trattato di
pace venne tenuto prigioniero al Louvre; nulla ci dice che, se si fosse rifiutato di farlo, sarebbe
stato trattato con maggiori riguardi.
Le modifiche introdotte dal legato ai preliminari del trattato erano abbastanza notevoli.
Innanzitutto Tolosa doveva nuovamente essere privata delle sue mura, cinquecento tese delle
quali (quasi un chilometro) dovevano essere rase al suolo, mentre il Castello Narbonese,
residenza dei conti, doveva essere dato al re di Francia. Inoltre, le indennità da pagare per i
danni di guerra alle chiese e alle abbazie (comprese quelle di Cîteaux e di Clairvaux che, non
essendo in Linguadoca, non avevano subito alcun danno) raggiungevano somme enormi, così
come le spese di mantenimento della guardia del Castello Narbonese per conto del re (ventimila
marchi in tutto, pagabili in quattro anni). Il trattato prevedeva poi la creazione di una scuola di
teologia a Tolosa, diretta da maestri imposti dal re e dalla Chiesa, per gestire la quale il conte
doveva pagare la cifra di quattromila marchi. Infine, il conte si impegnava formalmente a
combattere gli eretici, a farli ricercare dai suoi balivi, a pagare due marchi d'argento a chiunque
aiutasse a catturare un eretico, a far confiscare i beni di quanti, essendo scomunicati, entro il
termine di un anno non si fossero riconciliati con la Chiesa, a non affidare più cariche pubbliche
agli ebrei e alle persone sospette di eresia, a combattere chiunque si rifiutasse di sottomettersi al
trattato, in particolare il conte di Foix.
L'erede e l'eredità del conte sarebbero passate, come convenuto, nelle mani del re di Francia;
questi avrebbe ereditato anche nel caso in cui suo fratello (futuro sposo dell'ereditiera di Tolosa)
morisse senza figli e il conte avesse altri figli legittimi. La prescrizione era contraria alle
consuetudini e poco logica, dal momento che per assicurarsi il possesso della contea di Tolosa il
re aveva comunque bisogno del pretesto legale costituito dal progetto di matrimonio. Dobbiamo
credere che Raimondo Settimo, per parte sua, contasse sulla forza del diritto ereditario: aveva
appena trentadue anni, e non gli mancava il tempo per risposarsi, vanificando così i piani troppo
ambiziosi della reggente.
Numerosi storici, a cominciare da Dom Vaissette, hanno rimproverato a Raimondo di aver
sottoscritto questo trattato. Non sappiamo quali pressioni furono esercitate su di lui, ma è
evidente che ai suoi occhi, come agli occhi dei suoi contemporanei, si trattava di una «pace
forzata» (12), quindi provvisoria, che poteva essere denunciata non appena le circostanze
fossero divenute più favorevoli. Il precedente del Concilio Laterano era ancora ben presente a
tutti. Da sempre i vinti praticano la politica del pezzo di carta, il rispetto dei trattati è sacro solo
per i vincitori.
Dopo che le condizioni del trattato furono ratificate dal sinodo di Meaux, restava solo da
farle confermare solennemente dal giovane re e dalla reggente. La cerimonia venne fissata per il
giovedì santo, 12 aprile: solo allora il conte sarebbe stato finalmente assolto e riconciliato alla
Chiesa, sul sagrato di Notre-Dame, alla presenza della regina, dei baroni, dei legati, dei vescovi,
del parlamento e del popolo di Parigi.
Il giorno della celebrazione della pace fra il re di Francia e un grande vassallo del
Mezzogiorno si segnalò per una pompa degna dell'avvenimento. Quell'atto diplomatico fu
anche un grande spettacolo, con tribune e gradinate disposte intorno al sagrato della cattedrale
ancora nuova, scintillante d'oro e di colori vivaci, che rivaleggiava in splendore con le vesti
sontuose dei baroni, delle dame, dei prelati, con le bandiere, i baldacchini, i tappeti, le armature
delle guardie reali, i cavalli magnificamente bardati. La regina e suo figlio, il giovane Luigi
Nono, seduti sui loro troni, avevano alla destra i prelati, i baroni alla sinistra; davanti a loro era
stato innalzato un pulpito, con un Vangelo, dove il conte di Tolosa avrebbe giurato di osservare
il trattato di pace.
A dire il vero il conte, durante questa cerimonia, dovette apparire non come un principe che
viene a firmare un trattato di pace, ma come un vinto portato in trionfo dietro al carro del
vincitore. Quattordici anni prima un trattamento ben più indegno era stato inflitto a Ferrando,
conte delle Fiandre, trascinato a Parigi su di un carro, con i ferri alle mani e ai piedi, fra le
ingiurie della folla; e il popolo, che gode sempre dell'umiliazione di un gran signore, vedeva nel
conte di Tolosa un nemico giurato del re di Francia, giustamente punito per la sua perfidia.
Ma Raimondo Settimo non era stato vinto in battaglia, non era stato fatto prigioniero, né era
colpevole di aver in alcun modo tradito la parola data: era spontaneamente venuto per
concludere una pace più vantaggiosa per la Francia che per il suo paese. Se bisognava a ogni
costo presentarlo come uno sconfitto al quale solo per bontà si concede la grazia, era perché
(indipendentemente dal ruolo svolto nella vicenda dalla Chiesa) la dinastia capetingia stava
divenendo abbastanza forte da credersi al potere per diritto divino.
Il notaio reale lesse ad alta voce, davanti al re e alla reggente, all'assemblea dei prelati e dei
baroni, il testo del trattato, che era redatto a nome del conte di Tolosa il quale, del resto, era
l'unico che prendesse un qualche impegno; il re e la Chiesa, infatti, non gli promettevano nulla,
eccettuata la liberazione del popolo di Tolosa dagli obblighi presi con il re di Francia e con i
Montfort, obblighi che comunque non avevano più alcun valore reale. Il conte, con il trattato,
dichiarava: «Che il mondo intero sappia che, avendo lungamente sostenuto la guerra contro la
santa Chiesa romana e il nostro carissimo signore Luigi, re dei Francesi, e che, desiderando con
tutto il nostro cuore di essere riconciliati all'unità della santa Chiesa romana, e di perseverare
nella fedeltà e nel servizio del signore re di Francia, sia direttamente, sia tramite intermediari,
abbiamo compiuto sforzi per raggiungere la pace. La quale, per mezzo della grazia divina, è
stata conclusa fra la Chiesa romana e il re dei Francesi da una parte, noi dall'altra, nei termini
che seguono (13)» .
C'è qualcosa di strano in questo trattato nel quale la Chiesa ufficialmente si abbassa al rango
di potenza belligerante assimilabile al re dei Francesi; mai l'equivoca mescolanza dei poteri
spirituale e temporale venne spinta oltre. Sembrava che la Chiesa, per assolvere uno
scomunicato, avesse prima bisogno di farlo spodestare da qualcun altro. Le origini di questa
strana situazione risalgono al Concilio Laterano: dal punto di vista della Chiesa, il re, legittimo
proprietario della Linguadoca (in quanto erede dei diritti del Montfort), poteva disporne
liberamente.
A meno di schierarsi apertamente contro la Chiesa, il conte e la sua delegazione non avevano
nulla da rispondere ad argomenti simili che, tuttavia, si fondavano su di una pura e semplice
finzione giuridica. Era dunque la Chiesa a dettare per prima le sue condizioni: sterminio degli
eretici con ogni mezzo, restituzione dei suoi beni, indennizzo dei danni fatti alle chiese e agli
ecclesiastici, fondazione della scuola di teologia, penitenza in Terra Santa, e altro ancora.
La pace reale veniva solo in seguito: il matrimonio della figlia del conte con uno dei fratelli
del re. Mai un regalo tanto magnifico venne accolto così di malavoglia: «Nella speranza - dice
il trattato - che noi persevereremo nella nostra devozione alla Chiesa e nella nostra fedeltà alla
sua persona, il re ci fa la grazia di ricevere nostra figlia, che noi gli daremo per offrirla in sposa
a uno dei suoi fratelli, e di lasciarci Tolosa e la sua diocesi, eccettuata la terra del maresciallo,
che il maresciallo riceverà dal re; di modo che, dopo la nostra morte, la città e la contea
torneranno a nostro genero o, in caso egli venisse meno, al re...». In questo modo il classico
diritto ereditario veniva trasformato in un favore reale, in un pretesto inventato dal re per
lasciare al futuro suocero di uno dei suoi fratelli l'usufrutto dei suoi antichi domini. Tuttavia
Raimondo Settimo, lui stesso nipote di una figlia legittima del re di Francia e di un re
d'Inghilterra, non doveva considerare come una «grazia» il matrimonio della sua erede con un
fratello del re.
La pubblica lettura di questo ambiguo trattato proseguì con l'enumerazione delle città da
smantellare, delle indennità da pagare, dei giuramenti di fedeltà da esigere dai vassalli, fino
all'ultima clausola, la sola che facesse menzione degli obblighi del re: il re liberava gli abitanti
di Tolosa e tutte le popolazioni del paese dai precedenti impegni contratti sia con lui, sia con il
suo predecessore, sia con il conte di Montfort. Terminata la lettura il conte e il re apposero le
loro firme in fondo al trattato.
Dopo la firma, e dopo che ebbe promesso di lasciare venti ostaggi scelti fra le persone del
suo seguito a garanzia della sua lealtà, il conte Raimondo Settimo venne infine riconciliato con
la Chiesa; ma prima dovette subire la pubblica umiliazione patita venti o più anni prima da suo
padre sul sagrato della chiesa di Saint-Gilles. Spogliato delle vesti, con la corda al collo, fu
introdotto nella cattedrale dal legato Romano di Sant'Angelo e dai legati di Polonia e
d'Inghilterra, quindi condotto all'altare dove, inginocchiatosi, venne colpito dal cardinale legato
con delle verghe. «Era penoso - scrive Guglielmo di Puylaurens - vedere un così gran principe
che, per tanto tempo, aveva resistito a tante e tanto potenti nazioni, condotto a piedi nudi, in
brache e camicia, fino all'altare (14)». Il cronista apparteneva alla diocesi di Tolosa ed era
attaccato ai suoi principi; il suo dolore non era certo condiviso dalla maggior parte dei presenti,
per i quali il conte di Tolosa era lo straniero, il nemico della Francia, un altro Ferrando del
Portogallo.
Ci si è chiesti perché Bianca di Castiglia avesse acconsentito a esporre un suo parente,
trattato in modo già abbastanza ingiusto, a quest'affronto sanguinoso e per nulla necessario.
Quando fu flagellato a Saint-Gilles, Raimondo Sesto era sospettato di un crimine capitale
commesso sulle sue terre, e di cui portava la responsabilità in quanto capo dello stato; veniva
punito dal legato nel suo territorio; era affare della Chiesa, e nessun sovrano straniero era
presente ad assistere alla sua umiliazione. Parigi, almeno in teoria, non era il solo posto ove la
Chiesa di Roma potesse esercitare la sua autorità.
Raimondo Settimo, invece, non era accusato dell'omicidio di un legato, e la sua fede
cattolica non era mai stata messa in dubbio; se aveva impugnato le armi contro Simone di
Montfort, le sue pretese erano così legittime che, anche schiacciandolo, i suoi avversari non
potevano rifiutargli il titolo di conte di Tolosa. Per di più si era spontaneamente sottomesso,
cedendo alle premurose sollecitazioni dei suoi nemici. La Chiesa, anziché castigarlo, avrebbe
dovuto rendere omaggio al suo spirito di riconciliazione. La pubblica umiliazione di un principe
meridionale nella cattedrale di Parigi va considerata in primo luogo un trionfo della politica
reale che, per mano della Chiesa, piegava un grande feudatario.
Bianca di Castiglia, con decisione maggiore del suocero Filippo Augusto, orientava la
monarchia capetingia verso un vero culto della persona del re e verso quell'assolutismo che,
quattro secoli dopo, avrebbe condotto alla quasi deificazione di Luigi Quattordicesimo.
Prendendo a modello il papato, la regina agiva come se il solo fatto di opporsi alla volontà reale
costituisse un sacrilegio. Aveva le sue buone ragioni per farlo: l'insubordinazione e gli intrighi
dei grandi baroni mettevano costantemente in pericolo un regno esposto da quasi un secolo alla
minaccia inglese, e il giovane Luigi Nono era ancora un ragazzo incapace di farsi temere.
Quindi, non bisognava solo ridurre all'obbedienza quel vassallo non sottomesso,
quell'avversario sempre pericoloso che era il conte di Tolosa; bisognava umiliarlo per colpire
gli animi con questa appariscente manifestazione del potere reale. Le verghe in mano a Romano
di Sant'Angelo simboleggiavano la futura vittoria della monarchia sulla feudalità.
Dopo la dolorosa cerimonia del giovedì santo del 1229, il conte di Tolosa restò ancora sei
mesi prigioniero al Louvre, tanto si diffidava di lui, tanto si temeva che la sua presenza
impedisse la esecuzione delle clausole del trattato. Sarebbe tornato nella sua città solo il giorno
in cui essa fosse stata privata delle mura e occupata dagli emissari del re.
Da aprile fino a settembre Raimondo Settimo rimase in prigione al Louvre, insieme ai
notabili e ai baroni tolosani che aveva portato con sé. Secondo una lettera del re sarebbe
«rimasto in prigione per sua stessa richiesta». In realtà, si può supporre che la regina e il legato
temessero che, lasciato libero, avrebbe subito denunciato il trattato e chiuse loro le porte di
Tolosa, col rischio di una guerra spietata. Il trattato, che prevedeva la consegna di ostaggi, non
stabiliva affatto che il conte si desse personalmente in ostaggio.
Mentre il conte restava chiuso in una torre del Louvre, gli emissari del re e del legato -
Matteo di Marly e Pietro di Colmieu, vice legato delle Gallie - andarono in Linguadoca per
prendere possesso dei territori che erano stati concessi al re e per procedere alla distruzione
delle mura di Tolosa, all'occupazione del Castello Narbonese, infine allo smantellamento delle
piazzeforti designate dal trattato. Non fu opposta loro alcuna resistenza: la pace era firmata, il
conte era trattenuto in ostaggio e i mandatari del re agivano sotto la garanzia della sua firma. Le
due infante d'Aragona, Eleonora e Sancia, la suocera e la moglie di Raimondo Settimo, vennero
espulse dalla loro residenza al castello per lasciare posto al siniscalco del re, e la piccola
principessa Giovanna fu tolta a sua madre (che non avrebbe più rivisto) per essere portata in
Francia.
I grandi vassalli del conte di Tolosa vennero a rendere omaggio agli emissari del re. In un
primo tempo il conte di Foix rifiutò di sottomettersi: il trattato firmato non era quello cui aveva
dato il suo assenso di principio. Nel mese di luglio, tuttavia, acconsentì a un colloquio a Saint-
Jean-des-Verges, località a nord di Foix; i suoi vassalli lo spingevano a concludere la pace.
Questo grande signore ebbe almeno l'opportunità di sottomettersi sulle sue terre, circondato dai
suoi vassalli e dai suoi soldati; e di farlo con gli onori di guerra. Promise quanto gli si chiedeva:
le libertà della Chiesa, la restituzione delle decime, la persecuzione degli scomunicati,
l'espulsione dei "routiers", e altro ancora. Non si osò chiedergli impegni troppo precisi in merito
alla repressione dell'eresia, essendo troppo nota la sua adesione alla fede catara: con il suo
coraggio egli si fece rispettare. Firmato l'accordo andò personalmente in Francia, dove fu
ricevuto dalla regina.
Nel frattempo il conte di Tolosa, sempre prigioniero, accompagnava Bianca di Castiglia e il
giovane re a ricevere dalle mani del siniscalco di Carcassonne la principessa Giovanna. Da
allora la figlia del conte di Tolosa non avrebbe conosciuto altra madre che l'austera reggente,
mentre suo padre, in vent'anni, l'avrebbe rivista solo due volte. Consegnato questo prezioso
ostaggio, il padre poté godere di una semilibertà, e venne addirittura armato cavaliere dal
giovane re Luigi (indubbiamente si pensava che la scomunica l'avesse in qualche modo privato
del titolo di cavaliere). Strano favore per l'eroe di Beaucaire e di Tolosa, per quel guerriero
esperto che era Raimondo Settimo, vedersi dare la rituale accollata da un quattordicenne. Dal
punto di vista delle regole cavalleresche sarebbe stato più logico il contrario, poiché il più
modesto dei cavalieri era superiore a un ragazzo senza esperienza, fosse pure il re. Le persone
di sangue reale stavano (già!) divenendo i 'figli degli dei' di cui parla La Bruyère? Comunque
sia, il conte accettò di buon grado questo dubbio onore; aveva visto ben altro.
Giunto a Parigi per farsi ratificare l'accordo firmato a Saint-Jean-des-Verges, il conte di Foix
dovette comprendere che era più difficile trattare in un paese nemico che a casa propria, poiché
la regina riuscì a estorcergli la consegna alle guardie reali del castello di Foix per una durata di
cinque anni; dopo di che gli concesse una pensione di mille lire di Tours sulle rendite dei
domini confiscati sulla sua eredità nella regione di Carcassonne.
Ricevuto l'omaggio dell'ultimo barone ribelle del Mezzogiorno, la regina lasciò che i due
conti ripartissero per il loro paese.
NOTE.
(1) Op. cit., cap. 165.
(2) Quello di Montgey fu il solo vero massacro in massa di crociati e di 'pellegrini'. Secondo
Catel (citato da Dom Vaissette, edizione del 1879, t. 6, p. 355) «i morti furono mille». Per
rappresaglia il borgo e il castello di Montgey vennero distrutti da cima a fondo.
(3) Op. cit., cap. 154, 3812.
(4) Guglielmo di Puylaurens, cap. 40.
(5) Come, ad esempio, il già citato Bernardo Raimondo di Roquefort, la cui madre e il cui
fratello erano notoriamente catari.
(6) Rituale cataro, in P. Dondaine, "Un traité manichéen du XIIIe siècle. Le «Liber de
duobus principiis», suivi d'un fragment du «Rituel cathare»", Istituto storico domenicano, S.
Sabina Roma, 1939.
(7) Elenco dei "faidits" in Dom Bouquet, "Recueil des historiens des Gaules et de France", t.
24.
(8) P. Balme e Lelaidier, "Cartulaire de saint Dominique".
(9) Teodorico d'Apolda e Costantino di Orvieto.
(10) Costantino di Orvieto ci informa che quest'uomo si chiamava Raimondo Gros. Nel 1236
un 'perfetto' con questo nome si convertì e denunciò all'Inquisizione un gran numero di credenti
catari. Forse non si tratta della stessa persona.
(11) Tebaldo di Champagne, "Oeuvres poétiques".
(12) Bernardo di La Barthe, «... patz forsada...». Confronta Dom Vaissette, edizione del
1885, t. 10, p. 337.
(13) Testo del trattato di Meaux.
(14) Guglielmo di Puylaurens, cap. 39.
Capitolo nono

LA PACE DELLA CHIESA.


1. LA CHIESA E L'ERESIA.
Alla fine del dodicesimo secolo e all'inizio del tredicesimo la Chiesa cattolica poteva
aspirare solo sul piano teorico, o mistico, al titolo di cattolica, vale a dire di universale; di fatto
essa rappresentava "una" delle religioni del mondo occidentale, e proclamandosi unica e sola
tendeva sempre più a divenire una setta potentemente organizzata anziché, come pretendeva, la
patria spirituale di ogni uomo.
Le grandi eresie dei primi secoli avevano già radicato in lei un profondo spirito di
intolleranza. Le massicce invasioni e le conversioni in massa dei barbari (alcune assai tardive,
come quelle dei Sassoni, degli Scandinavi e degli Slavi) avevano arricchito la cristianità di una
massa eterogenea di popoli ancora semipagani, che adorando Cristo e i santi li distinguevano a
mala pena dalle loro antiche divinità. L'Islam aveva conquistato l'Africa del Nord, l'Oriente
mediterraneo, gran parte della Spagna, e non sembrava affatto deciso a rinunciare alle sue
conquiste. La sua combattività e il suo spirito di proselitismo erano almeno pari a quelli del
cristianesimo, e le crociate in Terra Santa erano state guerre difensive della cristianità contro un
nemico che, senza alcun equivoco, cercava di imporre la sua fede con le armi. La Chiesa greca,
opposta da tempo, nello spirito e nei fatti, alla Chiesa romana, dominava i paesi dell'Europa
orientale sottomessi a Bisanzio o influenzati dalla sua cultura, come la Bulgaria e la Russia, e
contendeva alla Chiesa romana il terreno negli altri paesi slavi che, attaccati alla loro lingua
nazionale, mal si adattavano al latino imposto dal papato come lingua della Chiesa.
L'Italia, la Spagna (che si trovava ancora in parte sotto la dominazione dei Mori), la Francia,
l'Inghilterra, la Germania, la Polonia, i Paesi scandinavi, l'Ungheria, la Boemia, la Bosnia erano
cattolici - in misura molto diversa, a seconda della lontananza da Roma e dell'antichità della
loro conversione al cristianesimo. Alcuni paesi, come la Bosnia e l'Ungheria, erano ancora
mezzo pagani, e gli ebrei e persino i musulmani rivaleggiavano con i cattolici nell'esercitarvi la
loro influenza; il Sud della Russia era pagano e il capo dei Cumani si fece battezzare solo nel
1227. I paesi baltici restavano anch'essi pagani, malgrado gli sforzi congiunti dei Polacchi, dei
Tedeschi e degli Scandinavi per convertirli, volenti o nolenti. In Germania e in Inghilterra il
cattolicesimo, religione di stato, era accettato dal popolo, ma i poteri pubblici erano
costantemente in lotta con Roma. L'imperatore era il più temibile avversario politico del papato
e la sua influenza nel Nord Italia era così grande, che questa regione sarebbe rimasta a lungo fra
le più ribelli all'autorità della Chiesa. La Spagna, costretta a difendere la sua fede dall'Islam, era
un paese nel quale il cattolicesimo era tanto più appassionato in quanto era la religione
nazionale opposta a quella di un oppressore straniero; ma nel tentativo di riacquistare la sua
indipendenza era costantemente minacciata dall'Islam.
La Francia capetingia era, per Roma, il solo alleato potente e sicuro; ciononostante la
condotta di Filippo Augusto aveva mostrato al papato che un re di Francia non era sempre e
necessariamente il paladino della Chiesa. L'ambizione di un Gregorio Settimo, di un Innocenzo
Terzo - la fondazione di un impero cristiano capeggiato dal papa e del quale i re fossero i
luogotenenti - rifletteva il carattere autoritario di questi papi, ma non corrispondeva in alcun
modo alla realtà. E se l'Islam e anche la Chiesa greca (malgrado il colpo infertole dalla crociata
del 1204) restavano per Roma una minaccia esterna permanente, i paesi ufficialmente cattolici
vedevano sorgere sempre più numerosi movimenti di opposizione aperta alla Chiesa,
considerato che tutte le eresie avevano per tratto comune una condanna assoluta e violenta della
Chiesa di Roma.
I paesi balcanici, il Nord Italia e la Linguadoca erano le terre d'elezione delle eresie, fra le
quali il catarismo fu, nei secoli dodicesimo e tredicesimo, di gran lunga la più potente. Tuttavia,
c'erano focolai d'eresia altrettanto attivi e numerosi in Francia, in Germania, in Spagna.
Agli inizi del tredicesimo secolo, divenuta una grande potenza politica, la Chiesa romana
stava perdendo la fiducia delle élite laiche negli stessi paesi nei quali la sua ortodossia non
veniva minimamente contestata; mentre in un buon numero di paesi cattolici l'eresia otteneva
l'adesione delle masse e aveva già le sue tradizioni, la sua organizzazione, i suoi ministri e i
suoi martiri.
Verso il 1160 la Chiesa catara di Colonia contava adepti in svariate città del Sud della
Germania, specie a Bonn, e malgrado la condanna e il martirio dei suoi capi ispirava al
canonico Ecberto di Schönau i più vivi timori per il numero dei suoi seguaci. Non pare che i
catari avessero avuto alcun successo in Inghilterra, eppure alcuni missionari partiti dalle
Fiandre verso il 1159 vi fecero un numero di neofiti abbastanza grande da provocare la reazione
del clero, che d'altronde non li condannò al rogo ma li fece marchiare a fuoco e cacciare nelle
campagne dove, non trovando soccorso in una popolazione ostile, morirono di freddo. Tuttavia,
ancora nel 1210, in Inghilterra vi erano dei catari, poiché uno di loro venne mandato al rogo a
Londra e si predicò una crociata contro gli eretici.
Nelle Fiandre i catari erano numerosi, e la Chiesa catara di Arras era tanto potente che il
vescovo Frumoaldo, verso il 1163, poteva solo lagnarsene senza provare a combatterli. I capi di
questa chiesa vennero giudicati e mandati al rogo solo nel 1182; ma le Fiandre restarono un
focolaio di eresia fino ai tempi dell'Inquisizione. Nella Champagne, durante la seconda metà del
dodicesimo e la prima metà del tredicesimo secolo, i catari avevano numerose comunità
segrete, ma attivamente ricercate dal clero. Conosciamo già la storia della giovane Remigia che
pagò con la vita il suo attaccamento alla verginità. Se, insieme alla vecchia che l'aveva educata,
ella fu la sola eretica scoperta a Reims, ciò non significa che non ne esistessero altre: quelle
donne coraggiose dovevano essere capaci di mantenere il loro segreto. Ma è soprattutto a
Montwimer (Mont-Aimé) che esisteva, dal 1140 circa, una grande comunità catara, che sarebbe
stata scoperta solo sotto l'Inquisizione: doveva essere una comunità importante, considerato che
l'inquisitore Roberto il Bulgaro vi mandò al rogo centoottantatré eretici.
Vicino a Vézelay, nella contea di Nevers, nel 1154, un meridionale, Ugo di Saint-Pierre,
fondò una comunità eretica con tendenze sociali, ma di indubbia ispirazione catara, che riunì gli
abitanti della regione desiderosi di sottrarsi alla tirannia degli abati di quella città. Essi vennero
sostenuti dallo stesso conte ma, accusati di eresia, i loro capi furono condannati nel 1167; il che
non impedì alle loro dottrine di diffondersi in tutta la regione e in Borgogna dove, intorno a
Besançon, attrassero le simpatie popolari al punto che i sacerdoti che le contraddicevano
rischiavano la lapidazione. I due capi del movimento vennero accusati di eresia dal vescovo e
bruciati.
A La Charité-sur-Loire il vescovo di Auxerre, Ugo di Noyers, scoprì nel 1198 un centro
eretico; lo stesso decano del capitolo di Nevers difendeva le idee catare, e l'eresia era potente
anche negli ambienti ecclesiastici. Terrico, capo della comunità locale, venne inviato al rogo nel
1199, ma i progressi compiuti dalla setta costrinsero ugualmente papa Innocenzo Terzo a
mandare un legato con lo speciale compito di indagare nella regione: il cavaliere Eberardo di
Châteauneuf, discepolo di Terrico, venne bruciato nel 1201 a Névers, mentre suo nipote
Guglielmo, decano del capitolo, riuscì a fuggire e a rifugiarsi nei dintorni di Narbonne, dove
divenne uno dei capi della chiesa catara locale, sotto il nome di Teodorico. Malgrado queste
persecuzioni il movimento cataro non disarmò e ancora nel 1207 i catari di La Charité
provocavano le invettive dei vescovi di Troyes e di Auxerre. Nel 1223 il famoso inquisitore
Roberto il Bulgaro ricevette l'ordine dal papa di sterminare l'eresia nella regione.
Nella Francia settentrionale le comunità eretiche erano poco numerose e dovevano
nascondersi, poiché la maggioranza della popolazione era loro contraria. Tuttavia, il successo
dei movimenti di Vézelay e di Arras e l'esistenza delle potenti colonie di Montwimer e di La
Charité fanno pensare che i catari fossero più diffusi di quanto i poteri pubblici e la Chiesa non
pensassero. Agli inizi del tredicesimo secolo il catarismo non rappresentava ancora un serio
pericolo per la Chiesa nella Francia settentrionale, in quanto i membri delle differenti comunità
potevano formare solo delle società segrete, quindi poco combattive. Non è certo che questo
movimento non sarebbe stato capace di rafforzarsi e di uscire allo scoperto come aveva fatto in
Italia e nella Linguadoca cinquant'anni prima, se la Chiesa non avesse concentrato nella lotta
all'eresia tutti gli sforzi della sua politica estera e della sua organizzazione interna. Se la
Francia, il più cattolico dei paesi cristiani, alimentava focolai eretici talmente tenaci che i
vescovi catari della Bulgaria e della Linguadoca giudicarono necessaria la creazione di una
Chiesa catara di Francia, negli altri paesi cattolici il catarismo già pensava di contendere la
supremazia alla Chiesa di Roma.
Pur essendo ancora molto debole numericamente alla fine del dodicesimo secolo la Chiesa
catara cominciava già a darsi l'aspetto e le prerogative di una Chiesa universale. Il suo prestigio
morale era grande ovunque avesse una qualche influenza. Aveva una sua dottrina che, malgrado
alcune differenze di dettaglio, ritroviamo singolarmente stabile e coerente, sempre identica
dall'undicesimo al quattordicesimo secolo, in Bulgaria come a Tolosa o nelle Fiandre (e
quest'unità di pensiero è di per sé una prova della sua forza); aveva il suo rituale immutabile, la
sua gerarchia, le sue tradizioni, la sua teologia, la sua letteratura: era già in grado di opporre il
suo ordine a quello della Chiesa istituzionale.
Abbiamo visto di quale credito essa godesse in Linguadoca; non usciremo dal nostro tema
proponendo qualche breve cenno sulla storia delle Chiese catare degli altri paesi nei quali
l'eresia era già abbastanza forte da essere ufficialmente o ufficiosamente riconosciuta. Solo
l'estensione e la gravità del pericolo spiegano infatti l'atteggiamento della Chiesa romana dalla
crociata e dal Concilio Laterano fino alla creazione dell'Inquisizione. Non si può sostenere che
la politica di tirannia e di oppressione adottata dalla Chiesa sia stato un semplice abuso di
potere; se tale politica fu, alla lunga, disastrosa per la Chiesa stessa, ciononostante rispondeva a
una necessità vitale. Bruciando gli eretici, Roma non opprimeva un nemico disarmato, si
difendeva da un avversario temibile, che aveva su di lei l'immenso vantaggio di apparire come
il campione della libertà spirituale. Per quanto poco possa essere combattiva e organizzata, una
Chiesa perseguitata è sempre moralmente più forte di una Chiesa istituzionalizzata; la Chiesa di
Roma sarebbe riuscita a distruggere i catari solo distruggendo buona parte della sua ragion
d'essere. Indubbiamente avrebbe meglio difeso la sua fede cedendo il terreno al nemico e
rientrando nelle catacombe; ma la Chiesa di Roma, da tempo, non era più solo una Chiesa, ma
una casta, una classe sociale, una potenza politica.
La Chiesa catara non era ancora nulla di simile: difendeva solo interessi spirituali.
Nell'attaccare Roma aveva buon gioco: in molti paesi cattolici la Chiesa romana non
rappresentava né una forza civilizzatrice, né una tradizione nazionale, né una protezione contro
l'anarchia feudale, bensì una religione straniera imposta con la forza dai poteri pubblici.
Gli Slavi dei Balcani e dell'Ungheria, presso i quali il rito greco si era diffuso grazie
all'impegno dei Bulgari Cirillo e Metodio (che avevano tradotto in volgare la liturgia e le
Scritture) restavano profondamente ostili al clero cattolico che imponeva loro il latino; e i
monaci dei numerosi conventi del paese, anziché sostegno della Chiesa, ne erano gli avversari
più pericolosi perché, disprezzati e oppressi dal clero latino, più vicini alle tradizioni popolari
che alla cultura imposta da Roma, avevano la tendenza ad abbracciare dottrine eretiche e a
diffonderle grazie alla loro autorità di ministri di Cristo. D'altra parte, nei paesi slavi i vescovi e
i sacerdoti cattolici erano ben poco numerosi, non avevano alcuna influenza sul popolo, e
davano esempio della più scandalosa corruzione.
All'epoca di Innocenzo Terzo l'Ungheria, la Croazia, la Serbia, la Bosnia, l'Istria, la
Dalmazia, l'Albania (come la Bulgaria, la Macedonia e la Tracia, di obbedienza greca) erano
paesi in cui la religione catara godeva della più grande libertà e spesso dell'ufficiale protezione
dei capi di stato. In Bosnia, alla fine del dodicesimo secolo, il "ban" o principe Kulin,
governatore della provincia, era, come tutta la sua famiglia, un seguace dell'eresia. In Dalmazia,
la diocesi di Trogurium era uno dei grandi centri del catarismo, noto non solo nei Balcani ma
anche nell'Europa occidentale. Nelle città di Spalato, di Ragusa, di Zara, quasi tutta la nobiltà
era eretica. Non solo la Bulgaria, paese d'origine del catarismo, ma anche Costantinopoli aveva
un importante vescovado cataro. Qui gli stessi vescovi cristiani manifestavano la loro simpatia
per le dottrine catare: è il caso di Daniele di Bosnia o di Arengario di Ragusa.
Quando Innocenzo Terzo salì al soglio pontificio i vescovi slavi, spaventati dai progressi
dell'eresia, tentarono di intimidire gli avversari con persecuzioni, poi con appelli ai principi. Il
re di Ungheria, fedele al papa, tentò di esercitare pressioni sul "ban" di Bosnia, che fece qualche
concessione di facciata; ma il suo successore Ninoslas protesse ancora più apertamente i catari e
fece nominare un eretico alla sede episcopale, rimasta vacante per la morte di Daniele. La
Bosnia divenne ufficialmente eretica, nessun rito cattolico venne più celebrato nel paese, che a
partire dal 1221 divenne terra d'elezione del catarismo, offrendo soccorso e rifugio ai catari
altrove perseguitati.
Innocenzo Terzo, tuttavia, fece alcuni tentativi per convertire la Bulgaria, legata alla Chiesa
di Bisanzio, dove i catari o bogomili erano particolarmente numerosi: dopo aver incoronato zar
di Bulgaria Kalojan, che gli aveva giurato obbedienza per beneficiare del suo aiuto nella lotta
contro i Greci, il papa vide il suo protetto offrire protezione ai signori eretici del paese;
Giovanni Azen, zar di Bulgaria dal 1218, lasciò ai catari piena libertà di predicare e di esercitare
il culto.
In Ungheria, il re Emerico e il suo successore Andrea Secondo, sinceramente cattolici e
sollecitati da Innocenzo Terzo prima, poi da Onorio Terzo, tentarono ripetutamente di
sterminare l'eresia. Con il loro aiuto, i vescovi e i legati condussero una lotta serrata contro i
catari della Bosnia e, nel 1221, il monaco ungherese Paolo fondò un convento domenicano a
Raab; ma, alla loro prima missione in Bosnia, trentadue domenicani vennero annegati nel fiume
dalla folla esasperata dalle loro prediche. Malgrado l'apparente sottomissione del "ban"
Ninoslas, l'eresia in questa provincia rimase tanto potente che, nel 1225, Onorio Terzo fece
predicare una crociata; ma senza successo. L'arcivescovo di Colocza diede duecento marchi a
Giovanni, signore di Sirmio, perché si impegnasse a prendere la croce, ma ciononostante non
riuscì a convincerlo; solo il re d'Ungheria, Coloman, il figlio di Andrea Secondo, tentò nel 1227
un'azione militare, senza grandi risultati.
Per controbilanciare l'influenza dell'unico vescovo della Bosnia, passato all'eresia, il papa
istituì un secondo vescovado, affidandolo al domenicano tedesco Giovanni di Wildeshusen, che
si rese presto impopolare con le sue violenze. Per ridurre all'obbedienza il "ban", il papa fece
appello al duca Coloman di Serbia, come un tempo aveva fatto appello al re di Francia contro la
Linguadoca. Alla testa di una nuova crociata Coloman ottenne - o almeno disse di aver ottenuto
- qualche successo (1238), ma l'eresia non fu certo estirpata. Il papa mandò un nuovo vescovo
domenicano che due anni dopo, scoraggiato, abbandonò l'incarico.
Se nei paesi slavi l'eresia era così forte che (a seconda delle circostanze politiche e delle
convinzioni dei sovrani) poteva figurare come la religione ufficiale, il suo successo si spiega
con la naturale avversione dei popoli slavi nei confronti di Roma e con l'indebolirsi dell'autorità
della Chiesa greca che, altrettanto rigorosa della Chiesa romana in materia di ortodossia, era
peggio organizzata, era minacciata contemporaneamente dall'Islam a Oriente e da Roma a
Occidente, e in un certo senso era più vicina della Chiesa cattolica allo spirito del manicheismo.
Non c'è dunque da stupirsi del fatto che l'eresia abbia trovato un terreno particolarmente
favorevole in questi paesi appena cristianizzati e sottomessi a tante influenze diverse e rivali.
E' più strano invece che l'Italia, cattolica da lunga data e patria dei papi, sia stata per molto
tempo un paese non meno eretico della Linguadoca. Comunità catare esistevano persino a
Roma e sono note potenti colonie eretiche, nel dodicesimo secolo, a Milano, a Firenze, a
Verona, a Orvieto, a Ferrara, a Modena e in altre località, fino in Calabria.
Mentre la crociata contro gli eretici gettava nella desolazione il Mezzogiorno della Francia, i
catari italiani godevano di una libertà quasi ufficiale e formavano nelle città gruppi potenti,
talvolta capaci di cacciare i vescovi e i signori cattolici.
L'eresia era particolarmente diffusa in Lombardia, terra dell'Impero dove i fautori del papa e
quelli dell'imperatore si affrontavano senza tregua in lotte sanguinose, blandita e al contempo
minacciata dalle due grandi potenze da cui dipendeva; le sue grandi città commerciali erano
altrettante repubbliche indipendenti e comunque gelose della loro libertà. Più che per qualsiasi
altro popolo cristiano, la Chiesa rappresentava per i Lombardi una potenza politica; del resto, le
lotte fra Guelfi e Ghibellini avrebbero dimostrato come in Italia le passioni religiose cedessero
il passo in misura considerevole alle passioni politiche. Il movimento cataro italiano assunse
così l'aspetto di una lotta per l'indipendenza nazionale e per l'emancipazione sociale. I vescovi,
potenti feudatari sempre pronti a difendere i loro privilegi con le armi, si scontravano nelle città
con una resistenza ostinata, cui lo zelo religioso spesso forniva solo un pretesto. E i cattolici
non si battevano tanto per la loro fede, quanto per i loro interessi di gruppo o di partito politico.
In modo abbastanza paradossale, fu proprio questo stato di guerra civile permanente che in
Italia mantenne a lungo un clima di relativa tolleranza religiosa. Finché a combattere i loro
compatrioti eretici erano i cattolici del paese, sussisteva un equilibrio di forze che costringeva
gli uni e gli altri a qualche riguardo; e il papa, che teneva a conservare la sua influenza in
Lombardia, non poteva fare appello all'imperatore per organizzare una crociata da cui
quest'ultimo avrebbe tratto anche troppo profitto. Così, nel 1236, nel momento in cui
l'esordiente Inquisizione dava prova in tutti i paesi cattolici di un'energia spesso eccessiva,
l'imperatore poteva accusare il papa di favorire l'eresia e di essersi lasciato corrompere dall'oro
degli eretici lombardi. Era impossibile sospettare di venalità il fanatico Gregorio Nono; ma i
catari italiani, ugualmente odiati dal papa e dall'imperatore, dovettero la loro relativa
tranquillità alla rivalità politica che opponeva queste due grandi figure.
In Italia la Chiesa era impopolare: il clero era eccezionalmente combattivo e persino
bellicoso, e interveniva con ardore nelle guerre civili; i prelati si preoccupavano anzitutto di
preservare diritti che i comuni, sempre più potenti, disputavano loro anche con la forza.
Fiorivano sette religiose di ogni genere: gli arnaldisti, ossia i seguaci del riformatore Arnaldo da
Brescia, i valdesi, i patarini o giudeizzanti; ma i più numerosi e influenti erano i catari. Gran
parte della nobiltà era schierata con loro, che si sentivano forti dell'appoggio dei loro
correligionari della Linguadoca e dei paesi slavi. Avevano delle scuole, insegnavano nelle
pubbliche piazze, ingaggiavano controversie con il clero: la Lombardia, agli inizi del
tredicesimo secolo, era una specie di terra di pellegrinaggio per tutti i catari d'Occidente, che vi
si recavano per consultare i dottori della loro setta e per farsi dare o rinnovare il
"consolamentum" da maestri particolarmente venerati.
All'epoca di Innocenzo Terzo, le Chiese catare in Italia erano ampiamente rappresentate:
c'era un vescovo a Sorano, uno a Vicenza, uno a Brescia, e i loro figli maggiori erano a capo di
comunità di altre città; Milano era il centro ufficiale di tutte le Chiese eretiche, e i magistrati
della città, ostili al clero, proteggevano apertamente ogni setta e davano rifugio entro le loro
mura agli eretici scacciati dagli altri paesi. In città come Verona, Viterbo, Firenze, Ferrara,
Prato, Orvieto, i catari avevano il sopravvento, e i vescovi cattolici non erano in grado di
infierire contro di loro; a Faenza, Rimini, Como, Parma, Gemona, Piacenza avevano comunità
fiorenti; una grande comunità catara si era insediata in una cittadina come Desenzano. A
Treviso, gli eretici godevano della protezione dei pubblici poteri, e persino a Roma avevano
scuole ove insegnavano i Vangeli.
I catari italiani, agli inizi del secolo tredicesimo, godevano di una tale sicurezza che
potevano permettersi divergenze teologiche e scissioni in seno alla loro Chiesa: così i vescovi di
Sorano e di Vicenza seguivano la scuola di Trogurium o di Albania, mentre il vescovo di
Brescia abbracciava la dottrina dei catari bulgari (i primi affermavano che il principio del male
era eterno, i secondi che in origine il Dio buono era solo). Le due sette iniziarono accese
controversie teologiche, e verso il 1226 la prima si scisse a sua volta in due fazioni,
rappresentate l'una dal vescovo Belismansa, l'altra dal figlio maggiore del vescovo, Giovanni di
Lugio.
Innocenzo Terzo, spaventato dai rapidi progressi dell'eresia nella penisola, cominciò a
lanciare minacce di ordine amministrativo; ad esempio proibì agli eretici di svolgere funzioni
pubbliche; ma le sue ingiunzioni spesso non vennero rispettate. Anche la scomunica si dimostrò
inefficace e l'intervento diretto di emissari papali non fu più fortunato: a Orvieto, il governatore
Pietro Parenzio, inviato dal papa, fu messo a morte dai cittadini eretici, esasperati dalle sue
violenze. A Viterbo, alcuni eretici vennero promossi al rango di consoli malgrado le minacce
del papa, che nel 1207 dovette recarsi personalmente nella città per fare confiscare i beni e
demolire le case dei principali membri della setta. Dopo che, nel 1215, il Concilio Laterano
ebbe confermato ed eretto a leggi immutabili tutte le misure adottate dalla Chiesa e dallo stato
contro gli eretici, la persecuzione divenne più intensa, ma poco più efficace, malgrado
l'appoggio che l'imperatore Federico Secondo diede a questa politica di oppressione. A Brescia,
nel 1225, cattolici ed eretici presero le armi; i primi vennero sconfitti e si videro incendiare le
chiese dai secondi, che lanciavano anatemi contro Roma; malgrado le minacce di Onorio Terzo,
i catari di questa città restarono forti. A Milano, i vescovi e i notabili, nel 1228, assunsero
provvedimenti severissimi: espulsione degli eretici, demolizione delle loro case, confisca dei
beni, ammende. Ma tali misure non vennero applicate, e i più ricchi borghesi e notabili diedero
apertamente asilo ai catari creando per loro scuole e luoghi di culto. A Firenze, malgrado
l'arresto e l'abiura del vescovo cataro Paternone, nel 1226, la comunità restava forte, e contava
fra i suoi membri un buon numero di sacerdoti, di artigiani, di gente del popolo, per non dire
della nobiltà. A Roma i catari erano così numerosi da conservare notevole influenza nonostante
la minaccia di ammende e della perdita dei diritti, nonché la creazione di una milizia di Cristo
destinata alla lotta contro l'eresia.
Quando il papa ricorse all'ordine dei Frati Predicatori, dando loro lo speciale incarico di
combattere l'eresia, numerosi domenicani dotati di un'energia e di un'eloquenza notevoli, come
Pietro da Verona, Moneta da Cremona, Giovanni da Vicenza, percorsero le città lombarde
incitando i cattolici alla lotta, seminando il terrore fra gli eretici e addirittura mettendosi a capo
di milizie armate. Pietro da Verona, un cataro convertito, venne assassinato nel 1252: ciò gli
valse la canonizzazione e il titolo di san Pietro martire. I movimenti di reazione cattolica si
moltiplicarono. A Parma fu fondata un'associazione dei 'cavalieri di Gesù Cristo', a Firenze una
congregazione della Vergine, e il popolò formò milizie religiose incaricate di infierire sui catari;
tuttavia, gli eretici contavano in città ferventi seguaci sia fra la più alta nobiltà, sia fra il popolo;
il clero locale non osava prendere iniziative contro di loro, malgrado gli sforzi degli inquisitori.
A Milano, invece, le minacce dell'imperatore costrinsero gli abitanti a dare prova di ortodossia
e, nel 1240, il podestà Oldrado di Tresseno mandò al rogo un gran numero di catari. A Verona,
nel 1233, Giovanni da Vicenza ne fece bruciare sessanta; nel 1235 il vescovo cataro Giovanni
Beneventi fu mandato al rogo a Vicenza, insieme a parecchi suoi compagni; a Pisa, due 'perfetti'
vennero bruciati nel 1240.
L'attività dell'Inquisizione, tuttavia, incontrò nella maggior parte delle città una resistenza
sempre più forte: a Bergamo, i magistrati cittadini restarono sordi a tutte le minacce dei legati; a
Piacenza, l'inquisitore Rolando fu maltrattato e scacciato dalla folla; a Mantova, nel 1235,
venne ucciso il vescovo; a Napoli, gli eretici saccheggiarono il convento dei Domenicani; e
l'elenco potrebbe continuare.
Alla morte di Gregorio Nono, nel 1241, i catari in Italia erano potenti quanto mezzo secolo
prima: a questa data in Lombardia si contavano oltre duemila 'perfetti', cui andavano aggiunti i
centocinquanta della Chiesa francese di Verona. Nel 1250, la morte di Federico Secondo slegò
le mani al papa, che poté concentrare tutti i suoi sforzi nella lotta all'eresia nell'Italia
settentrionale; ma fino agli inizi del quattordicesimo secolo le città lombarde rimasero focolai
catari, e le lotte fra magistrati e vescovi continuarono con la stessa violenza, sostenute dalle
passioni politiche e dalle rivalità di fazione. I roghi, sempre più numerosi, decimarono i ranghi
dei 'perfetti', alcuni inquisitori furono uccisi, nuove eresie sorsero a sostituire il catarismo ormai
declinante, ma gli eretici francesi continuarono a rifugiarsi in Lombardia per riorganizzarvi le
loro Chiese perseguitate.
Nel Mezzogiorno della Francia, come abbiamo visto, l'espansione dell'eresia non aveva dato
luogo a disordini sociali, e solo iniziative personali come la Confraternita bianca di Folco
richiamano il clima di guerra civile che regnava in permanenza nelle città della Lombardia. I
cattolici italiani potevano prendere le armi per il papa, vedendo in lui l'avversario
dell'imperatore che li opprimeva. In Linguadoca accadeva invece che quasi tutti, eccettuato il
clero, fossero ostili al papa, già prima della crociata; le città meridionali avevano un forte
spirito patriottico e non nutrivano alcuna simpatia per una potenza che le sfruttava senza fornire
loro alcun compenso sul piano politico o sociale. Gli stessi vescovi, mondani e avidi, servivano
il papa solo nella misura in cui quest'ultimo faceva i loro interessi, e spesso preferivano lasciare
in pace gli eretici fra i quali contavano parenti e amici. La crociata finì di cementare la profonda
unità di quasi tutto il paese; ma creò anche una frattura sempre più grande fra la Chiesa e la
società laica.
Federico Secondo, nemico e rivale del papato, non avrebbe chiesto di meglio che sterminare
con le armi gli eretici della Lombardia per occupare la regione, e il papa si guardò bene
dall'invitarlo a prendere quest'iniziativa; il re di Francia poté invece occupare la Linguadoca con
l'incoraggiamento e la benedizione solenne del papa, che qui non temeva di identificare la causa
della Francia con quella di Dio. La crociata era riuscita a creare una situazione assai rara nel
medioevo: un paese nel quale la borghesia, la nobiltà, il popolo, anziché dilaniarsi a vicenda - o
almeno vivere in un clima di reciproca diffidenza - formavano una vera unità nazionale intorno
al loro sovrano legittimo; e se solo le disgrazie creano queste situazioni privilegiate, lo fanno
unicamente presso i popoli già profondamente uniti e consapevoli della loro grandezza
nazionale.
Sarebbe difficile credere che tutto il popolo della Linguadoca fosse eretico; ma è quasi certo
che, nel 1229, era integralmente anticattolico, poiché la Chiesa era divenuta il nemico della
nazione. Il trattato di Parigi metteva sullo stesso piano la Chiesa e il re di Francia: chi poteva
allora venerare il papa, senza passare per traditore, in un paese in cui da oltre vent'anni
'francese' era divenuto sinonimo di 'bandito e di predone'? Il re di Francia non si era mostrato
più magnanimo di Simone di Montfort; ed era più difficile da eliminare.
Dopo avere firmato il trattato che consegnava il suo paese alla Francia, Raimondo Settimo
non perse la sua popolarità: fu considerato una vittima. Un paese mutilato e devastato dalla
guerra accoglieva i siniscalchi e i funzionari stranieri che venivano ad abbattere le mura delle
sue piazzeforti, a occupare la sua capitale per rendere impossibile qualsiasi velleità di
indipendenza da parte del conte, a prelevare su terre già in rovina imposte così pesanti da
paralizzare la vita economica del paese. Gran parte delle imposte (la metà) era destinata alle
chiese e alle abbazie e i vescovi, più potenti che mai, erano liberi di prelevare le decime e le
tasse che gli intendenti reali fossero riusciti a farsi pagare. Il Carcassès, il Razès, l'Albigeois e la
regione di Narbonne divenivano terre del re - lo erano fin dal 1226, ma questa volta
l'annessione pareva definitiva. La regione di Tolosa, il Quercy e l'Agenais dipendevano ancora
dal conte di Tolosa, che era però sotto la sorveglianza di una guarnigione francese installata
all'interno della capitale. Tornato a Tolosa, città non sconfitta ma le cui mura sarebbero state
nuovamente abbattute, il conte era seguito dal cardinale di Sant'Angelo in persona; questi
intendeva far capire chiaramente ai Tolosani e all'intera Linguadoca che quella pace era
anzitutto la pace della Chiesa.
Ma non era una Chiesa vittoriosa che si insediava per governare da padrona in un paese
conquistato; era una Chiesa sconfitta. I veri vincitori - i crociati, il re di Francia, e soprattutto la
miseria popolare - avevano meravigliosamente servito la causa dell'eresia, e la Chiesa era
sconfitta al punto che solo le armi dell'occupante potevano farle salvare in parte la faccia; ora
doveva iniziare la riconquista del paese con mezzi diversi dal ricorso al braccio secolare; ed
essa rischiava seriamente di vedere la sua azione ridursi a semplici, impotenti minacce, a meno
di inventare un nuovo sistema di coercizione, più efficace dell'esercito.
Il compito non era facile. Ma, dopo il 1209, un profondo movimento di riforma, interno alla
Chiesa, aveva consentito di reclutare un gran numero di combattenti energici e decisi a tutto pur
di far trionfare la loro fede. Se la loro attività avrebbe finito per assomigliare più a quella dei
poliziotti che non a quella dei missionari, fu perché si trovarono a fare i conti con un avversario
troppo forte, e perché non c'era più tempo per scegliere quali armi impugnare. Per disarmare
l'odio del popolo occitano non sarebbero bastate loro la bontà, la giustizia e la moderazione;
essi avrebbero dovuto semplicemente sparire. La loro carità non poteva spingersi a tanto.
2. IL CONCILIO DI TOLOSA.
Nel novembre 1229 il cardinale legato di Sant'Angelo giunse a Tolosa per inaugurare con la
pompa e lo sfarzo adeguati l'età nuova di prosperità e di pace che si apriva per la Linguadoca;
prosperità della Chiesa cattolica sotto l'egida della potente e fortunata protezione del re di
Francia, pace nell'unità della fede e nella fedeltà dei signori e del popolo alla Chiesa e al re.
Una cerimonia solenne ebbe luogo proprio a Tolosa; il conte dovette nuovamente fare atto di
sottomissione al legato, che non gli impose una nuova flagellazione ma si diede comunque arie
da sovrano assoluto, che per bontà accordava il perdono e la parziale restituzione dei suoi
domini a un suddito ribelle e pentito. Il testo del trattato fu letto ad alta voce e reso pubblico
davanti all'assemblea dei vescovi e dei nobili del paese, che prestarono giuramento di
rispettarne fedelmente ogni clausola.
Romano di Sant'Angelo, la cui carriera in Francia si chiudeva con un successo così brillante,
non lasciò Tolosa e la Linguadoca prima di avere stabilito su solide basi la nuova politica della
Chiesa nel paese. Gli impegni assunti dal conte, i giuramenti prestati dai vassalli non dovevano,
questa volta, subire la sorte delle promesse fatte tante volte dai padroni della Linguadoca,
rimaste allo stadio di buone intenzioni mai realizzate e dichiarate irrealizzabili. Volendo battere
il ferro finché era caldo, l'energico legato fece convocare a Tolosa un concilio cui avrebbero
assistito tutti i prelati del Meridione, e che avrebbe avuto per scopi: in primo luogo, la
fondazione o meglio il rinnovamento dell'università di Tolosa (già durante la crociata il legato
Corrado di Porto aveva gettato le basi di questa università cattolica); in secondo luogo,
un'organizzazione solida ed efficace della lotta contro l'eresia.
E' interessante leggere la lettera circolare redatta in occasione del concilio dai maestri di
teologia della nuova università e destinata a essere inviata nei grandi centri di istruzione
dell'Occidente per attrarre a Tolosa nuovi studenti. Romano di Sant'Angelo aveva portato con sé
i maestri di teologia e di filosofia di Parigi che avevano lasciato l'università di quella città in
seguito alla controversia che aveva opposto le scuole al capitolo di Notre-Dame. La nuova
università non mancava di fondi, considerato che il conte doveva annualmente pagare
quattromila marchi d'argento per mantenerla. A leggere la lettera di propaganda spedita dai
nuovi professori si potrebbe pensare che il paese ove essi invitavano gli studenti fosse un'oasi di
pace nel mezzo dei disordini e delle guerre che infierivano sull'intera Europa: gli abitanti del
posto sono dolci e accoglienti, la vita non è cara, gli alloggi numerosi, il clima piacevole, e così
via. Infine, là dove «si erano sviluppate come una foresta le sterpaglie dell'eresia», la nuova
università avrebbe «innalzato sino ai cieli il cedro della fede cattolica». Essa avrebbe sostituito
con le pacifiche lotte della controversia i massacri della guerra (1): insomma, la riconciliazione
del conte con la Chiesa aveva portato al suo paese la pace, la vittoria della fede e la promessa
della prosperità e del benessere.
In effetti, questo doveva essere il desiderio non solo degli elementi cattolici del paese, ma
anche del conte e del popolo, stanco della guerra: una pace, anche forzata, anche crudele,
poteva permettere alla Linguadoca di respirare; i contadini avrebbero potuto seminare il grano
senza il timore di vedersi devastare ogni anno le loro terre.
In vent'anni Tolosa aveva visto entrare nelle sue mura, da padroni, Simone di Montfort e il
principe Luigi, Folco e i legati, quindi poteva sperare che il regno dei nuovi padroni non
sarebbe durato più di quello dei loro predecessori; il conte manteneva parte dei suoi poteri e il
legato sarebbe presto rientrato a Roma.
Romano di Sant'Angelo evidentemente non credeva di aver cancellato l'eresia con un tratto
di penna, e non pensava che già si fosse allo stadio delle «pacifiche lotte della controversia»; al
contrario, mai più nel paese l'eresia sarebbe stata opposta alla verità cattolica nel corso di
controversie teoriche; gli eretici non avrebbero potuto produrre i loro argomenti dalle cattedre
di teologia né da qualsiasi altro pulpito, eccettuata la prigione, e le «pacifiche lotte» nelle quali
sarebbero stati confutati si sarebbero ridotte a monologhi. Forte delle clausole del trattato di
Parigi, il legato stese un regolamento che, se non introduceva sostanziali innovazioni rispetto
alla legislazione ecclesiastica, per la prima volta venne applicato in modo sistematico e
duraturo.
La repressione dell'eresia fu inserita nel quadro delle leggi comuni, obbligatorie per tutti allo
stesso titolo del diritto civile e criminale, anzi più costrittive ancora in quanto concernevano
tutti gli abitanti del paese, senza la minima eccezione; e in base alle nuove disposizioni una
ragazzina di dodici anni che, per una malattia o una prolungata assenza, avesse trascurato di
prestare il giuramento di combattere l'eresia (o magari, per una qualsiasi ragione, non fosse
andata a confessarsi a Pasqua) poteva essere ritenuta sospetta di eresia e divenire passibile di
azioni giudiziarie! In effetti quel che colpisce in questo regolamento è il suo carattere metodico,
per non dire burocratico; esso sembra istituire - almeno sulla carta - un vero e proprio sistema di
controllo poliziesco sull'intera popolazione, e viene da chiedersi se la Chiesa possedesse gli
strumenti materiali per applicarlo alla lettera. Comunque sia, essa sarebbe riuscita a farlo solo
dopo lunghi anni di sforzi.
Ecco i principali articoli del regolamento: Gli arcivescovi e i vescovi dovevano nominare in
ogni parrocchia un sacerdote e due o tre laici di buona reputazione, che dovevano visitare le
dimore e i luoghi sospetti, i sotterranei, i granai e in genere qualsiasi posto che potesse servire
da nascondiglio agli eretici. Se ve ne avessero trovati, avrebbero dovuto avvertire della cattura
il vescovo e il signore del luogo, oltre ai balivi, perché si procedesse a giudicarli. Ricerche
analoghe dovevano essere compiute dai signori e dagli abati nelle case, nelle città e soprattutto
nelle foreste.
Chiunque fosse stato accusato di aver permesso a un eretico di dimorare sulla sua terra
l'avrebbe persa, e sarebbe stato rimesso alla giustizia del suo signore. Anche se la sua
connivenza con gli eretici non fosse stata dimostrata, sarebbe incorso nei rigori della legge nel
caso in cui gli eretici scoperti fossero numerosi. La casa ove venisse scoperto un eretico sarebbe
stata bruciata, e la proprietà relativa confiscata.
Ogni balivo che si fosse mostrato negligente nella ricerca degli eretici avrebbe perso il suo
incarico e i suoi beni.
Nessuno sarebbe stato punito come eretico se non dal vescovo del luogo o da un giudice
designato dalla Chiesa, sotto giuramento.
Chiunque poteva cercare gli eretici sulle terre altrui e i balivi del luogo dovevano aiutarlo.
Così i balivi del re potevano cercare gli eretici sulle terre del conte di Tolosa e viceversa.
Quando un eretico spontaneamente abbandonava l'eresia, doveva cambiare residenza e
sarebbe stato dichiarato al di sopra di ogni sospetto; doveva portare due croci di un colore
diverso da quello del suo vestito, sui due lati del petto; non poteva ricoprire alcun incarico
pubblico, non poteva redigere atti pubblici (a meno di essere reintegrato nei suoi diritti tramite
una lettera del papa o del legato). Ogni eretico che si fosse riavvicinato alla fede cattolica non
spontaneamente, ma per paura della morte o per qualsiasi altra ragione, sarebbe stato
imprigionato dal vescovo; chi avesse ricevuto i suoi beni era tenuto a mantenerlo; in caso non
ne avesse, si sarebbe occupato di lui il vescovo della diocesi.
Ogni uomo di oltre quattordici anni e ogni donna di oltre dodici anni doveva abiurare
l'eresia, giurare fedeltà all'ortodossia e promettere di cercare gli eretici e di denunciare quelli
che conosceva. Si doveva stendere l'elenco dei nomi di tutti gli abitanti delle parrocchie per
assicurarsi che tutti pronunciassero il giuramento davanti al vescovo o a un suo inviato; gli
assenti dovevano farlo entro quindici giorni dal loro ritorno. In caso non lo facessero (cosa
facile a controllarsi, scorrendo la lista dei nomi) sarebbero stati sospettati di eresia. Il
giuramento doveva essere rinnovato ogni due anni.
Chiunque, senza distinzione di sesso, avesse raggiunto l'età della ragione, doveva confessarsi
al suo curato (o a un altro sacerdote che avesse il permesso del curato) tre volte all'anno; doveva
fare la comunione a Natale, a Pasqua e alla Pentecoste, a meno che non avesse deciso di
astenersene "ad tempus" per consiglio del curato. I sacerdoti avrebbero cercato quanti non
facevano la comunione, che sarebbero stati sospettati di eresia.
I capi famiglia erano tenuti ad assistere alla messa la domenica e nei giorni di festa, sotto
pena di un'ammenda di dodici denari, a meno che fossero impediti a farlo da malattie o da altre
cause legittime.
Nessuno poteva possedere né l'Antico né il Nuovo Testamento, con l'eventuale eccezione del
"Salterio", del "Breviario" e delle "Ore" della Vergine, ma in latino.
Nessuna persona sospetta di eresia poteva esercitare la professione medica. I malati, dopo
aver ricevuto la comunione, sarebbero stati tenuti sotto controllo, per impedire che eretici o
sospetti di eresia andassero a trovarli.
I testamenti dovevano essere stesi alla presenza del curato o, in sua assenza, di ecclesiastici o
laici di buona reputazione, altrimenti sarebbero stati considerati nulli.
Era proibito a qualsiasi signore, barone, cavaliere, castellano di affidare a un eretico
l'amministrazione delle sue terre.
Sarebbe stato «diffamato» chi venisse denunciato dall'opinione pubblica e la cui cattiva
reputazione venisse constatata dal vescovo o da un'altra persona degna di fede (2).
Come si vede, per essere applicate queste disposizioni richiedevano molto personale che ne
sorvegliasse l'esecuzione. Certo ogni sacerdote poteva stendere la lista dei suoi parrocchiani e
segnalare quanti si astenevano dal prestare il giuramento o dalla comunione, dichiarandoli
sospetti di eresia. Ma, per pochi che fossero, sarebbe stato difficile già condurli in giudizio. La
paura di procurarsi delle noie poteva spingere molti a conformarsi al regolamento; ma
bisognava che tale paura venisse giustificata, alla lunga, dall'effettiva potenza della Chiesa.
Forse non era difficile trovare in ogni parrocchia due o tre laici desiderosi di dare la caccia
agli eretici, ma bisognava che essi fossero sostenuti dalla maggior parte della popolazione
locale, altrimenti sarebbe stato loro difficile catturare gli eretici scoperti.
L'interesse poteva spingere i signori a confiscare le terre di quanti davano rifugio agli eretici;
il timore di perdere i loro beni o i loro incarichi e di vedersi distruggere le case poteva spingere
la popolazione a rifiutare agli eretici il diritto d'asilo. Ma era necessario che ci fosse realmente
un'autorità abbastanza forte da incaricarsi della caccia agli eretici, della demolizione delle case
e della confisca delle terre. Al di là degli inevitabili disordini che un simile sistema di
repressione rischiava di provocare nel paese, era difficile contare, per l'esecuzione di queste
misure, sul conte e sui suoi vassalli, e persino sui funzionari del re, già abbastanza occupati a
svolgere i loro compiti. I vescovi avevano milizie armate; ma per catturare gli eretici bisognava
innanzitutto trovarli, ed essi erano abili nel far perdere le loro tracce. Inoltre, fra le persone
«diffamate» c'era un gran numero di signori potenti, che non era facile attaccare e che, d'altra
parte, avevano prestato giuramento a riprova della loro ortodossia.
Romano di Sant'Angelo non si accontentò di far promulgare il decreto: volle colpire
l'opinione pubblica, prima di partire, con un processo clamoroso, capace di intimidire quanti lo
ritenessero inapplicabile. Egli aveva sottomano due eretici, da poco scoperti e arrestati dagli
uomini del conte di Tolosa (che, per ispirare fiducia al legato, aveva voluto dargli questa prova
di buona volontà). Erano due 'perfetti': uno, Guglielmo, è menzionato da Alberico di Trois
Fontaines (3) con il titolo di 'papa' ("apostolicus") degli Albigesi; forse si trattava di un vescovo
cataro della diocesi di Albi, comunque di un vecchio particolarmente venerato, cui venne
attribuito il titolo di 'papa' per dare maggior risalto alla sua cattura. L'altro 'perfetto', anche lui di
nome Guglielmo - di Solier - era un eretico di un certo prestigio, ben noto nella diocesi di
Tolosa.
Il cosiddetto 'papa' degli Albigesi andò incontro al supplizio con la fermezza che era di
norma fra i ministri catari, e fu solennemente bruciato a Tolosa davanti al cardinale legato.
Guglielmo di Solier, invece, si convertì al cattolicesimo, divenendo così un preziosissimo
collaboratore della Chiesa. Il concilio lo riabilitò, per poter legalmente raccogliere la sua
testimonianza. Egli denuncio un gran numero di persone che sapeva appartenere alla Chiesa
catara: aveva occupato una posizione tale da poterli conoscere, da poter rivelare i loro
nascondigli e luoghi di riunione. Non sembra, comunque, che abbia denunciato o fatto scoprire
molti 'perfetti', perché le persone da lui menzionate nelle sue dichiarazioni erano per lo più
semplici credenti. Il vescovo di Tolosa fece allora convocare un certo numero di persone la cui
ortodossia era riconosciuta e ne ottenne testimonianze contro quanti esse conoscevano fra gli
eretici scoperti; così, con la deposizione di Guglielmo di Solier, stese un'impressionante lista di
sospetti, che furono citati a comparire dinnanzi al tribunale ecclesiastico.
Ma questa prima inchiesta non diede risultati apprezzabili: interrogati, i sospetti si
rifiutarono di parlare. Alcuni, più coraggiosi o più istruiti degli altri, pretesero i nomi dei
testimoni che avevano deposto contro di loro - come era nel loro diritto; non poteva esserci una
regolare procedura giuridica senza il confronto fra gli incriminati e i testimoni a carico. Ma,
com'è evidente, si trattava di un caso un po' speciale: i giudici non potevano dare i nomi dei
loro informatori per timore di esporli alla pubblica vendetta e quindi di scoraggiare future
delazioni. Quando il cardinale legato rifiutò di fare i nomi dei loro accusatori agli accusati,
questi ultimi lo seguirono sino a Montpellier, dove gli presentarono di nuovo la stessa richiesta.
Romano di Sant'Angelo se la cavò con un'astuzia: mostrò loro l'elenco completo di quanti
erano stati citati durante l'inchiesta, senza specificare né se avevano già deposto, né contro chi
l'avevano fatto, e chiese agli accusati se erano in grado di riconoscervi i nomi di loro nemici
personali. Disorientati, non sapendo se i testimoni citati avessero deposto a favore o contro di
loro, se avessero o non avessero accusato qualcuno, gli imputati non osarono ricusare nessuno e
si rimisero all'indulgenza del legato. Questo stratagemma escogitato da Romano di Sant'Angelo
in seguito sarebbe stato largamente utilizzato dai tribunali ecclesiastici.
Il legato esaminò il processo di questi sospetti eretici non a Tolosa, ma a Orange, ove tenne
un concilio per estendere a tutti gli stati della Linguadoca sottomessi al re di Francia il
regolamento già promulgato a Tolosa. L'aveva accompagnato il vescovo di Tolosa, Folco, e fu
lui che, tornato in città, si incaricò di imporre agli accusati le penitenze ordinate dal legato.
Romano di Sant'Angelo lasciò il Sud della Francia per rientrare a Roma, dove il papa, di lì a
poco, l'avrebbe nominato vescovo di Porto.
3. L'IMPOTENZA DELLA CHIESA E LA REAZIONE DOMENICANA.
Il legato, in quel momento, poté credere che «la Chiesa avesse infine trovato la pace nel
paese» (Guglielmo Pelhisson). Ma il suo intervento inquisitorio, malgrado il rogo del 'perfetto'
Guglielmo e la citazione in massa dei sospetti, non dovette fare grande impressione ai Tolosani.
Il vescovo Folco, cui era affidato il compito della repressione dell'eresia, era talmente
impopolare che non osava spostarsi senza scorta armata e a stento riusciva a riscuotere le
decime che gli erano dovute. Il conte, come si può ben comprendere, non faceva assolutamente
nulla per difendere i diritti del suo vescovo, cosa di cui il vecchio prelato si lamentava
amaramente, dicendo, con involontario cinismo: «Sono pronto ad andare nuovamente in esilio,
poiché mai sono stato bene come in esilio (4)». Folco, del resto, non occupò più a lungo il
seggio episcopale di Tolosa: vecchio, stanco, e soprattutto scoraggiato dall'invincibile ostilità
manifestatagli dai suoi diocesani, si ritirò nel convento di Grandselve per prepararsi alla morte
componendo cantici. Morì nel 1231.
La repressione metodica dell'eresia, imposta dal trattato di Meaux e solennemente inaugurata
da Romano di Sant'Angelo, si dimostrava praticamente irrealizzabile. Le misure poliziesche
assunte da un potere ecclesiastico moralmente isolato dal resto del paese sembra fossero servite
solo a creare fra gli eretici e i loro seguaci un sistematico e cosciente atteggiamento di
dissimulazione; le nuove leggi erano inefficaci perché chiunque avesse a che fare, direttamente
o indirettamente, con uomini di Chiesa, protestava la sua ortodossia; di fatto, la vita del paese
restava al di fuori del controllo di una polizia ecclesiastica troppo poco numerosa e quindi poco
temuta.
«Gli eretici e i loro credenti - dice il domenicano Guglielmo Pelhisson parlando degli anni
successivi al trattato di Meaux - si fecero sempre più combattivi, moltiplicando gli sforzi e le
astuzie contro la Chiesa e i cattolici. A Tolosa e nei dintorni fecero più male allora che durante
la guerra (5)».
Dell'attività dei catari durante questo periodo conosciamo solo i fatti emersi in occasione di
processi e inchieste, oppure quelli noti all'opinione pubblica; ma anche fra questi ultimi, molti
dovettero sfuggire a giudici che non erano onniscienti e che nessuno si preoccupava di
informare.
I signori di Niort, eroi di un lungo e spettacolare processo sul quale avremo modo di tornare,
apertamente ospitavano cinque 'perfetti', che non volevano allontanare malgrado le ingiunzioni
dell'arcivescovo di Narbonne; organizzavano riunioni di eretici e davano asilo a molte persone
sospettate di eresia; la loro madre, Esclarmonde, era una 'perfetta' nota in tutta la regione, la cui
attività e influenza erano così grandi che i suoi capi spirituali le avevano dato la speciale
dispensa di mangiare carne e, in caso di necessità, di mentire a proposito della sua fede e dei
suoi correligionari.
Una grande riunione di eretici e di credenti catari venuti da tutti i paesi del circondario per
ascoltare la predicazione di Guglielmo Vidal si tenne, nel 1233, presso il castellano di
Roquefort. Fanjeaux restava sempre un centro ufficiale della Chiesa catara; tutta la cavalleria
della regione assisteva alle riunioni presiedute dal vescovo Guilberto di Castres; e la signora di
Fanjeaux, Cavaers, nel 1229 aveva solennemente convocato nel suo castello di Montgradail
tutta la nobiltà locale per la professione di eresia del nipote, Arnaldo di Castelverdun. A Tolosa,
la casa di Alamanno di Roaix (parente di quei Roaix che avevano dato ospitalità al conte di
Tolosa quando il vescovo l'aveva cacciato dal suo palazzo) era una vera e propria 'casa di
eretici', dove si ricevevano i 'perfetti' e le 'perfette' di passaggio e si tenevano riunioni. Il
castello di Cabaret era la residenza del diacono Arnaldo Hot; occupato, nel 1229, dalle truppe
francesi, appena due anni dopo era un luogo di riunione degli eretici della regione. I 'perfetti' e i
diaconi catari percorrevano il paese senza nemmeno nascondersi, davano il "consolamentum",
predicavano; in altri termini, esercitavano il loro ministero in modo pressoché normale. Il
'perfetto' Vigoros di Baconia visitò tutto il Tolosano e la valle dell'Ariège; non risulta che
dovesse nascondersi, dal momento che alla notizia del suo arrivo i fedeli accorrevano dai paesi
vicini per ascoltare le sue prediche e i suoi consigli.
Il fervore religioso dei catari e dei loro seguaci non era stato minimamente scosso dai decreti
del concilio di Tolosa. In compenso, l'esasperazione provocata dalla presenza delle truppe
francesi, dall'obbligo di rendere alla Chiesa i beni confiscati durante la guerra e da quello di
pagare regolarmente le decime e di restituire ai crociati del Montfort (o ai loro discendenti) i
castelli che erano stati sottratti ai loro legittimi proprietari - questa esasperazione naturale non
cessava di crescere; la pace di Parigi, una pace di rapina, imposta al paese senza contropartite e
a esclusivo vantaggio della Chiesa, non poteva venire considerata come definitiva.
La nobiltà - specie quella delle viscontee dei Trencavel - spogliata e umiliata, peraltro
bellicosa per vocazione e allenata alla lotta da vent'anni di guerra, pensava solo a tramare
complotti in attesa dell'occasione per prendersi la rivincita. Il paese aveva deposto le armi solo
per la mancanza dei soldi necessari a proseguire la guerra. A dispetto degli impegni presi, il
conte mirava unicamente a frenare i progressi che la Chiesa e le forze francesi potevano
compiere nel paese grazie alle facilitazioni concesse loro dalla pace. I signori sottomessi
disponevano da padroni delle loro terre e non avevano alcuna intenzione di rinunciare ai loro
diritti; tanto più che il giuramento di fedeltà, in via di principio, li metteva al riparo dai sospetti
della Chiesa. Le autorità locali - i balivi e i vicari dei signori - si opponevano apertamente alla
ricerca e agli arresti degli eretici, e non intervenivano contro quanti prendevano le armi contro i
funzionari del re.
Così il siniscalco Andrea Chauvet (o Calvet) venne assassinato nel 1230 in occasione di una
battuta organizzata per sorprendere gli eretici di La Bessède (6); l'assassinio restò impunito, ma
l'accusa di avere organizzato l'attentato ricadde sui signori del posto (di Niort) e persino sul
conte di Tolosa. Sempre i signori di Niort - che appartenevano alla diocesi dell'arcivescovo di
Narbonne - nel 1233 invasero, armi in pugno, le terre dell'arcivescovado e, non contenti di
avere imprigionato parte dei servitori e razziato il bestiame, penetrarono nella residenza
dell'arcivescovo, lo ferirono, maltrattarono i suoi chierici, rubarono il pallio (simbolo della
giurisdizione sulla città) e molti oggetti preziosi e infine diedero fuoco alle sue terre.
L'arcivescovo, Pietro Amiel, si lamentò dell'accaduto con il papa, denunciando detti signori
come eretici e ribelli; era il minimo che si potesse dire. Ma se poteva protestare con il papa,
Pietro non era in grado di farsi rendere giustizia nella sua diocesi, malgrado la presenza nel
paese delle autorità francesi .
Nella regione di Tolosa la reazione della popolazione contro la Chiesa fu tanto più violenta
in quanto era sostenuta, quasi apertamente, dal conte. Quando il domenicano Rolando da
Cremona predicò dalla cattedra della nuova università contro gli eretici, accusando i Tolosani di
eresia, i consoli protestarono vivacemente e chiesero al priore del convento dei domenicani di
mettere a tacere questo focoso predicatore. Frate Rolando, ciononostante, continuò a
stigmatizzare il comportamento degli abitanti di Tolosa, e provocò lo scandalo in città facendo
esumare e bruciare le salme di due uomini morti da poco: A. Peyre, del capitolo di Saint-Sernin,
e Galvano, ministro valdese sepolto nel cimitero di Villeneuve; i due uomini, per quanto eretici
o almeno sospetti di eresia, avevano goduto di grande stima anche negli ambienti cattolici.
Azioni simili, compiute «per maggiore gloria di Nostro Signore Gesù Cristo, del beato
Domenico e in onore di nostra madre la Chiesa romana» (Guglielmo Pelhisson), provocarono lo
sdegno dell'opinione pubblica e spinsero i consoli a protestare nuovamente presso il priore dei
domenicani, ottenendo l'allontanamento di Rolando. Pelhisson lamenta che i cavalieri e i
cittadini di Tolosa continuassero a moltiplicare gli attentati contro le persone dedite alla ricerca
degli eretici. Queste ricerche divenivano talmente pericolose che le autorità ecclesiastiche
dovettero dimostrare molto coraggio per portarle avanti, catturando e conducendo i sospetti
nelle prigioni della Chiesa per interrogarli e giudicarli.
La difficoltà non stava nello scoprire gli eretici, ma nell'impadronirsi di loro; il più delle
volte i tribunali erano costretti a condannarli in contumacia o ad arrestare gente ben poco
sospetta e contro la quale non si poteva dimostrare nulla di serio, come quella dodicenne di
Montauban, Peyronnelle, allevata in un convento di 'perfette' e riconciliata alla Chiesa dal
vescovo Folco. Peggio ancora: i cittadini talvolta passavano al contrattacco servendosi degli
stessi argomenti degli avversari. Così un certo P. Peytavi, che, nel corso di una disputa, aveva
dato dell'eretico (pare a ragione) al fabbricante di fibbie Bernardo di Solaro, venne accusato di
diffamazione. Peytavi fu convocato dinnanzi al consiglio della città e condannato dai consoli a
parecchi anni di esilio, a risarcire i danni a Bernardo e a pagare un'ammenda. La colpa di
Peytavi non era di avere sospettato dell'ortodossia del fabbricante di fibbie, ma di avere
manifestato troppo apertamente i suoi sentimenti cattolici. Egli del resto si lamentò con i
domenicani di Tolosa, si appellò al vescovo e, davanti al tribunale ecclesiastico, sostenuto dai
domenicani Pietro Cellani e Guglielmo Arnaldo, vinse clamorosamente la causa: Bernardo
dovette fuggire in Lombardia. Guglielmo Pelhisson scrive in proposito: «Benedetti siano il
Signore e il suo servitore Domenico che ha saputo difendere così bene i suoi ! (7)».
L'importanza attribuita dalla Chiesa a un episodio tanto insignificante (i due domenicani che
aiutarono Peytavi altri non erano che i due futuri inquisitori di Tolosa) mostra di per sé quanto
aspra e infruttuosa fosse la lotta allora condotta dalle autorità ecclesiastiche contro il potere
consolare. Erano ridotti a rendere lode a Dio per essere riusciti ad annullare una sentenza che
dava ragione a un uomo sospettato di eresia, peraltro senza persuadere i consoli ma solo il loro
vescovo. Questo vescovo, nominato dopo la morte di Folco, era Raimondo di Fauga (o di
Falgar), della famiglia di Miramont, nella regione di Tolosa. Era un domenicano fanatico e duro
che, secondo Guglielmo di Puylaurens «iniziò laddove il suo predecessore aveva finito,
perseguitando gli eretici, difendendo i diritti della Chiesa, spingendo il conte, ora con energia
ora con dolcezza, a fare il bene (8)». In effetti, questo vescovo doveva essere molto energico,
perché era riuscito a trascinare il conte (del quale i cattolici deploravano la «crassa negligenza»
nella persecuzione degli eretici) a una battuta durante la quale venne scoperta una riunione
notturna di eretici in un bosco vicino a Castelnaudary. Furono catturati diciannove eretici, fra
cui il "faidit" Pagano di La Bessède, uno dei capi della nobiltà catara, cavaliere stimato per il
suo valore. Pagano e i suoi diciotto compagni furono subito condannati a morte e inviati al rogo
per ordine del conte. Viene da chiedersi di quali argomenti poté avvalersi il vescovo per
costringere il conte a quest'atto di durezza, che era estraneo al suo carattere e costituiva una
sorta di tradimento nei confronti di un suo vassallo: i signori "faidits" erano sempre stati i più
fedeli partigiani di Raimondo. In ogni caso, avendo dato a Raimondo di Fauga
quest'indubitabile prova della sua buona volontà, il conte dovette ritenersi disobbligato per
qualche tempo e non fece nulla per impedire ai signori e ai consoli di sfidare quasi apertamente
l'autorità della Chiesa.
L'agitazione che regnava nel paese era tanto grande che il papa in persona, per timore di una
rivolta generalizzata, adottò una politica relativamente morbida nei confronti del conte di
Tolosa: nel 1230 raccomandò al nuovo legato Pietro di Colmieu di trattare il conte con dolcezza
«per favorire il suo zelo verso Dio e la Chiesa»; gli concesse una proroga per il pagamento dei
diecimila marchi di risarcimento alla Chiesa, imposti dal trattato di Meaux; gli permise
addirittura, per pagare quel debito, di esigere sovvenzioni da uomini di Chiesa; infine
acconsentì a esaminare il processo postumo a Raimondo Sesto, che il figlio si disperava di non
poter seppellire in terra cristiana secondo le sue ultime volontà (18 settembre 1230). Questo
ricatto sulla pietà filiale di Raimondo Settimo durò ancora a lungo, perché mai fu concesso di
dare sepoltura cristiana ai resti del vecchio conte. Il papa, comunque, almeno in apparenza
continuava a trattare Raimondo Settimo con un certo riguardo perché «era utile, per aumentare
la sua pietà, di innaffiarlo benignamente come una giovane pianta e di nutrirlo del latte della
Chiesa (9)». Quest'attitudine indulgente, giustificata solo in parte dal comportamento del conte,
probabilmente non si spiega con il desiderio papale di frenare le ambizioni del re di Francia, un
quindicenne la cui autorità veniva a stento fatta rispettare dalla madre. Nella persona del conte
il papa cercava di tenersi buona un'opinione pubblica sovreccitata e di proteggere la Chiesa in
un paese che le era sempre più ostile.
Sembra che in quella parte del paese non più sottomessa alla sovranità del conte di Tolosa
ma a quella dei signori francesi e dei siniscalchi reali la situazione della Chiesa fosse addirittura
peggiore: lo mostra il comportamento dei signori di Niort verso l'arcivescovo di Narbonne. In
ogni caso quest'arcivescovo, la cui sicurezza era tanto minacciata, si decise nel 1233 a intentare
di persona il processo contro i suoi aggressori, che trovarono difensori appassionati persino fra
il clero locale. E poté farlo solo dietro espresso mandato di Gregorio Nono, che designò come
giudici il vescovo di Tolosa, il prevosto della cattedrale di Tolosa e l'arcidiacono di
Carcassonne. Per ottenere la traduzione in giudizio dei signori di Niort, il prelato dovette prima
consultare il papa ad Anagni, dove Gregorio Nono trascorse il 1232, poi recarsi a Roma da
dove, l'8 marzo 1233, venne inviata al vescovo di Tolosa una bolla papale che ordinava di fare
«eseguire le sentenze del concilio di Tolosa contro i Niort».
Costoro erano fra i più potenti feudatari della Linguadoca e possedevano terre nel
Lauraguais, nel Razès e nella regione di Sault. Già scomunicati dal concilio di Tolosa, lo furono
nuovamente nel 1233; eretici notori a dispetto dei loro dinieghi, non temevano affatto i fulmini
spirituali della Chiesa; e per avere ragione di loro con la forza era necessario il consenso e
l'aiuto del conte di Tolosa, che non teneva a fare arrestare i suoi vassalli. Il papa dovette quindi
ricorrere al re di Francia, o meglio alla reggente. Sotto la duplice minaccia della collera papale e
di una ripresa delle ostilità con la Francia, il conte cedette e riunì un consiglio di vescovi e
baroni per promulgare un'ordinanza contro l'eresia (20 aprile 1233). Furono ribadite le
disposizioni già assunte dal concilio di Tolosa nel 1229; i regolamenti contro gli eretici, un
tempo di esclusiva competenza della giustizia ecclesiastica, facevano ora parte del codice
penale e dipendevano dalla giustizia del conte.
I signori di Niort (almeno due di loro, Bernardo Ottone e Guglielmo), convocati da
Guglielmo Arnaldo, rifiutarono di rispondere e lasciarono il tribunale; l'indomani il siniscalco
G. di Friscamps li arrestò e li gettò in prigione. Solo le armi dell'occupante, con l'accordo
forzato del conte, erano realmente in grado di imporre il volere della Chiesa; e solo l'intervento
di un siniscalco francese rendeva possibile processare i capi laici della resistenza catara.
Il processo fu lungo e abbastanza inconcludente. Bernardo Ottone e Guglielmo di Niort
furono accusati da numerosi testimoni, cosa più facile a Tolosa che nel loro paese, dove erano
così potenti che la loro madre Esclarmonde aveva potuto sfidare apertamente e quasi mettere
alla porta lo stesso arcivescovo.
Chierici e sacerdoti vennero a dichiarare che Bernardo Ottone di Niort non solo manteneva
apertamente degli eretici nel suo palazzo, ma impediva anche l'accesso nei suoi territori a quanti
davano loro la caccia; che una volta era entrato in una chiesa, aveva ordinato al sacerdote di
tacere e al suo posto aveva fatto predicare un 'perfetto'; che era stato complice dell'assassinio di
Andrea Chauvet, e altre accuse del genere. Cosa curiosa, ci furono altrettante testimonianze
dell'ortodossia dei Niort, e in particolare dello stesso Bernardo Ottone, che pare avesse
largamente praticato la politica del doppio gioco; a detta di Guglielmo di Solier (il quale,
bisogna riconoscerlo, dimostrava una certa ripugnanza a denunciare i suoi vecchi amici)
l'imputato negli ambienti catari passava per un «gran traditore», al soldo del re di Francia. I
Fratelli di san Giovanni di Gerusalemme, della casa di Pexiora, parlarono di lui come di un
cattolico sincero che, nel suo zelo religioso, aveva provocato la morte di migliaia di eretici; e
l'arcidiacono di Vielmores, Raimondo lo Scrittore, si presentò per dichiarare che Bernardo
Ottone era il più fedele partigiano del re e della Chiesa, e che l'intero processo era stato
intentato «più per odio che per carità».
A dispetto di tante testimonianze favorevoli, Bernardo Ottone venne riconosciuto eretico e
condannato a morte per essersi ostinato sino alla fine nel non confessare nulla; suo fratello
Guglielmo e suo figlio Bernardo, che avevano finito per confessare, furono condannati alla
prigione perpetua. La sentenza di morte non venne eseguita: i baroni francesi installatisi nella
Linguadoca (con l'eccezione però di Guido di Lévis, figlio del compagno di Simone di
Montfort) si opposero a quest'esecuzione, che a parer loro rischiava di provocare nel paese
gravi disordini. Del resto Bernardo Ottone e Guglielmo dovettero riuscire ben presto a
riacquistare la libertà, dal momento che tre anni dopo vennero nuovamente giudicati (Bernardo
Ottone in contumacia). Il terzo dei fratelli Niort, Guiraud, aveva avuto la prudenza di non
presentarsi a Tolosa, ma si era trincerato nelle sue terre dove, insieme alla madre, seguitava a
consacrarsi con identico zelo alla fede catara.
Se Bernardo Ottone di Niort aveva più volte patteggiato con i Francesi, e si era persino
battuto al fianco di Simone di Montfort, restava ugualmente, anche dopo la condanna, un fedele
servitore della Chiesa catara. Il suo atteggiamento equivoco si spiega con la necessità di
ingannare l'avversario, per poter meglio aiutare i suoi. Tuttavia, il giorno in cui, gravemente
ferito, domandò il "consolamentum", il vescovo Guilberto di Castres gli rinfacciò amaramente
«tutto quanto aveva tolto alla Chiesa [catara]», esigendo un'ammenda di milleduecento soldi di
Melgueil: anche la Chiesa catara sapeva mostrarsi dura e autoritaria quando le era necessario, e
talvolta era temuta dai suoi fedeli, benché le punizioni di cui disponeva fossero esclusivamente
di ordine spirituale.
Resa dalle persecuzioni più malleabile e più tollerante su alcune questioni dottrinali (come
dimostra il permesso accordato ad alcuni 'perfetti' di mangiare carne e di nascondere le loro
convinzioni nel caso fossero in gioco gli interessi della loro Chiesa), la Chiesa catara doveva
essersi al contempo indurita. Vedendosi obbligata a richiedere maggiori sacrifici ai suoi fedeli,
non poteva più dare fiducia a chiunque; vivendo di doni e di lasciti che le nuove disposizioni
rendevano illegali, i 'perfetti' dovevano esercitare sui loro credenti una pressione morale certo
molto differente da quella della Chiesa cattolica, ma temibile, considerato che per un buon
numero di uomini della Linguadoca essi erano i soli detentori della Verità, e il
"consolamentum" l'unica condizione della salvezza.
Il malcontento che regnava nella Linguadoca aveva per prima causa le devastazioni che in
vent'anni di guerra avevano trasformato in paese povero e dipendente dall'estero un paese ricco
e fiorente.
"Ai! Tolosa et Provensa! E la terra d'Argensa! Bezers et Carcassey! Quo vos vi! quo vos
vei!" si lamentava il poeta Siccardo di Marvejols.
E' vero che nessuno impediva i liberi giochi d'amore e i divertimenti popolari, che si
seguitavano a celebrare matrimoni e battesimi, che le città commerciali continuavano ad
attrarre, nei limiti del possibile, clienti e fornitori stranieri; ma la nobiltà, in rovina, non aveva
soldi né per le feste né per la guerra; la presenza nelle città di un'autorità straniera e di una
polizia ecclesiastica molto più attiva di un tempo creava un clima di diffidenza e di rancore;
nelle campagne saccheggiate vagavano predoni affamati contro i quali era difficile lottare:
forzando il conte e i suoi vassalli a licenziare i mercenari, il trattato aveva privato i signori
occitani di uno strumento per la difesa esterna e per il mantenimento dell'ordine interno,
liberando al contempo nel paese bande di uomini armati che, non essendo più pagati da
nessuno, si pagavano da soli.
Un popolo che aveva lottato tanto a lungo nella speranza di giorni migliori per vedersi
imporre una pace che lo lasciava più povero che mai e sottomesso a un'autorità straniera, viveva
in uno stato di crescente amarezza, accusando delle sue disgrazie la Chiesa ancor più dei
Francesi. Il clero era più intimamente legato alla vita del paese dei funzionari reali o dei signori
che erano divenuti proprietari delle terre in seguito alle conquiste del Montfort; il clero era
ovunque, ogni villaggio aveva il suo curato, ogni città dei conventi, delle cancellerie, delle
milizie ecclesiastiche; e il clero era in gran parte composto di meridionali, che molti loro
conterranei erano inclini a considerare come traditori (del resto parte del clero si opponeva per
patriottismo alla politica della Chiesa). Questi uomini che, in un paese divenuto più povero,
pretendevano di ottenere benefici maggiori di un tempo, che vivevano nella ricchezza o almeno
nell'agiatezza e ricorrevano alle armi dei Francesi o alla minaccia di sanzioni non appena si
rifiutavano loro le imposte; questi uomini, considerati i grandi profittatori di una guerra in cui
erano state sprecate tante vite, tante forze e tanto entusiasmo, si erano attirati un'ostilità tale che
Guglielmo Pelhisson a torto accusava solo gli eretici quando scriveva che «avevano fatto più
male a Tolosa e nei dintorni che durante la guerra». Ad ogni modo gli sforzi del papa per
accattivarsi il conte si dimostrarono inutili: in Linguadoca ogni politica di moderazione e di
tolleranza conduceva inesorabilmente alla rovina della Chiesa.
Il papa non poteva lanciare una nuova crociata, dal momento che il paese ormai era in parte
proprietà diretta del re di Francia, in parte eredità di un fratello del re; d'altra parte la reggente
non desiderava affatto ricominciare una guerra lunga e costosa che avrebbe compromesso gli
accordi del trattato di Parigi: si accontentava di minacciare, di tanto in tanto, Raimondo
Settimo, che si affrettava a dare prove di sottomissione.
Non si trattava più di sottomettere il conte, ma un popolo, o almeno la maggioranza di un
popolo. Quattro anni dopo il trattato di Meaux gli affari della Chiesa in Linguadoca sembravano
più compromessi che mai.
La repressione dell'eresia - e, al contempo, del puro e semplice anticlericalismo - si
dimostrava difficile perché era disorganizzata e perché dipendeva da legislazioni differenti:
quella del vescovo era assicurata da una forza armata insufficiente, quella del conte era poco
energica e sospetta di simpatie verso gli eretici. Anche i signori francesi, a quanto sembra,
avevano altro da fare che condurre un'interminabile guerriglia, col pretesto di dare la caccia agli
eretici.
Quando il papa decise di affidare la repressione dell'eresia a un'organizzazione speciale e a
uomini per i quali il mestiere di 'inquisitori' sarebbe stata l'unica occupazione, non intendeva
semplicemente aggiungere qualche collaboratore al vescovo, per scaricarlo in parte delle sue
responsabilità. E' vero che i vescovi avevano già così tante preoccupazioni e tanti obblighi
diversi da non potere consacrare la loro vita alla ricerca degli eretici; ciononostante Raimondo
di Fauga, vescovo di Tolosa, come il suo predecessore Folco, o Pietro Amiel di Narbonne, non
avevano mancato di zelo né di energia nella difesa della fede. La speciale Inquisizione che
Gregorio Nono istituì con la sua lettera circolare del 20 aprile 1233 doveva essere, nelle
intenzioni del papa, uno strumento di terrore; in caso contrario non aveva ragione di esistere.
Il termine Inquisizione non aveva nulla di nuovo, e si applicava da tempo alla procedura
giuridica consistente nel rintracciare la presenza di eretici in un paese, spingendoli a riconoscere
i loro errori. Tutti i vescovi procedevano periodicamente a delle inquisizioni, facendo
interrogare e giudicare le persone sospette di eresia; i decreti dei concili di Verona, del
Laterano, di Tolosa istituivano in qualche modo delle inquisizioni permanenti, poiché
imponevano non solo ai vescovi ma anche al potere civile l'obbligo di ricercare e punire gli
eretici. Tuttavia Gregorio Nono, per la prima volta, provvide alla creazione di dignitari della
Chiesa la cui unica funzione fosse di esercitare l'inquisizione, uomini che avrebbero
ufficialmente portato il titolo di inquisitori e che, in quanto tali, non dipendevano dall'autorità
dei vescovi, ma direttamente dal papa. Era, di per sé, una misura rivoluzionaria, perché metteva
- almeno nell'esercizio delle sue funzioni - un semplice monaco sullo stesso piano di un
vescovo, e in qualche modo al di sopra di lui. Vedremo che le prerogative degli inquisitori
sarebbero state tali che i vescovi non potevano scomunicarli, sospenderli e nemmeno opporsi
alle loro decisioni a meno di averne ordine formale dal papa.
Il potere concesso a questi alti commissari del papa era destinato a essere praticamente
illimitato. Bisognava scegliere uomini capaci di giustificare una simile fiducia. La nuova
istituzione non sarebbe certo stata possibile se il papa non avesse avuto sottomano una milizia
religiosa nuova, estremamente combattiva, di cui ben conosceva la forza e le capacità.
San Domenico - allora non aveva ancora il titolo di santo, ma sarebbe stato canonizzato ben
presto - era morto nel 1221 a cinquantun anni. Aveva esercitato il suo ministero nel
Mezzogiorno della Francia per più di dieci anni - dal 1205 al 1217 - combattendo l'eresia con la
pazienza e la predicazione, poi con la violenza, e riunendo intorno a sé gli elementi cattolici del
paese; nel 1218 aveva ottenuto da Onorio Terzo il riconoscimento ufficiale del suo movimento
di predicazione e di povertà, chiamato dei «Frati dell'ordine dei predicatori». L'ascendente della
sua personalità e il profondo bisogno di riforma e di reazione cattolica erano tali che alla morte
di Domenico esistevano già in tutta Europa sessanta conventi di Frati Predicatori. Alla morte
del suo successore Giordano di Sassonia (1237) ce n'erano trecento. Questi conventi si erano
moltiplicati non solo in Francia, in Italia, in Spagna, ma persino in Polonia, in Grecia, nei Paesi
Scandinavi, in Groenlandia e in Islanda.
I Frati Predicatori, frati mendicanti, costituivano quindi un grande movimento di missionari,
di combattenti per la fede cattolica. La loro vita, austera fino alla privazione, eroicamente
vagabonda, consacrata a un'ardente e instancabile predicazione, seduceva gli uomini giovani ed
energici, ansiosi di darsi al servizio di Dio; la loro missione non consisteva solo nel dare
esempio di povertà volontaria e di preghiera, ma anche e soprattutto nel convertire le anime a
Dio, combattendo vuoi l'eresia, vuoi le religioni pagane o l'Islam.
Nato in piena crociata, fra le battaglie, i massacri e i roghi, quest'ordine non poteva non
essere - almeno nei paesi eretici - crudelmente fanatico. E' quanto risulta ad ogni modo dalla
condotta dei domenicani che vivevano in Linguadoca e, in particolare, degli inquisitori;
tuttavia, prima dell'ufficiale istituzione dell'Inquisizione non sembra che essi avessero dovuto
piangere dei martiri, e lo stesso san Domenico, percorrendo quasi da solo regioni in mano agli
eretici, non aveva dovuto patire trattamenti peggiori degli insulti e dei sassi lanciatigli contro da
qualche contadino. La crociata aveva fatto abbandonare ai fautori degli eretici
quest'atteggiamento di tolleranza relativa, nel quale i loro avversari già vedevano il culmine
dell'intolleranza; ma il fanatismo religioso degli uomini del Mezzogiorno della Francia non era
veramente cruento: anche in occasione dei moti popolari più violenti, i frati venivano magari
colpiti e ingiuriati, raramente uccisi (salvo qualche caso di cui parleremo più avanti). Accanto ai
loro nemici, i domenicani dei quali la storia ci ha trasmesso i nomi appaiono come uomini di
una tempra del tutto particolare. E' evidente che, indirizzandosi al priore dei domenicani della
Provenza (Francia meridionale), il papa contava su quest'ultimo per scegliere persone
eccezionalmente zelanti nella fede; tuttavia il vescovo Raimondo di Fauga, che doveva
segnalarsi per il suo fanatismo, non era un inquisitore; era però un domenicano.
Il papa aveva affidato a quest'ordine la repressione dell'eresia perché sapeva di potervi
trovare uomini capaci di tutto o quasi.
NOTE.
(1) Marcel Fournier, "Les Statuts et Privilèges des Universités françaises avant 1789", t. 1,
p. 439.
(2) Si veda l'appendice 4.
(3) "Recueil des historiens des Gaules", t. 21, p. 599.
(4) Guglielmo di Puylaurens, cap. 40.
(5) Guglielmo Pelhisson, "Chronicon", edizione Douais, p. 84.
(6) Guglielmo di Puylaurens, cap. 40.
(7) Guglielmo Pelhisson, op. cit., p. 92.
(8) Guglielmo di Puylaurens, cap. 42.
(9) Lettera al legato Gualtiero di Tournay, 18 febbraio 1232.
Capitolo decimo

L'INQUISIZIONE.
1. GLI ESORDI DELL'INQUISIZIONE.
Il 27 luglio 1233 Gregorio Nono nominò l'arcivescovo di Vienne, Stefano di Burnin, legato
apostolico per le province di Narbonne, Arles, Aix e Vienne e per le diocesi di Clermont, Agen,
Albi, Rodez, Cahors, Mende, Périgueux, Comminges, Lectoure e Le Puy, con speciale mandato
di estirpare l'eresia nella Francia meridionale ed estendendo i suoi pieni poteri alle province di
Auch, Bordeaux, Embrun, Catalogna e Tarragona. Tramite questo legato vennero confermati, a
nome della Santa Sede, i poteri accordati ai due frati designati dal provinciale dei Predicatori di
Tolosa: Pietro Cellani e Guglielmo Arnaldo, che furono i due primi inquisitori.
Pietro Cellani era un ricco borghese di Tolosa, uno dei primi compagni di san Domenico;
discepolo fervente del frate spagnolo, aveva dato una delle sue case per ospitarvi la nascente
comunità domenicana. Guglielmo Arnaldo era originario di Montpellier e godeva di una grande
autorità fra i domenicani di Tolosa. Erano stati dati loro pieni poteri per combattere l'eresia,
senza che essi dovessero rendere conto né alla giustizia episcopale né a quella civile; e questi
poteri si estendevano alle intere diocesi di Tolosa e di Albi.
La prima azione inquisitoria dei due domenicani fu la cattura di Vigoros di Baconia, che
passava per essere il capo degli eretici di Tolosa. Vigoros venne giudicato e quasi subito
giustiziato. Privando la Chiesa catara di uno dei suoi capi più decisi, i nuovi inquisitori
inauguravano la loro attività con un colpo magistrale.
Pietro Cellani restò a Tolosa, mentre Guglielmo Arnaldo partì per un lungo giro di ispezione
attraverso tutta la provincia. Visitò Castelnaudary, Laurac, Saint-Martin-la-Lande, Gaja,
Villefranche, La Bessède, Avignonet, Saint-Félix, Fanjeaux, pretendendo l'aiuto delle autorità
ecclesiastiche locali nella ricerca degli eretici e nella convocazione dei sospetti. Dobbiamo
credere che procedette con un'energia poco comune, dal momento che l'anno stesso il conte
scrisse al papa per lamentarsi di questi plenipotenziari della Santa Sede, rimproverando loro
fatti dei quali non aveva mai accusato i giudici delle diocesi episcopali: gli inquisitori - diceva -
si discostavano dalla procedura legale, interrogavano i testimoni a porte chiuse, rifiutavano agli
imputati l'assistenza degli avvocati e ispiravano una paura tale che le persone convocate
denunciavano degli innocenti, mentre altri approfittavano del segreto che circondava la
deposizione dei testimoni per denunciare come eretici i loro nemici personali.
Il conte accusava gli inquisitori anche di intentare processi a persone da tempo riconciliatesi
con la Chiesa e di punire come ribelli quanti tentavano di appellarsi alla Santa Sede: «Cosicché
- disse - essi sembrano lavorare più per consolidare nell'errore che per ricondurre alla verità;
perché essi agitano il paese e con i loro eccessi eccitano le popolazioni contro i conventi e i
chierici».
Sembra quindi che a partire dal 1233 la repressione dell'eresia in Linguadoca avesse
cambiato aspetto e fosse divenuta ben più vigorosa. Tuttavia i due domenicani non disponevano
di mezzi materiali superiori a quelli del vescovo; più tardi ricevettero l'autorizzazione a farsi
accompagnare da una scorta armata che costituiva una specie di guardia del corpo, composta
oltre che da alcuni sergenti d'armi, da carcerieri, notai, e anche da assessori e consiglieri. Questi
collaboratori degli inquisitori non furono mai molto numerosi e, nel 1249, lamentando il loro
numero eccessivo, il papa Innocenzo Quarto li limitò a ventiquattro per ciascun inquisitore, il
che fa pensare che non ce ne fossero centinaia. All'inizio gli inquisitori non avevano a
disposizione questi collaboratori speciali, ma esigevano l'aiuto delle autorità locali, sia
ecclesiastiche sia laiche.
La loro forza, quindi, stava soprattutto nell'energia senza pari di questi uomini, nella loro
certezza di non poter essere ostacolati nell'esercizio delle loro funzioni da alcun organismo
ufficiale e nei procedimenti arbitrari e illegali che perciò potevano permettersi; certo è che
riuscirono a seminare nel paese un vero e proprio terrore.
Le lagnanze del conte mostrano che l'attività incontenibile dei due frati provocava il
malcontento generale; il che prova, per lo meno, che era efficace. Il papa, formalmente,
raccomandò ai suoi inquisitori di procedere con la massima delicatezza, e scrisse al legato
Stefano di Burnin e ai vescovi domandando loro di intervenire, in caso di necessità, in difesa
degli innocenti; ma non sembra che gli inquisitori siano stati trattenuti più di tanto da questi pii
desideri di Gregorio Nono. Al contrario, a Tolosa come nel Quercy l'agitazione continuava a
crescere. Così, a Tolosa gli inquisitori incontrarono un inatteso avversario nella persona di un
certo Giovanni Tisseyre, abitante di uno dei sobborghi; quest'uomo del popolo percorreva le
strade arringando le folle della città in questi termini: «Signori, ascoltatemi. Non sono eretico:
perché ho una moglie e dormo insieme a lei, ho dei figli, mangio carne, dico menzogne e giuro,
e sono un buon cristiano. Quindi non credete una sola parola di quanti dicono che non credo in
Dio. Potranno rimproverarlo a voi come lo rimproverano a me, perché questi maledetti
vogliono sopprimere la gente onesta e togliere la città al suo signore (1)». Simili dichiarazioni
sovversive ovviamente attirarono sul Tisseyre i sospetti degli inquisitori, che lo fecero arrestare
e lo condannarono al rogo, malgrado egli insistesse a dichiararsi buon cristiano e buon
cattolico. Quando il giudice Durando di Saint-Bars decise di far eseguire la sentenza ci fu una
sollevazione popolare, e la folla protestò così rumorosamente contro i frati e contro Durando
che si dovette ricondurre il condannato in prigione. La collera degli abitanti di Tolosa, tuttavia,
non si placò: essi pretendevano la liberazione del Tisseyre e volevano distruggere il convento
dei domenicani, che accusavano di eresia gente onesta e sposata.
E' probabile, in effetti, che il Tisseyre non fosse propriamente eretico e che il suo
comportamento fosse dettato da un'indignazione del tutto disinteressata di fronte agli eccessi
delle procedure inquisitoriali. Questo patriota, che si disperava al vedere che «questi maledetti»
tentavano di togliere la città al suo signore, indubbiamente simpatizzava con gli eretici per odio
verso la Chiesa; e lo stesso faceva buona parte del popolo. Ma il fatto significativo nella storia
di questo martire della libertà è che, incontrati in prigione molti 'perfetti' appena catturati da G.
Denense, balivo di Lavaur, egli subito si convertì alla loro fede, si fece dare il "consolamentum"
e, malgrado le suppliche del vescovo, confessò a testa alta la sua adesione alla Chiesa catara e il
suo desiderio di condividere la sorte dei 'perfetti': fu bruciato insieme a loro. «Tutti quanti fino
ad allora l'avevano sostenuto - scrive Guglielmo Pelhisson - confusi, lo condannarono e lo
maledissero (2)»: il che sembra provare che in precedenza non lo si considerava un eretico.
Se i protettori del Tisseyre restarono «confusi», gli inquisitori dovettero esserlo altrettanto: la
volontà di martirio di un Giovanni Tisseyre costituiva un capo d'accusa contro di loro non meno
grave dell'esecuzione di un uomo della cui eresia fosse lecito dubitare. Se non vi furono altri
Tolosani disposti a seguire l'esempio del Tisseyre, il suo comportamento dovette rinsaldare
nella fede catara molti simpatizzanti tiepidi o esitanti, perché quell'uomo, che notoriamente non
era cataro, aveva abbracciato tale religione quando sapeva che la conversione l'avrebbe
condotto a una morte certa. Ed egli doveva essere popolare non solo fra gli eretici, ma anche fra
quei cattolici devoti al loro conte, che condannavano non la dottrina, ma la politica della
Chiesa.
Per due anni Guglielmo Arnaldo e Pietro Cellani fecero regnare a Tolosa e nella contea un
vero e proprio clima di terrore. Per paura di essere inquisita, la gente veniva ad autoaccusarsi in
massa; i domenicani non erano in grado di interrogare tutti e dovettero farsi affiancare da alcuni
Frati Minori (francescani) e dai curati della città. Ciò accadeva in genere dopo una predica
pubblica, durante la quale uno degli inquisitori assegnava un periodo di grazia - da otto a
quindici giorni - a quanti venissero spontaneamente a confessare le loro colpe. Chi non si
presentava, dopo il termine stabilito veniva citato in giudizio, arrestato e imprigionato dai
domenicani, aiutati dal vicario incaricato di amministrare la giustizia. Nella maggior parte dei
casi le deposizioni riguardavano episodi lontani nel tempo, ma è evidente che solo le persone in
grado di fare arrestare dei 'perfetti' o di compromettere seriamente dei credenti catari di un certo
livello beneficiavano dell'indulgenza plenaria dei giudici.
Molte delle persone che si presentavano si videro imporre penitenze canoniche - portare la
croce, pagare ammende e compiere pellegrinaggi; in questo modo evitavano la prigione, ma
restavano sempre sotto la minaccia della decisione dell'inquisitore, che poteva convocarli di
nuovo e condannarli; infatti, salvo ovviamente il caso della condanna a morte, il giudizio
dell'Inquisizione non era mai definitivo.
Un'inquisizione generale, con confessioni spontanee in massa e arresti, si svolse a Tolosa
dopo il venerdì santo del 1235. Un uomo (G. Doumenge), che non si era presentato, fu catturato
e minacciato di morte, e ottenne la libertà solo guidando di persona l'abate di Saint-Sernin e
l'amministratore di giustizia a Cassès, dove si trovavano dieci 'perfetti' di cui conosceva il
nascondiglio: tre di questi riuscirono a scappare, gli altri vennero presi e condannati al rogo.
Pietro Cellani e Guglielmo Arnaldo andarono insieme nel Quercy, dove fecero processi
postumi a Cahors, esumando e bruciando un gran numero di cadaveri. L'amministrazione locale
di Moissac doveva essere molto cattolica, perché qui gli inquisitori poterono incriminare di
eresia e bruciare duecentodieci persone. Il terrore che questo rogo mostruoso provocò nel paese
fu tale che alcuni religiosi di Belleperche nascosero, vestendolo da monaco, uno degli accusati,
che era riuscito a scappare. Del resto, in vari casi - e certamente non li conosciamo tutti - alcuni
monasteri diedero asilo a degli eretici; l'intransigenza dei domenicani, infatti, non era approvata
dagli altri ordini religiosi. Le continue proteste del conte costrinsero il papa a tenere per qualche
tempo lontani da Tolosa i due inquisitori, che perlustrarono il Quercy; e se, a Moissac, il
successo fu completo (un rogo di duecentodieci persone è un fatto unico anche nella storia di
quegli anni), da Cahors vennero indirizzate al papa molte proteste, nelle quali si denunciava
l'arbitrarietà delle procedure dei nuovi giudici. Per calmare gli animi il papa affiancò ai due
domenicani un francescano, frate Stefano di Saint-Thibéry; ma non cambiò nulla. Dopo la
spedizione nel Quercy, Pietro Cellani e Guglielmo Arnaldo rientrarono a Tolosa, dove
l'opposizione da sconfiggere era più forte che altrove, grazie alla presenza del conte e al
notevole potere dei consoli.
Il 4 agosto 1235, giorno della festa di san Domenico - prima occorrenza di questa festività,
poiché Domenico era stato canonizzato solo qualche mese prima - si svolsero in tutte le chiese
di Tolosa, specie in quelle dei domenicani, messe solenni, celebrate con una pompa
commisurata alla gloria del nuovo santo. Quel giorno venne segnato da un episodio tragico, che
i domenicani non mancarono di attribuire ai meriti del loro santo fondatore. Nel momento in cui
il vescovo Raimondo di Fauga, dopo la messa, si lavava le mani per entrare nel refettorio, gli fu
annunciato che una gran dama aveva ricevuto il "consolamentum" in una casa vicina, in Rue de
l'Olme sec. Indignato per una simile provocazione, il vescovo, accompagnato dal priore del
convento e da molti monaci, andò all'indirizzo indicato; la dama era la suocera di Peytavi
Borsier, notorio credente cataro ed elemento di collegamento fra gli eretici.
La vecchia signora, gravemente malata, forse già moribonda, probabilmente non vedeva
bene, o non capì che cosa stesse accadendo - e in ogni caso fu vittima di un sinistro malinteso:
quando le fu detto che il signor vescovo era venuto a trovarla, ella credette trattarsi del vescovo
cataro. Raimondo di Fauga, del resto, non fece nulla per chiarire la situazione, anzi, la lasciò
nell'errore con frasi a doppio senso; e interrogando la moribonda sulla sua fede, riuscì a ricavare
da lei una completa confessione della dottrina eretica. Spinse la sua perfidia fino a incoraggiarla
nel perseverare nella sua fede, perché - disse - «per paura della morte non dovete professarne
una diversa da quella che professate fermamente e di tutto cuore». Poiché la vecchia protestava
la sua fede, dicendo che non avrebbe rinunciato a essa per quanto le restava da vivere, il
vescovo le svelò la sua vera identità, la dichiarò eretica e la scongiurò di convertirsi alla fede
cattolica. La morente, senza dubbio inorridita, ma per niente intimidita, «perseverò sempre più
nella sua ostinazione eretica». La scena ebbe numerosi testimoni, fra i quali colui che ce la
racconta, Guglielmo Pelhisson. Convintosi dell'irrimediabile resistenza della donna, il vescovo
fece chiamare l'amministratore di giustizia; e dopo un giudizio sommario la vecchia, incapace
di camminare, fu portata nel letto fino al Pré-du-Comte, dove fu deposta su di un rogo, subito
acceso. «Dopo di che - dice Guglielmo Pelhisson - il vescovo, i religiosi e il loro seguito
tornarono al refettorio, per mangiare con gioia quanto era stato loro preparato, rendendo grazie
a Dio e a san Domenico (3)».
Questo racconto, che potrebbe apparire una calunnia inventata da nemici dell'Inquisizione,
non può essere messo in dubbio, poiché il domenicano Guglielmo Pelhisson non aveva alcun
interesse a inventarlo; è tuttavia così strano che sembra la storia di un folle. La durezza dei
costumi del tempo non è sufficiente a spiegarlo, e del resto il suo protagonista principale è un
vescovo, non un cavaliere di ventura; nemmeno il fanatismo spiega l'accanimento di un'intera
assemblea di religiosi contro una vecchia impotente che, per dannata che fosse, avrebbe potuto
essere lasciata morire in pace, e bruciata dopo la morte. Quel che sorprende ancor di più è la
commedia inscenata da Raimondo di Fauga, alla presenza del priore e di un gran numero di
domenicani, tutti volontariamente o involontariamente complici; una commedia del tutto
indegna della dignità episcopale, che abbassava un vescovo al livello di un delatore. E tuttavia
il narratore si complimenta con il vescovo per la sua abilità, e certo non mente quando parla
della «gioia» dei religiosi che tornano in convento per continuare un pranzo tanto
provvidenzialmente interrotto. Un comportamento simile fa pensare a quello di una qualche
confraternita militante, a un qualche Ku-Klux-Klan legale, ma braccato, perseguitato, deciso a
vincere con qualsiasi mezzo; e almeno parte dei domenicani della Linguadoca doveva allora
assomigliare a una confraternita di questo genere. Proprio per questo il compito di gestire
l'Inquisizione era stato affidato a loro e non ad altri, proprio per questo le proteste, la
sistematica ostilità del conte e dei consoli riguardavano innanzitutto i domenicani.
L'esecuzione della suocera di Peytavi Borsier provocò a Tolosa un terrore superiore alla
stessa indignazione. Fu seguita da una predica del priore dei domenicani, Pons di Saint-Gilles,
che paragonò il rogo che bruciò i resti della povera vecchia al fuoco che il profeta Elia fece
scendere dal cielo per confondere i sacerdoti di Baal (4), e lanciò solennemente la sfida agli
eretici e ai loro protettori; infine scongiurò i cattolici «di mettere da parte ogni timore e di
rendere testimonianza alla verità». Nella settimana successiva folle di 'cattolici' vennero
effettivamente a rendere testimonianza alla verità, a pentirsi delle loro colpe passate o a
discolparsi denunciando dei sospetti. «Fra queste folle molte persone abiurarono l'eresia, altre
confessarono di esservi ricadute e ritornarono all'unità della Chiesa; altre infine denunciarono
alcuni eretici e promisero di farlo sempre, in tempo utile (5)». Ben poco incline all'ottimismo,
pur lodando Dio per l'efficacia delle ricerche degli inquisitori, lo storico aggiunge: «Così
iniziate, queste ricerche si protrarranno sino alla fine del mondo (6)».
Tuttavia le esumazioni e le condanne postume di eretici, sempre più frequenti, continuavano
a provocare disordini in città, mentre i consoli e gli ufficiali del conte di Tolosa si servivano dei
loro poteri per favorire l'evasione di molti condannati alla prigione perpetua o al rogo. Per
mettere fine a quest'opposizione quasi aperta da parte delle autorità civili, gli inquisitori
decisero di citare in giudizio come eretici parecchi notabili della città. Si trattava di noti
credenti catari, o addirittura di ecclesiastici accusati di favorire l'eresia; tre di loro - Bernardo
Séguier, Maurand e Raimondo Ruggero - erano consoli. Essi si rifiutarono di comparire davanti
ai giudici, e chiesero a Guglielmo Arnaldo di sospendere immediatamente tutti i processi di
Inquisizione, oppure di lasciare la città. Poiché Guglielmo non tenne conto di
quest'avvertimento, i consoli si recarono con una scorta armata al convento dei domenicani e gli
ordinarono di lasciare il territorio della contea.
L'inquisitore andò allora a Carcassonne, nel territorio del re di Francia, da dove lanciò una
sentenza di scomunica contro i consoli (5 novembre 1235).
I domenicani, tuttavia, per non dare l'impressione di cedere alle minacce, decisero di citare
in giudizio le persone incriminate malgrado la dichiarata difesa dei consoli, che avevano
minacciato di morte chiunque osasse consegnare gli atti di citazione ai destinatari. Il priore
designò quattro frati per questa missione, che accettarono la scelta come una promessa di
martirio: fra loro si trovava proprio Guglielmo Pelhisson. I loro avversari, meno spietati di
quanto questi coraggiosi frati immaginassero, non attentarono alla loro vita; ma, in casa di
Maurand il Vecchio, essi vennero picchiati di santa ragione e trascinati per i capelli (7).
L'indomani i consoli si presentarono davanti al convento domenicano con i loro sergenti
armati e accompagnati da una folla di cittadini; ingiunsero ai religiosi di lasciare la città e, di
fronte al loro rifiuto, li fecero prendere e gettare in strada.
I domenicani uscirono di città cantando il Credo, il "Te Deum" e il "Salve Regina". Subito
vennero costretti a disperdersi, perché i consoli avevano vietato ai cittadini di provvedere alla
loro sussistenza. Il priore si diresse a Roma, per informare Gregorio Nono dell'ingiuria subita
dai domenicani, con l'assenso e persino dietro ordine del conte Raimondo Settimo. Anche
Raimondo di Fauga venne a sua volta espulso da Tolosa.
Certo Raimondo Settimo non poteva sperare che il papa approvasse quest'atto di rivolta;
tuttavia, gli abusi dei quali i domenicani si erano resi colpevoli a Tolosa erano così palesi che
egli pensava di potersi giustificare; in effetti, pur affermando la sua fedeltà alla Chiesa, egli
insistette sempre nel supplicare il papa di non imporgli la presenza dei domenicani, o almeno di
non affidare più a loro l'esercizio dell'Inquisizione.
Informato dell'accaduto, il papa inviò a Raimondo Settimo una lettera molto severa:
dichiarò in particolare di avere appreso che i consoli avevano impedito agli abitanti di Tolosa di
vendere o di regalare alcunché al vescovo e al suo clero, che avevano preso la casa del vescovo,
ferito alcuni canonici e alcuni chierici, impedito al vescovo e ai sacerdoti di predicare in
pubblico; che il conte rifiutava di pagare il salario ai professori della nuova università, cosa che
aveva condotto alla sospensione dei corsi; che il conte e i consoli avevano diffidato chiunque
dal presentarsi davanti agli inquisitori, sotto pena di punizione corporale e di confisca dei beni.
Dopo aver enumerato questi e molti altri fatti - fatti infinitamente più gravi di quelli mai
rimproverati a Raimondo Sesto, morto scomunicato - il papa minacciò il conte di lanciargli una
nuova scomunica se avesse insistito in una simile politica di ostilità verso la Chiesa (8).
Raimondo Settimo teneva a vivere in pace con la Chiesa, come aveva già dimostrato
arrestando personalmente Pagano di La Bessède e acconsentendo al processo dei Niort. Il suo
comportamento era quello di un capo di stato che si vede costretto a soddisfare, sia pur in
misura modesta, le rivendicazioni dei suoi sudditi; temendo sia la guerra con la Francia sia la
scomunica, non favoriva l'eresia, cercava solo di evitare disordini e gravi sommosse.
Indubbiamente riuscì in parte a convincere il papa e il re; perché il re, o meglio sua madre,
scrisse al papa informandolo delle lamentele del conte contro gli inquisitori, e il 3 febbraio
1236 il papa scrisse all'arcivescovo di Vienne, legato per la provincia, dandogli istruzioni che
restringevano i poteri degli inquisitori, i quali finirono per riprendere le loro funzioni «con il
consenso e per volontà del conte di Tolosa». Ma se il papa aveva raccomandato loro una certa
malleabilità, non sembra che essi ne abbiano tenuto conto, né che i loro poteri siano stati
realmente limitati.
Quando gli inquisitori rientrarono a Tolosa, i processi ripresero con maggior vigore. Un gran
numero di persone venne denunciato dal 'perfetto' Raimondo Gros, venuto a convertirsi
spontaneamente. Le sue rivelazioni provocarono molti processi postumi: molti cadaveri di
persone che erano appartenute alla nobiltà e all'alta borghesia, vennero esumati e abbandonati
alle fiamme. Nel settembre 1237 ci fu una vera e propria spedizione nei cimiteri. Le tombe di
una ventina di persone, fra le più rispettabili della città, furono violate: le ossa o i cadaveri in
decomposizione furono trascinati per le strade su dei graticci, mentre il pubblico banditore
gridava: «Qui atal fara, atal pendra» (Chi farà così, così penzolerà).
Quanto ai vivi, Guglielmo Pelhisson ne cita circa una decina mandati al rogo, ma le
condanne a morte erano più facili da pronunciare che da eseguire; molti condannati
appartenevano a famiglie nobili o consolari, e a quanto pare gli inquisitori non avevano modo
di catturarli, perché il vicario incaricato di amministrare la giustizia e i consoli si rifiutavano di
arrestarli, ciò che valse loro una nuova scomunica. Protetti dalle autorità, i più noti eretici di
Tolosa lasciavano il paese per andare a mettersi al riparo in nascondigli ignoti agli inquisitori,
oppure nel castello di Montségur, che era un rifugio pressoché inespugnabile divenuto il centro
ufficiale della resistenza catara.
Proprio come a Tolosa, anche nelle terre sottomesse al re di Francia l'Inquisizione
incontrava un'opposizione ora sorda ora violenta, ma otteneva nel contempo indiscutibili
successi grazie alla paura che ispirava. All'inizio, nel 1233, ebbe due martiri: due inquisitori
recatisi a Cordes vennero assassinati durante una rivolta. In seguito gli inquisitori si
avventurarono nelle campagne solo con una scorta armata; ma ad Albi, nel 1234, l'inquisitore
Arnaldo Cathala, deciso a disseppellire personalmente una donna morta professando l'eresia -
l'amministratore di giustizia si era rifiutato di farlo - fu trascinato fuori dal cimitero, picchiato e
minacciato di morte dalla folla.
A Narbonne, città scampata alle disgrazie della crociata e ritenuta cattolica, l'arrivo degli
inquisitori provocò disordini; pare che gli eretici, più che in città, fossero numerosi nel borgo,
che comunque era ostile ai domenicani e all'arcivescovo. La sommossa qui assunse una
caratterizzazione più politica, perché i consoli del borgo accusarono l'arcivescovo e gli
inquisitori di voler ridurre le loro franchigie municipali. Così, sul modello delle città italiane,
Narbonne si divise in due fazioni, la città e il borgo: la prima si schierò con l'arcivescovo e con
l'inquisitore frate Ferriero, mentre il secondo pretendeva il loro allontanamento. A causa della
loro impopolarità i Frati Predicatori, qui come dappertutto, patirono non poco per questi
contrasti interni: infatti, nel 1234, il loro convento fu invaso dai cittadini in rivolta,
saccheggiato e spogliato. Con audacia ancora maggiore, i consoli del borgo chiamarono in loro
aiuto il conte di Tolosa, che venne di persona a ristabilire la pace (benché Narbonne
appartenesse ormai ai territori del re di Francia): impose nel borgo un balivo dipendente da lui e
vi insediò Oliviero di Termes e Guiraud di Niort, potenti signori eretici e nemici dichiarati
dell'arcivescovo. Il contrasto si concluse con la vittoria della città, grazie all'appoggio
dell'autorità reale rappresentata dal siniscalco G. di Friscamps. Per difendersi dalla permanente
ostilità della popolazione del borgo i consoli della città dovettero a lungo supplicare frate
Ferriero di tornare a Narbonne per esercitarvi le sue funzioni di inquisitore.
Pur lavorando, secondo le parole del conte, «più per consolidare nell'errore che per
ricondurre alla verità», in cinque anni gli inquisitori riuscirono a creare in Linguadoca un tale
clima di terrore da ottenere un gran numero di spontanee sottomissioni, in genere di persone
che si erano limitate a manifestare le loro simpatie per l'eresia. A titolo di esempio si può
constatare che nel 1241 Pietro Cellani, durante la settimana precedente l'Ascensione, impose a
Montauban duecentoquarantatré penitenze canoniche; la settimana dopo centodieci penitenze di
vario genere a Moissac; la settimana d'Avvento duecentoventi penitenze a Gourdon e ottanta a
Moncuq. Non tutti i viaggi degli inquisitori erano tanto fruttuosi: molti dei registri e dei
rendiconti dei processi non sono giunti sino a noi. Le cifre riscontrabili nei documenti esistenti
rendono conto solo di parte della loro attività, anche se bisogna riconoscere che gli inquisitori
non praticavano la giustizia sommaria resa possibile dalla crociata a Lavaur e a Minerve e, al
contrario, tenevano a registrare tutti i processi. Erano tanto più interessati a farlo, in quanto gli
interrogatori miravano a ottenere dei nomi, e le minute dei processi avevano il valore di corpi di
reato contro migliaia di sospetti. Custoditi come oggetti preziosi, i registri erano causa di
inquietudine per gran parte della popolazione, perché nessuno poteva ritenersi sicuro di non
essere stato denunciato almeno una volta di aver favorito o sostenuto gli eretici: bastava avere
salutato, vent'anni prima, per la strada, un tale o un talaltro 'perfetto', aver partecipato a un
banchetto cui erano presenti degli eretici, e così via; bastava talvolta una denuncia calunniosa
ma impossibile da confutare, perché chi mai poteva provare di non essere stato visto da una
persona di cui gli si taceva il nome, in un luogo e in un momento che ci si guardava bene dal
precisare, in compagnia di un 'perfetto'? L'onniscienza degli inquisitori sembra essere stata una
delle cause principali del terrore che essi ispiravano. Mentre i vescovi, per decine d'anni, si
erano dimostrati impotenti a lottare contro nemici che, nella stragrande maggioranza, si
dicevano cattolici e dichiaravano di conoscere solo cattolici, gli inquisitori, in modo quasi
miracoloso, riuscivano a condurre a sé migliaia e migliaia di persone che dichiaravano di essere
o di essere state eretiche, e raccontavano di aver frequentato eretici. Se taluni vescovi si erano
mostrati negligenti nella repressione dell'eresia, quanti nel 1229 governavano le diocesi della
Linguadoca non potevano minimamente essere accusati di scarso impegno, e non mancavano di
subordinati e di uomini di fiducia cui affidare il compito di inquisire la popolazione. Da sempre
la giustizia episcopale era molto dura con gli eretici; ma la giustizia inquisitoriale non era più
una vera giustizia, e proprio questo la rendeva tanto temibile.
Essa demoralizzava e sconcertava, creando nel paese un'atmosfera di angoscia permanente; e
se i 'perfetti' e i credenti più fermi sapevano che cosa rischiavano e perché si esponevano al
pericolo, la maggior parte della gente, fosse pure eretica, voleva sopravvivere ed era condotta
all'esasperazione e alla pazzia dall'eterna minaccia di persecuzioni arbitrarie e imprevedibili. Un
popolo può combattere per la libertà, ma un uomo che di continuo si chiede se il vicino di casa
l'ha denunciato e se non farebbe meglio ad autodenunciarsi piuttosto che attendere una
convocazione, è in partenza disarmato; per battersi ha bisogno di essere sostenuto dal vicino di
casa e dalla gente del suo quartiere. Ci furono sommosse popolari; ma una sommossa non può
durare a lungo e, se non ha successo, è seguita da un terrore ancor più grande. L'autorità dei
consoli e del conte era riuscita a scacciare i domenicani da Tolosa, la pressione esterna
esercitata dal re e dal papa ve li aveva riportati, più potenti che mai. Il papa non era in grado, e
forse non intendeva, frenare l'ardore degli inquisitori: strumento di terrore, l'Inquisizione
domenicana non poteva rinunciare alla sua funzione primordiale, e ancora per secoli i papi
avrebbero continuato a sostenere e a difendere i domenicani contro ogni attacco del popolo e
delle autorità civili.
2. LE PROCEDURE DELL'INQUISIZIONE.
Prima di analizzare quale sia stata la reazione della Chiesa catara di fronte a questo nuovo
pericolo, bisogna tentare di capire in che cosa esattamente consistessero le procedure
inquisitoriali seguite in Linguadoca e quali siano state le loro ripercussioni sulla vita del paese.
L'idea di una repressione metodica dell'eresia, affidata a un organismo speciale, implicava,
nelle intenzioni di Gregorio Nono, un rinnovamento delle forme tradizionali fino ad allora
seguite nell'esercizio di questa repressione. Gli eretici lottavano contro la giustizia ecclesiastica
da quasi un secolo, e la lunga abitudine li aveva resi abili nel tenere in scacco l'avversario. I
nuovi procedimenti, sostenuti e incoraggiati dal papa, uscivano quindi dalla legalità, o da
quanto fino ad allora veniva comunemente riconosciuto come legale. Il codice di Giustiniano, a
quell'epoca in vigore per la procedura penale, prevedeva che nei procedimenti giudiziari si
seguissero una serie di misure tali da garantire i diritti dell'accusato. Ogni azione giudiziaria si
fondava o sull'intervento di un accusatore, incaricato di fornire le prove del delitto, oppure su di
una denuncia fatta a un giudice e da comprovare tramite testimoni, o ancora sulla pubblica e
manifesta notorietà del reato; solo in questo caso il giudice poteva procedere d'ufficio, senza
accuse o denunce da parte di privati cittadini, purché la notorietà del reato fosse comprovata da
un numero sufficientemente ampio di testimoni.
Per quanto riguarda l'eresia, i casi di denuncia, e a maggior ragione di accusa, erano
abbastanza rari e, dopo il trattato di Parigi, anche i casi di pubblica notorietà cominciarono a
divenire rari; abbiamo visto come durante il processo ai signori di Niort, che pure erano eretici
dichiarati, non mancarono testimoni che sostennero la loro devozione alla fede cattolica. Ora, se
dei potenti signori, che proteggevano apertamente l'eresia e militavano per la sua causa,
riuscivano a passare per cattolici anche in alcuni ambienti ecclesiastici, la massa dei semplici
credenti doveva essere più abile ancora nel dissimulare i suoi veri sentimenti; molti potevano
praticare in pace la loro religione, se non l'ostentavano davanti a persone sospette di
simpatizzare per il clero. In un paese che aveva appena scontato vent'anni di guerra e di
oppressione la forza di questo spirito collettivo di dissimulazione doveva essere grande; una
dissimulazione che, non essendo ritenuta ipocrisia, bensì una legittima reazione difensiva,
poteva spingersi molto lontano: così, a Tolosa, A. Peyre, del capitolo di Saint-Sernin,
professava l'eresia e ciononostante venne sepolto nel chiostro della chiesa.
In fin dei conti erano ritenuti eretici notori solo i 'perfetti' conosciuti in quanto tali, che
continuavano a esercitare il loro ministero. Ma questi erano difficili da raggiungere; erano
centinaia, e i processi degli anni 1229-33 segnalano solo qualche sporadico caso di cattura, più
o meno casuale. Per diventare efficace, la procedura giudiziaria doveva cambiare aspetto.
Questo significava, però, allontanarsi dalla lettera della legge che voleva che un sospetto, per
essere processato, fosse denunciato da una persona imparziale e di buona reputazione, e che
l'imputato potesse essere messo a confronto con i testimoni che avevano deposto contro di lui.
Erano esclusi dal diritto di testimoniare contro un imputato: tutti quanti potessero essere
considerati suoi 'nemici capitali' - e la definizione abbracciava di fatto tutti coloro che, in un
qualsiasi periodo della loro esistenza, avessero recato pregiudizio all'imputato o l'avessero
ingiuriato; i suoi familiari, i suoi servitori e, in genere, le persone che in una qualsiasi forma
dipendessero da lui; infine, gli scomunicati, gli eretici, le persone marchiate d'infamia.
Per crimini particolarmente gravi, detti 'crimini eccezionali', come l'alto tradimento, la lesa
maestà, il sacrilegio e l'eresia, i consanguinei e i servitori potevano essere ascoltati come
testimoni. L'Inquisizione estese questo diritto a tutte le altre categorie escluse, salvo i 'nemici
capitali'. Abbiamo visto che, per avere la testimonianza di Guglielmo di Solier contro i suoi
correligionari, il cardinale di Sant'Angelo aveva dovuto riconciliare alla Chiesa e riabilitare
questo 'perfetto'. Gli inquisitori soppressero questa formalità (che li avrebbe costretti a
«riconciliare» troppe persone che non intendevano affatto trattare come dei buoni cattolici): le
testimonianze degli eretici vennero dichiarate valide se tendevano ad accusare altri eretici,
senza valore solo nel caso in cui fossero favorevoli all'imputato. Allo stesso modo si teneva
conto delle testimonianze di persone marchiate d'infamia - ladri, truffatori, prostitute; quanto ai
'nemici capitali', dato che l'imputato ignorava l'identità dei testimoni e che il giudice poteva
ignorare i rapporti fra il primo e i secondi, la restrizione non aveva quasi più alcun senso.
Inoltre gli accusati non potevano avvalersi dell'aiuto di avvocati (benché in via di principio
ne avessero diritto): il solo fatto di voler difendere un eretico - o un uomo presunto tale -
rendeva l'avvocato stesso sospetto di eresia; i suoi argomenti non venivano presi in
considerazione ed egli si esponeva a gravi fastidi; pochi avvocati avevano il coraggio di farsi
carico di un compito tanto ingrato quanto inutile.
Sembra che la grande invenzione dell'Inquisizione domenicana (già praticata entro certi
limiti da Romano di Sant'Angelo in occasione del concilio di Tolosa, ma senza erigerla a
sistema) sia stata l'audizione dei testimoni a porte chiuse. Questa fu la prima e principale causa
del terrore ispirato dagli inquisitori e una delle essenziali ragioni del loro successo finale.
Creando un clima di sfiducia e di sospetto nelle comunità più unite, questa procedura fu un
potente fattore di disgregazione morale e finì per rendere impossibile una resistenza
organizzata: la resistenza si manifestò solo dove i poteri pubblici ne assunsero la responsabilità
diretta.
Abbiamo già visto l'attività dei consoli di Tolosa e di quelli del borgo di Narbonne; abbiamo
visto i balivi dei signori di Niort impedire l'accesso alle loro città alle commissioni incaricate di
ricercare gli eretici; nel 1240 anche i balivi del conte di Tolosa fecero lo stesso a Montauriol e a
Caraman, ricorrendo alle minacce o alla forza armata, contro la commissione di frate Ferriero.
Episodi simili, certamente più frequenti di quanto appaia dai documenti, erano comunque
eccezionali: gli ufficiali e i funzionari che si rendevano colpevoli di questi atti di ribellione
contro la Chiesa rischiavano le pene più gravi e potevano agire solo su ordine formale dei loro
signori; lo stesso conte, sempre incalzato e minacciato, troppo debole per permettersi un
atteggiamento di aperta sfida, interveniva solo quando l'esecuzione dei suoi ordini, a rigore,
poteva passare per un'iniziativa spontanea dei poteri locali.
Gli inquisitori, invece, non avevano paura di nulla. Se parecchi pagarono con la vita il loro
eccesso di zelo, la loro decisione e la loro arrogante sicurezza incutevano il terrore in una
popolazione già abituata a vedere nella Chiesa un grave pericolo: il clero aveva provocato la
crociata e aveva vinto; per poco numeroso che fosse, aveva alle spalle la formidabile potenza di
una Roma sempre pronta ad attirare sul paese nuove calamità.
Quando un inquisitore, accompagnato da notai, cancellieri, carcerieri e talvolta da qualche
soldato, si presentava in una città o in un borgo, si installava nel palazzo episcopale, nel
convento domenicano (se ce n'era uno) o in un qualsiasi altro convento del luogo e pronunciava
una pubblica predica, condannando l'eresia e annunciando un 'tempo di grazia', in genere
limitato a una settimana. Chi non si presentava spontaneamente durante il 'tempo di grazia'
rischiava, scaduti i termini, di essere perseguito d'ufficio; quanti si presentavano
spontaneamente non rischiavano pene gravi come la confisca dei beni, la prigione o la pena di
morte; se anche erano molto compromessi venivano sottoposti solo a penitenze canoniche.
Così, anche nelle città in cui l'eresia era molto diffusa, un certo numero di credenti - i più
pavidi, o quanti sapevano di avere dei nemici - accorreva per autoaccusarsi, confessando
talvolta colpe immaginarie o insignificanti, forse nella speranza di dissimularne di più gravi (9).
I giudici, beninteso, non si accontentavano certo di simili confessioni: per provare la sua
buona fede il peccatore pentito doveva denunciare quelle persone che sapeva essere sospette di
eresia. Gli si prometteva che le sue rivelazioni sarebbero rimaste segrete. Ovviamente egli
cominciava con l'accusare i suoi nemici o gente che nemmeno conosceva, o che sapeva poco
compromessa. Tuttavia, la penitenza che gli veniva imposta non era proporzionata alla gravità
della colpa, ma alla sincerità del suo pentimento; sincerità che si misurava in base al numero, e
specialmente all'importanza, degli eretici che denunciava.
Secondo ogni verosimiglianza, quanti venivano ad autoaccusarsi in questo modo non erano
degli eroi; le penitenze canoniche, sia pure senza la privazione della libertà, potevano essere
dure - le esamineremo più avanti - e il segreto promesso garantiva contro ogni possibile
rappresaglia. La viltà di molti spontanei convertiti fu il grande, principale alleato
dell'Inquisizione. Infatti bastava la denuncia di due testimoni per autorizzare un procedimento
d'ufficio contro un presunto eretico.
Molte persone vennero denunciate in questo modo, se già non lo erano a opera delle autorità
locali; durante il 'tempo di grazia' tali persone avevano ancora la possibilità di presentarsi di
loro iniziativa, ciò che molte facevano, sapendosi troppo compromesse. Quanti non lo facevano
erano passibili di azione giudiziaria. Questa iniziava con una citazione scritta, consegnata
personalmente, dopo aver ricevuto la quale il sospetto doveva presentarsi davanti al tribunale.
Qui veniva interrogato senza testimoni, e senza che gli venisse comunicata l'esatta natura delle
imputazioni a suo carico. In condizioni simili, spesso l'imputato confessava più di quanto gli
venisse richiesto, credendo i giudici meglio informati di quanto non fossero. Se i fatti
contestatigli erano gravi, veniva messo in prigione in attesa del giudizio. Ciò accadeva quasi
sempre se egli si rifiutava di confessare le sue colpe; e il caso era tanto più frequente in quanto
la confessione implicava l'obbligo di compromettere dei correligionari, e gli uomini onesti,
anche quando non erano veramente eretici, si rifiutavano di farlo. Se non veniva imprigionato,
all'imputato veniva concessa una sorta di libertà vigilata, dietro pagamento di una forte
cauzione e senza il diritto di allontanarsi dalla città. Ma una volta in prigione, egli cadeva
interamente nelle mani dei giudici, e non poteva contare su alcuna garanzia né su alcun
soccorso esterno.
L'inquisitore era, al contempo, istruttore del processo, procuratore e giudice. Gli altri
religiosi che lo assistevano potevano fungere solo da testimoni, così come il notaio che
registrava le deposizioni. Quindi non c'era né delibera né consiglio: solo l'inquisitore, di sua
volontà, decideva la colpevolezza o meno dell'imputato e l'entità della pena che meritava.
Poiché l'inquisitore, da solo, non bastava a svolgere l'intero lavoro, i suoi collaboratori, pur non
avendo alcun potere personale, erano incaricati di ottenere le confessioni. Quanti si rifiutavano
di confessare venivano sottoposti a interrogatori incalzanti, nel corso dei quali spesso si
tradivano; in caso contrario, venivano gettati in carcere, in condizioni così dure che, dopo un
periodo di detenzione più o meno lungo, anche i più ribelli erano costretti a cedere. Le segrete
nelle quali venivano reclusi questi sospetti eretici recalcitranti erano spesso così piccole che non
ci si stava né in piedi né sdraiati; ed erano prive di luce, come le prigioni di Carcassonne o del
Castello dei Tedeschi a Tolosa. Ai più irriducibili venivano messi i ferri alle mani e ai piedi e li
si torturava negando loro acqua e cibo. E' certo che solo pochi, pur di non parlare, accettavano
di subire un trattamento simile per mesi o addirittura per anni; per molti bastava la sola
minaccia.
Quando però si trovavano di fronte a imputati capaci di fornire utili informazioni, ma
abbastanza fermi da resistere alle minacce, non sempre gli inquisitori avevano il tempo di
lasciarli 'marcire' in carcere: in questi casi era permesso loro di ricorrere alla tortura,
procedimento ammesso dalla legge civile per scoprire i crimini più gravi, ma che, in via di
principio, la giustizia ecclesiastica doveva evitare. In realtà, anche la giustizia ecclesiastica
praticava la tortura, con la limitazione di non spingersi fino a causare la mutilazione o la morte
dell'imputato, o a spargerne il sangue; spargere il sangue, infatti, era per dei chierici una
violazione delle regole canoniche. Fin dai tempi più antichi, la Chiesa, per punire i colpevoli o
estorcere le confessioni, utilizzava la flagellazione tramite verghe o cinghie; sapientemente
impiegata, questa pratica poteva eguagliare le torture più crudeli. Del resto, la tortura fu
certamente impiegata dall'Inquisizione - per la quale divenne legale nel 1252 (10) - ben prima
di questa data, come già nell'undicesimo e dodicesimo secolo facevano i tribunali episcopali:
non c'è alcuna ragione di credere che giudici capaci di seminare tanto rapidamente il terrore in
un intero paese non si fossero serviti di uno strumento di costrizione già utilizzato dai tribunali
regolari.
Se l'accusato sottoposto a tortura acconsentiva a parlare, doveva ripetere la confessione al di
fuori della camera di tortura, dinnanzi a un cancelliere, dichiarando che questa confessione era
spontanea e non frutto della costrizione; se si rifiutava (conosciamo un solo caso del genere,
citato da Bernardo Gui nelle «sentenze dell'Inquisizione di Tolosa») veniva considerato ancor
più sospetto di prima e recidivo, e nuovamente sottoposto a tortura. Se ancora si rifiutava di
parlare, l'inquisitore era libero di sottoporlo allo stesso trattamento fin quando fosse necessario.
E' vero che nella maggior parte dei casi la carcerazione era giudicata una tortura sufficiente.
Ma sono stati registrati casi - molto rari - di 'perfetti' che, in prigione, tentarono di metter fine ai
loro giorni con lo sciopero della fame; ciò venne loro rimproverato come conferma delle loro
convinzioni eretiche e accreditò la leggenda della tolleranza dei catari verso il suicidio.
La confessione, che gli inquisitori cercavano di estorcere a ogni costo, non era strettamente
necessaria per giustificare la condanna, dal momento che, per provare che un uomo era eretico,
bastava che egli fosse stato denunciato come tale da due testimoni; in pratica, però, quasi
sempre gli inquisitori ottenevano la confessione degli incriminati prima di condannarli. Si deve
pensare che, al di là delle apparenze, non sia stato facile, almeno all'inizio, ottenere le
testimonianze. Quanti venivano a confessarsi accusavano prevalentemente dei morti, o delle
persone che sapevano al sicuro, il che spiega l'elevato numero di processi postumi o in
contumacia. Con l'andar degli anni le testimonianze si fecero sempre più numerose, mentre le
denunce, a valanga, esponevano ai sospetti degli inquisitori i vicini, i parenti, gli amici dei
presunti eretici; dai quali, a loro volta, si pretendevano nuovi nomi, nuove indicazioni,
rivelazioni sui rifugi degli eretici e così via. Ciononostante, la cattura degli eretici veri e propri -
i 'perfetti' - non fu mai facile: G. Doumenge, l'uomo che per salvarsi la vita nel 1234 aveva fatto
arrestare sette 'perfetti' a Cassès, fu assassinato nel suo letto poco tempo dopo; a Laurac, un
sergente che aveva fatto prigionieri sei 'perfetti' e la madre del cavaliere Raimondo Barthe
venne impiccato da quest'ultimo. Per il traditore la cattura dei 'perfetti' era pericolosa, perché
solo pochi iniziati ne conoscevano i rifugi. La semplice denuncia di nomi coinvolgeva per lo
più i semplici credenti poco attivi, la massa dei fedeli della Chiesa catara; e per loro la
situazione cominciava a diventare insostenibile.
Chi aveva il coraggio di affrontare ogni genere di prova conduceva vita clandestina, si
rifugiava in località imprendibili come Montségur o Quéribus, oppure in regioni come il
Lauraguais e la contea di Foix, dove l'eresia restava abbastanza forte da tenere testa alla Chiesa;
se veniva catturato diventava un martire. Le prigioni di Carcassonne, di Tolosa, di Albi erano
piene (a Carcassonne se ne dovettero costruire di nuove), poiché chi era condannato alla
reclusione in genere era condannato alla reclusione perpetua.
Diversamente da quanto accadeva prima del 1229, gli eretici 'rivestiti' non erano i soli a
rischiare la pena di morte; abbiamo visto l'indignazione del popolo di Tolosa che, in occasione
della prima condanna di Giovanni Tisseyre, aveva voluto impedire l'esecuzione di un uomo
sposato. Non si giustiziavano solo i 'perfetti', ma anche i credenti ostinati: ciò aumentava il
terrore ispirato dagli inquisitori, perché ormai ogni uomo dotato di un po' d'immaginazione
poteva ritenersi votato al rogo.
In realtà, i sospetti eretici in genere incorrevano solo nelle punizioni canoniche, che
comunque sconvolgevano gravemente la vita loro e dei loro familiari. Le punizioni erano le
seguenti: portare la 'croce dell'eresia', una penitenza inventata, o almeno applicata per la prima
volta, da san Domenico; fare un pellegrinaggio; compiere un'opera di carità, ad esempio
mantenere un povero per molti anni, magari per tutta la vita. Non si trattava di nulla di insolito,
bensì di penitenze comunemente impiegate dalla giustizia ecclesiastica; ma imposte in gran
quantità, spesso per colpe di modestissima entità, rischiavano di divenire un flagello.
Portare la croce, marchio d'infamia, toccava in teoria agli eretici 'rivestiti' convertitisi
spontaneamente (si veda il regolamento del concilio di Tolosa). Di fatto, i 'perfetti' raramente
beneficiavano di una punizione così indulgente, applicata semmai ai semplici credenti. Pare che
durante i primi anni dell'Inquisizione questa penitenza non sia stata molto comune: il fatto di
essere stati eretici non era infatti cosa di cui vergognarsi in un paese in cui l'eresia non ispirava
odio né disprezzo; e se questa punizione poco severa era il prezzo di una grave delazione
esponeva all'ostilità degli eretici quei convertiti che la Chiesa aveva interesse a proteggere e a
utilizzare come informatori. Più tardi, verso la fine del secolo, questa punizione sarebbe invece
divenuta molto temibile, in quanto rendeva quanti portavano la 'croce dell'eresia' dei veri
reprobi, osteggiati dai loro concittadini; così divenne più frequente.
I pellegrinaggi e le pene pecuniarie, invece, venivano imposti a quasi tutti i sospetti che si
fossero presentati spontaneamente in tribunale; presentavano il vantaggio di allontanare il
presunto eretico dal suo paese per un tempo più o meno lungo; ma si può immaginare quali
problemi comportassero per la sua famiglia e i suoi affari, senza contare il fatto che per i più
poveri questi viaggi obbligati comportavano spese insostenibili. Molti penitenti venivano inviati
solo a Puy o a Saint-Gilles; ma molti dovevano spingersi fino a Santiago de Compostela o a
Canterbury, a Parigi o a Roma; alcuni, ad esempio, furono costretti ad andare a Puy, a Saint-
Gilles, a Santiago de Compostela e a Canterbury, ciò che li obbligava ad attraversare i Pirenei e
la Catalogna, a tornare in Linguadoca, traversare la Francia, passare il mare e raggiungere
Canterbury: un pellegrinaggio simile, considerato anche il ritorno, durava dei mesi. Il penitente
portava con sé una lettera consegnatagli dal giudice, che doveva far vistare dalle autorità
religiose dei luoghi di pellegrinaggio. Altri pellegrini - specie gli uomini d'armi - venivano
mandati in Terra Santa o a Costantinopoli, dove dovevano mettersi a disposizione degli eserciti
crociati per un certo numero di anni: in generale due o tre, in qualche caso cinque.
Disperdendo in questo modo per le strade d'Europa e negli eserciti d'oltremare migliaia di
credenti catari, gli inquisitori si sbarazzavano di un certo numero di nemici potenziali; è facile
capire quale danno tutto ciò recasse a un paese già abbastanza impoverito e disorganizzato.
Questi forzati pellegrini dovevano ritenersi fortunati di essere stati lasciati liberi così a buon
mercato. Ma penitenze simili venivano comminate a gente colpevole, ad esempio, di aver
rivolto la parola a un eretico durante un viaggio in nave, oppure di aver venerato un eretico,
all'età di undici anni, per volontà dei genitori (fatti simili sono citati da Bernardo Gui, e quindi
sono più tardi; ma gli inquisitori all'inizio non trascurarono alcun dettaglio, per minimo che
fosse, per giustificare una penitenza; la maggior parte dei sospetti si vedeva rimproverare solo
di avere ascoltato degli eretici, o di aver partecipato a qualche loro riunione).
Un'intera popolazione - o almeno gran parte della popolazione di un paese - si sentiva quindi
braccata, spiata, incalzata da provvedimenti vessatori di ogni genere. La partecipazione ai
sacramenti e alla messa diveniva essa stessa un obbligo imposto da una polizia onnisciente,
sotto pena di procedimenti giudiziari la cui assoluta arbitrarietà era risaputa: la valutazione del
reato d'eresia era a totale discrezione dell'inquisitore, e un uomo sospettato di un peccatuccio
che si rifiutava di parlare veniva punito più severamente di un 'perfetto' che spontaneamente
denunciava i suoi confratelli. Non c'era, come nel codice civile o penale, un elenco delle pene
previste per una tale o una talaltra infrazione alla legge; c'erano solo promesse per i delatori.
Di qui l'estrema monotonia dei registri dell'Inquisizione che riportano gli interrogatori degli
eretici: si chiedeva loro dove, quando, da chi, con chi avevano incontrato degli eretici, e poco
altro. Comunque il "Manuale" di Bernardo Gui ci informa che non tutte le deposizioni degli
imputati erano ritenute degne di essere registrate; quindi tutto quanto essi poterono dire per
presentare in modo favorevole la loro religione o i loro capi fu probabilmente omesso dai
cancellieri. Del resto, il "Manuale dell'inquisitore" di Bernardo Gui ci fornisce il modello degli
interrogatori cui venivano sottoposti i catari: «... si chiederà all'imputato se abbia visto o
conosciuto in qualche luogo uno o più eretici, sapendoli o credendoli tali di nome o di
reputazione; dove li abbia visti, quante volte, con chi e quando; «inoltre, se abbia avuto qualche
relazione familiare con loro, quando e come e chi l'abbia combinata; «inoltre se abbia ricevuto
in casa sua uno o più eretici, e quali; chi glieli abbia condotti; quanto tempo siano rimasti; chi
abbia fatto loro visita; chi li abbia accompagnati via; dove siano andati; «inoltre se abbia
ascoltato la loro predicazione, e in che cosa consistesse; «inoltre se li abbia venerati, se abbia
visto altre persone venerarli o fare loro la riverenza alla maniera degli eretici; «inoltre se abbia
mangiato con loro del pane benedetto, e quale sia stato il modo di benedire questo pane;
«inoltre se abbia concluso con loro il patto detto "convenensa"; «inoltre se li abbia salutati o se
abbia visto altre persone salutarli al modo degli eretici; «inoltre se abbia assistito all'iniziazione
di uno di loro; come questa sia stata celebrata; quale fosse il nome dell'eretico o degli eretici
iniziati; chi fossero i presenti, quale fosse il luogo della casa ove giaceva il malato;... se
l'iniziato abbia lasciato qualcosa agli eretici, che cosa e quanto, e chi abbia ricevuto i doni; se
l'eretico iniziatore sia stato venerato; se l'iniziato sia morto di quella malattia e dove sia stato
seppellito; chi abbia condotto e riaccompagnato l'eretico o gli eretici; «inoltre se creda che le
persone iniziate alla fede eretica possano salvarsi...» Gli altri punti riguardano la conversione
personale dell'imputato e il suo passato, gli altri «credenti» da lui conosciuti, i suoi parenti e
così via (11). Le risposte e le rivelazioni dei credenti interrogati dai primi inquisitori dimostrano
che fin dall'inizio essi avevano praticato questo tipo di interrogatorio, senza cambiare metodo.
Sia che queste domande venissero poste a gente priva di coraggio, corsa davanti ai giudici
nel primo giorno del 'tempo di grazia' sia che venissero rivolte a dei disgraziati sfiniti da mesi di
prigionia e di torture, le risposte non variano molto. Nomi, date, luoghi. «... A Fanjeaux, al
"consolamentum" di Auger Isarn assistettero Bec di Fanjeaux, Guglielmo di La Ilhe, Gagliardo
di Feste, Arnaldo de Ovo, Giordano di Roquefort, Emerico di Sergent ("milites")... (deposizione
di Raimondo di Perella, 1243)»; «Atho Arnaldo di Castelverdun chiese il "consolamentum"
nella casa della sua parente Cavaers, a Mongradail, Ugo e Siccardo di Durfort andarono a
cercare Guglielmo Tournier e il suo compagno. I diaconi Bernardo Coldefi e Arnaldo Guiraud
abitavano a Montréal e alle loro riunioni venivano: Raimondo di Sanchas, Rateria, moglie di
Mauro di Montréal, Ermengarda di Rebenty, vedova di Pietro, Berengaria di Villacorbier,
vedova di Bernardo Ugo di Rebenty, Saurina, vedova di Isarn Garin di Montréal e sua sorella
Dulcia, Guiraude di Montréal, Poncia Rigalda moglie di Rigaldo di Montréal... era il 1204
(12)».
La deposizione riferisce quindi fatti vecchi di oltre trent'anni. D'altra parte, vive o morte che
fossero, le persone di cui si provava la partecipazione a una cerimonia eretica, trenta, quaranta o
cinquant'anni prima, dovevano essere punite; i morti tramite l'esumazione e la confisca dei beni
degli eredi, i vivi con le punizioni canoniche o con la prigione.
Si capisce la sensazione di disperazione, di oppressione che progressivamente si diffuse in
un popolo sottoposto a un trattamento simile. Altre epoche dovevano conoscere, in seguito, il
peso di analoghi terrori polizieschi; ma all'Inquisizione domenicana spetta il merito di avere
inventato il sistema. La via era tracciata, gli imitatori non mancarono di seguirla e di
perfezionarla; ma non pare che restasse loro molto da inventare, al di là di qualche
miglioramento strettamente tecnico.
Tuttavia, durante i primi anni la resistenza fu aspra, benché sin dall'inizio condannata alla
sconfitta a causa dell'appoggio totale che il papato diede da subito a questa sua nuova arma di
combattimento.
NOTE.
(1) Guglielmo Pelhisson, op. cit., p. 95.
(2) Ivi, p. 98.
(3) Ibidem.
(4) Bernardo Gui, "Libellis de Ordine Praedicatorum", in "Recueil des Historiens des
Gaules", t. 21, p.p. 736-737.
(5) Guglielmo Pelhisson, op. cit., p. 98.
(6) Ibidem.
(7) Ibidem.
(8) "Registri di Gregorio Nono", n. 3187.
(9) E' il caso di quel mugnaio di Belcaire che andò ad accusarsi del seguente misfatto:
quando alcune donne, che avevano visitato il suo mulino, gli avevano augurato la protezione
del Signore e di san Martino, aveva risposto che era lui e non Dio che l'aveva costruito e che si
incaricava di farlo funzionare.
(10) Con la bolla "Ad extirpanda" di Innocenzo Quarto, del 15 maggio 1252.
(11) Bernardo Gui, op. cit., cap. 1, parag. 5.
(12) Doat, t. 22, p 142; t. 23, p 165.
Capitolo undicesimo

LA RESISTENZA CATARA.
1. L'ORGANIZZAZIONE DELLA RESISTENZA.
I catari non disarmavano affatto, tanto più che la persecuzione forniva loro i migliori
argomenti per la loro propaganda: una prova tangibile, per così dire, del carattere diabolico
della Chiesa che combattevano.
D'altronde non pensavano che la loro causa fosse ormai persa: le Chiese della Bosnia, della
Bulgaria e della Lombardia erano potenti e contendevano il terreno alla Chiesa di Roma,
talvolta con successo, come nel caso dei paesi slavi. Queste Chiese sorelle inviavano loro
emissari, lettere di incoraggiamento, soccorsi. Nel 1243, nel pieno della battaglia di Montségur,
il vescovo cataro di Cremona inviò un messaggio al vescovo Bertrando Marty per assicurarlo
che la sua Chiesa godeva di una pace profonda e per chiedergli di mandargli a Cremona due
'perfetti'. Questi paesi dove le Chiese catare vivevano in pace (ma questa situazione non sarebbe
durata a lungo) attraevano, come una terra promessa, molti eretici e credenti provati dalle
persecuzioni: negli anni 1230-40 molti catari migrarono in Lombardia.
I più coraggiosi, i più combattivi restarono al loro posto, preferendo rischiare la morte e non
abbandonare i loro fedeli: organizzavano clandestinamente la loro vita, aspettando tempi
migliori. Se Guglielmo Pelhisson constata che gli eretici, allora, erano più dannosi che durante
la guerra, questo probabilmente significa che i 'perfetti' avevano abbandonato il loro
atteggiamento se non passivo almeno pacifista, incoraggiando e assolvendo gli atti di violenza.
Questa religione che aveva orrore dello spargimento del sangue e proibiva ai suoi ministri
l'uccisione di un pollo o di un topo, aveva trovato anch'essa una scappatoia per giustificare la
violenza: non era un crimine sopprimere determinate creature, che non erano anime decadute e
penitenti, bensì incarnazioni dirette della forza del male. Gli inquisitori e i loro complici non
potevano non essere inclusi fra queste creature diaboliche. Del resto i 'perfetti' non avevano
alcun bisogno di spingere alla violenza gente che vi era anche troppo portata; ma potevano
svolgere un ruolo politico, e utilizzare la loro influenza sui signori fedeli alla loro religione per
indurli alla lotta, mostrando i vantaggi spirituali che ne sarebbero derivati.
E' in questo periodo che venne istituito il patto della "convenensa", che non pare fosse
praticato in precedenza: vincolato da questo patto, il credente poteva ricevere il
"consolamentum in extremis" anche se, a causa delle ferite o per una qualche altra ragione, non
aveva l'uso della parola. (Più tardi quest'usanza sarebbe stata generalizzata, per ragioni del tutto
evidenti: non potendo acconsentire ad amministrare il sacramento a degli sconosciuti, per paura
di cadere in trappola, i 'perfetti' trovarono questo strumento per censire i loro fedeli: gli uomini
legati dalla "convenensa", per questo stesso fatto, imponevano ai 'perfetti' l'obbligo morale di
'consolarli' sul letto di morte, per lo meno se c'era la possibilità materiale di farlo.) Divenendo
clandestina, la vita dei catari acquistava maggior intensità e fervore: i credenti più tiepidi e
quelli che si facevano eretici per interesse o per rispetto delle convenienze (come era accaduto
prima del 1209, e anche dopo la riconquista del paese da parte del conte) venivano a poco a
poco espulsi dalla comunità. Non per questo i partecipanti alle riunioni eretiche diminuivano: i
loro ranghi venivano costantemente alimentati da tutti quanti, scontenti del nuovo regime,
trovavano nelle Chiese eretiche le sole vere organizzazioni di resistenza. Durante questo
periodo l'azione dei valdesi divenne più efficace che durante la crociata; e le Chiese catare e
valdesi, in precedenza rivali, fecero fronte comune, tanto che i registri citano numerosi 'perfetti'
valdesi che predicarono in Linguadoca, specie nella regione dell'Ariège.
L'apostolato di questi uomini era difficile, ma lo esercitavano con costanza, perché non era il
timore del pericolo che li costringeva a vivere nei rifugi dei carbonai, nelle capanne di rami in
fondo alle foreste, nelle fattorie abbandonate - a Montségur, a Quéribus o in Lombardia
sarebbero stati più sicuri che in questi ricoveri precari. Conducevano una vita vagabonda, da
uomini braccati, per poter continuare la loro attività ed essere vicini alla gente che restava loro
fedele o che speravano di poter riconvertire alla loro fede.
Giunti nei dintorni di un villaggio o di un borgo, il 'perfetto' e il suo "socius" si cercavano
innanzitutto un rifugio sicuro: nella casa di un credente, quando la località non era sorvegliata
strettamente dalle autorità ecclesiastiche (e luoghi del genere erano numerosi: a cominciare dai
castelli dei signori di Niort o di altri feudatari meno potenti come Lanta Jourda, signore di
Calhavel, o come gran parte della nobiltà di Fanjeaux, di Laurac, di Miramont, eccetera; a volte
erano gli stessi balivi del conte che segnalavano ai 'perfetti' le case 'sicure' ove farsi ricevere.
Borghi come Sorèze, Avignonet, Saint-Félix avevano curati se non eretici almeno simpatizzanti
per l'eresia). Più spesso questi predicatori erranti si fermavano in qualche luogo appartato al di
fuori della città, sia per non correre il rischio di essere riconosciuti sia per non compromettere le
persone che si sarebbero offerte di ospitarli. La loro presenza veniva rivelata solo a quei
credenti di cui ci si poteva fidare, e i catari mantenevano una vasta rete di agenti segreti con
funzioni di messaggeri e di guide. Se il paese era sotto la sorveglianza di un curato o di un
balivo notoriamente cattolici, i credenti erano tenuti a usare varie precauzioni per
allontanarsene; i poveri andavano a raccogliere legna, le donne a raccogliere funghi o bacche, i
nobili a caccia; bisognava evitare un esodo troppo massiccio dei parrocchiani, e le spedizioni
potevano effettuarsi solo a piccoli gruppi o a parecchi giorni di distanza.
In genere i 'perfetti' riunivano i loro ascoltatori in radure sperdute in mezzo alle foreste;
vicino alle città, le riunioni si svolgevano di notte, di modo che gli abitanti potessero
approfittare dell'oscurità per uscire senza essere visti. Spesso simili riunioni vennero sorprese
durante battute di uomini armati o di spie ("exploratores") pagate dagli inquisitori. La più
importante di queste battute fu quella durante la quale il conte di Tolosa fece arrestare Pagano
di La Bessède insieme a diciotto eretici; spesso quanti davano la caccia agli eretici in questo
modo non disponevano di forze adeguate, e rischiavano la vita avventurandosi in foreste che,
durante le prediche e le cerimonie all'aria aperta, venivano sorvegliate da gruppi di credenti, fra
i quali spesso non mancavano dei soldati. Sorpresi durante una riunione, il più delle volte gli
eretici riuscivano a scappare: così il domenicano Raul, recatosi con una scorta ad arrestare un
gruppo di eretici segnalato da una spia in un bosco nei dintorni di Fanjeaux, riuscì a prenderne
uno solo; nel 1234 il curato Pietro, mentre cercava degli eretici, cadde in un'imboscata tesagli
dal balivo del paese; riuscì a fuggire, ma il suo compagno venne ucciso. Nel 1237 vennero
catturate e bruciate due 'perfette' a Montgradail, due a Saint-Martin-la-Lande, due a Villeneuve
nei pressi di Montréal. Sembra che le donne, forse più attive degli uomini, forse più imprudenti
in quanto si sentivano meno minacciate, siano state catturate più spesso. Una volta l'abate di
Sorèze mandò un suo agente ("nuncius") ad arrestare due 'perfette' che risiedevano nel borgo:
un gruppo di donne si oppose al loro arresto attaccando l'agente a colpi di bastone e di pietre;
quando l'abate venne di persona a rimproverarle per il loro comportamento, esse derisero il
"nuncius" dicendo che era venuto a prendere per eretiche due brave donne sposate. Ma le
'perfette' sorprese da sole in un bosco o in un borgo la cui popolazione fosse meno decisa o
meno ostile ai cattolici, a quanto pare, passavano ben presto dalla prigione al rogo; dobbiamo
pensare che gli inquisitori sapessero fin dall'inizio di non poter ricavare nulla da loro.
Nel suo studio sull'Inquisizione Jean Guiraud riporta la storia di Guglielma di La Mothe che
prima di essere bruciata raccontò almeno parte delle sue vicissitudini: insieme alla sua
compagna, dopo il 1230 ella aveva vissuto nel bosco di un certo Pietro Belloc, poi per tre
settimane in un altro bosco, il "Bosc-Blanc"; in seguito alcuni credenti le avevano
accompagnate nella foresta di Salabose, quindi in quella di Avellanet dove erano rimaste un
anno; poi, di foresta in foresta, nella regione di Lanta, esse erano state accompagnate dal
'perfetto' G. Roger nel bosco della Garrigue; avevano vissuto qualche tempo nelle case di alcuni
credenti - nove interi mesi da un certo Pons Rivière; nel 1240 avevano continuato a girare di
casa in casa, qualche giorno qui, qualche giorno là; poi erano tornate di nuovo in una capanna
in un bosco; così, passando da un bosco a una fattoria, da una città a una foresta, guidate da
credenti che cercavano di metterle al sicuro o da 'perfetti' che davano loro nuove istruzioni, esse
finirono per essere catturate in una foresta del Lantarès a Gratiafides. Guglielma di la Mothe
raccontò tutto ciò solo dopo un anno di prigionia. Tutte le persone da lei nominate divenivano
automaticamente "receptatores haereticorum", passibili di giudizio e di carcerazione. Questa
donna e la sua compagna avevano vissuto una vita tanto pericolosa per servire la causa della
loro Chiesa; ella non parlò per ottenere l'indulgenza dei giudici, dal momento che venne
bruciata (1).
Per grande che fosse la fiducia e la devozione dei credenti nei loro confronti, i 'perfetti'
sapevano che anche i più coraggiosi, con la tortura, potevano essere indotti a tradirli. Ecco
perché nelle regioni meno sicure - e fino ai dintorni di Tolosa - gli eretici si costruivano nei
boschi delle capanne, la cui ubicazione era nota ai fedeli, che potevano venire a chiamarli in
caso si dovesse 'consolare' un moribondo o partecipare a una qualche cerimonia religiosa.
Non potendo procurarsi da soli il cibo, i 'perfetti' vivevano della carità dei credenti; carità
ben organizzata e più che sufficiente, se si deve credere alle persone che dichiararono di aver
portato agli eretici viveri, vesti, denaro: pane, farina, miele, legumi, uva, fichi, noci, mele,
nocciole, fragole.... pesci freschi o conservati, vino, pane, focacce, piatti più modesti o anche
raffinati preparati da donne del popolo che potevano andare nei boschi o mandarci i loro figli
senza destare sospetti; i credenti più ricchi fornivano invece ai rifugi degli eretici rifornimenti
di grano e di vino - e del miglior vino delle loro cantine.
Le donne facevano collette per raccogliere la lana con la quale quei forzati eremiti si
tessevano di persona gli abiti per loro e per i loro confratelli più poveri; i mercanti fornivano
stoffe e vestiti già pronti, guanti, berretti; altri davano piatti, caraffe, rasoi. Tutte queste offerte
ci sono note perché quanti le fecero dovettero risponderne davanti alla giustizia.
Talvolta, sia per guadagnarsi da vivere che per dissimulare il loro ministero, i 'perfetti'
esercitavano qualche mestiere; si segnalano 'perfetti' calzolai o panettieri, impiegati nei filatoi di
lana o come domestici di credenti ricchi. I 'perfetti' valdesi, in particolare, tenevano a vivere del
proprio lavoro, e si citano fra loro dei costruttori di botti, dei barbieri, dei sellai, dei muratori.
Dopo il 1229 gli eretici esercitarono meno frequentemente il mestiere di tessitori, perché questa
corporazione era particolarmente sospetta; ma alcuni di loro restarono tessitori anche ai tempi
dell'Inquisizione.
Molti 'perfetti' catari e valdesi godevano di un'ottima reputazione come medici e, a questo
titolo, rendevano servizio ai credenti che li aiutavano e li accoglievano; i loro avversari hanno
insinuato che si trattava di un metodo eccellente per accattivarsi la fiducia della gente e per
ottenere donazioni alla loro Chiesa da parte dei moribondi. Era, in effetti, un metodo come un
altro. Per meglio conquistarsi la fiducia dei pazienti, molti di loro, specie fra i valdesi, non
accettavano denaro e fornivano di persona le medicine. Il valdese P. de Vallibus, come il cataro
Guglielmo d'Ayros andavano di villaggio in villaggio, di castello in castello, sia per curare i
malati che per predicare. Sembra che questa non fosse solo una tattica di propaganda, ma
un'autentica vocazione medica, del tutto naturale in uomini che consacravano la loro vita a
praticare la carità. Beninteso, l'esercizio della medicina era loro vietato, ed essi si rendevano
sospetti per il solo fatto di ostinarsi a curare i malati.
Rainero Sacconi, nella sua "Somma" scritta intorno al 1250, rimprovera ai catari il loro
amore del denaro, aggiungendo onestamente che le persecuzioni delle quali erano vittime li
costringevano ad avere a disposizione somme considerevoli. Non potendo possedere terre, case,
imprese commerciali, ridotta a poco a poco all'illegalità totale, la Chiesa catara era in grado di
proseguire la sua attività solo grazie alle elargizioni di denaro; non ne aveva bisogno tanto per
mantenere i suoi ministri (che, grandi digiunatori, spendevano ben poco) quanto per acquistare
e diffondere i testi sacri e la letteratura apologetica e polemica; per organizzare i collegamenti e
le riunioni, il cui successo dipendeva spesso dal silenzio di qualche funzionario interessato; per
gli spostamenti, i viaggi, gli aiuti ai credenti bisognosi. Sempre e dovunque il denaro era un
potente mezzo di intervento, specie per gente sulla cui testa incombeva una taglia. Così, nel
1237 il balivo di Fanjeaux arrestò il vescovo Bertrando Marty in persona, con tre 'perfetti', ma li
lasciò liberi in cambio di trecento soldi "tolsas" che i credenti subito raccolsero sul posto
tramite una colletta. Per un caso di corruzione conosciuto, altre decine debbono essere rimasti
ignoti; e uomini sempre esposti al ricatto del primo miserabile che minacciasse di denunciarli
non dovevano avere troppi scrupoli a comprare la propria vita a peso d'oro.
I 'perfetti' erano ricchi e reputati tali. Pagavano generosamente i servizi resi loro. Non
potendo portare con sé forti somme (era difficile in un'epoca nella quale non esistevano le
banconote), le affidavano a persone fidate che, a loro volta, le sotterravano in nascondigli noti
solo a loro; in caso di urgente necessità questi tesori venivano messi a disposizione della Chiesa
catara. Le somme considerevoli che i catari possedevano in tutte le regioni nelle quali
svolgevano il loro ministero provenivano anzitutto dai doni che i credenti 'consolati' facevano
loro sul letto di morte; per i credenti ricchi questi doni erano in un certo senso obbligatori, ma
anche le persone di modeste condizioni offrivano i loro vestiti, il loro letto o altri oggetti di
arredamento. Un'ulteriore fonte di rendite era rappresentata dalle collette, sia di denaro che di
beni in natura, fatte per la Chiesa da uomini di fiducia.
Sembra che durante i primi anni dell'Inquisizione la vita clandestina dei catari fosse ben
organizzata. I registri degli inquisitori rendono conto delle diverse categorie di sostenitori
dell'eresia: i "receptatores", rei del reato più comune, quello di dare ospitalità a qualche
'perfetto'; i "nuncii", agenti incaricati di mantenere i contatti, di fare da guide o di portare
messaggi; i "quaestores", che raccoglievano i fondi; i "depositarii", che conservavano i tesori
della Chiesa catara. Ovviamente queste funzioni non erano distinte nettamente: la qualifica
attribuita ai credenti serviva più che altro a specificare la natura del reato commesso; ma nessun
credente, e non senza motivo, si fregiava del titolo di "quaestor" o di "nuncius haereticorum".
Comunque una simile organizzazione esisteva, e quanto più aumentavano le persecuzioni, tanto
più i legami che univano i catari e i loro fedeli divenivano più stretti; il pericolo, che
allontanava i più deboli, stimolava gli uomini più generosi. Ma anche i meno decisi, quando
l'unica alternativa rimasta era quella fra la fedeltà e il tradimento, spesso preferivano esporsi ai
pericoli della persecuzione pur di non tradire.
2. IL SANTUARIO DI MONTSEGUR.
I catari disponevano della fortezza di Montségur che, sotto gli occhi di tutti, fungeva da
centro ufficiale della Chiesa catara della Linguadoca. Accompagnati dalle loro famiglie, diversi
cavalieri vi si recavano in pellegrinaggio, mentre gli uomini del popolo la raggiungevano di
nascosto, da soli o in gruppo, per poter liberamente assistere ai riti della loro Chiesa, ricevere la
benedizione dei 'buonuomini', chiedere loro consigli o istruzioni sulla lotta contro il nemico.
Questo castello, situato nelle terre appartenenti a Guido di Lévis, combattente per la fede
cattolica e nuovo signore di Mirepoix, pare appartenesse all'eredità di Esclarmonde, sorella di
Raimondo Ruggero di Foix, ed era tenuto da Raimondo di Perella, vassallo dei conti di Foix;
nessuno contestava il suo dominio a questo potente signore, dal momento che Montségur
passava per essere un nido d'aquila imprendibile ed era situato in piena montagna, lontano dalle
grandi strade, in un paese notoriamente eretico; né i crociati né le truppe del re di Francia
avevano ritenuto utile prendere questa fortezza, di mediocre interesse strategico, e il cui assedio
avrebbe posto enormi difficoltà (2).
Situato sul versante settentrionale dei Pirenei, in mezzo a cime di media altitudine (da 2000 a
3000 metri), e dominando da tre lati valli molto profonde, la montagna, o se vogliamo, la rocca
di Montségur (1207 metri) è un immenso dirupo arrotondato, a forma di pan di zucchero, al
quale si può accedere solo dal versante occidentale, che scende verso valle con un pendio molto
ripido e poco boscoso. Il castello costruito sulla cima, molto piccolo, non poteva dare riparo a
numerosi difensori e tanto meno ospitare una grande comunità in tempo di pace. Gli eretici che
si rifugiavano a Montségur alloggiavano nel villaggio situato ai piedi della montagna, in
capanne costruite sul versante occidentale e sulla cima; dopo il passaggio di Guido di Montfort
nessun esercito nemico era penetrato entro queste terre poco ospitali e ben protette, e intorno a
Montségur si era formata, dopo la crociata, una vera e propria colonia catara, così importante
che i mercanti delle città vicine vi affluivano sempre certi di trovare clienti. Quel borgo
sperduto stava trasformandosi in un mercato, così come accade a ogni luogo di pellegrinaggio:
perché questo era Montségur.
Nel 1204 il castello, da tempo considerato dai catari come un luogo particolarmente
favorevole al loro culto, stava cadendo in rovina; i 'perfetti' chiesero al suo signore, Raimondo
di Perella, di restaurarlo e di fortificarlo, ciò che fu fatto benché i catari allora non avessero
bisogno urgente di difendersi. Questa stessa richiesta prova che Montségur rappresentava per
gli eretici ben altro che un eventuale rifugio contro il nemico. Fin dall'inizio del secolo i vescovi
catari, e in particolare Guilberto di Castres, vi si recavano a predicare; Esclarmonde di Foix, i
cui diritti su Montségur erano alquanto vaghi e la cui personalità resta misteriosa, doveva avere
una grande influenza nella regione, cui Folco rese un omaggio indiretto dichiarando che «con la
sua perversa dottrina, ella faceva molte conversioni (3)». Che questa gran dama, divenuta
'perfetta' nel 1206, abbia contribuito o meno a risollevare il prestigio di Montségur, l'interesse
particolare dei catari per questo castello data dagli inizi del tredicesimo secolo. Nel 1232 ne era
signore Raimondo di Perella, e fu a lui che Guilberto di Castres chiese il permesso di fare del
luogo il rifugio ufficiale della Chiesa catara.
In quel momento Guilberto di Castres era l'indiscusso capo spirituale della regione e
soggiornava frequentemente a Montségur. Non ci restava a lungo, continuando a condurre la
vita vagabonda dei ministri catari. Ma numerosi 'perfetti', i cui conventi - un tempo luogo di
ritiro per nobili vedove e case di educazione per giovani fanciulle religiose - erano stati
soppressi dalla crociata, si rifugiarono nei dintorni di Montségur, costruendosi capanne sulla
cima del dirupo; i 'perfetti', che conducevano una vita contemplativa o istruivano nella loro fede
i candidati all'apostolato, erano costretti a cercarsi un riparo ove fosse possibile consacrarsi a
una vita di preghiera e di studio. Ai piedi delle mura del castello sorse, a poco a poco, un
villaggio di capanne, in parte scavate nella roccia, in parte sospese nell'aria, al di sopra del
precipizio; un rifugio inaccessibile e poco confortevole, che non doveva dispiacere al
temperamento ascetico di questi uomini alla ricerca di Dio. Intorno a questo villaggio, attaccato
come un nido di rondine alle alte mura del castello, venne innalzata una solida palizzata: data la
posizione del castello, anche le fortificazioni più primitive potevano bastare per respingere
qualsiasi attacco. Ma è evidente che in quel contesto e in simili condizioni poteva vivere solo
gente preventivamente preparata a qualsiasi sacrificio.
Molti 'perfetti' e credenti abitavano nel villaggio ai piedi del monte; era un luogo di transito,
nel quale visitatori di qualsiasi condizione e di qualsiasi età compivano soggiorni più o meno
lunghi, per salire al castello, assistere a qualche rito, venerare i 'perfetti' e poi ripartire,
riprendendo a condurre un'esistenza da buoni cattolici. Per forza di cose Montségur divenne in
qualche modo il quartier generale della resistenza catara, e persino della resistenza pura e
semplice: la parte della popolazione più legata all'eresia era anche quella più adatta ad
organizzare una rivolta.
Decimata, rovinata, esiliata, la nobiltà della Linguadoca nel 1240 era ancora forte: la
maggior parte dei vassalli del conte di Tolosa, quelli del conte di Foix e parte degli antichi
vassalli dei Trencavel avevano mantenuto i loro domini; avevano patteggiato con l'autorità di
occupazione solo a malincuore, e desideravano più d'ogni altra cosa ritornare padroni assoluti
delle loro terre; l'Inquisizione era per loro la fonte di innumerevoli vessazioni. Se il conte di
Tolosa era abbastanza potente da lamentarsene apertamente, spesso i suoi vassalli si limitavano
a esercitare un'opposizione sorda ma sistematica. I più forti, come i fratelli di Niort, all'inizio
poterono permettersi di fare guerra aperta alla Chiesa; altri, senza spingersi a invadere il
palazzo arcivescovile, attaccavano chiese e conventi, nella migliore tradizione feudale.
Per ragioni politiche il conte di Tolosa non poteva tollerare che i suoi vassalli compissero atti
di violenza troppo eclatanti; ma sui territori del conte di Foix i signori feudali erano più o meno
padroni di se stessi. Fu dunque nei Pirenei, in questa fase, che si organizzò la resistenza armata
della nobiltà occitana. A cavallo dei Pirenei, i domini del conte di Foix comprendevano, in
Linguadoca, la valle dell'Ariège e i paesi del circondario; in Spagna, la viscontea di Castelbon,
che Ruggero Bernardo possedeva grazie al suo matrimonio con l'ereditiera di questa terra; per
vincoli di omaggio e di parentela, la nobiltà spagnola dei Pirenei era strettamente legata a quella
della Linguadoca meridionale: una profonda somiglianza di razza, di lingua, di tradizioni univa
i paesi dei due versanti dei Pirenei, e se il Roussillon è rimasto catalano fino ai nostri giorni, nel
medioevo anche le regioni di Carcassonne, di Comminges e dell'Ariège erano più vicine alla
Catalogna e all'Aragona che alla Provenza o all'Aquitania. Così, durante la crociata, buona parte
della nobiltà montana della Linguadoca aveva varcato i monti per trovare un naturale rifugio
presso la nobiltà della Cerdagna e della Catalogna. Abbiamo visto come Pietro Secondo
d'Aragona avesse considerato l'attacco alle contee di Foix e di Comminges un'offesa personale e
come per la sua cavalleria la difesa della Linguadoca fosse stata un'azione patriottica.
Spodestati, espulsi dalle loro terre, i "faidits" formavano in Spagna un partito potente, malgrado
i sentimenti cattolici del giovane re Giacomo Primo. Raimondo Trencavel viveva alla corte del
re d'Aragona, circondato da vassalli e da amici, e preparava attivamente la rivincita.
Cacciato da Carcassonne dalle truppe di Luigi Ottavo nel 1226, dopo aver retto il paese per
due anni, quest'uomo ancora giovane (4) beneficiava del prestigio di suo padre, il cui coraggio e
la cui tragica fine erano sempre vivi nella memoria degli Occitani. Per tutti i paesi un tempo
sottomessi ai Trencavel egli rappresentava il signore legittimo del quale si sperava il ritorno
tanto più ardentemente quanto più la situazione creata dalla pace di Parigi provocava un
malcontento crescente.
Raimondo Trencavel non poteva contare sull'aiuto del re d'Aragona. Né il conte di Tolosa né
il conte di Foix potevano arrischiarsi a sostenere apertamente un signore che avanzava pretese
su terre appartenenti alla corona di Francia. Egli poteva contare sull'appoggio totale dei "faidits"
- cavalieri senza terra che possedevano solo la loro forza e le loro armi - e sull'appoggio
clandestino dei signori sottomessi al re e pronti a rivoltarsi alla prima occasione. Oliviero di
Termes aveva nelle Corbières parecchi validi castelli che non si erano mai sottomessi
all'autorità reale e che potevano fungere da depositi d'armi e da luoghi di riunione. Fu nelle
montagne delle Corbières, nei paesi di Sault e della Cerdagna, che fu preparata la sollevazione
di quei signori locali che, potendo contare sui principi solo in caso di successo, ridotti alle loro
sole forze, con tanto più ardore si aggrappavano alla fede catara che per molti di loro era già la
fede dei loro padri e, soprattutto, il simbolo della loro libertà.
Nel 1216 si erano battuti per il conte di Tolosa. Ora Raimondo Settimo, firmatario del
trattato di Meaux, tenuto sotto pressione dal re e dal papa, sempre in cerca di nuove alleanze,
sempre in equilibrio su di una corda tesa, rappresentava un appoggio troppo malsicuro; se
ancora era l'unico uomo capace di riunire intorno alla sua persona tutte le forze della resistenza
e di sollevare l'intero paese, non ci si poteva battere in suo nome contro il suo volere. Ma ogni
uomo era libero di battersi per la sua fede.
Ecco perché Montségur fu, per una decina d'anni, l'anima e il centro della resistenza
occitana. Dalla Spagna i "faidits" passavano i monti per raccogliersi in quel luogo venerato nel
quale il culto cataro veniva celebrato con una solennità pari o addirittura maggiore di quella del
periodo precedente la guerra; dalla Linguadoca i cavalieri, che in segreto cospiravano contro i
Francesi, salivano a Montségur per incontrare i loro amici, prendere accordi, ricevere istruzioni;
molti di questi pellegrinaggi dovevano avere un carattere più politico che religioso e - benché
non si sappia nulla della loro attività - i 'perfetti', per lo più provenienti essi stessi dalla piccola
nobiltà, non dovettero restare estranei a questo movimento patriottico; e forse intrattenevano i
loro fedeli sia sulla liberazione del loro paese sia sulla vanità di un mondo creato da un dio
malvagio.
In realtà - e la cosa è strana - non ne sappiamo nulla. Sappiamo che Guilberto di Castres,
Giovanni Cambiaire, Raimondo Aiguilher, Bertrando Marty e altri ricevettero un gran numero
di quei cavalieri che svolsero un ruolo decisivo nella lotta per l'indipendenza. Guilberto di
Castres, che doveva essere avanti negli anni, scese da Montségur e si recò sotto una buona
scorta nei castelli della regione per farvi brevi soggiorni; tutti questi spostamenti erano
organizzati preventivamente con molta cura e in totale segretezza; evidentemente l'infaticabile
vescovo non intendeva rinunciare, per paura del pericolo, a visitare le sue pecorelle; ma è lecito
supporre che egli prendesse parte attiva e personale anche alla preparazione della rivolta,
incoraggiando i suoi fedeli alla lotta anziché a non fare resistenza.
Le testimonianze giunte sino a noi constatano solo che un certo 'perfetto' si era recato nel tale
posto, che vi aveva spezzato il pane e che certe persone l'avevano 'adorato'; seguendo l'attività
di decine e decine di cavalieri, nobildonne, sergenti d'armi che andavano, venivano, ripartivano,
tornavano, soggiornavano a Montségur non si apprende altro se non che essi ascoltavano dei
sermoni. Così, come vedremo, all'inizio dell'assedio di Montségur (13 maggio 1243) due
sergenti d'armi, il diacono Clamens e tre 'perfetti' scesero dal castello e attraversarono le linee
nemiche per andare a Causson; e questa spedizione, a giudicare dalle fonti, sarebbe stata fatta
solo per andare a mangiare del pane benedetto insieme a due eretici locali. E' possibile che
l'attività dei 'perfetti' e dei credenti intorno a Montségur sia stata dettata solo da imperativi
strettamente religiosi e rituali, la cui importanza ci sfugge per mancanza di informazioni
precise; ma non è impossibile il contrario.
E' forse difficile immaginare che i 'perfetti' organizzassero attività terroristiche; ma dopo
tutto abbiamo visto dei vescovi e persino dei santi cattolici lanciarsi a corpo morto nella
mischia. Il pericolo che le rispettive Chiese correvano giustificava il ricorso a qualsiasi mezzo;
comportandosi così i ministri catari sarebbero stati più scusabili perché la loro fede veniva
perseguitata più crudelmente. Furono uomini di Montségur a partecipare alla più clamorosa
azione terroristica di tutta la storia dell'Inquisizione. Se non l'ispirarono, forse i 'perfetti' la
approvarono. In un periodo in cui la difesa della loro Chiesa coincideva con quella della loro
patria terrestre, i sant'uomini di Montségur, che dopo tutto erano fatti di carne e d'ossa,
potevano essere non meno patrioti dei cavalieri "faidits".
Raimondo di Perella e suo genero Pietro Ruggero di Mirepoix erano fra i capi più decisi
della nobiltà impegnata nella resistenza; è pressoché sicuro che essi mantennero rapporti segreti
con il conte di Tolosa; senza dubbio li intrattennero anche con Raimondo Trencavel, con il
conte di Foix e con la maggior parte della nobiltà catara.
Grandi signori come quelli di Niort avevano dato un importante appoggio materiale ai
'buonuomini' di Montségur dopo l'inverno del 1234, quando una gelata aveva rovinato tutti i
raccolti. Bernardo Ottone di Niort si occupò di raccogliere i sessanta moggi di grano che furono
inviati a Montségur: la cavalleria di Laurac diede venti moggi, Bernardo Ottone di Niort diede
personalmente dieci moggi, il resto proveniva dai doni dei signori e dei borghesi dei dintorni di
Carcassonne e di Tolosa. Si fecero molte altre collette, in denaro e in natura, destinate ai fondi
del castello e al suo approvvigionamento.
Montségur divenne un arsenale: vi si formò un deposito di armi la cui consistenza doveva
essere notevole, come mostrerà il seguito degli avvenimenti. Si deve ritenere che i cavalieri che
vi si recavano a pregare approfittassero del loro pellegrinaggio per portare sul posto il loro
contributo in lance, frecce, balestre o armature; Dom Vaissette pensa addirittura che Montségur
sia servita da piazza d'armi per i Trencavel (3), il che non sembra trovare conferma nei fatti,
poiché nessun testimone menziona un passaggio dei Trencavel a Montségur. Ma l'immenso
deposito d'armi accumulato nella fortezza poteva essere destinato tanto alla difesa del castello
quanto all'approvvigionamento di un eventuale esercito di liberazione.
Per di più Montségur, 'capitale' della Chiesa catara della Linguadoca, non nascondeva solo
molti ministri della setta, ma anche un 'tesoro'. Esso consisteva in primo luogo in depositi
monetari, dal momento che per la difesa del castello e il mantenimento di un gran numero di
'perfetti' bisognava disporre di somme considerevoli; Montségur doveva anche aiutare i
confratelli delle regioni più esposte alle persecuzioni. Ma il tesoro comprendeva certamente
anche ben altro: libri sacri, forse antichi manoscritti, opere scritte da maestri particolarmente
venerati; la letteratura catara era abbondante e i 'perfetti', per istruire i fedeli e i neofiti, non si
accontentavano del Nuovo Testamento; appassionati di teologia quanto i cattolici, essi tenevano
a conservare la purezza dei loro dogmi e attribuivano la massima importanza ai libri che li
aiutavano a mantenersi nell'ortodossia. Oltre a ciò, c'erano forse delle reliquie, degli oggetti
ritenuti sacri? Quel che è certo è che nessuna deposizione ha mai fatto riferimento a nulla di
simile; è anche vero che i modelli di interrogatorio degli inquisitori non prevedevano domande
in proposito. E' possibile che un certo manoscritto del Vangelo o un certo oggetto di culto siano
stati circondati di una particolare venerazione - i catari erano pur sempre uomini - e conservati a
Montségur come oggetti sacri. Ma quale che fosse la natura del tesoro di Montségur, il luogo
stesso iniziava ad assumere un'importanza eccezionale nell'animo di tutti i credenti della
Linguadoca, divenendo il luogo santo per antonomasia.
Era così anche prima del 1232, o prima della crociata? Non sembra. Quando i catari erano
liberi di celebrare i loro culti dove volevano, Montségur era un luogo sacro solo per gli eretici
della regione di Foix, influendo anche qui lo spirito di indipendenza locale. Tuttavia
l'ubicazione e la costruzione di Montségur erano adatte a un tempio come a un castello, che
probabilmente venne sistemato per la celebrazione del culto, forse in un periodo in cui la
Chiesa catara si sentiva abbastanza forte da edificare e consacrare i suoi santuari sull'esempio
della Chiesa cattolica: nel 1204, nella regione di Foix, la religione catara era quasi la religione
ufficiale.
Fra il 1232 e il 1242 il castello divenne un luogo santo verso il quale i moribondi si facevano
trasportare, a dorso di mulo, attraverso impervi sentieri di montagna, per ricevere il sacramento
supremo ed essere sepolti all'ombra delle sue mura. Così il cavaliere Giordano Calvent, già
'consolato', si fece portare a morire a Montségur; Pietro Guglielmo di Fogart, accompagnato da
due 'buonuomini' intraprese il viaggio in tali condizioni di debolezza che non riuscì ad arrivare
a Montségur ma si fermò a Montferrier, dove spirò. Alcune nobildonne delle regioni del
circondario si ritiravano a Montségur per ricevere il "consolamentum" e vivere nella preghiera:
nel 1234 Marquesia di Lantar, suocera di Raimondo di Perella, si fece 'ereticare' da Bertrando
Marty proprio a Montségur; e le numerose 'perfette' che vivevano nelle 'case' ai piedi delle mura
del castello ricevevano le visite delle sorelle o delle figlie, che restavano con loro per periodi
più o meno lunghi, talvolta per dei mesi. Fra i visitatori che salirono al castello negli anni 1233-
43 si ricordano in particolare cavalieri e uomini d'armi, e anche diverse donne, sorelle o figlie
dei cavalieri. Forse vi si recavano anche credenti di condizioni più modeste, ma essi non hanno
attratto l'attenzione dei tribunali; i quali menzionano però i mercanti dei dintorni che andavano
a Montségur per vendere viveri, violando la legge che vietava di fornire qualsiasi aiuto agli
eretici.
Nel 1235 Raimondo Settimo inviò tre cavalieri incaricati di prendere possesso di Montségur;
essi vennero ricevuti nel castello, 'adorarono' Guilberto di Castres e rientrarono a Tolosa. Poco
dopo il conte mandò uno dei suoi balivi, Mancipio di Gaillac che, insieme ai suoi compagni, si
accontentò di venerare i 'buonuomini' e di ripartire così com'era venuto. Il conte inviò una terza
volta lo stesso Mancipio di Gaillac insieme a dei soldati, che catturarono il diacono Giovanni
Cambiaire (o Cambitor) e altri tre 'perfetti' e li portarono a Tolosa per bruciarli. Quest'incidente
illustra in modo eloquente la politica del conte rispetto agli eretici: il suo atteggiamento sarebbe
rimasto ambiguo fino alla fine. Tutte le testimonianze attestano che fu un buon cattolico. E'
anche probabile - alcuni episodi della sua vita lo provano - che detestasse sinceramente l'eresia,
causa delle disgrazie del suo paese. Se più volte ebbe rapporti con i catari, fu soprattutto nel
tentativo di servirsi di loro come di un'arma che poteva essergli utile a riconquistare il suo
paese.
Raimondo di Perella, signore di Montségur, era signore dei castelli di Péreille, di Laroque
d'Olmes e di Alzen (attualmente Nalzen); Montségur non era la sua unica residenza, e nemmeno
la sua preferita, considerato che nel 1204 il castello cadde in rovina. L'edificio doveva esistere
già prima che la famiglia dei Perella si insediasse nel paese, ma la sua costruzione non sembra
precedente al nono secolo. La sua struttura (o meglio il suo progetto, dato che le mura vennero
almeno in parte ricostruite nel 1204) rivela alcune conoscenze tecniche e matematiche assai rare
a quell'epoca nell'Europa occidentale, e del resto l'architettura di Montségur è unica nel suo
genere, non solo nella regione ma in tutta la Linguadoca.
La rupe, la cui cima raggiunge i 1207 metri di altezza ed è difficilmente accessibile, poteva
servire da difesa naturale; ma a prima vista sembrerebbe che il costruttore del castello abbia
seguito una cattiva ispirazione, andando a sistemarsi così lontano e così in alto. Ai nostri giorni
non mancano rovine di castelli sui picchi e sulle creste che dominano le strade più importanti, i
fiumi, i valichi; Montségur ci presenta le rovine di un castello situato in un posto che non
domina nulla e che non conduce da nessuna parte. Il costruttore deve essere stato influenzato
più dalla bellezza del luogo che dai suoi vantaggi pratici. Sappiamo che alcune chiese vennero
edificate nei posti più inverosimili - su dirupi scoscesi, su cime isolate - designati da una
qualche visione miracolosa o consacrati da tradizioni pagane cristianizzate. La scelta del sito
apparenterebbe Montségur a Rocamadour o a Saint-Michel de l'Aiguilhe; ma nella regione non
si trovano tracce di un culto che potesse giustificare la costruzione di un tempio proprio in quel
luogo. Del resto, l'architettura del castello non assomiglia a quella di un edificio religioso, ma
nemmeno a quella di un castello fortificato. Imposta dalla forma della rupe, essa pare
rispondere anche a esigenze relative all'illuminazione e all'orientamento delle mura rispetto al
sole. Ma la particolarità più strana di quest'edificio sono le sue due porte e quanto resta delle
finestre del maschio: nessun castello medievale - se si eccettuano le mura di cinta delle grandi
città - possiede porte così monumentali come la grande porta di accesso a Montségur. Essa
misura quasi due metri di larghezza e non è protetta da alcuna torre o struttura difensiva; in
questo castello imprendibile si poteva entrare come in un mulino, purché si riuscisse prima a
risalire il pendio del dirupo. Portali di questo genere erano un lusso riservato alle chiese; sia che
questa porta sia stata aperta nel 1204 sia che sia stata lasciata com'era durante la costruzione, un
dettaglio simile mostra che il castello non era considerato una struttura difensiva: la sola idea di
far aprire un portale simile ha qualcosa di insolito e pare contraria alle regole dell'architettura
medievale.
Tutte queste considerazioni spingerebbero a pensare che Montségur sia stato davvero
destinato, fin dall'origine o più tardi, all'esercizio di un culto, magari di un culto solare; ma non
si vede chi potessero essere il personaggio o i personaggi potenti che fecero innalzare, fra il
nono e il dodicesimo secolo, quest'edificio monumentale per praticarvi una religione della quale
non si trova traccia nel paese. I catari, a quanto pare, non praticavano culti solari; lo facevano
gli antichi manichei, ma è poco probabile che una setta manichea sia potuta sopravvivere tanto
a lungo nella regione. Tuttavia, se qualche sopravvivenza di tradizioni manichee poté resistere
in una zona così fuori mano e così poco frequentata, vi favorì la diffusione del catarismo:
Montségur avrebbe così beneficiato del favore degli eretici in quanto luogo di rifugio degli
antenati della loro fede. Al fatto non si diede importanza prima del 1204, visto che il castello
cadde in rovina e fu abbandonato; ma alcuni 'perfetti' vi fondarono una 'casa', come quelle che
già esistevano in altre regioni montagnose e isolate: forse scelsero il luogo per la sua bellezza e
il suo silenzio. E' molto probabile che una tradizione locale riconoscesse una qualche
importanza al castello di Montségur, considerandolo un ricordo lasciato dai 'buoni cristiani' di
un tempo. Perché, come abbiamo visto, i catari non si consideravano affatto come degli
innovatori, bensì come i custodi di una tradizione più antica di quella cattolica.
Nel 1233 Montségur cominciò ad apparire ai cattolici come la «Sinagoga di Satana» -
termine tratto dal linguaggio dei catari, che designavano così la Chiesa di Roma. Minacciata di
morte violenta, la Chiesa catara della Linguadoca si era creata spontaneamente una capitale
terrena il cui splendore faceva da contrappeso all'oscurità sempre più fitta che Roma proiettava
sul paese; e, nel momento in cui tanti credenti catari venivano mandati attraverso l'intera
Europa nei luoghi di pellegrinaggio cattolici per una misura di controllo poliziesco, i loro capi
spirituali innalzavano per loro nei Pirenei un luogo santo la cui nobiltà fosse in grado di
controbilanciare gli splendori di Roma, di Santiago de Compostela, di Notre-Dame du Puy e di
Notre-Dame di Chartres.
Il regno di Montségur fu breve. Ciononostante rappresentò il tentativo più ragguardevole
compiuto dalla Chiesa catara per imporsi in Linguadoca come Chiesa nazionale. L'Inquisizione
da sola forse non avrebbe avuto ragione di Montségur e questo luogo, divenuto tanto
rapidamente il simbolo di tutte le speranze di un popolo umiliato e braccato, forse avrebbe
potuto avere un'influenza duratura sulla storia della Linguadoca; ma la cittadella catara era
destinata a entrare nella leggenda solo dopo essere stata distrutta e abbandonata. Dell'intensa
vita di cui fu il centro restano così poche tracce che gli uomini che vi abitarono, certo eroici e
degni di ammirazione, sono per noi meno vivi delle fiamme del rogo in cui arsero.
3. LA RIVOLTA E LA SCONFITTA DI RAIMONDO SETTIMO.
Pietro Cellani e Guglielmo Arnaldo nella diocesi di Tolosa, Arnaldo Cathala e frate Ferriero
nei territori del re di Francia continuavano la loro missione con una tenacia esemplare,
malgrado la resistenza sorda che la popolazione della Linguadoca opponeva loro. La rivolta
covava sotto le ceneri. Scoppiò una prima volta nel 1240: nel mese di aprile Raimondo
Trencavel, a capo di una truppa di "faidits", di esuli e di soldati spagnoli e catalani, attraversò i
Pirenei e, dalla valle dell'Aude, penetrò nella regione di Carcassonne; Oliviero di Termes fece
insorgere le Corbières e Giordano di Saissac prese le armi nel Fenouillèdes.
Accolti come liberatori a Limoux, Alet e Montréal, i signori occitani in poche settimane si
impadronirono di tutta la regione. Pépieux, Alzille, Laure, Rieux, Caunes, Minerve aprirono
loro le porte; Montoulieu, che resisteva, fu presa d'assalto e la guarnigione venne massacrata.
Carcassonne, dove il siniscalco Guglielmo di Ormes si era rinchiuso con l'arcivescovo Pietro
Amiel e con il vescovo di Tolosa, fu assalita il 7 settembre dalle truppe del Trencavel, che
penetrarono nel borgo dove vennero accolte con gioia; la rivolta era diretta contro i Francesi ma
anche contro la Chiesa, tanto che trentatré sacerdoti catturati nel borgo vennero massacrati dalla
popolazione, malgrado il salvacondotto loro dato dal visconte. L'assedio durò oltre un mese.
Malgrado i vigorosi attacchi del Trencavel che tentava di piegarla grazie all'opera degli
zappatori e al tiro delle macchine da guerra, la città resisteva. L'11 ottobre, l'approssimarsi di
un'armata reale sotto il comando di Giovanni di Beaumont costrinse gli assedianti a levare il
campo; le truppe del Trencavel e parte degli abitanti del borgo lasciarono Carcassonne dopo
avere saccheggiato il convento dei Frati Predicatori e l'abbazia di Notre-Dame, e dopo aver
appiccato il fuoco a vari quartieri.
Ritiratosi a Montréal e a sua volta assediato, Raimondo Trencavel si vide costretto a trattare.
Il conte di Tolosa non si era mosso; attendeva gli sviluppi della situazione. Quando Pietro
Amiel e Raimondo di Fauga gli avevano intimato di andare in aiuto al siniscalco, secondo gli
accordi di Meaux, aveva chiesto di poter riflettere. Non si era spinto fino a rivoltarsi anche lui,
per andare in aiuto a suo cugino: aspettava un'occasione più favorevole. D'accordo con il conte
di Foix, si intromise fra i rappresentanti del re di Francia per negoziare una pace onorevole per
Raimondo Trencavel, che fu autorizzato a ripartire per la Spagna, con armi e bagagli.
Le città che si erano sollevate furono punite severamente: il borgo di Carcassonne fu
completamente incendiato; Limoux, Montréal e Montoulieu vennero saccheggiate; le altre città
pagarono pesanti tributi. L'armata reale risalì verso le Corbières e ottenne la sottomissione dei
signori di Pierrepertuse e di Cucugnan, poi quella dei signori di Niort.
Raimondo Settimo, il cui atteggiamento durante la rivolta era parso ai Francesi più che
equivoco, fu costretto a tornare a Parigi per rinnovare i suoi giuramenti di fedeltà al giovane re
Luigi Nono, che aveva allora venticinque anni. Giurò di muovere guerra a tutti i nemici del re,
di cacciare gli eretici e i "faidits", di prendere e distruggere Montségur. Per di più il conte diede
prova di lealtà facendo la pace con il conte di Provenza, che aveva attaccato per favorire la
politica dell'imperatore Federico Secondo, nemico giurato del papato.
Evidentemente in quel momento Raimondo Settimo non aveva alcuna intenzione di rompere
con il re e voleva cancellare l'imbarazzante impressione prodotta dalla rivolta del Trencavel.
Questa rivolta era arrivata troppo presto; e si deve credere che gli anni e le disgrazie non
avessero ancora eliminato la vecchia rivalità fra i conti di Tolosa e i Trencavel: il giovane
Raimondo non aveva consultato suo cugino, che a sua volta non l'aveva appoggiato. Ma è vero
che egli stava preparando un'operazione di grande importanza, la cui ora non era ancora
scoccata.
Raimondo Settimo aveva rinunciato alla speranza di riconquistare la sua indipendenza
tramite una resistenza locale condannata in partenza all'insuccesso: aveva già fatto tutto il
possibile in questa direzione, e la sua vittoria sulle truppe del Montfort l'aveva portato al trattato
di Meaux. Solo indebolendo in modo durevole la potenza del re di Francia poteva restituire al
suo paese la libertà e la prosperità; ma non aveva alcuna possibilità di farcela da solo. Perciò
egli progettava disegni politici più ampi: Raimondo Trencavel e Oliviero di Termes non erano
certo in grado di cacciare i Francesi; solo il re d'Inghilterra, l'imperatore di Germania e una lega
di grandi vassalli, in caso di vittoria, avrebbero potuto dettare le loro condizioni al re di Francia.
Per sviare i sospetti del papa e del re il conte di Tolosa era pronto a ogni atto di sottomissione, a
ogni manifestazione di ortodossia; del resto i sovrani di cui cercava l'alleanza erano tutti
cattolici, e quindi non aveva alcuna intenzione di passare per il protettore degli eretici.
Per di più, Raimondo Settimo voleva avere dal papa due favori importanti: il permesso di
seppellire suo padre e quello di ripudiare sua moglie. In effetti era vano scrollarsi di dosso il
giogo dei Francesi se, comunque, la Linguadoca, dopo la sua morte, sarebbe automaticamente
caduta nelle mani del re di Francia per diritto ereditario. Ora, Raimondo non era ancora riuscito
a separarsi dalla moglie, sterile da vent'anni: il papa si guardava bene dall'autorizzare un
divorzio che avrebbe nuociuto ai disegni del re di Francia. Per compiacere al papa, il conte
sacrificò la sua alleanza con l'imperatore (non a lungo, come vedremo) e si trovò in condizioni
migliori per procedere all'annullamento del matrimonio; tanto più che era sostenuto da
Giacomo Primo, nipote della contessa. Raimondo pretendeva di aver scoperto, dopo
venticinque anni di matrimonio, che suo padre Raimondo Sesto era stato uno dei padrini della
principessa Sancia, e che quindi si trovava a essere il marito di una figlioccia di suo padre.
Produsse dei testimoni e il matrimonio fu finalmente dichiarato nullo, con grande indignazione
del vescovo di Tolosa e, soprattutto, di Alfonso di Poitiers e di sua moglie Giovanna, la figlia di
Raimondo Settimo.
Sbarazzatosi della moglie, il conte di Tolosa diventava un buonissimo partito per le figlie dei
feudatari del Mezzogiorno della Francia. Raimondo Berengario, conte di Provenza (figlio di
Alfonso, fratello cadetto di Pietro Secondo d'Aragona), dopo aver ricercato l'appoggio del re di
Francia per proteggersi dalle pretese dell'imperatore, cercava in quel momento il modo per
sbarazzarsi della tutela francese; dopo avergli mosso guerra, nel 1239, per favorire gli interessi
dell'imperatore, Raimondo Settimo gli propose la pace, ottenendo un doppio risultato: da un
lato dava soddisfazione ai desideri del papa, dall'altro si acquistava un alleato per la futura lotta
contro il re di Francia. Raimondo Berengario aveva solo figlie; la maggiore aveva sposato Luigi
Nono, la minore Enrico Terzo d'Inghilterra; ne restavano due da sistemare. Come Raimondo
Settimo, il conte di Provenza non era intenzionato a lasciare i suoi domini in eredità al re di
Francia: dieci anni di dominio francese nel Carcassès e nell'Albigeois dovevano aver
ampiamente istruito i signori meridionali sulla sorte che spettava ai loro paesi in caso di
occupazione reale. Raimondo Berengario scelse come suo terzo genero il conte di Tolosa, nella
speranza di fondare, con lui e con suo cugino Giacomo Primo d'Aragona, una lega di baroni
meridionali abbastanza potente da piegare l'autorità reale. Per Raimondo Settimo il matrimonio
era questione vitale, perché solo un erede maschio poteva, malgrado le clausole del trattato di
Meaux, salvaguardare l'indipendenza della sua terra.
Nel 1241 il conte aveva quarantaquattro anni; non c'era ragione di supporre che non potesse
più avere discendenti, e questa circostanza poteva compromettere, per la Francia, i vantaggi del
trattato di Meaux. A meno di andare a cercare una moglie in Danimarca, nessun principe
europeo poteva sposarsi senza una dispensa del Santo Padre, e le famiglie dei grandi baroni
meridionali erano tutte legate da vincoli di parentela: Raimondo Settimo si trovava a essere
parente acquisito delle figlie di Raimondo Berengario delle quali (ironia della sorte) la sua
sposa ripudiata era prozia. La dispensa non sembrava difficile da ottenere, e il re Giacomo
Primo d'Aragona rappresentò a Aix il conte di Tolosa nel suo matrimonio per procura con
Sancia, terzogenita del conte di Provenza. Era destino che questo matrimonio non venisse
consumato: Gregorio Nono morì il 21 agosto 1241, e il suo successore Celestino Quarto non
ebbe il tempo di occuparsi della dispensa: il suo pontificato durò solo quattro settimane. Dopo
la sua morte (ottobre 1241) il seggio pontificio rimase vacante per venti mesi e il conte di
Provenza, certo nella convinzione che questa dispensa che tardava troppo non sarebbe mai
arrivata, sposò sua figlia a Riccardo, fratello del re d'Inghilterra.
Il conte di Tolosa doveva cercarsi un nuovo suocero: scelse Ugo di Lusignano, conte della
Marca. Anche in questo caso era necessaria una dispensa: Margherita della Marca, la figlia di
Ugo, e Raimondo Settimo erano parenti di quarto grado, discendendo entrambi da Luigi Sesto il
Grosso. Per motivi differenti nemmeno questa dispensa sarebbe mai stata concessa.
Ugo di Lusignano, signore del Poitou, spinto da sua moglie Isabella d'Angoulême, vedova
di Giovanni Senzaterra, cercava anche lui degli alleati contro il re di Francia. Nel 1242 il
giovane Luigi Nono assistette alla formazione di una lega contro di lui alla quale, più o meno
apertamente, presero parte il duca di Bretagna, Pietro Mauclerc, il conte di Tolosa, il conte della
Marca e il conte di Provenza, sostenuti da un lato dal re d'Inghilterra, Enrico Terzo, dall'altro da
Giacomo Primo d'Aragona. La coalizione, in apparenza potente, non era né unita né organizzata
quanto sarebbe stato necessario per sconfiggere la giovane e combattiva monarchia francese.
Abbiamo visto che sul piano militare i Francesi del nord avevano un'incontestabile superiorità
sui meridionali; e la rapida sconfitta di Raimondo Trencavel aveva mostrato che anche in un
paese nemico e con truppe numericamente modeste, i Francesi finivano sempre per avere il
sopravvento. La speranza di Raimondo Settimo - accerchiare i domini del re di Francia e
colpirlo contemporaneamente su più fronti - sarebbe stata realizzabile se tutti i suoi alleati
avessero condiviso il suo desiderio di muovere guerra al re di Francia.
Il più interessato di tutti, il conte di Tolosa, era anche il più debole: le guarnigioni reali erano
a poche decine di chilometri dalla sua capitale, le sue piazzeforti erano state smantellate e il
controllo dell'autorità reale e della Chiesa su di lui era incessante. Passando dalla Provenza al
Poitou, dal Poitou alla Spagna, Raimondo Settimo aveva consacrato gli anni 1240-42 a
un'intensa attività diplomatica, prendendo peraltro ogni precauzione per non destare i sospetti di
Bianca di Castiglia: il 19 e il 26 aprile 1241 firmò con il re d'Aragona un trattato di alleanza che
aveva per scopo la difesa dell'ortodossia cattolica e della Santa Sede. Poi concluse un'alleanza
difensiva e offensiva con Ugo di Lusignano, quindi ottenne l'adesione dei re di Navarra, di
Castiglia e d'Aragona, e in seguito di Federico Secondo. Non si può dire che abbia mancato di
buona volontà e nemmeno di abilità; ma la sua sorte, in questo modo, dipendeva, più che da lui,
dai suoi alleati, per i quali la sconfitta della Francia non era una questione vitale.
Di ritorno dall'Aragona e in cammino verso il Poitou, a Penne, nell'Agenais, Raimondo fu
colpito da una malattia così grave che lo si dette per morto (14 marzo 1242). Questa malattia
arrivava nel momento meno opportuno: il conte della Marca non attese la guarigione del suo
alleato per denunciare il legame di vassallaggio con il re di Francia. Appena ristabilito, all'inizio
di aprile, Raimondo Settimo convocò in fretta i suoi vassalli per assicurarsi della loro fedeltà;
tutti giurarono di sostenerlo sino alla fine: Bernardo, conte di Armagnac, Bernardo, conte di
Comminges, Ugo, conte di Rodez, Ruggero Quarto, conte di Foix, i visconti di Narbonne, di
Lautrec, di Lomagne si impegnarono ad aiutarlo nella lotta contro il re di Francia. Era la
dichiarazione di guerra.
Il giovane Luigi Nono, senza perdere tempo, si precipitò con il suo esercito nel Saintonge,
dove schiacciò le truppe del conte della Marca. La guerra iniziava male. Contando sulla forza
del re d'Inghilterra e degli altri alleati, Raimondo Settimo non pensò nemmeno a fare marcia
indietro: sapeva che non avrebbe avuto una seconda occasione. Ma la rapidità della decisione
reale aveva già compromesso il successo dell'impresa; e i vassalli del conte, sempre pronti a
battersi per le loro terre, non avevano voglia di andare in soccorso di Ugo di Lusignano.
Lo spirito di rivolta, che covava nel popolo come un fuoco sotto la cenere, esplose
improvvisamente alla notizia della guerra che si preparava. Fu il segnale per il massacro di
Avignonet.
Secondo la deposizione delle persone che parteciparono direttamente alla vicenda, il
massacro venne deciso dietro diretta istigazione del conte di Tolosa. Ecco il racconto che Fays
di Plaigne, moglie di Guglielmo di Plaigne, fece agli inquisitori: «Guglielmo e Pietro Raimondo
di Plaigne, due cavalieri della guarnigione di Montségur, si trovavano nel castello di Bram
quando un certo Giordano di Mas giunse per dire a Guglielmo che Raimondo d'Alfaro lo
attendeva nel bosco di Antioche. Raimondo d'Alfaro era vicario di Raimondo Settimo e balivo
del castello di Avignonet. Guglielmo di Plaigne incontrò Raimondo d'Alfaro nel luogo indicato,
e il balivo, dopo avergli fatto giurare di mantenere il segreto, gli disse: 'Il mio signore, il conte
di Tolosa, non può spostarsi, nemmeno Pietro di Mazerolles o gli altri cavalieri disponibili
possono farlo. Ora bisogna uccidere Guglielmo Arnaldo e i suoi compagni. Chiedo a Pietro
Ruggero di Mirepoix e a tutti gli uomini d'armi di Montségur di venire al castello di Avignonet,
dove attualmente si trovano gli inquisitori; porterò comunque alcune lettere per Pietro Ruggero.
Fai in fretta: in compenso avrai il miglior cavallo che troveremo ad Avignonet, dopo la morte
degli inquisitori' (6)».
Questa testimonianza chiama in causa in modo del tutto esplicito il conte di Tolosa. Che
Fays di Plaigne abbia fatto una simile deposizione per alleviare in parte le responsabilità dei
suoi? Il primo responsabile diretto, in ogni caso, fu Raimondo d'Alfaro, che convocò gli uomini
di Montségur, rendendo possibile l'assassinio. E' dubbio che abbia potuto agire di sua iniziativa,
o almeno senza essere certo dell'approvazione di Raimondo Settimo; al di là del suo titolo di
balivo, egli era molto legato al conte, che era suo zio (Raimondo d'Alfaro era figlio di
Guglielmina, figlia naturale di Raimondo Sesto). Malgrado il suo odio verso gli inquisitori, il
conte non poteva incaricare i suoi cavalieri di un simile atto di violenza; i cavalieri di
Montségur non erano suoi sudditi, ma dei ribelli dichiarati, che per di più risiedevano in un
luogo ritenuto imprendibile.
Quella che il conte imponeva ai cavalieri di Montségur non era del resto una corvé, bensì
una fortuna e un favore insperati, una festa; quegli uomini corsero al macabro incontro con
l'impazienza di un innamorato ansioso di rivedere la sua bella. Guglielmo di Plaigne galoppò a
briglia sciolta fino a Montségur per annunciare la buona notizia a Pietro Ruggero di Mirepoix,
comandante della guarnigione; questi raccolse subito i suoi cavalieri e i suoi sergenti d'armi,
dicendo loro: «Preparatevi. Si tratta di una faccenda molto importante, che ci recherà un gran
vantaggio! (7)».
Erano una sessantina, ossia circa la metà della guarnigione di Montségur, quindici cavalieri e
quarantadue sergenti d'armi; appartenevano tutti alla piccola nobiltà della regione, i Massabrac,
i Congost, i Plaigne, gli uomini di Montferrier, di Arzeus, di Laroque d'Olmes, di Castelbon, di
Saint-Martin-la-Lande eccetera - tutti credenti catari da due o tre generazioni, considerato che
per lo più erano giovani. Possiamo credere che Pietro Ruggero di Mirepoix abbia nascosto ai
'perfetti' lo scopo della spedizione? Si sarebbe arrischiato a prendere una simile responsabilità
senza consultare il capo della comunità, il vescovo Bertrando Marty? Forse i 'buonuomini' non
frequentavano le sale d'armi, ma dovevano seguire con ardore quanto accadeva all'esterno, dato
che si spostavano di continuo e mantenevano regolari rapporti con i credenti dei dintorni. La
missione della quale Raimondo d'Alfaro aveva incaricato gli uomini di Montségur era contraria
alla carità cristiana, ma non c'è motivo di credere che Bertrando Marty e i suoi compagni
l'abbiano disapprovata.
Guglielmo Arnaldo era impegnato in un nuovo viaggio inquisitoriale, accompagnato dal
francescano Stefano di Saint-Thibery, affiancatogli dal papa Innocenzo Quarto per dare
soddisfazione alle richieste del conte di Tolosa. I due inquisitori erano assistiti nelle loro
funzioni da due domenicani, Garcia d'Aure e Bernardo di Roquefort, da un francescano,
confratello di Stefano di Saint-Thibery, da Raimondo Carbonier, consigliere del tribunale,
rappresentante dell'autorità episcopale, da Raimondo Costiran, detto Raimondo lo Scrittore, un
trovatore divenuto arcidiacono di Lézat (dieci anni prima egli aveva preso le difese di Bernardo
Ottone di Niort in occasione del suo processo) e da quattro domestici.
Situata in pieno Lauraguais, ai confini del territorio del conte di Tolosa, Avignonet aveva
fama di essere rifugio di eretici; tutti i paesi dei dintorni - Cassés, La Bessède, Laurac, Sorèze,
Saissac, Saint-Félix - erano di antica tradizione eretica, e Guglielmo Arnaldo e i suoi compagni
dovettero avere un certo coraggio per impiantarvi un tribunale dell'Inquisizione proprio nel
momento in cui il conte di Tolosa aveva dichiarato guerra al re di Francia. Viaggiarono a
cavallo, senza scorta, e si insediarono negli alloggi che le autorità locali misero a loro
disposizione.
Giunsero ad Avignonet la vigilia dell'Ascensione e furono ricevuti da Raimondo d'Alfaro
che, in quanto balivo del conte, diede loro alloggio nel palazzo di proprietà del conte di Tolosa.
Li ricevette con la gioia che si può immaginare, e già sappiamo che non perse tempo per
informare del loro arrivo chi di dovere. Gli uomini di Montségur, dal canto loro, dopo una
buona cavalcata (fra Avignonet e Montségur ci sono sessanta chilometri in linea d'aria, e quasi
cento di strada), si fermarono a Gaja, dove furono accolti nella casa di Bernardo di Saint-Martin
e dove furono raggiunti da un altro gruppo formato da Pietro di Mazerolles, Giordano di Vilar e
da parecchi sergenti; presso la località di Mas Saintes Puelles si aggiunse anche Giordano di
Mas; non era più necessario mantenere il segreto, il solo fatto di sapere che gli inquisitori erano
a portata di armi trasformava gli uomini del paese in congiurati.
Quando questa truppa si fermò alla casa dei lebbrosi, all'uscita di Avignonet, venne loro
incontro un messaggero di Raimondo d'Alfaro, chiedendo se erano muniti di asce. Ne erano
state preparate dodici ed erano stati scelti i dodici uomini - otto di Gaja e quattro di Montségur -
che avrebbero aperto la strada. A notte fonda i congiurati furono condotti entro Avignonet, dove
Raimondo d'Alfaro, «vestito di una giubba bianca», li ricevette e, alla luce delle fiaccole, li
condusse attraverso i corridoi del palazzo fino alla porta dietro la quale dormivano gli
inquisitori. Il balivo era accompagnato da una quindicina di abitanti di Avignonet che avevano
voluto partecipare anche loro al complotto.
La porta fu abbattuta a colpi d'ascia e i sette frati, svegliati di soprassalto, capirono di essere
caduti in trappola e si inginocchiarono per intonare il "Salve Regina"; non fu lasciato loro il
tempo di finire, Raimondo d'Alfaro si lanciò in avanti, dicendo «Va be, esta be» (Va bene, va
bene); i suoi compagni si disputarono l'onore di menare i primi colpi. Il solo fatto che parecchi
congiurati si vantarono poi di aver inflitto dei colpi mortali può darci un'idea di che cosa sia
stata questa carneficina. Le teste dei monaci vennero fracassate con le asce e le mazze, i loro
corpi vennero trafitti da innumerevoli colpi di lancia e di pugnale; molti, senza dubbio,
poterono solo infierire sui cadaveri.
Seguì la spartizione del bottino: i registri degli inquisitori, i pochi oggetti di valore che
portavano con sé nei loro viaggi. Non era molto: alcuni libri, un candeliere, una scatola di
zenzero, qualche suppellettile d'argento, vestiti, coperte, scapolari, coltelli. Di fronte all'avidità
con la quale questi uomini, che senza essere ricchi non erano dei miserabili, si lanciarono su
questi oggetti di modesto valore, in una stanza coperta di cadaveri sfigurati e sanguinanti, viene
da pensare più a una distribuzione di trofei che a un saccheggio. Quei congiurati che non
avevano partecipato al massacro si unirono agli altri, ognuno voleva la sua parte.
Poi Raimondo d'Alfaro fece dare ai congiurati candele e fiaccole, e il corteo uscì di città per
tornare alla casa dei lebbrosi, dove attendeva il resto della truppa. Guglielmo di Plaigne, come
promesso, montava «il miglior cavallo»: quello di Raimondo lo Scrivano. Il balivo di Avignonet
si congedò dai suoi complici dicendo: «Tutto è stato fatto come si doveva. Andate, e la fortuna
sia con voi». Quindi rientrò in città per gridare la chiamata alle armi: la fiaccolata che
annunciava la morte degli inquisitori diede il segnale della rivolta.
Pietro Ruggero di Mirepoix aspettava i suoi uomini nella foresta di Antioche. Essi
arrivarono, con i cavalli carichi del bottino; sette uomini (Pons di Capelle, P. e G. Laurens,
Pietro di Mazerolles, Pietro Vidal, Guglielmo di La Ilhe, Guglielmo Acermat) si vantarono di
aver inflitto colpi mortali agli inquisitori. Pietro Ruggero, quando apparve Guglielmo Acermat,
gli gridò: «Traditore, dov'è dunque la coppa di Arnaldo? - E' stata fatta a pezzi - E perché non
me li hai portati? Li avrei ricomposti con un filo d'oro, e avrei bevuto vino tutta la vita in questa
coppa». La «coppa» in questione altro non era che il teschio di Guglielmo Arnaldo (8).
La mattina del giorno dell'Ascensione la truppa arrivò a Saint-Félix. La grande notizia si era
già diffusa per il paese: il curato del luogo, alla testa dei suoi parrocchiani, venne a felicitarsi
con gli assassini, che entrarono nel borgo fra le acclamazioni della folla. Il conte di Tolosa
diede allora inizio alla guerra di liberazione. All'indomani del massacro di Avignonet, Pietro
Ruggero di Mirepoix inviò due sergenti d'armi a Isarn di Fanjeaux per chiedere se la campagna
del conte procedeva bene. In effetti le cose andavano bene: con l'aiuto di Raimondo Trencavel,
Raimondo Settimo in tre mesi riuscì a impadronirsi del Razès, del Termenès e del Minervois, e
a entrare da trionfatore a Narbonne, consegnatagli dal visconte Emerico; per sottolineare
l'annullamento del trattato di Parigi, Raimondo riprese solennemente il suo titolo di duca di
Narbonne (9). Per un momento gli Occitani poterono credere che la liberazione fosse arrivata.
L'assassinio di Guglielmo Arnaldo e dei suoi compagni non fu né una vittoria militare né un
atto eroico; anzi, se ci si limita ai soli fatti, fu una vicenda abbastanza squallida. Meno
squallida, tutto sommato, dei roghi accesi nel nome di Cristo; ma in quanto atti della giustizia
legale questi ultimi beneficiavano di un pregiudizio favorevole, talvolta persino agli occhi di
quanti li condannavano. Anche il massacro di Avignonet era stato un atto di giustizia: di quella
giustizia popolare che finisce per avere ragione delle leggi, dei poteri e del tempo. La Chiesa
non annoverò Guglielmo Arnaldo tra i martiri, e gli assassini, malgrado il definitivo trionfo
dell'Inquisizione, rimasero impuniti.
La rivolta di Raimondo Settimo si risolse in un fallimento. Indubbiamente il conte aveva
sottovalutato l'energia e il talento militare dei capi francesi, e aveva sopravvalutato la forza dei
suoi alleati; errore scusabilissimo, dato che la situazione nella quale si trovava era così
tremenda da indurlo a scambiare le sue speranze per realtà. Il tempo lavorava per il re di
Francia, il cui dominio sulla Linguadoca orientale aveva progressivamente indebolito le
capacità di resistenza del paese tramite un controllo sempre più stretto, l'aumento del numero
dei funzionari e dei cavalieri francesi, il depauperamento della borghesia e l'eliminazione della
nobiltà locale.
Non avendo figli, Raimondo Settimo era per i suoi alleati un fragile sostegno sul quale non
bisognava rischiare di appoggiarsi più di tanto: la contea di Tolosa non veniva più considerata
un paese nemico o amico, e nemmeno una zona d'influenza; veniva identificata con la persona
assai fragile del conte, che difficilmente sarebbe vissuto abbastanza a lungo per vedere suo
figlio, non ancora nato, diventare uomo e tenere testa al re di Francia.
Dopo Ugo di Lusignano, anche Enrico Terzo venne sconfitto a Taillebourg dall'esercito
francese, e ripiegò su Bordeaux. Il re d'Aragona e il conte di Provenza non erano impazienti di
appoggiare alleati tanto sfortunati; e i vassalli del conte di Tolosa, avendo capito che la partita
era persa, pensavano solo a evitare il ritorno dell'esercito reale sulle loro terre. Mentre
Raimondo Settimo, dopo aver firmato un nuovo trattato di alleanza con il re d'Inghilterra, si
recava nell'Agenais per assediare il castello di Penne tenuto dai Francesi, Ruggero Quarto di
Foix offriva la sua sottomissione al re, rompendo definitivamente il legame di vassallaggio con
il conte di Tolosa.
Vistosi abbandonato da tutti, Raimondo Settimo non poté far altro che sottomettersi, facendo
appello alla mediazione della regina madre Bianca di Castiglia; come pegno della sua
sottomissione consegnò al re Bram, Saverdun e l'intero Lauraguais e, il 30 ottobre 1242, firmò
la pace a Lorris.
La rivolta era finita: finita così bene che il re non ritenne nemmeno opportuno punire con
severità quei vassalli che avevano preso le armi contro di lui, rompendo il giuramento di
fedeltà. Nel gennaio 1243 i conti di Foix e di Tolosa si recarono a Parigi per rinnovare il loro
omaggio alla corona. Secondo Guglielmo di Puylaurens il conte dovette a Bianca di Castiglia le
condizioni relativamente miti del nuovo trattato di pace; la reggente non aveva alcun interesse a
impoverire dei territori che sarebbero passati a suo figlio. Il miglior modo per rendere
inoffensivo il conte di Tolosa era ancora di impedirgli di risposarsi, e negli anni seguenti Bianca
di Castiglia si impegnò in questa direzione, con successo. Nel frattempo, Raimondo Settimo
promise - una volta di più - di estirpare definitivamente l'eresia dalle sue terre. Bianca era molto
attenta alle questioni di fede e il conte, per parte sua, non chiedeva di meglio che perseguitare
gli eretici, purché glielo si lasciasse fare di persona. Non potendo eliminare il re di Francia,
voleva almeno provare a liberarsi dell'Inquisizione.
Appena tornato in Linguadoca il conte, che pure era ancora sotto la scomunica lanciatagli da
frate Ferriero in seguito all'assassinio degli inquisitori e dall'arcivescovo Pietro Amiel dopo la
sua entrata a Narbonne, convocò un concilio, cui parteciparono in particolare i vescovi e gli
abati del paese. Scopo del concilio era l'eliminazione dell'eresia: lo presiedeva l'arcivescovo di
Narbonne in persona (10). Ma per il conte il vero scopo del concilio era l'eliminazione degli
inquisitori a vantaggio della giustizia episcopale.
A questa manovra diretta ben più contro di loro che contro gli eretici, i domenicani risposero
con un'iniziativa che, se fosse andata a buon fine, avrebbe realizzato i desideri del conte di
Tolosa: chiesero al papa di togliere loro le funzioni inquisitoriali, che erano causa di fastidi e
dell'ostilità nei loro confronti. E' vero che molti domenicani che non lavoravano per
l'Inquisizione avevano pagato l'impopolarità dei loro confratelli, perché i loro conventi
venivano attaccati e saccheggiati in molte città. Ma, d'altra parte, il destino di Guglielmo
Arnaldo non era sufficiente a scoraggiare i capi del movimento, uomini poco sensibili alla
paura, come a molti altri sentimenti umani; doveva semmai stimolare la loro energia. Per quale
ragione questi tremendi combattenti pensarono di abbandonare la partita, quando l'avversario
era quasi sconfitto e il re di Francia celebrava il suo trionfo? Essi tenevano soprattutto a far
capire al papa fino a che punto la loro azione fosse temuta, quindi efficace. Trascurando la loro
richiesta, Innocenzo Quarto confermò loro tutti i poteri, senza sottometterli minimamente alla
giurisdizione episcopale; per parte loro, i Frati Predicatori, nell'intento di disarmare quei
vescovi che avrebbero potuto essere loro ostili, attribuirono loro un posto importante nella
procedura dei loro tribunali; era però una concessione puramente onorifica, perché l'autorità
suprema in materia di eresia restava sempre all'Inquisizione domenicana, "de auctoritate
apostolica".
Il tentativo del conte non ebbe dunque successo. D'altronde la sua scomunica non era stata
ancora tolta, e si pretendevano da lui atti, non parole. Al concilio di Béziers, nel 1243, i prelati
della Linguadoca decisero di farla finita con Montségur (che il conte aveva già tentato di
prendere, senza molta convinzione), il rifugio degli assassini di Guglielmo Arnaldo. La rivolta e
la sconfitta del conte costringevano la Chiesa e il re di Francia a una maggiore severità;
Raimondo Settimo, sconfitto, cercava solo di limitare i danni, sacrificando quei suoi sudditi che
non poteva più difendere senza rompere con quanti l'avevano vinto e con i suoi eventuali
alleati.
Ugo di Arcis, nuovo siniscalco di Carcassonne, e Pietro Amiel, arcivescovo di Narbonne,
decisero quindi di radunare un'armata sufficiente ad assediare quella famosa fortezza che le
voci popolari designavano come il quartier generale dell'eresia. Nell'aprile del 1243, dopo che
l'ultimo tentativo di rivolta armata in Linguadoca era stato battuto, in un'atmosfera di generale
sfiducia nella quale ciascuno pensava esclusivamente a salvare se stesso, Montségur, isolata e
nell'impossibilità di trattare, si trovava destinata - a dispetto della volontà dei suoi difensori - a
svolgere il ruolo di capro espiatorio della resistenza occitana.
Il giorno in cui Raimondo di Perella aveva accettato di fare del suo castello la sede ufficiale
della sua Chiesa aveva previsto il pericolo cui si esponeva; scomunicato e condannato a morte
in contumacia, sapeva che non poteva attendersi altro aiuto che quello dato dalla solidità delle
sue mura. Ma non aveva previsto che un giorno il papa e il re di Francia avrebbero fatto della
sua modesta cittadella il simbolo dell'eresia pronta a divorare la Chiesa.
NOTE.
(1) Doat, t. 23, 2-39.
(2) Non pare, malgrado l'affermazione dell'anonimo traduttore della "Chanson", che il
castello fosse stato preso dai crociati. Nel 1212 Guido di Montfort aveva preso Lavelanet e
aveva saccheggiato i dintorni, forse bruciando il villaggio di Montségur.
(3) "Chanson de la Croisade", cap. 145, 3265.
(4) Era nato nel 1207.
(5) Op. cit., edizione del 1879, t. 6, p. 768.
(6) Racconto fatto da Fays di Plaigne a frate Ferriero il 18 marzo 1244. Doat, t. 22, p.p.
293v-294v.
(7) Doat, t. 22, p.p. 293v-295v.
(8) Ivi, p. 287.
(9) 8 agosto 1242.
(10) Béziers, 15 aprile 1243.
Capitolo dodicesimo

L'ASSEDIO DI MONTSEGUR.
Nel maggio 1243 Ugo di Arcis, con un'armata di cavalieri e di sergenti francesi, piantò le
sue tende ai piedi della rocca di Montségur: avrebbe ricevuto rinforzi, perché circondare un
monte di quelle dimensioni richiedeva un numero considerevole di effettivi. Questa piazzaforte
tanto alta sembrava conquistabile solo riducendola alla fame e alla sete. Bisognava
semplicemente impedire ogni comunicazione con l'esterno, e aspettare che il sole estivo
vuotasse le cisterne. Nel castello e nei baraccamenti accatastatisi sotto le sue mura risiedevano
parecchie centinaia di persone: la guarnigione (fra i centoventi e i centocinquanta uomini), le
famiglie dei signori e dei soldati, e gli eretici propriamente detti, che dovevano essere circa
duecento, fra uomini e donne.
1. L'ASSEDIO.
L'assedio era destinato a durare molto più a lungo di tutti quelli guidati da Simone di
Montfort, se si eccettua quello di Tolosa, la cui situazione è difficilmente paragonabile a quella
di Montségur. Carcassonne aveva retto quindici giorni, Minerve e Termes quattro mesi, Lavaur
due mesi, Penne d'Agenais poco meno, Montgaillard sei settimane, e così via. Tutte queste
località erano ben più forti di Montségur, dal punto di vista militare. Castelli come Termes e
Minerve possedevano anche delle difese naturali che li rendevano imprendibili; erano stati
piegati per sete. Montségur, considerate le sue dimensioni esigue, era sovrappopolata come
nessun altro castello (con l'eccezione di Carcassonne) era mai stato durante un assedio.
A rigor di logica avrebbe dovuto capitolare alla fine dell'estate, ma resse abbastanza da
aspettare il ritorno delle piogge; gli assedianti non potevano più contare sulla mancanza
d'acqua.
Neppure potevano contare sulla fame: i doni abbondanti di credenti ricchi e poveri avevano
fatto di Montségur un immenso deposito di viveri. L'eventualità di un assedio era sempre stata
tenuta in considerazione, e se nel 1235 i credenti organizzarono collette perché i 'buonuomini'
di Montségur non avevano nulla da mangiare, nel 1243 non esistevano problemi di
vettovagliamento: le offerte affluivano, il piccolo villaggio ai piedi della rocca era divenuto un
mercato cui affluivano tutti i commercianti dei dintorni; convogli di grano venivano inviati
verso Montségur dalle regioni di Tolosa e di Carcassonne. L'assassinio degli inquisitori aveva
ulteriormente accresciuto il prestigio della cittadella catara, divenuta il rifugio degli eroi della
libertà. Durante l'assedio il castello continuava a ricevere rifornimenti da sostenitori che
giungevano dal di fuori e riuscivano a forzare il blocco dell'armata assediante, portando fin
sulla cima della rocca considerevoli quantità di grano.
La guarnigione riceveva il soccorso di forze fresche; uomini devoti alla causa catara
traversavano di notte le linee nemiche per arrampicarsi fino al castello e unirsi ai difensori. Per
tutta la durata dell'assedio, le comunicazioni con l'esterno continuarono: era difficile circondare
completamente la montagna di Montségur, una lunga, larga, scoscesa, enorme cascata di
blocchi calcarei, culminante con un dirupo spoglio che scendeva quasi a picco nella valle.
L'esercito assediante, i cui effettivi salirono forse fino a diecimila, non era in grado di
controllare notte e giorno tutti i sentieri e i passi di montagna attraverso i quali gli assediati
entravano, uscivano, portavano amici, provviste, notizie dall'esterno. In effetti, la difficoltà
dell'assedio stava tanto nell'instancabile ed entusiastica complicità con gli assediati da parte
della popolazione della zona, quanto nelle meravigliose difese naturali della fortezza.
Presentandosi ai piedi di quella formidabile rocca dalla cui cima il castello sembrava sfidare
gli avversari, in un primo tempo l'esercito di Ugo di Arcis installò il campo al colle di
Tremblement, impedendo così agli assediati l'accesso più comodo verso la valle, e occupò il
villaggio; non poteva fare molto di più, non restava che aspettare i rinforzi. L'arcivescovo di
Narbonne inviò infatti milizie reclutate fra i borghesi e le classi popolari.
Non abbiamo nessuna informazione precisa sul numero dei cavalieri francesi portati dal
siniscalco: probabilmente si trattava di svariate centinaia, perché Ugo di Arcis si era preparato a
un assedio impegnativo e doveva avere mobilitato buona parte degli effettivi militari di cui
disponeva. Per di più le recenti sconfitte del Trencavel e di Raimondo Settimo lasciavano mano
libera ai Francesi; la loro cavalleria, che non aveva partecipato alle campagne di Simone di
Montfort, non aveva certo l'esperienza necessaria a combattere in una regione montuosa, ma era
solida e disciplinata, capace di logorare l'avversario nel caso in cui la scalata del "pog" si
dimostrasse impossibile. Ma evidentemente i Francesi, pur considerando i loro scudieri e
sergenti, non erano abbastanza numerosi. Le milizie reclutate sul posto, più consistenti, erano
composte per lo più da fanti che, per imposizione dell'arcivescovo, città e borghi
equipaggiavano e inviavano a loro spese; molti non erano nemmeno soldati di professione. La
maggior parte di costoro non doveva avere una gran voglia di combattere contro dei compatrioti
e prestava servizio a malincuore. Formavano i distaccamenti che circondavano la montagna e
controllavano le strade, i passi, le gole; per l'intera durata dell'assedio, malgrado gli sforzi
dell'arcivescovo, ci furono diserzioni e, beninteso, una passiva complicità con gli assediati.
Questi ultimi spesso attraversavano le linee, talvolta in gruppi numerosi; il blocco della
montagna sul quale Ugo di Arcis contava per piegare l'avversario si dimostrò praticamente
irrealizzabile. Quel nido d'aquile poteva essere preso solo con un assalto: un'impresa che, a
prima vista, sembrava disperata.
Non si poteva pensare di tentare la scalata alla rocca, e nemmeno di risalire il pendio
scoperto e abbastanza ripido che saliva al castello dal colle di Tremblement: il drappello che si
fosse arrischiato su questo pendio sarebbe stato travolto dalle pietre lanciate dai difensori ben
prima di averne percorsa la metà. I Francesi erano quindi obbligati a tenersi a una buona
distanza dal castello, e non potevano utilizzare né le armi né le macchine da guerra.
La cresta orientale, la sola che in qualche modo potesse essere scalata senza pericolo, era
raggiungibile solo attraverso sentieri di montagna abbastanza ripidi, piste nella foresta note alla
gente del luogo ma di difficile accesso; e d'altra parte la cresta stessa, percorsa da sentinelle e
per di più separata dal castello da un dislivello di una decina di metri, non consentiva l'accesso
diretto alla cittadella. Questa cresta stretta, lunga un centinaio di metri circa, costituiva l'unico
punto di accesso ed era protetta da fortificazioni di legno dalle quali i difensori potevano
facilmente respingere nel baratro gli assalitori.
Per cinque mesi assediati e assedianti tennero le rispettive posizioni, gli uni abbarbicati in
cima alla montagna, gli altri sparpagliati nelle valli e sui pendii circostanti; pare che ci siano
stati alcuni tentativi di attacco respinti, perché risulta che tre uomini della guarnigione di
Montségur furono feriti a morte prima dell'ottobre 1243. Fu quasi l'unico risultato di cinque
mesi di un assedio costoso ed estenuante.
Chi erano i difensori e gli abitanti del castello assediato? I registri degli inquisitori ci
rivelano i nomi di trecento persone che vi si trovavano; dovranno aggiungersene almeno
centocinquanta i cui nomi sono rimasti ignoti perché non si ritenne utile interrogarli, vedremo
in seguito per quale ragione.
Il signore del castello, Raimondo di Perella, si era per così dire messo al servizio dei
'buonuomini', finendo per essere l'intendente e il primo difensore più che il proprietario del
posto. Viveva lì con la sua famiglia: la moglie Corba di Lantar, le tre figlie e il figlio maschio.
Quest'ultimo, di nome Giordano, doveva essere molto giovane, perché non pare abbia svolto un
ruolo attivo nella difesa. Due delle figlie erano sposate: Filippa a Pietro Ruggero di Mirepoix,
Arpalice a Guiraud di Ravat. La terza figlia, Esclarmonde, era inferma e si era votata a Dio,
come sua madre Corba, che non era ancora 'perfetta', ma avrebbe dato più tardi una prova
straordinaria dell'ardore della sua fede: Corba era figlia di Marquesia di Lantar, anch'ella
residente a Montségur, eretica 'rivestita'. Pietro Ruggero di Mirepoix, marito della figlia
maggiore del castellano, era, come sappiamo, il capo della guarnigione e uno dei migliori
cavalieri del paese; "faidit" - perché gli eredi di Guido di Lévis occupavano allora Mirepoix -
egli proveniva da una famiglia di eretici: Forneria, madre di suo padre Arnaldo Ruggero di
Mirepoix, era una delle 'perfette' che avevano soggiornato a Montségur nel 1204. La figlia di
Forneria, Adalays, aveva vissuto anche lei nel convento delle 'perfette' di Montségur; i figli di
quest'ultima, Ottone e Alzeu di Massabrac, erano fra i cavalieri della guarnigione, mentre una
delle sue figlie aveva sposato il già citato Guglielmo di Plaigne. Berengario di Lavelanet, uno
dei 'cosignori' di Montségur, era suocero di Imberto di Salas, sergente della guarnigione, mentre
una delle sue sorelle risiedeva a Montségur come 'perfetta'. I cavalieri e gli scudieri
provenivano tutti dalla piccola nobiltà dei dintorni e formavano per così dire una grande
famiglia. Ognuno aveva almeno una 'perfetta' fra i parenti più prossimi.
Ci si può chiedere in proposito quale sia stato il ruolo esatto delle donne nella religione
catara. E' certo che molte donne nobili, vedove o ancora sposate, ma avanti con gli anni, si
ritirarono dal mondo per condurre una vita di preghiera, in compagnia di altre 'perfette'; queste
austere matrone educavano i figli a una totale dedizione alla loro religione, e la maggior parte
dei capi della Chiesa catara doveva essere stata votata al sacerdozio, fin dalla più tenera età, da
madri dalla fede ardente (il che indubbiamente spiega alcuni casi clamorosi di apostasia
riscontrati fra i 'perfetti'). Ma nessuna di queste donne sembra aver neppur lontanamente avuto
un ruolo paragonabile a quello dei vescovi e dei diaconi catari. Se alcune di loro hanno svolto
un'attivissima vita clandestina, ciononostante avevano funzioni subalterne nella gerarchia
catara; la maggior parte viveva ritirata negli eremi e nelle grotte, digiunando, pregando e
convincendo altre donne a seguire il loro esempio. Risulta comunque evidente che il catarismo,
accusato talvolta di voler distruggere gli affetti naturali, è stata una religione fortemente
patriarcale, la cui forza stava proprio nei legami familiari che, dalle nonne ai nipoti, dai suoceri
ai generi e dagli zii ai cugini, avevano finito per assicurare alla Chiesa catara una società
fortemente unita, solidale nella fede come nella difesa dei propri interessi. Questo spiega anche
perché il ruolo delle donne avesse tanto rilievo: custodi della famiglia, le donne erano altresì le
custodi delle tradizioni religiose. I cavalieri e le dame che salivano a Montségur per celebrarvi
le festività del Natale o della Pentecoste andavano anche a rendere visita a qualche venerabile
madre, zia o nonna, e a ricevere la sua benedizione.
Oltre agli scudieri, che erano tutti parenti o amici d'infanzia più o meno stretti dei cavalieri,
la guarnigione contava anche un centinaio di soldati o sergenti; per lo più provenivano dai
dintorni, erano combattenti temibili e totalmente dediti ai loro capi. Alcuni erano lì con le
mogli. La moglie e le figlie di Raimondo di Perella avevano con sé le loro domestiche e dame
di compagnia; i due signori di Montségur - perché il potere, nel castello, era di fatto diviso fra il
castellano e suo genero Pietro Ruggero di Mirepoix, che non sempre andavano d'accordo fra
loro - avevano i loro balivi, incaricati di sorvegliare i loro domini. Infine, oltre alle persone del
casato dei cavalieri, Montségur ospitava allora persone rifugiatesi lì per timore
dell'Inquisizione, come Raimondo Marty, fratello del vescovo Bertrando, o G. R. Golayran, che
aveva avuto un ruolo attivo nel massacro di Avignonet.
Durante l'assedio il numero delle persone rinchiuse nel castello salì, come si è detto, a circa
trecento, senza contare i 'perfetti'. Questi erano abbastanza numerosi - fra centocinquanta e
duecento - il che non sorprende considerato che Montségur era il rifugio ufficiale e il luogo
sacro della loro Chiesa. I capi della Chiesa catara della Linguadoca, che vi si erano stabiliti
dopo il 1232, non avevano ritenuto utile cambiare residenza all'arrivo dell'armata francese ai
piedi della rocca: altrove il rischio di essere presi era ancora maggiore; e sembra che Montségur
avesse già assunto un'importanza tale agli occhi degli eretici del paese che una fuga dei
'buonuomini' verso qualche altro luogo sarebbe stata percepita come una diserzione. Questi
uomini, che negavano la realtà di ogni apparenza e di ogni manifestazione materiale del sacro,
pensavano che la loro sorte fosse misteriosamente legata a quella di questo vascello di pietra, di
questa maestosa cattedrale senza croce, eretta sopra un dirupo in mezzo al cielo: la forza
d'animo dei loro sostenitori, forse, proveniva dal fatto che essi difendevano assai più che delle
vite umane - il loro tempio, l'immagine terrena della loro fede.
Il castello era davvero un tempio? La sua struttura, come abbiamo visto, sembrerebbe
suggerirlo; ma solo suggerirlo, perché nessuno ha mai parlato di questa fortezza come di una
chiesa. I catari che, qualunque cosa si sia detta in proposito, non facevano affatto mistero delle
loro credenze, non hanno mai preteso che Montségur conservasse un qualche segreto tale da
rendere questo luogo un'eccezione alla loro dottrina sulla materia: non era né il Golgota, né il
Santo Sepolcro né il castello del Graal.
In questo castello fortificato, che aveva non uno solo ma due grandi portali e il cui maschio
non aveva feritoie ma si apriva al primo piano con delle finestre, il culto cataro veniva
evidentemente celebrato con una solennità maggiore che altrove. Ma quanto sappiamo dei riti
catari mostra che erano di un'estrema semplicità. Del resto, la sala del pian terreno del maschio
- il solo luogo ove potevano svolgersi le cerimonie e le prediche - era abbastanza piccola: circa
cinquanta metri quadrati, ossia una superficie che ai nostri giorni sarebbe considerata appena
sufficiente a una giovane coppia. Dimensioni simili non si prestavano affatto a grandi solennità,
né a riunioni di folle di ascoltatori. Le prediche forse si svolgevano anche nel recinto a forma di
pentagono che si diparte dal maschio (seicento metri quadrati); ma questo spazio doveva essere
occupato in gran parte dai depositi dei viveri, dalle scuderie, dalle riserve di armi e di proiettili
e anche dalle abitazioni dei difensori. Insomma, si trattava di un tempio molto piccolo e molto
scomodo. Sembra che i catari, coerenti con se stessi, si fossero scelti come capitale un luogo
che aveva dalla sua solo la bellezza e l'inaccessibilità.
Questo luogo, votato dalla Chiesa alle fiamme dell'inferno, conosceva un'intensa vita
religiosa, estranea, almeno in grande misura, alle vicissitudini terrene; i 'buonuomini' che
abitavano nelle capanne sotto le mura probabilmente erano più occupati a celebrare i loro culti e
a commentare i Vangeli che a seguire i progressi dell'assedio. La situazione, però, era grave: fin
dal mese di maggio, il diacono Clamens, con tre altri 'perfetti', era sceso da Montségur
dirigendosi a Causson, certo per stabilire i contatti con amici fidati cui affidare, in caso di
necessità, la custodia del tesoro. Clamens e quanti lo accompagnavano rientrarono a Montségur
senza difficoltà. Due altri 'perfetti', R. di Caussa e il suo compagno, scesero anch'essi, all'incirca
nello stesso periodo, per andare al castello di Usson; celebrarono l'"apparelhamentum" e
benedissero il pane; la scorta armata che li accompagnava tornò da sola a Montségur.
In teoria i difensori del castello avrebbero dovuto pensare innanzitutto a mettere al riparo i
capi della Chiesa catara che, in caso di conquista della fortezza, erano votati a morte certa. La
cosa era fattibile, perché per mesi e mesi fu possibile fare uscire e rientrare dei 'perfetti', uomini
pronti a ogni fatica, che non temevano certo di avventurarsi sui sentieri di montagna. Tuttavia,
la maggior parte di loro rimase a Montségur fino alla fine.
Fra le grandi personalità della Chiesa catara della Linguadoca che si trovavano a Montségur
al momento dell'assedio si conoscono il vescovo Bertrando Marty e Raimondo Aiguilher, che
quasi quarant'anni prima aveva sostenuto delle controversie con san Domenico e che nel 1225
era stato eletto figlio maggiore del vescovo di Razès; entrambi dovevano essere molto vecchi.
Si conoscono inoltre i diaconi Raimondo di Saint-Martin (o "sancto Martino"), Guglielmo
"Johannis", Clamens, Pietro Bonnet - fra loro, solo il primo era noto per la sua attività di
predicazione. D'altronde le confessioni dei testimoni interrogati dagli inquisitori mostrano che,
dopo il 1243, nelle differenti regioni della Linguadoca officiavano almeno otto diaconi catari i
quali, a quanto pare, non avevano rapporti diretti con Montségur. Le tracce di un'altra trentina
di diaconi catari, i cui nomi sono segnalati da Jean Guiraud nella sua opera sull'Inquisizione, si
perdono prima del 1240-42; i più celebri - Isarn di Castres, Vigoros di Baconia, Giovanni
Cambiaire - erano stati bruciati rispettivamente nel 1226, nel 1233 e nel 1234; Guglielmo
Ricard fu preso e bruciato nel 1243 nel Lauraguais. I diaconi Raimondo di Saint-Martin,
Raimondo Mercier (o di Mirepoix), Guglielmo Tournier erano della circoscrizione di
Montségur e vi esercitavano la loro attività da molti anni; ma non è certo che gli ultimi due vi
risiedessero ancora durante l'assedio. Raimondo Mercier, che godeva di un'immensa popolarità
nel paese già nel 1210, era morto qualche anno prima del 1243. Guglielmo Tournier nel 1240
era ancora vivo, come pure il vescovo Guilberto di Castres, le cui tracce si perdono quello
stesso anno: probabilmente morì a Montségur, ma nessun documento parla della sua fine; aveva
allora un'ottantina d'anni e continuava la sua vita di cavalcate notturne e di riunioni segrete, di
castello in villaggio, di foresta in foresta; la morte lo dovette sorprendere in piena attività.
Così, oltre a Raimondo di Saint-Martin, al vescovo Bertrando e a Raimondo Aiguilher,
nessuna delle grandi personalità della Chiesa catara si trovava a Montségur durante l'assedio. I
più erano morti, o continuavano il loro apostolato in una clandestinità che diventava ogni
giorno più pericolosa. Montségur non era né l'ultimo baluardo né l'ultima speranza di questa
Chiesa; per la massa dei credenti ne era però il simbolo vivente.
E' possibile che i numerosi 'perfetti' e 'perfette' ritiratisi a Montségur fossero per la maggior
parte persone già avanti con gli anni, oppure mistici dediti alla contemplazione e allo studio
delle Scritture, o ancora neofiti in periodo di prova. Montségur era uno degli ultimi conventi e
seminari catari.
In pieno assedio, durante l'estate del 1243, questi cenobiti ed eremiti vivevano nello stretto
spazio lasciato loro sopra la parete rocciosa della montagna, fra le alte mura del castello e le
fortificazioni provvisorie erette lungo la piccola terrazza scoscesa che circondava la fortezza. Il
lungo edificio di pietra era circondato da una cinta, larga a tratti una decina di metri, di piccole
capanne di legno, esposte alle intemperie, protette solo dall'altezza e dalla pendenza della rocca:
un simile villaggio sarebbe stato distrutto in poche ore a colpi di proiettile, se fosse stato alla
portata di una petriera.
L'espressione "infra castrum" (1) che si incontra nelle deposizioni di Berengario di Lavelanet
e di Raimondo di Perella ha fatto supporre l'esistenza di abitazioni sotterranee cui si potesse
accedere dall'interno del castello: in effetti ci si è chiesti perché Guilberto di Castres volesse
ottenere da Raimondo di Perella il permesso di vivere "sotto" e non dentro il castello, e come il
cavaliere R. di Congost, durante l'assedio, abbia potuto vivere tre mesi sotto il castello. Se le
rovine, allo stato attuale, non permettono di trovare alcuna traccia di un'apertura che conduca a
qualche passaggio sotterraneo, il numero considerevole di caverne e di scavi riscontrabili nel
resto della rocca consente di prendere in considerazione l'ipotesi di una grotta sotterranea
abbastanza grande, situata sotto le fondamenta del castello, la cui apertura sarebbe stata murata
dai difensori alla fine dell'assedio. Tuttavia sarebbe azzardato supporre (come ha fatto N.
Peyrat) l'esistenza di un vero castello segreto, con corridoi, scale, sale d'armi, dormitori, celle e
loculi funebri: se tutto ciò fosse realmente esistito, sarebbe stato a conoscenza di molte persone;
ma nessuna testimonianza dell'epoca vi fa allusione.
L'espressione «abitare sotto il castello» si spiega probabilmente con la presenza di rifugi e
baracche in legno edificate ai piedi delle mura: considerate le loro dimensioni e il fatto che
erano abbarbicate a una scarpata piuttosto ripida, più bassa delle mura di quindici o venti metri,
si poteva effettivamente dire che si trovavano "sotto", e non accanto al castello. Gli eremiti
catari non vivevano nell'inaccessibile labirinto di un tempio sotterraneo, ma all'aria aperta, in
accampamenti di fortuna così stretti e scomodi che risulterebbero spaventosi anche per gli
abitanti delle peggiori 'baraccopoli' contemporanee. Prima dell'assedio alcuni di loro
probabilmente vivevano sulla montagna, nei boschi, lungo la cresta orientale, e dovettero
risalire verso il castello all'arrivo dell'esercito nemico. Si è detto che il tale 'perfetto', il tale
eretico avevano la loro 'casa'; in queste case i credenti, gli uomini della guarnigione, le donne
della famiglia del castellano venivano a condividere il pane benedetto e ad 'adorare' i
'buonuomini'; qui si portavano a 'consolare' i moribondi. All'interno del recinto di pietra si
trovavano indubbiamente le case dei vescovi e dei diaconi, non quelle degli altri 'perfetti'; fino
agli ultimi mesi dell'assedio quelle povere dimore furono abitate; l'immenso spazio vuoto che si
stendeva oltre la palizzata di legno le proteggeva meglio di un bastione fortificato.
In genere questi uomini e queste donne vivevano a due a due, anche se si citano casi di
'perfetti' che, data la mancanza di spazio, avevano più compagni. Si può presumere che il
villaggio - se vogliamo chiamarlo così - degli uomini fosse separato da quello delle donne. La
maggior parte dei 'perfetti' avevano parenti e amici intimi fra le persone della guarnigione:
specie durante l'assedio la vita di Montségur dovette essere quella di una comunità unita nel
bene e nel male.
Si stenta a immaginare quale potesse essere la vita di un gruppo di centinaia di persone più
di metà delle quali erano candidate al rogo; persino nella Chiesa primitiva i martiri costituivano
gloriose eccezioni, erano eroi venerati. Per i 'perfetti', in certe circostanze, il martirio era invece
un dovere assoluto, preventivamente assunto. Anche se nutrivano dubbi sull'esito dell'assedio -
verosimilmente sperarono sino alla fine - guardando dall'alto del monte il brulicare dei soldati
sparsi sul colle e nella valle dovettero prepararsi per mesi alla morte. Nulla ci dice che fossero
puri spiriti, insensibili alla paura o al dolore; quel che è certo è che per lo più rimasero là,
preferendo un pericolo affrontato insieme nella preghiera e la libera professione della loro fede
ai rischi di una vita solitaria, da uomini braccati e umiliati, che comunque li avrebbe condotti al
rogo.
I difensori di Montségur sperarono a lungo di vincere la tenacia dei loro nemici. L'inverno si
avvicinava: in montagna, ottobre è già brutta stagione. Ma proprio in ottobre gli assedianti
riuscirono a ottenere un successo che parve compromettere seriamente la situazione degli
assediati. Ugo di Arcis impiegò un distaccamento di mercenari baschi, coraggiosi uomini di
montagna che non temevano il terreno di Montségur. I Baschi si arrampicarono fino in cima
alla montagna e si attestarono sulla stretta piattaforma della cresta orientale, ottanta metri sotto
al castello.
Ci furono certamente dei combattimenti, perché il sergente Guiraud Claret fu colpito a morte
alla fine di ottobre, e il cavaliere Alzeu di Massabrac venne ferito. I Baschi, pare abbastanza
numerosi, tennero la posizione, e gli assediati si trovarono così con i nemici vicini, quasi
all'altezza del castello, in grado di controllare buona parte del monte e il solo cammino agevole
per comunicare con l'esterno. (C'erano però altri percorsi che gli assediati e i loro amici
seguirono più volte, poiché la parete della rocca, scoscesa, rocciosa e coperta da un fitto bosco
era praticamente impossibile da sorvegliare.) In novembre l'esercito assediante, il cui morale
era un po' migliorato grazie al successo dei Baschi, vide giungere nuovi rinforzi portati da
Durando, vescovo di Albi. Costui era un prelato energico che, con i suoi discorsi e il suo
esempio, riaccese il coraggio dei soldati; inoltre, e soprattutto, egli era un abile ingegnere,
esperto nella costruzione delle macchine da guerra. Dietro suo incitamento i soldati issarono
fino alla piattaforma già occupata assi e travi di legno, e i tagliapietre si misero al lavoro per
preparare una notevole provvista di proiettili. Una volta costruita la macchina da guerra, i
Francesi poterono bombardare il barbacane di legno che, sporgendo sulla cresta, proteggeva
l'accesso al castello.
La situazione degli assediati non era ancora disperata: se ormai il nemico era in grado di
portare fin sulla cresta uomini e materiali, installandovisi stabilmente, lo spazio che occupava
era esiguo e pericoloso, e non permetteva alcuna manovra di grande respiro; gli assediati
controllavano sempre la cima del monte e potevano comunicare con l'esterno: informati che il
vescovo di Albi aveva costruito una macchina per bombardare Montségur, alcuni sostenitori dei
catari - chi erano? la questione è controversa - inviarono subito nella cittadella assediata un
ingegnere, Bertrando di La Baccalaria, di Capdenac, che dopo aver forzato il blocco salì al
castello dove fece innalzare, nel barbacane orientale, una macchina capace di rispondere colpo
su colpo al tiro della petriera del vescovo. Entrambi attestati su strette piattaforme sospese fra
due baratri, difensori e attaccanti, da questo punto di vista, si trovavano in una situazione di
sostanziale parità. Gli assediati avevano il vantaggio di potersi rifugiare nel castello, mentre i
Francesi accampati sulla cresta intorno alla loro macchina da guerra erano esposti al freddo, alla
neve e al vento; al vescovo Durando fu necessario un bel coraggio per dirigere le operazioni di
tiro e costringere gli uomini a tenere duro fra le tempeste e le nebbie ghiacciate. La fine di
dicembre si avvicinava, e i nemici conservavano le posizioni di ottobre, mentre le due macchine
da guerra si scambiavano colpi con maggiore o minore intensità.
I crociati, rispetto agli assediati, avevano il notevole vantaggio di poter rinnovare di continuo
le loro truppe. La guarnigione di Montségur, invece, aveva perduto già parecchi uomini; i
rinforzi che riceveva erano modesti - due o tre soldati di tanto in tanto; i guerrieri erano
spossati, sfiniti da un assedio che durava ormai da mesi; per vantaggiosa che fosse la loro
posizione, erano un centinaio contro seimila, o forse diecimila; non potevano essere sostituiti né
rimpiazzati da nessuno, erano bloccati in uno spazio risibilmente esiguo, insieme a un gran
numero di donne, di vecchi e di altre persone che non combattevano; in condizioni simili la vita
in comune, anche se con gli uomini più santi del mondo, può divenire intollerabile.
Il coraggio dei difensori di Montségur è indiscutibile, avrebbero potuto reggere ancora a
lungo. Ma dobbiamo credere che cominciassero a essere vinti dalla stanchezza; durante quei
mesi invernali Pietro Ruggero di Mirepoix inviò ripetute volte messaggeri per informarsi «se gli
affari del conte di Tolosa procedevano bene (2)». Le risposte, trasmesse ovviamente non dal
conte in persona, ma da persone in contatto con lui, furono sempre affermative. La guarnigione
reggeva. Questi «affari» riguardavano qualche futuro tentativo di rivolta che avrebbe permesso
a Raimondo Settimo di inviare un esercito a liberare Montségur? Si trattava di un negoziato
relativo proprio agli uomini di Montségur? Certo è che il conte chiedeva agli assediati di
resistere ancora, benché la sua posizione ufficiale di persecutore degli eretici gli impedisse ogni
rapporto diretto con loro.
I 'perfetti', che non potevano fare molto per aiutare i soldati che resistevano e dai quali
dipendeva la loro sorte, sembra si siano adoperati per addolcire un po' le difficoltà della loro
vita; sappiamo, per lo meno, che alcuni cavalieri e perfino dei sergenti venivano invitati nelle
case dei 'buonuomini', mangiavano con loro, ricevevano dei doni (ad esempio la 'perfetta'
Raimonda di Cuq invitò Pietro Ruggero di Mirepoix, il diacono Raimondo di Saint-Martin
ricevette Guglielmo Adhémar, Raimondo di Belvis, Imberto di Salas e l'ingegnere Bertrando di
La Beccalaria; più tardi il vescovo Bertrando Marty avrebbe distribuito fra i sergenti sale e pepe
[3]). Bisogna supporre che anche quei soldati che non erano legati ai 'perfetti' da vincoli di
parentela e di amicizia abbiano finito per sentirsi vicini a loro nella prova comune,
considerandoli in un certo senso membri della loro famiglia anziché esseri superiori, degni solo
di 'adorazione': non si possono 'adorare' uomini che si incontrano venti volte al giorno. Alcuni
uomini della guarnigione diedero in seguito una prova decisiva del loro attaccamento alla fede
dei 'buonuomini'.
Qualcuno, estenuato dai rigori dell'assedio, verosimilmente sperò di vederlo finire a qualsiasi
prezzo. Sappiamo che Imberto di Salas ebbe un incontro con Ugo di Arcis: perché e in quali
circostanze? In ogni caso, Pietro Ruggero di Mirepoix glielo rimproverò e lo punì togliendogli
l'armatura di Giordano di Mas, ucciso durante un combattimento vicino al barbacane (4). Il
capo della guarnigione aveva ordinato ai suoi uomini di non ricevere i crociati altro che a colpi
di balestra - il che prova che gli assediati talvolta tentavano di stabilire contatti con gli
assedianti, e non sempre venivano accolti in malo modo.
Il morale della guarnigione era seriamente provato; tuttavia non si parlava di capitolazione,
e un assalto sembrava quasi impossibile. Verso Natale, o poco dopo, gli assedianti ottennero
però un risultato decisivo: riuscirono a impadronirsi del barbacane, trovandosi così a una decina
di metri dal castello. In realtà il castello in quanto tale restava loro inaccessibile quasi come
prima: per accedervi avrebbero dovuto attraversare una cresta larga un metro e mezzo fra due
precipizi. Ma almeno avevano scacciato i difensori dal barbacane, installandovi la loro petriera;
i lati occidentale e orientale della fortezza erano alla portata del tiro della macchina, e le
abitazioni sottostanti dovettero essere evacuate. Indubbiamente quanti le occupavano si
rifugiarono entro le mura, dove non c'era praticamente posto per sistemarli. Gli assedianti
controllavano ormai tutta la montagna, avevano quasi conquistato la piazzaforte; la macchina
da guerra del vescovo di Albi bersagliava senza tregua il muro orientale.
I crociati dunque raggiunsero la torre (o barbacane) orientale, separata dal loro avamposto da
un percorso difficile e ben difeso: come ci riuscirono? Secondo Guglielmo di Puylaurens
utilizzarono un passaggio praticato nella rocca; i soldati vennero guidati da «un gruppo di
esperti uomini di montagna del paese, che portavano solo armi leggere e conoscevano bene il
posto (5)». Si trattava quindi di un passaggio segreto, perché i Baschi, anch'essi abili uomini di
montagna, non l'avevano trovato; non era un sentiero ma una serie di anfratti della roccia
collegati fra loro con dei gradini scavati nella roccia. Un percorso simile doveva essere noto
solo a poche persone, residenti nel villaggio di Montségur oppure appartenenti alle scorte delle
guide che accompagnavano i 'perfetti' durante i loro spostamenti; e non doveva essere utilizzato
spesso, considerato che - a detta di Guglielmo di Puylaurens - si arrampicava sopra «orribili
precipizi»; i soldati che di notte lo attraversavano avrebbero poi confessato che, di giorno, non
ci si sarebbero mai avventurati. Dopo aver scalato una muraglia di roccia quasi verticale, essi
giunsero al barbacane, difeso dagli assediati, che li lasciarono avvicinare senza diffidenza, forse
ingannati dalla voce delle guide e convinti di avere a che fare con degli amici.
La torre orientale, quindi, fu conquistata con un'azione a sorpresa: le sentinelle avevano
avuto il tempo di dare l'allarme, ma gli uomini che avevano varcato il passaggio segreto
dovevano essere abbastanza numerosi e valorosissimi. Ignoriamo quanti soldati difendessero il
barbacane, ma probabilmente vennero tutti massacrati prima che i loro compagni all'interno del
castello avessero il tempo di andar loro in aiuto. Grazie a quest'impresa i crociati divennero
padroni dell'intera rocca e poterono far salire le loro truppe lungo la cresta senza timore di
essere respinti: lo stretto passaggio che separava il castello dal barbacane proteggeva gli
assediati, ma al contempo impediva loro qualsiasi manovra offensiva. Pare che in questa
circostanza i difensori di Montségur siano stati vittime di un tradimento; o almeno di un mezzo
tradimento, in quanto le guide, senza dubbio comprate dai crociati a peso d'oro, godevano certo
della fiducia degli assediati; altrimenti non si capisce come mai l'esistenza del passaggio segreto
non sia stata rivelata agli assedianti qualche mese prima.
Solo dal giorno in cui la torre fu conquistata dall'esercito crociato gli assediati iniziarono a
rendersi conto che, a meno di un miracolo, la partita era persa. Gli eretici Matteo e Pietro
Bonnet uscirono dalla fortezza portando con sé oro, argento e una grande quantità di denaro -
"pecuniam infinitam" (6): il tesoro da mettere al sicuro. Più tardi, durante l'interrogatorio,
Imberto di Salas rivelò che questi due uomini avevano goduto della complicità dei soldati
dell'armata assediante che montavano la guardia davanti all'ultimo passaggio ancora accessibile
agli assediati: questi soldati erano uomini di Camon-sur-l'Hers, del feudo di Mirepoix.
Ciononostante l'evacuazione del tesoro fu un'operazione rischiosissima, poiché il percorso da
compiere era ancora più difficile e pericoloso di quello seguito dai crociati durante la notte della
scalata alla rocca. Se i difensori di Montségur non pensarono di mettere il tesoro al sicuro fin
quando si trovarono nella condizione di poter usare solo questo percorso, evidentemente
avevano creduto che la loro postazione fosse imprendibile. L'oro e l'argento - indubbiamente
una somma notevole - fu sepolto dai due 'perfetti' nella foresta delle montagne di Sabarthès, in
attesa di trovare un nascondiglio più sicuro.
L'assedio continuava. Un tentativo dei Francesi di sorprendere gli assediati fu respinto con
facilità. Il muro orientale, corto ed eccezionalmente spesso, non poteva essere demolito e
nemmeno seriamente intaccato dalla petriera; Bertrando di La Baccalaria si mise a costruire in
gran fretta un'altra macchina da guerra. Il 'perfetto' Matteo rientrò nella piazzaforte verso la fine
di gennaio, portando con sé due soldati muniti di balestre; si trattava di rinforzi modesti, ma era
meglio di niente. Attraverso il passaggio di Porteil (per i dettagli dell'assedio si veda l'analisi di
F. Niel nell'opera "Montségur, la Montagne inspirée") potevano arrischiarsi solo uomini abili e
coraggiosi; e per andare a rinchiudersi nella fortezza in un momento simile bisognava essere
totalmente votati alla causa dell'eresia. Lo stesso Matteo scese ancora una volta a cercare
rinforzi: riportò un solo uomo e promesse destinate a non avverarsi, indubbiamente a causa
dell'accresciuta vigilanza degli uomini che circondavano la montagna.
Tuttavia gli assediati speravano ancora: secondo la deposizione di Imberto di Salas, i
sergenti venuti con Matteo sarebbero stati inviati da Isarn di Fanjeaux, il quale mandava a dire a
Pietro Ruggero di Mirepoix che Raimondo di Tolosa gli chiedeva di resistere fino a Pasqua. I
due avrebbero sostenuto che il conte, con l'aiuto dell'imperatore, si apprestava a reclutare un
esercito per venire a liberare Montségur. Pietro Ruggero poteva credere a una promessa tanto
vaga e tanto poco realizzabile? Sembra semmai che le affermazioni di Matteo e dei due uomini
giunti con lui fossero destinate a sollevare il morale della guarnigione. Ma il conte aveva le sue
ragioni per chiedere ai difensori di Montségur di resistere il più a lungo possibile. Il secondo
tentativo di Matteo avrebbe potuto chiudersi con un vero successo: egli era riuscito a
convincere due signori della regione, Bernardo d'Alion e Arnaldo di Usson, a mettersi in
contatto con uomini capaci di salvare la situazione. Questi due cavalieri promisero cinquanta
lire di Melgueil a un capo di mercenari aragonesi, detto Corbario, se avesse condotto a
Montségur venticinque sergenti; evidentemente si trattava di un corpo scelto, di uno di quei
gruppi di Aragonesi esperti di ogni arte della guerra, ciascuno dei quali valeva da solo un
cavaliere. Con l'aiuto della guarnigione questi uomini sarebbero stati capaci di cacciare i
Francesi dall'avamposto che occupavano e di incendiare le loro macchine da guerra. Ma
Corbario non riuscì ad attraversare le linee sempre più fitte dell'esercito assediante: ormai
Montségur era tagliata fuori dal mondo esterno e non poteva più contare su nessuno.
Il castello resse ancora per tutto il mese di febbraio. Guglielmo di Puylaurens scrive: «Non si
lasciò tregua agli assediati, né di giorno né di notte (7)». La petriera lanciava proiettili senza
sosta, impedendo di costruire opere difensive sul muro bombardato; all'interno della fortezza la
mancanza di spazio doveva rendere insostenibile la vita di centinaia di persone letteralmente
ammassate le une sulle altre. La cosa curiosa è che fino alla fine la maggior parte dei difensori -
per lo meno fra i capi - abbiano avuto le loro 'case'. Molte di queste case dovevano trovarsi
all'esterno delle mura, sui versanti settentrionale e occidentale, fuori della gittata dei proiettili.
Ma, come lo vediamo oggi, lo spazio che separa il muro del castello dalla parete verticale della
rocca è molto ridotto e in forte pendenza; è vero che ancor oggi si vedono villaggi di montagna
abbarbicati in cima a pareti quasi verticali, ma a Montségur non si trovano tracce di case
scavate nella roccia e di costruzioni in pietra, eccetto i resti di un muro di cinta abbastanza
rudimentale che serviva sicuramente a reggere una palizzata di legno. Su questa scarpata nuda e
ghiacciata, dentro minuscole capanne di legno non riscaldabili, oppure all'interno del castello
dove le poche abitazioni incollate ai depositi e alla cisterna davano rifugio ai vecchi, ai malati e
ai feriti, i difensori di Montségur passarono l'inverno, nel frastuono dei colpi che
incessantemente si abbattevano sulle mura.
D'accordo con il vescovo Bertrando e con Raimondo di Perella, Pietro Ruggero di Mirepoix
decise di effettuare una sortita notturna nel tentativo di riprendere il barbacane, di scacciarne i
crociati e di dare alle fiamme la loro macchina da guerra. Gli uomini della guarnigione,
arrampicandosi lungo le scarpate dominate dalla cresta, riuscirono a raggiungere
l'accampamento nemico. Il tentativo era disperato e furono respinti; nel combattimento sulla
scarpata sovrastante il precipizio un gran numero di assediati morì, precipitando giù dal dirupo;
gli altri furono costretti a battere in ritirata lungo lo stretto passaggio che divideva il barbacane
dal castello, trascinando i feriti e respingendo il nemico che tentava di approfittare della
situazione per forzare le ultime difese del castello.
Mentre i feriti e i moribondi venivano deposti in tutta fretta sui primi letti disponibili nelle
capanne più vicine, il resto della guarnigione correva sulle mura e alle palizzate per respingere i
crociati che già avevano preso piede sulla piattaforma del castello. Le mogli e le figlie dei
cavalieri - Corba, moglie di Raimondo di Perella, Cecilia, moglie di Arnaldo Ruggero di
Mirepoix, Filippa, moglie di Pietro Ruggero, Arpalice di Ravat, Fays di Plaigne, Braida di
Mirepoix, Adalays di Massabrac e altre ancora, si fecero dare in fretta la "convenensa" e
corsero ad aiutare gli uomini a difendere il castello (8).
In mezzo al fracasso, al rumore delle armi, ai gemiti dei feriti, il vescovo e i diaconi avevano
appena il tempo di passare da un moribondo all'altro per amministrargli l'estremo sacramento:
quella notte morirono 'consolati' Bernardo Roainh, il catalano Pietro Ferrier, il sergente
Bernardo di Carcassonne e Arnaldo di Vensa (9). In un estremo soprassalto di energia la
guarnigione riuscì a respingere gli assedianti, che ripiegarono verso il barbacane. Considerato
che il campo di battaglia era sospeso nel vuoto, il numero dei morti dovette essere superiore a
quello dei feriti in grado di rientrare nel castello.
All'indomani di questa notte tragica il corno risuonò sulle mura della fortezza: Raimondo di
Perella e Pietro Ruggero di Mirepoix chiedevano di negoziare.
2. IL ROGO.
Le trattative ebbero inizio il primo marzo 1244: dopo oltre nove mesi di assedio Montségur
capitolava. Anch'essi sfiniti da quest'assedio troppo lungo, i crociati non discussero a lungo.
Queste furono le condizioni della capitolazione: 1) I difensori sarebbero restati sul luogo ancora
per quindici giorni e avrebbero consegnato degli ostaggi.
2) Essi sarebbero stati perdonati per tutte le colpe passate, compresa la vicenda di Avignonet.
3) I soldati si sarebbero ritirati, con armi e bagagli, ma avrebbero dovuto presentarsi agli
inquisitori per confessare le loro colpe. Sarebbero stati punibili solo con penitenze di lieve
entità.
4) Tutte le altre persone che si trovavano nella cittadella erano libere e sarebbero state punite
con penitenze di lieve entità, purché abiurassero l'eresia e si confessassero davanti agli
inquisitori. Chi si fosse rifiutato di abiurare sarebbe stato condannato al rogo.
5) Il castello di Montségur sarebbe stato restituito al re e alla Chiesa.
Tutto sommato le condizioni della resa erano buone; sarebbe stato difficile ottenerne di
migliori. Grazie alla loro eroica resistenza, gli uomini di Montségur e i loro parenti scampavano
la morte e la prigione perpetua; i responsabili del massacro di Avignonet si vedevano garantire
non solo la vita ma anche la libertà.
Come mai la Chiesa - nella persona dei suoi rappresentanti presenti all'assedio - acconsentì
ad assolvere quanti si erano macchiati di un crimine tanto grave, mentre la punizione degli
assassini di Guglielmo Arnaldo avrebbe dovuto sembrarle non meno importante di quella degli
eretici? Se le due parti si intesero tanto presto sulla questione, è verosimile che il terreno per
l'accordo fosse già stato preparato: i messaggi ripetutamente scambiati fra il conte di Tolosa e
gli assediati di Montségur dovevano riguardare, fra l'altro, la vicenda di Avignonet.
In effetti, durante l'assedio, il conte di Tolosa intraprese un negoziato con il papa per farsi
togliere la scomunica nella quale era incorso all'indomani di quel crimine di cui si proclamava
innocente. Verso la fine del 1243 il papa Innocenzo Quarto revocò la sentenza di scomunica di
frate Ferriero, dichiarando che il conte di Tolosa era un suo «figlio fedele e cattolico». La
scomunica lanciata dal vescovo di Narbonne venne invece tolta il 14 marzo 1244, due giorni
prima che l'esercito del re di Francia prendesse possesso di Montségur. Forse questa
coincidenza di date è fortuita; ma è possibile vi sia stato uno stretto rapporto fra gli interventi
del conte e la sorte degli uomini di Montségur e, in particolare, di Pietro Ruggero di Mirepoix,
tanto interessato al buon esito degli affari del conte di Tolosa. Questi avrebbe consigliato agli
assediati di resistere, nell'intento non di portare loro dei rinforzi (è evidente che non pensava
assolutamente di farlo), ma di ottenere un completo perdono per la vicenda di Avignonet. Le
deposizioni delle persone rinchiuse a Montségur erano destinate a compromettere molte
persone anche all'esterno (oltre allo stesso conte), che però non ebbero mai noie con le autorità.
D'altra parte i meriti personali dei difensori e l'esigenza di mettere fine a un assedio che - in
caso ci si rifiutasse di concedere la grazia - poteva durare ancora, probabilmente indussero Ugo
di Arcis e i suoi cavalieri a esercitare pressioni sull'arcivescovo e su frate Ferriero. Quel crimine
politico che era stato l'assassinio degli inquisitori forse non veniva riprovato più di tanto dai
Francesi, che forse cominciavano a comprendere la situazione del paese e i sentimenti della
popolazione indigena. I soldati di Montségur non erano altro che dei valorosi combattenti, che
avevano diritto al rispetto da parte dell'avversario.
Venne concessa una tregua; quindici giorni durante i quali la fortezza di Montségur, già
arresasi, avrebbe rifiutato ancora l'accesso al nemico; quindici giorni durante i quali, sulla
fiducia nella parola data, i due contendenti avrebbero tenuto le loro posizioni, senza cercare di
attaccare o di fuggire. La macchina da guerra del vescovo Durando taceva, le sentinelle non
dovevano più spiare il nemico dai bastioni, i soldati non dovevano più vivere nella perpetua
attesa di un allarme. Montségur si accingeva a passare i suoi ultimi giorni di libertà in pace - se
si può chiamare pace l'attesa del distacco e della morte, sotto lo sguardo vigile del nemico,
appostato sulla sua torre, a meno di cento metri dal castello.
Ma in confronto alle ore tragiche che avevano vissuto, per gli abitanti di Montségur questa
era la pace; per molti di loro l'ultima tregua. Viene da chiedersi perché gli assediati abbiano
preteso questa dilazione, che prolungava un'esistenza divenuta insostenibile. Questa richiesta si
spiega forse con il fatto che l'arcivescovo di Narbonne e frate Ferriero non potevano assumersi
la responsabilità di assolvere gli assassini degli inquisitori e giudicarono necessario consultarsi
con il papa? E' più probabile che essa sia stata avanzata dagli assediati stessi, allo scopo di
restare ancora con quanti di loro non avrebbero più rivisto dopo la resa del castello. In effetti è
molto probabile che, come suggerisce F. Niel, il vescovo Bertrando Marty e i suoi compagni,
prima di morire, abbiano voluto celebrare un'ultima volta la festa che per loro corrispondeva
alla Pasqua. Sappiamo che i catari celebravano questa festa, dal momento che uno dei loro
grandi digiuni precedeva proprio la Pasqua.
Dobbiamo pensare che, sotto questo nome, essi designassero la festa manichea della
"Bema", che cadeva all'incirca nello stesso periodo dell'anno? Nessun documento permette di
stabilirlo con certezza e, come abbiamo visto, il rituale cataro che cita con tanta frequenza e
insistenza i Vangeli e le Lettere degli Apostoli non menziona nemmeno una volta il nome di
Mani. Il catarismo comprendeva due distinti insegnamenti, e il "consolamentum", considerato il
supremo sacramento, era solo una manifestazione di pietà religiosa riservata ai non iniziati?
Pare difficile ammetterlo: manicheo per dottrina, il catarismo era profondamente cristiano nella
forma e nell'espressione del suo pensiero. I catari veneravano il Cristo in modo troppo esclusivo
per poter accordare nel culto un ruolo importante a Mani. Ad ogni modo ci mancano i dati in
grado di farci capire che cosa la festività della Pasqua, o della "Bema", esattamente significasse
per loro.
E' anche verosimile, e umano, che prima di separarsi per sempre gli uni e gli altri abbiano
voluto concedersi quest'ultima tregua. Certo non era chiedere troppo; e sarebbe stato difficile
ottenere di più.
Durante i primi giorni di marzo vennero consegnati alcuni ostaggi. A quanto risulta dai
verbali degli interrogatori si trattava di Arnaldo Ruggero di Mirepoix, vecchio cavaliere,
parente del comandante della guarnigione; di Giordano, figlio di Raimondo di Perella; di
Raimondo Marty, fratello del vescovo Bertrando, e di altri ancora dei quali ignoriamo i nomi,
dal momento che l'elenco di questi ostaggi non è mai stato ritrovato.
Alcuni storici hanno pensato che lo stesso Pietro Ruggero di Mirepoix si fosse ritirato dal
castello prima della fine della tregua, anzi prima della firma dell'atto di capitolazione. Questa
supposizione non è affatto verosimile, poiché secondo la deposizione di Alzeu di Massabrac
Pietro Ruggero si trovava entro la fortezza ancora il 16 marzo. Sappiamo che in seguito si ritirò
a Mongaillard; poi le sue tracce si perdono per dieci anni. Il silenzio creatosi intorno al suo
nome ha contribuito forse al diffondersi di accuse di tradimento o almeno di diserzione?
Tuttavia, è logico pensare che i vincitori trovassero imbarazzante la presenza del principale
artefice del colpo di mano di Avignonet, e che gli abbiano chiesto di eclissarsi con la massima
discrezione: l'uomo che aveva proclamato il desiderio di bere del vino nel cranio di Guglielmo
Arnaldo poteva beneficiare solo di una grazia concessa, per così dire, sottobanco. Undici anni
dopo egli venne citato dagli inquirenti reali come «"faidit" e spodestato per essere stato fautore
e difensore di eretici al castello di Montségur»: sarebbe stato reintegrato nei suoi diritti civili
solo nel 1257. E' dunque difficile credere che un uomo simile avesse in qualche modo
patteggiato con il nemico.
Pietro Ruggero di Mirepoix e suo suocero Raimondo di Perella rimasero quindi sul posto
sino alla fine della tregua, insieme alla maggior parte della guarnigione, alle loro famiglie e agli
eretici - quelli che non intendevano abiurare la loro fede e che, secondo le clausole dell'accordo,
sarebbero stati consegnati al boia. I quindici giorni dovettero essere consacrati a cerimonie
religiose, alla preghiera e agli addii.
La vita degli abitanti di Montségur durante queste due tragiche settimane ci è nota solo
attraverso quello che gli inquisitori hanno chiesto ai testimoni in seguito sottoposti a
interrogatorio: si tratta di dettagli precisi, scarni, che nella loro intenzionale freddezza non
riescono a nascondere una grandezza commovente. Dapprima vi fu la spartizione dei beni di
quanti erano destinati alla morte: riconoscenti per la sua devozione, gli eretici Raimondo di
Saint-Martin, Amiel Aicart, Clamens, Taparell e Guglielmo Pietro portarono a Pietro Ruggero
una coperta piena di soldi. Sempre a lui il vescovo Bertrando Marty regalò dell'olio, del pepe,
del sale, della cera e una pezza di stoffa verde: questo vecchio austero certamente non
possedeva nulla di più prezioso. Gli eretici diedero poi ancora a Pietro Ruggero una gran
quantità di grano e cinquanta giubbe per i suoi uomini. La 'perfetta' Raimonda di Cuq donò del
frumento a Guglielmo Adhémar, sergente (quindi le provviste immagazzinate nella fortezza
erano considerate come appartenenti alla Chiesa catara e non ai proprietari del castello) (10).
La vecchia Marquesia di Lantar regalò tutti i suoi beni alla nipote Filippa, moglie di Pietro
Ruggero. Altri eretici offrirono ai soldati qualche moneta, della cera, del pepe, del sale, un paio
di scarpe, una borsa, dei calzoni, del feltro... (11), tutto ciò che questi 'buonuomini' ancora
possedevano; certo, alcuni di questi oggetti dovevano avere soprattutto un valore di reliquie.
Le deposizioni fatte agli inquisitori descrivono poi le cerimonie alle quali i testimoni
assistettero in quelle due settimane - le sole sulle quali venne loro richiesto qualche dettaglio - i
"consolamenta". Durante quei giorni, quando entrare nella Chiesa catara significava votarsi a
una morte certa e imminente, si trovarono non meno di diciassette persone abbastanza convinte
della loro fede da aspirare a un simile trattamento: sei erano donne, undici invece uomini, tutti
cavalieri o sergenti.
Una di queste donne era la moglie del signore di Montségur, Corba di Perella. Figlia della
'perfetta' Marquesia, madre di un fanciullo infermo e probabilmente già 'consolata', Corba
doveva essersi preparata da tempo a questo passo decisivo. Lo compì l'ultimo giorno,
l'antivigilia della fine della tregua, lasciando il marito, le due figlie sposate, i nipoti e quel figlio
la cui presenza fino a quel momento l'aveva trattenuta; a loro preferì il martirio in nome della
sua fede. Ermengarda di Ussat era una nobildonna della zona, Guglielma, Bruna e Arssendis
erano le mogli di alcuni sergenti (le ultime due sarebbero salite sul rogo insieme ai loro mariti,
anch'essi volontari martiri dell'ultima ora); non si trattava di donne anziane, i sergenti in genere
erano uomini giovani. Guglielma di Lavelanet forse era più vecchia, essendo moglie del
cavaliere Berengario di Lavelanet.
Fra gli uomini che avevano ricevuto il "consolamentum" durante il periodo di tregua
figurano due cavalieri: Guglielmo di La Ihle - che qualche giorno prima era stato ferito
gravemente - e Raimondo di Marciliano. I sergenti erano Raimondo Guglielmo di Tornabois,
Brasillac di Calavello (entrambi avevano preso parte al massacro di Avignonet), Arnaldo
Domerc (marito di Bruna), Arnaldo Domenico, Guglielmo di Narbonne, Pons Narbona (marito
di Arssendis), Giovanni Reg, Guglielmo di Puy, Guglielmo Giovanni di Lordat, infine
Raimondo di Belvis e Arnaldo Teouli, entrati a Montségur quando la situazione era già
disperata, e che a quanto pare vi si erano recati al prezzo di tanti pericoli solo per divenirvi dei
martiri. Tutti questi soldati, che avrebbero potuto lasciare il castello con gli onori di guerra e a
testa alta, preferirono farsene scacciare come bestie, per essere poi ammassati sopra delle
fascine di legna secca e bruciati vivi al fianco dei loro capi religiosi.
Quanto a questi ultimi, non abbiamo molte notizie - se si eccettua il fatto che il vescovo
Bertrando, Raimondo di Saint-Martin, Raimondo Aiguilher diedero il "consolamentum" alle
persone che l'avevano richiesto, e distribuirono i loro beni. I 'perfetti' e le 'perfette' erano circa
centonovanta, poiché sappiamo che gli eretici bruciati a Montségur furono circa duecentodieci
o duecentoquindici; e i nomi delle persone che possiamo citare con certezza sono tutti di
semplici credenti, convertitisi all'ultimo momento.
E' abbastanza commovente constatare come un buon quarto degli uomini della guarnigione
sopravvissuti fossero disposti a morire per la loro fede, non in un soprassalto di entusiasmo, ma
dopo giorni e giorni di cosciente preparazione. I martiri di una religione sconfitta non vengono
canonizzati; ma questi uomini e queste donne i cui nomi furono registrati al solo scopo di
mettere sulla lista nera quanti assistettero alla loro iniziazione meritano fino in fondo il titolo di
martiri.
Almeno tre dei 'perfetti' rinchiusi a Montségur al momento della capitolazione scamparono
al rogo. Questo fatto rappresentava una violazione degli accordi conclusi; d'altra parte se ne
ebbe conoscenza solo dopo l'occupazione del castello da parte dei Francesi: nella notte del 16
marzo Pietro Ruggero fece evadere, su corde sospese lungo la parete rocciosa del versante
occidentale, gli eretici Amiel Aicart e il suo compagno Ugo, Poitevin e un quarto uomo il cui
nome è rimasto ignoto, forse una guida. Durante l'ingresso dei crociati a Montségur questi
uomini erano restati nascosti in un sotterraneo, scampando così al destino dei loro confratelli; il
loro compito era di mettere al riparo quanto nel castello era rimasto del tesoro degli eretici, e
ritrovare il nascondiglio ove era stato seppellito il denaro portato fuori del castello due mesi
prima. In effetti, Pietro Ruggero di Mirepoix e i suoi cavalieri lasciarono il castello per ultimi,
dopo i 'perfetti', dopo le donne e i bambini; fino a un certo momento rimasero quindi padroni
del luogo. La fuga, a quanto pare, riuscì perfettamente, perché né i quattro fuggitivi né il tesoro
vennero scoperti dalle autorità.
«Quando gli eretici uscirono dal castello di Montségur che doveva essere reso alla Chiesa e
al re, Pietro Ruggero di Mirepoix trattenne entro il castello Amiel Aicart e il suo amico Ugo,
eretici; durante la notte in cui gli altri eretici vennero bruciati li nascose; e li fece evadere.
Questo fu fatto perché la Chiesa degli eretici non perdesse il suo tesoro, occultato nella foresta;
e i fuggitivi conoscevano il nascondiglio... (12)». Berengario di Lavelanet aggiunge che Amiel
Aicart, Poitevin e altre due persone, rimaste nascoste sotto terra durante l'entrata dei crociati nel
castello, sarebbero state calate con delle funi. Caduta Montségur, la Chiesa catara continuava la
sua lotta.
Eccettuati questi tre (o quattro) uomini, incaricati di una missione importante e pericolosa,
nessuno dei 'perfetti' poté e forse volle sottrarsi al rogo. Finita la tregua, il siniscalco e i suoi
cavalieri, accompagnati dalle autorità ecclesiastiche, si presentarono alla porta del castello.
L'arcivescovo di Narbonne era rientrato nella sua diocesi prima della fine della tregua. La
Chiesa era quindi rappresentata dal vescovo di Albi e dai frati inquisitori Ferriero e Durante. I
Francesi avevano assolto al loro compito e avevano promesso di risparmiare la vita a quanti li
avevano combattuti, la sorte dei difensori di Montségur dipendeva esclusivamente dal tribunale
ecclesiastico.
Lasciando il suo posto, Raimondo di Perella consegnò ai boia sua moglie e la figlia più
giovane; la legge che da secoli condannava al rogo gli eretici impenitenti era universalmente
accettata, al punto che i padri, gli sposi, i fratelli e i figli che si vedevano brutalmente strappare
i loro congiunti pensavano fosse l'effetto di una cieca fatalità, il risultato logico di una sconfitta.
Ma come vennero scelti coloro ai quali sarebbe stato rifiutato il perdono? Probabilmente furono
essi stessi a scegliersi, separandosi dagli altri. Nelle circostanze nelle quali si trovavano, era del
tutto inutile sottoporli a serrati interrogatori per far confessare loro ciò che non intendevano
affatto negare.
Guglielmo di Puylaurens scrive: «Invano furono invitati a convertirsi (13)». Da chi e in che
modo furono invitati a farlo? E' verosimile che i duecento e più eretici formassero un gruppo a
sé che gli inquisitori e i loro ausiliari fecero uscire dal castello per ammonirli, almeno
formalmente. La vigilia, Filippa di Mirepoix e Arpalice di Ravat, figlie di Corba di Perella,
diedero l'addio alla loro madre, elevata - pur quando non aveva più molto tempo da vivere - alla
dignità di 'perfetta'. Una di queste giovani donne, Arpalice, senza entrare nei dettagli, lascia
trasparire l'orrore del momento in cui sua madre, insieme agli altri, fu condotta verso la morte:
«... furono "brutalmente" cacciati dal castello di Montségur... (14)».
In testa ai condannati si trovava ovviamente il vescovo Bertrando Marty. Gli eretici vennero
incatenati e trascinati senza riguardi lungo la discesa che separava il castello dal luogo in cui era
stato preparato il rogo.
Dinnanzi a Montségur, sul versante sudoccidentale del monte - il solo facilmente accessibile
- si apre un ampio spiazzo chiamato oggi il campo dei "Cramatchs", ossia dei cremati, dei
bruciati sul rogo: si trova a meno di duecento metri dal castello, in fondo a un pendio
abbastanza ripido. Guglielmo di Puylaurens dice che gli eretici vennero arsi «giusto ai piedi del
monte», ed è probabile che ciò sia avvenuto proprio al campo dei "Cramatchs".
Mentre su, nel castello, i 'perfetti' si preparavano alla morte e davano l'addio ai loro amici, i
sergenti del campo francese erano stati impiegati nell'ultima fatica di quell'assedio: la
preparazione di un rogo sufficiente a bruciare duecento persone - il numero approssimativo dei
condannati doveva essere preventivamente noto. «Si eresse - dice Guglielmo di Puylaurens - un
recinto di pali (15)» per delimitare lo spazio del rogo; e all'interno furono sistemate
«innumerevoli fascine di legna», forse insieme a della paglia e a della resina, considerato che
nel mese di marzo la legna doveva essere umida e difficile da accendere. Probabilmente non ci
fu il tempo di innalzare i pali cui legare un simile numero di condannati; comunque sia,
Guglielmo di Puylaurens si accontenta di dire che essi vennero rinchiusi all'interno del recinto.
I malati e i feriti furono semplicemente gettati sulle fascine, gli altri forse riuscirono ad
avvicinarsi ai loro "socii", ai loro parenti..., forse la signora di Montségur poté morire accanto
alla vecchia madre e alla figlia malata, le mogli dei sergenti al fianco dei loro mariti. Forse il
vescovo, in mezzo ai gemiti, al rumore delle armi, alle grida dei carnefici che accendevano il
fuoco ai quattro angoli del recinto, alla melodia dei cantici intonati dai chierici, riuscì a
indirizzare ai suoi fedeli un'ultima esortazione. Quando le fiamme si innalzarono, i carnefici e i
soldati dovettero allontanarsi a una certa distanza, per sottrarsi al fumo e al calore sprigionato
dall'immenso fuoco. In poche ore le duecento torce umane accatastate all'interno del recinto si
ridussero a un ammasso di carni annerite, arroventate e sanguinanti, che mescolavano le loro
ceneri diffondendo su tutta la valle, fino al castello, un atroce odore di bruciato.
I difensori rimasti nella fortezza, dall'alto, videro le fiamme del rogo salire, divampare e poi
scemare per l'esaurirsi della materia che le alimentava, mentre dense fumate nerastre coprivano
il monte; il fumo, acre e nauseabondo, aumentava via via che le fiamme si spegnevano. Ancora
durante la notte il braciere lentamente si consumava; sparsi sulle pendici del monte, i soldati,
seduti accanto ai fuochi dinnanzi alle loro tende, scorgevano le braci rosse che covavano sotto
la cenere. Quella notte i quattro uomini depositari del tesoro della Chiesa catara scesero con
delle corde lungo la parete rocciosa, quasi di fronte alla radura dove moriva l'immenso fuoco
nutrito di carne umana.
NOTE.
(1) Doat, t. 24, f. 44, deposizione di Raimondo di Perella; Ibid., deposizione di Berengario
di Lavelanet.
(2) Doat. t. 24, p.p. 170-171, 181.
(3) Ivi, t. 24, p. 180.
(4) Ibidem, p. 174.
(5) Guglielmo di Puylaurens, cap. 46.
(6) Doat, t. 24, p. 172, deposizione di Imberto di Salas.
(7) Guglielmo di Puylaurens, cap. 46.
(8) Doat, t. 22, p. 263; t. 24, p.p. 202-203, 207.
(9) Ivi, t. 24, p. 80; t. 22, p. 255; t. 22, p. 247; t. 24, p. 207. (10) Su questi doni confronta
Doat, t. 24, p 173.
(11) Ivi, p.p. 180, 200.
(12) Testimonianza di Arnaldo Ruggero di Mirepoix, sulla base delle affermazioni di Alzeu
di Massabrac, Doat, t. 22, p. 129.
(13) Guglielmo di Puylaurens, cap. 46.
(14) Deposizione di Arpalice di Ravat, Doat, t. 22, p. 259.
(15) Guglielmo di Puylaurens, cap. 46.
CONCLUSIONE
Cinque anni dopo la caduta di Montségur, Raimondo Settimo moriva, senza figli legittimi,
all'età di cinquantadue anni. La contea di Tolosa passava nelle mani di Alfonso di Poitiers,
marito della contessa Giovanna, unica erede del conte. La coppia morì nel 1271, senza
discendenza. La loro scomparsa consegnava definitivamente alla corona di Francia un paese
che già da vent'anni era di fatto una provincia francese, nel senso antico e tradizionale del
termine: un paese di importanza secondaria, colonizzato, sfruttato, dominato sia sul piano
amministrativo sia sul piano intellettuale da una metropoli potente e gelosa dei suoi interessi.
In ventidue anni Alfonso di Poitiers era andato a Tolosa solo due volte: nel 1251, per
ricevere l'omaggio dei suoi nuovi vassalli, e nel 1270, un anno prima della sua morte. Buon
amministratore, si era preoccupato soprattutto di organizzare un sistema di esazione fiscale
efficiente e dalle maglie strette, che gli permise di prelevare le somme di cui aveva bisogno per
realizzare i suoi disegni politici, o meglio quelli del fratello: per san Luigi la riconquista della
Terra Santa restava il primo obiettivo della politica francese. Dobbiamo ritenere che Alfonso
non prese mai veramente sul serio il suo titolo di conte di Tolosa e non fu altro che un esecutore
fedele del volere di suo fratello. Il popolo che, nel 1249, seguì piangendo il feretro di Raimondo
Settimo da Millau a Fontevrault sapeva di piangere la fine della sua esistenza nazionale.
Qualche mese prima di morire, il conte Raimondo aveva fatto bruciare sul rogo ad Agen
ottanta eretici, o sospetti di eresia, dopo un giudizio sommario che nemmeno gli inquisitori si
sarebbero permessi. Indubbiamente pensava di guadagnarsi con quest'atto di violenza il favore
della Chiesa; ma forse voleva anche far espiare agli eretici le disgrazie che avevano attirato sul
suo paese. La misura era colma; spossato dalle persecuzioni e dalle umiliazioni, demoralizzato
dal progressivo soffocamento delle forze vive del paese, il popolo occitano - o almeno le sue
classi privilegiate, quelle che più avevano da perdere - abbandonò la religione catara e si
schierò, amaro e rassegnato, a fianco dei vincitori.
La Linguadoca veniva unita alla Francia; è inutile chiedersi se quest'unione, tutto sommato
imposta dalla situazione geografica e politica del paese, non avrebbe potuto compiersi in modo
meno brutale. C'era davvero, fra gli uomini del Nord e quelli del Sud, un'incompatibilità di
interessi e di mentalità tanto forte che solo una crudelissima guerra di conquista poteva portare
a quest'unità dei Francesi? Prima del 1209 c'era forse una reciproca incomprensione, ma non
odio. Dopo la morte di Raimondo Settimo, un popolo stanco di odiare e di soffrire si rassegnò a
poco a poco - ma non senza difficoltà, o senza rivolte - a vedere la sua lingua ridotta a un
dialetto.
Chi ha mai calcolato che cosa un popolo perde, quando gli viene tolta la sua indipendenza? e
come tracciare il limite fra i particolarismi regionali e le legittime aspirazioni nazionali? In
definitiva, la ragione del più forte sembra sempre la migliore, e lo è nel senso che è sempre più
reale di quel che sarebbe stato possibile.
Il regno di Francia usciva dalla prova più forte, più cosciente che mai del suo diritto divino;
ben presto avrebbe tenuto testa al papato, che l'aveva servito e che si era servito di lui. Per
estirpare l'eresia la Chiesa si era esposta al pericolo di vedere il suo potere temporale
minacciato dall'alleato troppo potente che si era scelto.
La Chiesa non aveva certo ignorato questo pericolo: le lotte con l'Impero e la recentissima
esperienza con Federico Secondo glielo avevano fatto misurare pienamente. Ma il pericolo
rappresentato dall'eresia, ai suoi occhi, era ancor più terribile; e se, grazie all'Inquisizione, il
papato finì per avere ragione del catarismo, quindi dei vari altri movimenti ereticali che sorsero
nel tredicesimo e nel quattordicesimo secolo, questa vittoria gli sarebbe costata cara. Lo
schiaffo di Anagni non colpì la Chiesa nella sua essenziale dignità, fu solo un episodio
dell'incessante lotta che essa era costretta a condurre per la sua indipendenza materiale e
morale. Ma il regime di terrore poliziesco che l'Inquisizione, per parecchi secoli, seppe imporre
ai popoli dell'Occidente avrebbe minato dall'interno l'edificio della Chiesa, conducendo a una
terribile caduta del livello morale della cristianità e della civiltà cattolica.
Prima della crociata contro gli Albigesi, prima dell'Inquisizione, voci di vescovi e di abati
ancora si levavano per protestare contro i roghi di eretici, per predicare la misericordia verso i
fratelli smarriti; nel tredicesimo secolo san Tommaso d'Aquino trovò, per giustificare questi
stessi roghi, parole inammissibili in bocca a un cristiano (1). Eccessi che prima potevano
imputarsi all'ignoranza e alla durezza dei costumi del tempo, venivano ormai approvati,
consacrati dalla cattedre di teologia da uno dei più grandi filosofi della cristianità. Un fatto
simile è troppo grave perché se ne possa sminuire il significato: dal tredicesimo secolo non ci
furono più, nella Chiesa cattolica, santi o dottori abbastanza coraggiosi da proclamare che un
uomo che sbaglia in materia di fede resta (come diceva ad esempio santa Ildegarda nel
dodicesimo secolo [2]) una creatura di Dio, e che togliergli la vita è un crimine. La Chiesa che
con tanta risolutezza dimenticava questa verità così semplice non meritava più il titolo di
cattolica, e in questo senso si può dire che l'eresia inferse alla Chiesa un colpo dal quale essa
non si sarebbe più ripresa.
La vittoria era stata pagata a un prezzo troppo alto: se anche (il che non è certo), accanendosi
contro l'eresia la Chiesa romana risparmiò alla cristianità occidentale gravi disordini che forse
avrebbero potuto portare alla rovina dell'intero edificio sociale e culturale, riuscì a farlo solo
grazie a una capitolazione morale di cui sconta ancor oggi le conseguenze.
NOTE.
(1) Confronta "Summa Theologiae, Secunda Secundae", 11, 3 e 12, 2.
(2) Ildegarda di Bingen, "Epist.", 139.
APPENDICI.
1.
RITUALE CATARO.
[Si danno qui alcuni estratti dalla traduzione di L. Clédat del «Rituale». Il testo integrale si
troverà nella sua edizione del Nuovo Testamento tradotto nel tredicesimo secolo in lingua
provenzale (riproduzione fotografica del manoscritto conservato presso la biblioteca municipale
del Palais Saint-Pierre di Lione, pubblicato nel tomo quarto della Biblioteca della Facoltà di
Lettere di Lione).] - Ammissione di un credente fra i 'cristiani'.
Se un credente (1) è in astinenza (2) e se i cristiani (3) sono d'accordo di consegnargli la
preghiera, dovranno lavarsi le mani; lo stesso dovranno fare i credenti, se ce ne sono. Poi uno
dei buonuomini, quello accanto all'anziano, dovrà fare tre riverenze all'anziano, preparare una
tavola, [fare] altre tre [riverenze], stendere una tovaglia sulla tavola e [fare] ancora tre
[riverenze]. Poi egli dovrà dire: «"Benedicite parcite nobis"». Allora il credente farà il suo
"melioramentum" (4) e prenderà il libro dalle mani dell'anziano. L'anziano lo ammonirà e
pronuncerà per lui una predica, con testimonianze adatte al caso... (5) Poi l'anziano dovrà
iniziare la preghiera, che il credente proseguirà. Quindi l'anziano dovrà dire [al credente]: «Noi
vi consegniamo questa santa preghiera, perché voi la riceviate da Dio e da noi e dalla Chiesa, e
abbiate il potere di pronunciarla per tutta la durata della vostra vita, di giorno e di notte, da soli
o in compagnia; e non dovrete mai mangiare o bere senza prima aver pronunciato questa
preghiera. Se non lo farete, dovrete fare penitenza» E quello [il credente] dovrà dire: «Io la
ricevo da Dio, da voi e dalla Chiesa». Poi dovrà fare il suo "melioramentum" e rendere grazie;
infine i cristiani dovranno fare una "doppia" (6), con le "veniae", e il credente dopo di loro.
- Concessione del «Consolamentum».
E se costui [il credente che è appena stato ammesso fra i 'cristiani'] deve essere subito
consolato, dovrà fare il suo "melioramentum" e prendere il libro dalle mani dell'anziano. E
l'anziano dovrà ammonirlo e pronunciare per lui una predica, portando testimonianze
convenienti e parole adatte a un "consolamentum"...
E dovrà dire: «Voglio farlo, pregate Dio che me ne dia la forza» Poi uno dei buonuomini
dovrà fare il "melioramentum" insieme al credente dinnanzi all'anziano, dicendo: «"Parcite
nobis". Buoni cristiani, per amore di Dio noi vi preghiamo di accordare al nostro amico qui
presente quel bene che Dio ha dato a voi». Allora il credente dovrà fare il suo "melioramentum"
e dire: «"Parcite nobis". Per tutti i peccati che ho potuto fare con la parola o con le azioni, che
ho potuto pensare o mettere in opera, chiedo perdono a Dio, alla Chiesa e a voi tutti». I cristiani
risponderanno: «Siate perdonato da Dio, da noi e dalla Chiesa: preghiamo che Dio ve li
perdoni». Poi dovranno consolarlo. L'anziano prenderà il libro e glielo poserà sulla testa, gli
altri buonuomini poseranno la mano destra, dicendo le "parcias" (9) e tre "Adoremus" (10) e poi
«"Pater sancte suscipe servum tuum in tua justitia et mite gratiam tuam et spiritum sanctum
tuum super eum"». Si rivolgeranno a Dio con la preghiera, e colui che avrà condotto l'ufficio
divino dovrà recitare a bassa voce la "sixaine" (11), poi dovrà dire tre "Adoremus", la preghiera
una volta ad alta voce, infine il Vangelo. Quando avranno detto il Vangelo, dovranno recitare tre
"Adoremus", la "gratia" e le "parcias". Poi dovranno fare la pace fra loro (12) e con il libro (13).
Se ci saranno dei credenti, anch'essi dovranno fare la pace: i credenti, se ce ne saranno, faranno
la pace con il libro e fra loro. Infine pregheranno Dio con una "doppia" con la "venia" (14):
[così] avranno consegnato la preghiera [al credente].
- Regole di comportamento.
L'incarico di tenere una "doppia" e di dire la preghiera non deve essere affidato a un uomo
secolare.
Se vanno in un posto pericoloso, i cristiani devono pregare Dio con "gratia".
Chi monta a cavallo deve tenere una "doppia". Si deve dire la preghiera quando si sale in
barca o si entra in una città, quando si attraversa una passerella o un ponte pericoloso. Se
mentre si prega Dio si incontra qualcuno con cui è necessario parlare, otto preghiere possono
esser contate come una semplice, sedici preghiere possono essere contate come una "doppia".
Se per strada si incontra qualche oggetto di valore non si deve toccarlo, se non si sa che si
potrà restituirlo. Se ci si accorge di essere stati preceduti nel cammino da gente cui si pensa di
poter rendere l'oggetto perduto, bisogna prenderlo e renderlo, se è possibile. E se è impossibile
bisognerà rimetterlo dove lo si è trovato. Se però si trovano animali o uccelli catturati, non
bisogna occuparsene.
Se durante il giorno un cristiano vuole bere, dovrà pregare Dio due volte o più. E se berrà
dopo la "doppia" della notte, dovrà fare un'altra "doppia". Se ci sono dei credenti dovranno
restare in piedi mentre i cristiani diranno la preghiera per bere. E se un cristiano prega Dio
insieme ad altri cristiani, guiderà sempre la preghiera. E se un cristiano cui sia stata consegnata
la preghiera si troverà insieme ad altri cristiani, se ne vada in disparte e preghi da solo.
- Conversione dei malati.
Se quei cristiani cui è stato affidato il servizio della Chiesa riceveranno il messaggio di un
credente malato, dovranno recarsi da lui e domandargli in confidenza come si sia comportato
verso la Chiesa da quando ha ricevuto la fede e se in qualche modo si è indebitato con la Chiesa
o le ha procurato dei danni. Se deve qualcosa gli sia permesso di pagare, perché deve farlo. Se
non vuole farlo, non andrà accolto nella Chiesa. Perché se si prega Dio per un uomo colpevole
o sleale, la preghiera non porta alcun vantaggio. Ma se non è in grado di pagare non dovrà
essere respinto.
E i cristiani dovranno mostrargli l'astinenza (15) e i costumi della Chiesa. Poi dovranno
chiedergli se, in caso fosse accolto nella Chiesa, intenderà osservarli. Egli non dovrà promettere
di farlo se non ne avrà ferma intenzione: poiché san Giovanni dice che chi mente finirà in uno
stagno di fuoco e di zolfo. E se il malato dirà di essere deciso a sopportare l'astinenza, e se i
cristiani sono d'accordo di accoglierlo, dovranno imporgli l'astinenza...
Poi dovranno chiedergli se vuole ricevere la preghiera. Se risponderà di sì, se sarà possibile
dovranno rivestirlo con calzoni e camicia, metterlo a sedere e lavargli le mani. Gli stenderanno
sul letto una tovaglia o un pezzo di stoffa. Vi appoggeranno il libro e diranno una volta
«"Benedicite"» e tre volte «"Adoremus patrem et filium et spiritum sanctum"». Il malato
riceverà il libro dalle mani dell'anziano. Poi, se potrà attendere, colui che condurrà l'ufficio
dovrà ammonirlo e pronunciare per lui una predica, portando testimonianze convenienti. Poi
dovrà chiedergli se ha intenzione di rispettare la promessa fatta così come si è impegnato a fare.
Se risponderà di sì dovrà confermarlo. Poi dovranno passargli la preghiera, che egli dovrà
proseguire. Quindi l'anziano dovrà dirgli: «Questa è la preghiera che Gesù Cristo ha portato in
questo mondo e che ha insegnato ai buonuomini. Non dovrete mai mangiare o bere nulla senza
averla prima pronunciata. Se sarete negligenti, dovrete farne penitenza». Egli dovrà rispondere:
«La ricevo da Dio, da voi e dalla Chiesa». Poi lo saluteranno come una donna (16). Poi
dovranno pregare Dio con una "doppia" e con le "veniae"; quindi dovranno rimettergli davanti
il libro e dovranno recitare tre "Adoremus". In seguito egli prenderà il libro dalle mani
dell'anziano, che lo ammonirà, con parole e testimonianze adatte a un "consolamentum"...
Poi l'anziano dovrà prendere il libro, il malato dovrà inchinarsi e dire: «"Parcite nobis". Per
tutti i peccati che ho commesso con parole, opere o intenzioni, chiedo perdono a Dio, alla
Chiesa e a voi tutti». E i cristiani dovranno dire: «Che vi siano perdonati da Dio, dalla Chiesa e
da noi: preghiamo Dio che ve li perdoni». Dovranno consolarlo posandogli le mani e il libro
sulla testa... Poi dovranno darsi il bacio della pace, fra loro e con il libro. E se ci sono credenti,
maschi o femmine, dovranno scambiarsi il bacio della pace. Poi i cristiani dovranno chiedere e
dare il saluto.
Se il malato morirà e lascerà o darà loro qualcosa, non dovranno tenerselo, né
impadronirsene, ma dovranno metterlo a disposizione dell'ordine. Se il malato sopravviverà, i
cristiani dovranno presentarlo all'ordine e pregare che si consoli nuovamente il più presto
possibile, e che lo faccia di sua volontà.
NOTE.
(1) Un 'simpatizzante' iniziato al credo cataro, ma non ancora ammesso fra i fedeli.
(2) Prova preparatoria all'ammissione fra i fedeli.
(3) Così i catari si definivano fra loro.
(4) Gesto rituale di venerazione, che consisteva nel fare tre genuflessioni e nel chiedere la
benedizione.
(5) Riferendosi a dei brani del Nuovo Testamento.
(6) Ripetere due volte una preghiera.
(7) Inchino e genuflessione.
(8) Si veda app. 2.
(9) Titolo di una preghiera catara.
(10) Un'altra preghiera catara.
(11) Preghiera domenicale (?) ripetuta sei volte.
(12) Scambiarsi il bacio della pace.
(13) Ossia baciare il Vangelo.
(14) Si vedano sopra le note 6 e 7.
(15) Confronta supra la nota 2.
(16) Il saluto indirizzato al neofita era differente a seconda che si trattasse di un uomo o di
una donna. Se a ricevere il "consolamentum" era una malata, veniva salutata come un uomo.
2.
DISCORSO PRELIMINARE INDIRIZZATO DALL'ANZIANO AL NEOFITA.
Pietro (1), voi volete ricevere il battesimo spirituale attraverso il quale nella Chiesa di Dio
viene dato lo Spirito Santo, con la santa preghiera, con l'imposizione delle mani dei
buonuomini. Di questo battesimo Nostro Signore Gesù Cristo dice nel Vangelo di San Matteo
(XXVIII, 19-20) ai suoi discepoli: «Andate e istruite tutti i popoli e battezzateli nel nome del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. E insegnate loro a conservare il mio insegnamento. Ecco
che io sono con voi per sempre sino alla consumazione dei secoli». E nel Vangelo di san Marco
(XVI, 15) dice: «Andate in tutto il mondo, predicate il Vangelo a ogni creatura. E chi crederà e
sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato». E nel Vangelo di san
Giovanni (III, 5) dice a Nicodemo: «In verità, in verità vi dico che nessun uomo entrerà nel
regno di Dio se non è stato rigenerato dall'acqua e dallo Spirito Santo». E Giovanni Battista ha
parlato di questo battesimo quando ha detto (Vangelo di san Giovanni, I, 26-27 e Vangelo di san
Matteo, III, 11): «E' vero che io battezzo con l'acqua, ma colui che deve venire dopo di me è più
potente di me: io non sono degno di legare le stringhe dei suoi sandali. Egli vi battezzerà con lo
Spirito Santo e con il fuoco». E Gesù Cristo ha detto negli "Atti degli Apostoli" (I, 5): «Poiché
Giovanni ha battezzato con l'acqua, ma voi sarete battezzati con lo Spirito Santo». Il santo
battesimo tramite l'imposizione delle mani, secondo quanto riporta san Luca, è stato istituito da
Gesù Cristo, che ha detto che i suoi amici l'avrebbero fatto nel modo riferito da san Marco (XV,
18): «Imporranno le mani sui malati e i malati saranno guariti». E Anania ("Atti degli Apostoli",
IX, 17-18) battezzò in questo modo san Paolo, quando si convertì; poi Paolo e Barnaba lo
fecero in molti luoghi. E san Pietro e san Paolo battezzarono così i Samaritani. Poiché Luca lo
dice negli "Atti degli Apostoli" (VIII, 14-17): «Gli Apostoli, che si trovavano a Gerusalemme,
avendo appreso che quelli della Samaria avevano ricevuto la parola di Dio, inviarono loro
Pietro e Giovanni. I quali quando arrivarono pregarono per loro, affinché ricevessero lo Spirito
Santo, perché non era ancora sceso su nessuno di loro. Essi posarono le mani su di loro, ed essi
ricevettero lo Spirito Santo».
Questo santo battesimo attraverso il quale viene dato lo Spirito Santo è stato conservato dal
tempo degli Apostoli sino ad oggi dalla Chiesa di Dio, e di buonuomo in buonuomo è arrivato
sino a noi, e continuerà così sino alla fine del mondo; e voi dovete comprendere quale potere
sia stato dato alla Chiesa di legare e sciogliere, di perdonare o non perdonare i peccati, come il
Cristo ha detto nel Vangelo di san Giovanni (XX, 21-23): «'Come il Padre ha inviato me io
invio voi.' Detto ciò soffiò e disse loro: 'Ricevete lo Spirito Santo. Coloro ai quali perdonerete i
peccati saranno perdonati, coloro ai quali non li perdonerete non saranno perdonati.'». E nel
Vangelo di san Matteo (XVI, 18-19) dice a Simon Pietro: «Ti dico che tu sei Pietro e su questa
pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell'inferno non prevarranno su di essa. E ti darò le
chiavi del regno dei cieli. Qualunque cosa legherai sulla terra sarà legata nei cieli, qualunque
cosa scioglierai sulla terra sarà sciolta nei cieli». E in un altro passo (Vangelo di san Matteo,
XVIII, 18-20) ha detto ai suoi discepoli: «In verità vi dico che qualunque cosa voi legherete
sulla terra sarà legata in cielo, e qualunque cosa voi scioglierete sulla terra sarà sciolta in cielo.
E in verità vi dico che se due di voi si uniranno in terra, qualsiasi cosa domandino sarà loro
accordata dal Padre mio che è nei cieli. Perché laddove due o tre persone si riuniscono in mio
nome, io sono con loro». E in un altro passo (Vangelo di san Matteo, X, 8) ha detto: «Guarite i
malati, resuscitate i morti, purificate i lebbrosi, cacciate i demoni». E nel Vangelo di san
Giovanni (XIV, 12) dice: «Chi crede in me farà quanto io faccio». E nel Vangelo di san Marco
(XVI, 17-18) dice: «Ma coloro che crederanno, saranno seguiti da questi segni: in mio nome
cacceranno i demoni, parleranno nuove lingue, allontaneranno i serpenti, e se berranno qualcosa
di mortale non farà loro male. Poseranno le mani sui malati e questi guariranno». E nel Vangelo
di san Luca (X, 19) ha detto: «Ecco che vi ho dato il potere di camminare sui serpenti e gli
scorpioni e tutte le forze del nemico, senza che nulla vi nuoccia».
E se voi volete ricevere questo potere e questa forza, dovete seguire i comandamenti del
Cristo e del Nuovo Testamento, per quanto ne siete capaci. Sappiate che egli ha ordinato che
l'uomo non commetta né adulterio, né omicidio, né menzogna, che non giuri mai, che non
prenda, non derubi, non faccia agli altri quel che non vuole sia fatto a lui; che perdoni chi gli fa
del male, che ami i suoi nemici, che preghi per quanti lo calunniano e lo accusano e li benedica.
Se viene colpito a una guancia, che porga l'altra, se gli viene tolta la camicia, che dia il
mantello, che non giudichi né condanni; e molti altri sono i comandamenti stabiliti dal Signore
e dalla sua Chiesa. Bisogna anche che voi odiate questo mondo e le sue opere e quanto in esso è
contenuto. Perché san Giovanni dice nella prima lettera (II, 15-17): «Carissimi, non amate il
mondo né le cose del mondo. Se qualcuno ama il mondo, la carità del Padre non è in lui. Perché
tutto quanto è nel mondo è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia di
vita, e non viene dal Padre, ma dal mondo. Il mondo passerà, e la sua concupiscenza pure, ma
chi fa la volontà di Dio resta in eterno». E il Cristo dice alle genti (Vangelo di san Giovanni,
VII, 7): «Il mondo non può odiare voi, ma odia me perché io testimonio che le sue opere sono
malvagie». E nel Libro di Salomone (Ecclesiaste, I, 14): «Ho veduto tutte le cose che si fanno
sotto il sole, ed ecco tutto è vanità, e affanno dello spirito». Giuda, fratello di Giacomo, dice per
nostra istruzione nella lettera [23]: «Odiate la veste macchiata dalla carne». E grazie a queste e
a molte altre testimonianze dovete osservare i comandamenti di Dio e odiare questo mondo. E
se lo farete sino alla fine abbiamo la speranza che la vostra anima godrà della vita eterna.
NOTE.
(1) Nome di un ipotetico postulante.
3.
PREGHIERA CATARA.
[Il testo provenzale e la traduzione francese di questa preghiera si troveranno nella raccolta
«Spiritualité de l'hérésie: le catharisme», pubblicata nel 1953 da René Nelli presso le Editions
Privat di Tolosa.] Padre Santo, Dio giusto dei buoni spiriti, tu che mai ti inganni, né menti o
dubiti, nel timore di provare la morte nel mondo del dio straniero, poiché noi non siamo del
mondo né il mondo è nostro, donaci di conoscere quel che tu conosci e di amare quel che tu
ami.
Farisei seduttori che state alla porta del regno, voi impedite di entrare a quanti vorrebbero
entrare, voi che non volete farlo. Per questo io prego il Padre Santo dei buoni spiriti che ha il
potere di salvare le anime, e grazie ai meriti dei buoni spiriti le fa fiorire e fruttificare, e a causa
dei buoni dona la vita ai malvagi. E lo farà finché ci saranno buoni al mondo, finché non ci sarà
più nessuno dei miei piccoli quelli dei sette regni, scesi dal Paradiso quando Lucifero li
condusse via sotto il fallace pretesto che Dio aveva permesso loro solo il bene, mentre il
diavolo - poiché egli era falsissimo - avrebbe permesso loro sia il bene sia il male, e dicendo
che avrebbe dato loro donne che avrebbero molto amato, che avrebbe dato ad alcuni il potere di
comandare gli altri, che alcuni di loro sarebbero stati re, conti o imperatori, e che con un uccello
avrebbero potuto prenderne un altro, con una bestia un'altra bestia.
Tutti quanti si sarebbero sottomessi a lui sarebbero scesi in basso, dove avrebbero avuto il
potere di fare sia il bene sia il male, come Dio in alto. Per loro sarebbe stato molto meglio -
diceva il diavolo - stare in basso, dove avrebbero potuto fare sia il bene sia il male, piuttosto
che stare in alto dove Dio permetteva loro solo il bene. E allora essi salirono su di un cielo di
vetro, e più salirono, più caddero e morirono; e Dio scese dal cielo con dodici apostoli, e si
adombrò in santa Maria.
4.
MISURE REPRESSIVE CONTRO I CATARI adottate dai concili dal 1179 al 1246.
- Undicesimo concilio ecumenico, terzo del Laterano (1179).
Can. 27.
... Poiché in Guascogna, nei dintorni di Albi, di Tolosa e in altri luoghi la follia degli eretici,
detti talora catari, talora patarini e pubblicani, è cresciuta al punto che non si limitano a
esercitare in segreto la loro malignità, ma la proclamano apertamente e pervertono le persone
semplici e deboli, noi lanciamo l'anatema contro di loro e contro tutti quanti aderiranno ai loro
principi e li difenderanno; noi proibiamo, sotto pena di anatema, di dare loro alloggio, di
commerciare con loro... Chiunque si assocerà a questi eretici sarà escluso dalla comunione, e
tutti sono sciolti dai doveri e dall'obbedienza nei loro confronti... Tutti i fedeli devono opporsi
energicamente a questa peste, e prendere anche le armi contro di loro. I beni di questi eretici
saranno confiscati e sarà concesso ai principi di ridurli in schiavitù. Chiunque, secondo il
consiglio dei vescovi, prenderà le armi contro di loro avrà condonati due anni di penitenza e,
esattamente come un crociato, sarà posto sotto la protezione della Chiesa.
- I quarantacinque «capitula» del concilio di Tolosa (1229).
1. In ogni parrocchia della città e fuori di città i vescovi designeranno un sacerdote e due o
tre laici - e se necessario anche di più - di reputazione irreprensibile, che giureranno di
impegnarsi assiduamente e fedelmente nella ricerca degli eretici che vivono nel territorio della
parrocchia. Essi ispezioneranno con diligenza le case sospette, le camere e le cantine e gli
angoli più nascosti, che dovranno essere demoliti. Se scopriranno eretici, o persone che diano
credito o favoriscano, ospitino o proteggano eretici, provvederanno a non farli scappare, e li
denunceranno il più presto possibile al vescovo e al signore del luogo, o al suo balivo.
2. Gli abati esenti faranno lo stesso per i territori che non sono sottomessi alla giurisdizione
episcopale.
3. I signori temporali faranno cercare con cura gli eretici nelle città, nelle case e nelle foreste
ove si riuniscono, e faranno distruggere i loro rifugi.
4. Chiunque, per denaro o per qualsiasi altro motivo, permetterà che un eretico soggiorni
nelle sue terre, reo confesso o provato colpevole che sia, perderà per sempre quelle terre e sarà
passibile di punizioni personali comminate dal suo signore, in ragione della sua colpevolezza.
5. Sarà punito anche il possessore di terre sulle quali si incontrino frequentemente eretici,
anche se a sua insaputa, ma per sua negligenza.
6. La casa nella quale verrà scoperto un eretico verrà abbattuta, e il terreno verrà confiscato.
7. Il balivo che risieda in una località nella quale si sospetta la presenza di eretici, se non sarà
zelante nel cercarli, perderà il posto, senza ottenere compensi.
(...) 9. Chiunque può cercare eretici sulle terre del suo vicino... Così il re potrà cercare eretici
sulle terre del conte di Tolosa, e viceversa.
10. L'"haereticus vestitus" che spontaneamente abbandoni l'eresia non dovrà restare nella
stessa casa, se il luogo ove risiede ha fama di essere ricettacolo di eretici. Lo si trasferirà in una
località cattolica e di buona reputazione. Questi convertiti porteranno sui loro vestiti due croci,
una a destra, l'altra a sinistra, di colore differente da quello dei vestiti stessi; questo peraltro non
li dispenserà dall'avere lettere che testimonino la loro riconciliazione con la Chiesa, rilasciate
dal vescovo. Non potranno svolgere incarichi pubblici né fare atti legali fin quando il papa, o un
suo legato, non li avranno riabilitati, dopo un'adeguata penitenza.
11. Chi torna all'unità cattolica non spontaneamente, ma per paura della morte o per qualche
altro motivo, sarà messo dal vescovo in prigione, per scontarvi la sua penitenza; si dovranno
prendere adeguare precauzioni, perché non possa traviare gli altri...
12. Tutti i fedeli adulti dovranno promettere al vescovo, sotto giuramento, di conservare la
fede cattolica e di perseguire gli eretici, nella misura delle loro possibilità. Questo giuramento
andrà rinnovato ogni due anni...
(...) 14. Non è consentito ai laici di possedere i libri dell'Antico e del Nuovo Testamento; si
fa eccezione per il "Salterio", il "Breviario", le "Ore della santa Vergine". Si proibisce
rigorosamente di avere quei libri tradotti in lingua volgare.
15. Chiunque sia diffamato o sospettato di eresia non potrà esercitare la medicina. Dopo che
un malato avrà ricevuto dal suo curato la santa comunione bisognerà sorvegliare attentamente
che nessuna persona eretica o sospettata di eresia gli si avvicini, poiché visite simili hanno tristi
conseguenze.
(...) 18. Saranno considerati diffamati di eresia quanti vengono designati come eretici dalla
voce pubblica, o la cui cattiva reputazione presso persone degne di considerazione sarà stata
provata legalmente dinnanzi al vescovo.
(...) 42. Le donne, vedove o ereditiere, che posseggono piazzeforti o castelli non devono
sposarsi con nemici della fede e della pace.
- Ordinanze del concilio di Béziers (1233).
1. I "perfetti" e i "credenti", quanti li proteggono, difendono e nascondono, devono essere
scomunicati tutte le domeniche. Il colpevole che, dopo un'ammonizione e una scomunica, non
si corregga entro quaranta giorni, sarà trattato come un eretico.
2 Chiunque può arrestare un eretico, purché lo consegni poi al vescovo.
(...) 4. Ogni eretico riconciliato che non porti le due croci sui vestiti verrà considerato
recidivo e i suoi beni saranno confiscati.
(...) - Canone del sinodo di Arles (1234).
6. Molti eretici fanno finta di convertirsi ma poi sono ancor più pericolosi di prima. Perciò
d'ora in poi quanti saranno accusati di eresia e non saranno puniti con la pena di morte verranno
tenuti in prigione per il resto dei loro giorni, anche se la loro conversione è sincera. Saranno
mantenuti con le rendite dei loro beni.
(...) 11. I corpi degli eretici e dei loro "credenti" verranno esumati e consegnati al giudice
secolare.
(...) 13. Chiunque resti scomunicato per più di un mese, quando solleciterà l'assoluzione
dovrà pagare "cinquanta solidi" per ogni mese di ritardo. Metà di quest'ammenda spetterà al
signore temporale, l'altra al vescovo per le cause pie.
(...) 21 I testamenti verranno redatti alla presenza del curato o del suo cappellano; altrimenti
il notaio sarà scomunicato e chi avrà fatto testamento sarà privato di sepoltura ecclesiastica.
- Concilio di Narbonne (1243).
1. Gli eretici, i loro sostenitori o protettori che si presentino spontaneamente al tribunale,
che diano prova di pentimento, che dicano tutta la verità su loro stessi e sui loro compagni
ottenendo così il condono della pena della reclusione, verranno ciononostante sottoposti alle
seguenti penitenze: porteranno la croce e tutte le domeniche, fra l'epistola e il vangelo, si
presenteranno a un sacerdote portando una verga, per riceverne la punizione. Saranno sottoposti
alla stessa punizione durante tutte le processioni solenni...
(...) 4. Si costruiranno prigioni ove rinchiudere i poveri convertiti dall'eresia. Gli inquisitori
dovranno provvedere al loro sostentamento, perché i vescovi non siano gravati da eccessive
spese.
(...) 9. Poiché il numero di eretici e di credenti che dovrebbero essere rinchiusi a vita è
talmente elevato che a fatica si trovano le pietre necessarie alla costruzione delle prigioni
indispensabili - per non parlare delle altre spese provocate da una tale moltitudine di prigionieri
- si attenderà a metterli in prigione fin quando non si sarà consultato in proposito il papa; ma i
più sospetti verranno imprigionati senza indugio.
(...) 11. Chiunque, dopo averla abiurata, ricadrà nell'eresia, senza ulteriori procedure verrà
consegnato al braccio secolare per essere punito.
(...) 17. Gli inquisitori domenicani non devono imporre ammende come punizione perché la
cosa non si addice al loro ordine; su questo punto devono rimettersi ai vescovi e al legato
pontificio incaricato di stabilire le penitenze.
(...) 19. Nessuno può essere dispensato dalla prigione in nome delle sue relazioni coniugali,
della parentela, dei figli, dell'età o della salute.
(...) 22. I nomi dei testimoni non verranno comunicati; tuttavia l'accusato darà i nomi dei
suoi nemici...
23. Nessuno deve essere condannato senza prove sufficienti o senza una personale
confessione...
24. In materia di eresia chiunque è ammesso a testimoniare e ad accusare, compresi i
criminali, gli infami e i complici.
25. Si riterranno prive di valore solo le deposizioni dettate dalla malvagità o dall'inimicizia.
- Istruzioni del concilio di Béziers agli inquisitori (1246).
1. Poiché per gli inquisitori è difficile visitare ogni singola località, secondo la disposizione
papale essi dovranno scegliere una residenza particolare ed esercitare di là, su tutto il
circondario, il loro potere inquisitoriale. Dovranno convocare il clero e il popolo, leggere il loro
mandato e ordinare a chiunque sia caduto nell'eresia o conosca qualche eretico di presentarsi e
confessare la verità.
(...) 20. Gli eretici condannati, i recidivi, i contumaci e i fuggitivi, quanti non si siano
presentati entro i termini prescritti e l'abbiano fatto solo dopo ingiunzione speciale, quanti a
dispetto del giuramento nascondano la verità, secondo le istruzioni apostoliche verranno reclusi
per il resto dei loro giorni; pena che in seguito gli inquisitori, con il consiglio dei prelati da cui
dipendono, potranno mitigare o commutare, se i colpevoli si pentiranno.
21. Essi però dovranno preventivamente garantire che faranno scrupolosamente la loro
penitenza e impegnarsi sotto giuramento a combattere l'eresia; e se vi ricadranno saranno puniti
senza misericordia.
22. Gli inquisitori, del resto, hanno il diritto di rimettere in prigione quanti avevano graziato,
se sembra loro opportuno.
23. I reclusi, in conformità all'ordinanza della Sede Apostolica, saranno sistemati in camere
separate e isolate, perché non possano corrompersi essi stessi o corrompere gli altri.
24. Si potrà sospendere interamente la pena della prigione a vita solo per motivi molto gravi:
per esempio, se l'assenza del prigioniero esponesse dei fanciulli al pericolo di morte.
25. E' permesso alla moglie di visitare il marito recluso, e viceversa. Non si rifiuterà loro di
convivere, che siano condannati alla reclusione entrambi o uno solo.
(Da Hefele-Leclercq, "Histoire des conciles", t. 5[2], seconda parte).
5.
SENTENZE DELL'INQUISIZIONE.
- Condanna di un recidivo.
Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, e così sia.
Noi, il fratello Giacomo, per concessione divina vescovo di Pamiers, dotato di speciale
licenza dal reverendo padre nel Signore, Pietro, per grazia di Dio vescovo di Carcassonne e suo
sostituto in questo luogo, giorno e ora, all'interno della sua diocesi, e il fratello Giovanni di
Prat, dell'ordine dei Frati Predicatori, inquisitore dell'eretica pravità nel regno di Francia,
deputato dell'autorità apostolica e residente a Carcassonne per ricercare tutti quanti sono o sono
sospettati infetti del veleno dell'eresia, abbiamo trovato e ci è stato dimostrato che voi,
Guglielmina Tornier, moglie di Bernardo Tornier, un tempo di Tarascon, nella diocesi di
Pamiers..., siete stata condannata con una sentenza alla prigione perpetua, e che in giudizio
avete fatto solenne abiura di ogni eresia, credenza, favoreggiamento e partecipazione sotto pena
di vedervi infliggere le punizioni riservate ai "recidivi".
Tuttavia, malgrado abbiate giurato sui santi Vangeli, che avete toccato con le vostre mani, di
perseguitare i credenti eretici e quanti sostengono, nascondono e difendono costoro, di rivelare
le loro malefatte, di catturarli o di farli catturare con tutti i mezzi a vostra disposizione, e
soprattutto di mantenere e conservare la fede cattolica..., siete ricaduta nell'eretica pravità, come
un cane che torna a vomitare dopo essersi ingozzato di carne putrida: infatti avete seguito e
ascoltato Pietro e Guglielmo Antérieu, condannati per la loro eresia; avete ripetutamente
elogiato la loro bontà, la loro santità, la loro vita esemplare, la loro fede; avete detto che la setta
dei sopraddetti era salutare e che ogni uomo grazie a essa poteva ottenere la salvezza; avete
sostenuto che il papa, il nostro Santo Padre, e i prelati della Santa Chiesa erano miscredenti;
avete riprovato la nostra santa fede e tutti quanti la conservano; avete voluto dare aiuto alla setta
eretica e l'avete protetta con ogni mezzo.
Poiché tutto questo è attestato da due testimoni chiamati in giudizio; poiché per evitare i fatti
sopra menzionati siete stata ripetutamente avvertita, pregata, supplicata ed esortata, a parecchi
giorni di distanza..., di giurare la verità, sulla fede e l'eresia; poiché vi siete rifiutata di prestare
detto giuramento e ancora rifiutate di farlo, con l'ostinazione dell'impenitente ed eretica,
fautrice di eresie...
Perciò Noi, il vescovo e l'inquisitore suddetti, dopo esserci consultati con molti uomini
onesti, sia religiosi sia secolari, esperti sia in diritto civile sia in diritto canonico, tenendo Dio
solo dinnanzi ai nostri occhi..., proclamiamo e dichiariamo che Guglielmina Tornier è
"recidiva" nel crimine e nella protezione dell'eresia, come eretica impenitente; e poiché la
Chiesa non ha nulla a che fare con un'eretica come voi, vi consegniamo alla corte secolare, non
senza pregare insistentemente questa corte, come raccomandano le sanzioni canoniche, che vi
siano risparmiate la vita e le membra e sia scongiurato il pericolo di morte (1), se voi,
Guglielmina Tornier, confesserete pienamente i fatti d'eresia che vi vengono rimproverati, se il
pentimento toccherà il vostro cuore, se non insisterete nello sdegnare i sacramenti della
confessione e dell'eucarestia...
("Coll. Doat", t. 28, p. 158).
- Distruzione delle case 'infettate' dai catari.
Nel nome del Signore, così sia. Poiché dalle indagini compiute e dalle deposizioni di
testimoni chiamati in giudizio sotto giuramento abbiamo scoperto che con ogni evidenza nelle
case di Guglielmo Adémar, giureconsulto, di Raimondo Fauret, di Raimondo Aron, e nella
proprietà di donna Piera di Medens, sita presso Réalmont, durante il decorso di quella malattia
che li aveva colpiti e che li portò alla morte, costoro sono stati ricevuti come eretici nelle dette
case, secondo gli esecrabili riti di questa dannata setta.
Noi, inquisitori e vicari delegati del vescovo di Albi..., dopo esserci consultati con uomini
saggi ed esperti, con l'autorità apostolica che ci è stata confidata, proclamiamo e dichiariamo
con sentenza definitiva che le case e la proprietà delle suddette persone, con tutto quanto
contengono, siano demolite da cima a fondo, e ordiniamo che vengano distrutte; decretiamo,
inoltre, che i materiali con cui sono edificate queste case siano dati alle fiamme, a meno che ci
sembri utile, a nostra discrezione, impiegarli per opere pie.
Ordiniamo poi che nei luoghi suddetti non si possa ricostruire né recingere nulla; che tali
luoghi rimangano per sempre disabitati, senza recinzioni e senza colture, per il solo fatto di
essere stati ricettacolo di eretici; e che per questo solo fatto divengano luoghi proscritti...
Questa sentenza è stata emessa nell'anno del Signore 1329, nel giorno di domenica, dopo
l'ottava della Natività della beata Vergine Maria, nella piazza del mercato del borgo di
Carcassonne.
(Ivi).
NOTE.
(1) Si sa che il braccio secolare non poteva né doveva tenere minimamente conto di questa
caritatevole raccomandazione.
6.
IL DIBATTITO FRA ISARN E SICCARDO.
[Si tratta di un poema provenzale del tredicesimo secolo, redatto poco tempo dopo la
conquista di Montségur, su istigazione dei servizi della propaganda cattolica, nell'intento di
gettare il maggior discredito possibile sui militanti catari. Questo testo è stato pubblicato,
tradotto in francese e annotato da Paul Meyer nel 1879, nell'«Annuaire-bulletin de la Société de
l'Histoire de France». Se ne troverà qui un estratto.] - Prima che il fuoco ti divori, prima che tu
sperimenti le fiamme - come avverrà se non ti convertirai entro questa sera - io vorrei che tu,
eretico, esprima il tuo pensiero, dicendo perché rifiuti di credere nel nostro battesimo, che è
buono e santo... Tu smentisci il tuo padrino e l'olio con il quale sei stato unto, poiché hai
rinnegato, ricevendo un altro battesimo che, secondo la tua credenza, opera tramite
l'imposizione delle mani... Tu dici un'infinità di menzogne, delle quali io non credo nemmeno
una parola... Fai credere all'uomo che inganni, che affidi al diavolo allontanandolo da Dio, che
egli passa di corpo in corpo, aspettando la salvezza, nell'illusione di riacquistare quanto ha
perduto. Ogni luogo, ogni terra sulla quale sei passato dovrà perire, abissarsi, a causa
dell'immenso male che hai ordito e seminato dove ti hanno creduto... Il fuoco è già acceso, il
banditore sta facendo il giro della città e il popolo sta radunandosi per assistere alla tua
esecuzione, perché se non ti confessi sarai bruciato.
- Isarn - risponde l'eretico - se mi garantite e mi fate garantire che non sarò bruciato, né
imprigionato o soppresso, subirò con rassegnazione qualsiasi altro tormento, purché mi salviate
dal rogo. E se mi assicurerete che non mi allontanerete da voi, che mi tratterete in modo
onorevole, senza violenze, imparerete tante cose sulle nostre missioni che Berit e P. Razolz (1)
non sanno nulla rispetto a quanto dirò a voi, che ora mi trattate con clemenza, su quanto mi
chiederete riguardo agli eretici e i credenti. Ma voglio avere garanzie sicure, perché se dopo che
vi ho raccontato i mici segreti mi tradirete, divulgherete la mia confessione, oppure non mi
prenderete - voi e i Predicatori - sotto la vostra protezione, sarei derubato. Vi dirò perché;
voglio che lo sappiate. Il fatto è che da quando sono stato consacrato vescovo, con queste mie
mani ho salvato ben cinquecento persone che ho mandato in Paradiso. Se mi separo da loro e le
abbandono, io tolgo la salvezza a queste persone, le abbandono ai diavoli perché facciano quel
che vogliono di loro, immersi nelle pene dell'inferno e dannati, senza alcuna speranza di essere
mai salvati. E che sarebbe di me se poi incontrassi i loro amici, se non mi accoglieste fra i
vostri, se fossi sbeffeggiato e deriso presso la vostra corte, se perdessi il posto che occupo e non
potessi riprenderlo? Sarebbe una enorme follia; ecco perché vorrei avere una garanzia, sia che
io rifiuti sia che io accetti, dato che sono venuto qui con un salvacondotto. Innanzitutto voglio
che sappiate che non è stata la fame, né la sete né alcuna forma di miseria che mi hanno spinto a
presentarmi: tenetelo presente. E' vero che siamo stati invitati a non seguire le orme di quanti
sono stati citati, che non ottengono condizioni onorevoli né un qualsiasi accordo se non si
impegnano, per avere salva la vita, a consegnare alla corte ogni eretico che trovino, in qualsiasi
luogo. Ciò produce effetti sorprendenti, più notevoli di quanto possiate pensare: i nostri amici
più cari, quelli che ci erano più sottomessi, ci hanno abbandonato, si sono fatti nostri avversari,
sono diventati nostri nemici; ci prendono, ci attaccano, dopo averci salutato, per saldare il loro
conto con la nostra condanna. Così facendo credono di riscattare i loro peccati vendendoci. Ma
prima di essere braccato, ho fatto la mia scelta: mi sono presentato alla corte spontaneamente,
senza esservi costretto; vi ho fatto una grazia che chiunque conosca in quale benessere io viva
sa essere più grande di quanto non immaginiate! Ve lo dirò in poche parole, se la cosa non vi
annoia. Ho un gran numero di amici, ricchi e opulenti, che non sono contenti finché non mi
hanno affidato i loro soldi o le loro ricchezze, se ne hanno. Sono ben dotato di beni mobili,
tanto che rifornisco tutti i nostri credenti; e ne troverete pochi poveri o straccioni. Ho molte
vesti, camicie, brache, panni ben lavati, coperte, trapunte pronte per i miei amici, e mi è facile
usarli quando li ho invitati. Se spesso digiuno, non compatitemi, perché mangio anche piatti
eccellenti, salse al garofano, ottimi paté. Non vale meno il pesce della carne cattiva, il buon
vino al garofano di un vino di botte, il pane bianco delle pagnotte da convento. Essere
all'asciutto, talvolta, è meglio che essere al bagnato: mentre voi passate la notte al vento e sotto
la pioggia, mentre vi inzuppate, io me ne sto tranquillamente al coperto e in pace insieme ai
miei confratelli, ai miei assistenti, che mi cercano le pulci e, se lo desidero, mi grattano. E se
magari mi viene una voglia, che sia un cugino o una cugina, il peccato non mi costa nulla: dopo
essermi separato da loro, mi assolvo da me stesso. Sappiate, infatti, che non c'è empietà o
peccato mortale il cui autore, chiunque egli sia, non sia salvato, se viene da me. Questa è la
felice situazione nella quale mi trovo. Se acconsento a lasciarla, riconoscendo che è peccato, e
se accetto la fede di Roma, voglio che me ne siate grati; voglio essere accolto come un uomo
degno di onore.
- Tu sia benedetto, Siccardo! Che quel buon Dio che ha creato il cielo e la terra, le acque, le
tempeste, il sole e la luna senza aiuto alcuno, ti conceda di essere uno di quei fedeli operai da
lui ingaggiati e mandati alla vigna, dando agli ultimi venuti quanto al primi. Tu sarai uno di
loro, se vorrai essere sincero, se vorrai essere leale e franco verso la fede quanto sei stato
perverso e falso. Ma non si può sperare che dei penitenti che si convertono per paura siano mai
dei buoni operai, che combattano con coraggio contro la loro coscienza. Quando un uomo è
stato eretico, capo e dispensiere di quella cattiva semenza di cui è piena la cantina, bisognerà
che siano abile il medico e ben fornito il farmacista che troveranno un farmaco capace di
scacciare la cancrena e la malattia, tanto essa è tenace! Se non sei dei loro, Siccardo, dovrai
dimostrarlo con le opere, e non dovrai essere lento o tenero di cuore, ma fermo ed energico;
bisogna che tutti gli sforzi siano diretti a combattere l'eresia. E se sarai deciso, leale, franco
nell'opera del Cristo, perseguita da frate Ferriero, la ricompensa sarà buona, il salario ancor
migliore...
NOTE.
(1) Due uomini incaricati di indagini per conto dell'Inquisizione.
TAVOLA CRONOLOGICA
1002. Prime esecuzioni di catari in Francia (a Orléans e a Tolosa). Dieci canonici della
chiesa collegiale di Sainte-Croix salgono sul rogo.
1049. Al Concilio di Reims per la prima volta si affronta il tema delle nuove eresie apparse
in Francia.
1077. A Cambrai un cataro, condannato come eretico, viene bruciato.
1114. A Soissons il popolo strappa di prigione numerosi eretici e li mette al rogo.
1126. Pietro di Bruys sale sul rogo a Saint-Gilles, in Linguadoca.
1160 (circa). A Lione nasce la setta dei valdesi.
1163. Il Concilio di Tours denuncia i progressi minacciosi della nuova eresia (il catarismo).
1165. Concilio di Lombez contro i "boni homines" ('buonuomini').
1167. A Saint-Félix-de-Caraman, presieduto da un vescovo bulgaro, si svolge un concilio
durante il quale gli Albigesi definiscono la loro organizzazione e il loro culto.
Un'assemblea di ecclesiastici, riunita a Vézelay, condanna sette catari a morire nel fuoco.
1172. Un chierico accusato di eresia viene bruciato ad Arras.
1177. Raimondo Quinto, conte di Tolosa, segnala al capitolo generale di Cîteaux gli
«spaventevoli progressi» dell'eresia catara.
1179. L'undicesimo Concilio ecumenico (il Laterano terzo), su istigazione del papa
Alessandro Terzo, lancia l'anatema contro gli cretici albigesi.
1180. Il papa fa predicare la crociata contro gli eretici del Mezzogiorno della Francia dal
legato Enrico, cardinale vescovo di Albano.
1181. Presa di Lavaur.
1184. Il papa Lucio Terzo scomunica i valdesi.
1194. Nella contea di Tolosa Raimondo Sesto succede al padre Raimondo Quinto.
1198. Innocenzo Terzo viene eletto papa.
Il papa affida ai cistercensi Rainero e Guido la direzione di una commissione incaricata di
procedere contro gli eretici: si insedia la cosiddetta inquisizione dei vescovi o dei legati.
1200. Cinque uomini e tre donne vengono bruciati a Troyes, sotto accusa di eresia.
1201. A Nevers un cavaliere del conte di Nevers viene dato alle fiamme; persecuzioni
contro la colonia catara di Charité-sur-Loire.
1203. Pietro di Castelnau viene inviato come legato in Francia.
1204. Raimondo di Perella ricostruisce Montségur dietro richiesta dei catari della regione.
Colloqui di argomento religioso fra catari e cattolici si svolgono a Carcassonne per iniziativa
di Pietro Secondo, re d'Aragona (febbraio).
1206. Esclarmonde, sorella del conte di Foix, riceve il "consolamentum".
Domenico di Guzman fonda a Prouille una comunità che dia rifugio alle donne catare
convertitesi alla fede cattolica.
1207. Il papa conferma la sentenza di scomunica pronunciata da Pietro di Castelnau contro
il conte di Tolosa (29 maggio).
1208. Assassinio di Pietro di Castelnau (15 gennaio).
Pietro di Castelnau viene canonizzato (10 marzo).
Francesco d'Assisi decide di consacrarsi alla vita apostolica.
1208. Raimondo Sesto si sottomette alla Chiesa e viene pubblicamente flagellato a Saint-
Gilles (18 giugno).
L'armata crociata marcia sulla Linguadoca (inizio di luglio).
Sacco e rogo di Béziers (22 luglio).
Presa di Carcassonne (15 agosto).
Simone di Montfort riceve dai legati il titolo di visconte di Carcassonne e di Béziers (fine di
agosto).
Un concilio tenuto ad Avignone decreta ventuno provvedimenti contro gli eretici e gli ebrei
(settembre).
Morte di Raimondo Ruggero Trencavel, visconte di Carcassonne e di Béziers (10 novembre)
Cadono in mano ai crociati Albi (resa), Castres, Caussade, Fanjeaux, Gontaud, Mirepoix,
Puy-la-Roque, Saverdun, Tonneins eccetera.
1210. Presa di Minerve; centoquaranta catari vengono bruciati (22 luglio).
I legati papali citano il conte di Tolosa dinnanzi a un concilio, riunitosi a Saint-Gilles, e lo
scomunicano per la seconda volta (settembre).
Termes soccombe, dopo nove mesi di assedio (23 novembre).
Creazione dell'ordine dei francescani.
Filippo Augusto fa bruciare a Parigi i discepoli di Amalrico di Bène (20 dicembre).
Cadono in mano ai crociati i castelli di Alayrac (massacro della guarnigione), di Bram
(mutilazione della guarnigione), di Pennautier eccetera.
1211. Presa di Lavaur e rogo di quattrocento catari (3 maggio).
Presa di Cassès: rogo di novantaquattro catari.
Primo assedio di Tolosa (fine di maggio).
Assedio di Castelnaudary (settembre).
Cadono in mano ai crociati: Cahuzac, Coustaussa, Gaillac, La Garde, La Grave (massacro
della guarnigione), La Guépie, Montaigu, Moncuq, Montferrand, Montgey (rasa al suolo), Puy-
Celsi, Rabastens eccetera.
1212 (circa). Quasi ottanta eretici vengono giudicati a Strasburgo: la maggior parte di loro
sale sul rogo.
Pietro di Vaux de Cernay si reca nella regione di Albi.
Simone di Montfort prende Agen.
Simone di Montfort riunisce a Pamiers un'assemblea incaricata di definire lo statuto politico
e giuridico dei territori conquistati (1 dicembre).
Cadono in mano ai crociati: Ananclet (massacro), Auterive (bruciata), Biron, Castelsarrasin,
Cauzac, Hautpoul (assedio e massacro), L'Isle, Moissac (assedio e massacro delle truppe
mercenarie), Montaut, Muret, Penne d'Agenais (assedio), Penne d'Albigeois (assedio), Saint-
Antonin (sacco del borgo), Saint-Gaudens, Saint-Marcel, Saint-Michel, Samatan, Verdun-sur-
Garonne.
1213. Il principe Luigi, figlio di Filippo Augusto, prende la croce (inizio dell'anno).
Battaglia di Muret (12 settembre).
Assedio e conquista di Casseneuil: massacro e demolizione delle mura.
1214. Battaglia di Bouvines (27 luglio).
Presa del castello di Dome nel Périgord (distruzione del maschio) e del castello di Montfort.
1215. Prima crociata del principe Luigi e ingresso di Simone di Montfort a Tolosa (aprile-
ottobre).
Il ricco cittadino di Tolosa Pietro Cellani dona a Domenico di Guzman numerosi edifici, che
diverranno sede dell'Inquisizione.
Apertura del Concilio del Laterano (11 novembre).
Persecuzioni contro gli eretici a Colmar.
1216.
Simone di Montfort riceve dal re di Francia l'investitura per la Linguadoca (10 aprile).
Assedio di Beaucaire e prima sconfitta dei crociati (maggio-agosto).
Morte di Innocenzo Terzo (16 luglio).
Simone di Montfort entra a Tolosa, reprime la rivolta e distrugge la città.
Una bolla di Onorio Terzo conferma solennemente l'ordine fondato da Domenico di Guzman
1217. Persecuzioni contro gli eretici a Cambrai.
Simone di Montfort prende il castello di Crest nel Delfinato e i castelli di La Bastide,
Monteil, Montgrenier, Pierrepertuse.
Inizio dell'assedio di Tolosa (ottobre).
1218. Morte di Simone di Montfort (25 giugno).
Morte di Pietro di Vaux de Cernay (fine di dicembre).
1219. Seconda crociata del principe Luigi.
Presa di Marmande, assedio di Tolosa e suo fallimento (maggio-giugno).
1220. Persecuzioni contro gli eretici a Troyes.
1221. Morte di Domenico di Guzman (6 agosto).
1222. Morte di Raimondo Sesto (agosto).
1223. Morte di Raimondo Ruggero, conte di Foix (aprile).
Morte di Filippo Augusto (14 luglio).
Consacrazione di Luigi Ottavo a Reims (6 agosto).
1224. Amalrico di Montfort lascia la Linguadoca (15 gennaio).
1225. Riunione delle chiese catare a Pieusse.
Morte di Arnaldo Amalrico, arcivescovo di Narbonne (29 settembre).
1226. Raimondo Settimo viene scomunicato dal Concilio di Bourges (28 gennaio).
Crociata di Luigi Ottavo (giugno-novembre).
Morte di Francesco d'Assisi (3 ottobre).
Morte di Luigi Ottavo a Montpensier (8 novembre).
1227. Gregorio Nono sale al soglio pontificio.
1229. Firma del trattato di Meaux.
Flagellazione di Raimondo Settimo davanti all'altare di Notre-Dame a Parigi (12 aprile).
Concilio di Tolosa (novembre).
1231. Montségur diviene la piazzaforte del movimento cataro.
Morte di Folco di Marsiglia, vescovo di Tolosa.
1232. Guilberto di Castres riunisce un sinodo cataro a Montségur.
1233. Gregorio Nono consacra definitivamente l'Inquisizione monastica e dà ai domenicani
una delega generale per l'esercizio di quest'ufficio (13 aprile).
Gregorio Nono conferma la creazione dell'Università di Tolosa «perché la fede cattolica
fiorisca in queste contrade» (29 aprile).
A Cordes tre domenicani vengono gettati in un pozzo.
1234. Raimondo Settimo pubblica i suoi "Statuti contro gli eretici".
Ad Albi l'inquisitore Arnaldo Cathala fa esumare i corpi di persone morte nell'eresia e viene
maltrattato dalla popolazione.
Gli inquisitori Guglielmo Arnaldo e Pietro Cellani condannano al rogo duecentodieci
persone a Moissac.
A Narbonne il popolo saccheggia i conventi domenicani.
1235. I domenicani vengono espulsi da Tolosa dietro ordine del conte e dei consoli
(novembre).
1239. A Montwimer (Marne) centoottantatré catari vengono bruciati alla presenza del conte
di Champagne.
1240. Raimondo Trencavel assedia Carcassonne (settembre).
1241. Raimondo Settimo promette a Luigi Nono di distruggere il castello di Montségur.
1242. Rivolta di Raimondo Settimo (aprile-ottobre).
Massacro di Avignonet (28 maggio).
1243. Trattato di Lorris (gennaio).
Il Concilio di Béziers decide la distruzione di Montségur.
Inizio dell'assedio di Montségur (13 maggio).
Ramon Damors porta a Montségur, a Bertrando Marty, alcune lettere del vescovo cataro di
Cremona (1 novembre).
Durando, vescovo di Albi, porta rinforzi all'esercito crociato che assedia Montségur
(novembre).
Il papa Innocenzo Quarto concede l'assoluzione a Raimondo Settimo (2 dicembre).
A Narbonne si svolge un concilio cui prendono parte i capi dell'esercito che assedia
Montségur.
1244. I crociati che assediano Montségur di notte danno la scalata alla rocca (5 gennaio?).
Fallimentare sortita notturna degli assediati (1 marzo).
Assedianti e assediati concludono una tregua (2 marzo).
Capitolazione di Montségur (14 marzo).
Rogo di Montségur (16 marzo).
1246. Il re Luigi ordina la costruzione di prigioni speciali per gli eretici a Carcassonne e a
Béziers.
1249. Il conte di Tolosa fa bruciare a Barleiges (Agen) ottanta credenti catari.
Morte di Raimondo Settimo (27 settembre).
1255. Presa di Quéribus, uno degli ultimi rifugi di catari della Linguadoca.
1271. Morte di Alfonso di Poitiers e di sua moglie Giovanna di Tolosa: la Linguadoca passa
alla corona di Francia (21-24 agosto).
BIBLIOGRAFIA
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