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MEMORIA SACRA

INTRODUZIONE STORICA ALL'ORGANIZZAZIONE E


LEGISLAZIONE DEGLI ARCHIVI DELLA CHIESA
CATTOLICA IN ITALIA DALL’ANTICHITA’ ALLA NASCITA
DELLO STATO ITALIANO.

A) EPOCA ANTICA

1) I primi tre secoli della Chiesa: prime testimonianze


archivistiche

L’indagine sull’organizzazione archivistica della Chiesa deve


necessariamente cominciare dai primordi, dalla nascita e sviluppo
delle prime comunità cristiane nel grande macrocosmo della civiltà
greco-romana1.
E’ in questi primi secoli, infatti, che si pongono le fondamenta
identitarie e istituzionali del cristianesimo e di quelle sue peculiari
forme che ancora oggi rivestono parte cospicua delle tradizioni della
Chiesa Cattolica.
E’ da tenere presente che la diffusione delle prime comunità cristiane
fu un fenomeno lento e accidentato, assai difficile da ricostruire nei
dettagli a causa della scarsezza e limitatezza delle fonti, ciò
nondimeno il timbro comune che si può evidenziare in questo
sviluppo è un caratteristico senso dell’organizzazione; il cristianesimo
non si diffuse come un semplice movimento di idee o una vaga
corrente spirituale, ma predilisse fin dall’inizio forme organizzative
coerenti con il messaggio comunitario e solidaristico del suo
Fondatore, senza dimenticare il retaggio giudaico di cui era
impregnata la nuova religione, un retaggio denso di esempi e di storia
riguardo alle forme organizzative.
Tale organizzazione non è da intendersi, però, come omogeneità
strutturale delle comunità cristiane fin dal loro primo apparire, al
contrario le forme organizzative delle chiese dell’età apostolica e delle

1
Tra le molteplici pubblicazioni sui primi secoli del Cristianesimo e della Chiesa si segnalano per
sintesi e chiarezza: G. FILORAMO, E. LUPIERI, S. PRICOCO, Storia del Cristianesimo.
L’antichità, Laterza; F. WINKELMANN, Il Cristianesimo delle origini, Il Mulino; N. BROX,
Storia della Chiesa. Epoca antica, Queriniana. Il testo di riferimento per rigore scientifico è
ancora: H. JEDIN, a cura di, Storia della Chiesa. Le origini, vol. I, Jaca Book.
1
generazioni immediatamente successive si presentano alquanto varie e
diversificate, fondamentale, infatti, si rivela l’impronta data dai singoli
fondatori e dal contesto culturale di riferimento.
In linea di massima è possibile delineare un’evoluzione istituzionale
delle comunità cristiane dei primi tre secoli attraverso tre fasi: la
prima, che si può prolungare fino alle prime decadi del II secolo d.c. ,
si caratterizza per una certa fluidità delle modalità organizzative e
delle strutture gerarchiche, esistono ministeri residenziali con funzioni
prevalentemente pratiche e amministrative che sono generalmente
subordinati ad altri ministeri itineranti costituiti da apostoli, discepoli
e profeti che hanno compiti missionari di diffusione del Vangelo. Si
tratta di una fase permeata da un forte senso escatologico, è
prevalente, infatti, la concezione di un’imminente fine dei tempi con
conseguente ritorno del Cristo; l’enfasi quindi si concentra soprattutto
sul ruolo carismatico degli apostoli e dei profeti la cui azione è di
viaggiare incessantemente al fine di propagare il più possibile il
messaggio cristiano prima dell’evento fatale.
A partire dalla prima metà del II secolo d.c. si assiste ad una nuova
fase in cui, posticipato ad un tempo indefinibile il nuovo avvento del
Cristo, l’attenzione si sposta sul consolidamento delle comunità;
l’autorità non riposa più sui carismi di apostoli e profeti, ma si radica
sempre più sulle funzioni amministrative e di governo e all’interno di
queste funzioni appare sempre più forte e rilevante la figura del
vescovo2.
L’autorità dei vescovi ingloba, in una progressiva percezione comune
a tutte le comunità cristiane, il carisma apostolico dell’età precedente
che viene idealmente trasmesso dall’apostolo al vescovo e da questi al
suo successore in una catena continua suggellata dal concetto di
successione apostolica.
Significativa appare la testimonianaza di Ignazio di Antiochia3 che,
verso l’anno 110 d.c., nei suoi scritti attesta una triplice gerarchia
degli ordini ecclesiastici con il vescovo al vertice e presbiteri e diaconi
a lui subordinati. Tale testimonianza non è da intendersi in senso
generalizzato, con validità in tutte le comunità del tempo, ma è
indubbio che a partire da quest’epoca emerga un tipo di struttura
gerarchica destinato ad affermarsi nel corso del II secolo fino a
diventare la forma comunemente accettata.
Queste forme così strutturate si combinano ad un tipo di comunità che
al principio del III secolo appare alquanto più complessa nelle

2
Sulla figura del vescovo e degli altri ministeri nella Chiesa antica: H. CROUZEL, Les origines
de l’Episcopat: fin du I, début du II, in L’éveque dans l’histoire de l’Eglise, Angers, 1984, pp. 13-
20; E. CATTANEO, a cura di, I ministeri nella Chiesa antica. Testi patristici dei primi tre secoli,
Paoline Editoriale, 1997.
3
IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Epistulae septem genuinae.
2
dimensioni, soprattutto nelle grandi metropoli ellenistiche, e nelle
necessità organizzative della vita comunitaria; la terza e ultima fase
dell’evoluzione organizzativa delle prime comunità cristiane comincia
proprio da questo periodo, il III secolo, infatti, corrisponde alla prima
significativa espansione del cristianesimo nel territorio dell’Impero, a
questa espansione conseguono attività di consolidamento delle
strutture interne delle chiese.
In Italia, la comunità di cui si dispongono maggiori informazioni è ,
prevedibilmente, quella romana; alla metà del III secolo, secondo la
testimonianza di Eusebio, la Chiesa di Roma comprendeva 46
presbiteri, 7 diaconi, 7 suddiaconi, 42 accoliti, 52 tra esorcisti, lettori e
sacrestani, più di 1500 tra vedove e poveri da mantenere4.
Un’organizzazione complessa, quindi, retta da una solida struttura
gerarchica capace di far fronte a tutte le varie necessità cultuali e
amministrative, così come assicurare la prima formazione di una base
economica necessaria al reperimento di edifici e terreni atti al culto e
alla sepoltura, ma anche fondamentale per il sostentamento dei ceti
più svantaggiati.
Questo processo evolutivo della struttura organizzativa delle prime
comunità cristiane, qui assai sinteticamente descritto, ci rimanda al
tema centrale della nostra indagine: l’organizzazione archivistica.
In effetti lo sviluppo del cristianesimo in comunità con un precoce,
seppur fluido e diversificato, senso dell’organizzazione fa pensare alla
necessità di registrazione scritta di documenti e alla loro raccolta onde
far fronte a tutte le attività inerenti alla vita comunitaria che, come si è
visto in precedenza, si andarono accrescendo in complessità nel
periodo compreso tra I e III secolo.
La registrazione e la conservazione di documenti, però, necessitano di
una serie di competenze che si possono far confluire in una più
generale cultura della scrittura, indagare sulla formazione e la tenuta
di complessi archivistici implica la conoscenza preliminare del livello
di alfabetizzazione e di considerazione del materiale scrittorio
presente nei contesti di riferimento.
Qual’era, quindi, lo stato complessivo della cultura scritta nelle prime
comunità cristiane?
Per rispondere a una tale domanda bisogna prima allargare
brevemente la prospettiva all’intero contesto della civiltà entro cui si
sviluppava il primo cristianesimo, vale a dire l’Impero Romano.
E’ opinione generale che alfabetizzazione e cultura scritta godessero
in età imperiale di livelli assai elevati, a riprova di ciò si citano le
numerose testimonianze di scrittura, soprattutto in forma epigrafica,
ancora oggi reperibili nei resti di antichi complessi urbani.

4
EUSEBIO DI CESAREA, Historia ecclesiastica.
3
Una recente pubblicazione5 che riassume una serie di rilevanti studi
sulla cultura scritta nell’antichità ridimensiona notevolmente tale
“vulgata”; secondo questi studi il livello complessivo di
alfabetizzazione nell’occidente antico, considerate le variazioni
regionali e temporali, si attestò su una media del 10 per cento della
popolazione complessiva con possibili punte comprese tra il 15 e il 20
per cento. Ovviamente tali dati devono essere considerati come
indicativi di una tendenza generale e accolti con prudenza, le fonti di
cui si dispone per l’antichità non consentono l’acquisizione di certezze
statistiche e demografiche, tuttavia il materiale citato offre una serie di
riferimenti importanti sull’argomento.
Il punto centrale contenutovi riguarda l’assenza di un sistema
organizzato di istruzione, le strutture esistenti furono insufficienti ad
alfabetizzare la massa delle popolazioni, anche se permisero la
formazione di minoranze qualificate, in alcuni ambienti urbani, con
elevato grado di cultura scritta.
Altro elemento assai importante su cui focalizzare l’attenzione è la
centralità della fruizione orale dei testi nel mondo antico, oralità e
scrittura erano assai più integrate di quanto l’esperienza con la cultura
scritta del mondo moderno ci faccia credere.6
Gli antichi preferivano ascoltare i testi piuttosto che leggerli
privatamente, le occasioni per un tale tipo di fruizione erano
numerose: rappresentazioni teatrali, recitazione di opere in prosa e
poesia, declamazioni oratorie, diatribe filosofiche in strada e nei
simposi e affissione e lettura di editti e decreti ufficiali.
Ciò detto, tali informazioni si presentano di notevole rilevanza nel
tentativo di comprendere lo stato della cultura scritta nelle prime
comunità cristiane che, ovviamente, si trovavano inserite nel contesto
umano e culturale della società antica. A tal proposito risulta
indicativo dare una rapida visione alla composizione cetuale di queste
comunità, da diverse ricerche sulla prima storia cristiana7 si possono
desumere un insieme di dati che offrono uno spaccato sociale
fortemente permeato dalla presenza di ceti medi, nelle prime comunità
non vi erano ancora significative presenze di ceti aristocratici, ma non

5
H. Y. GAMBLE, Libri e Lettori nella Chiesa Antica, Paideia, 2006. Il tema dell’alfabetizzazione
nell’antichità è di straordinaria complessità e quindi soggetto a opinioni diverse, tra i più riduttivi
ed autore delle analisi statistiche sintetizzate sopra: W.V. HARRIS, Lettura e istruzione nel
mondo antico, Laterza, 1991; più equilibrati i contributi sul tema di Guglielmo Cavallo tra cui si
segnala: G. CAVALLO, Gli usi della cultura scritta nel mondo romano, in AA. VV., Princeps
urbium. Cultura e vita sociale dell’Italia romana, Credito italiano, 1991, pp. 200.
6
Sul ruolo dell’oralità nella fruizione dei testi antichi: E. AUERBACH, Literatursprache und
Publikum in der lateinischen Spätantike und im Mittelalter, Bern, 1958; M. CITRONI, Poesia e
lettori in Roma antica. Forme della comunicazione letteraria, Laterza, 1995.
7
Sul rapporto tra primo Cristianesimo e società antica: R. PENNA, L’ambiente storico-culturale
delle origini cristiane. Una documentazione ragionata, EDB, 2000; R. M. GRANT,
Cristianesimo primitivo e società, Paideia, 1987.
4
prevalevano neanche i ceti più infimi, appare invece predominante la
partecipazione di componenti professionali come artigiani e
commercianti.
Alla luce della pubblicazione citata in precenza appare complicato
attribuire un profilo delineato ai livelli di alfabetismo di tali ceti,
livelli che possono oscillare alquanto tra alfabetizzazione elementare
e semialfabetismo con competenze limitate nella lettura, nel
complesso però è probabile che il livello medio di alfabetismo nel
primo cristianesimo si attestasse sulle cifre citate in precedenza, con
una componente maggioritaria di analfabeti e semianalfabeti e una
minoranza con competenze in tal senso più o meno qualificate.
Ciononostante sarebbe un errore inferire da tali considerazioni una
scarsa o nulla importanza della cultura scritta nell’antica società
cristiana, il cristianesimo infatti è centrato su una rivelazione che
assunse precocemente forme scritte, senza dimenticare il forte legame
originario con la tradizione giudaica anch’essa fondata su testi scritti,
l’interpretazione e la conoscenza di tali testi erano elementi centrali
nella vita dei primi cristiani, ondecui l’alfabetismo, seppure non
necessario per l’apparteneza alle comunità, era certamente
incoraggiato soprattutto nelle figure che avevano responsabilità
direttive e amministrative, con ogni probabilità il possesso di
competenze nella scrittura e nella lettura dei testi era elemento
fondante nella selezione delle gerarchie di governo delle comunità
eccclesiali, ciò particolarmente dal principio del II secolo.
Inoltre la presenza nelle comunità di maggioranze non alfabetizzate
non inficiava una certa familiarità con il complesso della cultura
scritta, come si è detto in precedenza la cultura antica dava notevole
importanza alla fruizione orale dei testi e i cristiani non facevano
eccezione in tal senso, anzi l’oralità mediata da un ceto dirigente che
trasmetteva il patrimonio di verità in forma testuale mediante ripetuti
incontri e occasioni contribuiva a consolidare nei cristiani sia la
conoscenza della tradizione giudaico-cristiana sia l’abitudine alle
forme scritte di quella tradizione.
Quello che appare sostanziale, ai fini della comprensione
dell’organizzazione e formazione di archivi nel primo cristianesimo, è
proprio questa peculiare attitudine alla cultura scritta che assunse
precocemente le forme di una coscienza della memoria da costruire e
consolidare mediante la formazione e la conservazione di testi scritti.
Indicativa su quanto detto appare una testimonianza di Tertulliano8
che, in una sua opera9 orientata alla confutazione delle eresie, sfida gli

8
Su questo importante autore cristiano del III secolo si consiglia la consultazione del sito:
www.tertullian.org/ , vi si può trovare l’opera completa in lingua latina originale, in lingua inglese
e altre lingue compreso l’italiano.
5
eretici a comprovare l’adesione delle loro dottrine all’originaria
predicazione apostolica mediante la presentazione di ordini di
successione che partono dagli apostoli fondatori e proseguono con i
vescovi legittimamente ordinati, una prova, che a dire dell’apologeta,
non comporta alcuna difficoltà per le comunità ortodosse in quanto la
memoria della successione apostolica era tradizionalmente preservata
da ciascuna comunità.
Tale testimonianza ci presenta squarci significativi sullo sviluppo di
una coscienza storica ecclesiale considerata come elemento centrale
dell’identità cristiana ortodossa, Tertulliano, infatti, nel confutare le
eresie non si limita ad argomentazioni teologico-speculative, ma
concentra l’attenzione sul momento storico, sulla tradizione
documentata e comprovabile, e accusa sostanzialmente gli eretici di
non avere storia, perlomeno una storia che possa essere comprovata, e
quindi di fondare le loro speculazioni sulla creatività estemporanea di
un ingegno senza alcun riferimento ad una tradizione documentata che
riconduca all’originaria predicazione degli apostoli.
Questa coscienza storica così centrale che sarà caratteristica costante
della Chiesa Cattolica ha importanti implicazioni sulla formazione e
conservazione degli archivi di ambito ecclesiale; la documentazione
archivistica, infatti, non si limita ad avere un valore esclusivamente
pratico-amministrativo, inerente solo al corretto svolgimento delle
attività degli enti ecclesiastici, ma, alla luce di quanto si è detto, tale
documentazione costituisce un patrimonio identitario di assoluta
rilevanza nella scelta e determinazione delle forme, delle procedure e
modalità di agire di ciascuna comunità, i documenti acquisiscono,
quindi, sin dalla loro formazione un valore teologico-pastorale che si
estrinseca potenzialmente per tutta la loro vita.
Questa concezione peculiare dei documenti ecclesiastici la si riscontra
fin dalle prime testimonianze su archivi e formazione di documenti
nelle antiche comunità cristiane; il riferimento più antico riguardante
tali ambiti lo si ritrova in un prezioso testo di età più tarda: il Liber
Pontificalis10.
9
TERTULLIANO, De Praescriptione Haereticorum, XXXII: “Ceterum si quae audent interserere
se aetati apostolicae ut ideo videantur ab apostolis traditae quia sub apostolis fuerunt, possumus
dicere: edant ergo origines ecclesiarum suarum, evolvant ordinem episcoporum suorum, ita per
successionem ab initio decurrentem ut primus ille episcopus aliquem ex apostolis vel apostolicis
viris, qui tamen cum apostolis perseveraverit, habuerit auctorem et antecessorem. Hoc enim modo
ecclesiae apostolicae census suos deferunt, sicut Smyrnaeorum ecclesia Polycarpum ab Iohanne
conlocatum refert , sicut Romanorum Clementem a Petro ordinatum est”.
10
Il Liber Pontificalis si costituisce di una serie di biografie dei Papi da Pietro fino a Stefano IV
(885-891) e successivamente continuate fino a poco oltre la metà del 15° secolo (Papa Pio II
1464). Queste biografie, ordinate cronologicamente, contengono informazioni riguardo il luogo di
nascita di ciascun Papa, la lunghezza del suo pontificato, le norme e le disposizioni da lui emesse,
le costruzioni ecclesiastiche promosse, donazioni e reliquie acquisite e altre notizie di portata
variabile. Informazioni approfondite sul Liber Pontificalis possono rinvenirsi nel sito della
Catholic Encyclopedia: www.newadvent.org
6
In tale fonte le biografie di alcuni Papi della prima età cristiana
(Clemente-morto alla fine del I secolo; Antero-morto nel 236;
Fabiano-morto nel 250) riportano i loro tentativi di reperire, ricopiare
e conservare gli atti dei martiri mediante l’opera di diaconi e notai
fedeli alla chiesa11. Il termine “Atti dei martiri” ha una connotazione
non semplice da definire in maniera univoca, spesso il riferimento è
connesso a rielaborazioni letterarie di originari atti processuali,
rielaborazioni che, in maniera più precisa, possono denominarsi
Passioni e Leggende12.
In ogni caso, secondo i riferimenti del Liber Pontificalis, si assiste a
un complesso percorso di produzione documentaria che ha
probabilmente i suoi inizi nel reperimento di atti processuali
conservati negli archivi romani, documenti di schietta natura
giudiziaria che originano, a partire dalle loro copie, una vasta serie di
scritti di natura agiografica e apologetica, preziosi strumenti di
supporto alle funzioni rituali e pastorali delle antiche comunità
cristiane. Nella sua ricca Storia Ecclesiastica, Eusebio, ci dà
testimonianza delle prime manifestazioni del culto dei martiri, un
culto che viene ritualizzato nella liturgia eucaristica mediante la
lettura delle Passioni nella relativa ricorrenza anniversaria13.
Già in questo primo flebile scorcio della produzione documentaria
delle antiche comunità cristiane è possibile percepire l’inestricabile
osmosi tipologica che caratterizza la documentazione ecclesiastica,
ciascun documento, infatti, vive pienamente l’intera vicenda
funzionale della comunità che lo custodisce, ciò significa ad esempio
che scritture di natura giuridica, giudiziaria, economica e
amministrativa possono non limitarsi alla funzione per cui sono state
prodotte ed essere asservite a strumenti di chiarificazione teologica,
ausilio pastorale e apologetico o anche meditazione cultuale, in ogni
momento della loro esistenza. Tale natura “polimorfa” dei documenti
ecclesiastici oltre a rendere più complessa la loro gestione spiega
anche l’ambiguità caratteristica tra produzione documentaria in senso
stretto e produzione letteraria e quindi la confusione tra biblioteca e
archivio chiaramente avvertibile nell’organizzazione ecclesiastica fino
all’età moderna.

11
Liber Pontificalis: Clemens, II, “Hic fecit VII regiones, dividit notariis fidelibus ecclesiae, qui
gestas martyrum sollicite et curiose, unusquisque per regionem suam, diligenter perquireret”.
Anteros, II, “Hic gestas martyrum diligenter a notariis exquisivit et in ecclesia recondit, propter
quodam Maximino presbitero qui martyrio coronatus est”. Fabianus, II, “Hic regiones dividit
diaconibus et fecit VII subdiaconos qui VII notariis imminerent, ut gestas martyrum in integro
fideliter colligerent …”.
12
Sugli Atti dei martiri è possibile consultare proficuamente: C.MORESCHINI, E. MORELLI,
Storia della letteratura cristiana antica greca e latina, I, Morcelliana, 1995. G. LAZZATI, Gli
sviluppi della letteratura sui martiri nei primi quattro secoli, SEI, 1956
13
EUSEBIO DI CESAREA, Historia ecclesiastica IV, 15, 3-45
7
Una tipologia documentale perfettamente ascrivibile al polimorfismo
sopracitato è rappresentata dalle “lettere”, nel mondo antico la forma
della lettera poteva comprendere scritti della più varia natura, alcuni
più privati e pratici, altri più eleganti e letterari degni di una lettura in
pubblico, senza dimenticare le funzioni più formali, giuridico-
amministrative, delle tipologie di lettera emanate dalle autorità
ufficiali e dai loro funzionari. Anche l’antico mondo cristiano si servì
di questa forma testuale, anzi, si può dire che la predilisse come si può
facilmente notare dalla lettura degli scrittori cristiani di quell’epoca, le
opere di Tertulliano, Cipriano ed Eusebio, per citare i più noti, sono
piene di riferimenti e citazioni tratti da fonti epistolari, le opere stesse
a volte hanno forma di lettera.
La tipologia epistolare, nell’uso fatto dai cristiani, accentua la sua
propensione alla multifunzionalità, le lettere di Paolo, ad esempio,
sono parte del Canone neotestamentario e quindi sono associabili a
funzioni eminentemente teologiche e dottrinarie, tuttavia molte di esse
sono state concepite per la risoluzione di situazioni concrete verso cui
i riferimenti dottrinali erano strumentali14.
La complessità funzionale di tale forma documentale si recepisce più
in particolare dall’analisi del sistema delle lettere di comunione,
questo sistema, tratteggiato da Ludwig Hertling nella sua Storia della
Chiesa15, merita di essere brevemente riportato in questa sede per le
possibilità che apre alla comprensione dei rapporti tra produzione
documentaria e struttura organizzativa della Chiesa antica.
Proprio questo sistema permetteva che il concetto di Chiesa come
unità dei fedeli in Cristo non rimanesse una pia astrazione metafisica,
dal momento che, in effetti, la realtà istituzionale della Chiesa in quei
tempi si costituiva di singole comunità ecclesiali tra loro autonome e
indipendenti nonché diverse per consuetudini e forme di
organizzazione; eppure molte di queste comunità si sentivano in
comunione tra loro e, di conseguenza, parte di un unico organismo
ecclesiale. Tutto ciò avveniva mediante l’ausilio di una cospicua
produzione documentaria di cui le lettere avevano parte determinante.
Quando un fedele di una comunità cristiana si metteva in viaggio
veniva dotato dal proprio vescovo di uno speciale documento definito
dalle fonti lettera di comunione, lettera di pace o lettera di
raccomandazione16, tramite questa sorta di passaporto il viaggiatore
poteva trovare accoglienza e ospitalità gratuita presso qualsiasi altra
14
Per una più specifica trattazione del genere epistolare nell’antichità cristiana è utile consultare C.
MORESCHINI, E. NORELLI, op.cit.
15
L. HERTLING, A. BULLA, Storia della Chiesa, Città nuova, 2001
16
Concilio di Calcedonia 451, Canone XI “Omnes pauperes et indigentes auxilio, cum
proficiscuntur, sub probatione epistolis ecclesiasticis pacificatis tantummodo commendari
decrevimus, et non commendaticiis litteris, propterea quod commendaticiae litterae personis
honoratioribus solummodo conceduntur”.
8
comunità cristiana in cui giungesse, i pellegrini dotati di questi
documenti che attestavano la loro appartenenza alla communio
cristiana erano al contempo, assai spesso, messaggeri portatori di
lettere e documenti provenienti dalla propria e da altre comunità.
Queste lettere di comunione non svolgevano solamente un ruolo di
pratico riconoscimento dei pellegrini ospitati, ma contribuivano alla
concreta costituzione di un senso unitario della cristianità ortodossa,
infatti, le lettere recate dai viaggiatori funzionavano in combinazione
con uno specifico registro in cui ciascuna comunità elencava i vescovi
con cui era in comunione, cioè le chiese che condividevano i principi
dottrinari fondamentali del Cristianesimo, mediante tale registro le
lettere di comunione venivano redatte in partenza e controllate
all’arrivo.
I registri a loro volta venivano periodicamente aggiornati tramite la
ricezione di lettere che comunicavano l’elezione di un nuovo vescovo
ed anche di lettere sinodali che contenevano la trascrizione delle
decisioni prese in una sinodo unita ad una professione di fede e ad
anatemi contro le eresie17.
Tutto questo pullulare di lettere e documenti vari sosteneva
un’organizzazione ecclesiale rappresentabile come una
confederazione di comunità, una fitta trama di nodi che aveva nel
rituale dell'eucaristia e nella contesseratio hospitalitatis18, per usare le
parole di Tertulliano, il momento fondamentale nella determinazione
della communio e della coscienza dell’unità, una coscienza che, a sua
volta, aveva nei documenti e quindi negli archivi la sua vita e la sua
carne.
Tuttavia questa confederazione ecclesiale aveva i suoi centri focali,
non tutte le comunità avevano i medesimi mezzi e, quindi, un eguale
carisma e prestigio, le chiese costituitesi nelle grandi metropoli del
mondo antico acquisirono, nel corso del tempo, sempre più rilevanza
in ambiti non solo dottrinali, ma anche economici e sociali.
Tra queste sedi spiccava in Italia la comunità di Roma, della quale si è
già menzionato in precedenza il notevole livello strutturale e
organizzativo raggiunto alla metà del III secolo. Questo risultato era
stato possibile, innanzitutto, per una sostanziale assenza di
persecuzioni sistematiche durante tutto il II secolo e le prime decadi di
quello successivo prima degli editti persecutorii di Decio e Valeriano,
poi dal 260 al 303 d.c., data d’inizio della persecuzione Dioclezianea,

17
L.HERTLING, A. BULLA, op.cit., pp. 36-39
18
TERTULLIANO, De Praescriptione Haereticorum, XX, "…Omnes genus ad originem suam
censeatur necesse est. Itaque tot ac tante ecclesiae una est illa ab apostolis prima, ex qua omnes.
Sic omnes primae et omnes apostolicae, dum una omnes. Probant unitatem communicatio pacis et
appellatio fraternitatis et contesseratio hospitalitatis".
9
si ebbero altri quarant’ anni circa di tregua e di condizioni favorevoli
al consolidamento, anche quantitativo, della comunità ecclesiale.
La pace sostanziale di cui godette la Chiesa in questo lungo periodo
fu, certamente, condizione preliminare, ma, non esclusiva del suo
impiantarsi come realtà sempre più stabile; si rivelò fondamentale
tutta una serie di attività assai originali di cui la comunità cristiana era
protagonista esclusiva.
Queste attività costituivano una sorta di embrionale “welfare state”,
cioè un sistematico ed organizzato intervento di sussidio agli strati più
deboli della popolazione che diventerà anche nei secoli successivi uno
dei tratti più rilevanti e specifici della vita ecclesiale.
Il bisogno di tali interventi era tanto più sentito in quanto inesistente
nella politica dello Stato Romano che si limitava al massimo
all’erogazione di contributi per privilegio civico, cioè sussidi agli
abitanti di una città non in base al reale bisogno, ma solo in quanto
cittadini maschi maggiorenni con diritti civili, ciò significava che una
larga parte della popolazione in condizioni di maggiore precarietà ne
era esclusa.
La Chiesa romana, dunque, non si limitava alle attività di diffusione e
conoscenza della nuova religione con le connesse azioni rituali, ma
interveniva nella vita dell’Urbe in qualità di attore economico dal
momento che l’esplicazione di attività di assistenza ai poveri
necessitava di un patrimonio di risorse non indifferenti.
Questo ruolo economico della Chiesa viene qui riportato in quanto
connesso direttamente alla formazione di archivi, in effetti la gestione
di un patrimonio di beni mobili e immobili richiede, da tempi assai
antichi, l’ausilio di documentazione scritta, come, ad esempio,
inventari, registri di conti e contratti.
Alcune tipologie di siffatta documentazione sono attestate in una fonte
già più volte menzionata: la Storia della Chiesa di Eusebio di Cesarea,
ivi è riportata, in particolare, una lettera di Papa Cornelio (251-253)
inviata a Fabio di Antiochia in cui si citano una matricula pauperum
ed una matricula viduarum, specifici registri finalizzati alla
contabilizzazione dei sussidi dati agli aventi diritto, un’operazione di
grande delicatezza che richiedeva senso dell’amministrazione e, di
conseguenza, un’attenta custodia archivistica dei documenti posti in
essere19.
In definitiva la storia dei primi tre secoli della Chiesa ci mostra un
quadro popolato da comunità vieppiù vitali e solidamente strutturate,
protagoniste non marginali nella cultura scritta del mondo antico e
portatrici di una serie originale di interventi sul piano economico e
sociale, una visione complessiva che, in aggiunta ai pochi squarci

19
EUSEBIO DI CESAREA, Historia Ecclesiastica 6, 43, 12
10
diretti sulla cultura documentaria presentati in precedenza, rende
probabile l’esistenza di ricchi complessi archivistici perlomeno nelle
comunità ubicate nei centri più rilevanti.
Resta, certamente, il desiderio di saperne di più circa i luoghi di
conservazione del materiale archivistico e la sua gestione; con ogni
probabilità gli archivi delle comunità ecclesiastiche erano
materialmente gestiti in maniera non differente dagli archivi privati di
famiglie e corporazioni del mondo antico, quindi si poteva ricorrere ai
tabelliones o ai notarii per la scrittura di alcune tipologie documentali
e alla domus privata, utilizzata come luogo di culto, per la loro
conservazione in apposite capsae o armaria secondo la forma dei
documenti in volumen o codex20.
Merita, però, di essere riportata una fonte la cui interpretazione,
alquanto controversa, può essere interessante al fine di penetrare, per
quanto possibile, nei luoghi degli antichi archivi cristiani.
In una lettera, Ignazio, vescovo di Antiochia, scrivendo alla chiesa di
Filadelfia, riferisce di una conversazione avuta con alcuni avversari:
“Ho infatti sentito certa gente dire: “Se non lo trovo negli archivi
(archeiois) non lo credo nel vangelo”. E quando dissi loro: “Sta
scritto”, quelli mi risposero: “Sta proprio qui la questione”. Ma per me
gli archivi (archeia) sono Gesù Cristo, gli archivi (archeia) inviolabili
sono la sua croce e la sua morte e la sua resurrezione e la fede che è
per mezzo di lui”21.
Ciò che rappresenta il punto centrale in questo testo è il significato del
termine archeion, una parola greca il cui significato originario è luogo
del potere o, più precisamente, sede del governo; successivamente la
parola in un senso traslato passò ad indicare il luogo di conservazione
dei documenti o i documenti stessi.
Il problema, però, è capire quale senso dare al termine archeion così
come inteso da Ignazio. In un’opera sugli archivi dell’antica Roma,
Giorgio Cencetti22, individua nel termine suddetto nient’altro che gli
archivi pubblici dell’amministrazione statale, tuttavia molti
commentatori23, sulla base di una lettura essenzialmente storico-
contestuale dell’intera lettera, riferiscono il termine archeion alle
Scritture giudaiche considerate come documenti istitutivi della Chiesa,
tale interpretazione poggia sull’ipotesi di una diatriba dottrinale tra

20
Sugli archivi dell’evo antico e in specie dell’età romana si segnalano: E. POSNER, Archives in
the ancient world, Cambridge, 1972; G.CENCETTI, Gli archivi dell’antica Roma in età
repubblicana e G. CENCETTI, Tabularium Principis, entrambi ripubblicati in G. CENCETTI,
Scritti archivistici, Il Centro di ricerca editore, Roma, 1970, pp. 171-220 e 221-259
21
IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Littera ad Filadelfos, 8,2
22
G. CENCETTI, Gli archivi dell’antica Roma in età repubblicana, op. cit. , nota 142
23
Una rassegna delle trattazioni sul passo si può consultare in: W.R. SCHOEDEL, Ignatius and
the archives, in The Harvard Theological Review, vol. 71, 1978, pp. 97-106
11
Ignazio e alcune comunità cristiane filogiudaizzanti diffuse a quel
tempo in Asia minore e in Siria.
Un altro autore24 ancora, invece, propone un’interpretazione del
termine controverso fondata non tanto sul contenuto, cioè le Sacre
Scritture, ma sul contenitore, ossia il luogo di conservazione delle
Scritture e, probabilmente, di altri documenti, l’archeion, quindi,
sarebbe l’archivio di un’antica comunità cristiana, un archivio-
biblioteca in cui si conserverebbero insieme testi biblici e materiale di
natura più strettamente documentaria. Se quest’ultima ipotesi
corrispondesse alla realtà testimoniataci da Ignazio sarebbe
un’ulteriore conferma del carattere ambiguo degli antichi archivi
ecclesiastici, un’ambiguità originata dalle particolari caratteristiche,
già prima messe in evidenza, della produzione documentaria
ecclesiastica.

2) La Chiesa dopo l’editto di Milano: Compenetrazioni culturali e


istituzionali tra Impero e comunità ecclesiali e loro conseguenze
archivistiche

Prima di lasciare le ombre della marginalità storica e ambire ad un


ruolo centrale nel divenire umano, il Cristianesimo dovette affrontare
un’ultima, decisiva prova, la persecuzione di Diocleziano.
Questo grande imperatore nel tentativo di ricostruire l’Impero su basi
più solide percepì la nuova religione come un corpo estraneo,
pericoloso per la coesione sociale che si voleva improntata sui valori
tradizionali della civiltà greco-romana.
La persecuzione non si limitò agli uomini, ma coinvolse anche i libri:
il primo editto contro i cristiani, emanato nel 303 d.c., ordinava che i
libri cristiani venissero confiscati e bruciati dagli agenti imperiali25.
Con ogni probabilità non solo libri ma l’insieme degli scritti
conservati negli archivi-biblioteche delle comunità fu in gran parte
distrutto o disperso.
La caccia al cristiano scatenata da Diocleziano e, soprattutto, dal suo
fidato collega Galerio, fu la più lunga e crudele tra quelle che i
cristiani ebbero a subire ad opera degli imperatori, tuttavia non riuscì
nel suo intento, il cristianesimo, sebbene ancora minoranza in gran
parte dell’Impero, era ormai fortemente impiantato in ogni ordine

24
H.Y. GAMBLE, Libri e lettori nella chiesa antica, op. cit. pp. 200-201
25
EUSEBIO DI CESAREA, Historia Ecclesiastica 8, 2, 4
12
sociale e una sua persecuzione sistematica finiva per indebolire e non
rafforzare quel tessuto connettivo della civiltà ellenistica che
rappresentava il fine del grande disegno riformatore di Diocleziano.
Di ciò si rese conto anche Galerio, il più ostile ai cristiani, che nel 311
emise un decreto con cui si ordinava la cessazione delle attività
persecutorie e si proclamava la tolleranza e la libertà di culto per il
cristianesimo.
Fu quindi Galerio a sancire per primo la tolleranza religiosa per il
cristianesimo, ma fu Costantino, due anni dopo, a trasformare le
chiese cristiane da elementi secondari a protagonisti sulla scena
globale dell’Impero.
L’editto di Milano del 313 così motiva la libertà di culto concessa ai
cristiani: “…affinchè tutto ciò che c’è di divino nella sede celeste sia
ben disposto e propizio verso noi e verso tutti quelli che sono posti
sotto il nostro potere…affinchè la somma divinità, alla cui
venerazione ci dedichiamo spontaneamente, possa mostrarci in tutte
le cose il suo solito favore e la sua benevolenza” 26.

Costantino, quindi, come si può desumere dal suo editto, non


privilegiò il cristianesimo in sé, ma era propizio a una visione del
divino su base monoteistica e ritenendo il Dio cristiano un potere assai
autorevole considerò naturale chiederne la protezione ai fini di quel
progetto di consolidamento dell’Impero di cui si sentiva erede e
continuatore; solo che questo progetto, adesso, aveva nuovi
riferimenti, non più unicamente le tradizionali virtù della romanitas
unite alle speculazioni filosofico-religiose di ascendenza ellenistica,
ma anche questa nuova religione che aveva saputo diffondersi nella
trama complessa dell’Impero e resistere a vari tentativi di epurazione,
tutti segni, inequivocabili per quei tempi, di effettiva potenza e
autorevolezza di un Dio.
Da queste premesse, negli anni successivi, si creeranno le condizioni
per un sodalizio tra autorità imperiale e Cristianesimo che si rivelerà
d’importanza decisiva per la storia delle civiltà europee e non solo; a
ben vedere la complementarità d’intenti tra compagine imperiale e
comunità ecclesiale era a quel tempo evidente, gli imperatori trarranno
dalla protezione delle chiese e dal loro favore un carisma e un’autorità
inusitate che donerà loro un’aura sacrale, intrisa di mistero e
trascendenza, dal canto loro le chiese, grazie alla benevolenza
imperiale, godranno di mezzi e poteri in precedenza impensabili, ma
soprattutto beneficeranno di un senso unitario, costituito dall’essenza
politica universale dell’Impero, indispensabile per attuare quella
chiarificazione e delimitazione dottrinale difficile da mettere a punto

26
LATTANZIO, De Mortibus Persecutorum 48. 2-13
13
in un sistema istituzionale così fluido e diversificato quale quello che
si è descritto nel paragafo precedente.
Per le chiese comincia un processo di profonda compenetrazione a
tutti i livelli culturali con il ricchissimo patrimonio di civiltà
dell’antichità ellenistico-romana, nessun ambito ne fu escluso: lingua,
letteratura, pensiero filosofico, costumi e mentalità.
Un ambito in particolare interessa qui approfondire per i suoi rilevanti
legami con la formazione e organizzazione di archivi, l’ambito
giuridico e istituzionale.
Nei loro primi tre secoli di storia le comunità cristiane adoperarono un
diritto consuetudinario fondato sui testi sacri e sulla predicazione
apostolica, in alcune regioni, in particolare quella siro-palestinese, si
composero i primi testi specificamente normativi modellati sulla
tradizione orale e sulle pratiche di vita sperimentate dalle comunità27.
Le norme si riferiscono in gran parte ad aspetti liturgici, morali e
pastorali riflettendo le principali preoccupazioni della vita cristiana di
quel tempo.
Dopo l’editto di Milano la cultura giuridica ecclesiastica sarà attratta e
influenzata, in maniera sempre più intensa, dalla grande tradizione
giuridica romana, verso tale direzione spingeva il mutamento
funzionale e organizzativo che le chiese sperimentavano in quegli
anni. In breve tempo, infatti, si era passati da persecuzioni
sistematiche al formale riconoscimento delle comunità cristiane come
collegia licita, ciò comportava la possibilità per le chiese di essere
titolari di beni non solo tramite i patrimoni dei singoli fedeli, come
avveniva anche in precedenza, ma come autonomo soggetto di diritto
con disponibilità proprie e distinte da quelle dei privati.
Le chiese potevano quindi operare economicamente in condizioni
incomparabilmente più favorevoli di quelle precedenti, il loro nuovo
status facilitava l’aquisizione di lasciti ed eredità testamentarie
permettendo la costituzione di ingenti patrimoni che venivano non
soltanto protetti dall’autorità statale, ma, spesso, anche incrementati
dalla benevolenza imperiale.
I vescovi si trovavano a svolgere attività legate non solo alla
tradizionale cura d’anime, loro compito precipuo, ma anche
all’amministrazione di cospicue ricchezze, soprattutto fondiarie, che
richiedevano specifiche capacità che con linguaggio moderno
potremmo definire manageriali; ma non solo, ai vescovi si richiedeva
di svolgere anche ruoli tipici dell’amministrazione pubblica, come
l’esercizio del potere giurisdizionale, la cosiddetta audientia

27
La raccolta più antica che si conosca è la Didachè, compilata attorno al 100 d.c. in ambienti
giudaico-cristiani.
14
episcopalis28, riconosciuta da Costantino nel 318 d.c.; un ruolo
pubblico che verrà incrementandosi nel IV e V secolo a cagione della
profonda crisi che coinvolgerà tutta la struttura imperiale, in special
modo in occidente.Si può ben immaginare, quindi, come chiese con
tali compiti e funzioni necessitassero di strutture organizzative e
giuridiche assai differenti da quelle invalse in uso fino all’avvento di
Costantino, sarà quindi naturale l’assorbimento costante di prassi,
elementi e principi caratteristici del diritto e dell’amministrazione
dello Stato romano, a cominciare dall’assetto stesso dell’intero
sistema delle comunità ecclesiali.
Il sistema di comunità cristiane era caratterizzato, come si è già detto
nel paragrafo precedente, da una confederazione di chiese in cui
ciascuna comunità, del tutto autonoma, si rapportava all’ideale della
Chiesa unitaria e universale mediante una fitta trama di scambi
epistolari e personali; questa struttura confederativa resisterà nelle sue
linee sostanziali, ma si accrescerà nel corso dei secoli tra il IV e il VI
la tendenza alla gerarchizzazione e al raggruppamento delle chiese
locali. Il modello di riferimento è costituito dalla riforma delle
circoscrizioni civili elaborata da Diocleziano, mediante la quale il
territorio si divideva in prefetture, diocesi, province, parrocchie o
distretti.
Su questo modello si viene delineando progressivamente una
federazione di chiese su triplice scala gerarchica: sedi
supermetropolitane, province o metropoli, diocesi. Le sedi
supermetropolitane corrispondono a Chiese di grande prestigio il cui
carisma derivava dalla fondazione apostolica e dall’importanza della
città in cui erano ubicate, nel corso del VI secolo Giustiniano sancirà
formalmente la predominanza di cinque sedi supermetropolitane,
Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme,
definite anche come patriarcati, che costituiranno insieme il sistema
della Pentarchia.
Nelle metropoli o capitali delle province dove, secondo la prassi
istituzionale romana, dimoravano il governo e il pontifex, viene a
insediarsi il vescovo metropolita o arcivescovo che ha poteri direttivi e
disciplinari sui vescovi della provincia e attribuzioni specifiche in
materia di elezioni e consacrazioni vescovili e in ordine alla
presidenza di sinodi provinciali e di tribunali di appello.
Ciascuna metropoli era formata da un numero variabile di diocesi
amministrate dai vescovi e articolate da un composito tessuto di
chiese locali tra cui le più importanti saranno, in Italia, le pievi che,

28
Su questo peculiare aspetto dello status del vescovo in epoca tardo-antica cfr. G. VISMARA,
Episcopalis Audientia, Vita e pensiero, Milano, 1937; G. VISMARA, La giurisdizione civile dei
vescovi, Giuffrè, Milano, 1995
15
dirette da collegi di preti, rappresentavano la frontiera più avanzata del
Cristianesimo nel mondo rurale, ancora in gran parte legato ai vecchi
culti pagani.
La razionalizzazione della struttura istituzionale ecclesiastica fu
favorita anche da una produzione giuridica più adeguata alle nuove
esigenze che scaturiva dalle sempre più frequenti riunioni conciliari.
La necessità di far coincidere alle trasformazioni in atto del ruolo delle
chiese una maggiore chiarezza e uniformità sul piano dottrinale e
disciplinare, trovava nelle riunioni conciliari dei vescovi la sede
ottimale, in particolare, la formulazione di principi di portata generale
validi per tutte le chiese ebbe il suo centro nevralgico nei concili
generali ecumenici.
I concili ecumenici29 rappresentarono una delle novità più rilevanti del
IV secolo in quanto le loro decisioni successivamente elaborate in
raccolte sistematiche costituirono il nucleo di base per la formazione
del diritto canonico, inoltre questi concili non riguardarono solo la
sfera particolare dell’ambito ecclesiale, ma divennero vere e proprie
strutture costituzionali dell’Impero e i relativi decreti acquistarono
rilevanza giuridica per i sudditi mediante la conferma dell’imperatore.
Da ciò che si è detto si può comprendere che in queste sedi
particolarmente solenni i vescovi e gli imperatori cercavano di
definire soprattutto una concordia dottrinale che avesse piena
autorevolezza e contrastasse la diffusione di deviazioni eretiche che in
quegli anni di intensi dibattiti e diatribe teologiche trovavano sempre
nuovo alimento; ma le eresie non erano l’unica preoccupazione, vi era
anche la necessità di organizzare una disciplina generale del clero che
regolasse in qualche modo una vita ecclesiale tumultuosa e in piena
crescita.
Il IV concilio ecumenico tenutosi a Calcedonia nel 451 d.c. riassume
nelle sue deliberazioni tutti i canoni di ambito organizzativo e
disciplinare prodotti nei precedenti concili ecumenici, alcuni di questi
canoni meritano qui di essere evidenziati per la loro attinenza con le
problematiche di formazione e gestione documentaria.
Il canone XXVI è di particolare importanza perché prescrive la
necessità per le chiese vescovili di dotarsi di un economo che
amministri il patrimonio dei beni di cui la chiesa dispone, si
estrinseca, quindi, in tale disposizione, la figura di un amministratore
che si occupi di tutte le incombenze di gestione economica e di
conseguenza della relativa produzione e conservazione di documenti
inestricabilmente connessi ad attività di cui l’aspetto giuridico-
contabile è parte integrante.

29
H. JEDIN, Breve storia dei concili. I ventuno concili ecumenici nel quadro della storia della
Chiesa, Morcelliana, 2006.
16
In questo canone, quindi, si prefigurano, allo stato embrionale, alcuni
elementi di burocrazia che verranno richiamati e disciplinati in tante
altre disposizioni successive riguardanti i beni ecclesiastici30.
Vi sono, poi, alcuni canoni che vanno intesi nel senso di una precisa
volontà di definizione della giurisdizione e delle competenze di
ciascuna chiesa, a ciò ostava l’irrequietezza deambulante di una
moltitudine di chierici e monaci che favorivano con i loro continui
spostamenti uno stato di confusione e incertezza sulla gestione
disciplinare del clero nonché sull’intero servizio di cura d’anime,
ondecui si cercava di ovviare con tutta una serie di disposizioni
(canoni III, IV, V, VI, VIII, X, XI, XIII, XX) che constringessero i
membri del clero e i monaci a una più rigorosa irregimentazione
all’interno dei limiti giurisdizionali delle loro chiese sotto l’autorità
del vescovo.
Naturalmente questa politica di controllo necessitava di specifiche
tipologie documentarie, alcune si sono già viste nel paragrafo
precedente e cioè quelle lettere di comunione abbinate a registri e ad
elenchi di vescovi con cui ciascuna comunità era in correlazione che
vedranno aumentato in quest’epoca il loro valore funzionale di
controllo degli spostamenti di fedeli e membri del clero.
I canoni XI e XIII descrivono le epistulae ecclesiasticae pacificatae e
le litterae commendaticiae, le prime utilizzate da semplici fedeli in
stato di bisogno che venivano così indirizzati alle comunità ecclesiali
in grado di occuparsi di loro, le seconde venivano invece consegnate a
membri del clero degni di particolare fiducia, di modo che potessero
amministrare funzioni liturgiche anche in altre chiese31.
Altri documenti finalizzati all’organizzazione e alla disciplina del
clero sono le matriculae ecclesiasticae, registri in cui venivano
annotati nomi, gradi e status giuridico-funzionali di ciascun membro
del clero della comunità. Queste tipologie documentarie sono
richiamate in maniera esplicita da alcune disposizioni di due concili
tenuti in Gallia nel VI secolo, risalta subito, dalla lettura dei canoni, il
ruolo fortemente disciplinare attribuito a tali registri, nei quali la vita e
la carriera ecclesiastica di ogni membro della comunità si dispiegava
in una sequenza di funzioni e ruoli sostenuti nonché di eventuali
provvedimenti disciplinari subiti.32

30
Concilium Calcedonensis, XXVI, “Quoniam quibusdam ecclesiis, ut rumore comperimus,
praeter oeconomos episcopi facultates ecclesiasticas tractant, placuit omnem ecclesiam habentem
episcopum habere et oeconomum de clerio proprio, qui dispenset res ecclesiasticas secundum
sententiam episcopi proprii, ita ut ecclesiae dispensatio praeter testimonium non sit, et ex hoc
dispergantur ecclesiasticae facultates, et derogatio maledictionis sacerdotio provocetur”.
31
Concilium Calcedonensis, 451d.c., XIII, “Peregrinos clericos et lectores in alia civitate praeter
commendaticias litteras sui episcopi nusquam penitus ministrare debet”.
32
Concilium Agatense, 506d.c., II, “Contumaces vero clerici, prout dignitatis ordo permiserit ab
episcopis corrigantur, et si qui prioris gradus elati superbia communionem fortasse contempserint
17
Questa sintetica trattazione sui riferimenti normativi ecclesiastici di
ambito archivistico, pur nella sua povertà, ci permette di farci un’idea
delle relazioni sempre più strette tra le nuove prerogative di crescente
complessità attribuite ai corpi ecclesiastici e la connessa produzione
documentaria che sarà stata tanto più ricca e accortamente gestita
quanto più prestigiosa e potente era la chiesa che la poneva in essere.
Riferimenti più diretti agli archivi ecclesiastici possono, invece,
rinvenirsi nella coeva legislazione statale.
I secoli compresi tra il IV e il VI non videro solo la nascita del diritto
canonico, ma anche lo sviluppo del diritto ecclesiastico costituito
dall’insieme di leggi e disposizioni riguardanti la fede cristiana e le
istituzioni ecclesiastiche che gli imperatori emanavano in quanto
materia considerata di interesse politico.
Nel VI secolo tutte le disposizioni normative prodotte a tal riguardo
furono riunite da Giustiniano nella sua mirabile summa del sapere
giuridico romano: il Corpus Iuris Civilis.
La parte dedicata alla raccolta ragionata delle costituzioni imperiali da
Adriano a Giustiniano stesso è compresa nel Codex diviso in dodici
libri tra cui il primo è specificamente dedicato alle costituzioni
riguardanti la religione cristiana e la vita ecclesiale emanate da
Costantino in poi, praticamente un vero e proprio trattato di diritto
ecclesiastico in cui vengono regolate materie afferenti ai privilegi
delle chiese, alle funzioni dei vescovi e del clero e alle condizioni di
eretici, manichei, giudei e pagani.
Tra tutte queste norme se ne trova una in cui si citano espressamente i
sacrosanctae ecclesiae archivis, in cui devono essere conservati i
documenti prodotti durante la nomina di tutori e curatori dei
minorenni al fine di garantire la sicurezza dei diritti così costituiti.33
La norma in questione fu emanata da Giustiniano nel 531 d.c. e
testimonia una fase della storia imperiale in cui si preferisce affidare
alle istituzioni ecclesiastiche la custodia di documenti in precedenza
affidati alla conservazione nel tabularium o gesta municipalia34,

aut ecclesiam frequentare vel officium suum implere neglexerint, peregrina eis communio
tribuatur ita, ut, cum eos poenitentia correxerit, rescripti in matricula graduum suum
dignitatemque recipiant”.
Concilium Aurelianense, 541d.c., XIII, “Si quis iudicum clericus de quolibit corpore venientes
adque altario mancipatus vel, quorum nomina in matricula ecclesiastica tenentur scripta, publicis
actionibus adplicare praesumpserit, si sacerdote commonitus emendare noluerit, cognoscat se
pacem ecclesiae non habere”.
33
Corpus Iuris Civilis, Codex, I , 4.30.2, “Cum vero apud defensorem nominatio tutorum
curatorumve fit, praesente etiam religiosissimo civitatis episcopo, gesta in ipsis sacrosanctae
ecclesiae archivis deponi sancimus, ut perpetua rei memoria sit neve iis qui sub tutela curave
constituti sunt securitas quam inde habent pereat”.
34
Il tabularium denominato anche gesta municipalia nelle province era l’ufficio addetto alla
registrazione del censo già in età repubblicana, durante l’età imperiale questi uffici
progressivamente assumono anche il ruolo di registratori e custodi della documentazione privata di
18
infatti, soprattutto nelle città di media e piccola dimensione le
amministrazioni cittadine erano in grave crisi e si aveva maggiore
fiducia nelle istituzioni ecclesiastiche, si ritornava, quindi, in un certo
qual modo, ad una pratica molto diffusa prima della legalizzazione del
cristianesimo, la conservazione di atti privati nei templi pagani.
Tale tendenza si rafforza soprattutto negli atti in cui la presenza della
Chiesa è centrale come nel caso dei matrimoni, un riferimento a ciò si
trova nella novella (costituzioni emanate da Giustiniano dopo la
pubblicazione del Codex) LXXIV Quibus modis naturales filii
efficiantur legitimi35.
In questa disposizione Giustiniano ordina al defensor ecclesiae di
riporre gli attestati matrimoniali non ritirati dai nubendi nell’archivio
della chiesa dove si è celebrato il matrimonio, interessante, inoltre, è il
luogo dove si precisa sia ubicato l’archivio, hoc est ubi venerabilia
vasa servantur, cioè nel medesimo posto in cui si conservano i vasi
sacri, oggetti liturgici, spesso in materiale di pregio, utilizzati durante
la messa come il calice e la pisside; la documentazione così riposta,
quindi, veniva ad assumere un carattere sacro che ne aumentava
l’autorevolezza e la forza giuridica.
Un tale assunto è deducibile soprattutto da un’altra novella di
Giustiniano emanata nel 535 d.c. , la Ut iudices sine quoquo suffragio
fiant,36 nella quale si prescrive la conservazione in sanctissima
ecclesia cum sacris vasis di estratti delle leggi, appare chiara, qui, la
funzione, oltre che di publicizzazione della normativa prodotta, anche
di sacralizzazione delle leggi e dei documenti in una cultura sempre
più pervasa dal trascendente e dal senso del sacro.
L’osmosi giuridico-istituzionale tra Stato romano e chiese che si è
vista penetrare nei gangli della struttura organizzativa ecclesiastica e
nella produzione normativa, influenzò profondamente la stessa
formazione e gestione dei documenti; furono soprattutto i pontefici a
Roma ad organizzare un servizio di cancelleria37 e di gestione
archivistica fortemente legato alla tradizione romana, ma
all’organizzazione cancelleresca e archivistica pontificia si ispireranno
anche altre curie vescovili di particolare prestigio.

particolare importanza come contratti e testamenti, la pratica di registrazione di questi atti era detta
insinuatio e aveva la funzione di dare loro ufficialità e pubblicità.
35
Novella LXXIV, 4, 2, “Si vero etiam hoc illi non egerint, ille tamen talem reponat chartam
venerabilis illius ecclesiae defensor in eiusdem sanctissimae ecclesiae archivis (hoc est ubi
venerabilia vasa servantur) praedictas subscriptiones habentem…”.
36
Novella VIII, Edictum scriptum in omni terra deo amabilibus archiepiscopis et sanctissimis
patriarchis, “Cumque lex publice proposita fuerit et omnibus manifestata, tunc sumpta intus
recondatur in sanctissima ecclesia cum sacris vasis, utpote et ipsa dicata deo et ad salutem ab eo
factorum hominum scripta”.
37
Sull’organizzazione cancelleresca pontificia è indispensabile il ricorso a quell’oceano di
erudizione costituito da: H. BRESSLAU, Manuale di diplomatica per la Germania e l’Italia,
Ministero per i beni culturali e ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, 1998.
19
Nel già menzionato Liber Pontificalis si attribuisce al Papa Giulio
(337-352) una disposizione in cui viene abbozzata una prima,
embrionale strutturazione della cancelleria pontificia; praticamente si
prescrive una sorta di autarchia ecclesiastica nella produzione
documentale disponendo che ogni tipo di documento riguardante
affari ecclesiastici venisse costituito tramite lo scrinium sanctum ad
opera di notarios e di un primicerium notariorum.38
Nella stessa fonte, come si è visto nel paragrafo precedente, vengono
citati notai a cui i papi affidarono il compito di reperire e copiare gli
atti dei martiri, ma probabilmente si trattava di scrittori professionisti
esterni all’ambito ecclesiale oppure anche di fedeli cristiani, ma non
legati specificamente alla chiesa. Il termine notarius derivante dalla
parola nota in epoca romana designava uno scrittore particolarmente
abile nella scrittura veloce, una sorta di stenografo, spesso di
condizione servile o anche operante dietro compenso.
I notai prefigurati dalla disposizione di Papa Giulio corrispondono,
però, a una loro diversa configurazione funzionale, ispirata a un
prestigioso ufficio imperiale menzionato nel III secolo dallo storico
Ammiano Marcellino,39 i notarii principis.
Con questo nome furono chiamati gli scrittori segreti al servizio
personale dell’imperatore; questi formavano una specifica
corporazione (schola) e si suddividevano in varie categorie, ciascuna
deputata a determinati compiti. I più prestigiosi erano i tribuni et
notarii incaricati di redarre i verbali delle sedute del consiglio segreto
imperiale (consistorium), godevano di particolare fiducia e
sostenevano anche delicati ruoli diplomatici e amministrativi.
A capo di questi notai vi era il primicerius notariorum, uno dei
funzionari più potenti dell’Impero, a lui era infatti affidato il
laterculum maius, il registro grande delle cariche nel quale erano
elencati i funzionari militari e civili.40
La cancelleria pontificia, quindi, si sviluppò progressivamente in
maniera simile a questo ufficio imperiale trovando alla fine del VI
secolo, al tempo di papa Gregorio I, un assetto più evoluto.
Durante il papato di Gregorio I notai della Chiesa romana (notarii
sanctae ecclesiae romanae)41 erano organizzati in una corporazione

38
Liber Pontificalis, Iulius, III, “Hic constitutum fecit ut nullus clericus causam quamlibet in
publico ageret, nisi in ecclesia, et notitia quae omnibus pro fide ecclesiastica est per notarios
colligeretur, et omnia monumenta in ecclesia per primicerium notariorum confectio celebraretur,
sive cautiones vel extrumenta aut donationes vel commutationes vel traditiones aut testamenta vel
allegationes aut manumissiones, clerici in ecclesia per scrinium sanctum celebrarentur”.
39
AMMIANO MARCELLINO, Rerum gestarum libri qui supersunt, 30, 2
40
H. BRESSLAU, Manuale di diplomatica, op.cit., capitolo VI.
41
Questa denominazione la si ritrova già nel V secolo nell’edizione degli atti di un concilio al
tempo di Gelasio I da parte di un notaio papale “Sixtus notarius sanctae Romanae ecclesiae jussu
domini mei beatissimi papae Gelasii ex scrinio edidi…”.
20
(schola) come quelli della corte imperiale, all’interno di questa schola,
in maniera analoga ai tribuni et notarii, vi era la categoria privilegiata
dei notarii regionarii,42al vertice dei notai vi erano il primicerius e il
secundicerius notariorum.
Le funzioni principali di questi notai si esplicavano soprattutto durante
i sinodi, nelle assemblee sinodali, infatti, i notai rappresentavano il
personale burocratico e la segreteria finalizzata agli indispensabili
compiti di redazione e stesura dei verbali con la relativa traduzione
della lingua usata nei dibattiti in un latino più corretto, procuravano,
inoltre, copie ufficiali dei verbali redatti in precedenza.
Il primicerius notariorum non si limitava a svolgere le funzioni sue
proprie di capo dell’amministrazione cancelleresca pontificia, ma, in
maniera simile al suo omologo della corte imperiale, costituiva un
funzionario tra i più influenti della corte papale, sia come fidato
consigliere dei papi che come amministratore della corte pontificia
durante i periodi di vacanza della sede papale.43
La prassi amministrativa romana fu ereditata dai pontefici anche in ciò
che concerne l’organizzazione del materiale documentario, in special
modo la pratica della registrazione dei documenti.
Per registrazione è da intendersi una prassi archivistica che prevede la
trascrizione integrale o compendiata di documenti sciolti, emanati da
un singolo autore per diversi destinatari, in un apposito contenitore
detto registro.
Questo metodo di condizionamento dei documenti, secondo il
Bresslau44 e altri studiosi, è riscontrabile fin dall’epoca romana antica;
sia il senato che i consoli e, in età imperiale, gli uffici provinciali e
quelli centrali nella capitale compresa la cancelleria dell’imperatore
trattenevano le trascrizioni delle disposizioni da loro emesse, queste
copie non venivano conservate sciolte ma riunite tra loro in modo da
formare grandi rotoli di papiro, successivamente le copie furono
raccolte in volumi cronologicamente limitati agli atti emanati durante
l’anno di consolato, tali volumi erano denominati commentarii o
anche gesta o regesta da cui poi registrum.
La pratica della registrazione non scomparve in Italia dopo la caduta
dell’Impero d’occidente, fu conservata dall’amministrazione statale
anche sotto il dominio dei goti di Teodorico, successivamente, però,
l’arrivo dei longobardi portò all’abbandono, per lo meno negli uffici
centrali, di questa e altre prassi dell’amministrazione romana.

42
Registrum Gregorii I, 2, 18, “constituentes, ut, sicut in schola notariorum atque subdiaconorum
per indultam longe retro pontificum largitatem sunt regionarii constituti, ita quoque in
defensoribus septem…”.
43
H. BRESSLAU, Manuale di diplomatica, op. cit., capitolo VI
44
Ivi, capitolo IV
21
Fu, invece, l’amministrazione pontificia a preservare nella sua
cancelleria anche nei secoli successivi quest’antica prassi archivistica
romana; la registrazione, infatti, era uno strumento indispensabile per
il modus agendi ecclesiastico che si basava, in ogni sua
determinazione pratica, giuridica o dottrinale che fosse, sul richiamo
alle auctoritates per conferire prestigio e credibilità alle decisioni
intraprese.
Nel momento in cui i vescovi romani, nel IV secolo, muniti di
un’autorità carismatica riconosciuta da tutti, entrarono nella vita
pubblica, sentirono il bisogno di gestire e conservare in una forma
sicura quelle lettere da loro emanate che costituivano ormai delle
auctoritates a cui fare ricorso sistematico per l’organizzazione della
vita della Chiesa.
La tenuta dei registri, ad imitazione degli uffici imperiali, divenne
quindi una pratica consuetudinaria, attestata, secondo il Bresslau,45 fin
dal pontificato di Liberio, quindi intorno alla metà del IV secolo.
Secondo il grande studioso tedesco, infatti, alcune lettere di questo e
altri papi di quel periodo a noi pervenute recano caratteristiche tali da
poterne dedurre una loro provenienza da registri.
Anche le raccolte di diritto canonico assemblate in età medioevale
conservano molte antiche lettere attinte dai registri papali, queste
raccolte canoniche medioevali sono anche l’unico tramite che
abbiamo per la conoscenza della produzione documentaria papale più
antica dal momento che, a parte alcuni frammenti, la massa di registri
e lettere papali prodotte in epoca antica e altomedioevale è andata
completamente perduta.
Ma dov’era collocato tutto questo insieme di documenti che costituiva
l’archivio papale?
Il riferimento più antico è preservato in un codice della Biblioteca
Vaticana, si tratta del testo di un’epigrafe dedicatoria fatta collocare
da Damaso I (366-384) sul portale della basilica di San Lorenzo in
Prasina, questi vi dice che suo padre iniziò la carriera ecclesiastica in
quella chiesa e che anch’egli crebbe lì fino ad ascendere al soglio
papale, perciò egli ha costruito in quel luogo una nuova casa per
l’archivio affinchè il ricordo del suo nome perduri nella memoria dei
posteri.46
Poco dopo, agli inizi del V secolo, San Girolamo, in un suo scritto
polemico, esorta il suo avversario a controllare l’autenticità di una
45
Ivi, capitolo IV
46
Codex Palatinus Latinus 833, “Hinc pater exceptor, lector, levita, sacerdos…/ Hinc mihi
provecto Christus, cui summa potestas,/ Sedis apostolicae voluit concedere honorem./ Archivis,
fateor, volui nova condere tecta/ Addere praeterea dextra laevaque columnas,/ Quae Damasi
teneant proprium per saecula nomen….” . Secondo alcuni studi il vocabolo « archibis » risulta da
un errore di lettura, la lezione corretta sarebbe arcis hic ; sulla questione si rimanda a Archivio
Segreto Vaticano. Profilo storico e silloge documentaria, Edizioni Polistampa, Firenze, 2000, p.12
22
lettera consultando il chartarium ecclesiae romanae, il testo non ci
dice l’ubicazione di questo chartarium, ma se ne deduce un accesso e
una individuazione precisa presso un luogo facilmente identificabile.47
Probabilmente, quindi, l’archivio centrale pontificio doveva situarsi,
già in quell’epoca, nel Palazzo del Laterano dove risiedevano i papi
con la loro amministrazione dal tempo di Silvestro I (315-335),
mentre la basilica di San Lorenzo poteva assolvere la funzione di
deposito sussidiario e complementare come ne sono testimoniati altri
nei secoli successivi.
Ricerche archeologiche effettuate, all’inizio del XX secolo, nel Sancta
Sanctorum, la sola parte rimasta dell’antico Palazzo del Laterano,
hanno portato alla luce, tra le fondamenta della cappella, i resti di una
stanza con una parete affrescata, l’affresco rappresenta un uomo che
legge seduto davanti ad un leggio con un codice aperto davanti a sè,
sotto vi è una legenda che accenna agli scritti dei Padri.
L’affresco è stato datato tra il V e l’inizio del VI secolo.
Forse questi resti possono essere attribuiti all’antica biblioteca
pontificia? O anche all’archivio? Forse ad entrambi?
In una recensio alternativa della biografia di Gelasio I estratta dal
Liber Pontificalis si citano alcuni libri contro Nestorio ed Eutiche
conservati in bibliotheca et archivo ecclesiae,48 sempre nel Liber
Pontificalis si riferisce che papa Vigilio consegnò l’opera De actibus
apostolorum del poeta Aratore al primicerius notariorum Surgentius
affinchè depositasse il codice nell’archivio della Chiesa.
Tutti riferimenti che richiamano ancora quell’ambiguità di fondo tra
archivio e biblioteca nella cultura ecclesiastica antica di cui si è già
detto in precedenza, ma che ora si ritrova in maniera esplicita anche
nella massima istituzione ecclesiastica, quella pontificia.
E’ bene precisare che tale difficoltà a distinguere nettamente tra
materiale archivistico e materiale bibliografico, una distinzione
peraltro percepita nella cultura romana, non discende da decadenza o
involuzione culturale, ma dal modo peculiare in cui l’insieme degli
scritti veniva considerato e utilizzato per le finalità ecclesiastiche.
Queste finalità di natura dottrinale, pastorale e disciplinare tendevano
ad assimilare tra loro le diverse tipologie di scritti soprattutto in
un’epoca, quale quella tardo-antica, in cui la frequenza e la
drammaticità dei dibattiti e delle diatribe teologiche ed ecclesiologiche
rendevano necessario il continuo ricorso all’armamentario di scritti sia
di natura bibliografica che archivistica da cui era possibile trarre

47
SAN GIROLAMO, Adversus rufinum, 3, 20, “Si a me fictam epistolam suspicaris, cur eam in
ecclesiae romanae chartario non requiris?”.
48
La recensio è reperibile nel: MIGNE, Patrologia Latina, vol. 059, col 0009-0012B; oppure, più
comodamente, nel sito: www.documentacatholicaomnia.eu “Hic fecit quinque libros adversus
Nestorium et Eutychem, qui hodie in bibliotheca et archivo ecclesiae continentur”.
23
comuni indicazioni precettive circa le verità di fede e l’assetto
istituzionale della Chiesa.49
Tali armamentari trovavano la loro massima utilità nelle assemblee
sinodali in cui le diverse posizioni dogmatiche si confrontavano sulla
base delle auctoritates consultate; ciò è vividamente rappresentato
negli atti del concilio lateranense tenuto nel 649 d.c. in cui si fa
continuamente menzione di documenti e libri che il primicerio
Teofilatto faceva procurare de apostolico scrinio e de bibliotheca.50
La descrizione di quest’attività di rifornimento documentario fa
pensare ad una disponibilità immediata del materiale richiesto e quindi
avvalora l’ipotesi che, almeno nel VII secolo, l’archivio centrale
pontificio fosse ubicato in Laterano insieme alla biblioteca e alla
cancelleria sotto la responsabilità del primicerius notariorum.
Una strutturazione diversa e più distinta dell’archivio papale rispetto
alla biblioteca e alla cancelleria si avrà soltanto a partire da Innocenzo
III per precisarsi ulteriormente durante il pontificato di Sisto IV, ma a
quell’epoca si è ormai in piena età medioevale.

49
A. BRENNEKE, Archivistica, contributo alla teoria ed alla storia archivistica europea,
Giuffrè, 1968
50
H. BRESSLAU, Manuale di diplomatica, op.cit., capitolo V
24
B) EPOCA MEDIOEVALE

3) L’epoca altomedioevale: le chiese custodi della memoria

La crisi irreversibile della parte occidentale dell’Impero culminata con


la sua caduta nella seconda metà del V secolo e originante, con
l’ingresso sulla scena politica di popolazioni di stirpe germanica, la
frattura dell’unità culturale dell’occidente su base greco-romana, ebbe
decisive conseguenze sulla struttura istituzionale della Chiesa.
Una conseguenza di portata generale fu il netto indebolimento della
struttura ecclesiologica concepita come una confederazione gerarchica
di chiese inquadrata in un contesto unitario sia dal punto di vista
geopolitico che culturale, le chiese d’oriente e d’occidente allentarono
sempre più i loro rapporti, malgrado il ruolo di cerniera che ancora per
secoli l’Italia riuscì a sostenere; le stesse chiese occidentali seguirono
il destino politico dei territori di riferimento adeguandosi ad una
inevitabile frantumazione dei loro complessi normativi con le
conseguenti diversificazioni istituzionali e liturgiche51.
In Gallia e in Spagna si formarono delle vere e proprie chiese
nazionali con l’avvio di un plurisecolare processo di regolamentazione
delle strutture e degli uffici ecclesiastici da parte delle autorità
secolari, le alte gerarchie ecclesiastiche furono integrate nelle elites
aristocratiche come prestigiosi dignitari del regno e come tali aventi
facoltà di partecipazione ai grandi eventi politici come, ad esempio,
l’elezione dei re, dal canto loro i dignitari e i funzionari laici ottennero
il diritto di prendere parte alle discussioni conciliari e di sottoscriverne
gli atti; si verificò, quindi, una fortissima commistione tra sfera
spirituale e temporale.
In Italia lo sviluppo storico-istituzionale nei secoli compresi tra il VI e
l’XI fu assai più complicato a causa delle molteplici vicissitudini
politiche e militari che ne interessarono il territorio; il VI secolo, in
particolare, segnò l’inizio di un nuovo periodo di divisione e
frammentazione dello spazio italiano che sarà destinato a durare anche
oltre l’intervallo di secoli comunemente definito come medioevo.
I territori italiani, in età altomedioevale, videro svilupparsi in una
parabola fluida di avvicendamenti di popoli e del loro continuo

51
Imprescindibili per un quadro complessivo del periodo considerato: H. JEDIN, a cura di, Storia
della Chiesa. La Chiesa tra Oriente e occidente, vol. III, Jaca Book; H. JEDIN, a cura di, Storia
della Chiesa. Il primo medioevo (VII-XII secolo), vol. IV, Jaca Book.
25
sovrapporsi, opporsi e ricomporsi, una storia istituzionale di una
intricatezza disarmante, estremamente difficile da ricostruire e
comprendere in un quadro unitario, proprio perché quadri unitari in
quest’epoca non esistono, neanche al più piccolo livello strutturale, su
tutto cala la volatilità onnipresente delle consuetudini e dell’iniziativa
personale di singoli o di gruppi.52
Ciò che in questa sede interessa è di presentare alcuni fenomeni
peculiari della vita istituzionale ecclesiastica in quei secoli al fine di
comprendere i raccordi tra modo di esplicarsi delle funzioni e attività
delle varie strutture ecclesiastiche esistenti e le relative modalità di
produzione e di conservazione del loro patrimonio documentario.
Un primo fenomeno, per la verità interessante la totalità degli uomini
di quel tempo, fu la progressiva ruralizzazione della vita economica,
civile e religiosa; la precedente struttura urbanocentrica caratteristica
dell’età imperiale finì per collassare anche a causa del pauroso calo
demografico seguito ai conflitti che devastarono gran parte dell’Italia
nel VI secolo, prima la ventennale guerra tra bizantini e goti e poi
l’invasione longobarda contribuirono allo spopolamento e all’ulteriore
indebolimento delle strutture amministrative e culturali urbane.
Anche se la fiamma della vita cittadina non si spense mai del tutto nei
territori italiani, furono le campagne a costituire il centro di
un’economia ormai quasi completamente agricola sottoposta al
controllo di grandi e piccoli proprietari terrieri a cui il potere
economico, costituito dalla disponibilità di più o meno vasti
possedimenti fondiari, si andò sempre più saldando con un potere
giurisdizionale sugli uomini che materialmente vivevano su quelle
terre, ci lavoravano e le difendevano.
Le campagne videro anche un progressivo articolarsi delle istituzioni
ecclesiastiche53 che si delinearono in una accentuata autonomia
rispetto alle rispettive autorità episcopali, le comunità rurali, nella
prima metà del VI secolo, erano amministrate da collegi di chierici
abilitati a una piena gestione delle amministrazioni patrimoniali e
delle attività pastorali comprendenti la predicazione e la cura d’anime,
non a caso è proprio in quest’epoca che si precisa la distinzione
semantica tra diocesi e parrocchia, termini che in precedenza erano

52
Autentici fari per orientarsi in una materia, quale la storia istituzionale del medioevo, aliena da
schematismi razionali e così rassicuranti per una mente moderna, sono: G. TABACCO, Egemonie
sociali e strutture del potere nel medioevo italiano, Einaudi, 1979; M. ASCHERI, Istituzioni
medievali, Il Mulino.
53
Per approfondire la complessa strutturazione istituzionale dell'ordinamento ecclesiastico nelle
campagne italiane dell'alto medioevo sono fondamentali le opere di Cinzio Violante tra cui: C.
VIOLANTE, Le strutture organizzative della cura d'anime nelle campagne dell'italia
centrosettentrionale (secoli V-X) in Cristianizzazione ed organizzazione ecclesiastica delle
campagne nell'alto medioevo: espansione e resistenze. Settimane di studio del Centro italiano di
studi sull'alto medioevo, XXVIII, Spoleto, 1982, pp. 963-1158
26
considerati sinonimi e che nel corso del VII secolo si distinsero in
modo da indicare con il termine diocesi la circoscrizione
amministrativa vescovile e con il termine parrocchia ciascuna delle
circoscrizioni minori che insieme formano la diocesi.54
Onde evitare un’eccessiva frammentazione dell’ordinamento
ecclesiastico locale che pativa le conseguenze dell’invasione
longobarda e l’indebolimento delle sedi vescovili, a volte vacanti, nel
VII secolo si fece ricorso a strumenti atti a rafforzare il raccordo tra
vescovi e clero di campagna, come la visita pastorale che permetteva
al vescovo di controllare lo stato della vita religiosa così come del
patrimonio delle chiese locali e i sinodi diocesani in cui era possibile
affrontare i problemi giudiziari e disciplinari interessanti il clero, e
non solo, nell’arco del territorio diocesano.
Ma l’articolazione ecclesiastica locale finì per assumere una
configurazione ancor più intricata per l’insorgere di un fenomeno
caratteristico di un’epoca dominata da rapporti giuridici
consuetudinari fortemente influenzati dalla mentalità germanica; un
fenomeno istituzionale conosciuto dalla scuola storica tedesca come
eigenkirche ossia “chiesa propria” o privata, assai diffuso soprattutto
nel regno dei Franchi, ma anche in Italia seppur in parte minore.
Normalmente la proliferazione di strutture ecclesiastiche nasceva
dall’iniziativa di chiese già esistenti, in particolare quelle centrali, sedi
dei vescovi, oppure per l’azione missionaria di monaci e predicatori;
nei territori governati da popolazioni germaniche si diffuse,
soprattutto a partire dal VII secolo, l'uso di edificare chiese, cappelle o
monasteri da parte di ricchi possidenti laici sulle loro proprietà.
I privati fondatori, però, non si limitavano all'atto di costituzione
dell'ente ecclesiastico lasciandolo successivamente ad un libero
sviluppo autonomo, ma, nel concreto, ne dettavano le regole di
esistenza indicando, ad esempio, le modalità di nomina dei superiori,
spesso appartenenti alla famiglia del fondatore, questi, inoltre si
riservava, in vari modi, l'amministrazione dei beni con vasti poteri di
condizionamento.
Con un termine indubbiamente un po' forzato ma non troppo lontano
dal sentire dell'epoca si potrebbe dire che la fondazione di un ente
religioso rappresentasse uno "status symbol" che qualificava la
famiglia fondatrice di una considerazione eminente per potere e
ricchezza oltre che per devozione.55
La creazione di strutture religiose, inoltre, favoriva lo sviluppo di reti
territoriali, costituite di legami personali e culturali, indispensabili
all'accrescimento e al consolidamento di un'influenza politica ed

54
C. FANTAPPIE', Introduzione storica al diritto canonico, op. cit., pp. 67-68
55
M. ASCHERI, Istituzioni medievali, op. cit., p. 133
27
economica che si presentava inevitabilmente fragile se basata
unicamente sul patrimonio fondiario e sulla forza militare.
A questa proliferazione "laica" di chiese furono propizi non solo gli
interventi dal basso, di singoli possidenti privati, ma anche,
naturalmente, l'azione dall'alto dei poteri ufficiali; la monarchia e la
nobilta longobarda si distinsero particolarmente per la fondazione e
protezione di eminenti monasteri, alcuni dei quali famosi anche per i
loro ricchi archivi e biblioteche, quali Bobbio e Nonantola nel Regno
Italico, l'abbadia di San Salvatore sul monte Amiata in Tuscia,
l'abbazia di Farfa nel Ducato di Spoleto e Montecassino e San
Vincenzo al Volturno nel Ducato Beneventano.
Inevitabilmente, comunque, il contributo laico alla fondazione di
chiese con i relativi interessi di natura prettamente temporale
indeboliva l'intera struttura ecclesiastica sia dal punto di vista del
coordinamento direzionale, reso praticamente impossibile dal
frammentarsi incontrollabile dello stesso tessuto di chiese presenti in
un territorio, sia dal punto di vista pastorale e disciplinare dal
momento che il clero, fortemente influenzato da legami con i poteri e
le aristocrazie locali, non aveva nè la possibilità nè la vocazione per
un'attività incisiva in tal senso.
Un grandioso sforzo di riorganizzazione unitaria della società fondato
sull'apporto determinante delle istituzioni ecclesiastiche fu operato
dalla dinastia Carolingia tra VIII e IX secolo. Un'elite formata da alte
gerarchie ecclesiali, in primis il Papato, e dalla monarchia e
aristocrazia dei Franchi tentò di ricostruire un impero cristiano sulla
base del perduto Impero Romano d'occidente e sull'esempio del coevo
e prestigioso Impero Bizantino56.
Carlo Magno e i suoi successori svilupparono, a tal fine, una poderosa
attività legislativa in ogni ambito possibile, particolarmente rilevanti
furono i cosiddetti capitolari ecclesiastici, provvedimenti con cui si
cercava di costituire una disciplina unitaria per i fedeli che, in
precedenza, erano legati a tutta una serie di consuetudini e
disposizioni conciliari locali. Famose sono le normative riguardanti
l'ambito culturale in cui assurgevano a protagonismo assoluto le
chiese e il clero più qualificato, unici detentori effettivi delle
competenze linguistiche, letterarie e giuridiche necessarie a un tale
sforzo di razionalizzazione organizzativa; i provvedimenti riguardanti
l'istruzione, la correttezza dei testi e l'uso del latino si rivelarono
d'importanza fondamentale anche nei secoli successivi.
Altre disposizioni focalizzate sugli assetti giuridici e istituzionali delle
strutture ecclesiastiche formarono un impianto strutturale che resisterà

56
Sulla civiltà Carolingia si consigliano: H. VON FICHTENAU, L’Impero Carolingio, Laterza;
G. ALBERTONI, L’Italia Carolingia, Carocci, 1997.
28
per secoli e caratterizzerà la Chiesa fino a tempi recenti, un insieme di
istituti che proiettarono le chiese con il loro substrato giuridico-
culturale di forgia romana nel pieno della tradizione germanica a cui
appartenevano i Franchi.
Tra questi istituti centrale è il vassallaggio57, un rapporto che legava il
signore al suo vassallo mediante un vincolo di fiducia personale che si
sostanziava in un giuramento di fedeltà, per mezzo del giuramento si
creava un obbligo bilaterale: il signore proteggeva e manteneva,
tramite corresponsioni immobiliari, il suo vassallo che in cambio era
tenuto ad accorrere in aiuto del suo signore per qualsivoglia necessità.
Un rapporto di tal genere era considerato l'unico strumento efficace
per formare delle stabili clientele militari e amministrative, i
giuramenti e i rapporti di fiducia erano presi piuttosto seriamente in
quell'epoca perchè si fondavano sul concetto di onore caratteristico
delle culture guerriere, daltronde non esistevano altri vincoli possibili
in una compagine politica costituita da una moltitudine di popoli legati
a tradizioni particolaristiche e territoriali.
Il vassallaggio non interessò solo i laici, ma pure il clero, i re
desideravano contare tra i loro vassalli anche i vescovi e gli abati dei
centri monastici più importanti; ciò ebbe prevedibili conseguenze sul
grado di osmosi tra amministrazione statale ed ecclesiastica, da un
lato, infatti, i re interferivano in maniera cospicua nell'elezione di
cariche vescovili e abbaziali, considerate, ormai, nodi essenziali della
struttura dello stato, dall'altro lato, però, il sacerdozio nelle concrete
vesti di papi e alto clero esercitò un ruolo preponderante più negli
affari politici e temporali che nelle mansioni specificamente religiose,
ciò dette uno spessore culturale altrimenti impossibile all'attività di
governo, ma fu anche un elemento di complicazione della vita
pubblica soggetta agli interventi di poteri ecclesiastici spesso
autonomi e concorrenti tra loro.
L'istituto del vassallaggio è importante anche perchè ricomprende la
delicata materia del beneficio ecclesiastico, questo in origine altro non
era che il complesso patrimoniale legato ad un ente religioso per il
sostentamento del clero e delle sue attività, ma a partire dall'età
Carolingia con il diffondersi del sistema del vassallaggio anche i
patrimoni ecclesiastici finirono per essere ricompresi nel concetto di
beneficio cioè come corrispettivo del servizio prestato dal vassallo, i
beni delle chiese furono quindi considerati a disposizione dei re che li
utilizzavano per l'istituzione di vincoli vassallatici, non solo, ma ai
benefici ecclesiastici venivano legate anche le relative funzioni di

57
Sul vassallaggio o feudalesimo, come è maggiormente noto, si vedano: F. L. GANSHOF, Che
cos’è il feudalesimo?, Einaudi, 2003; G. ALBERTONI, L. PROVERO, Il feudalesimo in Italia,
Carocci, 2003.
29
modo che a capo di vescovadi e abbazie potevano essere insediati dei
vassalli che erano beneficiati con una carica e con i proventi
corrispettivi; ciò naturalmente non fece che accrescere la
compenetrazione e la confusione tra autorità laiche ed ecclesiastiche.
Ma il fenomeno istituzionale determinante ai fini della trasformazione
di ricchi enti ecclesiastici in vere e proprie signorie territoriali
sostitutive dei poteri dello stato fu l'istituto dell'immunità,58 questi
privilegi avevano un'origine antica, risalente al basso Impero, e
consistevano in un'esenzione fiscale dai tributi fondiari normali, le
terre così privilegiate erano definite, appunto, immuni; recepito dai
Franchi Merovingi, l'istituto dell'immunità fu poi esteso da Carlo
Magno alla esclusione della forza coercitiva dell'autorità statale, la
districtio, rappresentata dai conti e da altri ufficiali pubblici, dalle
terre oggetto del privilegio, quasi esclusivamente terre di proprietà
ecclesiastica.
I privilegi di immunità erano motivati dalle vessazioni che gli ufficiali
pubblici esercitavano sui coloni delle chiese a cui si richiedevano
arbitrariamente tributi e prestazioni d'opera, ciò rivelava le difficoltà
concrete e il sostanziale disordine che caratterizzavano la vita politica
nei territori dell'Impero Carolingio; i conti e le autorità statali
periferiche anzichè esercitare il loro potere militare a favore delle
chiese, si trovavano, non di rado, in contrasto con quelle per ragioni di
potenza personale e familiare, ciò induceva vescovi e abati a cercare
la concessione regia di una speciale tutela, la perpetua immunità.
Il risvolto più importante delle immunità, però, consisteva nella
possibilità per gli immunisti di esercitare sui residenti in terre
ecclesiastiche un potere sempre più sostitutivo di quello comitale e
quindi di rappresentare il potere pubblico nel loro territorio, anche se,
dato il divieto teorico per il clero di portare armi o versare sangue,
l'amministrazione della giustizia era demandata ad ufficiali laici, gli
advocati, la cui nomina doveva avvenire di concerto con i conti e gli
altri ufficiali del comitato.
Nel corso del IX secolo, con la crisi del potere regio, le chiese dotate
di immunità furono incentivate a consolidare il loro potere territoriale
mediante l'instaurazione di clientele armate attratte dalla possibilità di
remunerazione che i ricchi possedimenti fondiari di vescovadi e
abbazie garantivano; l'inserimento dei rapporti vassallatici, atti a
costituire un sistema di difesa, nella signoria patrimoniale dell'ente
operava l'incorporazione del potere coercitivo e giurisdizionale nel
patrimonio e portava ad un grado di compiutezza maggiore il modello
di autonomia rappresentato dagli enti immunitari.

58
G. TABACCO, Egemonie sociali e strutture del potere nel medioevo italiano, op. cit., pp. 158-
159
30
Le signorie ecclesiastiche così perfezionate furono tra i principali
protagonisti dei due secoli successivi, X e XI, in cui il potere centrale
di re e imperatori, nell'impossibilità di coordinare con mezzi propri i
vasti territori su cui avrebbe dovuto esercitare la sua autorità, finì per
legittimare la delega dell'esercizio concreto di questo potere alle forze
territoriali che, ormai, di fatto, lo esprimevano già da tempo; le grandi
abbazie nelle campagne e i vescovadi nelle città erano spesso a capo
di complesse reti di poteri e diritti politici ed economici, i vescovi, in
particolare, seppero costituire in alcuni casi dei centri di potere
ragguardevoli, che sopravviveranno fino all'età moderna, tale è il caso
dei vescovi di Trento e Aquileia i cui domini incorporarono l'intero
comitato, ma, ancora più frequente è il caso di vescovi che furono
investiti della carica di conte o che, addirittura, si autoproclamarono
tali come fece il vescovo di Arezzo59 nel corso dell'XI secolo.
Questa breve descrizione dei fenomeni istituzionali più rilevanti che
interessarono gli enti ecclesiastici in epoca altomedioevale ci offre un
quadro di riferimento assai complesso, in cui dominano le autonomie
territoriali e la commistione inestricabile di consuetudini,
reminiscenze giuridiche romane, mentalità germaniche e iniziative di
fatto di potentati fondati sul possesso terriero; i tentativi di
omogeneizzazione di tale quadro frammentato da parte dei Carolingi
prima e degli Ottoni poi si risolsero in un fallimento dal punto di vista
politico, troppo grande era la distanza tra le aspirazioni ideali
perseguite e i mezzi concreti per attuarle, sul piano culturale, però, lo
sforzo di re e imperatori ebbe risultati importanti, risultati che
poterono essere conseguiti solamente tramite l'alleanza e la
mediazione del clero, furono le chiese, infatti, ad avere un ruolo
preponderante, in quest'epoca, nella produzione scritta di libri e
documenti, e, cosa ancor più determinante, furono sempre loro a
custodire e a conservare per i posteri, in maniera pressochè esclusiva,
la produzione documentaria che rimane di quei tempi.
Paolo Cammarosano nella sua fondamentale opera di mappatura delle
fonti scritte dell'Italia medioevale60 parla di un'assoluta egemonia
ecclesiastica nella tradizione delle fonti archivistiche, praticamente
non esiste filone documentario di una qualche consistenza fino al
secolo XII che non si sia conservato per il tramite di una chiesa;
nell'ambito della produzione documentaria resistettero alcune nicchie
laiche, sostanzialmente i notai al servizio delle autorità pubbliche, ma
anche in tal caso, fu spesso determinante nell'acquisizione delle loro
competenze il riferimento centrale delle istituzioni ecclesiastiche più

59
G. TABACCO, Arezzo, Siena, Chiusi nell'alto medioevo, in Atti del 5° congresso
internazionale di studi sull'alto medioevo, Spoleto, 1973, pp. 163-189
60
P. CAMMAROSANO, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Carocci, 1991
31
importanti nell'ambito dell'istruzione; istruzione che in quell'epoca
significava alfabetizzazione, cioè leggere e scrivere, ma in latino!
Il monopolio ecclesiastico del latino è uno degli elementi portanti di
questa egemonia nella produzione e conservazione di fonti scritte, la
lingua parlata in quei secoli, ma già a partire dal IV, si avviava a
trasformarsi sempre più in quel volgare italiano61 che assurgerà a
dignità di scrittura soltanto in epoca molto più tarda, il latino era
l'unica lingua con una sua lunga e prestigiosa tradizione scritta rimasta
in possesso degli uomini di cultura, il greco infatti rimase confinato in
alcune regioni dell'Italia bizantina.
Non solo i testi degli autori classici erano in lingua latina, ma anche i
testi sacri e patristici, spesso tradotti dall'originale greco, il chè
comportava la necessità per il clero, almeno nei suoi elementi più
capaci, di approfondire e tramandare la conoscenza del latino, uno
studio che in un'epoca di decadenza delle istituzioni urbane, comprese
quelle finalizzate alla diffusione della cultura, rimase appannaggio
quasi esclusivo degli enti religiosi, tra cui si distinsero le chiese
cattedrali e i monasteri.
Ma se il latino fu determinante nella fase produttiva del materiale
documentario, per comprendere il ruolo così esclusivo che le chiese
ebbero nella sua conservazione archivistica è necessario esaminare
una serie di fattori più complessi.
In primo luogo bisogna considerare il perchè del naufragio pressochè
totale degli archivi laici, e, sebbene il tema della distruzione e
dispersione di archivi nel corso della storia sia alquanto complesso e
di difficile approdo ad ipotesi che siano oggettive e largamente
condivisibili, alcune constatazioni sulla consapevolezza scrittoria e
segnatamente archivistica dei ceti laici nei secoli altomedioevali si
segnalano come simmetricamente opposte alle medesime
constatazioni fatte nei confronti del clero.
In effetti gran parte dei potentati laici, che avrebbero potuto essere
interessati alla tenuta di un archivio, erano molto più propizi a fare
affidamento su consuetudini e tradizioni orali nonchè
sull'intimidazione armata per assicurarsi il rispetto di diritti e possessi,
ciò derivava dalle origini germaniche di molti possidenti e ufficiali
pubblici o comunque da un'influenza predominante della mentalità
germanica, altra constatazione si riscontra nella labilità di poteri e sedi
ufficiali e non; come si è visto nella precedente descrizione delle
strutture istituzionali, l'altomedioevo è caratterizzato da poteri
frammentati in continua e perenne lotta tra loro, la qual cosa si
traduceva nella repentina caduta e sostituzione di signorie con i

61
Un testo imprescindibile per seguire il complesso e avventuroso trapasso dal latino all'italiano è:
A. RONCAGLIA, Le origini della lingua e della letteratura italiana, UTET, 2006
32
connessi saccheggi e dispersioni di beni tra cui, evidentemente, anche
scritti e documenti.
All'estremo opposto i ceti ecclesiastici, sebbene anch'essi coinvolti
nella generale decadenza delle istituzioni antiche, seppero, tuttavia,
conservarne un nucleo vitale che si riverberò nei rapporti con le
popolazioni germaniche soprattutto mediante la rappresentazione
scritta del diritto ossia la produzione documentaria; la mentalità
ecclesiastica, infatti, era profondamente intrisa di senso della scrittura
come si è già fatto notare nei paragrafi precedenti e ciò non poteva
non avere conseguenze nel valore attribuito ai documenti e in
particolare nella cura e attenzione con cui si procedeva alla loro
conservazione.
Gli archivi gelosamente custoditi dagli enti religiosi non
rappresentavano, inoltre, solo una garanzia strettamente giuridica delle
prerogative economiche e politiche ivi contenute, ma erano anche
estrinsecatori di una simbologia rituale62 che ne accresceva la forza
probatoria e l'autorevolezza; non bisogna dimenticare che in un'epoca,
qual'era l'altomedioevo, in cui il predominante impasto di tradizioni
religiose antico-pagane, germaniche e cristiane forgiava un
atteggiamento sensibile ad una sacralità densa di simbolismo con
risvolti magici, l'uso della scrittura, per giunta in una lingua ormai
remota e aliena ai più, nella formalizzazione del diritto con tutto
l'usuale corredo di formule, rituali e anatemi, ammantava il clero di un
alone di mistero e di un senso dell'arcano che si distribuiva in pari
anche ai loro documenti e archivi, per cui se il tipico senso dell'onore
germanico non costituiva un freno sufficiente al rispetto dei patti, una
serie di anatemi e maledizioni, formulate in forma scritta in un'antica
lingua nella parte finale di molti documenti, rappresentava,
probabilmente, un'ulteriore stimolo a rispettare i diritti e i
possedimenti delle chiese nei confronti di popolazioni avvezze a
considerare la forza delle armi come elemento risolutore di conflitti,
ma, nondimeno, sensibili alle manifestazioni rituali e simboliche del
potere e la Chiesa era pur sempre la rappresentante in terra di un
potere altissimo, quello divino.
A ciò si aggiungeva la sostanziale stabilità degli enti religiosi che, pur
essendo talvolta oggetto di accorpamenti e ridefinizioni dello status
patrimoniale con il connesso rischio di dispersioni documentarie, non

62
Il risvolto simbolico della scrittura e dei cocumenti nei secoli del medioevo non può
assolutamente essere trascurato se si vuole intendere in maniera completa l'uso e la cultura
documentaria di quel periodo, sul ruolo dei simboli nel medioevo e sui rapporti tra simbologia e
scrittura si consiglia: M. PASTOUREAU, Medioevo simbolico, Laterza, 2005; A. PETRUCCI,
La concezione cristiana del libro fra VI e VII secolo, in Libri e lettori nel Medioevo, guida storica
e critica, a cura di G. CAVALLO, Laterza, 1989; A. PETRUCCI, Diplomatica vecchia e nuova,
in "Studi medievali", serie terza, IV, fasc. II, (1963) pp. 785-798; reperibile anche in
http://scrineum.unipv.it
33
erano legati in maniera totalizzante alle sorti di singole personalità o
dinastie, queste passavano, le chiese, invece, rimanevano, con tutti i
loro beni e i loro archivi stabili nel luogo deputato alla conservazione;
tale stabilità e sicurezza era così avvertita nel mondo medioevale che
la consuetudine, da parte di famiglie o istituzioni laiche, di conservare
nelle chiese alcune parti dei loro archivi durò a lungo anche oltre il
periodo qui considerato.
Si è detto, quindi, del ruolo fondamentale delle istituzioni
ecclesiastiche nella formazione e, soprattutto, conservazione di
archivi, ma, in concreto, quali furono, in quei secoli, le tipologie di
chiese capaci di preservare fino ad oggi parte del loro patrimonio
documentario?
La risposta non è difficile e si riduce sostanzialmente a tre tipologie
istituzionali: monasteri, chiese cattedrali e i loro collegi capitolari.63
I monasteri ebbero un grande rilievo nella vita economica e culturale
dell'alto medioevo, soprattutto nei territori rurali che, in quegli anni, a
causa della decadenza dei centri urbani, sostenevano l'economia delle
popolazioni; alcune istituzioni monastiche, grazie all'interesse di
famiglie laiche che vi facevano profluire beni e persone a loro
connesse, raggiunsero posizioni di centralità economica e politica
rilevanti, si sono già menzionati alcuni monasteri di fondazione
longobarda tra i più eminenti per il contributo culturale, ma anche la
successiva età Carolingia fu ricca non solo di fondazioni, ma
soprattutto di provvedimenti finalizzati ad una maggiore uniformità
disciplinare e liturgica, notissima è, in questo periodo, l'estensione a
tutti i monasteri della regola di San Benedetto. I tentativi di
uniformazione e di raccordo istituzionale nel segno di una Chiesa
libera da condizionamenti temporali proseguirono anche nei secoli X e
XI a partire dal centro riformatore di Cluny in Borgogna per
proseguire con le esperienze delle congregazioni di Vallombrosa e
Camaldoli in Toscana.
Indipendentemente dal tipo di monastero, però, sia esso di fondazione
Longobarda o Carolingia, o ispirato a diverse concezioni istituzionali
di segno riformatore, la relativa struttura archivistica che si è
preservata fino a noi non mostra elementi forti di coordinazione
documentaria con altre istituzioni ecclesiastiche, a parte qualche

63
I collegi capitolari discendono dal presbyterium, un consesso di chierici che fin dai primi secoli
del cristianesimo assisteva il vescovo nelle celebrazioni liturgiche e lo consigliava e aiutava nel
governo della diocesi in qualità di senatus episcopi, nei secoli successivi la promozione della vita
comune del clero fu perseguita da autorità ecclesiastiche e laiche, in particolare nell'anno 805 un
capitolare di Carlo Magno tentò la conformazione dell'intero clero alla vita comune secondo una
regola, da cui la definizione di canonici per i singoli preti facenti parte dei collegi. I collegi di
canonici erano presenti in diverse chiese come le pievi o le collegiate, ma furono quelli delle
cattedrali ad acquisire maggiore importanza economica e politica soprattutto nei secoli XI e XII
quando, in virtù della lotta per le investiture, ebbero un ruolo centrale nell'elezione dei vescovi.
34
privilegio papale, non raramente falsificato, non si notano particolari
interdipendenze con i vescovadi e altre chiese cittadine nè tantomeno
con altri centri monastici; nei secoli altomedioevali ciascun monastero
rappresenta dal punto di vista archivistico una cellula autonoma
rispetto alle altre64 o, più esattamente, il nodo di una rete documentaria
territoriale di cui gli altri capi erano costituiti soprattutto da istituzioni
laiche come, in primo luogo, famiglie di possidenti legate a vario
titolo all'ente religioso, l'autorità pubblica competente nel territorio o
anche quella centrale.
Un esempio a mio avviso illuminante è rappresentato da un
documento giudiziario emesso in epoca longobarda al tempo del re
Ratchis nel 747 e tratto dall'imprescindibile manuale di archivistica di
Eugenio Casanova, di seguito si riporta la clausola finale: “de quibus,
pro futurae commemorationis deliberatione... quatuor isti breves
consimiles... uno tenore conscripti sunt... unum, quidem, brevem
nobiscum detulimus ad domni regis vestigia, qui in sacro palatio
debeat esse; et alium consimilem reliquimus in ipso sancto monasterio
di Farfa; et tertium appare dedimus Luponi duci, quod sit in Spoleto;
et quartum, quidem, direximus ad... homines in Reate”.65
Il documento in questione, quindi, fu riprodotto in quattro copie di cui
una conservata nell'archivio del Monastero di Farfa e le altre negli
archivi della città di Rieti, del Duca di Spoleto e del sovrano nel
palazzo reale di Pavia. Si dipanano, così, reti documentarie
strettamente legate sia al territorio di riferimento che agli interessi
economici e giuridici intessuti dall'ente monastico.
Ciò, tuttavia, è perfettamente comprensibile se ci si ricollega a quanto
detto in precedenza riguardo alla caleidoscopica frammentazione
territoriale dei poteri durante l'alto medioevo, una frattura che
coinvolse anche le chiese e che causò un forte indebolimento dei
legami tra le istituzioni ecclesiastiche ad ogni livello, ma che provocò
un loro radicarsi nella realtà politica territoriale di riferimento
permettendo la costruzione di legami personali ed economici con i
poteri locali, tali articolazioni territoriali sono riprodotte in vari
documenti come quello sopracitato, ma, dei vari archivi formanti la
rete documentaria, l'unico a sopravvivere è stato quello monastico.
Naturalmente il discorso qui formulato non riguarda solo i monasteri
ma anche le chiese urbane come le cattedrali con i loro capitoli.
Le città altomedioevali, sebbene demograficamente ed
economicamente depauperate dell'importanza avuta in epoca antica,
mantennero ancora viva, specialmente in Italia, una tradizione
amministrativa ereditata dai vescovi che, tra alterne vicende, furono

64
P. CAMMAROSANO, Italia Medievale, op. cit., p.60
65
E. CASANOVA, Archivistica, Siena, 1928, p.308
35
gli unici, esili elementi di raccordo tra il Papato, le città e le miriadi di
enti religiosi sparsi tra le campagne.
Alcuni vescovi e collegi capitolari seppero costituire patrimoni terrieri
di notevole consistenza, una base economica su cui si fondarono
quelle immunità, già viste in precedenza, che furono all'origine di un
sistema di potere territoriale simile a quello di alcune abbazie nelle
campagne o di altre signorie territoriali laiche.
Lo sviluppo di una tale rete intricata di diritti e poteri economici e
giurisdizionali si è riverberato in una produzione documentaria di cui
una parte è giunta fino ai giorni nostri e che rivela, anche qui come
negli archivi monastici, una stretta correlazione territoriale con
autorità e interessi locali, individuabili, in questo caso, nel ristretto
ambito diocesano; sia i vescovi che i collegi capitolari delle cattedrali,
infatti, cercavano di condensare i loro possessi nello spazio della
diocesi seguendo in ciò una naturale espansione delle prerogative
giurisdizionali mediante la tessitura di legami personali e politici che
avevano nel territorio e quindi nella diocesi la loro base più solida.66
Da ciò deriva anche una sorta di impermeabilità dei complessi
archivistici sia vescovili che capitolari nei confronti di articolazioni
istituzionali più ampie, quali, ad esempio, quelle delle metropoli
ecclesiastiche, ma è ravvisabile pure una sostanziale debolezza del
grado di raccordo interno allo spazio diocesano in rapporto alla
struttura complessiva degli enti religiosi, che si potrebbe definire
pulviscolare, impossibile da coordinare centralmente per la
moltitudine di interessi concorrenti che si frapponevano tra loro;
solamente nei secoli successivi al periodo qui considerato, a partire
dal movimento riformatore e con lo sviluppo preponderante
dell'autorità papale, le reti di coordinamento istituzionale tra le diverse
realtà ecclesiastiche si accresceranno considerevolmente lasciando
tracce evidenti nei rispettivi complessi archivistici, ma prima di ciò,
per tutto l'alto medioevo, per quello che è possibile dedurre dagli
archivi rimasti, prevalgono realtà documentarie ecclesiastiche di tipo
cellulare con scarsi o nulli collegamenti tra loro e corrispondenti alle
diverse strutture territoriali in cui le chiese si trovarono ad agire,
spesso da protagoniste, in quei secoli.
Un'altra considerazione che accomuna gli archivi ecclesiastici
altomedioevali riguarda la struttura tipologica dei documenti
conservati, una struttura dominata, in grandissima parte, da atti notarili
relativi a trasferimenti di proprietà e possesso di beni fondiari;67 ma
ciò si spiega benissimo con quanto è stato detto sulla natura degli enti
religiosi di questo periodo, le chiese erano tra i più rilevanti proprietari

66
P.CAMMAROSANO, Italia Medievale, op. cit. pp. 74-88
67
Ivi, pp. 61-74
36
terrieri nell'Italia e nell'Europa altomedioevale, la terra era la base di
tutto, non solo della sussistenza economica, ma anche del potere
politico e delle sue angolature religiose e culturali, non sorprende
affatto, quindi, che la documentazione che attestava i diritti e i
possessi di beni fondiari fosse quella più accuratamente custodita
insieme ad altre tipologie documentarie correlate alla prima come
difesa e consolidamento dei predetti diritti e cioè il complesso di
privilegi e concessioni, quali ad esempio quelli, importantissimi, di
immunità, ottenuti dalle autorità laiche come dai papi e, di sovente,
fatti oggetto di falsificazione integrale o parziale, ma anche documenti
prodotti nel corso di vertenze giudiziarie tra cui i cosiddetti placiti.
Gli archivi dei monasteri, dei vescovi e dei collegi capitolari sono
quindi rappresentati per i secoli più antichi da gruppi di pergamene
sciolte riguardanti il patrimonio giuridico ed economico di ciascun
ente; si tratta sostanzialmente di archivi di ricezione cioè di complessi
documentari formati in maggior parte da materiale non prodotto in
loco, ma posto in essere da enti esterni e inviato alle chiese interessate
che ne erano i destinatari, ciò in quanto nelle chiese particolari i
vescovi, gli abati e i canonici non formarono una struttura
organizzativa deputata alla produzione documentaria in forma di
registro come avveniva nella coeva cancelleria papale il cui archivio
invece era definibile come archivio di spedizione data la sua
strutturazione prevalente in registri di documenti spediti e altre forme
simili.68
Tali strutturazioni complesse della produzione documentaria
prenderanno vita, soprattutto come cancellerie vescovili, solo nei
secoli tardi del medioevo quando il contesto giuridico e istituzionale
della Chiesa sarà molto diverso.
Se la componente più strettamente giuridica degli archivi era
sottoposta dalle chiese alla custodia più attenta, non altrettanto si può
dire per tutti quei documenti prodotti al fine della gestione economica
dei beni posseduti; sono sopravvissuti fino a noi alcuni esemplari di
documenti redatti a scopo di inventariazione e ricognizione di beni e
redditi, i cosiddetti polittici, ma è ben poca cosa rispetto alla
documentazione dello stesso tipo prodotta nei secoli successivi.
La ragione è individuabile nel fondamento sostanzialmente
consuetudinario dell'economia altomedioevale, legata ad abitudini e
tradizioni secolari che richiedevano una documentazione
fondamentalmente pratica e quotidiana, di scarso interesse nell'ottica
di una lunga conservazione e perciò facilmente soggetta a dispersioni
e ricicli. Una scienza della ragioneria con elementi di organizzazione
razionale della documentazione contabile che verrà prodotta in grandi

68
A. BRENNEKE, Archivistica, op. cit. pp. 153-155
37
quantità e preservata fino ai tempi attuali negli odierni archivi è
caratteristica dei secoli immediatamente successivi a quelli qui
considerati e sarà opera di ceti borghesi mercantili e artigiani che, fra
duecento e trecento, introdurranno le loro pratiche documentarie
anche nella cultura ecclesiastica.69
Un'altra caratteristica dell'organizzazione documentaria degli enti
religiosi che interessa il condizionamento di alcune tipologie
documentarie e che si dispiegò non solo durante i secoli alti del
medioevo, ma anche in seguito, è rappresentata da raccolte di copie
documentali o trascrizioni rilegate in un codice definito carthularium.
Questi cartulari non devono essere confusi con i registri in quanto non
contengono registrazioni autentiche di atti prodotti e spediti a diversi
destinatari, ma soltanto trascrizioni, a volte interpolate se non
falsificate, di una selezione di atti di cui l'ente è destinatario e non
produttore.
Questo modo di organizzare una parte della memoria archivistica è
originario degli enti religiosi tedeschi fin dal secolo IX, solo a partire
dal secolo XI è possibile rinvenire anche in Italia esempi simili con i
regesti di Farfa, Subiaco e Bressanone, nel XII secolo e in quelli
successivi la tenuta di cartulari si generalizzò interessando non solo le
istituzioni ecclesiastiche, ma anche quelle laiche e urbane.70
Il fine dei cartulari non è limitato ad esigenze di semplice salvaguardia
di una parte dell'archivio considerata più importante, ma risponde
anche a particolari aspetti della dimensione politica e giuridica nonchè
storica degli enti ecclesiastici, non è un caso, infatti, se la produzione
di queste raccolte documentarie si diffonde in Italia in secoli
attraversati da rilevanti trasformazioni istituzionali, in primo luogo gli
effetti della riforma Gregoriana; selezionare alcuni documenti da
trascrivere magari con qualche modifica in un apposito codice
significava per una chiesa costruirsi una propria determinata memoria
e quindi una storia, anche diversa da quella ricostruibile dai documenti
originari, ma utile alla difesa di prerogative e privilegi ormai messi in
discussione; con la produzione di cartulari, quindi, le chiese
mostrarono di sapersi servire in maniera consapevole e anche
spregiudicata dei loro archivi per modellarsi un'identità storica più
consona alla salvaguardia di determinate posizioni nell'organismo
ecclesiale.71

69
Un'introduzione valida e molto didattica all'economia di epoca preindustriale è: C. M.
CIPOLLA, Storia economica dell'Europa pre-industriale, Il Mulino, 2002; per i rapporti tra storia
economica del medioevo e produzione documentaria fondamentali sono i lavori di Federigo Melis
tra cui si segnala: F. MELIS, Documenti per la storia economica dei secoli XIII-XVI, Olschki,
1972.
70
E. CASANOVA, Archivistica, op. cit., p.318
71
Sulle complesse implicazioni storico-politiche insite nella produzione di cartulari è utile: G.
ANDENNA e R. SALVARANI, a cura di, La memoria dei chiostri, Marietti, Genova, 2002; sui
38
In ultimo è necessario affrontare il tema della produzione normativa di
ambito archivistico, argomento quanto mai evanescente per i secoli
qui considerati proprio perchè non si può parlare per l'alto medioevo
di politica archivistica da parte di nessuna istituzione, neanche
ecclesiastica, un tale termine, per la verità, è appropriato solamente a
partire dall'età moderna, ma anche nel tardo medioevo è possibile
rinvenire tutta una serie di norme attinenti alla produzione
documentaria che rendono non del tutto impropria l'espressione
suddetta perlomeno se si confina l'archivistica al suo aspetto tecnico-
giuridico. Tuttavia, se non di una politica archivistica si può parlare,
di una politica di uniformazione culturale e istituzionale tentata dai
sovrani carolingi e di cui si è già fatto cenno in precedenza è utile
enucleare alcuni aspetti che interessarono anche gli archivi
ecclesiastici.
Andando con ordine, è bene sapere che il patrimonio giuridico
dell'antichità con i riferimenti archivistici già esaminati non sparì
improvvisamente, tutt'altro, infatti la grande opera di Giustiniano, il
Corpus Iuris Civilis con le novellae aggregate, fu estesa alla parte
occidentale dell'Impero, in concreto all'Italia dopo la sconfitta dei goti,
nel 554 mediante un atto solenne denominato “prammatica sanzione”.
Anche dopo la conquista longobarda di gran parte del territorio
italiano, le zone rimaste in controllo dei romani d'oriente mantennero
per molti anni ancora una fisionomia giuridica romana e il Corpus
Giustinianeo, pur se corroso e via via eclissato dalla consuetudine,
continuò a incidere soprattutto negli ordinamenti e nella cultura delle
grandi istituzioni ecclesiali di Roma e Ravenna.
Inoltre Roma, sempre nel VI secolo, divenne il centro di raccolta delle
fonti canoniche tramite l'opera di Dionigi il Piccolo che con la sua
Collectio Dionysiana inaugurò la serie delle grandi collezioni
giuscanonistiche, in questa raccolta figurano, nel corso di diverse
edizioni, le traduzioni in latino degli atti dei grandi concili ecumenici
da Nicea a Calcedonia e una collezione di 38 decretali papali.72
La Dionysiana costituirà il riferimento centrale del diritto canonico a
Roma per gran parte dell'età altomedioevale compreso il periodo
carolingio.
Purtuttavia lo spirito del diritto, in quei secoli segnati dalla
frammentazione politica e territoriale, visse sempre più nella
consuetudine e in pochi atti normativi centrali e periferici, tra questi
atti si segnala la continuità dei sinodi provinciali e, in maniera più

cartulari monastici si consiglia: D. PUNCUH, Cartulari monastici e conventuali: confronti e


osservazioni per un censimento, in Libro, scrittura, documento della civiltà monastica e
conventuale nel basso medioevo (secoli XIII-XV), a cura di G. AVARUCCI, R. M. BORRACINI
VERDUCCI, G. BORRI, Spoleto, Centro italiano di studi sull'alto medioevo, 1999, pp. 341-380.
72
C. FANTAPPIE', Introduzione storica al diritto canonico, op. cit., pp. 59-60
39
limitata, di quelli diocesani che concentrarono il loro apparato
dispositivo sui problemi disciplinari del clero con riferimenti anche
all'amministrazione patrimoniale ecclesiastica, gli aspetti archivistici,
quindi, ricalcavano in maniera continuativa quelli già discussi in
precedenza nell'esame della produzione normativa conciliare di età
tardoantica, onnipresente è il richiamo alla cura e alla custodia dei
beni della chiesa, il chè implica, naturalmente, anche il patrimonio
documentario che legittima tutte le altre proprietà e possessi.
Il momento più importante nell'ambito giuridico-istituzionale del
periodo altomedioevale è costituito dal dominio dei sovrani carolingi
che nel tentativo di ricostituire un impero occidentale di ispirazione
romana produssero una mole cospicua di leggi e documenti;
soprattutto a partire da Carlo Magno, novello Giustiniano, un fiume di
capitolari, privilegi e concessioni si riversò negli archivi di enti laici
ed ecclesiastici, ma furono particolarmente questi ultimi a necessitare
di tali documenti per la difesa dei loro diritti e attribuzioni e, dal
momento che le chiese erano indispensabili alleati dei sovrani nella
costruzione di una struttura politica riverberante suggestioni antiche,
fu anche interesse di questi assicurare la conservazione in perpetua rei
memoria, come si diceva in quel tempo, del materiale documentario
più importante. Di questa attenzione per la tutela dei documenti da
parte di enti ecclesiastici è testimonianza esplicita un provvedimento
di Carlo il Calvo che ingiungeva ai vescovi del regno franco
occidentale di custodire con ogni cura i privilegi papali e i precetti
sovrani,73 si trattò probabilmente solo di uno tra i tanti provvedimenti
che i sovrani a lui precedenti e successivi ritennero di dover emettere
per il buon funzionamento degli enti religiosi nelle varie parti
dell'impero.
Di ben più ampia portata storica è la disposizione con cui Carlo
Magno nell'805 prescrive ad ogni vescovo ed abate di avere un
proprio notaio per la redazione dei documenti,74 in effetti tale norma si
inserì in un insieme di disposizioni di ambito notarile da lui iniziato e
poi continuato dai suoi successori che ebbe un ruolo fondamentale
nella determinazione di quella peculiare istituzione quale fu il
notariato italiano.
Qui, però, interessa l'attenzione con cui si guardò da parte dei sovrani
carolingi non soltanto alla conservazione dei documenti, ma anche alla
fase produttiva da affidarsi a personale qualificato e non occasionale;
infatti prima della dominazione carolingia il panorama della

73
Monumenta Germaniae Historica, Capitularia regum Francorum, 2, p. 336, n. 275, 12:
"episcopi privilegia romanae sedis et regum praecepta ecclesiis suis confirmata vigili solertia
custodiant". I Monumenta Germaniae Historica sono disponibili anche in versione digitale sul sito:
www.dmgh.de/index.html
74
Monumenta Germaniae Historica, Capitularia regum Francorum, 1, p. 121, nota e.
40
produzione documentaria era assai diversificato e complesso, nei
territori italiani in controllo bizantino permaneva la tradizione
tipicamente romana dei tabelliones, professionisti laici esperti nella
scrittura di documenti che operavano per i privati, mentre gli enti
religiosi avevano i loro notai spesso di condizione clericale e che
potevano essere più o meno organizzati a seconda della realtà di
riferimento; nelle zone longobarde, invece, vigeva una certa anarchia
documentale in cui ciascuno dotato di competenze scrittorie non si
faceva problemi a redigere documenti per sè o per altri, anche se
naturalmente le autorità laiche avevano i propri notai personali e le
chiese garantivano una minima sopravvivenza degli istituti romani
traendo dai loro ranghi persone abilitate alla produzione
documentaria.75
Carlo Magno e i suoi successori sostituendo i longobardi nel controllo
di parte dell'Italia decisero di porre fine a tale anarchia e di rendere
sistematico anche per le chiese il ricorso all'istituto notarile,
mantenendo così viva una tradizione della cultura giuridica romana e,
anzi, arricchendola di nuove e più incisive prerogative che troveranno
nei secoli del basso medioevo la loro massima esplicazione.

4) Da una Chiesa sacramentale a una Chiesa del diritto: sviluppi


giuridico-istituzionali del Papato e suoi riflessi archivistici

Tra i secoli XI e XIII si produssero una serie di trasformazioni


culturali e giuridiche che portarono a una vera e propria rifondazione
costituzionale della Chiesa, fu un processo lento, accidentato,
lacerante e di straordinaria complessità in quanto si inserì
profondamente nei più generali cambiamenti che interessarono l'intera
struttura sociale, politica e culturale dell'Europa del tempo.
La popolazione dopo secoli di declino aveva ripreso a crescere, un
numero sempre maggiore di uomini lavorava con mezzi più efficaci
appezzamenti fondiari più diffusi ed estesi, si fondavano nuovi
villaggi, nuove città, ma soprattutto si ritornava a popolare quelle
vecchie, in Italia, dopo un lungo periodo di declino e marginalità del
tessuto urbano; ma più cibo e più persone significavano più necessità
e problemi da risolvere, necessità economiche e quindi strumenti di
scambio, trasporti, strade e reti commerciali, ma anche bisogni di
ordine e regolamentazione di tutte le nuove strutture sociali che si
formavano tumultuosamente e quindi ecco il diritto, la sua riscoperta e

75
H. BRESSLAU, Manuale di diplomatica per la Germania e l'Italia, op. cit., capitolo VIII
41
interpretazione, il suo uso nella scrittura; tutti questi bisogni, a loro
volta, rinviano a una matrice comune di civiltà, la cultura che in quegli
anni si materializzò ai più alti livelli in una nuova fortunatissima
istituzione, l'università76.
E' in questo crogiuolo storico denso di cambiamenti che la Chiesa si
trovò ad operare la più intensa trasformazione strutturale della sua
storia, un processo iniziato ed avvertito come una necessità vitale al
pari di quegli altri bisogni che progressivamente si affacciavano
all'orizzonte di quel tempo, difatti, se si ricorda quanto detto nel
precedente paragrafo, la struttura ecclesiale dei secoli altomedioevali
era caratterizzata da un inestricabile intreccio di poteri civili e religiosi
che aveva raggiunto il culmine nel secolo X, un secolo di forte
indebolimento del potere imperiale e di grande espansione di
autonomie territoriali di ogni tipo, ma anche quando l'Impero riuscì a
recuperare parte della sua autorità e del suo prestigio grazie all'opera
di sovrani energici e determinati, la commistione tra funzioni religiose
e temporali non venne affatto meno, anzi si rafforzò a causa della
consolidata prassi imperiale di utilizzare ampiamente vescovi e abati
nelle attività di governo, questo accadeva sia a motivo
dell'indubitabile superiorità culturale del personale ecclesiastico
rispetto a quello laico, sia perchè non essendo permesso ai membri del
clero il matrimonio con la relativa progenie, non vi sarebbero state, in
teoria, complicazioni ereditarie e ciò rendeva più semplice il controllo
e la gestione del potere che in quegli anni si basava sul conferimento
di cariche e benefici territoriali da parte dell'autorità ai suoi fedeli
sottoposti.
In questo modo, però, si veniva a creare una fortissima ingerenza del
potere laico sulla vita e sulle strutture della Chiesa, i vescovi e gli
abati di nomina imperiale erano veri e propri funzionari dell'Impero
con forti propensioni a svolgere attività di governo temporale e a
tenere comportamenti più adatti ad un signore laico che ad un
religioso; la Chiesa rischiava di essere assorbita inesorabilmente
nell'apparato di governo imperiale, con grave danno per l'affermazione
di una società ordinata dall'ideale cristiano.
Fu questa preoccupazione a mobilitare una serie di personalità e
gruppi di laici e religiosi al fine di promuovere una più rigorosa e
intransigente autonomia della vita ecclesiale rispetto alle pretese
dell'autorità imperiale, si costituirono movimenti di riforma dei
costumi morali del clero di cui si ersero a protagonisti in special modo
i monaci che tramite nuove fondazioni innovative sia dal punto di

76
Sulle trasformazioni in atto nell’Europa di quel tempo: Il secolo XII: la “renovatio”
dell’Europa cristiana, Il Mulino, 2003; J. VERGER, Il rinascimento del XII secolo, Jaca Book,
1997.
42
vista istituzionale che culturale (si ricordino le comunità benedettine
di Cluny e Citeaux in Francia e le comunità eremitiche di
Vallombrosa e Camaldoli in Toscana) si fecero anima e intelletto
efficaci del processo di trasformazione in corso77.
L'obiettivo iniziale del movimento era la libertas ecclesiae, un
concetto di libertà finalizzato ad una sostanziale autonomia delle
funzioni ecclesiastiche che sarebbero state, quindi, libere di svolgere i
compiti precipui della loro dignità, in primis il servizio di cura delle
anime, ma per disancorare le istituzioni della Chiesa dalla soffocante
tutela del potere imperiale era necessario controbilanciare un tale
potere con un'autorità diversa da sempre riconosciuta come
riferimento imprescindibile per tutte le chiese, l'autorità papale.
I vescovi di Roma da sempre rappresentavano un'autorità carismatica
di assoluto prestigio nel seno della comunità ecclesiale, ma nel
momento in cui divennero il centro del movimento di riforma la loro
autorità finì per configurarsi non più soltanto nel carisma apostolico
derivante dalla successione di Pietro, ma in una pervasiva capacità di
coercizione giuridica, il principio teologico su cui si era sempre
legittimato il primato della Chiesa di Roma si accrebbe di una
efficacia condizionante tutta nuova fondata sul diritto, i papi infatti
furono percepiti come l'apice istituzionale dell'intero corpo ecclesiale,
il primo motore da cui originava la legge generale valida e cogente in
ogni ramificazione dell'apparato ecclesiastico.
Come si è già detto tale processo di rifondazione istituzionale della
Chiesa fu protratto nel tempo ed ebbe accenti diversi nei suoi
protagonisti, a papi come Gregorio VII e Bonifacio VIII che
interpretavano la riforma nel senso della costruzione di una Chiesa
come ordinamento supremo a cui tutti gli altri erano subordinati e che
concepivano l'autorità pontificia come rappresentante di Dio sulla
terra e quindi onnicomprensiva di tutti i poteri e fonte della loro
legittimazione, si opponevano movimenti più o meno ortodossi e
anche singole personalità che desideravano il ritorno della Chiesa a
posizioni più aderenti al messaggio cristiano, favorevoli certamente
alla libertas ecclesiae se questa significava evitare l'assorbimento
delle funzioni religiose in interessi politici e mondani, ma diffidenti
delle pretese egemoniche del papato che rischiava allo stesso modo di
prima di far ricadere la Chiesa in interessi lontani dall'autenticità della
vita cristiana.
Al culmine di questo processo, però, la Chiesa concretamente
esistente si configurò in maniera assai diversa da quella precedente, si
ricorderà che la concezione unitaria della Chiesa poggiava

77
Sul movimento di riforma ecclesiastica: A. DE SANTIS, Medioevo riformatore. Crisi e
rinnovamento della vita religiosa in Europa tra il X e il XII secolo, Stilo, 2008.
43
essenzialmente sul dato sacramentale e in specie eucaristico di cui la
fede cristiana si sostanziava, le singole comunità ecclesiali, autonome
tra loro, si sentivano parte di una comunità più vasta mediante
l'adesione ad una medesima fede che si ritualizzava nei sacramenti e
che si esplicava attraverso una ricca serie di contatti personali ed
epistolari di cui si è in precedenza discusso, tale concezione
ecclesiologica non è tipica solo del periodo antico della Chiesa ma
perdura nelle sue linee essenziali fino al movimento riformatore,
ancora nel IX secolo l'arcivescovo Incmaro di Reims sosteneva che la
Chiesa è l'insieme delle chiese locali in comunione nella stessa fede ed
eucaristia, i vescovi formano un collegio e il papa gode del privilegio
primaziale all'interno del suddetto collegio, ma sempre nel rispetto
delle competenze territoriali di ciascun grado gerarchico.78
Successivamente lo svolgersi del movimento riformatore con l'enfasi
data all'autorità papale tese ad accentuare la percezione della Chiesa
come di un organismo gerarchico centrato sulla Chiesa di Roma il cui
vescovo è l'elemento fondamentale di raccordo e coordinazione tra le
varie componenti di cui il corpo ecclesiale è composto; questa
impostazione ecclesiologica era destinata ad emarginarne
progressivamente altre che pur sussistevano in quel medesimo periodo
e che preferivano enfatizzare l'autorità dell'intera comunità ecclesiale
nella forma dei concili piuttosto che concentrarsi troppo su un singolo
elemento pur importante come l'autorità pontificia, tali concezioni
note come conciliariste ripresero vigore tra la fine del trecento e le
prime decadi del quattrocento favorite dalla crisi dell'autorità papale in
quel periodo, ma fino a tutto il duecento la visione accentrata della
Chiesa con il netto prevalere dell'elemento monarchico papale fu
predominante, stimolata anche da sollecitazioni esterne di tipo politico
che si ponevano come conflittuali nei riguardi di un modello di Chiesa
costituito come ordinamento autonomo e parallelo o addirittura avente
una dignità superiore a tutti gli altri, senza dimenticare il proliferare di
numerosi gruppi religiosi che mettevano in dubbio la finalità stessa
della Chiesa, il suo farsi tramite tra sfera divina e umana per
trasmettere il messaggio salvifico che solo attraverso di essa poteva
operare i suoi effetti.
Come spesso accade fu l'elemento conflittuale a favorire le visioni più
intransigenti dai diversi punti di vista, da quello della Chiesa il
conflitto sia politico che teologico portò molti membri del clero a
considerare il papato come l'unico baluardo in grado di tenere insieme
la complicata struttura ecclesiastica e di preservare il patrimonio
dottrinale ritenuto ortodosso, per tale motivo l'autorità pontificia
venne esaltata a livelli prima inauditi, ma, e qui sta la novità più

78
Y.-M.-J. CONGAR, L'ecclésiologie du Haut Moyen Age, Paris, 1968, pp. 166-177
44
importante, non lo si fece solo con i classici strumenti della cultura
teologica, ma si adoperarono anche i nuovi raffinati strumenti della
filosofia e soprattutto del diritto.
In questo si deve ravvisare il successo storico del nuovo modello
ecclesiologico che si veniva proponendo in quegli anni, cioè nella
capacità dei riformatori di calarlo e tradurlo adeguatamente nei nuovi
linguaggi culturali peculiari di quell'epoca, un'epoca segnata da una
visione più razionale del mondo e da un conseguente distacco dalla
prima prevalente idea simbolico-figurativa della realtà, era la visione
filosofica della Scuola di Chartres e di Abelardo, suo esimio
rappresentante, sarà anche la visione dell'aristotelismo imperante nel
duecento prima con i commentatori musulmani e poi con l'opera di
Tommaso d'Acquino, razionalismo che ben si prestò a un
atteggiamento sensibile ai problemi giuridici che tornavano a godere
di prestigio grazie alla riscoperta del Corpus Giustinianeo ad opera di
Irnerio79.
il diritto e la sua capacità di formulare sistemi logicamente ordinati di
norme anche partendo da fonti discordanti fu la disciplina principe del
tardo medioevo, uno strumento prezioso in grado di assorbire elementi
di natura filosofica e teologica e trasformarli in norme limpide e sicure
che costituite in complesso coerente rappresentavano agli occhi dei
dotti medioevali la materializzazione di un universo intrinsecamente
razionale benevolmente ordinato dal provvidenziale intelletto divino.
La lingua giuridica divenne una lingua comune, masticata un po' da
tutti, corporazioni, mercanti, città, nobili, re e imperatori, non
sorprende affatto quindi che anche la Chiesa e segnatamente i papi la
ulizzassero alacremente al fine di costruire un ordinamento
ecclesiastico autonomo, ma rigoroso ed ineccepibile anche sul piano
giuridico, fu così che si sviluppò una lunga opera creativa mirata ad
ordinare tutto l'immenso e disordinato patrimonio normativo
ecclesiastico accumulatosi nei secoli in diverse forme, tale percorso si
concluderà solo in età moderna con il completamento del Corpus Iuris
Canonici, ma è nel duecento che raggiunse il suo significato più
compiuto e originale con la sistematizzazione del cosiddetto ius
novum,80 cioè la produzione giuridica dei pontefici.
Il primo caposaldo della grande opera di riorganizzazione del sapere
giuridico ecclesiastico fu il Decretum Gratiani, una raccolta
mirabilmente ordinata di fonti normative assai eterogenee che
risalivano dai tempi più antichi fino al XII secolo, l'importanza fu
determinata proprio dalla capacità di rielaborazione di un materiale
così disomogeneo per tipologia e periodo di redazione, tutta la storia

79
M. ASCHERI, I diritti del medioevo italiano (secoli XI-XV), Carocci, 2000.
80
C. FANTAPPIE', Introduzione storica al diritto canonico, op. cit. pp. 106-111
45
del primo millennio della Chiesa venne sapientemente riorganizzata in
forme adatte alle necessità giuridiche in via di definizione,
naturalmente però, proprio la grande varietà delle fonti prese in esame
impediva la fissazione di un crisma ecclesiologico rigorosamente
coerente, perciò posizioni di predominanza dell'autorità papale
convivevano con altre più attente alle prerogative dell'intero corpo
ecclesiale.
Ambiguità destinate a estinguersi nelle successive opere canonistiche
che combinavano lo ius novum papale con i principi del diritto romano
allora oggetto di studio fervente e, quindi, dominate dalla
considerazione nettamente preminente data alle fonti normative di
produzione papale, in primo luogo le decretali che si qualificarono
non più soltanto per il loro valore giurisprudenziale, ma come leggi
generali di valore astratto vincolanti tutti i fedeli, i papi stessi, nel
duecento, ordinarono raccolte organiche delle decretali e delle altre
norme emesse dai loro predecessori, l'opera cardine in tal senso fu il
Liber Extra promulgata da Gregorio IX nel 1234 e destinata ad essere
la fonte più importante del diritto canonico fino alla codificazione del
1917.
La Chiesa quindi si rivestiva di diritto81, ne era plasmata in tutti i suoi
elementi, ogni singola struttura tendeva a darsi regolamenti e a
coordinarsi con le altre mediante strumenti giuridici, la lingua del
diritto assorbiva le altre lingue dottrinali, filosofiche e simboliche
usuali nell'ambito ecclesiastico per fondersi in un impasto idiomatico
che è ancora oggi peculiare della cultura ecclesiale in specie cattolica.
La Chiesa, soprattutto, si costituiva come un ordinamento in sè
compiuto e autonomo, con le proprie regole e una propria struttura
sempre più complessa e pervasiva per meglio adattarsi ad una realtà
spesso conflittuale e di ardua decifrazione.
Ma la pervasività dell'elemento giuridico nella mentalità e nella prassi
operativa delle istituzioni ecclesiastiche riconduce ad aspetti
strettamente correlati al diritto quali le strutture burocratiche e i loro
sistemi documentari che in quanto manifestazione scritta di fatti ed atti
giuridici venivano ad essere considerati con un'attenzione superiore
rispetto ai periodi precedenti.
Anche in quest'ambito, però, il processo trasformativo riguardò l'intera
realtà politico-sociale, ovunque, a partire dalle istituzioni cittadine
dell'Italia comunale, si verificò tra XII e XIII secolo un netto aumento
della produzione scritta di tipo documentario che si diversificava nelle
forme materiali e nei contenuti; ai documenti sciolti in pergamena,
predominanti nella produzione documentaria altomedioevale, si

Riferimenti centrali sull’argomento: F. CALASSO, Medioevo del diritto. Le fonti, Giuffrè; E.


81

CORTESE, Il diritto nella storia medievale. Il basso medioevo, vol. II, Il Cigno Galileo Galilei.
46
affiancarono in misura via via crescente forme fascicolari sciolte o
rilegate in codice composte non solo nella tradizionale pergamena, ma
anche nel nuovo e sempre più favorito materiale cartaceo, più facile a
fabbricarsi e meno costoso, inoltre le tipologie documentarie si
ampliarono maggiormente soprattutto quelle correlate alla gestione
economica dei beni, fortemente stimolate da una cultura mercantile in
grande espansione.
Ovviamente questo "fervore" di scritture documentarie era il risultato
di una maggiore complessità delle strutture istituzionali che, a loro
volta, erano originate dalle necessità crescenti della vita sociale; ma se
questo è un dato comune, come detto, all'intero ambiente laico ed
ecclesiastico dei secoli tardomedioevali, è anche vero che la
complessità strutturale di gran lunga maggiore fu raggiunta
dall'organizzazione burocratica pontificia, la cosiddetta curia romana,
che rimase il modello più complesso di organizzazione centralizzata
fino all'avvento delle nuove concezioni statali nella prima età
moderna.
Si è detto della nuova percezione monarchica dell'autorità papale, una
percezione accresciutasi dal tempo della riforma gregoriana fino ai
primi del duecento soprattutto dal punto di vista giuridico, un
pontefice come Innocenzo III interpretò la formula tradizionale di
plenitudo potestatis risalente a una lettera di Leone Magno del 446 in
un senso talmente estensivo da farvi rientrare tutti i poteri possibili,
vale a dire che il papa si percepì come detentore di un potere assoluto
di giudizio in ambito ecclesiastico (anche se non sempre limitato a
quest'ambito) cioè come iudex ordinarius omnium concernente la
giurisdizione ordinaria su tutte le chiese, tutti i prelati e tutti i fedeli.82
Un siffatto potere unito al conseguenziale sforzo di accentrare a Roma
il controllo dell'intera, complicatissima, struttura ecclesiastica europea
richiedeva un apparato di governo e di gestione economico-
amministrativa adeguato alla nuova concezione della Chiesa.
Tra le strutture istituzionali create o trasformate in quel periodo
storico, ad assoluta centralità, sia nella rilevanza politico-
amministrativa che nella produzione e organizzazione archivistica,
assurgono il collegio cardinalizio, la cancelleria e la camera
apostolica.
Il collegio dei cardinali ha origini antiche e sembra che il termine
"cardinale" sia una derivazione aggettivale di cardo, il cardine o perno
che sostiene le estremità di porte e finestre, ad indicare le funzioni di

82
R. L. BENSON, Plenitudo potestatis: Evolution of a Formula from Gregory IV to Gratian, in
"Studia Gratiana, Post octava Decreti saecularia collectanea historiae iuris canonici", XIV, 1967,
pp. 195-217
47
sostegno che questi prestigiosi prelati svolgevano nei confronti del
papa già tra IV e VIII secolo, periodo di formazione di tale collegio.
Inizialmente il vescovo di Roma ricorreva come ausilio per l'esame di
affari importanti ai principali dignitari del presbiterio, cioè i chierici
preposti alle ventotto chiese titolari, i tituli, esistenti a Roma, questi
chierici cominciarono ad essere denominati presbyteri cardinales;
successivamente, nell'VIII secolo, a questi furono aggiunti anche i
vescovi delle diocesi suburbicarie situate nelle vicinanze dell'Urbe che
erano incaricati di officiare la basilica del Laterano e di celebrare
messa ogni domenica all'altare di S. Pietro, per tale ragione ricevettero
la denominazione di episcopi cardinales ebdomadarii; ci fu anche un
ordine di cardinali diaconi che probabilmente si componeva di
membri scelti tra i diaconi palatini che assistevano il papa negli uffici
pontificali al palazzo del Laterano e tra i diaconi regionali a cui
spettava l'amministrazione dei beni temporali e l'esercizio della carità
e assistenza pubblica.83
Ma l'importanza dei cardinali nella vita della Chiesa si accrebbe
notevolmente nel periodo riformatore, in particolare fu determinante il
decreto In nomine Domini, promulgato da papa Niccolò II nel sinodo
del Laterano del 1059, nel quale si stabiliva che l'elezione pontificia
era riservata ai cardinali vescovi romani, mentre agli altri ordini di
cardinali, al clero e al popolo di Roma si attribuiva una funzione di
approvazione; anche se, per la verità, tale decreto troverà una sua
piena applicazione soltanto più di un secolo dopo, l'innovazione
elettorale determinò una crescente valorizzazione delle funzioni dei
cardinali nel governo della Chiesa.
Con il collegio cardinalizio si venne a formare in quei secoli un
organo ecclesiastico centrale a cui si tendeva ad affidare un ruolo di
continuità e di stabilità nel governo della Chiesa romana, il collegio,
infatti, perse via via il suo carattere di istituzione locale per acquisire
funzioni di responsabilità e collaborazione diretta con i papi che
proprio in quegli anni estendevano la loro autorità come mai prima era
accaduto, da ciò l'istituzione del concistoro, sembra già nel pontificato
di Urbano II (1088-1099), una sorta di senatus papae che consigliava
il pontefice nelle materie più delicate della politica ecclesiastica e
temporale. I cardinali, inoltre, svolsero anche importanti funzioni
diplomatico-amministrative, quelle di legati, che saranno fondamentali
ai fini dello sforzo di accentramento delle prerogative papali non solo
in campo ecclesiastico, ma anche nell'ambito del governo temporale
dello Stato della Chiesa, funzioni che si ritroveranno anche in età
moderna e contemporanea.

83
J. ORLANDIS, Le istituzioni della Chiesa cattolica. Storia, diritto, attualità, Edizioni San
Paolo, 2005
48
Erano spesso cardinali anche coloro che presiedevano gli altri grandi
uffici della Curia, come la camera apostolica e la cancelleria.
La cancelleria, come si è visto nel capitolo dedicato al periodo antico,
ha la sua origine nella schola notariorum formata dai papi già in epoca
tardo-romana e organizzata sotto la responsabilità del primicerius
notariorum a cui era devoluta anche la custodia degli scritti prodotti e
ricevuti nell'archivio e nella biblioteca papale; si è già detto, infatti,
dell'assimilazione tra materiale bibliografico e documentario
caratteristica del modus agendi ecclesiastico, un fatto che fu
ulteriormente esplicitato dalla nomina di bibliotecari papali,
probabilmente verso la fine dell'VIII secolo,84 che si occuparono oltre
che dell'archivio e della biblioteca anche del servizio di cancelleria, in
ciò sostituendo progressivamente i primiceri; tale scelta fu
condizionata anche da aspetti di natura politica in quanto i papi dei
secoli IX e X, trovandosi spesso in forte tensione nei rapporti con i
potenti locali dalle cui fila si traevano molti degli ufficiali
dell'amministrazione papale come i primiceri dei notai, preferirono
affidare il compito più delicato della loro amministrazione, come
quello di supervisionare sulla produzione e conservazione del
patrimonio documentario e librario della Chiesa di Roma, a un
funzionario estraneo alla cerchia dei potenti che oltretutto, con
sicurezza già nell'829,85 era spesso un vescovo di una diocesi
suburbicaria, un membro fidato, quindi, della Curia romana.
Verso la fine del secolo X si stabilizza presso la Curia pontificia il
titolo di cancellarius chiaramente derivante dall'influenza della corte
imperiale tedesca che in quegli anni era predominante a Roma, si può
supporre che inizialmente il cancelliere fosse preposto in via esclusiva
al servizio di elaborazione e spedizione di documenti, l'ufficio, cioè,
che a partire dalla sua presenza può essere denominato, con piena
proprietà, cancelleria, e che fosse ancora soggetto al bibliotecario che
continuava a esercitare le sue funzioni in merito all'archivio e alla
biblioteca, ma a partire dalla seconda metà dell'XI secolo tutte quelle
funzioni vengono progressivamente riunite in un'unica persona
insignita con il titolo di cancellarius o bibliothecarius o di entrambi,
questo fino alla morte di Celestino II (1143-1144) dopo la quale il
capo della cancelleria è chiamato solo cancelliere, mentre il titolo di
bibliotecario acquisirà un valore onorifico distinto dalle attività di
cancelleria e le competenze in merito alla biblioteca e all'archivio
papale si sposteranno verso l'area di influenza della camera apostolica.

84
H. BRESSLAU, Manuale di diplomatica per la Germania e l'Italia, op. cit., p. 191
85
Il regesto di Farfa compilato da Gregorio di Catino, a cura di I. GIORGI-U. BALZANI, Reale
Società Romana di Storia Patria, 1879-1914, voll. 5, II, p.221, n. 270: placito del gennaio 829 alla
presenza di "Leo aepiscopus et bibliothecarius Sanctae Romanae ecclesiae".
49
La seconda metà del XII secolo fu il periodo decisivo per la
maturazione strutturale di tutta l'attività cancelleresca che si accrebbe
in complessità sia per le procedure di elaborazione documentaria che
per le tipologie documentali emesse, assai più diversificate rispetto ai
secoli precedenti; non è un caso quindi che il pontefice più noto in
merito alla riorganizzazione della cancelleria sia Innocenzo III (1198-
1216), il papa che più di tutti rappresentò il massimo prestigio, mai
più raggiunto in seguito, dell'autorità pontificia in Europa, ma anche il
papa che raccolse il frutto del lavoro dei suoi predecessori, e in
particolare di un importante predecessore, Alessandro III (1159-1181)
al secolo Rolando Bandinelli, già capo della cancelleria ed esperto
giurista, promotore instancabile di una copiosa legislazione
riguardante l'organizzazione ecclesiastica centrale e periferica, una
produzione normativa materializzatasi in un numero enorme di
decretali tanto da farlo apparire come il "vero iniziatore dell'unità
legale della Chiesa".86
Innocenzo III, anche lui in precedenza esperto di diritto e membro
della cancelleria, continuò tale lavoro di riorganizzazione della
struttura ecclesiastica estendendola anche al delicato ambito della
produzione e conservazione dei documenti e il cui risultato più
rilevante ai fini archivistici fu la maggior cura rispetto ai tempi
precedenti di cui si giovò l'attività di registrazione dei documenti
prodotti nella cancelleria, è dal periodo del suo pontificato, infatti, che
comincia la serie sistematica dei registri papali.
Come si è già analizzato in precedenza, la prassi della registrazione
dei documenti fu acquisita dalla tradizione amministrativa pontificia
dal grande esempio dell'amministrazione romana e fu applicata, con
ogni probabilità, in tutto il periodo altomedioevale e nei secoli
precedenti il pontificato Innocenziano, eppure i prodotti di tale prassi,
vale a dire i registri, sono andati quasi del tutto perduti per
quell'epoca, ci restano solo alcuni frammenti soprattutto in copie più
tarde.
Le cause di un simile doloroso naufragio archivistico sono difficili da
appurarsi in dettaglio, ma sicuramente alcune considerazioni storiche
possono aiutare a formulare un quadro generale di tale rovina; in
primo luogo è da tenere presente che la documentazione pontificia
precedente al secolo XI era prodotta in papiro, materiale assai più
deperibile della pergamena, ondecui i probabili spostamenti di luogo a
cui furono soggetti i registri e altri documenti in papiro a seguito delle
vicende dei singoli papi e della città di Roma in quei secoli turbolenti,
certamente non hanno giovato alla loro conservazione, del resto, come

86
G. LE BRAS, J. GAUDEMET, J. RAMBAUD, Histoire du droit et des institutions de l'Eglise
en Occident, Sirey, Paris, voll. 18, I, p.40
50
poi meglio si dirà, per molti secoli non si potè parlare di un archivio
pontificio unico, formalmente stabilito in un determinato luogo e
accentrante in sè l'intera mole della produzione documentaria della
Curia, una tale soluzione, tipica dei moderni archivi di concentrazione,
solo molto faticosamente si farà strada, nel corso dell'età moderna,
nell'amministrazione papale, e mai in maniera del tutto completa.
Quindi, per i secoli più antichi, non è difficile immaginare le
dispersioni e la progressiva rovina di fragili registri in papiro
posizionati nei posti più vari, anche i meno adatti alla conservazione,
oltre a ciò, ovviamente, i conflitti e i tumulti che turbarono la vita
della Roma papale tra IX e XIII secolo, causarono le più esiziali
distruzioni di libri e documenti.
Ma uno spartiacque paradossale nella sopravvivenza archivistica dei
registri papali dal duecento in poi, fu insita anche nella decisione di
Innocenzo III di trasferire la Curia dalla tradizionale sede Lateranense
al Vaticano, vicino S. Pietro, ciò comportò anche il trasferimento del
materiale documentario legato alla cancelleria, soprattutto di quello
più recente e più coinvolto, quindi, nell'attività politico-amministrativa
del papa; da ciò l'ipotesi che il materiale conservato in Vaticano,
soggetto ad attenzioni maggiori, abbia avuto più favorevoli condizioni
per la sua sopravvivenza rispetto al resto della produzione
documentaria lasciata in Laterano o in altre sedi.87
Il duecento, quindi, si configurò come un secolo decisivo nella
tradizione archivistica pontificia, da un lato il cambio di sede della
Curia insieme ad una parte della documentazione relativa espose il
rimanente materiale archivistico, frammentato in diverse sedi, ad una
minore tutela e ciò si rivelò fatale ai fini della sua conservazione;
d'altro canto, però, il perfezionamento e la riorganizzazione degli
uffici cancellereschi a partire dal papato di Innocenzo III dettero il via
ad una produzione documentaria notevolmente più ricca e variegata
della precedente, in tale produzione sono le diverse serie di registri a
costituire il nucleo più ricco e prezioso, ancora oggi, dell'archivio
pontificio.
Come già si è accennato, l'inizio del duecento vide una
riorganizzazione della cancelleria pontificia sia in merito al personale
impiegato che fu ampliato e strutturato in maniera gerarchica secondo
un cursus honorum legato probabilmente all'anzianità di servizio, sia
riguardo alle funzioni specifiche attribuite a ciascun impiegato che
furono maggiormente dettagliate e diversificate; in effetti l'intento di
questa riorganizzazione era di adeguare anche l'apparato
specificamente incentrato sulla comunicazione ufficiale dei pontefici
con il resto della cristianità al sostanzioso incremento di potere ed

87
H. BRESSLAU, Manuale di diplomatica per la Germania e l'Italia, op. cit., p.142
51
influenza dell'autorità papale ad ogni livello, sia ecclesiastico che
temporale.88
L'attività sempre più ipertrofica della cancelleria si ripercosse anche
nella prassi della registrazione dei documenti che fu richiesta
frequentemente dagli stessi postulanti al fine di meglio garantire il
privilegio acquisito in caso di smarrimento dell'originale, inoltre, data
la quantità crescente di tali registrazioni per richiesta, fu sentita la
necessità di strutturare i registri in maniera più articolata rispetto ai
secoli precedenti, se i registri antichi erano strutturati solamente per
ordine cronologico, nel corso del duecento e del trecento si venne
configurando un'articolazione per materie e tipologie documentarie;
già durante il pontificato di Innocenzo III una parte della
corrispondenza riguardante i rapporti politici del papa con l'Impero fu
estratta dall'insieme delle registrazioni e la si riunì in unico volume dal
titolo Regesta domini Innocencii tertii papae super negotio Romani
imperii, durante i pontificati di Innocenzo IV e di Alessandro IV si
cominciò a suddividere le registrazioni tipologicamente riunendo in
fascicoli a parte le cosiddette litterae curiales o de curia, lettere la cui
stesura avveniva non per richiesta delle parti, ma per ordine della
Curia e che avevano generalmente contenuto politico, tale prassi si
stabilizzò durante il papato di Urbano IV, periodo in cui si impose la
regola di allestire i registri suddividendo i documenti da registrare in
due categorie: litterae communes e litterae curiales.
La diversificazione strutturale dei registri si accentuò ancora nel
trecento, durante la permanenza del Papato ad Avignone, periodo in
cui nacquero i registri dedicati alle litterae secretae, lettere chiuse, che
si volevano appunto mantenere segrete, prodotte e spedite da un uffcio
separato dalla cancelleria composto da personale accuratamente
selezionato; successivamente la diversificazione dei registri si legò
sempre più ai diversi uffici di cui si componeva la Curia pontificia, si
ebbero quindi registri di cancelleria, registri di segreteria e registri
camerali a loro volta diversamente articolati al loro interno.89
Le serie quantitativamente predominanti, però, non sono costituite dai
registri di documenti spediti, ma da tipi peculiari di registri in cui si
ricopiavano le suppliche scritte approvate dal papa o da un suo
delegato; dato l'accentramento pontificio di competenze
giurisdizionali sia riguardo ambiti specificamente ecclesiastici come la
gestione dei benefici legati alle chiese particolari, sia nei confronti dei
poteri locali insistenti all'interno dei confini del patrimonium Petri che

88
Per una sintetica ma chiara trattazione della struttura cancelleresca papale dal duecento in poi si
consiglia: F. DE LA SALA, P. RABIKAUSKAS, Il documento medievale e moderno. Panorama
storico della diplomatica generale e pontificia, Pontificia Università Gregoriana, Istituto
Portoghese di Sant'Antonio, Roma, 2003, pp. 208-213/231-240
89
H. BRESSLAU, Manuale di diplomatica per la Germania e l'Italia, op.cit., pp. 107-109
52
tendevano ad essere inquadrati in rapporti feudali con il papa, la sede
papale si trovò ad essere, soprattutto dal XIII secolo in poi, un punto
di approdo obbligato per chiunque desiderasse essere garantito in
qualche diritto, da ciò l'abitudine di presentare le richieste alla Curia
dapprima oralmente, poi, a partire dal papato di Innocenzo III, in
forma di suppliche scritte che venivano ricevute da appositi funzionari
denominati referendari, costoro avevano il compito di raccogliere le
suppliche e riferirne al papa che poteva accoglierle o rifiutarle, verso
la fine del duecento invalse l'abitudine di approvare le suppliche con
un segno scritto, in tali casi quando l'accoglimento era effettuato
personalmente dal papa era lui stesso a scrivere di sua mano "fiat",
oppure in caso di delega al vicecancelliere il segno apposto era
"concessum".90
A partire dal papato di Benedetto XII (1334-1342) si fissò l'uso di
registrare le suppliche segnate in appositi registri che avevano la
funzione di garantirne il testo da eventuali tentativi di falsificazione;
tali registri presenti in numero di 7365 volumi dal 1342 al 1899
nell'Archivio Vaticano, costituiscono, come prima accennato, la serie
più corposa della produzione documentaria pontificia e rappresentano
in maniera eloquente la trasformazione del papato, nel tardo
medioevo, in un potere giurisdizionale a vocazione ecumenica con le
corrispettive sollecitazioni all'adeguamento degli apparati
amministrativi, produttori e ricevitori di materiale documentario e
responsabili della loro custodia ad perpetuam memoriam.
Ma se la riorganizzazione e il potenziamento degli uffici di cancelleria
fu un fattore decisivo, nel corso del duecento, riguardo al materiale
documentario selezionato, prodotto e organizzato ancora oggi presente
nell'Archivio Vaticano, un altro momento centrale nell'organizzazione
archivistica pontificia che investì in modo particolare la concezione
stessa del materiale archivistico si ebbe con il passaggio delle
competenze di custodia e gestione dell'archivio papale e della
biblioteca dalle funzioni del cancelliere a quelle del camerario, una
sorta di ministro delle finanze papali.
Questa mutazione organizzativa avvenne indicativamente nella
seconda metà del XII secolo, in un periodo di tempo compreso tra i
pontificati successivi a Celestino II (1143-1144) e il papato di
Innocenzo III.91
Un indizio "a quo" di tale periodizzazione è costituito dalla già
menzionata scomparsa del titolo di bibliotecario riferito al capo della
cancelleria, fatto constatabile nel periodo successivo al papato di
Celestino II e che indica il distacco tra le competenze e le funzioni

90
F. DE LASALA, P. RABIKAUSKAS, Il documento medievale e moderno, op. cit. pp. 214-215
91
H. BRESSLAU, Manuale di diplomatica per la Germania e l'Italia, op. cit., p.143, nota 35
53
connesse all'attività di cancelleria e le problematiche della gestione
della biblioteca e dell'archivio papale la cui amministrazione si
demandava ad altro personaggio della Curia.
Di qual personaggio si trattasse ci è riferito da un interessante
testimone dell'epoca, Geraldo del Galles (1146-1223), un colto
chierico gallese famoso per le sue descrizioni storiche dell'Irlanda e
del Galles, ricche di preziosi particolari antropologici sulla vita di
queste affascinanti contrade celtiche, così come è altrettanto ricca di
particolari sui diversi modi di procedere della Curia papale la sua
descrizione del pellegrinaggio a Roma al tempo di Innocenzo III.
Giraldo venne a Roma al fine di chiedere al papa la conferma
dell'indipendenza della Chiesa gallese da Canterbury, elevando,
quindi, la chiesa di St. David's ad arcidiocesi, cioè a capitale
ecclesiastica del Galles; per meglio consolidare tale richiesta ottenne il
permesso di consultare il registro di papa Eugenio III (1145-1153), la
consultazione avvenne sotto l'occhiuta vigilanza di un chierico
camerale e nel momento in cui Giraldo trovò i documenti che lo
interessavano dovette chiedere l'autorizzazione al camerario papale
onde ottenerne delle copie.92
Da tale testimonianza si evince piuttosto chiaramente che al principio
del secolo XIII la responsabilità dell'archivio gravava sulle spalle di
questa figura alquanto recente nei ranghi dell'amministrazione papale,
ma la domanda che legittimamente ci si può porre è il perchè di tale
sostituzione di competenze, per quale motivo archivio e biblioteca
furono posti sotto la responsabilità di un nuovo funzionario deputato
alla gestione delle finanze papali?
La risposta, a mio avviso, può ottenersi soltanto focalizzando
l'attenzione sulla rinnovata centralità che i domini temporali pontifici
acquisirono proprio in quel periodo in cui avvenne la sostituzione di
competenze riguardo l'archivio, vale a dire la metà del XII secolo.
Come è noto l'origine del potere temporale dei papi risale ai
possedimenti privati di vaste tenute fondiarie sparse in buona parte
dell'Europa mediterranea che la Chiesa di Roma aveva saputo
accumulare mediante donazioni, concessioni ed eredità di fedeli
appartenenti ai ceti più facoltosi del tardo Impero Romano.
Alla fine del VI secolo un papa come Gregorio I si poteva considerare
come uno dei più ricchi possidenti fondiari d'Europa, soprattutto in
Italia grazie al possesso di vaste aree per la coltivazione cerealicola in
Sicilia e Calabria, questi patrimoni terrieri erano organizzati in
maniera simile alle proprietà fiscali dell'amministrazione imperiale,
92
GIRALDUS CAMBRENSIS, De iure et statu Menevensis ecclesiae in Giraldi Cambrensis
Opera, ed. J. S. Brewer, J. F. Dimock, G.F. Warner, 1861-1891, 8 vols., III. Una traduzione in
lingua inglese del passaggio sopra riassunto si può trovare in: H. E. BUTLER, The autobiography
of Gerald of Wales, Boydell Press, pp. 192-193
54
come tali proprietà, nelle varie regioni dell'Impero, erano rette da
procuratori dell'Imperatore con alle dipendenze diversi impiegati, così
i possedimenti papali erano governati in nuclei patrimoniali ciascuno
amministrato da un rector assistito da un proprio ufficio di
collaboratori vari.93
Tramite questo patrimonio fondiario che garantiva risorse economiche
ed umane, i pontefici poterono gradualmente sostituirsi alla legittima
autorità bizantina sempre più debole in Italia, occupandosi di
importanti attività urbanistiche ed economiche nella città di Roma,
come l'approvvigionamento alimentare garantito alla polazione grazie
al grano proveniente dalle tenute di proprietà papale, come anche
l'intervento manutentivo su infrastrutture fondamentali del calibro di
acquedotti, strade e mura.
L'attività economica dei grandi possessi fondiari e l'attività
amministrativa concentrata in Roma e nel suo distretto in sostituzione
del potere bizantino, costituirono, quindi, il nucleo fondamentale del
dominio temporale della Chiesa, ma la vera svolta politica si ebbe con
l'alleanza tra il papato e la dinastia Carolingia che sboccò nella
costituzione del Sacro Romano Impero e in una serie di donazioni
territoriali dei neoimperatori nei riguardi dei pontefici che vennero a
configurarsi nel tempo come un nutrito dossier di ragioni giuridiche a
sostegno del loro dominio temporale (falsificazioni a parte).
Tuttavia il controllo effettivo di tali possedimenti da parte dei
pontefici rimase a lungo una chimera, tra IX e XI secolo diversi fattori
furono da ostacolo, in primo luogo l'impossibilità del papato a sottrarsi
per lungo tempo ai maneggi e all'influenza dell'aristocrazia romana e
quando non erano i "potentes" dell'Urbe a limitare l'autonomia dei
papi contribuivano gli imperatori tedeschi con la loro ambizione di
assimilare le istituzioni ecclesiastiche per meglio consolidare l'Impero;
solo dalla metà del secolo XII i papi riuscirono ad occuparsi
maggiormente anche dell'aspetto temporale del loro potere, lo
strumento fondamentale a cui ricorsero fu l'uso estensivo dei rapporti
feudali, ciò ebbe una prima importante esemplificazione negli anni
1146-1159, periodo in cui i papi Eugenio III e Adriano IV riuscirono a
creare una rete di fortezze pontificie in vari territori del Patrimonio, i
castra specialia ecclesiae, i cui legittimi signori erano conservati nelle
loro posizioni con il nuovo status di vassalli del papa.94
Alla metà del XII secolo i papi riprendono con un certo vigore la
politica di consolidamento temporale del loro potere, negli stessi anni
il cancelliere non porta più il titolo di bibliotecario e, sempre in quel

93
M. ASCHERI, Istituzioni medievali, op. cit., pp. 119-123
94
The new Cambridge medieval history IV, c.1024-c.1198 Part I, ed. D. Luscombe, J. Riley-
Smith, p. 430
55
medesimo periodo, una delle persone più influenti nella Curia papale
era il cardinale diacono Bosone che occupava, guarda caso, la carica
di camerario.
I camerari erano funzionari di recente costituzione all'interno della
Curia, venivano ad assorbire le competenze di precedenti ufficiali noti
come sacellarius e arcarius nella gestione delle finanze papali ed
acquisirono nuove rilevanti responsabilità sui possessi territoriali dei
pontefici e sulle loro rendite; non meraviglia quindi che lo sforzo di
ristrutturazione dei domini temporali pontifici fosse accompagnato da
un opportuno adeguamento amministrativo, con la costituzione
dell'ufficio del camerario e la sua ascesa in autorità e rilevanza tra i
funzionari papali, ma è cosa naturale, a questo punto, dedurre un
legame stretto tra crescita d'importanza dei camerari e passaggio sotto
la loro competenza di archivio e biblioteca, considerati ormai parti
eminenti del "tesoro" papale.
Soprattutto l'archivio era considerabile come tesoro in quanto
contenente gli antecedenti diretti dei legittimi possessi e diritti del
papato e, come tale, aveva anche la funzione di strumento accertativo
della composizione globale del patrimonio pontificio, struttura
patrimoniale la cui definizione era uno dei compiti principali del
camerario.
Ne consegue che i funzionari addetti a tali delicati compiti di
ricognizione dei diritti papali e della loro applicazione dovessero
necessariamente reperire e consultare tutta la documentazione
disponibile al fine di espletare le loro funzioni, ma, da tale uso
strumentale e occasionale dei documenti, a una loro conservazione e
gestione razionale fino ad acquisirne la responsabilità definitiva, il
passaggio, come si è detto, è naturale.
Il prodotto della interazione tra le funzioni dei camerari e il materiale
conservato nell'archivio e nella biblioteca sottopposti alla loro
custodia è rappresentato dal Liber censuum Romanae Ecclesiae, un
manoscritto di struttura composita compilato dal camerario papale
Cencio Savelli, poi papa con il nome di Onorio III (m. 1227); l'aspetto
più interessante del manoscritto, ai fini del nostro discorso, è, appunto,
la sua natura composita, cioè il suo contenere testi e documenti della
più varia tipologia, accanto alla copia di documenti attestanti censi e
prerogative della Chiesa di Roma, in forma, quindi, di cartulario, si
rinvengono anche liste di vescovati e monasteri soggetti in via diretta
alla sua autorità, descrizioni urbanistiche dell'Urbe concernenti i suoi
monumenti antichi e i suoi luoghi sacri, cronache celebranti i fasti dei
pontefici del passato e normative riguardanti la liturgia in uso.
Si tratta, quindi, di una forma di scrittura mista che non distingue
ancora tra forme specificamente letterarie come le cronache e
56
tipologie documentarie esclusivamente funzionali alla ricognizione e
alla gestione di risorse finanziarie, tipologie che corrispondevano a
strumenti contabili già in uso, nel corso del duecento, nelle
istitituzioni laiche e private e che si diffusero, tramite la mediazione
dei mercanti, anche nelle istituzioni ecclesiastiche.95
Ciò ci riconduce alla ben nota ambiguità tra materiale bibliografico e
archivistico che in parte perdurò anche con la nuova sottoposizione di
archivio e biblioteca all'amministrazione camerale, tutto era utile,
infatti, all'affermazione delle prerogative papali, non solo la
documentazione archivistica, ma anche le cronache storiche, la
dottrina teologica e le normative canoniche che erano percepite come
un insieme inscindibile atte a consolidare il prestigio dell'autorità
papale; tuttavia il processo inesorabilmente teso alla giuridicizzazione
delle forme operative in cui si esprimevano anche le istituzioni
ecclesiastiche e la contemporanea focalizzazione sugli aspetti
temporali del potere papale con le conseguenti ricadute economiche,
percepiti entrambi come strumenti essenziali in ordine al governo
della Chiesa, contribuivano a far risaltare inevitabilmente la specificità
della documentazione d'archivio, necessitante di una cura e di una
tecnica gestionale diversa dal restante materiale bibliografico.
La concezione dell'archivio, anche nell'ambito ecclesiastico, sarà
sempre più legata all'aspetto giuridico-patrimoniale, al tesoro di diritti
e prerogative legittimamente sanciti da usare come baluardo nei
confronti di contestazioni, ciò porterà a una distinzione anche
istituzionale tra biblioteca e archivio, almeno a Roma, nel periodo
successivo al rientro dei pontefici nell'Urbe dopo la permanenza ad
Avignone, con il papato di Sisto IV, ma di ciò si tratterà più
approfonditamente nella parte dedicata alla costituzione dell'Archivio
Segreto Vaticano.

95
P. CAMMAROSANO, Italia medievale, op. cit., p. 217
57
5) Lo sviluppo delle reti ecclesiastiche locali tra XIII e XV secolo:
nascita dell'amministrazione diocesana e superamento
dell'archivio thesaurus

Il processo di riforma della struttura ecclesiale cominciato nel secolo


XI con l'obiettivo di disancorare le istituzioni ecclesiastiche
dall'influenza pervasiva del potere laico onde rimettere alle suddette la
piena operatività del proprio mandato spirituale di cura delle anime, si
andò articolando negli anni successivi in un gigantesco sforzo di
rimodellamento del tessuto ecclesiale sempre più concepito come un
ordinamento autonomo e finanche superiore alle altre sovranità
temporali.
Tale complesso organismo si veniva innervando di cultura giuridica,
sapientemente erogata da dotti e studiosi che avevano sintetizzato
elementi di tradizione dottrinale, di vecchie costituzioni e di diritto
romano in un nuovo corpus giuridico canonico, ed aveva il proprio
centro vitale nel Papato che assumeva su di sè, come mai in
precedenza, poteri di giudizio e di direzione sulla totalità del corpo
ecclesiale, la già menzionata plenitudo potestatis.
L'esplicito manifesto di questa concezione dell'autorità papale si ebbe
nei decreti del quarto concilio lateranense del 1215, in esso il
pontefice Innocenzo III dispiega un linguaggio "imperiale", fermo e
perentorio nell'autocoscienza della propria altissima dignità e delle
responsabilità derivanti; durissimo e quasi disturbante per la nostra
moderna sensibilità è il tono usato nei confronti degli eretici
considerati un morbo da estirpare senza alcuna pietà, espressioni
paternalistiche e sferzanti sono usate verso i laici che pretendono di
disporre dei beni della Chiesa e che non mostrano la dovuta
obbedienza all'autorità ecclesiastica.
In effetti il tono usato da Innocenzo III nei decreti conciliari appare
simile a quello di un condottiero in una campagna bellica e ciò perchè
proprio in una situazione di guerra si considerava la Chiesa in quel
periodo, una guerra contro le forze diaboliche che si manifestavano in
forme diverse ma tutte ugualmente nefaste, gli eretici che infestavano
in abbondanza la Francia meridionale e che minacciavano di
estendersi in altre zone della cristianità, gli infedeli musulmani che
minacciavano i territori cristiani in Terra Santa e i poteri laici
irrispettosi della Chiesa e desiderosi di usurpare i suoi diritti e
proprietà.
Per vincere questa guerra il Papato mirava alla costruzione di un
organismo ecclesiastico solido tanto nella vocazione spirituale che nei
58
possedimenti temporali, capace di inquadrare le popolazioni urbane e
rurali in un tessuto di chiese capillare e privo di vuoti che con la sua
pervasività avrebbe favorito la conformazione della vita delle genti ad
un modello di cristianità considerato ortodosso.
Proprio a questo sono finalizzati molti decreti del suddetto concilio,
tra cui è particolarmente significativa la costituzione XXI dedicata alla
confessione, tramite la quale si cercava di collegare più strettamente i
fedeli al titolare della circoscrizione ecclesiastica di base in cui si
trovavano a vivere, imponendo l'obbligo della comunione e della
confessione almeno una volta l'anno, in occasione della Pasqua, presso
il sacerdote titolare di una chiesa con cura d'anime di un territorio
definito.
Quindi il concreto funzionamento dell'organismo ecclesiastico è
demandato alla sua articolazione cellulare, al dipanarsi di sedi grandi e
piccole sparse in tutta la cristianità, ciascuna con potenzialità
diversificate in ordine ai possedimenti, ai benefici e alla qualità e ai
carismi delle figure investite della dignità sacerdotale.
Ma come si vennero configurando in Italia le reti ecclesiastiche locali
durante il processo di riforma?
La novità più rilevante nell'assetto degli enti ecclesiastici locali tra XII
e XIII secolo si sostanziò nella proliferazione delle parrocchie urbane
e rurali, un accrescimento distinto nelle modalità da quello
frammentario e originato dall'iniziativa laica occorso durante i secoli
altomedioevali, il nuovo assetto, infatti, fu il risultato di aspri conflitti
e articolati compromessi con i poteri laici che videro la riconduzione
all'autorità vescovile di tutte quelle chiese di fondazione privata
diffuse nelle zone rurali; in tali zone fu decisiva l'azione plasmatrice
delle pievi, chiese battesimali soggette al controllo del vescovo, a cui
erano legate numerose cappelle di fondazione e proprietà privata,
queste chiese minori furono progressivamente dotate di una serie di
attribuzioni (cimitero, messa pubblica, decima) che le trasformò in
vere parrocchie con propri fedeli e un proprio territorio.96
Tuttavia, malgrado gli sforzi dei vescovi e la copiosa normativa
canonica, l'istituto parrocchiale non raggiunse mai una piena efficacia
nella cura d'anime nel corso del medioevo, troppo complesso risultava
l'ordinamento ecclesiastico, soggetto a continue interferenze tra le
diverse componenti soprattutto in ordine ai benefici connessi a
ciascuna chiesa, su tali beni e funzioni si accendevano conflitti e
controversie di ogni tipo tra clero secolare e regolare con l'aggiunta
del rovinoso problema dell'accumulo di benefici a favore di una sola
persona e a danno delle varie sedi interessate, tutto ciò si riverberava

96
C. VIOLANTE, Sistemi organizzativi della cura d'anime in Italia tra medioevo e rinascimento,
in Pievi e parrocchie in Italia nel basso medioevo (sec. XII-XV), Roma, 1984, pp. 3-41
59
negativamente sulla stuttura parrocchiale le cui chiese si ritrovavano
spesso prive di sacerdoti validi, acclimatati da una sufficiente
permanenza nel territorio assegnato, al contrario i parroci erano spesso
ignoranti e poco legati alla vocazione sacerdotale.
La debolezza organizzativa del clero parrocchiale la si riscontra anche
nell'ambito archivistico, difatti, per gran parte delle chiese
parrocchiali, non sono sopravvissuti complessi documentari prodotti o
conservati localmente prima del periodo compreso tra quattrocento e
cinquecento;97 solo nel periodo successivo al concilio di Trento, come
si vedrà, si sviluppò un'ordinata strutturazione delle parrocchie con la
conseguente formazione sistematica di archivi.
A salvare la delicata funzione della cura d'anime furono soprattutto
due ordini monastici di nuova fondazione, i Domenicani e i
Francescani, chiamati anche mendicanti per la loro abitudine di farsi
sovvenzionare da liberi contributi dei fedeli; questi monaci
possedevano una cultura e uno spirito devoto di una intensità non
conseguibili dal clero curato di quei tempi, il loro linguaggio, ricco e
immaginifico, faceva presa su ceti diversi creando un collante
ideologico che rappresentava la migliore arma contro le deviazioni
ereticali.
La caratteristica peculiare di questi nuovi ordini monastici era il loro
assetto fortemente gerarchizzato e autonomo dalla giurisdizione
secolare dei vescovi, autonomia garantita dal riferimento diretto
all'autorità papale che considerava i frati mendicanti strumenti
formidabili per la diffusione dell'ortodossia; la struttura istituzionale
interna dei due ordini si presentava di gran lunga più coesa rispetto ad
altri ordini monastici coevi, i singoli conventi e monasteri erano
raggruppati in vaste province (i Francescani avevano un ulteriore e più
serrato raggruppamento per custodie) subordinati all'autorità di
ministri generali e provinciali che riunivano i rispettivi capitoli
generali e provinciali con una regolarità molto maggiore di quanto
avveniva per gli altri capitoli monastici e i sinodi diocesani.
Sull'esempio dei mendicanti anche gli altri ordini monastici del ceppo
benedettino furono interessati da tentativi di ristrutturazione finalizzati
ad accrescere il grado di collegamento tra i singoli cenobi organizzati
in congregazioni, numerosi interventi di papi, vescovi ed abati erano
chiaramente volti a limitare i preoccupanti sintomi di decadimento
economico e morale di molti monasteri mediante il loro
inquadramento in organismi monastici fortemente interconnessi alla
rispettiva realtà territoriale e al più vasto e complesso ordinamento
ecclesiastico.

97
P. CAMMAROSANO, Italia medievale, op. cit., p. 226
60
Tra gli interventi più significativi si ricorderanno la costituzione XII
del quarto Concilio Lateranense che sancì l'obbligo di tenere
periodicamente i capitoli generali provinciali di monasteri e priorati
con l'assistenza dei Cistercensi, e la costituzione Benedictina del 1336
di papa Benedetto XII che ribadiva il canone sui capitoli generali
provinciali e definiva le dieci province entro cui si sarebbero
inquadrati i monasteri benedettini d'Italia.
Questi provvedimenti, però, non portarono ai risultati sperati data la
grande difficoltà di raccogliere in organismi unitari comunità
profondamente diverse quanto a origini, usi e osservanze;
ciònonostante anche i secoli tardi del medioevo videro lo sviluppo di
nuove fondazioni monastiche di varia fortuna, tra le più note si
citeranno quello dei Celestini che trasse la sua origine da Pietro da
Morrone, il futuro papa Celestino V, quello degli Olivetani sorto nel
trecento nei pressi di Siena per opera del beato Bernardo Tolomei e, di
grande importanza, la congregazione di Santa Giustina di Padova i cui
inizi risalgono ai primi del quattrocento e che si svilupperà inglobando
nella sua struttura fondazioni già esistenti all'interno o nei pressi di
numerose città italiane.98
Il nuovo assetto in congregazioni più o meno coese di molti monasteri
costituì una delle discontinuità più significative della fisionomia
documentaria monastica rispetto al periodo altomedioevale, come si
ricorderà, infatti, i complessi documentari della quasi totalità degli
enti ecclesiastici di quei secoli erano caratterizzati da una scarsissima
interconnessione con altre istituzioni ecclesiastiche , predominava una
"cellularità", soprattutto nel caso dei monasteri, in cui la
documentazione rispecchiava gli angusti limiti territoriali e
istituzionali tipici di quel periodo.
Dal duecento in poi la cellularità dei complessi archivistici lascia il
posto a una crescente interdipendenza tra serie documentarie prodotte
in sedi diverse del medesimo organismo o nella pluralità di istituzioni
afferenti al magmatico ordinamento ecclesiastico e anche negli uffici e
nelle cancellerie di comuni e principati laici; come casi esemplificativi
si può fare riferimento alle ampie serie di atti di ministri e capitoli,
prodotte durante le riunioni capitolari dei mendicanti e conservate in
ciascun convento, sovente in forma libraria; cospicua è la
documentazione di provenienza papale, di cui è possibile, a volte,
reperire il riferimento nei registri della cancelleria pontificia, e che
costituiva il nucleo documentario più prezioso per molti monasteri in
perenne lotta con le rispettive giurisdizioni vescovili per
l'affermazione delle loro prerogative; inoltre, in molti monasteri, si
possono invenire varie tipologie documentarie che fanno riferimento

98
G. PENCO, Il Monachesimo, Mondadori, 2000, pp. 217-231
61
ad istituzioni laiche, comunali e signorili, che intrattenevano a vario
titolo relazioni con l'ente religioso, è il caso di copie di statuti
comunali, contratti, disposizioni e lettere di principi ed altro ancora.
Tali interconnessioni documentarie rinviano a complesse reti
archivistiche la cui analisi e delineazione è uno dei compiti più ardui e
affascinanti che attende l'insieme degli studiosi presenti e futuri,
purtroppo le perdite e le dispersioni avvenute nel corso dei secoli a
causa di smembramenti, accorpamenti e soppressioni di enti monastici
non aiutano la ricerca, anche se il concentramento di molti archivi
monastici nei rispettivi Archivi di Stato competenti per territorio a
seguito delle varie soppressioni tra settecento e ottocento,
indubbiamente arreca non pochi benefici.
Le difficoltà maggiori, però, provengono da una scarsa tradizione di
studi specificamente dedicati all'analisi delle strutture archivistiche dei
monasteri e di altre istituzioni ecclesiastiche nei secoli tardi del
medioevo,99 tuttavia, dopo anni di ricerche intense sulla
documentazione più antica, negli ultimi tempi si è notato un
accendersi dell'interesse anche verso i secoli più recenti del medioevo
e dell'età moderna che lascia ben sperare per il futuro.
Il costituirsi di interconnessioni documentarie non è, però, l'unico
elemento di discontinuità tra la struttura archivistica dei monasteri
tardomedioevali e quella caratteristica dei secoli precedenti, è la stessa
conformazione tipologica dei documenti a mutare e ciò in linea con le
tendenze coeve riguardanti tutte le istituzioni laiche ed ecclesiastiche.
Così, al panorama documentario visto in precedenza, in cui
dominavano atti sciolti in pergamena riposti in casse e bauli, si
affiancarono in maniera crescente serie documentali in formato
fascicolare, a volte rilegati in volumi, a cominciare da quei cartulari di
cui si è già fatto menzione, ma che a partire dai secoli XII e XIII
diventano una presenza diffusa anche in Italia e ciò non desta
meraviglia se si pensa alle necessità dei monasteri di selezionare la
documentazione più valida allo scopo di proteggere i privilegi e le
prerogative acquisite nei secoli precedenti e rimesse in discussione dal
nuovo assetto istituzionale della Chiesa.
Ma la vera novità nella struttura tipologica dei documenti si
materializzò con la diffusione di forme di registrazione della
situazione patrimoniale degli enti monastici, si ricorderà che nei secoli
precedenti la gestione patrimoniale non lasciava tracce significative
nella memoria documentaria in quanto le operazioni gestionali erano
spesso lasciate alla consuetudine o scaturivano in scritture occasionali

99
A. BARTOLI LANGELI, N. D'ACUNTO, Gli archivi come fonti. Considerazioni sul metodo,
in La memoria dei chiostri. Atti delle prime Giornate di studi medievali,a cura di G. Andenna, R.
Salvarani, CESIMB, Brescia, 2002
62
di cui non era sentita la necessità della conservazione al pari dei
documenti che invece attestavano il legittimo diritto sui possedimenti.
In seguito, però, la nuova cultura mercantile, sviluppatasi
particolarmente in ambito urbano, trovò eco anche nelle istituzioni
ecclesiastiche preoccupate di gestire al meglio una ricchezza fondiaria
che, seppure incrinata nella sua predominanza dai nuovi patrimoni
monetari delle classi mercantili urbane, costituiva pur sempre una
fonte insostituibile di potere e prestigio per il clero; si diffusero così
anche nei monasteri e negli altri enti ecclesiali tutte quelle forme di
descrizione e rilevamento patrimoniale che in paritempo
caratterizzavano la vita economica dei ceti mercantili.
Queste nuove forme documentarie ebbero la massima espansione
tipologica a partire dal trecento e si suddivisero in tipologie descrittive
della struttura patrimoniale dell'ente, documenti di tipo catastale
variamente denominati (catastici, catapani, cabrei) in cui erano
schematicamente elencati i beni fondiari posseduti, i redditi e i censi a
questi collegati, diritti di natura signorile e altro ancora; a queste
tipologie si aggiunsero registrazioni del reddito conseguito dall'ente
come i libri reddituum e i libri censuum che potevano assumere una
forma periodica, eseguita a scadenze prefissate e una tantum oppure
una forma aperta in cui erano registrati giorno per giorno i movimenti
effettivi di entrate e uscite, ciò condusse alla redazione di appositi libri
generali di introitus ed exitus e ai relativi libri di debitori e creditori.
La struttura documentaria degli enti monastici mutò quindi
radicalmente nei suoi assetti interni ed esterni rispetto al periodo
altomedioevale, ad una selezione di singoli atti sciolti in pergamena si
venne sostituendo un più ricco complesso documentario che
presentava forme più diversificate, in fascicoli e volumi, tra cui
ricchissima è la componente finalizzata alla gestione patrimoniale, le
serie conservate, inoltre, erano fortemente interconnesse con strutture
istituzionali e documentarie laiche ed ecclesiastiche.
Rimane all'oscuro, però, un punto assai rilevante nella determinazione
dell'organizzazione archivistica monastica nel periodo
tardomedioevale, vale a dire l'esistenza o meno di un sistema
amministrativo o di una cancelleria abilitata alla produzione dei
documenti; purtroppo una tale analisi allo stato attuale delle
conoscenze specifiche sulla struttura archivistica di ogni singolo
complesso monastico nel periodo in questione è prematura e
rischierebbe conclusioni fuorvianti, per il momento si può citare solo
il caso famoso di Montecassino il cui ponderoso archivio poteva
giovarsi fin dal secolo XIII di un'organizzazione cancelleresca in cui
operava un protonotario addetto alla registrazione e conservazione dei
63
documenti e affiancato da un collegio di notai nominato direttamente
dall'abate.100
Questo problema esiste anche per altre istituzioni importanti
dell'assetto ecclesiastico tardomedioevale come i collegi capitolari e le
strutture diocesane, anch'esse soggette ad una carenza di studi
specificamente orientati all'analisi dell'organizzazione archivistica,
tuttavia, riguardo agli archivi diocesani, una recente ricerca che
focalizza l'attenzione sulla produzione documentaria della curia
diocesana di Siena tra XIV e XVI secolo, fornisce elementi di assoluto
rilievo per la comprensione dell'evoluzione organizzativa degli archivi
diocesani tra tardo medioevo ed età moderna.101
In effetti un punto essenziale da comprendere è che malgrado le
mutazioni tipologiche e di interrelazione di cui si è discusso al
riguardo della documentazione monastica, ma che sono valide anche
per quella di altri enti ecclesiastici, la struttura di base degli archivi
ecclesiastici locali rimase per tutto l'alto medioevo e buona parte del
tardo medioevo quella tipica dell'archivio thesaurus, vale a dire un
archivio formato in larga misura da una selezione di materiale
prodotto da altri enti o produttori autonomi dall'istituzione originatrice
dell'archivio, è la struttura archivistica che il grande archivista tedesco
Brenneke denomina "archivio di ricezione" e che si caratterizza per il
suo carattere di armamentario giuridico finalizzato a difendere la
legittimità dei privilegi e possessi delle singole chiese, il "tesoro"
appunto.
Si è già visto che l'archivio pontificio già nell'alto medioevo si
distingue dagli archivi di ricezione delle chiese particolari essendo
formato in gran parte da materiale destinato alla spedizione, i registri
di lettere e bolle papali che erano prodotti da uffici appositi,
diversificatisi ulteriormente nel corso del tardo medioevo.
Proprio l'esistenza di uffici atti a tradurre le attività normative ed
amministrative in corrispondenti serie documentarie è all'origine della
differenza tra archivio thesaurus di ricezione e archivio di spedizione
che sarà tipico delle istituzioni moderne nella più consapevole
struttura di archivio di sedimentazione ossia di un complesso
archivistico formato dalla naturale sedimentazione dei documenti
originati e ricevuti nel corso delle varie attività dell'ente.
Lo studio summenzionato aiuta a comprendere i meccanismi che
portarono alla formazione di una burocrazia diocesana e alla
correlativa necessità di disporre di un archivio completo che

100
M. DELL'OMO, Documentazione tardomedievale a Montecassino: aspetti della produzione,
conservazione e tipologia delle fonti, in Libro, scrittura, documento, op. cit., pp. 307-340
101
G. CHIRONI, La mitra e il calamo. Il sistema documentario della Chiesa senese in età
pretridentina (secoli XIV-XVI), Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, 2005
64
corrispondesse dal punto di vista documentario alla cospicua mole di
attività che la medesima burocrazia si trovava a trattare.
Il processo evolutivo della curia vescovile nel corso del duecento è
strettamente connesso all'attribuzione al vescovo di competenze
giurisdizionali prima svolte collettivamente dal corpo ecclesiale della
cattedrale, o da particolari figure, come l'arcidiacono102, e dal già
menzionato sviluppo di un diritto canonico abbastanza articolato e
complesso da richiedere, nella sua concreta applicazione, l'intervento
di personale competente.
Il personaggio principale della curia vescovile è il vicario generale103 a
cui sono delegate funzioni inquadrabili nell'ambito della potestas
iudiciaria, soggette a variazioni nel corso del tempo e dipendenti dalle
condizioni specifiche di ciascuna diocesi; inoltre, in alcune diocesi,
comparvero, tra XIV e XV secolo , alcune figure responsabili di
settori precedentemente compresi nella sfera operativa del vicario
generale quali l'amministrazione dei beni della mensa vescovile
(procurator, camerarius) e l'amministrazione dei legati pii connessi
alla rappresentazione in giudizio della pars pauperum in cui un
apposito delegato (procurator pauperum) era tenuto a comparire
davanti al vicario per chiedere l'esecuzione dei testamenti ad pias
causas, in caso di inadempienza da parte degli esecutori naturali, e a
gestirne i beni fino all'estinzione.
Questa embrionale struttura burocratica diocesana necessitava però di
personale competente nella scrittura della documentazione prodotta
nel corso delle varie attività normative, giudiziarie e amministrative.
La costituzione XXXVIII del IV concilio Lateranense riguardante la
registrazione scritta degli atti prodotti in giudizio al fine di prova,
disponeva di servirsi per tale compito di personam publicam, vale a
dire di notai.
Il notaio, lo si ricorderà, era già previsto nella legislazione carolingia e
imperiale quale referente centrale per le istituzioni ecclesiastiche nella
produzione dei documenti, la figura notarile104, però, era molto
cambiata nel corso dei secoli e nel duecento la sua funzione era quella
di un pubblico ufficiale con facoltà di dare autenticità erga omnes ad
ogni documento rogato, conseguentemente moltissime istituzioni

102
Dal V secolo in avanti l'arcidiacono accrebbe il suo peso di primo ministro e di vicario del
vescovo nelle funzioni liturgiche e amministrative della diocesi, in seguito i frequenti conflitti col
vescovo indussero i papi Alessandro III, Innocenzo III e Onorio III ad emanare misure tendenti a
ridurne i poteri.
103
Tra le funzioni caratteristiche dei vicari generali figurano la sostituzione del vescovo assente, la
funzione di giudice del tribunale ecclesiastico, la conduzione della visita pastorale e il controllo
della gestione economica degli enti ecclesiastici della diocesi.
104
Sulla figura del notaio in epoca medioevale con riferimenti alla sua produzione documentaria si
vedano: P. CAMMAROSANO, Italia medievale, op. cit., pp. 267-276; A. BARTOLI
LANGELI, Notai. Scrivere documenti nell'Italia medievale, Viella, 2006.
65
laiche ed ecclesiastiche ricorrevano ai suoi servigi e alla sua capacità
di produrre documenti validi, dotati di publica fides e quindi
utilizzabili come prova in sede processuale.
I notai, quindi, erano liberi professionisti che prestavano la loro opera
a singoli privati come ad enti laici (comuni, corporazioni) o
ecclesiastici (monasteri, diocesi, capitoli) mediante la redazione di
singoli documenti detti instrumenta che erano conservati a cura del
destinatario, o, più spesso, mediante la registrazione degli atti in forma
sintetica in un apposito registro (imbreviatura) conservato dai notai
stessi e dai suoi eredi o dal collegio di appartenenza; le imbreviature,
infatti, contenevano una molteplicità di atti diversi rogati per le più
varie persone e istituzioni ed era interesse della collettività che fossero
sempre reperibili nell'ufficio o nel collegio notarile da cui
provenivano.
Ciò ha per conseguenza che la documentazione prodotta dai notai nel
corso di funzioni legate all'amministrazione diocesana era in massima
parte conservata nelle imbreviature notarili non disponibili alla curia
vescovile in quanto, come si è detto, proprietà dei notai medesimi.
L'archivio diocesano, dunque, conservava solo quei documenti in
forma di instrumentum che aveva ricevuto dai notai come loro cliente
e ciò perpetuava quella struttura caratteristica di archivio thesaurus di
cui si è detto in precedenza, tale struttura non mutava anche
considerando eventuali commissioni ai notai di volumi contenenti
materiale documentario organizzato in maniera più specifica e
razionale, secondo ripartizioni materiali corrispondenti ad alcune delle
attività principali dell'amministrazione diocesana, sono esempi
indicativi i volumi contenenti materiale documentario di ambito
beneficiale, i libri di costituzioni sinodali, oppure le redazioni delle
visite pastorali o persino imbreviature specificamente dedicate a
materiale di ambito diocesano e acquistate successivamente; si trattava
in ogni caso di documentazione prodotta da figure esterne
all'amministrazione diocesana e acquisita in maniera selettiva ed
occasionale, non esisteva ancora una produzione documentaria interna
alla curia, che fosse il sedimento organico del dipanarsi delle sue
attività.
La sedimentazione, invece, si manifestava esclusivamente nelle
imbreviature notarili che non essendo proprietà della curia diocesana
estrinsecavano la grave debolezza amministrativa della stessa,105 i
vescovi e i vicari, infatti, per poter effettuare un qualsivoglia controllo
su determinati aspetti della loro amministrazione che avessero avuto
una ricaduta documentaria, erano costretti a consultare i registri di
imbreviature conservati dai notai che avevano svolto incarichi per la

105
G. CHIRONI, La mitra e il calamo, op. cit., pp. 55-56
66
curia, ma ciò significava ricordare i nomi di ciascun notaio interessato
e anche la data che riferiva agli atti oggetto di interesse, se poi si tiene
presente che ogni procedura poteva suddividersi in una pluralità di atti
documentati da notai diversi in periodi diversi allora ci si rende conto
delle enormi difficoltà delle curie diocesane tardomedioevali nella
gestione delle loro attività e del grave problema che poneva la
mancanza di un archivio strettamente connesso all'amministrazione
interna, unico strumento in grado di garantire un sufficiente controllo
a procedure ed attività ormai sempre più ramificate e complesse.
Il problema nasceva dalla presenza di una cultura notarile diffusa che
estendeva a tutti gli ambiti giurisdizionali, laici o ecclesiastici, la
pervasiva gestione monopolistica della produzione documentaria da
parte dei notai, per tutti il riferimento centrale, sia nel momento
produttivo che in quello conservativo dei documenti, era rappresentato
dall'ufficio notarile, ma ciò, d'altra parte, ebbe un effetto dissuasivo
nell'elaborazione di strutture burocratiche interne e di regole di
emissione documentaria che conduceva a difficoltà crescenti nella
gestione amministrativa.106
Nel tentativo di superare tale impasse le curie diocesane svilupparono
un processo di fidelizzazione di un numero più limitato di notai che
era, del resto, già in atto nelle istituzioni laiche coeve come le
amministrazioni comunali e signorili; nel caso delle diocesi questo
processo assimilativo, teso alla trasformazione di alcuni notai da
professionisti autonomi a funzionari interni permanenti, si focalizzò
soprattutto a partire dal XIV secolo per arrivare in alcuni casi, tra XV
e XVI secolo, alla formazione di stabili strutture burocratiche; è
importante, però, tenere presente che tale processo fu discordante e
diversificato negli esiti in ciò dipendendo dalle condizioni specifiche
di ciascuna diocesi, inoltre va ricordato che l'adeguamento delle
tecniche di produzione e conservazione documentaria alle
trasformazioni in atto in ambito amministrativo fu, in gran parte,
risultato di autonomi adattamenti empirici da parte del personale non
essendoci ancora una consapevolezza archivistica che sfociasse in una
specifica normativa sia a livello generale che locale.
Lo studio sopramenzionato a cui si è fatto largo riferimento
nell'illustrare le problematiche organizzative degli archivi diocesani
nel tardo medioevo, incentra l'analisi sull'esempio concreto della
diocesi di Siena, facendo emergere chiaramente la connessione tra il
processo di assimilazione dei notai nell'amministrazione interna
tramite la nomina vicariale di notai curiali e la produzione di

106
G.G. FISSORE, I documenti cancellereschi degli episcopati subalpini: un'area di autonomia
culturale fra la tradizione delle grandi cancellerie e la prassi notarile, in COMMISSION
INTERNATIONALE DE DIPLOMATIQUE, Die Diplomatik der Bishofsurkunde, pp. 281-304.
67
particolari tipologie documentarie di proprietà della curia che
sostituiscono i protocolli notarili in cui erano precedentemente
formalizzate tutte le pratiche svolte in presenza del vicario; esempi
indicativi sono rappresentati dai libri litterarum, registri contenenti
atti dispositivi dei vescovi quali editti, precetti, decreti e licenze varie,
sia in forma estesa che sintetica.
Questi registri costituiscono una tappa fondamentale nel passaggio
dall'archivio-thesaurus all'archivio-sedimento in quanto sono il
prodotto di un'attività collettiva di registrazione sistematica di atti,
nella loro intestazione è presente, in genere, l'elenco dei notai curiali
abilitati alla redazione e ciascun atto registratovi non ha alcuna forma
di validazione dal momento che la validità è garantita dalla semplice
collocazione nel registro, si va perdendo, dunque, quel carattere di
dipendenza di ciascun prodotto documentario dalla figura personale
del notaio, così come l'occasionalità lascia il campo a una maggiore
sistematicità.
Un'altro elemento significativo per l'evoluzione di un'organizzazione
archivistica "moderna" è esemplificato a Siena dai cosiddetti
"processetti", documenti di derivazione giudiziaria la cui importanza è
data dalla innovativa forma a fascicoli di atti, ciascun fascicolo, cioè,
comprendeva tutti gli atti legati alla pratica processuale a cui
inerivano, indipendentemente dalla loro provenienza e senza che
venisse meno la loro autenticità, garantita dall'inserimento nel
fascicolo; gli atti prodotti e utilizzati nel corso di un processo che in
precedenza erano conservati nelle sedi più disparate trovavano, quindi,
unità conservativa all'interno di fascicoli di atti che caratterizzarono
anche altri archivi diocesani per tutta l'epoca di antico regime.107
L'archivio diocesano di Siena, dunque, compì il processo di
trasformazione in archivio di sedimentazione nell'ultima parte del
medioevo tra fine XIV e inizio XVI secolo, questa evoluzione, come
già si è detto, fu comunque diversificata nelle varie sedi diocesane,
alcune pur importanti come Milano108, arrivarono ad uno sviluppo
moderno della curia e dell'archivio solo dopo il Concilio di Trento;
naturalmente per una conoscenza più approfondita ed esauriente della
struttura organizzativa degli archivi diocesani ed ecclesiastici nel tardo
medioevo sono assolutamente necessari ulteriori studi più
specificamente orientati alle strutture archivistiche che alle varie
tipologie documentarie, ma in base alle conoscenze oggi acquisite si
può individuare negli ultimi due secoli del medioevo un momento
fondamentale di trasformazione delle amministrazioni diocesane e di

107
G. CHIRONI, La mitra e il calamo, op. cit., pp. 239-244.
108
I notai della curia arcivescovile di Milano (secoli XIV-XV), repertorio a cura di C. BELLONI e
M. LUNARI, Roma, 2004 (Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Strumenti CLXV).
68
passaggio a forme di produzione e conservazione documentaria più
avanzate che avranno una definitiva sanzione grazie alla successiva
azione riformatrice originata dal Concilio di Trento.

6) Le disposizioni normative riguardanti gli archivi


ecclesiastici nel tardo medioevo

"Comunque sia, tutti quei provvedimenti e le osservazioni, che


suscitano, sono indizio del progresso veramente notevole fatto già
dall'archivistica entro il secolo XIII. Contrariamente all'opinione, che
qualcuno potrebbe formarsene, essa ci appare, allora, così sviluppata
da farci ritrovare molti dei principii, che vigono ancora ai giorni
nostri. E, pertanto, non possiamo accettare la supposizione di coloro,
i quali inclinano a rappresentarci quell'età come perfettamente
barbara in materia d'archivio...109

Così si esprimeva quasi un secolo addietro il maestro dell'archivistica


italiana, Eugenio Casanova, riguardo alla cultura e alle competenze in
materia di archivi sviluppate durante il basso medioevo.
Tanta perentorietà derivava, probabilmente, oltre che dall'esame
diretto della produzione documentaria originale di quei secoli anche
dallo studio del copioso materiale normativo che in quel periodo ogni
istituzione produceva e in cui erano spesso trattati argomenti
direttamente o indirettamente inerenti all'archivistica.
E' bene chiarire che di una disciplina archivistica pienamente
consapevole e autonoma sia nei suoi aspetti tecnici che teorici non vi è
certamente traccia nel medioevo, tuttavia, soprattutto a partire dal
duecento, si cominciò a diffondere la consapevolezza di una profonda
interconnessione tra l'ambito giuridico-amministrativo e le tecniche di
produzione e gestione documentaria.
L'archivistica medioevale, dunque, si sostanziò in specifiche
competenze tecnico-giuridiche appannaggio monopolistico dei notai
che già disponevano della cultura di base nell'ambito della produzione
dei documenti110; tali competenze specifiche non lasciarono tracce
unicamente in prodotti documentari e di gestione degli stessi, ma
anche in tutta una serie di norme da cui è possibile evincere la
109
E. CASANOVA, Archivistica, op. cit., p. 333
110
Per un'analisi sulla cultura tecnico-archivistica e sui relativi prodotti nel corso del duecento si
consiglia: A. ROMITI, l'Armarium comunis della camara actorum di Bologna. L'inventariazione
archivistica nel XIII secolo, Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Roma, 1994.
69
crescente attenzione delle istituzioni laiche ed ecclesiastiche per una
efficace gestione del materiale documentario.
Lo stesso termine di "archivum" venne teoricamente ricondotto ad una
valenza squisitamente giuridico-documentaria attraverso i vari
commenti di cui fu oggetto il noto passo Giustinianeo in cui l'archivio
viene definito come: "locus publicus in quo instrumenta
deponuntur".111 Tale definizione sarà il fulcro della concezione teorica
dell'archivio per tutta l'età tardomedioevale e anche oltre.
Una concezione teorica che, scaturita dal cospicuo lavoro di
elaborazione del diritto romano da parte dei glossatori e commentatori
medioevali, si concentrò sulla capacità autenticatoria dello spazio
destinato ad archivio; l'archivio, cioè, era giuridicamente rilevante in
quanto garantiva la pubblica fede della documentazione da esso
estratta, ma solo come archivio pubblico, vale a dire un luogo
deputato alla conservazione di materiale documentario appartenente
ad una istituzione che godesse di pubblica autorità.
Per meglio intendere la valenza giuridica dell'archivio così come
concepita dai giuristi medievali credo sia utile riportare un esempio tra
i vari commenti alla definizione Giustinianea di archivio contenuti
nella preziosa storia dell'archivistica italiana di Elio Lodolini.
Tancredi da Bologna, vissuto nella prima metà del duecento, al
riguardo della natura pubblica o privata dei documenti riteneva che:

"instrumentorum duae sunt species: aliud est publicum, aliud est


privatum. Publicum est, quod publicam habet auctoritatem. Et species
eius sunt plures...; sexto loco dicitur publicum quod de archivo seu
armario publico producitur, liber scilicet rationum; et ei creditur, si
habet publicum testimonium, scilicet quod iudex confiteatur illum de
archivo publico esse productum..."112.

E' evidente, da tale commento così come da altri, la focalizzazione dei


giuristi medievali sul problema della pubblica fede dei documenti e
sui mezzi atti a dimostrarla, conseguentemente la definizione di
archivio tratta dalla tradizione giuridica romana pervenuta nel Corpus
Giustinianeo venne assunta come un elemento discriminante al fine di
determinare la natura della documentazione prodotta in giudizio.
Questa elaborazione giuridico-teorica sull'archivio non rimase
circoscritta all'ambito civile, ma fu pienamente sviluppata anche nel
coevo ordinamento canonico, in ciò seguendo quell'attenzione al

111
La definizione, attribuita al giurista romano Ulpiano Domizio (203-228 d.c.), è estratta dal
Digesto, 48. 19. 9.6: "Solet et sic, ne eo loci sedeant, quo in publico instrumenta deponuntur,
archio forte vel grammatophylacio".
112
E. LODOLINI, Storia dell'archivistica italiana. Dal mondo antico alla metà del secolo XX,
Franco Angeli, 2006, p. 53
70
fenomeno giuridico e in specie documentario di cui la Chiesa si
serviva per consolidare la sua complessa struttura.
Profondamente immerso nel tessuto giuridico tardomedioevale,
l'apparato ecclesiastico, con la sua vasta produzione documentale e
l'altrettanto vasta conflittualità giudiziale ad ogni livello, sviluppò
un'acuta sensibilità verso le problematiche dell'affidabilità dei
documenti in sede processuale; quest'interesse trovò concreta
materializzazione in una sede importante, quel Liber Extra di cui si è
già menzionata la funzione di assoluto riferimento nell'ambito
canonistico anche oltre il periodo qui considerato.
Nel secondo libro della suddetta opera vi è una sezione intitolata De
Fide Instrumentorum in cui si ordinarono tutti i provvedimenti papali
e conciliari relativi al problema della credibilità dei documenti.
Anche tale ambito divenne sede dell'esercizio elaborativo dei giuristi e
commentatori medioevali che non si limitarono ad applicare alla
materia in esame l'acquisizione concettuale dell'elemento archivistico
così come desunto dalla disciplina civile di diritto romano, ma ne
approfondirono l'aspetto giuridicamente qualificante, cioè la capacità
di attribuire pubblica fede a qualsivoglia documento conservato in un
archivio definibile come pubblico.
E' utile, anche in questo caso, presentare direttamente l'opinione di
alcuni commentatori al fine di estrinsecare l'elemento più caratteristico
del valore giuridico dell'archivio pubblico.

Baldo degli Ubaldi (1327-1400) nel suo commento al Liber Extra


afferma che: "Item si sumptum est ex archivo publico ex auctoritate
officialium...facit fidem contra omnes propter auctoritaem archivi".

Niccolò Tedeschi (1386-1445) commentando la sezione "De fide


instrumentorum" del Liber Extra, scrive: " Potes addere quintum
casum, quando scriptura privata reperitur solemniter recondita in
archivo publico, in loco ubi ponuntur scripturae a communi deputato.
Talis enim scriptura sine alia comparatione et approbatione fidem
ratione loci facit"113.

L'archivio pubblico, dunque, può estendere la capacità di fare fidem a


qualunque documento, anche privato, sia contenuto in esso in virtù
dell'autorità a questi attribuita dall'istituzione pubblica che ne ha
stabilito l'esistenza; la ratione loci e l'auctoritatem archivi, infatti,
altro non sono che aspetti specifici di un'autorità conferita dal potere
pubblico così come la capacità autenticatoria di un notaio scaturisce

113
E. LODOLINI, Storia dell'archivistica italiana, op. cit., p. 55
71
dalla sua nomina da parte di un potere riconosciuto quale l'Imperatore
o il Papa e, in seguito, i comuni.
Naturalmente, però, essendo tale autorità esclusiva dell'archivio
pubblico si pone il problema di definire quale archivio sia pubblico, o
meglio, quale autorità abbia il diritto di costituirne uno; si tratta della
questione dello ius archivi strettamente connesso al problema della
sovranità pubblica e più ampiamente trattato in epoca moderna in
relazione all'interesse diffuso per una migliore e più chiara definizione
della sovranità. Se in ambito laico la dottrina tedesca114 attribuisce la
titolarità dello ius archivi all'Imperatore ed alle autorità da esso
direttamente derivate (elettori del Sacro Romano Impero, duchi, conti
e baroni dipendenti direttamente dall'imperatore), in Italia tale diritto
spetta anche ai comuni liberi in virtù del famoso principio duecentesco
" rex superiorem non recognoscens in regno suo est imperator" esteso
da Bartolo da Sassoferrato alle "civitates sibi principes"115; mentre nel
diritto canonico, secondo il canonista bavarese Franz Schmalzgrüber,
lo ius archivi è legittimo solo per i "praelatis ecclesiasticis maioribus,
videlicet episcopis et horum superioribus"116.
La dottrina canonistica riguardante il valore giuridico dei documenti
non si fondava, comunque, esclusivamente sulla tradizione
romanistica, ma conservava interessanti elementi caratteristici della
più antica tradizione cristiana; infatti, il criterio della pubblicità dei
documenti, siano essi prodotto di un'autorità pubblica o conservati in
un pubblico archivio, non era l'unico considerato valido, era
importante anche la loro antichità.
Si ricorderà, laddove si è trattato il periodo più antico della Chiesa,
che uno dei fondamenti culturali più legati alla mentalità ecclesiastica
è il fortissimo senso della tradizione, la coscienza di appartenere ad un
flusso storico continuo e coerente che da Cristo si dispiega attraverso i
suoi apostoli e da questi ai successivi ministri e fedeli delle comunità
ecclesiali fino alla trasformazione ed alla salvezza del mondo.
E' a questa coscienza storica che Tertulliano fa appello quando
polemizza con gli appartenenti a deviazioni eterodosse, accusati di
interpretazioni arbitrarie dei sacri testi in quanto non inseriti (gli
eretici) in una linea di trasmissione dottrinale certa e comprovabile; è
lo stesso Tertulliano che nella sua opera più nota, l'Apologeticum,
difende la credibilità delle scritture bibliche rivendicando la loro
summa antiquitas, più antecedente di qualunque opera scritta dalle
genti pagane che pure riconoscono come sacre alla loro religione le

114
A. FRITSCH, De Jure Archivi et Cancellariae, Jenae, 1664.
115
E. LODOLINI, Storia dell'archivistica italiana, op. cit., p. 58
116
F. SCHMALZGRÜBER, Jus ecclesiasticum universum, brevi methodo ad discentium
utilitatem explicatum, seu lucubrationes canonicae in quinque libros Decretalium Gregorii IX
Pontificis Maximi..., Neapoli, 1738.
72
opere assai risalenti nel tempo come i poemi Omerici117; l'antichità,
dunque, è strettamente correlata alla sacralità, più remota è l'origine di
una scrittura più la sua autorità sacrale viene sentita come vincolante.
Questa sensibilità si conserva anche in età tardomedioevale fino ad
informare di sè lo stesso ambito giuridico come si rileva da un
documento del pontefice Onorio III (1216-1227) inserito nel Liber
Extra in cui si citano tra le possibili prove sulla verifica dei confini
diocesani i libros antiquos118 ; il criterio verrà confermato anche dalla
dottrina canonistica di cui è esempio notissimo la Summa Aurea di
Enrico da Susa, il cardinale Ostiense, al cui interno, nel commento al
testo summenzionato, si afferma che: "scriptura antiquorum librorum
facit fidem"119.
Sicuramente il criterio dell'antichità come elemento discriminante
della fede da attribuire ai documenti appare alla nostra percezione
moderna alquanto bizzarro, ma non lo era affatto nel medioevo, un
periodo in cui la sensibilità giuridica dominante era profondamente
permeata dalla consuetudine, più un diritto nasceva da comportamenti
attestati da tempi immemorabili, più la sua legittimità era considerata
inattaccabile per la mentalità medioevale; inoltre, in ambito ecclesiale,
al senso consuetudinario si aggiungeva l'aspetto sacrale che l'antichità
recava con sè, eccellente esempio di ciò fu la donazione di Costantino,
un falso famoso quanto improbabile per gli stessi giuristi del tempo,
ma, ciononostante, utilizzato sovente dall'autorità pontificia per
accrescere il suo carisma temporale nei confronti di altri poteri che si
ponevano in conflitto con la Chiesa.
Questo senso sacrale della storia, seppure temperato dall'azione
razionalizzatrice del diritto romano, si conserverà sempre nella cultura
ecclesiastica ed è un elemento importante da tenere presente nella
gestione degli archivi ecclesiastici anche in età contemporanea.
Sin qui si è analizzato il concorso della tradizione giuridica romana e
della cultura ecclesiastica nella concezione dell'archivio così come
formalizzatasi nel diritto e nella dottrina canonistica, ma qual'era la
rilevanza data agli archivi e ai processi di produzione e gestione
documentaria ravvisabile nella normativa prodotta in ambito
ecclesiastico locale?
L'insieme delle normative conciliari e sinodali raramente cita in
maniera esplicita l'ambito archivistico, in massima parte vi sono
richiami, di secolare tradizione, alla redazione di inventari concernenti
il complesso dei beni appartenenti a ciascuna chiesa, come, ad

117
TERTULLIANO, Apologeticum, XIX, "Primam instrumentis istis auctoritatem summa
antiquitas vindicat; apud vos quoque religionis est instar fidem de temporibus adserere".
118
Liber Extra, lib. II, tit. XIX "De probationibus", cap. XIII: "...quae per libros antiquos vel alio
modo melius probabuntur".
119
E. LODOLINI, Storia dell'archivistica italiana, op. cit., p. 53
73
esempio, nei capitoli del concilio provinciale di Padova del 1350,
"Quod de bonis monasteriorum et ecclesiarum parochialium
inventaria fiant"120, e del concilio di Firenze del 1517, "Ut fiant
inventaria de omnibus bonis ecclesiasticis"121.
In queste disposizioni l'obiettivo principale era la salvaguardia dei
beni e dei diritti propri di ciascuna chiesa inserita nell'ambito
diocesano mediante la redazione di un documento ufficiale da parte
dei vari prelati che prendevano possesso del loro ufficio e la consegna
di una copia al vescovo; si cercava in questo modo di impedire o,
almeno, di limitare le dispersioni e anche i veri e propri furti che
spesso riguardavano proprio la documentazione archivistica come si
evince da una serie di norme statuite durante i concili provinciali di
Benevento dal 1331 al 1545 di cui si citano qui due esempi:

Concilio provinciale di Benevento del 1331, capitolo XXVII.

Acta ad episcopales curias pertinentia, ne subtrahantur.

"Item statuimus et praesenti constitutione sancimus, quod si quis ausu


sacrilego, praesumpserit aliqua instrumenta vel scripturas, et
specialiter de actis, quae in nostra curia ac suffraganeorum
nostrorum et aliorum ordinariorum provinciae Beneventanae
ventilantur, furtive vel malitiose subtraxerit, vel doloso modo rapuerit,
tamquam sacrilegus ecclesiae rerum subtractor eo ipso sit
excommunicationis vinculo innodatus"122.

Concilio provinciale di Benevento del 1545, capitolo XXVI.

Scripturae metropolitanae aut provincialium curiarum ne


subducantur, anathemate cavetur.

"Sonno ipso facto excomunicati tucte quelle persuni de zoche gradu et


dignità se siano, che furassero o vero permettessero furare acti,
scripture, o vero instrumenti de la corte archiepiscopale, et de li
ordinarii in diocesi et provintia dolosamente e fraudolosamente"123.

120
V. MONACHINO, Introduzione alla Guida degli Archivi Diocesani d'Italia, in Archivistica
ecclesiastica: problemi, strumenti, legislazione, a cura di A.G. GHEZZI, I.S.U., 2001, pp. 15-40
121
E. LOEVINSON, La costituzione di papa Benedetto XIII sugli archivi ecclesiastici: un papa
archivista. Contributo all'archivistica dei secoli 16°-18°, in "Gli Archivi Italiani", anno III, fasc. 3,
1916, pp. 159-206
122
E. LOEVINSON, La costituzione di papa Benedetto XIII..., op. cit., p.160.
123
E. LOEVINSON, La costituzione di papa Benedetto XIII..., op. cit., p.161
74
Per quanto uno spoglio sistematico del materiale normativo delle
chiese locali concentrato sul tema degli archivi sia ancora da fare su
scala globale, le informazioni ricavate da singoli studi su chiese
particolari e sui loro archivi sono piuttosto esplicite circa la netta
prevalenza del momento conservativo rispetto a quello gestionale
nelle disposizioni conciliari.
Come si è già analizzato in precedenza l'archivio delle strutture
ecclesiastiche locali si sostanziava, nella maggior parte dei casi, in una
selezione di materiale documentario considerato di particolare
rilevanza giuridica ed economica ai fini dell'accertamento di
specifiche garanzie e privilegi propri di ciascuna chiesa, un archivio
"thesaurus" da custodire gelosamente anche attraverso l'impiego
ossessivo di norme ad hoc punteggiate di minacce di scomunica,
anatemi e maledizioni; in tale quadro l'aspetto gestionale degli archivi
finiva per avere un ruolo secondario, soprattutto se si considera
l'assenza in molte chiese locali di strutture burocratiche ed uffici
deputati alla produzione e gestione documentaria, si è già visto, infatti,
che gli enti ecclesiastici italiani tendevano ad affidarsi ai notai per
tutte le questioni documentarie e solo in epoca più tarda e assai
gradualmente si innescò, in alcuni di essi, un processo di
assimilazione dei notai in funzionari stabili dell'amministrazione
ecclesiastica.
L'eventuale presenza, quindi, di norme concernenti anche gli aspetti
tecnici e gestionali dell'ambito archivistico, dovrebbe essere più
probabile nelle disposizioni prodotte a partire dell'ultimo periodo del
medioevo, gli anni compresi tra la seconda metà del XIV secolo e la
fine del XV, epoca in cui soprattutto le strutture diocesane e capitolari
si diedero amministrazioni più complesse e norme più
particolareggiate ai fini di una migliore razionalizzazione delle
attività.
Un esempio indicativo, tratto dallo studio di Luciano Osbat
sull'archivio diocesano di Viterbo124, è offerto dalle constitutiones date
da Bartolomeo Vitelleschi, vescovo di Corneto, al capitolo della sua
chiesa cattedrale nell'anno 1463, dopo avervi compiuto la visita
pastorale; scorrendo i suoi 73 capitoli si percepisce chiaramente la
risoluta volontà di regolazione dettagliata di ogni aspetto della vita del
capitolo, con un'attenzione particolare agli ambiti liturgici e
amministrativi e con interessanti riferimenti ad aspetti archivistici e
documentari.
Vengono specificati alcuni compiti di registrazione documentaria
assegnati a determinati chierici: il puntatore deve registrare in un libro

124
L. OSBAT, Il Centro diocesano di documentazione per la storia e la cultura religiosa a
Viterbo, Cooperativa Fani Servizi, Viterbo, 2006. Disponile sul sito www.archiviestoria.it
75
le assenze dei canonici dai loro doveri per riferirne alla fine di ogni
mese ai procuratori e al camerlengo; il sacrista deve redarre un
inventario di tutti gli arredi, i paramenti, i calici, i libri e le reliquie
della chiesa; il camerlengo deve redarre un inventario di tutti i beni
mobili ed immobili della chiesa, un libro con le recognitiones dei beni
e delle proprietà, un libro con l'annotazione dei redditi e delle spese, i
libri dei creditori e dei debitori e un libro con le locazioni di case e
proprietà; i canonici devono tenere un libro per registrare i lasciti e gli
obblighi delle messe.
Al capitolo generale, da tenersi una volta l'anno, viene affidato il
compito di controllare l'inventario dei privilegi e delle scritture,
l'inventario delle proprietà, i conti del procuratore della fabbrica della
chiesa, l'inventario del sacrista e di scegliere il notaio a cui affidare la
redazione degli atti.
Infine il capitolo LIIII De custodia scripturarum et sigilli prescrive le
modalità di conservazione dell'archivio capitolare, le scritture devono
essere riposte in una grande cassa di solido noce con tre diversi vani e
chiavi da conservarsi in un locale idoneo della cattedrale.
Desiderio di razionalizzazione, quindi, che si traduce in regole
dettagliate e in una maggiore attenzione per le attività connesse alla
produzione e gestione dei documenti; si tratta però di iniziative non
generalizzate, spesso prodotto dell'attività di singoli prelati
particolarmente attenti e consapevoli dell'utilità di una buona
amministrazione che riguardasse anche gli archivi, ma, per una
politica sistematica di riorganizzazione e chiarificazione delle diverse
funzioni in ciascuna struttura ecclesiastica e con una nuova enfasi data
al sistema archivistico, bisognerà attendere gli anni successivi al
Concilio di Trento e l'attività, decisiva in tal senso, di S. Carlo
Borromeo.

76
C) EPOCA MODERNA

7) Il Concilio di Trento e gli archivi ecclesiastici: l'attività di Carlo


Borromeo e l'inizio di una politica archivistica della Chiesa

Il Concilio di Trento fu il tentativo esperito dalla Chiesa per


ricomporre la gravissima crisi iniziata nelle prime decadi del XVI°
secolo con la contestazione Luterana e sfociata nello scisma
protestante e di altre confessioni riformate.
Al di là dei nodi dottrinali e strutturali, l'elemento cardine su cui si
imperniava la contestazione era di ordine squisitamente morale, la
cristianità voluta da Lutero e dagli altri riformatori125 era una comunità
più semplice, meno strutturata, ma rigorosa e inflessibile sul piano
dell'osservanza dei precetti biblici; l'esigenza di rigore morale era
stimolata dalla riflessione escatologica, cioè dalle basi su cui si fonda
la salvezza, basi assolutamente spirituali, come si evince dalla formula
Luterana della giustificazione sola fide, a loro volta erette sulla
esclusiva priorità data alle sacre scritture; tutto il resto, la tradizione
patristica e la dottrina teologico-filosofica, ma soprattutto la struttura
gerarchica della Chiesa con il sommo pontefice al suo vertice, era
considerato non solo superfluo, ma potenziale veicolo di corruzione
della vera fede cristiana.
Ovviamente, tale impostazione, così dirompente nei confronti della
tradizione della Chiesa era inaccettabile per la mentalità ecclesiastica,
abituata da secoli a fondare le speranze di salvezza e i relativi
comportamenti virtuosi sul riferimento imprescindibile a figure
intermediarie tra il terreno e l'Assoluto come i santi, i papi e i vescovi,
tutti operanti in un'unica nave della salvezza, garantita da secoli di
tradizione e dai meriti acquisiti dalle sue opere, cioè la Chiesa
cattolica, al cui esterno c'era solo l'errore se non l'eresia.
Il concilio, quindi, fu considerato l'estrema risorsa per salvare questa
tradizione e insieme innovarla di un nuovo spirito ideale e missionario
che la rendesse più credibile sul piano morale; i decreti conciliari, in
effetti, sul piano organizzativo e disciplinare si posero totalmente in
linea con il precedente assetto strutturale e giuridico dell'apparato
ecclesiale, ma ne curarono il potenziamento effettivo dando a tale
struttura una coscienza e una chiarezza nelle funzioni inusitate dacchè,
125
Sulla figura di Lutero e sulle altre confessioni riformate: O. PESCH, Martin Lutero.
Introduzione storica e teologica, Queriniana, 2007; R. DECOT, Breve storia della riforma
protestante, Queriniana, 2007; M. FIRPO, Riforma protestante ed eresie nell'Italia del
Cinquecento. Un profilo storico, Laterza, 2008.
77
nel periodo precedente, persisteva il ristagno nelle paludi di un
sistema farraginoso e frammentato dall'inestricabile viluppo tra
l'ordinamento ecclesiale e le varie forme di autorità politiche
caratterizzanti i diversi territori in quel tempo.
L'ecclesiologia scaturente dal Concilio puntava, dunque, a fare della
Chiesa una societas perfecta, in sè totalmente autonoma nella
strumentazione giuridica e sul piano organizzativo, in maniera non
dissimile da una compagine statale126, rafforzando sia il centralismo
papale che troverà in altre sedi una sua più compiuta riorganizzazione
burocratica, sia il tessuto ecclesiastico locale deputato alla cura delle
anime e, quindi, punto nevralgico su cui poggiava l'intero impianto
riformatore.
Ed è proprio quest'ultimo ambito ad essere particolarmente curato
nella trattazione conciliare, infatti, uno dei principali obiettivi messo a
fuoco dai vescovi riuniti in concilio era quello della cura animarum,
una maggiore e più efficace pervasività del sistema ecclesiale nella
vita dei fedeli al fine di prevenire l'insorgenza di eresie, ma per
ottenere ciò era necessario porre al centro dell'attenzione l'insieme
delle chiese locali a cominciare dalle strutture diocesane e dai loro
principali referenti, i vescovi.
La figura del vescovo fu rafforzata dai decreti conciliari in quanto ne
venne sancita la piena responsabilità nel governo diocesano, il chè
significava la necessità della sua permanenza in sede e il divieto di
cumulare benefici, ma comportava anche il diritto di erigere,
trasformare o sopprimere i benefici semplici e curati, il pieno potere di
controllo sulla gestione dei beni ecclesiastici e dei luoghi pii
(fabbricerie, ospedali, confraternite), la potestà d'intervento nella
selezione dei candidati al sacerdozio e la sovrintendenza sui nuovi
seminari vescovili; il vescovo venne quindi ad assumere una centralità
istituzionale effettiva nel governo delle chiese locali, una preminenza
idealmente posseduta anche nei secoli medioevali, ma, in pratica,
disattesa da una realtà politico-istituzionale fortemente frammentata e
composta da poteri ecclesiastici e laici intersecati tra loro e
concorrenti127.
La ricerca dell'unità del governo vescovile era favorita da uno
strumento tradizionale, la visita pastorale, che veniva legata a precise
cadenze annuali e ad un'attività ricognitiva che non si limitasse al
controllo dei beni ecclesiastici e della disciplina del clero, ma operasse
appunto sul piano della pastoralità verificando il grado di
coinvolgimento dei fedeli nella vita ecclesiale; l'adempimento della
126
G. FILORAMO, D. MENOZZI, a cura di, Storia del cristianesimo. L'età moderna, Laterza,
2001, p. 184
127
G. ALBERIGO, Le potestà episcopali al concilio di Trento, in G. ALBERIGO, La Chiesa
nella storia, Paideia, 1988, pp. 163-177
78
visita pastorale verrà successivamente sollecitato e consolidato dal
pontefice Sisto V con la bolla Romanus Pontifex del 1585 che, in
riferimento alle deliberazioni tridentine, imporrà l'obbligo ai vescovi
di visitare la sede papale e, contestualmente, presentare una relazione
sulla diocesi da essi governata, le relationes ad limina128.
Il potenziamento della giurisdizione episcopale richiedeva un
conseguente adeguamento dell'apparato burocratico della curia
diocesana con la stabilizzazione di funzioni e uffici già presenti nei
secoli passati, come i vicari generali che vennero costituiti ufficio
obbligatorio, dotati di giurisdizione ordinaria e sostitutiva del vescovo,
e i vicari foranei, rappresentanti in loco dell'autorità episcopale con
funzioni di intermediazione tra il vescovo, i laici ed il clero rurale
della diocesi129.
Se, quindi, la figura episcopale usciva rafforzata dal concilio
tridentino nello sforzo di semplificare e ridurre ad unità il governo
della diocesi, tuttavia è nella dimensione parrocchiale e, di
conseguenza, nella figura sacerdotale che il concilio dispiegò le sue
energie più innovative; ciò è tanto più vero se si pensa che proprio la
condizione generale del clero rappresentava il nodo più critico della
struttura ecclesiale, i chierici del medioevo difettavano, in gran parte,
dell'istruzione necessaria allo svolgimento del delicato compito di cura
delle anime, molto più efficaci in tal senso risultavano gli ordini
mendicanti, più attrezzati sia nell'ambito culturale che in quello ideale,
soprattutto quest'ultima dimensione, quella delle idealità e delle
motivazioni si ritrovava in una condizione endemica di fragilità
laddove prevalevano nel clero interessi in contiguità con il mondo
laicale tra la caccia alle prebende e ai benefici curati e lo svolgimento
in contemporanea allo stato sacerdotale di professioni ed attività
laiche.
Nel concilio di Trento, dunque, venne disposta una nuova disciplina
del clero mirante ad un modello di sacerdote che, nelle sue linee
sostanziali, è possibile riconoscere ancora nel nostro tempo; l'obiettivo
era di costituire un clero parrocchiale che fosse il riferimento
principale dei fedeli, la parrocchia doveva essere la cellula base
effettiva su cui costruire un più solido organismo ecclesiastico e, a tal
fine, la dignità dei parroci venne particolarmente curata a cominciare
dal modo di vestire, nettamente differenziato, con l'adozione dell'abito
talare, da quello dei laici, in modo da sottolineare visibilmente
l'incompatibilità tra i compiti e le funzioni dei due diversi stati, e

128
G. BADINI, Archivi e Chiesa. Lineamenti di archivistica ecclesiastica e religiosa, Patron,
1989, p. 50
129
C. FANTAPPIE', Introduzione storica al diritto canonico, op. cit., pp. 149-150
79
proseguendo con l'istituzione di apposite strutture deputate alla
formazione e all'istruzione del clero, i seminari vescovili130.
Sebbene la loro attuazione si sia protratta per tempi lunghi e con esiti
discordanti, la costituzione dei seminari ebbe nel tempo un effetto
rinvigorente sul processo di rinnovamento del clero locale131, le
parrocchie, infatti, divennero il centro della vita sacramentale
mediante l'azione di sacerdoti più istruiti e più coinvolti nella loro
dignità di pastori d'anime che implicava una presenza costante nel
territorio assegnato e una più marcata moralità nei costumi e abitudini
di vita.
Ma il centro della vita parrocchiale, come si è detto, si svolgeva
nell'amministrazione dei sacramenti132 ai fedeli di cui i sacerdoti
avevano la responsabilità; attraverso i tempi del battesimo, della
comunione, della confessione, del matrimonio e dell'estrema unzione,
la vita del fedele era scandita da una serie di intervalli prestabiliti in
cui era essenziale la presenza e la funzione del sacerdote e, attraverso
lui, era l'intera Chiesa a penetrare in profondità e in maniera capillare
nella vita, anche intima, della società cristiana con forti capacità di
condizionamento e direzione.
I parroci divenivano, quindi, i perni essenziali attorno ai quali si
costruiva la sostanziale efficacia di un apparato ecclesiastico più
pervasivo e condizionante che mai; ma, naturalmente, un
consolidamento dell'intero assetto ecclesiale a partire dalle chiese
particolari richiedeva un'attenzione assai più consapevole rispetto al
passato alle problematiche concernenti la produzione, gestione e
conservazione del materiale documentario, gli archivi, infatti,
assumevano inevitabilmente un ruolo nevralgico nel funzionamento di
strutture e burocrazie ecclesiali più complesse e ancor più
giuridicizzate con l'accrescimento di obblighi e funzioni che
conducevano ad un aumento proporzionale della documentazione.
I decreti conciliari effettivamente promulgati non trattarono in
maniera diretta la tematica archivistica, ma disposero provvedimenti
che, legati alle funzioni più rigorosamente stabilite di vescovi e
sacerdoti, prescrivevano l'obbligatorietà di una serie di tipologie
documentali; particolarmente importanti, tra queste, erano i libri
parrocchiali, previsti come registri dei battezzati e dei matrimoni in

130
M. GUASCO, La formazione del clero: i seminari, in G.CHITTOLINI, G. MICCOLI,
Storia d'Italia. Annali. Vol.9: la Chiesa e il potere politico dal medioevo all'età contemporanea,
Einaudi, 1986, pp. 631-715
131
C. FANTAPPIE', Problemi della formazione del clero nell'età moderna, in "Il diritto
ecclesiastico", 1994, n. 1, pp. 64-79
132
J. BOSSY, Dalla comunità all'individuo. Per una storia sociale dei sacramenti nell'Europa
moderna, Einaudi, 1998.
80
cui i parroci erano tenuti ad annotare la data, il luogo ed i nomi dei
celebranti il sacramento e dei loro padrini e testimoni.133
Tali registri non furono creati dalle disposizioni conciliari, alcuni
esemplari di libri dei battezzati risalgono, in Italia, alla fine del
trecento per diventare poi più comuni nel corso del quattrocento, ma
per tutta l'epoca medioevale, come si è già avuto modo di dire, solo
alcuni battisteri cittadini riuscirono ad assicurarne la custodia in loco,
il rimanente materiale, quando sopravvissuto, finì disperso tra le più
diverse istituzioni laiche ed ecclesiastiche.
Solo dopo l'assise tridentina, quindi, le parrocchie riuscirono a
costituire nel tempo, in un processo lento e disomogeneo, nuclei
archivistici consistenti conservati localmente e garantiti dall'opera di
sacerdoti più istruiti e coinvolti nei loro compiti, nonchè dall'azione di
vigilanza dell'autorità vescovile che nelle sue periodiche visite
pastorali poneva particolare attenzione alla tenuta dei libri parrocchiali
in ogni parrocchia della diocesi di sua competenza134.
Nell'ambito delle discussioni conciliari, tuttavia, l'attenzione al
problema archivistico non fu limitata alle disposizioni concernenti
l'obbligo di curare la produzione e la custodia di alcune tipologie
documentarie, ma si estese anche alla possibilità di istituire per
ciascuna chiesa cattedrale un archivio pubblico che concentrasse in sè
tutte le scritture pertinenti agli affari del vescovo, del capitolo e delle
chiese della diocesi; tale ipotesi assunse la forma di un testo canonico,
il capitolo 4 dei canones sex de reformatione aptati, che fu
successivamente espunto dal corpo ufficiale dei decreti conciliari dopo
un faticoso ed insoddisfacente lavoro di censura da parte dei padri
presenti.
Tale espunzione dall'ufficialità ha successivamente condotto all'oblio
un momento importante per la storia e l'evoluzione degli archivi
ecclesiastici, oblio interrotto prima dalla menzione fugace
dell'argomento da parte di Hubert Jedin nella sua ponderosa storia del
Concilio di Trento135, poi, soprattutto, da Eutimio Sastre Santos che ne

133
Concili Tridentini canones et decreta, sessio 24, caput 1: "Habet parochus librum, in quo
coniugum et testium nomina, diemque et locum contracti matrimonii describat, quem diligenter
apud se custodiat". Caput 2: "Parochus ad baptismum conferendum accedat, diligenter ab eis, ad
quos spectabit, sciscitetur quem vel quos elegerint, ut baptizatum de sacro fonte suscipiant, et eum
vel eos tantum ad illum suscipiendum admittat, et in libro eorum nomina describat".
134
Sulla tematica degli archivi parrocchiali si rinvia a: G. MANZOLI, L'archivio parrocchiale e i
beni culturali locali, in "Archiva Ecclesiae", XXIV-XXV/1981-1982, pp. 53-82; D. BALBONI, I
libri parrocchiali dopo il Concilio di Trento, in "Archiva Ecclesiae", XVIII-XXI, 1975-1978, pp.
233-247.
135
H. JEDIN, Storia del Concilio di Trento. Superamento della crisi per opera di Morone,
chiusura e conferma, vol. IV/2, Morcelliana, 1981.
81
ha approfondito gli elementi archivistici in un prezioso studio136 di cui
è utile riportare in questa sede le riflessioni salienti.
Cominciando dalla questione riguardante le persone che hanno
contribuito con le loro idee al tema dell'archivio pubblico diocesano e
ai motivi della sua inclusione nel dibattito conciliare.
Dallo studio summenzionato appare un evidente protagonismo di
vescovi ed ecclesiastici spagnoli nelle discussioni concernenti temi
direttamente o indirettamente legati ad aspetti archivistici, non solo
l'argomento centrale della costituzione di archivi pubblici in ogni
cattedrale fu introdotto e proposto da D. Pedro Guerrero, arcivescovo
di Granada, ma anche le disposizioni connesse ai libri parrocchiali
scaturirono dalle proposte di altri due vescovi di area iberica, Antonio
Agustín, vescovo di Lérida e Bartolomé de los Mártires, vescovo di
Braga; inoltre il preposito generale dei Gesuiti, Diego Laínez,
raccomandava come funzione assai importante della visita pastorale
fosse il controllo della corretta formazione e tenuta dei libri
parrocchiali.
Come si comprende una tale preponderanza di ecclesiastici spagnoli
nelle materie collegate, in un modo o nell'altro, all'ambito
archivistico?
Si comprende tenendo in considerazione l'elemento cardine che ha
sempre influenzato il dibattito dottrinale nel cattolicesimo, il rispetto
per la tradizione, che, in questo caso, era incarnata in una copiosa
serie di disposizioni, prodotte in ambiente ispanico e risalenti fino alla
metà del duecento, che avvaloravano l'interesse e la proposizione di
argomenti archivistici; parlare di archivi e documenti per i vescovi di
area iberica era naturale perchè si trattava di strumenti di governo
ecclesiale diffusi nelle chiese di Spagna e Portogallo, strumenti
accertati da una tradizione normativa secolare instaurata,
probabilmente, nel primo sinodo di Zamora del 1255137 e confermata,
nei secoli successivi, anche in altre città iberiche e dell'America
spagnola.
Anche altri elementi più legati alla contemporaneità contribuivano al
forte interesse delle gerarchie ecclesiastiche spagnole per lo sviluppo
di una strumentazione archivistica più efficace, il clero spagnolo,
infatti, viveva, spesso da protagonista, nel periodo di massima
proiezione della dinastia Asburgica sugli scenari europei e mondiali,
ed il centro di questa concentrazione di energie politiche e militari
136
E. SASTRE SANTOS, Ensayos de archivística eclesial hispana, EDIURCLA, Roma, 2005,
pp. 47-97.
137
Synodicon Hispanum. IV. Ciudad Rodrigo, Salamanca y Zamora, Madrid, 1987, pp. 432-433,
sínodo 1 de Zamora, 1255, 2: " Item, quod quilibet clericus conscribat omnes possessiones sue
ecclesie, a quo sunt, et ubi sunt, et a quibus relicte sunt, et a quibus tenentur vel etiam excolluntur.
Et scripturam inde fideliter confectam det archipresbitero, et archipresbiter faciat unum librum de
possessionibus omnium ecclesiarum sui archipresbiteratur".
82
rappresentata dagli Asburgo si stava stabilizzando in Castiglia proprio
negli anni del Concilio tridentino; la Spagna era, quindi, il centro di
governo di una vasta struttura istituzionale che aveva dei precedenti,
pur con tutte le differenze del caso, solo nell'antica macchina statale
romana.
Una così complessa organizzazione burocratica non poteva funzionare
senza un'attenzione ed un approfondimento nuovo verso le procedure
di gestione e conservazione documentaria, attenzioni che condussero
all'idea, non del tutto nuova per la verità, di concentrare una parte
importante e consistente del materiale archivistico in un'unica sede, il
cosiddetto archivio di concentrazione, l'idea trovò la sua
materializzazione nell'erezione dell'Archivio Generale di Simancas nel
1540, un momento assai rilevante nella storia dell'organizzazione
archivistica che fu il prodotto di un accrescimento in complessità delle
strutture istituzionali, peraltro non limitato allo stato e di una
compresente presa di coscienza dell'imprescindibilità di una buona
organizzazione archivistica per far fronte a compiti di governo ed
amministrazione dell'ordinario che richiedevano un uso della
documentazione scritta di gran lunga più esteso rispetto ai secoli
precedenti.
"Gobernar el mundo con papeles"138, un'espressione indicativa della
nuova coscienza che andava maturando in quegli anni nell'ambito
delle scienze di governo e che non poteva non influenzare anche il
mondo ecclesiastico che proprio in quello stesso periodo andava alla
ricerca di strategie di governo ecclesiale più efficaci onde superare la
gravissima crisi dello scisma in atto tra cattolici e confessioni
riformate.
Quei vescovi, quindi, erano condotti dalla tradizione e dal contesto di
provenienza alla proposizione di argomenti archivistici anche in
ambito conciliare, tutt'altra cosa però era riuscire a trovare una
formulazione sul tema degli archivi pubblici diocesani
sufficientemente chiara e precisa da soddisfare al contempo le
esigenze di fattibilità e di rigore tecnico inerenti alla realizzazione di
un disegno così ambizioso.
Per favorire una maggiore comprensione del canone proposto e dei
motivi che hanno portato alla sua definitiva eliminazione dai decreti
ufficiali è opportuno esaminare di seguito i suoi diversi punti
focalizzando l'attenzione sulle intrinseche criticità del testo.
Il capitolo 4 dei canones sex de reformatione aptati si apre così:

"In qualibet ecclesia cathedrali vel collegiata archivum publicum


constituatur, in quo scripturae omnes conserventur, quae ad

138
Historia de los archivos y de la archivística en España, Universidad de Valladolid, 1998.
83
ecclesiam, episcopum vel capitulum, communiter vel divisum,
pertinent. In eodem quoque cathedralis ecclesiae archivo scripturae
omnes includantur, quae ad inferiores ecclesias et quaecumque alia
secularia beneficia in dioecesi spectant"139.

Ci si proponeva, quindi, la costituzione di un archivio pubblico che


contenesse non solo la documentazione pertinente all'attività della
curia vescovile e del capitolo cattedrale, ma anche i documenti
prodotti in tutte le altre sedi ecclesiastiche di ciascuna diocesi,
l'ipotesi, dunque, è di concepire tali archivi come generali,
concentranti in sè l'intera produzione documentaria di uno spazio
diocesano, tali, almeno, sembrerebbero considerati anche in una
porzione successsiva del testo:

"Ad haec diligens inquisitio ab episcopo, etiam sub excomunicationis


poena, si opus sit, fiat, ut scripturae omnes, ad quascumque ecclesias
seu beneficia spectantes, praelatis atque rectoribus dictarum
ecclesiarum ac beneficiorum a quibuscumque, cuiuslibet conditionis
sint, restituantur atque in publicum hoc archivum inserantur"140.

Dove si prescrive, sotto pena di scomunica, la restituzione di tutti i


documenti spettanti a ciascuna chiesa e il loro inserimento nel
summenzionato archivio pubblico, il testo però non chiarisce le
modalità di raccolta di tali documenti in un medesimo luogo, non si
precisa, infatti, se si tratta di copie od originali, oppure solo di una
concentrazione selettiva in base alla loro rilevanza per le necessità
della curia vescovile e del capitolo; nella formulazione presentata
sembrerebbe imporsi l'immagine di un alquanto problematico
assorbimento dell'intero patrimonio documentario della diocesi in
un'unica sede.
Altrettanto ambigua è la menzione, all'inizio del testo, di un archivio
pubblico in cui siano conservate le scritture pertinenti all'attività
vescovile e capitolare, i termini communiter vel divisum non aiutano a
chiarire le modalità di conservazione di complessi documentari
appartenenti a istituzioni distinte come il vescovo con la sua curia e il
capitolo con la sua mensa capitolare separata da quella vescovile,
soprattutto non è chiara l'attribuzione dell'effettiva responsabilità sugli
archivi conservati, l'archivio, infatti, è definito pubblico, ma tale
termine, come si è già visto in precedenza, viene a qualificare, in
materia archivistica, un archivio costituito da chi è titolare dello ius
archivi, cioè da autorità aventi giurisdizione, quindi, nell'ordinamento

139
E. SASTRE SANTOS, Ensayos de archivística eclesial hispana, op. cit., p. 89.
140
Ivi, p.89.
84
ecclesiastico, sono i vescovi e non i capitoli della cattedrale o delle
chiese collegiate ad avere tale autorità, ma da ciò che si può evincere
dal testo questa distinzione non venne fatta risaltare permanendo un
senso di confusione sullo status giuridico dell'archivio e sul delicato
problema della pubblica fede connesso all'autorità responsabile
dell'archivio pubblico.
L'ambiguità permane anche in un'altra parte del testo riferita al
personale materialmente responsabile degli archivi conservati:

"Porro duo custodes deputentur, qui non sint de capitulo et quorum


unus ab episcopo, alter vero a capitulo eligatur; sintque viri honesti et
probatae fidei, a quibus etiam iuramentum et fideiussores idonei
exigantur. His deinde custodibus coram notario et testibus archivi
cura et custodia cum inventario committatur, cuius testimonii et
fideiussionis ac iuramenti et inventarii alterum instrumentum
authenticum signatum habeat episcopus, subscriptum a capitulo, et
alterum capitulum, subscriptum ab episcopo"141.

Risalta qui l'affidamento del materiale archivistico a due semplici


privati scelti dal vescovo e dal capitolo, una formulazione che non
prevedendo la presenza fissa all'ufficio responsabile della custodia
delle scritture di una figura ufficiale come un notaio, previsto solo
come autenticatore degli inventari dei documenti, indeboliva
inevitabilmente la garanzia di pubblica fede intrinsecamente legata
alla qualifica di archivio pubblico.
Il testo del canone, dunque, non si presenta certo come un esempio di
chiarezza e di precisione tecnica, vi persistono invece molte
ambiguità, probabile prodotto di alcuni fattori di natura culturale e
disciplinare che influenzarono inevitabilmente il lavoro dei padri,
innanzitutto è da dirsi che la materia archivistica, sebbene familiare
nelle sue applicazioni pratiche e nella sua utilità a molti ecclesiastici,
era oggetto in quegli anni di innovativi apporti teorici che ne
specificavano ulteriormente le modalità applicative in base a una
delineazione più precisa dei suoi aspetti tecnico-giuridici, ma si
trattava di argomenti di natura assai specialistica e, spesso, tutt'altro
che definiti in via unanime ed è poco probabile che i vescovi presenti
al concilio potessero averne competenze specifiche, ciò si denota
particolarmente nell'uso non molto felice del termine archivio
pubblico, un concetto archivistico assai dibattuto proprio in quegli

141
Ivi, p.89.
85
anni e in quelli di poco successivi sia in sede dottrinale che
giurisprudenziale e con esiti a volte difformi142.
L'impressione è che la cultura archivistica dominante tra i padri
conciliari sia a mezzo guado tra età medievale e moderna, si
riconosceva come ormai imprescindibile per un'amministrazione
efficace lo strumento di un archivio ben organizzato e quanto più
possibile completo, ma permaneva un rapporto non chiaro tra la
documentazione della curia vescovile e quella dei capitoli che
risentiva, probabilmente, delle osmosi di fatto caratterizzanti i due
complessi documentari in molte chiese cattedrali del medioevo e della
prima età moderna e che si originavano da una scarsa presenza in sede
del titolare della cattedra vescovile e dalla conseguente assunzione di
responsabilità del clero capitolare per le scritture concernenti le
attività della curia episcopale.
Anche la scelta di semplici custodes privati per la conservazione
materiale dell'archivio rinviava alla figura degli economi di vetusta
memoria, la cui responsabilità generale sui beni della loro chiesa si
allargava fino a comprendere spesso anche le scritture collegate a tali
beni, ma erano figure adatte alla custodia di archivi composti da poche
e sparute pergamene sciolte riposte all'interno di un'unica cassa, non
certo di ponderosi volumi di produzione notarile tipici del tardo
medioevo e ancora meno alla gestione di una produzione
documentaria crescente e tipologicamente complessa come quella di
età moderna.
Tali difficoltà di formulazione del testo furono diffusamente percepite
dai padri come si evince dalle numerose correzioni o censurae
presentate e richiamanti alcune delle problematiche che si sono
analizzate poco sopra, in particolare sono indicativi i dubbi e le
perplessità espresse sul carattere generale dell'archivio, non
sufficientemente approfondito e ritenuto inattuabile nella sua
formulazione originale, ma ancora più interessanti sono le proposte,
presentate da alcuni padri, di riservare tale delicata e complessa
questione dell'archivio pubblico ecclesiastico alla competenza del
diritto particolare e cioè ai concili provinciali, tale è l'opinione di
Diego Laínez, preposito generale dei Gesuiti: "Modus servandi
scripturas remittatur concilio provinciali"143.
Opinioni come questa potrebbero essere alla base della successiva
decisione di non confermare il canone sull'archivio pubblico nella

142
In effetti la determinazione della natura pubblica o privata di un archivio non era un argomento
pacifico e poteva accadere che la giurisprudenza non fosse in accordo con i dettami teorici della
dottrina come ben evidenzia Lodolini nel suo: E. LODOLINI, Giurisprudenza della Sacra Rota
Romana in materia di archivi (secoli XVI-XVIII), in "Rassegna degli Archivi di Stato", a. XLII,
n.1, gennaio-aprile 1982, Roma, pp. 7-33.
143
E. SASTRE SANTOS, op. cit., p. 73, nota 109.
86
stesura definitiva dei decreti conciliari, troppo problematica la materia
per essere delineata in maniera sufficientemente precisa in un concilio
generale avente come suo obiettivo specifico la riforma dottrinale e
disciplinare del corpo ecclesiale, meglio quindi rinviare ad un
consesso normativo più adatto ad occuparsi di ambiti suscettibili di
necessari adeguamenti locali.
Il Concilio di Trento, quindi, si chiuse senza una menzione esplicita
degli archivi, ma la loro esistenza è necessariamente presupposta
dall'abbondante normativa in merito alle diverse funzioni e attività del
clero e alla relativa documentazione prescritta al fine di ottimizzare le
numerose procedure intercorrenti nel complesso apparato ecclesiale;
in altre parole i decreti conciliari non istituirono ufficialmente
determinati archivi ecclesiastici, i quali si presupponevano già
esistenti almeno in una forma elementare, ma ne resero tassativo il
perfezionamento per il buon esito stesso della riforma.
Il compito di riorganizzare in maniera adeguata i diversi archivi delle
chiese locali venne affidato all'azione concertata del clero locale, dei
notai e ufficiali di curia, sotto la guida e responsabilità dei vescovi e
dei metropoliti.
Tra questi la figura determinante nella storia degli archivi ecclesiastici
in età post-tridentina è quella di San Carlo Borromeo144, arcivescovo
di Milano dal 1563 al 1584.
Il Borromeo è noto soprattutto per la sua instancabile opera pastorale
che lo rese agli occhi dei contemporanei e dei posteri l'esempio per
eccellenza del vescovo virtuoso di stampo riformatore, meno nota,
invece, è la sua importanza nell'ambito dell'archivistica ecclesiastica
dovuta alla ricca produzione normativa interessante i più vari aspetti
della produzione, gestione e conservazione del materiale archivistico
appartenente a ciascuna chiesa della sua provincia ecclesiastica; tale
copiosa messe di disposizioni non è organizzata in maniera
sistematica in un unico testo o in poche e precise partizioni che le
racchiudano tutte, ma, bensì, è frammentata in singole norme
specifiche sparpagliate tra le altre all'interno dei decreti emanati da
cinque diversi concili provinciali intercorsi sotto la sua presidenza fra
gli anni 1565 e 1579145.

144
Sulla vita e sulle opere di questa importante figura nella storia della Chiesa si consultino: C.
BASCAPE', Vita e opere di Carlo arcivescovo di Milano cardinale di S. Prassede, Milano, 1965;
San Carlo e il suo tempo, Atti del convegno internazionale. Nel IV centenario della morte.
(Milano, 21-26/5/1984), edizioni Storia e Letteratura, Roma, 1986.
145
Sulla legislazione archivistica del Borromeo: A. PALESTRA, La legislazione del card. Carlo
Borromeo per gli archivi ecclesiastici della provincia metropolitana di Milano, in
Palaeographica, diplomatica et archivistica. Studi in onore di Giulio Battelli, II, edizioni Storia e
Letteratura, Roma, 1979, pp.593-615; A. PALESTRA, San Carlo e gli archivi ecclesiastici
milanesi, in "Archiva Ecclesiae", XXVIII-XXIX (1985-1986), pp. 141-156.
87
Questa disposizione rende più difficoltosa la percezione immediata di
una coerenza strutturale tra le varie norme in quanto favorisce
ridondanze e contraddizioni tra disposizioni emesse in tempi diversi,
ciònondimeno ne viene evidenziata la grande attenzione per il
fenomeno documentario, studiato e articolato nei suoi molteplici
aspetti, dalle modalità gestionali attente al rilievo della pubblica fede,
al rapporto con i responsabili della produzione e conservazione del
materiale archivistico, fino alle tecniche ed alle suppellettili impiegate
per la custodia materiale dei documenti, ma, soprattutto, l'ambito
documentario non è considerato un'isola a sè, ma come un aspetto
particolare inscindibilmente legato all'intero complesso dell'attività
amministrativa, un aspetto che si perfeziona empiricamente, con la
concreta pratica del governo e con l'osservazione degli effetti reali di
tale pratica.
Il corpus normativo a tema archivistico del Borromeo, quindi, si venne
costituendo negli anni come frutto della sua concreta esperienza di
governo dell'arcidiocesi, lasciando intravvedere una cultura
archivistica non solo edotta dall'imprescindibile armamentario
giuridico, ma anche perfezionata dalla familiarità con le tecniche
amministrative e di gestione documentale.
Tutto ciò non scaturiva solo dal suo innegabile talento per le attività di
governo e per la buona amministrazione, ma era il frutto di anni spesi
nell'apprendimento e nella pratica ai più alti livelli; il Borromeo,
infatti, condusse brillantemente gli studi giuridici nell'Università di
Pavia conseguendo il titolo di dottore in utroque iure nel 1559,
successivamente, essendo già state apprezzate le sue capacità dallo zio
materno, il cardinale Giovan Angelo Medici, alla elezione di questi a
papa con il nome di Pio IV fu invitato a raggiungerlo a Roma dove gli
furono affidati diversi incarichi di notevole responsabilità146.
Tra questi ebbe un rilievo importante per la sua cultura amministrativa
e archivistica l'ufficio di segretario di stato che gli permise di entrare
in contatto diretto con l'enorme mole documentaria che affluiva
quotidianamente alla segreteria pontificia dai più diversi angoli del
globo; nunziature, vescovadi, missionari e corti europee con cui il
papato era in contatto per preparare l'ultima fase del Concilio di
Trento e portarlo ad un ottimale compimento.
Il Borromeo ebbe modo, così, di familiarizzare con i problemi
gestionali di vasti e diversificati complessi documentari intendendone
l'importanza ai fini di una efficace pratica di governo e acquisendo
una particolare sensibilità circa i modi di organizzare e conservare i
documenti, una sensibilità che venne ulteriormente acuita quando,
terminato il concilio, fu nominato membro della commissione speciale

146
A. PALESTRA, San Carlo e gli archivi ecclesiatici milanesi, op. cit., p. 151
88
per l'applicazione dei deliberati del concilio, fu in tale veste, infatti,
che il suo zelante spirito di riformatore cattolico si fuse perfettamente
con il suo talento di organizzatore e amministratore di cose e di
uomini147.
L'esperienza fatta nel precedente incarico alla Segreteria di stato lo
rese edotto della necessità di curare con particolare attenzione la
gestione e l'organizzazione degli archivi, non solo a Roma, ma in tutte
le istituzioni ecclesiastiche locali, e ciò era da considerarsi tanto più
necessario in quanto requisito indispensabile per l'effettiva messa in
pratica dei decreti di riforma emanati dal concilio.
San Carlo potè avvalersi di tale esperienza nel governo dell'arcidiocesi
di Milano di cui divenne arcivescovo residente nel 1565, in questa
funzione celebrò sei concili provinciali e undici sinodi diocesani,
effettuò più volte la visita pastorale della diocesi in cui impartì
istruzioni sui temi più svariati della disciplina ecclesiastica; in tutte
queste occasioni le problematiche archivistiche ebbero un ruolo
importante, rimarcato già nel suo primo concilio provinciale del 1565
nel quale il titolo “quae pertinent ad bonorum et iurium
ecclesiasticarum conservationem, rectam administrationem et
dispensationem” si apre con una deplorazione per la perdita, nel corso
dei secoli, di molti beni appartenenti al patrimonio ecclesiastico a
causa della scarsa cura nella conservazione dei rispettivi munimina,
cioè dei titoli documentari che ne legittimavano il possesso
permettendo di ius suum vindicandi148.
Onde evitare il ripetersi di ciò si prescrive tassativamente a tutti i
possessori ed amministratori di benefici, beni mobili ed immobili
ecclesiastici e luoghi pii di procedere alla loro inventariazione, si
tratta, invero, di un procedimento tradizionale nella storia delle
istituzioni ecclesiastiche, previsto fin dall'antichità, ma adesso viene
organizzato con una sistematicità del tutto nuova che prevede
l'obbligo per tutte le chiese della provincia della redazione di inventari
autenticati da un notaio pubblico149 da cui trarre successivamente due
copie, anche queste autenticate dalla mano notarile, da inviare uno
all'archivio della chiesa cattedrale competente nel territorio e l'altro
all'archivio metropolitano, cioè all'archivio arcivescovile di Milano150.
147
V. MONACHINO, Introduzione alla Guida degli Archivi Diocesani d'Italia, pp. 22-23.
148
Tutti i riferimenti normativi citati si possono trovare in Acta Ecclesiae Mediolanensis, edizione
del 1843, in due volumi, patrocinata dall'arcivescovo C. C. Gaisbruck e corredata di copiosi indici
analitici; il testo completo del sopramenzionato titolo facente parte dei decreti del concilio
provinciale milanese del 1565 è reperibile in Archivistica ecclesiastica: problemi, strumenti,
legislazione, op. cit., pp. 197-203.
149
Acta Ecclesiae Mediolanensis, I, p.43: "...et eorum omnium inventarium, in quo locorum, etiam
fines, conditionesque omnes sigillatim, describantur, per publicum notarium diligenter
conficiendum, curent...".
150
Acta Ecclesiae Mediolanensis, I, p.43: "Ex eo inventario exempla duo notarii publici auctoritate
ad certam eorum fidem munita, conficiantur; quorum alterum episcopi et capitula ecclesiarum
89
L'inventariazione, quindi, è coordinata con una rete di archivi
distribuiti diffusamente all'interno delle diocesi e di cui viene sancita
la necessaria esistenza almeno nelle cattedrali e nelle collegiate151; per
la prima volta dunque si è in presenza di una cosciente politica
archivistica che prevede la costruzione di un sistema di archivi
interessanti soprattutto le chiese più importanti di ciascuna diocesi,
come le cattedrali e le collegiate che devono dotarsi di un archivio
pubblico in quanto la sua istituzione è attribuita in via esclusiva al
vescovo che è autorità provvista di giurisdizione e quindi di ius
archivi.
Gli archivi delle cattedrali e quello metropolitano sono concepiti come
generali, non nel senso di accogliere al loro interno la totalità della
documentazione prodotta da ciascun ente ecclesiastico, ma nella più
concreta e attuabile facoltà di richiedere le copie di alcune tipologie
documentarie considerate importanti ai fini dell'attività
amministrativa, come, appunto, gli inventari dei beni posseduti a vario
titolo da ciascuna chiesa e che, conservati negli archivi episcopali di
ogni diocesi, permettono ai vescovi o ai loro delegati di controllare,
durante le visite pastorali, lo stato effettivo del patrimonio
ecclesiastico con maggiore efficacia, abilitando la possibilità di
interventi sanzionatori in caso di discordanze o la necessità di
rinnovare l'inventariazione in caso di accrescimento del patrimonio152.
L'importanza di queste norme emanate nel concilio provinciale
milanese del 1565 fu accresciuta anche dal riconoscimento fattone dal
pontefice Pio V che mediante il suo breve "Inter omnes" del giugno
1566 ne estendeva la portata ed il valore all'intera chiesa universale; il
breve recepiva la decretazione Borromaica nel suo complesso e alla
materia archivistica è fatto solo un breve riferimento esplicito153,
ciònonostante questo documento è considerato con fondate ragioni un
momento centrale nella storia degli archivi ecclesiastici, si tratta infatti

cathedralium in archivio, quod utrisque commune sit, asservent; alterum ad metropolitanum


mittant. Praefecti vero et capitula ecclesiarum, quae collegiatae sunt, alterum, exemplum in
communi eorum archivio retineant; alterum in archivio cathedralis ecclesiae, intra cuius fines sunt,
asservandum tradant ".
151
Acta Ecclesiae Mediolanensis, I, p.43: " At vero in quibus ecclesiis vel cathedralibus, vel
collegiatis, archivium eiusmodi non sit, ab episcopo instituatur ".
152
Acta Ecclesiae Mediolanensis, I, p.43: " Praterea in visitationibus, eiusmodi inventaria episcopi
secum adferant; et cum iis, qui servant ii qui visitandi sunt sigillatim conferant; perspiciantque,
diligenter, ne quid eorum, quae ibi descripta fuerunt, desit, quod ecclesiae vel minimo detrimento
esse possit; et si quae forte deerunt ecclesiae restitui, omniaque eius damna sarciri studeant. Ipse
quoque inventaria, si eis videbitur, renovari iubeant. Et utique quaecumque accessio , vel
immutatio facta sit, ea quotannis in inventaria referatur ".
153
Enchiridion archivorum ecclesiasticorum, a cura di S. DUCA, P. SIMEONE DELLA
SACRA FAMIGLIA, Città del Vaticano, 1966, pp. 2-5: "quam plurima saluberrima statuta et
decreta, ad... archiva et alia ad scripturarum, iurium et aliorum bonorum ecclesiasticorum
conservationem necnon fructuum, reddituum et proventuum ecclesiasticam dispensationem
pertinentia, non minus religiose quam sapienter fuerint ordinata... ab omnibus Dei ministris
aequaliter expedit observari ".
90
della prima disposizione pontificia a carattere generale che, tra le altre
materie, predisponga lo sviluppo di una rete di archivi delle chiese
locali, la politica archivistica entrava ufficialmente anche nella sede
centrale della Chiesa, il papato.
Ma, come già si è accennato, lo spirito riformatore del Borromeo in
materia di archivi e scienza dell'amministrazione, perdurò anche negli
altri concili provinciali che ebbe modo di presiedere lungo il corso
della sua vita, così come nelle numerose istruzioni che lui medesimo o
i suoi delegati impartirono nello svolgimento delle visite pastorali.
Tra le varie disposizioni emanate ve ne sono alcune che mirano a
perfezionare e ad approfondire fin nei dettagli il sistema archivistico
della provincia milanese già sommariamente delineato nel concilio del
1565; queste norme dettagliano i modi e i luoghi atti alla
conservazione ottimale del materiale archivistico e, in particolare,
specificano i ruoli e le precise attribuzioni del personale deputato a
vari livelli alle attività di produzione, gestione e conservazione dei
documenti.
Il ruolo dei cancellieri e dei notai, soprattutto, è oggetto di particolare
attenzione in molte norme, ma questo è comprensibile se si riflette
sulle delicate mansioni che i suddetti svolgevano proprio nell'ambito
archivistico, la redazione di qualsivoglia documento dotato di
pubblica fede doveva necessariamente passare per le loro mani ed
erano assoluti protagonisti nelle attività inerenti al foro episcopale, il
chè implicava anche la loro responsabilità sulla conservazione del
materiale documentario correlato, una responsabilità, però, non più
legata al loro ufficio notarile, ma connessa alla loro nuova qualifica di
funzionari dipendenti dal vescovo, i documenti, quindi, appartenevano
legittimamente all'archivio della curia diocesana e non ai singoli notai
impiegati come avveniva per gran parte del periodo medioevale154.
Un chiaro esempio di quanto detto è presente tra le disposizioni del
concilio provinciale milanese del 1573, il decreto XVIII, dopo aver
trattato i modi di redazione degli atti e aver specificato i compiti dei
notai, dice:

"Certus in archivio episcopali locus constituatur; ubi causarum ac


judiciorum codices, instrumenta, acta, scriptave alia, a cancellario et
notariis fori episcopalis, ad ipsum forum pertinentia, singulis annis
confecta, quotannis recondantur, ita ut inde, cum usuvenerit, promi
possit quidquid in ecclesiastico foro unquam agitatum erit. Is certus
archivi locus duabus clavis claudatur, quarum unam episcopus,
alteram eius cancellarius habeat. Notaio autem instrumentorum, quae

154
A tal riguardo è utile la lettura di I notai della curia arcivescovile di Milano,op. cit.
91
confecit, exemplum, idque sumptibus suis habere aut retinere
liceat"155.

Il materiale documentario legato all'attività della curia diocesana,


quindi, è parte integrante dell'archivio episcopale ed affidato alla
responsabilità del cancelliere e dei notai che, oltre a svolgere i
consueti compiti concernenti l'amministrazione della curia e la
produzione documentaria, tendevano ad assumere anche qualifiche di
archivisti relative al condizionamento e alla custodia dei documenti, il
termine "archivista", inoltre, è esplicitamente usato in una istruzione
emanata durante una visita pastorale del 1573 in cui si raccomanda ai
visitatori di istituire archivi anche nelle pievi e nelle chiese minori
urbane e, oltre a ciò, l'assunzione con lettere patenti dell'arcivescovo
di notai con l'incarico di archivista e con l'autorità di redarre copie
autentiche utilizzabili dai rettori al posto degli originali156.
Il progressivo incardinamento di alcuni notai all'interno delle
amministrazioni diocesane è un processo che si è già analizzato in
precedenza nel corso dell'età medioevale, si è detto che fu un
fenomeno assai disomogeneo, avanzato in alcuni casi come a Siena,
ma del tutto assente in altri centri, anche importanti, come Milano.
Proprio Milano, però, con l'azione riformatrice del Borromeo, riuscì a
costituirsi come modello anche nell'ambito particolare degli archivi
ecclesiastici ed uno degli elementi chiave si sostanziò nella definitiva
assimilazione di notai e cancellieri operanti nell'amministrazione
diocesana a funzionari sotto la diretta autorità vescovile; in questo
modo la documentazione da loro prodotta non rimaneva più svincolata
dalla disponibiltà effettiva dei vescovi e dei loro vicari, ma, anzi,
finiva per coagularsi nei nuclei principali degli archivi diocesani di cui
le figure notarili e, in particolar modo, quella del cancelliere
assumevano la responsabilità della gestione e della conservazione.
Il problema dei rapporti tra figure notarili e autorità episcopali fu uno
dei nodi centrali nello sviluppo effettivo degli archivi ecclesiastici
locali e di quelli diocesani in particolare nel territorio italiano e che,
come a breve si vedrà, troverà una soluzione definitiva solamente sul
finire del XVI secolo.
Proseguendo nell'analisi delle disposizioni del Borromeo in merito
agli archivi è d'uopo sottolineare la già menzionata attenzione
dell'arcivescovo verso i modi della conservazione materiale dei
documenti; la determinazione dei modi e dei luoghi in cui preservare

155
Acta Ecclesiae Mediolanensis, I, Decretum XVIII "De iis quae ad episcopalem forum
pertinent", p. 201.
156
Archivistica Ecclesiastica: problemi, strumenti, legislazione, op. cit., p. 426: " Constituatur
archivista in archiviis dioecesis literis patentibus archiepiscopi; qui sit notarius, cum auctoritate
transumptandi authenticas scripturas, ut possint rectores ecclesiarum illis uti, cum opus erit ".
92
la documentazione d'archivio, era, del resto, il momento decisivo per
la sua sopravvivenza nel futuro e non fa meraviglia, quindi,
l'onnipresente insistenza di San Carlo in ogni disposizione
concernente le varie tipologie documentarie nell'individuazione di un
certus locus nell'archivio dove inserire ciascun tipo di materiale157, o
nel richiamo all'uso delle chiavi nella chiusura di stanze, armadi o
casse in cui erano contenute le serie dei documenti158.
Un dettagliato riferimento alle suppellettili da utilizzare nelle chiese
della provincia per la preservazione delle diverse tipologie di
materiale archivistico e librario è oggetto di un'istruzione del 1573 che
così si esprime al riguardo:

" Alia praeterea armaria structura, quae coeteris supra praescriptis


respondeat, fiant: unum scilicet, in quo libri ecclesiastici, ad
psalmodiam, et alium chori, et ecclesiae usum pertinentes apte
conserventur; alterum, in quo iura, instrumenta, et scripturae omnes
sint ad ipsam ecclesiam spectantes; idque, ubi aptius, tutiusque
archivium ecclesia non habeat; tertium item (si ecclesia parochialis
sit) in quo certi libri parochiales, scilicet matrimoniorum, et
baptizatorum, confirmatorum, et alia eiusmodi serventur; tum etiam
separato loco literae pontificiae, edicta episcopalia, literae episcopi
pastorales, quae in dies promulgantur, tum alia scripta ad ecclesiae,
vel animarum parochiali curae commissarum, regimen spirituale
spectantia. Haec tria armaria singula singulis clavibus tuto
claudantur. Eorum autem loco unum solum armarium, locis tamen
pro librorum, scripturarumve ratione intrinsecus apte distinctum,
extrui possit; ubi vel codicum, scripturarumve paucitas, vel ecclesiae
exiguitas, non duo, aut tria ut supra requirit "159.

Da notare la modernità dell'impostazione organizzativa del materiale


archivistico che si voleva separato da quello librario connesso alle
attività liturgiche e la cura con cui è prescritta la distinzione interna tra
le tipologie documentarie, un armadio infatti è dedicato a tutte le
scritture afferenti ai diritti ed ai privilegi della chiesa interessata,

157
Acta Ecclesiae Mediolanensis, I, p. 197: " Liber fiat, in quo singula diplomata, sive summorum
pontificum, sive imperatorum, sive regum principumve sint, quae ad Ecclesiae illius privilegia,
iura, aliave id generis quovis modo pertinent, recte atque ordine describantur. Qui liber, in armario
certo archivii loco, diligenter asservetur ". Vedere anche la citazione nella pagina precedente.
158
A. PALESTRA, San Carlo e gli archivi ecclesiastici milanesi, op. cit., p. 149: "Literae
apostolicae originales de facultatibus et privilegiis huius Ecclesiae vel archiepiscoporum et de
fundationibus, ordinationibus, et translationibus perpetuis magni momenti... recondantur in
archivio cancellarie loco tutiori sub tribus clavibus quarum altera sit penes archiepiscopum altera
penes cancellarium..."; " Acta et decreta conciliorum provincialium episcoporum et acta
dioecesana; tum decreta, constitutiones, reformationes... et etiam processus graviores in causa
iurisdictionis ecclesiasticae... sub eisdem tribus clavibus serventur ".
159
Archivistica ecclesiastica: problemi, strumenti, legislazione, op. cit., pp. 425-426.
93
mentre, nel caso delle chiese parrocchiali, un armadio apposito
dev'essere previsto per la conservazione esclusiva dei registri
parrocchiali; inoltre un'ulteriore distinzione veniva ad interessare il
materiale documentario normativo ed amministrativo di produzione ed
utilizzo corrente e le scritture legate alle faccende spirituali delle
chiese particolari come i compiti di cura delle anime, tutte distinzioni
qualitative da preservare anche nel caso in cui, per la limitatezza
quantitativa del materiale conservato, fosse possibile utilizzare un solo
armadio.
La custodia dei documenti, inoltre, doveva essere assicurata anche nel
periodo di sede vacante dopo la morte del vescovo di una diocesi, era
questo un momento assai delicato in cui l'assenza di una o più figure
individuate come responsabili nella conservazione dell'archivio
episcopale aveva spesso condotto al disordine ed alla trascuratezza se
non alla dispersione di materiale documentario.
A nulla sarebbero serviti, dunque, tutti i provvedimenti presi a favore
di un'ordinata amministrazione archivistica se non fossero state
previste misure atte a garantire la custodia dei documenti nel delicato
momento di trapasso da un'autorità episcopale ad un'altra; misure
tradotte in norme nel concilio provinciale del 1569:

"Cum primum aliquis huius provinciae episcopus mortem obierit,


archivii episcopalis clavis, notarii pubblici fide, una capituli vicario,
altera uni de capitulo, ad quem vel officii ratione vel consuetudine
pertinet, sique nemo talis est, alii antiquiori residenti tradatur; ab
eisdemque una et item altera asservetur, quoad alius episcopus
creabitur, cui illas restituant; et rationem de scriptis in inventario
notatis eorumque custodiae commissis eidem reddant"160.

Si formalizzava, quindi, la tradizione che vedeva alcuni membri del


capitolo occuparsi della custodia dell'archivio episcopale durante
l'assenza del vescovo, ma si connetteva questa funzione ausiliaria del
capitolo alla funzione certificatrice del notaio, che si esplicava nella
consegna delle chiavi dell'archivio episcopale, e dell'inventario in cui
erano registrati i documenti presenti nel suddetto archivio e che si
poneva come strumento di controllo, da parte del nuovo vescovo,
dell'efficacia della custodia effettuata nel periodo di sede vacante.
Altro aspetto qualificante dell'attività legislativa in ambito archivistico
promossa dal Borromeo fu l'individuazione di un quadro complessivo
delle tipologie documentarie da conservarsi negli archivi episcopali161
160
Acta Ecclesiae Mediolanensis, I, p. 79.
161
A. PALESTRA, San Carlo e gli archivi ecclesiastici milanesi, op. cit., p. 149-150. Sono
individuabili le seguenti tipologie: 1) bolle pontifice e lettere apostoliche sulle facoltà e privilegi
della chiesa diocesana; 2) atti e decreti dei concili provinciali e dei sinodi diocesani; 3)
94
deducibile dall'insieme delle norme emanate nelle occasioni conciliari
e nelle visite pastorali; questa individuazione tipologica costituì il
riferimento di base per le successive operazioni organizzative e
classificatorie attuate in diverse realtà ecclesiastiche e che
culminarono nella costituzione Maxima vigilantia del 1727 la cui
dettagliata istruzione in lingua italiana sulle scritture da riporsi negli
archivi aveva proprio nell'opera organizzativa di San Carlo Borromeo
il suo primo antecedente.
L'opera del Borromeo, dunque, come già si è avuto modo di dire, non
rimase confinata nell'ambito della sua giurisdizione provinciale di
Milano, peraltro piuttosto estesa162, ma si riverberò come esempio
anche in altre diocesi italiane e straniere, oltre che costituire un
riferimento importante per le disposizioni di ambito amministrativo e
archivistico della sede pontificia come dimostrava il caso del breve
Inter omnes emanato da Pio V nel 1565 e l'appena citata costituzione
Maxima vigilantia emanata quasi due secoli dopo da Benedetto XIII.
Lo stesso Borromeo così si espresse nel discorso fatto all’ultimo
sinodo da lui riunito nel 1584:

“Neminem vestrum latet quia nostra haec concilia, hae synodi, haec
decreta transgrediuntur maria, transvolant montes, penetrant
longinqua regna et provincias, intrant remotissimas civitates et a
gentibus quas nunquam agnovimus desiderantur, expetuntur,
recipiuntur et maximo cum fructu ipsi ea omnia quae hinc veniunt
complectuntur”163.

Comprendere, tuttavia, nel dettaglio l’effettiva portata dell’influenza


avuta dall’opera Borromaica sulla decretazione in ambito archivistico
degli altri vescovi italiani è un traguardo ancora da raggiungere.
In uno studio di Luciano Osbat sugli archivi diocesani164 si fa presente
che negli anni di svolgimento dei concili e sinodi milanesi presieduti
dal Borromeo, cioè tra il 1564 ed il 1584, si tennero in Italia
moltissimi sinodi diocesani e molti concili provinciali di cui,
soprattutto per i primi, manca una stima precisa e, di conseguenza,
un’edizione completa a causa della conservazione di molti testi in
forma manoscritta all’interno delle diverse serie di archivi diocesani

"instrumenta" ed inventari dei beni ecclesiastici; 4) inventari dei benefici ecclesiastici; 5) inventari
dei beni e dei legati dei luoghi pii; 6) processi civili e criminali; 7) processi di cause della Santa
Inquisizione; 8) professioni di fede e ordinazioni; 9) registri e libri della corrispondenza; 10)
registri sacramentali.
162
Nell'epoca di cui si parla la provincia ecclesiastica di Milano comprendeva diocesi
corrispondenti a città delle moderne regioni del Piemonte, Liguria e Lombardia.
163
Acta Ecclesiae Mediolanensis, II, p. 1431.
164
L. OSBAT, Dagli archivi episcopali agli archivi diocesani. La nascita e l’organizzazione degli
archivi diocesani in età moderna, Dispense per il corso di archivistica speciale, p. 8.
95
ancora da esplorare ed inventariare; ma, naturalmente, anche quando
si avranno edizioni complete di sinodi e concili resterà ancora tutta da
fare una ricerca specifica sulla costituzione ed organizzazione degli
archivi ecclesiastici così come appare riflessa dalle norme prodotte in
tale ambito.
Sebbene, dunque, manchi ancora allo stadio attuale delle ricerche un
quadro completo e dettagliato è comunque possibile affermare con
una certa sicurezza che il trentennio successivo alla conclusione del
Concilio di Trento fu un periodo decisivo nella definizione delle basi
teoriche, normative ed empiriche per lo sviluppo di sistemi archivistici
diocesani nel territorio italiano; in tale intervallo di tempo le modalità
organizzative degli archivi ecclesiastici nella provincia milanese
sancite dalla legislazione Borromaica giocarono certamente un ruolo
importante come testimoniano alcuni decreti emessi dopo il primo
concilio provinciale di Milano del 1565 e che fanno chiaro riferimento
alle disposizioni del Borromeo in merito agli archivi diocesani.
Il concilio provinciale di Ravenna del 1568 contiene alcuni riferimenti
all’archivio episcopale di cui si dice che può essere costituito
separatamente o in comune con il capitolo della cattedrale e che è
finalizzato alla raccolta di tutti gli “instrumenti” e delle altre scritture
afferenti al patrimonio ecclesiastico con l’obbligo conseguente di
restituzione della documentazione ecclesiastica e del suo versamento
nel suddetto archivio da parte dei detentori di tale materiale165.
Il concilio provinciale di Urbino del 1569 sancisce l’obbligo di
costituzione dell’archivio nelle chiese cattedrali e collegiate facendo
seguire un elenco delle tipologie documentarie che il vescovo deve
conservare in archivio166; in tale disposizione si riprende
integralmente l’obbligo di costituzione di archivi nelle cattedrali e
nelle collegiate già previsto dal Borromeo nel concilio provinciale
milanese del 1565 e successivamente esteso all’intero corpo ecclesiale
mediante la sua inclusione nel breve “Inter omnes” emanato dal
pontefice Pio V nel 1566.
La stessa prescrizione Borromaica è ripresa anche dal concilio
provinciale di Cosenza del 1579, nel quale, oltre all’obbligo di istituire
gli archivi, si fa riferimento anche alla necessità di redarre inventari
connessi alle proprietà ed ai negozi degli enti ecclesiastici della
diocesi167.
Interessanti sono, poi, le disposizioni del concilio provinciale di
Firenze del 1573168 in cui il riferimento all’archivio episcopale è
connesso al materiale documentario da ubicarvi in seguito alla
165
Ivi, p. 9.
166
Ivi.
167
Ivi, p. 10.
168
Ivi.
96
redazione da parte dei notai ai quali sono ingiunte una serie di
minuziose indicazioni sulle regole da osservare nella produzione del
suddetto materiale; si tratta di un’importante indicazione circa una
delle problematiche determinanti ai fini dello sviluppo effettivo degli
archivi diocesani, vale a dire il rapporto istituzionale tra la curia
diocesana ed i notai ivi impiegati.
Si è già fatto riferimento a tale problema nell’analisi delle disposizioni
archivistiche del Borromeo, laddove si è visto che l’arcivescovo di
Milano era riuscito a creare un sistema amministrativo di cui i notai
erano parte integrante e responsabili non solo della produzione, ma
anche della conservazione dei documenti nell’archivio proprio della
curia diocesana.
Si è anche detto, però, che tale soluzione era specifica solo di alcune
amministrazioni diocesane che, in taluni casi fin dal tardo medioevo,
erano riuscite gradatamente ad assimilare i notai al ruolo di funzionari
di curia soggetti all’autorità vescovile169; tuttavia, in tante altre diocesi
italiane, ancora nel corso nel cinquecento, la posizione dei notai
impiegati nelle curie permaneva in tutta la sua ambiguità, seppur
nominati dai vescovi non erano qualificabili come dipendenti in pianta
stabile della diocesi, ma rimanevano liberi professionisti quandanche
specializzati nella redazione di documenti interessanti le attività della
chiesa per cui rogavano, documenti che restavano, quindi, in loro
proprietà privata e che rappresentavano la fonte principale dei loro
introiti.
Dopo il Concilio di Trento ed il successivo sforzo di rendere effettiva
la riforma della Chiesa, i vescovi avvertirono sempre più la necessità
di disporre di archivi completi che concentrassero tutta la
documentazione utile al governo delle diocesi, di conseguenza si
rendeva indispensabile vincolare l’attività notarile all’amministrazione
diocesana tramite il versamento obbligatorio degli atti da loro
posseduti e di quelli da rogarsi in futuro.
Fu questo un processo riorganizzativo che interessò la generalità delle
amministrazioni diocesane italiane nel periodo a cavallo tra XVI e
XVII secolo e non è un caso, infatti, se la maggior densità del
materiale documentario presente a tutt’oggi negli archivi diocesani
data proprio a partire dal periodo summenzionato; non fu però una
trasformazione semplice dal momento che il cambiamento incideva
sulla fonte principale di guadagno dei notai oltre a mettere in
discussione consuetudini ed equilibri in atto da secoli.
Un caso esemplificativo utile alla comprensione del suddetto processo
riorganizzativo delle diocesi è proficuamente illustrato da Giuseppe
Galasso nella sua introduzione alla guida dell’Archivio storico

169
G. CHIRONI, La mitra e il calamo, op. cit.
97
diocesano di Napoli170 in cui la nascita stessa dell’archivio viene
riconnessa al mutamento di status della professione notarile legata
all’istituzione diocesana.
Il Galasso riferisce che, a seguito della conclusione dell’assise
Tridentina, la Curia Romana, volendo provvedere alle necessità di
disciplina e correzione delle prassi ecclesiastiche contrastanti con le
disposizioni stabilite nel Concilio, aveva incluso tra le sue priorità
anche l’ambito delle cancellerie e degli archivi in quanto
strategicamente rilevante ai fini del potenziamento delle autorità
ecclesiali.
In tale orientamento si inseriva la lettera di istruzioni del 26 agosto
1592 che la Congregazione dei Vescovi e dei Regolari aveva spedito
all’arcivescovo di Napoli con la prescrizione che: “i prelati non
abbiano d’affittare le cancellerie de i loro tribunali, ma quelle
debbono far esercitare da ministri proprii, da essi provisionati, senza
dar loro participatione alcuna degli emolumenti e proventi di essa”.
La motivazione esplicitata era che: “ i popoli habbiano da rimaner più
sicuri da esattioni indebite, e i poveri da conseguir più gratie di quelle
che ponno far loro gl’istessi affittuarii”. Si intendeva quindi da un
lato impedire la speculazione sia dei privati che degli ecclesiastici
mantenendo il costo degli atti curiali vescovili a livelli accettabili per i
non agiati, ma dall’altro, con la prescrizione di non affittare più gli
incarichi nella cancelleria curiale, si cercava di aumentare il controllo
del vescovo sulle attività notarili e sulla relativa produzione
documentaria171.
In conseguenza di tale disposizione l’arcivescovo, nell’aprile 1593,
provvide a rescindere le concessioni in vigore con i dieci notai che
prestavano servizio presso la curia, il loro status mutava da proprietari
dell’ufficio curiale, acquistato in virtù degli utili che l’ufficio
consentiva, a dipendenti diretti dell’arcivescovo con compenso fisso
prestabilito.
Il mutamento di condizione, però, non fu ben accolto dai notai che
presentarono ricorso alla Congregazione dei Vescovi e dei Regolari
con il benestare dello stesso Arcivescovo che vedeva con
preoccupazione tale cambiamento, le prassi amministrative del tempo,
infatti, consideravano una soluzione accettabile la venalità degli uffici
con la loro conseguente riduzione a proprietà privata a beneficio degli
appaltatori, tale fenomeno interessava tutte le comunità politiche sia
laiche che ecclesiastiche ed era particolarmente diffuso in grandi
monarchie come la Francia e la Spagna.
170
G. GALASSO, Introduzione. Origini e vicende dell’Archivio storico diocesano di Napoli, in
L’Archivio storico diocesano di Napoli. Guida, a cura di G. GALASSO, C. RUSSO, 2 voll.,
Guida editori, Napoli, 1978, pp. V-LI.
171
Ivi, pp. IX-X.
98
Napoli non faceva certamente eccezione in tale quadro con la sua
pletorica burocrazia che dava lavoro ad un numero assai cospicuo di
professionisti del diritto, costituivano questi un ceto alto-borghese di
notevole importanza negli equilibri sociali dello Stato napoletano e la
vendita degli uffici della Curia diocesana permetteva alla Chiesa di
legare a sé gruppi significativi di questa borghesia agiata e di
consolidare, quindi, la sua integrazione ed influenza all’interno della
società napoletana172.
Tuttavia l’idea di Chiesa scaturita dal Concilio di Trento era
inconciliabile con le prassi che portavano alla privatizzazione delle
sue strutture amministrative, al contrario, ai fini dell’attuazione dello
spirito Tridentino, era necessario seguire l’orientamento opposto volto
ad un deciso accentramento politico e burocratico che aumentasse il
controllo delle gerarchie ecclesiali sul governo locale e periferico
della Chiesa, spezzando in via definitiva tutti i legami con gli elementi
esterni che erano cresciuti sul suo corpo in maniera parassitaria e
privilegiata e che avevano portato ad un eccessivo rilassamento
morale della Chiesa pre-Tridentina173.
Tali considerazioni, quindi, condussero la Congregazione dei Vescovi
e dei Regolari a dare un responso sfavorevole al ricorso intentato dai
notai della Curia diocesana di Napoli, anzi, il nuovo orientamento fu
ulteriormente chiarito da altre disposizioni concernenti l’ambito
organizzativo diocesano; nel 1595 Roma inviava all’Arcivescovo di
Napoli una nuova disposizione con cui lo si invitava a: “ ridurre tutti
li atti et scritture de qualunque sorte se siano fatte et da famosi in
detti officij sotto la cura de un cancelliero et mastro de atti solo, da
eligersi, habile et sufficiente per un carico cossì grande, al quale si
debbia fare…la concessione di detto officio di cancelliero et mastro
d’atti del suo tribunale in vita d’esso detto, doppo la cui morte resti
l’officio sopradetto per l’Arcivescovo ch’allora sarà, che lo facci
esercitare da una o più persone a nuto amovibile, senza titolo d’affitto
o di vendita”174.
Un’ulteriore disposizione della Congregazione dei Vescovi e dei
Regolari dell’8 marzo 1598 stabilì l’obbligo per il cancelliere della
Curia napoletana di: “ sempre mantenere nel tribunale dodici
sottonotarj, o siano scrivani, dè quali alcuni fussero clerici, da
eligersi e pagarsi da esso mastrodatti ed approvarsi dall’
Arcivescovo…”; fu inoltre disposto che: “ tutte le scritture, atti e

172
Sulla pratica della venalità degli uffici nel Mezzogiorno d’Italia e in altri stati del tempo si
consiglia: A. MUSI, Mezzogiorno spagnolo. La via napoletana allo stato moderno, Guida editori,
Napoli, 1991.
173
G. GALASSO, Introduzione. Origini e vicende dell’Archivio storico diocesano di Napoli, op.
cit., pp. XI-XII.
174
Ivi, p. XIV.
99
processi dell’Arcivescovil Curia si riponessero e custodissero nelle
stanze particolari a tal effetto destinate dall’Em.mo Arcivescovo”175.
Pochi mesi prima della ricezione di quest’ultima disposizione da
Roma, l’Arcivescovo di Napoli aveva già stabilito un precedente
fondamentale per le sorti dell’archivio diocesano obbligando il
cancelliere, che si era deciso di esautorare per sopravvenuti contrasti,
a restituire tutte le scritture pertinenti alla sua attività in Curia, anche
quelle prodotte dagli altri notai curiali che gli furono consegnate al
momento della sua assunzione in carico della cancelleria, la consegna
del materiale andava fatta ad apposito personale deputato
dall’Arcivescovo a riceverlo ed a riporlo in una camera sopra la
sacrestia del Palazzo Arcivescovile176.
Si tratta di una svolta decisiva con cui si stabilisce definitivamente che
la proprietà del materiale documentario prodotto dai notai di curia è
appannaggio della Chiesa napoletana e non più del singolo notaio o
cancelliere, questi, anzi, sono responsabili della sua regolare tenuta e
conservazione in luoghi appositi al fine di costituire uno specifico
archivio diocesano.
Il caso napoletano è, quindi, indicativo della fase finale di un processo
evolutivo della consapevolezza amministrativa e archivistica che
iniziato nel tardo medioevo da parte di alcune realtà ecclesiastiche
locali con la lenta e progressiva assimilazione del personale notarile
nei loro apparati burocratici e con l’adeguamento empirico delle
tecniche di produzione e conservazione documentaria alle necessità di
governo ecclesiale, si concludeva, infine, nel segno della riforma
Tridentina che acuiva la sensibilità delle gerarchie ecclesiastiche nei
confronti delle modalità di governo delle chiese locali; ad una gestione
più autonoma ed empirica si preferiva un governo più forte del
vescovo che favorisse il controllo sull’intero corpo ecclesiale da parte
del suo vertice, il pontefice di Roma.
In un tale sforzo di accentramento amministrativo l’ambito della
produzione e conservazione documentaria giocava un ruolo strategico
di primaria importanza, era impensabile, infatti, un’efficace azione di
governo ecclesiale senza la disponibilità completa dei documenti che
una tale azione contribuivano a porre in atto, gli archivi, dunque,
dovevano essere completi e di indiscutibile proprietà ecclesiastica.
Perciò, negli anni compresi tra la conclusione del Concilio di Trento e
la fine del secolo, nella maggior parte delle diocesi italiane si vennero
costituendo quegli adeguamenti amministrativi necessari alla
formazione degli archivi diocesani, non è casuale, infatti, se nei
medesimi archivi la documentazione preponderante inizi proprio dalla

175
Ivi, pp. XXVI-XXVII.
176
Ivi, p. XXIV.
100
seconda metà del XVI secolo, mentre è molto più scarso il materiale
documentario di epoca medioevale; questo fatto ha generato tra gli
studiosi una sorta di “legenda ignea”177 secondo cui i documenti più
antichi degli archivi diocesani sarebbero così scarsi in proporzione a
quelli conservati dalle istituzioni laiche a causa di vari disastri e
calamità che ne hanno cagionato la distruzione.
In realtà le cause di questa sproporzione si sono già ravvisate nelle
differenze di gestione amministrativa e archivistica che
caratterizzavano la maggior parte delle istituzioni diocesane
medioevali da quelle di epoca post-Tridentina e che hanno condotto ad
una trasformazione dell’archivio da archivio “thesaurus” formato da
un limitato insieme di scritture selezionate per la loro importanza ad
un complesso archivistico di “sedimentazione” costituito dalla totalità
della documentazione prodotta dagli uffici di Curia.

8) La riforma della Curia romana e l’istituzione dell’Archivio


Segreto Vaticano

Il Concilio di Trento aveva riaffermato il patrimonio dottrinale e la


struttura istituzionale della Chiesa cattolica come elementi
imprescindibili per l’esistenza stessa della Chiesa, si veniva così a
perfezionare quel processo ecclesiologico iniziato con la riforma
Gregoriana dell’XI secolo che tendeva all’assimilazione sempre più
esclusiva del concetto di Chiesa con le sue strutture giuridico-
istituzionali.
In opposizione, quindi, alle comunità riformate secondo lo spirito
Luterano-Calvinista che desideravano tornare ad un’ecclesiologia più
semplice che ricalcasse l’idea Agostiniana di Chiesa come corpo
mistico di tutti i fedeli in Dio, il Cattolicesimo difendeva il percorso
che aveva portato la Chiesa a farsi societas perfecta, con un suo diritto
autonomo e sue strutture gerarchiche totalmente indipendenti da altre
autorità, un vero e proprio ordinamento parallelo considerato come
l’unico baluardo possibile per la difesa della retta dottrina cristiana
contro i rischi di dissoluzione causati dalle eresie.
Ma la Chiesa cattolica si riconosceva non soltanto nei complessi
apparati giuridico-istituzionali, bensì, soprattutto nel suo indiscutibile
vertice, il Sommo pontefice, concepito ormai come elemento

177
G. CHIRONI, La mitra e il calamo, op. cit., p. 57.
101
discriminante della cattolicità; il più famoso teologo cattolico del
tempo, il cardinale gesuita Roberto Bellarmino178, definiva la Chiesa
come comunità di tutti i cristiani battezzati che credono nella legge di
Gesù Cristo e riconoscono come suo vicario in terra il vescovo di
Roma.
I papi, quindi, rappresentavano ben più che l’equivalente di figure
monarchiche nell’ordinamento ecclesiastico, ma si sostanziavano
come elementi portanti dell’intero edificio cattolico, a loro è
demandato il governo di tutto il complesso di strutture giuridiche,
dottrinali e personali che danno forma alla Chiesa; non stupisce,
dunque, che l’opera conciliare tridentina, malgrado la sua principale
finalizzazione al rafforzamento delle chiese locali179, fosse avocata
nella sua realizzazione ed interpretazione ad un’esclusiva competenza
papale.
Nell’intento di operare un’applicazione dei decreti conciliari che
rafforzasse il controllo di Roma sulle chiese locali, i pontefici
provvidero alla creazione di un apposito strumento istituzionale, la
Congregazione del Concilio, istituita da Pio IV nel 1564 e finalizzata a
fornire responsi circa l’interpretazione autentica dei decreti tridentini,
tale facoltà era suo appannaggio esclusivo dal momento che, con la
bolla Benedictus Deus, il papa aveva contemporaneamente fatto
divieto di pubblicare glosse e commenti dei decreti conciliari.
L’obiettivo di queste determinazioni era di evitare il più possibile una
pericolosa contrapposizione tra concilio ed autorità papale proprio nel
momento di massimo sforzo della Chiesa di ricondurre all’unità i
propri fedeli nel segno di un rinnovato accentramento dell’autorità a
beneficio di Roma.
A ciò si mirava non soltanto tramite il monopolio interpretativo dei
decreti conciliari, ma anche attraverso un più serrato controllo
dell’operato dei vescovi; con la costituzione Romanus Pontifex,
emanata da Sisto V nel 1585, ogni vescovo era tenuto a presentare a
Roma, a scadenze periodiche, un rapporto sullo stato della diocesi di
cui era responsabile; queste visite materializzavano in maniera
effettiva le facoltà di intervento e controllo dei papi e della Curia
romana sulle realtà ecclesiastiche locali e rappresentavano, inoltre,
momenti assai significativi sul piano simbolico della percezione
ecclesiologica, difatti in queste occasioni tutte le chiese locali si

178
Sulla figura ed il pensiero di questo importante esponente della cultura cattolica si consiglia: F.
MOTTA, Bellarmino. Una teologia politica della controriforma, Morcelliana, 2005.
179
Sul tema dell’interpretazione del Concilio di Trento è ancora oggi imprescindibile l’opera di
Paolo Sarpi: P. SARPI, Istoria del Concilio Tridentino, Einaudi, 1997.
102
riconoscevano nell’unità e nella collaborazione con il centro della
Chiesa a Roma180.
Roma, quindi, era il centro di coordinamento di tutta l’immensa
struttura ecclesiastica, oltre che la capitale di uno stato sovrano quale
quello della Chiesa, in questa sede proliferavano gli organi
amministrativi deputati a collegare il cuore pulsante dell’ordinamento
ecclesiale con tutte le sue parti periferiche.
Il complesso di questi organi costituiva l’apparato burocratico più
intricato d’Europa, la Curia romana che, finalizzata a coadiuvare il
pontefice nell’esercizio delle sue amplissime funzioni spirituali e
temporali, aveva visto incrementarsi enormemente la sua struttura nel
corso del medioevo; si ricorderà che già ai tempi di Innocenzo III le
fondamenta dell’apparato curiale costituite dal concistoro cardinalizio,
dalla cancelleria e dalla camera apostolica furono ampliate nelle
competenze ed arricchite in complessità, ma a tale struttura già
imponente si aggiunsero nel corso del trecento e del quattrocento altri
uffici e dicasteri.
Tra questi è bene ricordare l’istituzione di autonomi tribunali
ecclesiastici come la Sacra Rota Romana181, la Dataria Apostolica182 e
la Segnatura Apostolica183: la Dataria, il cui nome deriva dalla
funzione di apporre la data sulle grazie richieste al papa, comprendeva
tra le sue competenze il delicato conferimento dei benefici non
concistoriali, introducendo, così, una sorta di “riserva apostolica” su
tali benefici ed interferendo con gli ordinari diocesani nel meccanismo
della provvista beneficiale; la Segnatura Apostolica originava dalla
funzione dei referendari, ufficiali di curia deputati alla ricezione delle
suppliche per poi riferirne al papa, nel corso del trecento, con il
vertiginoso aumentare della corrispondenza destinata ai papi, l’ufficio
vide accrescersi la sua importanza ed i suoi componenti assunsero il
ruolo di speciali consiglieri del papa con la facoltà di signare in suo
nome le auppliche decretandone l’approvazione.
La posizione centrale per importanza tra questi tribunali era occupata
dalla Sacra Rota romana il cui nome, rota, apparve nei documenti solo
nel tardo trecento, in pieno scisma d’occidente, ma le cui origini erano
più antiche risalendo al collegio dell’Audientia Sacri Palatii; questo
collegio fu formato nel corso del duecento come tribunale fisso con il
compito di dirimere in appello tutte le cause civili di giurisdizione

180
G. FILORAMO, D. MENOZZI, a cura di, Storia del Cristianesimo. L’età moderna, Laterza,
pp. 184-185.
181
G. BONDINI, Del tribunale della Sacra Rota Romana, Libreria Editrice Vaticana, 2008.
182
N. STORTI, La storia e il diritto della Dataria apostolica dalle origini ai nostri giorni,
Napoli, 1969.
183
V. CÁRCEL ORTÍ, Il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica. Cenni storici, in Dilexit
iustitiam. Studia in honorem Aurelii card. Sabattani, a cura di Z. GROCHOLEWSKI, V.
CÁRCEL ORTÍ, Città del Vaticano, 1984, pp. 168-195
103
ecclesiastica, in seguito questo tribunale vide l’incremento dei suoi
auditores ed un consolidamento della sua importanza fino a diventare
in età moderna il tribunale di riferimento dell’apparato ecclesiale.
E’ su tale apparato burocratico che si innestarono nel corso del
cinquecento nuove linee di tendenza riformatrice volte, almeno
teoricamente, ad un adeguamento delle istituzioni e degli uffici al
processo di accentramento dei poteri nella figura papale e, quindi, ad
una sua azione più efficace nell’opera di direzione della macchina di
governo della Chiesa e dello Stato Pontificio.
E’ parte di questo processo il progressivo ridimensionamento dei
poteri del Sacro Collegio cardinalizio unito ad una riduzione delle
competenze del Concistoro riallocate presso altri uffici, al ruolo
determinante del Collegio cardinalizio nel governo della Chiesa così
come si era esplicato nel medioevo si sostituiva un governo papale
accentrato sulla figura del pontefice e fondato su un nucleo ristretto di
cardinali palatini, spesso scelti tra i suoi parenti o comunque tra
persone di assoluta fiducia.
Se diminuì per il peso complessivo sulla capacità di direzione della
Chiesa, il ruolo dei cardinali, nel corso del cinquecento, si concentrò
in funzioni più specificamente consultive ed informative legate
soprattutto all’attività di nuove strutture istituzionali, le congregazioni,
che da organi consultivi di durata temporanea si trasformarono in
permanenti.
Tutte queste tendenze di trasformazione della Curia Romana184
culminarono nella grande opera riorganizzatrice di Sisto V che, con la
bolla Immensa aeterni Dei del 1588, esautorò l’antico organo del
Concistoro sostituendolo con un sistema di congregazioni permanenti,
non si trattò, comunque, di una ristrutturazione generale della corte
pontificia in quanto molti vecchi uffici continuarono la loro esistenza
accanto ai nuovi, la riforma era finalizzata soprattutto a modernizzare
l’amministrazione pontificia rendendola più razionale ed efficace.
Questo obiettivo era affidato in particolare al nuovo sistema di
congregazioni permanenti che, nel suo impianto sostanziale, rimarrà
inalterato insieme al complesso di uffici e tribunali fino al 1870, data
che segna il termine dell’esperienza storica dello Stato Pontificio.
Le congregazioni, formate da collegi da tre a sei cardinali, erano
organi con competenze specifiche sulla molteplicità di materie inerenti
il governo spirituale della Chiesa e quello temporale dello Stato
Pontificio, nella riforma di Sisto V ne furono previste nove per

184
Sulle riorganizzazioni amministrative della Curia Romana si rimanda a: A. M. STICKLER, Le
riforme della curia nella storia della Chiesa, in La curia romana nella Costituzione Apostolica
“Pastor Bonus”, a cura di P. A. BONNET, C. GULLO, Città del Vaticano, 1990.
104
l’ambito spirituale e sei per quello temporale, altre se ne aggiunsero
nel corso del seicento.
Alcune congregazioni svolsero un ruolo di assoluta centralità nella
storia della Chiesa moderna, si è già parlato in precedenza della
Congregazione dei Vescovi e dei Regolari e di quella del Concilio,
ambedue preposte al delicato compito di vegliare sull’attuazione dei
deliberati tridentini e, particolarmente la prima, di coordinare ruoli e
competenze tra le varie chiese locali ed il papato, ma la congregazione
più importante e famosa fu anche la prima ad essere eretta, nel 1542
da Paolo III, con lo scopo di combattere l’eresia e difendere
l’ortodossia dottrinale e con il nome di Santa Romana Inquisizione o
Sant’Ufficio185; all’Inquisizione fu poi affiancata un’altra
congregazione ad essa complementare per finalità, la Congregazione
dell’Indice, istituita da Pio V nel 1571 con il compito di tenere
aggiornato periodicamente l’indice dei libri proibiti186.
La riforma della Curia romana operata da Sisto V se riuscì a
consolidare la posizione centrale dell’autorità pontificia in seno alla
Chiesa, tuttavia non conseguì un’ effettiva razionalizzazione
dell’attività amministrativa che rimarrà sempre afflitta da una
particolare lentezza e farraginosità; l’apparato curiale, infatti, si
presentava come un sistema assai complicato a causa della
molteplicità di funzioni da assolvere sia nel governo dello Stato
Pontificio che in quello della Chiesa, un compito veramente gravoso
considerata la vastità degli interessi ecclesiastici allargatisi all’intero
mondo, oltretutto il sistema era appesantito dall’assenza di un preciso
quadro di definizione delle competenze, vecchi e nuovi organi
coesistevano senza chiarire mai completamente l’ambito di azione con
il risultato di sovrapporsi ed incrociarsi a vicenda come accadeva
sovente tra l’attività di alcune congregazioni a cui erano attribuiti
poteri giudiziari (Sant’Ufficio, Vescovi e Regolari, Concilio) e quella
dei tribunali di Curia con un conseguente rallentamento di tutte le
attività giudiziarie187.
Un altro problema che influiva negativamente sul funzionamento
dell’amministrazione curiale riguardava proprio l’argomento centrale
del nostro discorso, ossia l’organizzazione archivistica.
Per la verità il tema della gestione e conservazione dei documenti si
era accresciuto nella considerazione dei pontefici soprattutto a partire

185
Sull’Inquisizione in età moderna la bibliografia è vastissima, tra le pubblicazioni più recenti si
consigliano: A. PROSPERI, Tribunali della coscienza. Inquisistori, confessori, missionari,
Einaudi, 1996; A. PROSPERI, L’inquisizione romana. Letture e ricerche, Storia e Letteratura,
2003; G. ROMEO, L’Inquisizione nell’Italia moderna, Laterza, 2002.
186
Sull’Indice si rimanda a: V. FRAJESE, Nascita dell’Indice. La censura ecclesiastica dal
Rinascimento alla Controriforma, Morcelliana, 2006; H. WOLF, Storia dell’Indice.Il Vaticano e i
libri proibiti, Donzelli, 2006.
187
C. FANTAPPIE’, Introduzione storica al diritto canonico, op. cit., pp. 162-166.
105
dalla seconda metà del cinquecento, non a caso il periodo segnato
dall’attività post-conciliare, fino ad approdare alla costituzione di un
archivio centrale della corte pontificia, l’Archivio Segreto Vaticano,
nella prima decade del seicento; il processo che condusse alla sua
nascita, così come quello che lo rese sul piano effettivo l’archivio di
concentrazione più importante della Chiesa, fu, però, assai lento ed
accidentato, costellato di tutta una serie di tentativi falliti o parziali e
ciò a causa di una serie di problematiche che saranno di seguito
approfondite.
In primo luogo è da considerarsi l’enorme quantità di materiale
documentario prodotto ed accumulatosi in via crescente nei diversi
uffici della Curia, già a partire dal pontificato di Innocenzo III la corte
papale si venne configurando come un centro politico di straordinaria
rilevanza per il suo carattere di fulcro di un ordinamento
sovranazionale qual’era quello ecclesiastico, ne è derivato, in
conseguenza di ciò, un grandissimo incremento della documentazione
ricevuta e prodotta, connessa alla vastità di interessi abbracciante ogni
ambito della vita politica e sociale in cui era immersa la Chiesa per
gran parte d’Europa; la gran mole di attività da svolgersi sia nel
governo spirituale che temporale della Chiesa rese necessario il
proliferare di nuove istituzioni ed uffici, ciascuno produttore e
recettore di documenti il cui destino, generalmente, era di rimanere
confinati nella sede dell’ufficio stesso a cui appartenevano.
Le difficoltà di concepire una gestione unitaria di questa grande mole
di materiale documentario appartenente a diversi ambiti del governo
ecclesiastico e prodottasi in uffici separati di un apparato curiale
sempre più ipertrofico quanto complicato nel funzionamento, si
congiungevano alle problematiche insite nelle modalità stesse del
governo papale, i pontefici, infatti, come tutte le autorità del periodo
medioevale, per assicurare l’effettività della loro azione politica,
governavano attraverso una corte itinerante, in continuo spostamento
da una città all’altra del dominio pontificio, ma, naturalmente, lo
spostamento della corte papale significava anche il relativo
trasferimento di beni ed oggetti appartenenti ai papi e, tra questi,
soprattutto il materiale librario e documentario indispensabile
all’attività di governo.
I documenti di volta in volta trasferitisi con la corte papale vennero a
costituire i cosiddetti “archivi viatorii”, di consistenza variabile, ma, in
accordo con quanto affermato da Casanova188, costituenti solo una
parte assai limitata dell’intera produzione archivistica della Curia
pontificia, per lo più copie di atti e registri legati all’attività del
pontefice in carica e dei suoi più immediati predecessori.

188
E. CASANOVA, Archivistica, op.cit., pp. 314-317.
106
Anche così, tuttavia, i continui trasferimenti della corte papale e di
una parte, seppur minoritaria, dei suoi archivi189, non giovarono
certamente ad una gestione più coesa e razionale dell’intero
complesso documentario giacente nei diversi uffici della Curia a
Roma; ancor meno favorirono un assetto unitario dei fondi archivistici
pontifici le vicende che ebbero luogo ai primi del trecento e che
condussero al trasferimento della Corte papale nella città francese di
Avignone.
In questa sede si costituirono nuovi fondi archivistici connessi
all’attività sempre più vasta di una Curia papale in costante
incremento di dimensioni e di complessità nel funzionamento, al
materiale prodottosi ex novo nella sede avignonese si aggiunsero, in
diversi periodi, altri fondi documentari conservati nelle città dei
domini pontifici, soprattutto Perugia ed Assisi dove, come già si è
detto, erano soliti soggiornare i papi con il loro tesoro comprendente,
tra le altre cose, registri e documenti sia in originale che in copia;
tuttavia, all’accrescersi della documentazione della Curia papale
avignonese ed al suo riconfigurarsi in nuove forme e tipologie
corrispondenti agli uffici di recente istituzione, faceva da contraltare
lo stato di abbandono in cui versarono per anni i fondi archivistici
rimasti a Roma, orfani della Curia pontificia e soggetti alle più diverse
cause di rovina e dispersione190.
Conseguenze ancor più problematiche per lo stato degli archivi
pontifici derivarono dal successivo ritorno di papa Gregorio XI a
Roma nel 1377, con la sua morte avvenuta l’anno seguente si aprì una
spaccatura nel collegio cardinalizio destinata a provocare una
disastrosa scissione nel governo ecclesiastico passata alla storia come
grande scisma d’occidente.
Conseguenza del conflitto in seno al collegio dei cardinali fu
l’esistenza parallela di due linee pontificali, una con sede a Roma
legata all’immediato successore di Gregorio XI, Urbano VI, si
sviluppò con una propria struttura curiale a cui era connesso un nuovo
nucleo archivistico, l’altra, derivante dalla ribellione di parte del
189
Tra i vari trasferimenti dei pontefici con il loro tesoro sono rimaste alcune tracce documentate
di materiale archivistico condotto in diverse località: al concilio di Lione nel 1245 il papa
Innocenzo IV portò con sé una serie di importanti privilegi emanati da imperatori e re a favore
della Chiesa di Roma, di questo materiale fece fare alcune copie su rotoli di pergamena; nel 1303,
durante il soggiorno del papa Bonifacio VIII ad Anagni, una parte dell’archivio fu probabilmente
vittima di saccheggio; nel 1304 Benedetto XI fece trasportare il tesoro a Perugia dove fu fatto un
inventario comprendente anche materiale archivistico, questo materiale rimase in gran parte a
Perugia fino al 1312 quando fu trasferito ad Assisi, da qui, dopo varie traversie, fu finalmente
trasportato nella nuova sede papale ad Avignone tra il 1339 e il 1342. Un resoconto più dettagliato
sulle vicende degli “archivi viatori” papali si può trovare in: H. BRESSLAU, Manuale di
diplomatica per la Germania e l’Italia, op.cit., pp. 142-146; altro interessante riferimento è: R.
VOLPINI, Per l’archivio pontificio tra XII e XIII secolo: i resti dell’archivio dei papi ad Anagni,
in “Rivista di Storia della Chiesa in Italia”, 37 (1983), pp. 366-405.
190
E. CASANOVA, Archivistica, op.cit., p. 316.
107
collegio cardinalizio al pontificato di Urbano VI, scaturì dall’elezione
di un altro papa, il francese Clemente VII, che pose la sua residenza
ad Avignone continuando così ad accrescere di nuovo materiale
documentario i fondi archivistici curiali che vi si trovavano dai primi
del trecento, periodo iniziale del cosiddetto esilio avignonese.
Tale situazione, già alquanto problematica, subì un ulteriore, grottesco
peggioramento dopo il Concilio di Pisa del 1409 che, convocato per
trovare una via d’uscita dallo scisma, portò, invece, all’elezione di un
altro papa, Alessandro V, a cui successe dopo pochi mesi Giovanni
XXIII; per alcuni anni, quindi, si ebbero tre papi e tre “obbedienze”,
ciascuno con un proprio apparato curiale ed una connessa produzione
e gestione documentaria, si può facilmente immaginare, perciò, lo
stato di confusione a cui fu soggetto il patrimonio archivistico papale
in questo periodo tormentato della storia della Chiesa191.
Lo scisma ebbe termine con l’elezione di Martino V al Concilio di
Costanza nel 1417, il nuovo ed unico papa fissò definitivamente la sua
residenza a Roma dove iniziò il lungo e complicato processo di
ricomposizione e riorganizzazione dei fondi archivistici pontifici
dislocati in diverse sedi.
In primo luogo con la ripresa di un’ordinaria attività di governo
ecclesiastico legata ad un’unica sede papale, i vari uffici curiali
tornarono a dispiegare con pienezza le proprie funzioni producendo
materiale documentario e disponendo di propri archivi, sembra,
inoltre, che alcune tipologie documentarie di varia provenienza, forse
anche avignonese, come registri di bolle e di suppliche, fossero
provvisoriamente conservati nel convento domenicano di Santa Maria
sopra Minerva per poi essere trasferiti nel nuovo palazzo apostolico
dove, con ogni probabibilità, si conservava il materiale documentario
più recente di diretta derivazione dall’attività pontificia192; fu solo a
partire dal pontificato di Eugenio IV che iniziò seriamente il
progressivo trasferimento a Roma dei fondi archivistici conservati ad
Avignone, nel 1441 fu dato incarico a due commissari di recuperare
tutto ciò che era possibile rinvenire, ma il processo di recupero era
destinato a durare secoli, bisognerà attendere il 1566 per vedere riuniti
a Roma la gran parte dei registri in pergamena grazie all’ordine di
papa Pio V, per il restante materiale, soprattutto i registri cartacei, sarà
necessaria un’ulteriore attesa di due secoli fino al 1784 quando,
finalmente, ebbe termine il lunghissimo processo di riunificazione dei
fondi archivistici avignonesi con gli altri archivi pontifici conservati a
Roma193.
191
T. NATALINI, Profilo storico, in Archivio Segreto Vaticano. Profilo storico e silloge
documentaria, Edizioni Polistampa, Firenze, 2000, pp. 14-15.
192
Ivi, p. 15
193
H. BRESSLAU, Manuale di diplomatica per la Germania e l’Italia, op. cit., pp. 145-146.
108
Dopo questo periodo, collocato nel quattrocento iniziale e centrale, in
cui la Curia papale, dopo la fase avignonese e il tormentato scisma
d’occidente, tentava di ridefinire faticosamente le sue funzioni e le sue
modalità amministrative riorganizzando in maniera prevedibilmente
discontinua e provvisoria le sue memorie documentarie, venne a
situarsi con il pontificato di Sisto IV un momento assai rilevante nella
riconfigurazione in senso più moderno sia dell’ambito urbanistico
della sede del governo pontificio, quella città di Roma assai decaduta
durante i secoli tardi del medioevo e riportata alla dignità di una sede
sovrana inserendola in pieno clima rinascimentale194, sia dell’ambito
culturale di cui sono aspetti centrali, ai fini del nostro tema, le attività
intraprese nella più vasta opera di riorganizzazione del patrimonio
librario ed archivistico pontificio dai tempi di Innocenzo III.
Da sempre i papi ponevano particolare cura nella raccolta e custodia
di opere in diverse lingue, parte eminente del tesoro pontificio ed in
quanto tale destinata ad essere trasportata nelle varie sedi di volta in
volta elette ad accogliere i papi, la loro finalità precipua, similmente al
materiale archivistico, era di fungere da autorità e sostegno nelle
determinazioni di ambito dottrinale, giuridico e politico che
scandivano quotidianamente il governo della Chiesa.
Dopo il ritorno dei pontefici a Roma ed il superamento della
confusione scismatica lo stato del patrimonio librario, allo stesso
modo di quello archivistico, non era dei migliori, depauperato e
disperso nel corso dei trasferimenti di sede della corte pontificia tra
duecento e primo quattrocento, verso la metà di quest’ultimo secolo,
tuttavia, il vento della cultura umanistica contagiò anche alcuni papi
favorendo un interesse decisamente maggiore verso le attività di
studio e di riflessione sulle opere antiche insieme ad una connessa
passione per il reperimento e la conservazione attenta di codici
contenenti tali opere195.
Fu, in particolare, il pontefice Nicolò V (1447-1455) ad operare più
attivamente in tal senso, incrementando in maniera cospicua il
patrimonio librario papale dai 350 codici disponibili al momento della
sua elezione fino ai 1200 circa presenti al tempo della sua morte,
inoltre, cosa innovativa per quei tempi, ne permise l’apertura alla
consultazione ed allo studio degli eruditi; quest’opera meritoria fu
successivamente portata ad un grado di perfezionamento decisamente

194
Sul contributo di Sisto IV al rinnovamento artistico della città di Roma: Sisto IV. Le arti a
Roma nel primo Rinascimento, a cura di F. BENZI, C. CRESCENTINI, Shakespeare and
Company 2, 2000.
195
Sulla cultura umanistica nella Roma del quattrocento si consigliano: A. M. CORBO, Pio II
Piccolomini un papa umanista (1458-1464), Edilazio, 2002; La Roma di Leon Battista Alberti.
Architetti e umanisti alla scoperta dell’antico nella città del quattrocento, a cura di F. P. FIORE,
Skira, 2005; Il 400 a Roma. La rinascita delle arti da Donatello a Perugino, a cura di, M.
BUSSAGLI, M. G. BERNARDINI, Skira, 2008.
109
più ambizioso da papa Sisto IV (1471-1484) che volle occuparsi
dell’intero assetto documentario della Curia interessandosi sia al
materiale librario che a quello archivistico, se il suo predecessore
Nicolò V aveva posto le basi materiali per la nascita della futura
Biblioteca Apostolica Vaticana196, Sisto IV ne fu il vero fondatore sul
piano giuridico-istituzionale tramite l’emissione della bolla Ad
decorem militantis ecclesiae del 15 giugno 1475197 con la quale si
provvide al necessario sostegno economico, al reperimento di una
sede ed alla nomina di un bibliotecario198.
La sede di questa nuova istituzione fu ubicata al pianterreno del
palazzo di Niccolò V e fu suddivisa in quattro aule deputate alla
conservazione di materiale diverso per contenuto e tipologia: due di
queste stanze costituivano la cosiddetta bibliotheca publica o
communis ed erano rispettivamente indicate con la denominazione di
bibliotheca latina e bibliotheca graeca, chiaramente destinate alla
conservazione separata di codici in lingua latina e greca così come era
in uso anche nell’antichità romana; una terza stanza era denominata
bibliotheca secreta in quanto finalizzata alla conservazione di
materiale librario particolarmente prezioso che si voleva escludere
dalla consultazione pubblica e riservare unicamente ai pontefici, non è
da escludere, inoltre, anche la presenza di materiale archivistico,
tuttavia, tale materiale fu riposto principalmente in una quarta stanza,
la bibliotheca nova pontificia, aggiunta nel 1480 con il proposito di
riunire la documentazione archivistica di produzione pontificia come i
registri contenenti bolle e privilegi papali199.
Questo nuovo assetto che concentrava in sezioni separate materiale
bibliografico ed archivistico è di notevole importanza nel processo di
acquisizione da parte delle gerarchie ecclesiastiche di una cultura
archivistica più moderna; si è già più volte detto dell’ambigua osmosi
concettuale che ha interessato le scritture ecclesiastiche di natura
archivistica e bibliografica fin dall’antichità e che è perdurata anche
nel periodo medievale, biblioteca ed archivio facevano parte del tesoro
pontificio, così come ,nelle chiese particolari, costituivano il tesoro di

196
Per una sinteticaconoscenza delle vicissitudini storiche della Biblioteca Vaticana e del suo
contenuto si possono consultare: P. DE NICOLO’, Profilo storico della Biblioteca Apostolica
Vaticana, in Biblioteca Apostolica Vaticana, Nardini, Firenze, 1985; Quinto centenario della
Biblioteca Apostolica Vaticana (1475-1975). Catalogo della Mostra, Biblioteca Apostolica
Vaticana, 1975.
197
Testo e modifiche della bolla si possono trovare in J. RUYSSCHAEBT, Sixte IV, Fondateur
de la Bibliothèque Vaticane, in “Archivum Historiae Pontificiae”, 7, Roma, 1969, pp. 523-524.
198
J. RUYSSCHAEBT, La fondation de la Bibliothèque Vaticane en 1475 et les temoignages
contemporaines, in, Studi offerti a Roberto Ridolfi direttore de la “Bibliofilia”, a cura di B.
MARACCHI BIAGIARELLI, D. E. RHODES, Olschki, Firenze, 1973, pp. 414-415.
199
C. VIRCILLO FRANKLIN, “Pro communi doctorum virorum comodo”: The Vatican
Library and its service to scholarship, in “Proceedings of the American Philosophical Society”,
vol. 146, 2002, pp. 373-374.
110
vescovadi, capitoli e monasteri, anche se, in molti casi, le due
tipologie documentarie erano riposte in contenitori distinti perché se
ne percepiva la differenza tipologica ed operativa, tuttavia mancò fino
alla summenzionata bolla di Sisto IV un criterio di distinzione formale
giuridicamente definito.
Tale criterio di distinzione si fondava sul concetto di materiale
“secretum”, vale a dire, quindi, riservato all’esclusiva fruizione del
pontefice e di un numero limitato di funzionari a differenza di altro
materiale, come quello librario, aperto alla consultazione di eruditi e
studiosi200; il termine “secretum”, del resto, era ordinariamente
utilizzato nel XV secolo nell’ambito delle corti sia laiche che
ecclesiastiche per designare persone ed istituzioni particolarmente
vicine ai principi ed ai papi, quindi degne di grande fiducia e destinate
ad occuparsi di affari di particolare delicatezza ed importanza, non a
caso le persone più deputate a trattare di tali affari ed a più diretto
contatto con le autorità erano denominati secretarii.
Nel caso degli archivi, quindi, il termine assumeva una connotazione
volta a far risaltare il carattere di riservatezza e di soggezione ad un
controllo personale ed esclusivo che questa classe di scritture stava
assumendo in quel periodo anche in altre corti e sedi di governo
collegandosi al processo di concentrazione dei poteri pubblici nella
disponibilità di re, principi e pontefici201.
Nel nuovo assetto istituito da Sisto IV permanevano, beninteso, delle
ambiguità, a partire dall’uso generale per tutte le scritture del termine
bibliotheca, ma anche lo stesso termine “secretum” non indicava
ancora, in via esclusiva, materiale d’archivio, poteva, infatti,
estendersi anche a materiale bibliografico di particolare pregio;
ciònondimeno si fissò un criterio distintivo che avrà fortuna negli anni
successivi come dimostrò la denominazione dell’ancora di là da venire
Archivio Segreto Vaticano.
Le innovazioni, comunque, non si esaurirono con la bolla del 1475,
prima di questa data, infatti, era già stato stabilito un altro luogo di
conservazione per il materiale archivistico nella fortezza di Castel
Sant’Angelo; le tipologie documentarie ivi riposte differivano da
quelle conservate nella sezione segreta e pontificia della biblioteca, a
tal proposito è di notevole interesse l’esame del primo inventario
dell’archivio redatto agli inizi del cinquecento dal frate predicatore
Zanobi Acciaiuoli, responsabile in quel periodo dell’Archivio di

200
A. BRENNEKE, Archivistica, op. cit., p. 143
201
E. CASANOVA, Archivistica, op. cit., pp. 340-341
111
Castello, e che si può consultare nella Bibliotheca Bibliothecarum del
Montfaucon202.
Dall’analisi di tale testo risalta nitidamente la struttura dell’Archivio
di Castello pochi anni dopo la sua costituzione: il materiale
documentario era stipato in sacchi e suddiviso in due grandi blocchi
tipologici, da una parte vi erano i documenti sovrani, privilegi e
diplomi di pontefici, imperatori, re e principi, distinti nei diversi
sacchi su base geografica, dall’altra vi era la documentazione di tipo
notarile ricevuta per ogni dove dell’ecumene cristiana ed anch’essa
ripartita territorialmente.
In sostanza, dunque, l’Archivio di Castello era formato da nuclei di
documenti sciolti in gran parte ricevuti dai vari organi di curia nello
svolgimento delle loro funzioni e successivamente selezionati per la
loro preziosità ed importanza, generalmente questi documenti erano
ricopiati in appositi cartulari di cui un esempio tipico è costituito dal
liber censuum, già menzionato in un paragrafo precedente e
contenente molte copie e trascrizioni di documentazione riguardante
l’amministrazione economica del Patrimonium Petri, per poi essere
riposti in apposite casse ubicate negli stessi luoghi dove avevano sede
gli uffici; la loro concentrazione in un luogo ad hoc come Castel
Sant’Angelo era finalizzata ad assicurarne una miglior conservazione
nel tempo oltre che ad un utilizzo più semplice e razionale garantito
dalla loro inventariazione costante.
Si venne così ad istituire una distinzione interna al patrimonio
archivistico della Curia romana secondo il luogo di conservazione,
nella sezione segreta della biblioteca si concentrava la
documentazione di derivazione cancelleresca, materiale di produzione
interna in diretta connessione con le attività dei pontefici, mentre
nell’Archivio di Castello si riuniva un insieme selezionato di atti
sciolti, materiale in arrivo presupposto imprescindibile per le
numerose rivendicazioni di ambito politico, economico e giuridico in
cui la Chiesa Romana era costantemente coinvolta203.
Alla riorganizzazione archivistica intrapresa da Sisto IV si
uniformarono i suoi successori fino alla metà del secolo successivo,
quando la necessità di un nuovo assetto che prevedesse un unico
archivio centrale della Santa sede fu percepita come impellente; la
Chiesa cattolica ed i pontefici, infatti, si trovavano proprio in quel
periodo a confrontarsi con lo scisma protestante e a dover consolidare
l’intera struttura ecclesiastica sia dal punto di vista dottrinale che da
quello giuridico-istituzionale, e, come ormai dovrebbe esser chiaro,
202
B. DE MONTFAUCON, Bibliotheca bibliothecarum manuscriptorum nova, ubi quae
innumeris pene manuscriptorum bibliothecis continentur, ad quodvis litteraturae genus spectantia
et notatu digna, describuntur et indicantur, I, Parisiis, 1739, pp. 202-215.
203
A. BRENNEKE, Archivistica, op. cit., p. 144.
112
nessuna azione efficace è possibile senza disporre di memorie
documentarie quanto più possibile complete e ben organizzate.
Il primo pontefice ad attivarsi in tal senso fu Pio IV (1559-1565),
sensibilizzato ai temi amministrativi ed archivistici dalle deliberazioni
del Concilio di Trento che proprio durante il suo pontificato celebrava
la sua conclusione e dalla vicinanza del nipote, quel cardinale Carlo
Borromeo che in quegli anni prestava servizio a Roma come
Segretario di Stato.
Sollecitato dalla fervente atmosfera di riforma e dalla responsabilità
nella difesa dell’ortodossia dottrinale ed istituzionale della cattolicità,
Pio IV concepì un disegno grandioso volto alla creazione, nello stesso
Palazzo Apostolico in Vaticano, di un archivio centrale
omnicomprensivo di tutti i documenti, originali e copie, pertinenti alle
attività ed agli interessi della Santa Sede, ovunque si trovassero;
questo progetto trovò la sua sede formale nel breve Cum inter
gravissimas del 15 giugno del 1565 di cui, di seguito, si cita la parte
iniziale:

“Cum inter gravissimas curas, quibus assidue pro christiana


Republica administranda distinemur, statutum nobis sit cum ad
publicam utilitatem, tum ad privatum Romanorum Pontificum
commoditatem Tabularium seu Archivium eorum omnium quae ad nos
et Sedem apostolicam quoquomodo pertinent, conquisitis undique et
transcriptis non in alma modo urbe et ditione nostra ecclesiastica,
verum per universum Terrarum orbe exemplaribus, libris et
voluminibus et aliis scripturis, in Palatio nostro Vaticano quanta
possumus diligentia parare atque instruere…”204.

A questo breve ne seguì un altro di poco successivo, il Cum nos nuper


del 28 settembre 1565, con cui si affidava al cardinale Antonio
Amulio, destinatario anche del precedente breve, il delicato compito
di scegliere ed inviare personale di fiducia con l’incarico di ricercare e
trascrivere i documenti considerati degni di interesse per la Santa
Sede, contemporaneamente, inoltre, si prescriveva ai responsabili
ecclesiastici di ogni parte del mondo di esibire e lasciar trascrivere ai
succitati agenti, secondo il loro giudizio, i documenti in loro possesso;
anche di questo breve si ritiene utile citare di seguito una parte
significativa:

“…ut ejusdem Marcii Antonii Cardinalis (Amulii) agentibus, qui


praesentes nostras literas, seu earum exemplum, manu ipsius

204
Il testo completo del breve può reperirsi in Enchiridion archivorum ecclesiasticorum, op. cit.,
pp. 329-330.
113
Cardinalis subscriptum, et ejus gigillo munitum, cui fidem indubiam
adhiberi volumus, vobis, et vestrum cuilibet exhibuerint, eos omnes
libros, volumina, et scripturas, quas a quolibet vestrum requisiverint,
et ad utilitatem ipsius Archivii nostri pertinere vobis significaverint,
prompte et libenter respectu praecipue nostro ostendatis ac
praebeatis”205.

Si veniva delineando, quindi, un progetto di concentrazione


archivistica tanto ambizioso quanto assai problematico nella sua
effettiva realizzazione, in effetti, come si può evincere chiaramente
dai sopracitati brevi, non ci si limitava a considerare l’utilità di una
concentrazione dei soli fondi archivistici conservati nelle varie sedi
degli uffici della Curia, compresi quelli riposti nella sezione riservata
della biblioteca e nell’Archivio di Castello, operazione già complicata
di per sé, ma si cercava di costituire un archivio universale della
Chiesa che contenesse tutto il materiale documentario di potenziale
interesse all’attività di governo pontificio, ovunque si trovasse.
Il disegno, al di là della sua impraticabilità, è comunque indicativo
della percezione che i pontefici di quel periodo avevano del loro ruolo,
una percezione di perno centrale della Chiesa universale, di autorità
suprema ed indiscutibile a cui spettavano le decisioni determinanti
circa la politica e le modalità di governo dell’intero corpo ecclesiale,
la forza centripeta, quindi, con cui tentavano di ricondurre nella sede
centrale di Roma una vastissima mole di materiale documentario
prodotto e conservato nella moltitudine delle chiese particolari,
serviva, oltre che all’efficacia dell’azione pontificia, anche a ribadire
quell’autorità papale che si voleva palese ed indiscutibile, ma che la
crisi derivante dagli scismi riformati, metteva in una luce di maggiore
precarietà.
Pio IV, morì poco dopo l’emissione dei due brevi ed il suo successore,
il rigido ed intransigente Pio V, impegnato a fondo nella lotta contro
eretici e turchi, non dispose dei mezzi necessari per attuare il
grandioso progetto archivistico che il precedente pontefice aveva
elaborato, tuttavia anche questo papa ebbe a cuore lo stato degli
archivi ecclesiastici e della Santa Sede, si ricorderà infatti, che fu
proprio Pio V ad estendere all’intero corpo ecclesiale i decreti del
Concilio provinciale milanese del 1565 presieduto da S. Carlo
Borromeo tramite il breve Inter omnes del sei giugno 1566206, sempre
Pio V, inoltre, diede un contributo importante al recupero dei fondi

205
T. NATALINI, Profilo storico, in Archivio Segreto Vaticano, op. cit., p. 45 nota 24.
206
Enchiridion archivorum ecclesiasticorum, op. cit., pp. 1-5.
114
archivistici pontifici conservati ad Avignone mediante l’epistola
Cupientes pro usu del dieci maggio 1566207.
Particolarmente interessante è poi la bolla Contra non revelantes
emanata nel 19 agosto 1568, uno dei molti tentativi fatti dai papi, sia
precedenti che posteriori a Pio V, di recuperare almeno parte della
documentazione appartenente ai vari uffici della Curia, soprattutto
quelli della Camera apostolica, che era finita dispersa ed in possesso
di privati a causa di cattiva amministrazione e di scarsa cura nella
custodia del materiale archivistico, ma che, in un periodo di forte
conflittualità religiosa e di riaffermazione dell’autorità papale, si
sentiva la necessità impellente di riacquisire in quanto: “Se è
doveroso, scrive il papa, che tutti debbano aver cura della propria
documentazione, questo dovere incombe soprattutto alla Chiesa la
quale deve, sorretta dalla forza dei propri monumenti storici, difendere
non solo se stessa (Curia romana) ed i propri diritti dagli assalti che
ogni giorno le sferrano gli empi, ma anche, qualora se ne presenti
l’occasione, la cristianità intera”208.
L’interesse peculiare, però, di tale decreto non è solo nei fini che si
proponeva, ma soprattutto nei modi scelti per soddisfarli che
risultavano straordinariamente moderni, la bolla, infatti, invitava
chiunque detenesse atti spettanti alla Chiesa a presentarli a due
delegati pontifici incaricati di redarne l’inventario, immobilizzandoli,
quindi, presso i detentori “…tamquam fidei commissis remanentibus,
ita ut numquam sine Sedis Apostolicae speciali et expressa licentia
inde amoveri, tranferri aut alias immutari possint”.
Praticamente si è di fronte ad un’applicazione ante litteram del
moderno vincolo di interesse culturale nei confronti di archivi privati
considerati degni di importanza, lo stesso Casanova, commentando
questa disposizione nel suo celebre manuale, se ne rese conto
scrivendo che: “Tale quale, essa, fu adottata dalla legislazione italiana,
ove la troviamo espressa, non solamente per le materie archivistiche,
ma altresì per quelle artistiche e bibliografiche”209; certamente, però,
la norma non aveva in quel periodo finalità culturali, bensì
eminentemente pratiche, considerando più semplice raggiungere il
fine propostosi mediante un compromesso che garantiva ai possessori
il mantenimento della documentazione ormai acquisita, spesso dietro
pagamento, previa sua registrazione da parte di agenti pontifici.
La disposizione di Pio V, d’altro canto, rivelava la situazione precaria
in cui si trovavano molti depositi archivistici nei vari uffici della
Curia, se, infatti, come si è già detto, la documentazione più preziosa
207
Ivi, pp. 5-6.
208
L. SANDRI, Il De Archivis di Baldassarre Bonifacio, in “Notizie degli Archivi di Stato”, X,
1950, p. 100.
209
E. CASANOVA, Archivistica, op. cit., p. 362.
115
ed importante si veniva concentrando dai tempi di Sisto IV nelle due
sedi della Biblioteca e di Castel Sant’Angelo, rimanevano ancora
molti fondi documentari appartenenti ai diversi organi di Curia di cui
si è già visto il proliferare tra tardo medioevo e prima età moderna; la
loro conservazione dipendeva, in effetti, dalla disponibilità per
ciascuna istituzione di una sede ufficiale dove era possibile con più
facilità custodire nel tempo la documentazione accumulatasi, ma non
tutti gli organismi di Curia potevano giovarsi di una simile sede, a
volte, come nel caso della Congregazione dei Vescovi e dei Regolari,
segretari ed ufficiali erano costretti a lavorare nelle loro abitazioni
conducendo ivi anche la documentazione necessaria, si può quindi
facilmente immaginare lo stato di precarietà e il rischio di dispersione
a cui andavano incontro i complessi archivistici destinati in tali
luoghi210.
A riprova di quanto detto ci è pervenuta una preziosa testimonianza
delle problematiche concernenti gli archivi curiali in quel periodo, la
testimonianza in questione è data da Giovanni Carga, impiegato in
diverse mansioni negli uffici della Curia sotto vari pontificati, che nel
suo breve saggio storico sull’ufficio della Segreteria e i suoi recenti
problemi organizzativi, mette in primo piano proprio lo stato rovinoso
nel quale giacevano le memorie documentarie di tale ufficio, Il Carga,
infatti, focalizza l’attenzione su due problemi in particolare: “L’uno
sarebbe l’archivio di quelle scritture che Pio V volle dare in custodia
alli Prothonotarii partecipanti…le quali scritture stanno rinchiuse et
confuse al modo che stanno, sono come un corpo senza anima morte,
et in tutto inutile; l’altro carico sarebbe dargli facoltà simile a quelle
che aveva Vitellio, e che ha il Bibliothecario di raccogliere scritture
appartenenti a negotii di secretaria, non già quelle che vivono nella
penna e nelle mani del Secretario secreto, ma tutti gli altri registri, et
lettere di Papi, di Legati, di Nuntii, di Governatori, et di altre persone
che hanno scritto alla Sede Apostolica, le quali memorie o sono
restate in mano d’heredi o vanno disperse, et si comprano, e vendono
publicamente, e li Principi forestieri, et altre persone private ne fanno
Archivii in Roma, e sino li Heretici ne hanno havute copie, et
falsificatole, et con postille pernitiosissime stampate”211.
I documenti, quindi, essendo affidati alla responsabilità individuale
dei singoli segretari erano soggetti o ad una conservazione disordinata
che li rendeva di fatto inutilizzabili o, peggio ancora, alla dispersione
ad opera degli eredi, che considerandoli inutili, se ne disfacevano
finendo per arrecare un grave danno al patrimonio archivistico
210
E. SASTRE SANTOS, Ensayos de archivística eclesial hispana, op. cit., p. 124
211
G. CARGA, Informatione del Secretario et Secreteria di Nostro Signore et di tutti gli offitii
che da quella dependono del Sgr. Giovanni carga. 1574, in H. LAEMMER, Monumenta
Vaticana. Historiam ecclesiasticam saeculi XVI illustrantia, Friburgi Brisgoviae, 1861, p. 460.
116
ecclesiastico e per favorire, addirittura, altre potenze politiche del
tempo come comprovava l’erezione a Roma nel 1558 dell’Archivio
spagnolo il cui primo archivista, Juan de Berzosa, si era dato da fare
per acquistare le carte del cardinale Vitelli, e che continuava ad
approfittare di tale mercato archivistico per arricchire le proprie
raccolte, assai utili per gli interessi della Corona spagnola212.
Lo stesso Carga, comunque, propose una possibile soluzione secondo
cui: “Questi due carichi di raccogliere, et di custodire un sì fatto
Reliquiario di secreteria, non si può commettere più
proportionatamente, ne più sicuramente fidare ad altri, che al prefato
Collegio, atteso che essendo li secretarii qualificati, ed avendo il
pegno de denari nell’officio, e l’animo applicato a maggiori gradi, et
onori, o per timore di infamia, o per desiderio di gloria, ne sariano
gelosissimi, ma a cautella si potrebbe anco astringere alle leggi che
hanno li Custodi della Bibliotheca Vaticana”213.
Il fondamento, dunque, di una migliore gestione archivistica veniva
posto sulla responsabilità collegiale e non più individuale che tutti i
segretari, dotati di sufficiente professionalità e adeguatamente
motivati dalla possibilità di riscuotere profitti dall’ufficio e di aspirare
a posizioni di carriera superiori, avrebbero dovuto esercitare sulla
totalità delle scritture accumulatesi; si fa balenare, inoltre, la
possibilità di estendere anche all’uffico di segreteria il regime
normativo, più rigoroso, che improntava l’attività dei custodi della
Biblioteca Vaticana, favorendo con ciò una maggiore omogeneità
legislativa riguardo alle problematiche della gestione e conservazione
degli archivi.
A favorire se non l’omogeneità normativa, certamente, una
considerevole prolificità dispositiva sui temi archivistici ed
amministrativi fu il pontefice Sisto V (1585-1590) che in soli cinque
anni di pontificato sviluppò una serie di riforme amministrative
interessanti sia l’apparato curiale della Santa Sede che l’insieme delle
chiese locali così come le istituzioni temporali dello Stato Pontificio,
ed in questa fremente attività riformatrice gli archivi ebbero un ruolo
di primaria importanza.
Sisto V fu un pontefice particolarmente attento nei confronti degli
equilibri istituzionali della Curia e dello Stato Pontificio, si ricorderà,
infatti, che fu lui ad emanare la bolla Immensa aeterni Dei del 22
gennaio 1588 con la quale pose mano ad un’incisivo riassetto
dell’apparato curiale destinato a permanere nelle sue linee basilari fino
all’età contemporanea; ma fu soprattutto nel campo della legislazione
212
E. SASTRE SANTOS, Ensayos de archivística eclesial hispana, op. cit., p. 127; C. PEREZ
GREDILLA, Archivo Español en Roma, in “Revista de Archivos, Bibliotecas y Museos”, 7,
1877, pp. 165-168.
213
G. CARGA, Informatione del Secretario et Secreteria di Nostro Signore, op. cit., p. 460.
117
sugli archivi che questo pontefice dimostrò la rilevanza che la cultura
archivistica nella Chiesa aveva ormai acquisito in tutti gli ambiti
interessanti gli assetti amministrativi, al tempo di Sisto V governare la
Chiesa significava porre un’attenzione più profonda rispetto al passato
alle modalità di gestione e conservazione dei documenti accumulatisi
in vastissima copia nell’elefantiaco complesso di organi istituzionali
ed uffici costituente la Curia, così come di quelli conservati
nell’altrettanto immenso reticolato di chiese particolari sparso nel
mondo.
Sisto V, ereditò, dunque, dai suoi predecessori ed anche dall’esempio
di istituzioni laiche coeve la consapevolezza che gli archivi
costituivano uno strumento imprescindibile per una qualsiasi attività
di governo efficace e tale consapevolezza è ben visibile nelle
disposizioni da lui emanate.
Tra le idee ereditate, figurava anche quella, grandiosa quanto
visionaria, dell’Archivio generale della Chiesa con sede nel Palazzo
Apostolico, che avevano accarezzato i suoi predecessori Pio IV e Pio
V, ma che avevano dovuto poi accantonare per le inevitabili difficoltà
materiali, logistiche ed economiche inerenti ad un progetto così
ambizioso; per la verità, anche Sisto V, in un primo momento provò
ad attuarlo, suggestionato dai riverberi di grandiosità che una tale
impresa proiettava sul prestigio dell’autorità papale, ma ben presto,
resosi conto della sua irrealizzabilità, revocò i precedenti
provvedimenti a favore dell’istituzione sia dell’“Archivio generale
della Chiesa” che dell’ufficio di “Archivista generale” del medesimo
mediante il motu proprio Provida Romani Pontificis del 29 aprile
1587 che così si esprimeva al riguardo:

“Provida Romani Pontificis circumspectio revocat interdum, justis


suadentibus causis, atque abrogat ea, quae, licet ab initio utilia fore
viderentur, usus tamen, et experientia docet, nimium incommodi,
nimium difficultatis, molestiae, aut perturbationis afferre. Quod nuper
in erectione Archivi generalis Ecclesiastici, in quo omnia inventaria
rerum, bonorum, ac jurium, et scripturarum, pertinentium ad
Ecclesias, et pia loca, per universam Italiam constituta, recondere, et
in Palatio Nostro Apostolico asservare meditabamur, rei ipsius
difficultas satis aperte monstravit”214.

In effetti è da dire che, da tale formulazione, il progetto di Archivio


generale pensato da Sisto V si presentava decisamente più
ridimensionato rispetto a quello originario di Pio IV, infatti ai
documenti in originale ed in trascrizione acquisiti undique e per

214
Enchiridion archivorum ecclesiaticorum, op. cit., p. 11.
118
universum terrarum orbe, facevano riscontro i soli inventaria da
raccogliere nelle chiese particolari per universam Italiam; un progetto,
quindi, in apparenza più abbordabile, che avrebbe permesso la
creazione di un sistema archivistico più integrato tra i fondi
documentari della Santa Sede e gli archivi delle chiese locali in Italia,
ma evidentemente le difficoltà insite nella sua realizzazione
permanevano insormontabili.
Ciò nondimeno nella medesima disposizione si ricordava a tutte le
chiese particolari esistenti nel territorio italiano che non avessero
provveduto a redarre i suddetti inventari in occasione dell’abortito
progetto dell’Archivio generale o nel corso delle visite diocesane di
vescovi ed arcivescovi, di rimediare a ciò nello spazio di un anno:

“…ipsi, et eorum unusquisque, qui hactenus inventaria huiusmodi non


confecerunt, debeant omnino intra annum, a die, quo praesentes
Nostrae ad eorum notitiam pervenerint, omnium, et quorumcumque
bonorum immobilium, censuum, canonum, livellorum, proventuum
annuorum, jurium, jurisdictionum, ac privilegiorum, et scripturarum,
quae eis, eorumque arbitrio, annotatione digna videbuntur, ad
Ecclesias, Monasteria, Collegia, Universitates, Praeceptorias
majores, et Dignitates, quibus ipsi respective praesunt, pertinentium,
et in quorum possessione existunt, inventaria diligenter conficere”215.

Un testo molto simile è presente anche nel breve Regularium


personarum del venti giugno 1588 nel quale si prescriveva alle
congregazioni monastiche con sede centrale a Roma di redarre gli
inventari e:

“…illaque etiam confecta ad archivia monasteriorum suae


congregationis in Urbe existentium deferri, et inibi perpetuo custodiri
et conservari facere”216.

Se non era possibile, dunque, concentrare tutti gli inventari prodotti


dalle chiese particolari in un unico luogo deputato ad essere l’archivio
di riferimento della Chiesa universale, si prescriveva almeno la
necessità per ciascun ente ecclesiastico di provvedere alla redazione
degli inventari e di conservarli nei loro archivi e, per le congregazioni
religiose, anche in quelli delle loro sedi presenti a Roma in modo da
aumentare la sicurezza della loro conservazione futura.
Dopo il breve Inter omnes di Pio V che sanciva l’estensione alla
Chiesa universale dei decreti del Concilio provinciale milanese del

215
Ivi, p. 12.
216
Ivi, p. 17
119
1565 in cui Carlo Borromeo prescriveva l’obbligo di inventariazione
delle scritture ecclesiastiche, le sopracitate disposizioni consolidarono
la politica archivistica dei pontefici nei riguardi dell’intero corpo
ecclesiale, creando una maggiore interazione tra le modalità di
gestione documentaria delle chiese particolari e l’attività di governo
dei pontefici sempre più interessati e consapevoli della dimensione
strategica occupata dagli archivi, ciò è testimoniato in particolare dai
frequenti richiami di cui furono oggetto alcune norme di ambito
archivistico di Sisto V, soprattutto le due precedentemente discusse, in
numerosi concili non solo in Italia217.
Non furono, però, soltanto gli archivi delle chiese locali, o
l’irrealizzabile progetto dell’Archivio generale della Chiesa ad
assorbire integralmente l’attività normativa di Sisto V, questa, infatti,
si esercitò su tutte le categorie di archivi interessanti il governo della
Chiesa e dello Stato Pontificio, compresi gli archivi pubblici esistenti
nelle città dello Stato Pontificio che vennero trattati nella Costituzione
apostolica Sollicitudo pastoralis del primo agosto 1588218, di tale
disposizione ci si limiterà al solo accenno in quanto non
specificamente incentrata sugli archivi ecclesiastici, mentre più
interessante ai nostri fini appare la bolla Ad excelsum del dodici
ottobre 1586 con la quale si confermava ad ufficio permanente il
commissariato della Camera Apostolica, ufficio deputato, tra le altre
cose, alla cura particolare dell’archivio camerale con facoltà di
recupero coattivo di tutta la documentazione pertinente agli affari
camerali da chiunque posseduta, funzioni, queste, esplicitamente
espresse nella disposizione così come segue:

“Ac etiam eas facultates, praecipuamque curam et administrationem


archivii scripturarum dictae Camerae, ita ut, sine expressa eiusdem
commissarii licentia, aliquae scripturae ad Cameram praefatam
spectantes ex ipso archivio extrahi, ac earum exempla extra eandem
Cameram aliisque illius cameralibus dari et consignari non possint;
ipsiusque archivii archivistae et ministri, nunc et pro tempore
existentes, illi de dicto archivio ac omnibus eius scripturis rationem
reddere, et eius ordinationes ac mandata, necnon statuta et decreta,
quae per eum pro bono gubernio et regimine dicti archivii pro
tempore fieri contigerit, observare omnino teneantur. Necnon plenam
et liberam facultatem omnes et singulas alias scripturas ad Cameram
praefatam spectantes et extra archivium huiusmodi, in quocumque
loco vel penes quoscumque existentes, recuperandi…”219.

217
E. SASTRE SANTOS, Ensayos de archivística eclesial hispana, op. cit., p. 122.
218
Enchiridion archivorum ecclesiasticorum, op. cit., pp. 19-25.
219
Ivi, pp. 8-10.
120
Con ogni probabilità, dunque, le preoccupanti constatazioni che
inchieste e studi, come quello di Giovanni Carga220, suscitavano sullo
stato precario in cui erano tenuti i depositi documentari di numerosi
uffici curiali, dovettero allarmare non poco l’acuta sensibilità di Sisto
V per l’ordine amministrativo e la buona tenuta dei documenti,
stimolando, appunto, l’emanazione della sopracitata bolla che mirava
ad assicurare una migliore gestione e conservazione del prezioso
materiale documentario della Camera Apostolica mediante la
stabilizzazione di un ufficio, il commissariato, tra i cui compiti più
rilevanti vi era proprio quello di sovrintendere all’archivio camerale
sorvegliando tutte le attività che lo interessavano, dalla consultazione
di originali alla richiesta di copie e alle modalità di gestione scelte
dagli archivisti preposti.
A cavallo tra cinquecento e seicento, quindi, la situazione complessiva
degli archivi della Santa Sede progrediva verso un’attenzione sempre
più focalizzata che trovava nella copiosa attività normativa dei
pontefici, di cui Sisto V fu l’esponente più entusiasta, la sede della sua
formalizzazione più esplicita, anche lo stato degli archivi ecclesiastici
presenti nel territorio italiano fu esplicitamente richiamato in quelle
disposizioni mettendo le basi di quel sistema archivistico ecclesiastico
coordinato centralmente dai pontefici che giungerà a definitiva
maturità ed esplicitazione nel primo settecento con la Maxima
vigilantia di Benedetto XIII; rimaneva, però, ancora irrisolto il
problema dell’Archivio generale della Chiesa che si era provato più
volte ad organizzare nel Palazzo Apostolico, di fatto la sua istituzione
si era verificata impossibile, tuttavia esistevano a Roma due depositi
principali di materiale documentario interessanti le attività della Santa
Sede, vale a dire la sezione riservata della Biblioteca Apostolica e
l’archivio conservato in Castel Sant’Angelo, entrambi gli archivi non
potevano qualificarsi come generali perché ciascuno conteneva, fin
dai tempi di Sisto IV, solo una selezione di materiale archivistico di
diversa natura e provenienza come si è già avuto modo di appurare,
inoltre molta documentazione curiale era conservata in luoghi distinti.
Questi due depositi, comunque, nel corso del tempo tendevano ad
accumulare sempre più materiale, in ciò incoraggiati dall’interesse dei
pontefici a concentrare in luoghi e spazi ristretti e ben definiti tutta la
documentazione possibile, per meglio garantirla dalle dispersioni e
assicurarsene il fondamentale utilizzo nel governo della Chiesa,
ciascun papa, infatti, contribuiva ad ampliare gli spazi ed a
rimpinguare di documenti almeno uno dei due depositi; se Sisto V si
era premurato di estendere la sezione segreta della Biblioteca
assegnando altre due stanze alla conservazione di materiale

220
G. CARGA, Informatione del secretario et secreteria di Nostro Signore, op.cit.
121
documentario221, Clemente VIII, su proposta del tesoriere Bartolomeo
Cesi, decise di accrescere lo spazio destinato ad ospitare i fondi
archivistici in Castel Sant’Angelo dedicando loro una grande camera
rotonda posta sulla sommità del castello e provvista di una serie di
armadi riccamente decorati222.
Seguendo tale linea di sviluppo, che prevedeva il potenziamento di
strutture già esistenti, Paolo V negli anni compresi tra il 1611 e il 1614
intraprese il trasferimento di abbondante materiale archivistico
proveniente da diverse sedi, soprattutto dalla sezione archivistica della
Biblioteca Vaticana, da Castel Sant’Angelo e dall’archivio della
Camera Apostolica, nel cosiddetto “Nuovo Archivio” la cui sede era
costituita da tre sale adiacenti al Salone Sistino della Biblioteca
Vaticana che erano state adibite, precedentemente, a residenza dei
cardinali bibliotecari, ma rimaste in seguito inutilizzate dopo la morte
del cardinale Cesare Baronio (1607)223.
Accantonando definitivamente l’idea di un Archivio Generale della
Chiesa, Paolo V aveva puntato sulla trasformazione della limitata
sezione segreta della Biblioteca Vaticana in un vero e proprio archivio
di concentrazione destinato a diventare progressivamente il deposito
archivistico più importante della Santa Sede; inizialmente, quindi, la
nuova istituzione archivistica non fu una struttura autonoma, ma era
ancora parte del complesso bibliotecario, in effetti sono molti gli
indizi a riprova di ciò, a cominciare dall’ubicazione incorporata ai
locali della Biblioteca stessa, per proseguire con gli incarichi per il suo
governo affidati al medesimo personale della Biblioteca Vaticana ed
infine la necessità di nominare pubblico ufficiale il custode del Nuovo
Archivio, Baldassarre Ansidei, che essendo in precedenza custode
della sola Biblioteca non doveva svolgere funzioni autenticatorie
necessarie per garantire la pubblica fede dei documenti, in ciò era
sufficiente il Prefetto dei registri e delle bolle della Biblioteca
Vaticana224.
Con la nomina dell’Ansidei a pubblico ufficiale formalizzata nel breve
Cum nuper del 31 gennaio 1612 si stabiliva anche l’assoluta
affidabilità giuridica del materiale archivistico traslato dalle vecchie
sedi al Nuovo Archivio così come segue:

“…Nos ne propter translationem dictorum librorum a veteri in novum


Archivium huiusmodi, eisdem libris fides in aliquo denegetur,

221
G. MARINI, Memorie istoriche degli archivi della Santa Sede in H. LAEMMER, Monumenta
Vaticana, op. cit., p. 446.
222
Ivi, p. 446.
223
T. NATALINI, Profilo Storico, in Archivio Segreto Vaticano, op. cit. p.21.
224
V. PERI, Progetti e rimostranze. Documenti per la storia dell’Archivio Segreto Vaticano
dall’erezione alla metà del XVIII secolo, in “Archivum Historiae Pontificiae”, 19 (1981), p. 208.
122
providere volentes, Motu proprio et ex certa scientia nostra, ac de
Apostolicae potestatis plenitudine dictum Balthassarem et pro
tempore existentem praedictae Bibliothecae Custodem et dicti Archivii
noviter constructi et erecti Custodem et publicum officialem tenore
praesentium declaramus, et, quatenus opus sit deputamus, ac
praedictis libris sic de veteri in novum Archivium translatis eandem
plenam et indubitatam fidem in Iudicio et extra ac ubique locorum
adhiberi debere decernimus et declaramus, quae illis adhiberetur si in
veteri Archivio praedicto asservata fuissent et asservarentur,
eorumque exemplis seu transumptis tam in iudicio quam extra et
ubique fides adhibeatur…”225.

Questo breve può essere considerato un vero e proprio atto di


fondazione del Nuovo Archivio in quanto con la nomina del suo
custode a pubblico ufficiale, abilitato, quindi, a dare autenticità alle
copie ed agli estratti dei documenti, e con la sanzione di affidabilità
giuridica erga omnes della documentazione ivi trasferita, la nuova
istituzione veniva corredata di quell’imprescindibile imprimitur
giuridico che era il fondamento costitutivo di qualsivoglia archivio
pubblico, che, è bene ricordarlo, era anche l’unico genere di deposito
documentario ad essere effettivamente concepito e qualificabile come
archivio in quell’epoca.
Paolo V mirò ad assicurare l’integrità dei fondi documentari riposti
nel Nuovo Archivio emanando rigide norme sulla loro consultazione
mediante un suo chirografo del due dicembre 1614 di cui se ne cita
qui una parte:

“Volendo noi in ogni modo provedere alla conservatione delli libri


dell’archivio novo da noi nella Biblioteca Vaticana fabricato, et
oviare insieme agl’inconvenienti che ogni giorno nascer possono
mentre li detti libri si lasciano veder et ricever da ognuno a
beneplacito loro; però comandiamo a voi custode del detto nostro
archivio sotto pena della disgratia nostra et altre pene ad arbitrio
nostro, che sotto qualsivoglia pretesto non lasciate veder a chi si sia li
detti libri per occasione di cercar bolle o altre scritture, neanco alli
notarii della nostra Camera Apostolica o ad altri che vi potessero
pretender ragione, o interesse per qualsivoglia indulto o privilegio a’
quali con queste particolarmente deroghiamo, contentandosi però noi
che ad instanzia di detti notarii possiate voi ricercar le scritture et
bolle che per privati negotii vi saranno da essi di tempo in tempo
addimandate, et con licenza nostra o dei nostri ministri cioè

225
Enchiridion archivorum ecclesiasticorum, op. cit., pp. 34-36.
123
Thesoriere et Commissario della nostra Camera, lasciar copiar dette
scritture et bolle concernenti negotii privati a detti notarii…”226.

Questa disposizione fu reiterata due anni più tardi anche nel


regolamento interno della Biblioteca e dell’Archivio Vaticano redatto
nel 1616 dal cardinale bibliotecario Scipione Borghese, in cui, con
specifico riferimento agli archivi, si prescriveva che:

“Li Prefetti dell’Archivio disponghino le scritture con ordine


conveniente, faccino gl’indici; et non ammettino nessuno a veder dette
scritture senza mandato preciso, diretto al primo Custode”227.

Norme piuttosto rigide, quindi, entrambe scritte in lingua italiana per


assicurarne la più ampia recezione possibile, finalizzate a limitare
qualunque rischio di sottrazione e dispersione di documenti
considerati di indiscutibile proprietà papale, il Nuovo Archivio
Vaticano, infatti, si sviluppò come un deposito archivistico sotto il
totale controllo dell’autorità pontificia, era il suo archivio privato e
come tale “segreto”, ossia riservato solo alle sue necessità di governo
e limitato nella consultazione alla discrezionalità sua e dei suoi
ministri più fidati; il termine “segreto” non fu un appellativo fisso
dell’Archivio Vaticano, generalmente, nel corso del seicento, lo si
denominava come Nuovo Archivio Vaticano o Apostolico, mentre la
denominazione “segreto” cominciò ad apparire in alcuni inventari per
designare il materiale di natura finanziaria, e quindi particolarmente
riservato, proveniente dalla Camera Apostolica, successivamente,
comunque, tra settecento e ottocento, sarà tutto il complesso
dell’Archivio Vaticano ad essere comunemente definito come segreto
in quanto di difficile accesso ad eruditi e studiosi228.
Come si è detto L’archivio Vaticano nacque nell’alveo della struttura
bibliotecaria preesistente, il suo prefetto era tale anche per la
Biblioteca Vaticana e fu soltanto durante il pontificato di Urbano VIII
nel 1630 che l’amministrazione dell’Archivio fu staccata da quella
della Biblioteca e sottoposta ad un prefetto esclusivamente
responsabile per essa, l’Archivio pontificio era ormai un’istituzione
autonoma, non più legata al secolare vincolo con la biblioteca che
aveva caratterizzato fin dalle origini l’organizzazione archivistica
ecclesiastica e pontificia.
L’archivio Vaticano, tuttavia, per molti anni non fu né l’archivio
generale della Santa Sede né l’archivio centrale, dacchè permanevano

226
Ivi, pp. 36-37.
227
Ivi, pp. 37-38.
228
E. SASTRE SANTOS, Ensayos de archivística eclesial hispana, op. cit., pp. 131-134.
124
altri depositi archivistici di notevole rilevanza e ricchezza, in primis
l’archivio di Castel Sant’angelo che continuò a ricevere depositi e ad
avere un proprio custode, ma anche i depositi documentari di
importanti istituzioni curiali quali l’Inquisizione, la Propaganda Fide e
quello della Dataria istituito da Clemente X con il motu proprio
Admonet Nos dell’undici gennaio 1671229; ciònonostante l’Archivio
pontificio tese a configurarsi progressivamente come il deposito
archivistico principale della Curia e dell’intera Chiesa assorbendo via
via fondi documentari di assoluto rilievo, come, in particolare, i primi
registri della Segreteria dei Brevi ed i primi volumi della
corrispondenza dei Segretari papali a cui si aggiunsero, per
disposizione di Alessandro VII (1655-1667), i fondi delle Nunziature,
ma ciò era prevedibile data la natura, appena menzionata,
dell’Archivio Vaticano, un deposito documentario di proprietà papale
ubicato nel Palazzo Vaticano e strumento privilegiato dell’attività di
governo dei pontefici, era, dunque, del tutto naturale, la tendenza,
favorita dai papi, ad accumularvi nuovo ed importante materiale per
accrescerne l’utilità230.
Successivamente, tra la fine del settecento e gli anni della
restaurazione, l’Archivio Vaticano si trasformò nel deposito
archivistico centrale della Santa Sede e della Chiesa, le traversie
rivoluzionarie e Napoleoniche che pur rischiarono seriamente di
compromettere l’integrità del prezioso materiale documentario ivi
conservato, condussero alla scelta obbligata di privilegiarlo come
archivio centrale riponendo in esso i fondi conservati a Castel
Sant’angelo e materiale antico prelevato dai depositi delle diverse
congregazioni231, pur così, comunque, L’Archivio Vaticano non sarà
un archivio centrale nel senso dei moderni Archivi di Stato in Italia ed
in altri paesi che sono tenuti a ricevere periodicamente fondi
documentari dagli organi centrali e periferici, ma rimarrà, anche nel
tempo attuale, l’archivio di concentrazione più ricco ed importante
della Chiesa, circondato da altri depositi satellite il cui materiale non
sempre è destinato a confluire in esso.

229
Enchiridion Archivorum Ecclesiasticorum, op. cit., pp. 58-63.
230
E. SASTRE SANTOS, Ensayos de archivística eclesial hispana, op. cit., pp. 134-138.
231
T. NATALINI, Profilo storico, in Archivio Segreto Vaticano, op. cit., pp. 22-23.
125
9) Il disegno di un sistema archivistico ecclesiastico: papa
Benedetto XIII e la costituzione apostolica Maxima vigilantia.

Dalla seconda metà del seicento iniziò per la Chiesa cattolica un


periodo di ripiegamento dalla grande politica internazionale, la pace di
Westfalia del 1648 ed i trattati di Utrecht e Rastatt del 1713 e 1714
sancirono l’emarginazione della Santa Sede dai nuovi assetti
geopolitici e stabilizzarono l’ormai irreversibile divisione
confessionale dell’Europa cristiana.
I pontefici succedutisi tra la fine del seicento e l’intero secolo
successivo, preso atto di ciò, si concentrarono soprattutto sui problemi
dello Stato Pontificio e della Chiesa in territorio italiano, curando
particolarmente l’azione pastorale e la cura delle anime e sollecitando
verso tali temi un coinvolgimento più intenso del clero locale, pur
senza mai recedere da una direzione fortemente centralizzata, romana,
del corpo ecclesiale nel suo complesso232.
Papi come Innocenzo XI Odescalchi (1676-1689), Innocenzo XII
Pignatelli (1691-1700), Clemente XI Albani (1700-1721), Benedetto
XIII Orsini (1724-1730) e Benedetto XIV Lambertini (1740-1758),
improntarono fortemente la Chiesa di quel periodo lasciando tracce
importanti anche in seguito tramite la loro azione permeata di un
moderato rigorismo morale e focalizzata sulle necessità spirituali e
materiali della popolazione, soprattutto dei ceti più umili; ci fu una
costante azione di contrasto a fenomeni considerati forieri di
corruzione come il nepotismo, la simonia, lo sfarzo eccessivo e lo
spreco di risorse pubbliche, ciònondimeno furono favorite le arti e la
cultura, datano, in particolare, a inizio settecento i primi
provvedimenti finalizzati alla protezione delle opere d’arte e dei
monumenti antichi; l’azione pastorale fu intensificata e la cultura
media del clero secolare, principalmente quella dei sacerdoti233, ebbe
un forte incremento in questo periodo anche se, va specificato, si
trattava di una cultura assai settorializzata all’ambito religioso,
purtuttavia la migliore qualità complessiva della cultura sacerdotale e
la loro maggiore integrità morale ne rese più credibile l’ufficio
favorendo un’azione pastorale più efficace che dimostrò i suoi frutti
duraturi anche nel periodo più difficile per gli assetti ecclesiastici
assediati dalle idee illuministe e positiviste e dai rampanti sentimenti

232
Per una sintesi sulla storia ecclesiastica di questo periodo si rinvia a G. FILORAMO, D.
MENOZZI, a cura di, Storia del cristianesimo. L’età moderna, Laterza; M. ROSA, Clero
cattolico e società europea nell’età moderna, Laterza, 2006; M. ROSA, Politica e religione nel
settecento europeo, Sansoni, 1974.
233
Sulla figura sacerdotale in questo periodo si consiglia D. JULIA, Il prete, in M. VOVELLE, a
cura di, L’uomo dell’illuminismo, Laterza, 1992.
126
nazionalistici, non è un caso, infatti, se nonostante la progressiva
marginalizzazione della cultura ecclesiastica dalle elìte politiche ed
economiche attirate dalle nuove idee privilegianti il pensiero razionale
e scientifico, una buona parte delle popolazioni in Italia e in altri paesi
europei rimase legata alle tradizioni culturali ed alla mentalità
cattolica, tale resistenza era dovuta principalmente alle capacità di
penetrazione che le varie classi del clero erano riuscite ad attuare nel
profondo della coscienza popolare proprio tra seicento e settecento
creando una specie di rapporto simbiontico tra la popolazione ed i
propri pastori234.
Il ripiegamento della Chiesa dalle sue abituali posizioni di primo
piano sulla scena politica internazionale e il suo approfondire i temi
della pastoralità e della cura d’anime che si dispiegavano in un
rapporto tra clero e popolazione pervasivo ed impregnato di
emozionalità “barocca”, favoriva una rinnovata attenzione a tutto ciò
che testimoniava le vicende secolari della tradizione e della storia
ecclesiastica, monumenti, edifici, opere d’arte e patrimoni rituali
venivano coinvolti nell’azione pastorale come reliquie attestanti la
grandezza e la sacralità della realtà materiale costruita nei secoli dal
popolo cattolico; tra queste testimonianze un ruolo centrale ebbero gli
archivi e gli antichi documenti ivi custoditi che, alla consueta funzione
di “tesoro” di diritti e prerogative su cose e persone, cominciavano ad
acquisire in quel periodo una nuova connotazione culturale a causa
dell’interesse loro attribuito da eruditi e storici della Chiesa che,
motivati da una ricostruzione apologetica delle vicende ecclesiastiche
nel clima di conflitto confessionale tipico di quei secoli, scoprirono
l’apporto insostituibile che la documentazione d’archivio poteva
offrire, se studiata con strumenti critici affinati.
Il rapporto tra archivi e cultura erudita sarà meglio approfondito nel
prossimo paragrafo, ma era necessario richiamarlo qui sinteticamente
per meglio far comprendere la particolare atmosfera che influenzò non
poco, a partire da quegli anni, la concezione ed il relativo trattamento
dei complessi documentari ecclesiastici, una nuova dimensione
permeata dal “culto” per le testimonianze antiquarie che mobilitò una
erudizione grande e piccola che si cimentava tanto in opere ciclopiche
di storia della Chiesa, quanto in più modesti, ma spesso preziosi
contributi su santi, rituali e monumenti locali che anche singoli curati
di remote sedi parrocchiali non disdegnavano di produrre.
E’ in questo impasto di fervore pastorale e di passioni erudite che si
svolsero la vita e le opere di Vincenzo Maria Orsini, futuro papa
Benedetto XIII, la persona destinata ad elaborare il più avanzato

Su tale tema si consigliano M. ROSA, Clero e società nell’Italia moderna, Laterza, 1992; M.
234

ROSA, Cattolicesimo e lumi nel settecento italiano, Herder, 1981.


127
disegno organizzativo sugli archivi ecclesiastici ideato fino a quel
tempo e l’unico pontefice ad aver meritato la denominazione di “papa
archivista” attribuitagli in un famoso studio sulle sue disposizioni
archivistiche235.
In effetti la denominazione di papa archivista è particolarmente
meritata non solo e non tanto per la sua fondamentale opera legislativa
concernente gli archivi ecclesiastici, ma in quanto l’Orsini, prima di
ascendere al soglio papale, si era materialmente “sporcato” le mani in
un appassionato lavoro di recupero e conservazione degli antichi
manoscritti e pergamene costituenti i fondi archivistici più preziosi
delle diocesi di cui fu ordinario, l’Orsini, infatti, fu uomo di vasta
cultura, non a caso proveniente dall’ordine “colto” per eccellenza,
quello dei Domenicani, ed ebbe modo di familiarizzare ed
impratichirsi con le problematiche archivistiche già nei suoi primi
incarichi alle cattedre episcopali di Manfredonia e di Cesena, ma la
sua piena maturazione alla premura e alle necessità organizzative
degli archivi dei vari enti ecclesiastici avvenne durante il suo lungo
episcopato beneventano, durato trentotto anni, nel quale ebbe la
possibilità di occuparsi di autentici tesori costituiti da manoscritti e
documenti provenienti dal famoso scriptorium beneventano di epoca
medievale236.
Un esempio esplicito del lavoro appassionatamente profuso, da
autentico archivista, nella salvaguardia e tutela del materiale
documentario più antico e prezioso, lo si rinviene nel regolamento
contenente norme per la conservazione delle scritture della biblioteca
capitolare beneventana, regolamento emanato durante una visita
pastorale alla suddetta biblioteca e nella cui introduzione si fa presente
che:

“1.Dipendendo non meno dalla notizia delle antiche scritture, che


dalla regolata conservazione delle medesime il bene delle repubbliche
e delle private famiglie, abbiamo stimato nostro debito indispensabile
verso la nostra chiesa metropolitana:
I. Di leggere tutte le numerose scritture da’ nostri maggiori
provvidamente raccolte e fin’hora conservate nella biblioteca di essa,
secondo il sentimento di Tullio: “Videtur, quidquid literis mandatur,
id commendari omnium lectione decere”.
II. Di ordinarle distinguendole in varie materie e classi.
III. Di sommariarle e catalogarle co’ proprii indici.

235
E. LOEVINSON, La costituzione di papa Benedetto XIII sugli archivi ecclesiastici: un papa
archivista, op. cit.
236
V. MONACHINO, Introduzione alla guida degli archivi diocesani d’Italia, in Archivistica
ecclesiastica: problemi, strumenti, legislazione, op. cit., pp.27-30.
128
IV. Di formarne distinti 453 volumi, senza i due tomi degl’indici
generali.
V. E d’inserire in detti volumi 3869 fogli in pergamene sotto i proprii
luoghi, dopo di avergli fatti bene purgare dalle immondezze, e
ristorare con incamiciargli nelle parti rose dal tempo.
2. Fatica che ci ha costato ed indefessa applicazione di mente in
quattro interi mesi, e danaio fino alla somma di ducati 352. 75. 6.
Tutto però assai poco a riguardo della preziosità di sì nobile
suppellettile inapprezzabile per l’antichità, giusta il detto di un
erudito: “Sicut unguentis et vinis, ita et scripturis pretium addit
antiquitas”. Tali appariscono tra le altre scritture, benefiche e per
onore e per utilità della nostra chiesa, gli originali diplomi del nostro
antico principe Radelchi I, segnato nell’anno 839, e della venerabile
bolla apostolica di papa Leone IX, spedita nel 1053.
3. Acciocchè per l’avvenire queste nostre fatica e spesa non riescano
di solo ornamento e venustà agli occhi de’ nostri canonici, rimirando
solo la fabbrica della stanza che già inalzammo per uso di questa
nostra biblioteca dopo il primo tremuoto del 1688, e gli armari
dipinti, le coverte degli accennati 453 volumi, o il finto organetto de’
XXI tubi, che senza sonare cantano i pregi della nostra chiesa,
proponiamo alla loro seria considerazione la poderosa similitudine di
Trivero, che così la espresse ne’ suoi apoftegmi: “Qui divite gaudent
librorum suppellectile atque illorum magis fruuntur spectaculo, quam
studio, similes pueris, quibus totas noctes lampades ardent, sed parum
advigilant”. Così rileggendo e zelando questi monumenti, ne
trarranno nelle bisogne della loro comune madre gli opportuni e
pronti soccorsi ed aiuti”237.

Probabilmente nulla di meglio di tale citazione è in grado di offrire un


colpo d’occhio, sintetico e pregnante ad un tempo, sul peculiare
rapporto che l’Orsini intesseva con il patrimonio di scritture
documentarie della Chiesa, nella sua personalità, infatti,
raggiungevano alti livelli di consapevolezza tutta una serie di elementi
che caratterizzavano particolarmente la cultura dei suoi tempi nonché
la secolare tradizione della Chiesa, per cui si congiungevano in essa
una considerazione assai elevata dell’importanza degli archivi, la cui
conoscenza e conservazione era necessità ineludibile sia per le
amministrazioni pubbliche che per quelle private, così come una
profonda devozione tradotta in spirito di servizio nei confronti di beni,
testimonianze e persone che materializzavano concretamente la gloria
terrena della Chiesa, una devozione impregnata di passioni
antiquariali ed erudite come si avverte chiaramente dal gusto, tutto

237
Ivi, pp. 180-181
129
archivistico, per la messa in salvo di documenti così antichi e preziosi
nella cui materiale riorganizzazione l’Orsini non disdegnava
l’impegno personale diretto, cosa alquanto insolita per un arcivescovo
in anni precedenti, ma che rendeva possibile il maggior
approfondimento dell’impegno pastorale unito ad un nuovo interesse
per le testimonianze del passato.
Del resto l’intenso afflato pastorale si percepisce chiaramente in vari
punti del testo, la faticosa opera di pulitura, restauro e
condizionamento di tale vasta mole documentaria non era intesa come
fine a se stessa, un puro spettacolo estetico di cui gloriarsi nell’inanità,
ma al contrario questa era funzionale al ripristino di uno strumento
prezioso ed utile per tutte le evenienze di ambito giuridico, economico
e dottrinale in cui gli enti ecclesiastici potevano ritrovarsi coinvolti, lo
stesso rammentare entusiastico della straordinaria antichità di alcuni
documenti si sposa con il senso di rafforzata “utilità” loro attribuita e
ciò in totale perpetuazione del tradizionale concetto di affidabilità dei
documenti legata anche alla loro antichità.
L’Orsini, quindi, nel suo agire riconnetteva in sé elementi tradizionali
del patrimonio culturale ecclesiastico permeati, però, di un più intenso
spirito di servizio pastorale e da un gusto inedito per l’erudizione e la
scoperta di antiche testimonianze.
Da arcivescovo di Benevento238, dunque, il futuro pontefice si
adoperò, in tutte le occasioni opportune per la formalizzazione
dispositiva quali concili provinciali, sinodi e visite pastorali, nel
disegno, sviluppo ed affinamento progressivo di un sistema
archivistico integrato tra l’insieme pulviscolare delle chiese locali
presenti nella provincia ecclesiastica e le rispettive sedi diocesane; si
ricalcavano, in sostanza, le orme già impresse da Carlo Borromeo
nella provincia milanese, ma con una maggiore sistematicità
poggiante sull’esperienza accumulata negli anni.
I principi di fondo dell’impianto archivistico provinciale sviluppato
dall’Orsini sono i medesimi già previsti nel corpus normativo del
Borromeo più di un secolo prima, vale a dire l’istituzione nelle chiese
locali di luoghi deputati alla conservazione del materiale
documentario e la redazione di inventari per meglio assicurare
l’effettiva conoscenza dei succitati documenti e dei relativi diritti da
essi testimoniati; questi principi vennero formalizzati nel capitolo X°,
intitolato De bonis ecclesiasticis, inventario et archivo, del sinodo
diocesano del 1691 così come segue:

238
Hierarchia Catholica, V, a cura di R. RITZLER, P. SEFRIN, Padova, 1952, pp. 118, 134,
388.
130
“Cum bona ecclesiarum, praetia peccatorum, deposita pietatis et
patrimonium Christi sint, earum rectores cum omni diligentia et bona
fide, quae Deo debetur, qui omnia providet, gubernare debent et
custodire. Quamvis autem nos pro pastorali nostra solicitudine in
archivo nostro archepiscopali omnium ecclesiasticorum bonorum tam
civitatis quam diocesis inventaria, uno et viginti ingentibus
voluminibus comprehensa, reposuerimus, convenit tamen, ut
unaquaeque nostrae dioecesis ecclesia sive collegiata, sive
conventualis et receptitia, sive parochialis suum habeat archivum,
quod infra mensem post hanc publicatam constitutionem conficiatur.
In eo documenta omnia hactenus dispersa infra tres menses collecta
reponantur, et inventarii nobis traditi duplicatum habeatur, ac quae
deinceps conficientur instrumenta, serventur. Archivi clavis, ubi
communitas est, ab archivista ad id a communitate electo custodiatur,
qui documentorum inventarium habeat, quod singulis annis successori
archivistae, et tunc pariter authenticum eius duplicatum curiae
nostrae omnino tradet. Ubi solus ecclesiae rector, ibi ipse sit custos,
et si non archivum, armariolum saltem bene compactum, tutum et
clavi munitum sibi construat. Quorum si quispiam neglector fuerit,
pro quavis transgressione decem ducatorum poenas dabit”239.

Evidente appare la fedeltà al modello Borromaico ed alle successive


estensioni ed integrazioni di quel modello da parte dei pontefici, anche
qui ciascuna chiesa, secondo le proprie possibilità, era tenuta a dotarsi
di uno spazio atto alla funzione di deposito archivistico e ad affidarne
la conservazione ad un custode-archivista scelto all’interno della
comunità la cui responsabilità era sottoposta al vaglio di un inventario
redatto in duplice copia, una di uso interno alla chiesa particolare
trasmesso annualmente da un custode al successivo, l’altro da inviare
all’archivio della rispettiva sede metropolitana o diocesana che si
configurava quindi come il deposito documentario centrale nei
riguardi di ciascuna chiesa compresa nel territorio di competenza, gli
archivi diocesani, infatti, pur non pretendendo di assorbire la totalità
documentaria prodotta in ciascuna chiesa, cercavano almeno di
assicurarne la conoscenza alle autorità episcopali mediante la
concentrazione dei relativi inventari, questi, durante lo svolgimento
delle visite pastorali, servivano come utili riferimenti nel controllo dei
beni e della relativa documentazione propri di ogni chiesa.
Questi elementi basilari dell’organizzazione archivistica verranno
successivamente ribaditi ed ampliati nei concili provinciali
beneventani del 1693 e 1698, nel primo, in particolare, alle norme

239
E. LOEVINSON, La costituzione di papa Benedetto XIII sugli archivi ecclesiastici, op. cit.,
pp. 174-175.
131
concernenti l’istituzione di archivi e le modalità di redazione e
conservazione dei relativi inventari fu aggiunto un catalogo delle
scritture da conservarsi negli archivi vescovili ripreso da un’istruzione
che la Congregazione del Concilio inviò nel 1626 al vescovo di
Como240, il suddetto catalogo fungerà da riferimento anche in norme
successive emanate dopo l’elevazione dell’Orsini al soglio papale,
soprattutto nel concilio provinciale romano del 1725 in cui fu
esplicitamente richiamato nel titolo XII De fide instrumentorum quale
criterio standard utilizzabile dai vescovi nell’organizzazione dei loro
archivi241.
La disposizione, però, destinata ad assorbire e perfezionare in una
struttura coerente tutte le norme precedenti di ambito archivistico ed
in cui confluì tutta l’esperienza dell’arcivescovo Orsini, ormai papa
Benedetto XIII, accumulata in anni di lavoro ed approfondimento
delle problematiche archivistiche fu la nota costituzione apostolica
Maxima vigilantia.
Questo fondamentale testo normativo, emesso il 14 giugno 1727 e
composto da 30 paragrafi in latino seguiti da un’istruzione in lingua
italiana concernente le specifiche tipologie documentarie da
conservarsi nei relativi archivi ecclesiastici, prescriveva in maniera
organica e comprensiva istruzioni dettagliate sull’amministrazione
ottimale dei depositi documentari propri di ciascun ente ecclesiastico,
si veniva delineando, dunque, un sistema archivistico ecclesiastico
all’interno del territorio italiano coordinato dalla Santa Sede.
La costituzione si apre con un interessante paragrafo introduttivo che
esprimeva tutto il senso profondo della tradizione da cui era motivato
e rafforzato l’intero provvedimento e che prefigurava il suo carattere
di compimento e finalizzazione di un processo storico iniziato in
tempi ormai remoti ma sempre presenti nella coscienza fortemente
retrospettiva della Chiesa:

“…Nihil enim frequentius in veterum patrum scriptis sacrisque


conciliorum et Ecclesiae sanctionibus legitur, quam scrinia, tabularia,
archivia, conditoria et armaria, a temporum atque hominum iniuria
servandis rerum gestarum documentis, chartis, diplomatibus,
codicibus instrumentisque constructa; unde fides et veritas rerum ad
successorum recordationem transmitti posset.

Dunque la premura per la salvaguardia del materiale documentario


della Chiesa era testimoniata fin dall’antichità attraverso le
disposizioni ecclesiastiche, in primo luogo quelle conciliari, perciò

240
Ivi, p.169
241
Ivi, pp. 187-188; Enchiridion archivorum ecclesiasticorum, op. cit., pp. 100-104.
132
l’attenzione verso le problematiche archivistiche era considerata
materia di alta qualificazione pastorale, consolidata dall’autorità dei
padri e del tempo e degna, quindi, di rappresentare oggetto di
legiferazione da parte dei pontefici, inoltre i fini di tanta premura
erano percepiti come assai rilevanti per il futuro stesso della Chiesa, la
fides rappresentava il valore giuridico dei documenti conservati ed era
l’elemento cardine su cui poggiava lo stesso concetto di archivio così
come l’affidabilità dei titoli e delle prerogative rivendicate dalla
Chiesa, la veritas rerum, invece, costituiva il complesso di verità
storica e dottrinale la cui salvaguardia era di fondamentale importanza
per la sopravvivenza della fede intesa come ortodossia; entrambi gli
obiettivi erano stati perseguiti con lucidità d’intenti ma con alterne
fortune dai diversi esponenti della società ecclesiale fino ad arrivare,
in tempi più recenti, al fondamentale contributo di Carlo Borromeo,
infatti così come prosegue l’introduzione:

“ …E recentioribus, ecclesiasticae disciplinae reparator insignis B.


Carolus Borromaeus S.R.E. cardinalis et archiepiscopus
Mediolanensis in concilio provinciali primo, non uni suae, sed
ceterorum etiam antistitum ecclesiis, sacrae suae metropoli
contributis, summe cavit, ob illarum iura sarta tecta servanda de
archivis et tabulariis in singulis episcopatibus speciatim erigendis
peculiares canones promulgari statuens, quod et nos, tam gravem et
piam disciplinam prae oculis habentes, olim in concilio nostro
provinciali primo Beneventano, Deo favente, statuimus maiorum
exempla secuti, qui in suis constitutionibus non solum Romae, sed
praecipue in universis regionibus et civitatibus, B. Petri apostolorum
principis temporali imperio subiectis, archivia et tabularia erigi
iusserunt, ne scripturae ad res publicas attinentes disperderentur”242.

Benedetto XIII, quindi, collegava la sua attività in favore degli archivi


ecclesiastici all’esempio offerto da predecessori quali il Borromeo ed i
pontefici a lui coevi e successivi, la disposizione presente, dunque, si
inseriva perfettamente lungo un percorso coerente costellato di tali
fulgidi ed ammirevoli esempi; ma, rafforzata la natura del
provvedimento mediante la sua perfetta incastonatura nel grande
edificio storico della tradizione ecclesiale, occorreva anche precisarne
la contingenza occasionale che ne rendeva necessaria l’emanazione, e
cioè:

“Quum vero ad aures nostras rumor pervenerit in multis


episcopatibus et ecclesiis rem tan providam utilemque non sine

242
E. LOEVINSON, op. cit., pp. 189-190; Enchiridion, op. cit., pp. 104-105.
133
privato et publico damno negligi; quod nisi opportuno remedio tollere
satagamus, incommoda ecclesiarum facile in immensum crescent: nos
ex debito pastoralis officii…et fraudes ac subreptiones scripturarum,
quae tempore sedium vacantium perpetrabantur, etiam respicientes,
necessarium putavimus nonnnullas alias ordinationes et statuta his
nostris apostolicis litteris perpetuum robur habituris edere tenoris
sequentis…”243

Il provvedimento, quindi, era occasionato dalla constatazione che in


molti episcopati ed in altre chiese si verificavano negligenze nella
buona tenuta degli archivi, soprattutto durante le vacanze delle sedi
vescovili e nella successione di altre autorità si perpetravano frodi,
sottrazioni ed alterazioni di documenti con grave danno degli enti a
cui appartenevano; si rendeva opportuno perciò decretare nuove
regole che trattassero nel dettaglio i vari aspetti concernenti
l’organizzazione ed amministrazione di archivi.
Cominciando con lo stabilire l’erezione di luoghi deputati a deposito
archivistico per tutte le istituzioni ecclesiastiche in territorio italiano
laddove non si fosse già provveduto, i paragrafi 2, 3 e 4 prescrivevano
l’obbligo di erigere archivi rispettivamente per patriarchi, metropoliti,
arcivescovi, vescovi, prelati esercenti giurisdizione vescovile ed altri
prelati inferiori, seguivano i capitoli delle chiese cattedrali e delle
collegiate, chiudevano gli abati, i priori ed i superiori di qualsiasi
ordine religioso, badesse e priore di conventi femminili, ospedali,
collegi, seminari, confraternite, monti di pietà e altri luoghi pii.
Un’interessante chiarificazione sulle modalità di conservazione degli
archivi capitolari da tenere distinti dai depositi documentari delle
chiese cattedrali e collegiate in cui i capitoli operavano, è offerto dal
paragrafo 3 in cui si afferma che:

“Volumus enim, ut archiva capitulorum ab illis quae sunt ecclesiarum


cathedralium et collegiatarum omnino distinguantur; ideoque in
prospectu et facie sive anteriori parte cuiscumque archivi sive armarii
esterius scribatur cuiusnam sit illud archivum, an scilicet ecclesiae,
an vero capituli”244.

Finiva, quindi, quell’ambiguità, protrattasi per secoli, che coinvolgeva


lo status degli archivi capitolari, a volte distinti dagli archivi
episcopali, ma spesso in comune e ciò era causa di confusione e
dissidi tra le rispettive parti soprattutto durante le successioni di
ordinari ed altri superiori; a partire dalla costituzione di Benedetto

243
Ivi.
244
Enchiridion, p.106.
134
XIII gli archivi capitolari acquisirono in via definitiva un loro
specifico e distinto status che andava certificato con apposite targhe da
posizionare sugli armadi o nei locali in cui si conservava la
documentazione capitolare.
Da notare, inoltre, la peculiare preoccupazione di Benedetto XIII
riguardo la sicurezza materiale garantita dal luogo scelto come
deposito delle scritture, nel paragrafo 2 infatti si fa presente che la
documentazione andava riposta: “in quo loco tuto, congruo, non
humescenti, unde scripturis lapsu temporis pernicies ulla
inferatur…”245.
Preoccupazioni comprensibili se si ricorda l’esperienza diretta che
l’allora arcivescovo Orsini aveva avuto modo di fare nell’ordinamento
delle antiche e preziose pergamene della biblioteca capitolare di
Benevento e di altre chiese della diocesi, quell’esperienza, arricchita
dal contatto materiale con una cospicua mole documentaria in precario
stato di conservazione, aveva certamente sensibilizzato il pontefice
riguardo le condizioni fisiche dei luoghi destinati ad ospitare i
documenti come dimostra la menzione dell’umidità, una delle
peggiori concause del degrado fisico di materiale archivistico nel
corso dei secoli246.
Ma la conservazione dei fondi archivistici dipendeva non solo dalle
precauzioni materiali relative ai luoghi di deposito, bensì anche
dall’attività di inventariazione, caposaldo della cultura archivistica
ecclesiastica fin dall’antichità e successivamente, nel corso dei secoli,
condotta a livelli di sempre maggiore accuratezza; nella Maxima
vigilantia il procedimento viene trattato nei paragrafi 5, 6, 7, 8, 9 e 12
e regolato in maniera sistematica indicando per ciascun ente
ecclesiastico le persone responsabili della confezione e sottoscrizione
degli inventari, questi, inoltre, devono essere corredati: “cum brevi
singularum scripturarum synopsi et lemmate vel summario”247, cioè di
una breve descrizione per ogni documento e di un indice.
L’inventario degli archivi episcopali era responsabilità del cancelliere
della curia diocesana che lo doveva anche sottoscrivere pagina per
pagina, mentre la sottoscrizione finale spettava al vescovo, invece gli
inventari degli archivi seminariali erano affidati ad un notaio pubblico
e sottoscritti dal vicario generale; gli inventari dei capitoli di cattedrali
e collegiate dovevano essere confezionati dall’archivista e sottoscritti
da un canonico anziano, mentre quelli relativi agli archivi delle
collegiate erano affidati ad una persona deputata dal vescovo e

245
Enchiridion, p. 105.
246
Tra le pubblicazioni concernenti le tematiche della conservazione materiale di libri e documenti
si consiglia S. LORUSSO, Caratterizzazione, tecnologia e conservazione dei manufatti cartacei,
Bulzoni, 2006.
247
Enchiridion, p. 107.
135
sottoscritti dal vicario generale e da un canonico anziano; gli inventari
degli ordini regolari dovevano essere redatti dall’archivista del
monastero e sottoscritti dall’abate o altro superiore, mentre quelli
relativi agli archivi dei monasteri femminili erano affidati ad una
persona deputata dal vescovo a cui spettava anche la sottoscrizione;
infine gli inventari degli archivi di chiese conventuali, collegi,
congregazioni, confraternite, ospedali, monti di pietà e altri luoghi pii
erano affidati al rispettivo archivista e sottoscritti dal camerlengo di
ciascun ente.
Tutti questi inventari dovevano essere redatti in duplice copia di cui
una era destinata all’archivio diocesano competente e l’altra rimaneva
sotto la custodia e responsabilità delle autorità prelatizie preposte a
ciascun ente e trasmessa ai successori al termine del loro ufficio; per
ogni inventario, inoltre, si prescriveva un aggiornamento da effettuare
ogni anno nel mese di gennaio aggiungendo la nuova documentazione
acquisita248.
Le norme atte a regolare la tenuta in sicurezza del materiale
documentario trovavano un ulteriore tassello nei paragrafi 10 e 11249
dove si precisavano le responsabilità relative alla custodia delle chiavi
con cui era possibile accedere agli archivi, le suddette chiavi
dovevano essere sempre due, differenti tra loro ed affidate a persone
distinte la cui qualifica variava, come nel caso degli inventari, secondo
la tipologia degli enti ecclesiastici presi in considerazione, così per gli
archivi episcopali le due chiavi erano rispettivamente affidate al
vescovo ed al cancelliere, mentre per gli archivi capitolari ciascuna
chiave era presa in consegna l’una dall’archivista e l’altra da un
canonico anziano; interessante è, inoltre, il riferimento fatto nel
paragrafo 11 alla consuetudine presente in alcuni casi di distinguere il
materiale documentario di proprietà di canonici beneficiati250 dai
restanti fondi archivistici dell’archivio capitolare, la consuetudine,
quindi, veniva inglobata nel testo della costituzione, non solo per il
rispetto e la pragmatica constatazione della tenacia con cui queste
forme di diritto non scritto si radicavano nella mentalità, ma anche
perché, in questo caso, assecondavano il disegno del provvedimento di
Benedetto XIII di favorire la massima distinzione possibile tra i
diversi complessi archivistici con il fine di evitare quelle diatribe e
situazioni confuse più facilmente ravvisabili laddove il materiale
documentario era conservato in maniera promiscua ed indistinta, a

248
E. LOEVINSON, op.cit., p. 190-192.
249
Enchiridion, op. cit., pp. 109-110.
250
Alcuni canonici appartenenti al clero dei capitoli di cattedrali e collegiate potevano disporre di
uno o più benefici, beni connessi alle volte anche ad istituzioni religiose diverse da quelle in cui
prestavano servizio, da cui originavano documenti separati da quelli legati ai beni complessivi del
capitolo.
136
riprova di ciò, nello stesso paragrafo, si disponeva la creazione di
archivi distinti per i canonici beneficiati qualora i loro documenti non
fossero presenti neanche nell’archivio capitolare.
Per controllare la corretta applicazione delle norme stabilite nel
provvedimento era previsto il ricorso alla visita pastorale, le cui
modalità di svolgimento erano delineate nei paragrafi 13, 14 e 15 251; si
stabiliva, dunque, che uno dei momenti più qualificanti nelle attività di
visita era il controllo sulle modalità di conservazione ed
organizzazione degli archivi, i vescovi o i loro delegati erano tenuti a
sincerarsi delle condizioni in cui versavano i fondi documentari e a
verificare se il loro ordinamento rispettava le modalità prescritte
nell’istruzione dedicata alla corretta disposizione delle specifiche
tipologie documentarie proprie di ogni ente, gli archivi da controllare
erano anzitutto quello episcopale e diocesano, poi quello capitolare
seguito da eventuali archivi distinti di canonici beneficiati,
successivamente si provvedeva al controllo degli archivi delle altre
chiese della diocesi, le informazioni ottenute durante le visite
andavano poi formalizzate in una relazione da presentare alla sede
pontificia al tempo delle visite ad limina; incombenze simili
spettavano ai generali e provinciali dei vari ordini religiosi durante le
loro visite ai singoli monasteri di ciascun ordine.
Alcuni paragrafi, segnatamente il 18, 22 e 23252, riguardano le attività
da intraprendere per il recupero di materiale documentario disperso e
per la corretta gestione del patrimonio archivistico, i vescovi e gli
ordinari, infatti, avevano il compito di sincerarsi sulla eventuale
sottrazione o dispersione di documenti, avvenimenti che occorrevano
con maggiore probabilità durante la sede vacante, e di adoperarsi con
qualsiasi rimedio necessario per ottenere la restituzione delle scritture,
inoltre la documentazione presente negli archivi era accessibile solo
previa autorizzazione del prelato o superiore responsabile e chi
riceveva dei documenti era tenuto a sottoscrivere una ricevuta valida
per tre giorni in un apposito registro tenuto in archivio; il paragrafo
23, poi, onde facilitare una più efficiente consultazione degli archivi
nella particolare fattispecie delle carte processuali, prescriveva ai notai
di consegnare all’archivista qualsiasi documentazione inerente i
processi sia civili che criminali entro l’intervallo di un mese
successivo alla spedizione delle cause.
Norme, queste, che integravano ad elementi tradizionali della cultura
archivistica ecclesiastica, quali l’antica prescrizione di recuperare le
scritture indebitamente sottratte alla Chiesa, aspetti più moderni
relativi alle modalità di gestione degli archivi che si riscontravano

251
Enchiridion, op. cit., pp. 110-111.
252
Ivi, pp.112-114.
137
nell’obbligo dato ai notai di consegnare agli archivisti ecclesiastici la
documentazione processuale, obbligo che, lo si ricorderà, interessò la
documentazione notarile relativa ad affari ecclesiastici fin dal tardo
medioevo, ma in maniera sempre più cogente in età post-tridentina,
moderna era anche la gestione del prestito e della consultazione di
documenti regolata da autorizzazioni e ricevute sistematicamente
registrate, un po’ come avviene anche oggi prima di entrare nella sala
consultazione di un moderno Archivio di Stato.
Il momento più delicato per la sicurezza degli archivi diocesani era
individuato nell’intermezzo temporale tra la morte di un vescovo o
ordinario e l’insediamento del suo successore, in questo periodo di
precarietà del potere segnato da minori controlli così come, spesso, da
diatribe e conflitti tra prelati, ufficiali di curia ed autorità laiche, i
fondi archivistici rischiavano di subire sottrazioni o alterazioni di
documenti, rovinando, almeno in parte, tutto il lavoro di attenta
applicazione delle norme concernenti gli archivi effettuato dai
precedenti ordinari.
Al fine di limitare il più possibile tali rischi i paragrafi 19,20 e 21
dettavano istruzioni precise sulle attività da compiere in vista del
delicato momento della successione, il paragrafo 19, in particolare,
prescriveva che:

“Decessurus vel ad longum tempus extra dioecesim abiens episcopus,


praelatus, sive ordinarius, inventarium scripturarum archivi, suo
sigillo obsignatum, teneatur omnino dare proprio confessario, aut
alicui superiori regulari eiusdem civitatis cum syngrapha receptionis
tradatur, iuxta memoratam Pii V praedecessoris nostri
constitutionem. Superior autem novo electo episcopo seu ordinario,
vel antiquo illuc redeunti, idem inventarium tribuat, restituta
syngrapha receptionis superiori. Si tamen obitus iamdicti confessarii
vel superioris ante novi episcopi seu ordinarii electionem sive reditum
supradictum evenerit, tunc inventarium et syngrapha memorata
confessariis eorum respective, adhibita simili cautione, tradantur, et
executioni demandetur quod ipsi, morte praeventi, adimplere
nequiverint”253.

Quindi la focalizzazione principale era centrata sull’inventario, l’unico


strumento di certificazione della quantità e qualità della
documentazione presente in archivio che avrebbe permesso al vescovo
od ordinario successore di sincerarsi di eventuali alterazioni degli
assetti archivistici intervenuti durante il periodo di sede vacante,
perciò gli inventari dovevano essere preservati affidandoli al

253
Ivi, p. 112.
138
confessore personale del vescovo od ordinario trapassato oppure ad un
superiore regolare della medesima città che li riceveva previa
consegna di una ricevuta, la quale avrebbe dovuto essere riconsegnata
in seguito dal nuovo vescovo od ordinario successore per poter
recuperare gli inventari ivi custoditi, al suddetto procedimento erano
tenuti a collaborare anche i canonici del capitolo a cui il paragrafo 20
ingiungeva di verificare se la sopracitata procedura di consegna degli
inventari al confessore o al superiore regolare era stata rispettata, in
caso contrario due canonici anziani prese in consegna le chiavi
dell’archivio e sigillate le porte davanti a due preti non capitolari
come testimoni, dovevano controllare la documentazione mediante la
copia dell’inventario presente in archivio, se non si fosse trovata copia
dell’inventario questo doveva essere redatto per mano di notaio
pubblico in due copie, una delle quali doveva rimanere in archivio
mentre l’altra andava consegnata al superiore regolare in attesa
dell’arrivo del nuovo ordinario; durante l’interregno tra un vescovo ed
il successivo le chiavi dell’archivio dovevano essere tenute, come
normato dal paragrafo 21, da due canonici a ciò deputati dal consesso
capitolare.
L’insieme di tali norme, qui brevemente sintetizzate, era corredato da
un apparato finale di sanzioni e validazioni formali, occupanti gli
ultimi cinque paragrafi, finalizzati a corroborare e a dare solennità
all’intero provvedimento, il quale, tuttavia, non si esauriva nel
complesso dispositivo sopraelencato, ma recava in allegato
un’istruzione in lingua italiana, richiamata più volte nel testo della
costituzione, che si sviluppava in sette paragrafi nei quali si
enumeravano tutte le specie di scritture che dovevano essere riposte e
conservate nelle varie categorie di archivi254.
I suddetti sette paragrafi sono così ripartiti:

I.Le scritture da riporsi e conservarsi in tutti gli archivi tanto de’


vescovi e di altri ordinari, quanto de’ capitoli delle chiese cattedrali,
collegiate e recettizie, de’ collegi, seminari, convitti, congregazioni,
confraternite, spedali, monasteri de’ regolari dell’uno e dell’altro
sesso, e di altri luoghi pii.
II.Scritture particolari, da riporsi e conservarsi in tutti gli archivii de’
vescovi e degli altri ordinari nullius, e che hanno giurisdizione quasi
episcopale oltre alle sopradette del § I.
III.Scritture particolari da riporsi e conservarsi in tutti gli archivi de’
capitoli delle chiese cattedrali e collegiate, oltre alle sopradette nel §
I.

254
E. LOEVINSON, op. cit., pp. 197-203
139
IV.Scritture particolari da riporsi e conservarsi nelle chiese
parrocchiali oltre alle sudette nel § I.
V.Scritture particolari da riporsi e conservarsi in tutti gli archivi de’
monasteri, e conventi regolari oltre alle sudette nel § I.
VI.Scritture particolari da riporsi econservarsi in tutti gli archivi de’
monasteri di monache, e de’ conservatori, oltre alle sudette nel § I.
VII.Scritture particolari da riporsi e conservarsi negli archivi delle
confraternite, oltre alle sudette nel § I.255

Questa istruzione ha rappresentato un riferimento rilevantissimo nella


storia successiva degli archivi ecclesiastici, infatti, strutturata a partire
dall’opera classificatoria del Borromeo e valorizzando la stessa
esperienza dell’Orsini nella diocesi di Benevento, tale dettagliata
presentazione delle tipologie documentarie più diffuse per ogni
categoria di ente ecclesiastico completava, sul piano effettivo,
l’apparato dispositivo della costituzione, rendendola più accessibile e
facilitandone, quindi, l’applicazione grazie anche all’uso della lingua
italiana; un’applicazione che anche se non sempre fu osservata
ovunque con il dovuto scrupolo, va, nondimeno, tenuta in debita
considerazione dal momento che molti archivi ecclesiastici furono
allora riordinati secondo il quadro tipologico individuato
nell’istruzione.
Nel complesso la costituzione Maxima vigilantia si pose come
riepilogo ed elaborazione di tutta una cultura archivistica che le
istituzioni ecclesiastiche avevano progressivamente sviluppato nel
corso dei secoli, come tale costituì il punto di arrivo di questa
tradizione ed il riferimento obbligato negli anni successivi fino alla
codificazione canonica del 1917; anni che videro trasformazioni
imponenti nelle mentalità e negli assetti giuridico-sociali e che
coinvolsero la chiesa in un profondo processo di autoripensamento
che naturalmente influì anche sul suo immenso e prezioso patrimonio
archivistico, ma che non condusse all’abbandono di una prospettiva
attenta alla tradizione, in special modo quando da questa erano
scaturiti frutti di tale importanza per la salvezza di una parte
fondamentale del patrimonio storico, a testimoniare tale attenzione si
citerà un’affermazione dell’allora cardinale Giovanni Roncalli che
così definiva la costituzione di papa Benedetto XIII: “un prontuario
completo, atto a preparare in brevissimo tempo un archivista
ecclesiastico a cui venisse affidato il delicato e nobile incarico di
custodire e difendere come un cherubino, di rendere utile, un
archivio”256.

255
Enchiridion, appendice n. 2, pp. 331-336.
256
A. G. RONCALLI, La Chiesa e gli archivi, in “Archiva Ecclesiae”, I-1958, pp. 52
140
10) Gli archivi ecclesiastici tra soppressioni di corporazioni
religiose ed interesse culturale

Gli assetti giuridico-istituzionali del corpo ecclesiale subirono tra la


seconda metà del settecento ed il secolo successivo mutamenti
sostanziali di grande rilievo, l’iniziativa in tal senso, però, non partì
dalla Chiesa nel suo complesso o dal suo centro, il papato, ma dagli
Stati in cui le strutture ecclesiastiche insistevano ed operavano.
Era accaduto che correnti di idee privilegianti il pensiero razionale e
scientifico facessero sempre più presa tra le elìte politiche ed
economiche degli Stati fino ad influenzare le stesse autorità sovrane,
progressivamente persuase della necessità di riforme degli assetti
giuridici ed economici finalizzate ad ottimizzare le risorse finanziare
disponibili e, di conseguenza, rafforzare le basi produttive ed
economiche dei regni, all’interno di tali riforme assunsero piena
centralità quelle riguardanti l’insieme delle strutture ecclesiastiche.
Per la verità, già in precedenza, all’indomani del Concilio di Trento,
nei diversi Stati legati alla Chiesa cattolica, via via che si rafforzava la
concezione assolutistica del potere sovrano, l’influenza
dell’ordinamento canonico venne sempre più condizionata
dall’assenso dei re, emblematiche furono, infatti, le limitazioni ed i
distinguo imposti dai sovrani all’esecuzione dei decreti tridentini; del
resto per consolidare la propria autorità politica, i sovrani tendevano a
confessionalizzare gli Stati utilizzando i fattori religiosi come elementi
di stabilità delle costruzioni sociali e giuridiche e come sostegno del
principio stesso di autorità, nonché come aggreganti di un sentimento
identitario.
In tale ottica gli Stati assoluti cercavano di incorporare politicamente
le istituzioni ecclesiastiche secolari e regolari presenti nelle loro
circoscrizioni obbligando il papato a riconoscere a principi e sovrani
un potere sulla Chiesa del territorio che si esplicava in modo sempre
più pervasivo mediante il controllo sulle nomine episcopali ed
abbaziali, i diritti di patronato sui benefici e la revisione delle
amministrazioni finanziarie degli enti257.
Se fino a quel momento, però, era in discussione il controllo degli
assetti ecclesiastici e non la loro esistenza, nel tardo settecento
l’impostazione prevalente cominciò ad inclinare verso una modifica
profonda di quegli assetti; la confluenza delle teorie
giurisdizionaliste258 nell’alveo della cultura illuminista rafforzava la
concezione della Chiesa come una mera associazione da sottoporsi

257
C. FANTAPPIE’, Introduzione storica al diritto canonico, op. cit., pp. 180-182.
258
A. C. JEMOLO, Giurisdizionalismo, in Enciclopedia del diritto, XIX, pp. 185-190.
141
all’autorità dello Stato a cui spettava anche il diritto di regolare le sue
strutture sul piano economico ed organizzativo, inoltre il desiderio di
rinnovamento economico e sociale conduceva i percorsi riformatori
verso una direzione apertamente anticuriale, considerando i vecchi
assetti ecclesiastici con la loro pletoricità di ordini e monaci ricchi di
privilegi e possedimenti fondiari eccessivi ed in pari tempo male
amministrati, un residuato di epoche passate da correggere in vista di
una società più giusta e più produttiva.
Da quel periodo, dunque, cominciò un vasto ed inarrestabile processo
riformatore attivo in tutta l’Europa cattolica che condusse alla drastica
ristrutturazione degli assetti ecclesiastici territoriali operato
principalmente mediante lo sfoltimento progressivo e la soppressione
di nuclei sempre più consistenti di quella vasta congerie di ordini
monastici, congregazioni e confraternite religiose che popolavano da
secoli i panorami urbani e rurali d’Europa, ma che venivano percepiti
dai nuovi ceti emergenti di estrazione borghese come improduttivi ed
inutili ai fini del progresso socio-economico degli Stati.
Le soppressioni in Italia ebbero inizio nel tardo settecento in
concomitanza con le riforme operate da sovrani e ministri sensibili
alla temperie illuminista e giurisdizionalista predominante in quegli
anni259, in Lombardia ed in Toscana soprattutto l’azione riformatrice
con il suo corollario di soppressioni di enti religiosi fu particolarmente
incisiva e significativa storicamente in quanto ricollegabile al fervore
riformista di Giuseppe II, in quegli anni imperatore a Vienna, ed
esponente assai entusiasta del dispotismo illuminato i cui frutti si
fecero sentire in territorio lombardo, appartenente alla corona
asburgica, ed in quello toscano il cui Granduca era Pietro Leopoldo di
Lorena fratello di Giuseppe; ma fu nel periodo Napoleonico260 che
l’azione riformatrice raggiunse il culmine con la soppressione di
numerosi conventi e luoghi pii, in questo caso giocava un ruolo
importante anche un fattore ideologico quale l’intenso anticlericalismo
che l’Impero di Napoleone aveva ereditato dagli anni rivoluzionari e
che riproponeva su più larga scala nei territori conquistati, fattori
ideologici che, se persero il loro mordente anticlericale dopo la fine
del dominio Napoleonico e gli anni della restaurazione, non
contribuirono a mutare la sorte degli assetti ecclesiastici ormai
ovunque soggetti alle necessità ed ai desideri delle autorità sovrane dei
singoli Stati, fino ad arrivare alle cosiddette leggi di eversione
259
Per una panoramica esauriente sul settecento italiano in chiave riformatrice rimane
imprescindibile l’opera di Franco Venturi tra cui: F. VENTURI, Settecento riformatore. Da
Muratori a Beccaria, Einaudi, 1998; F. VENTURI, Settecento riformatore. La Chiesa e la
repubblica dentro i loro limiti 1758-1774, Einaudi, 1976.
260
Sul complesso tema della dominazione Napoleonica in Italia si segnalano tra le opere più
generali: A. PILLEPICH, Napoleone e gli italiani, Il Mulino, 2005; C. ZAGHI, L’Italia di
Napoleone, UTET, 1989.
142
dell’asse ecclesiastico che introdotte inizialmente dal Regno di
Sardegna negli anni cinquanta dell’ottocento, furono poi estese con
nuovi provvedimenti in tutto il territorio italiano unificato sotto la
dinastia Savoia, segnando con ciò una nuova era nei rapporti tra
autorità statale e Chiesa in Italia.
Naturalmente i provvedimenti di soppressione coinvolgenti numerosi
enti religiosi, spesso operanti dall’epoca medioevale, ebbero un
impatto decisivo sulla conservazione dei ricchi e preziosi fondi
archivistici ivi acccumulatisi nei secoli, la storia delle traversie di tali
archivi è spesso assai intricata e complessa, di seguito si renderà conto
sinteticamente dell’iter percorso dalla maggior parte di essi fino alla
definitiva sistemazione attuale nei moderni Archivi di Stato.
All’atto della soppressione di un ente religioso gran parte dei suoi
beni veniva incamerata dallo Stato che procedeva successivamente
alla loro inventariazione e vendita, alla gestione di tali mansioni di
cernita e valorizzazione dei beni ecclesiastici così requisiti erano
deputati degli uffici variamente denominati a seconda dello Stato in
cui operavano, ma per adempiere con più efficacia ai loro compiti
questi uffici necessitavano della documentazione archivistica correlata
ai beni di cui si doveva effettuare l’inventariazione.
A Milano, ad esempio, nel 1787 era stato istituito il Fondo di
Religione261 con il compito di amministrare e difendere i beni
incamerati dallo Stato all’atto delle soppressioni, gli archivi delle
corporazioni religiose soppresse, pertanto, erano concentrati presso
L’Archivio Generale del Fondo di Religione per servire da base
all’azione concreta svolta dalla magistratura, era infatti necessario
poter trovare i documenti utili alle rivendicazioni di diritti e beni ed
all’amministrazione corrente, ne conseguiva che l’organizzazione
originaria dei singoli archivi concentrati nel Fondo di Religione
veniva profondamente modificata, senza contare le possibili
dispersioni dovute a trasferimenti di materiale archivistico avvenuti in
condizioni precarie ed alla loro concentrazione spesso disordinata ed
approssimativa; anche in età Napoleonica il fondo continuò nelle sue
funzioni, così come fecero gli altri uffici preposti alle medesime
attività in altre parti d’Italia, nel frattempo, però, un altro tipo di
interesse cominciava a diffondersi intorno agli archivi degli enti
religiosi soppressi, quello culturale.
Gli anni di cui si parla, infatti, non videro solo lo sconvolgimento dei
tradizionali assetti ecclesiastici, ma furono attraversati da processi
riformatori e movimenti rivoluzionari che coinvolsero tutte le vecchie
strutture politiche, economiche e sociali, man mano che si procedeva

261
A. R. NATALE, L’Archivio Generale del Fondo di Religione dello Stato di Milano. Note e
documenti, Milano, 1969.
143
allo smantellamento o alla riforma delle istituzioni tradizionali di
antico regime una vasta pletora di uffici scompariva per essere
sostituita da una nuova organizzazione amministrativa, ma ciò aveva
per conseguenza che i fondi archivistici connessi alle attività degli
antichi uffici con la sparizione di questi perdevano la loro rilevanza
pratica venendo ad assumerne un’altra di tipo storico-culturale.
A partire da quest’epoca si posero le basi per lo sviluppo delle
moderne amministrazioni archivistiche con l’istituzione dei primi
archivi di concentrazione intesi primariamente come centri di ricerca
scientifica in cui i fondi archivistici erano concepiti nella loro valenza
di preziose testimonianze storiche; alle origini di tale sviluppo vi
furono i cosiddetti archivi diplomatici, che, per la verità, più che
archivi erano raccolte di documenti pergamenacei estratti dai più
disparati fondi archivistici e selezionati per la loro antichità e presunta
importanza storica, in Italia le prime siffatte istituzioni archivistiche di
una certa importanza si costituirono nel 1778 a Firenze262 e nel 1803 a
Milano263, a Napoli, invece, la concentrazione in un’unica sede di
molti fondi archivistici antichi disposta da Gioacchino murat nel 1808
sfociò, durante gli anni della restaurazione Borbonica, nella “Legge
organica degli Archivii del Regno”264 del dodici novembre 1818 che
delineando un sistema archivistico composto da “Archivi provinciali”
nei capoluoghi di provincia e dal “Grande Archivio” a Napoli dov’era
istituita anche una scuola di studi storico-diplomatici, si configurò
come una delle disposizioni archivistiche più avanzate del tempo,
anticipatrice della successiva strutturazione degli Archivi di Stato
concepita dopo l’unificazione dello Stato italiano.
La maggior parte degli archivi degli enti religiosi soppressi, quindi,
dopo aver espletato le funzioni di ausilio relative alle attività di
gestione dei beni ecclesiastici requisiti, furono destinati alla
conservazione permanente per scopi culturali negli archivi diplomatici
di formazione coeva, spesso dopo essere stati in un primo momento
separati dal materiale pergamenaceo più antico, la componente
considerata più importante e, dunque, più richiesta nella composizione
delle raccolte diplomatiche.
Con il senno di poi la concentrazione di molti fondi archivistici
prodotti da enti religiosi in poche sedi centralizzate provviste delle
strutture più adeguate ai fini della loro conservazione e valorizzazione
dovrebbe essere considerata una soluzione positiva per le sorti della
262
G. PAMPALONI, L’Archivio diplomatico fiorentino (1778-1852). Note di storia archivistica,
in “Archivio storico italiano”, CXXII, Firenze, 1965, pp. 177-221.
263
A. R. NATALE, Il museo diplomatico dell’Archivio di Stato di Milano, in “Notizie degli
Archivi di Stato”, II, 1, Roma, gennaio-marzo 1942, pp. 9-15.
264
A. GRANITO, Legislazione positiva degli Archivii del Regno, contenente la legge organica
del 12 novembre 1818 e gli annessi regolamenti, insieme con tutti i consecutivi reali decreti,
rescritti e ministeriali riguardanti gli Archivii, Tipografia Ferdinando Raimondi, 1855.
144
ricerca scientifica, e certamente in buona misura lo è, ma è anche bene
ricordare le vicissitudini a cui furono sottoposti gran parte di tali fondi
negli anni immediatamente successivi alle soppressioni degli enti cui
appartenevano, le dispersioni di materiale e lo sconvolgimento della
loro struttura originaria furono “effetti collaterali” a cui, ancora oggi, i
moderni archivisti e studiosi a loro interessati cercano faticosamente
di porre rimedio.
Lo sviluppo di autonome amministrazioni archivistiche deputate alla
conservazione degli antichi complessi documentari considerati
innanzitutto nella loro valenza culturale fu, indubbiamente, un fatto
assolutamente innovativo, di enorme importanza non solo nella storia
degli archivi, ma per la storia della cultura in Europa e oltre, la
documentazione archivistica passava da una prevalente concezione
come arsenals de l’autoritè tipica dei secoli medioevali e degli Stati di
antico regime, ad una sempre più avvertita consapevolezza del suo
valore storico, archivi come laboratoires de l’histoire, riprendendo le
espressioni efficaci quanto pregnanti che Robert Henri Bautier ha
coniato in suo saggio per descrivere le trasformazioni intercorse tra i
secoli precedenti e l’età contemporanea nell’ambito della storia degli
archivi e dell’archivistica265.
Tuttavia le radici di tale interesse storico-culturale per la
documentazione archivistica erano già ravvisabili secoli addietro,
soprattutto a partire dall’epoca umanistica e rinascimentale che
inoculò in intellettuali e studiosi il gusto per la ricerca antiquaria ed il
piacere di raccogliere e studiare libri, documenti, opere d’arte e
manufatti di ogni genere al fine di recuperare la cultura ed il sapere
degli antichi, ma fu in ambito ecclesiastico che queste passioni
antiquarie erano destinate a dare frutti importanti nell’ambito della
ricerca storica e particolarmente nella tecnica esegetica delle fonti.
Dalla seconda metà del cinquecento, infatti, la frattura confessionale
apertasi nell’Europa cristiana stimolava lo studio sempre più
approfondito delle fonti della cristianità con lo scopo di ricostruire un
percorso storico che avvalorasse il sistema dottrinario a cui ci si
riferiva, per cui se il punto di vista protestante aveva condotto
all’elaborazione delle Centuriae di Magdeburgo in cui la storia della
Chiesa era suddivisa per secoli e ricostruita privilegiando le fonti anti-
papali, il campo cattolico rispondeva con gli Annales ecclesiastici del
cardinale Cesare Baronio, monumentale opera in dodici volumi che si
proponeva di dimostrare la continuità e la coerenza nel corso dei

265
R. H. BAUTIER, La phase cruciale de l’histoire des archives: la constitution de depots
d’archive e la naissance de l’archivistique (XVIe-début XIXe siècle), in “Archivum”, 18 (1968),
pp. 139-149.
145
secoli dell’autorità pontificia e delle altre istituzioni ecclesiastiche
oggetto di contestazione da parte riformata.
L’evidente fine apologetico che caratterizzava le due opere non deve
però far sottovalutare la loro importanza sul piano metodologico, per
la prima volta, infatti, la storia ecclesiastica abbandonava il mondo
onirico dei miti e delle leggende per fondarsi sulla ricerca e sullo
studio di fonti verificabili e tra queste un ruolo importante ebbero
tipici documenti d’archivio come bolle e privilegi di papi ed autorità
secolari, gli archivi quindi, particolarmente in ambito ecclesiastico,
vedevano accrescere considerevolmente la loro connotazione di
testimonianze storiche, non solo di diritti e prerogative squisitamente
giuridico-economiche, ma anche di verità di fede su cui si reggevano
intere impalcature dottrinali ed istituzionali.
Già alla fine del cinquecento questa percezione dell’importanza
storica degli archivi ci è testimoniata da un’affermazione di Onorato
de’ Medici, archivista a Montecassino, che riferendosi alle ricchezze
dell’antico e prestigioso cenobio benedettino ne elencava le due
categorie principali, un tesoro di ordine spirituale costituito dalle
reliquie, cioè i corpi di San benedetto e Santa Scolastica, e un altro
tesoro di ordine temporale che non era formato, però, dalle pur
rilevanti ricchezze mobiliari e fondiarie o dalla signoria feudale con
gli annessi diritti di giurisdizione, ma dalle “ scritture che si
conservano nell’archivio cassinese di grande antichità, et credo che
al mondo non vi siano simili; et sono con gran diligenza et bellissimo
ordine tenute…”266.
Tale consapevolezza era destinata ad aumentare ancor più nel corso
del seicento, secolo in cui furono impostate le basi di discipline
fondamentali per l’esegesi documentaria quali la diplomatica, la
sigillografia e la paleografia, tecniche necessarie al lavoro di
ricostruzione storica che pur permanendo vincolato a quei limiti
apologetici già prima menzionati, tendeva ad affinare
considerevolmente i suoi metodi e strumenti di indagine in nome di un
sentito bisogno di rigore razionale nonché morale nella ricerca della
verità storica quand’anche si fosse profondamente impegnati nella
difesa della propria fede.
Francia e Belgio furono le sedi principali nello sviluppo
dell’erudizione ecclesiastica seicentesca, ivi i Bollandisti, un gruppo
di gesuiti capeggiati dal belga Jean Bolland, diedero il via alla
compilazione degli Acta Sanctorum, una raccolta critica di documenti
ed informazioni storiche sui santi che inquadrava per la prima volta

266
F. AVAGLIANO, L’archivio dell’abbazia di Montecassino, in La memoria silenziosa.
Formazione, tutela e status giuridico degli archivi monastici nei monumenti nazionali, Ministero
per i Beni e le Attività Culturali, 2000, pp. 113-118.
146
l’agiografia in una dimensione storico-critica, un’opera monumentale
di eccezionale importanza nell’ambito della cultura europea del
seicento, così come importante fu il contributo dei Maurini,
benedettini della congregazione di St. Maur, nell’edizione delle opere
dei Padri della Chiesa e, in particolar modo, nello sviluppo delle
discipline di esegesi documentaria quali la diplomatica e la
paleografia267 che trovarono nei monaci Jean Mabillon268, Bernard de
Montfaucon269, René Tassin e Charles Toustain270 i loro padri
fondatori, ancora oggi considerati figure centrali nell’ambito degli
studi storici.
Attraverso il lavoro e le iniziative dei personaggi sopracitati e di altri
ancora si giunse alla formazione, nell’Europa tra 17° e 18° secolo, di
una vera e propria comunità ecclesiastica internazionale di studiosi ed
eruditi che si trasmettevano continuamente conoscenze e scoperte
mediante viaggi, lettere e pubblicazioni; tutto ciò, naturalmente, non
mancò di influenzare la percezione che le alte gerarchie ecclesiali
avevano nei riguardi dei ricchi complessi archivistici della Chiesa e
che sfociò molto spesso, come si è visto nel caso di papa Benedetto
XIII, in una combinazione variamente assemblata di passioni erudite
ed antiquariali con un accresciuto senso di devozione pastorale da
esplicarsi anche nella cura attenta e consapevole con cui si provvedeva
alla conservazione e gestione dei fondi documentari così preziosi non
solo dal lato giuridico-istituzionale, ma anche nella loro capacità di
rafforzare nelle verità di fede attraverso il proprio intrinseco
potenziale di ricostruzione storica, una storia concepita ancora in
senso teleologico cioè finalizzata alla manifestazione della volontà
divina sugli uomini in un percorso coerente che vedeva nella Chiesa il
centro prospettico dominante e regolatore dello spazio storico.
Questa percezione dell’importanza culturale degli archivi trovò la sua
formalizzazione normativa nell’editto promulgato il trenta settembre
1704 dal cardinale camerlengo Giovan Battista Spinola, una
disposizione di somma importanza per lo sviluppo ed il progresso di
una legislazione di tutela estesa a tutti quegli oggetti che oggi sono
comunemente considerati e denominati “beni culturali”, dimostrando
una sensibilità “ante litteram” verso temi che solo più avanti nel

267
Quadri complessivi della storia delle due discipline si possono trovare in: H. BRESSLAU,
Manuale di diplomatica per la Germania e l’Italia, op. cit., capitolo I; G. CENCETTI,
Lineamenti di storia della scrittura latina, Pàtron, capitolo I.
268
Jean Mabillon (1632-1707) fondatore della diplomatica e paleografia latina con la sua opera in
sei libri De re diplomatica del 1681.
269
Bernard de Montfaucon (1655-1741) fondatore della paleografia greca con la sua opera
Palaeographia graeca del 1708.
270
René-Prosper Tassin (1697-1777), Charles-François Toustain (1700-1754) prosecutori e
perfezionatori del lavoro di Mabillon con l’opera Nouveau traité de diplomatique, sei volumi in
quarto pubblicati tra il 1750 ed il 1765.
147
tempo saranno percepiti di interesse comune, tale sensibilità può
avvertirsi chiaramente nell’introduzione dell’editto così come segue:

“Premendo sommamente alla paterna carità, e zelo di N. Sig. che si


conservino, quanto più si può, le antiche memorie, et ornamenti di
quest’Alma Città di Roma, quali tanto conferiscono à promuovere la
stima della sua magnificenza, e splendore appresso le Nazioni
straniere; come pur vagliono mirabilmente a confermare, et illustrare
le notizie appartenenti all’Istoria così sagra, come profana; quindi è
che per espresso commandamento della Santità Sua datoci a bocca, e
per l’autorità del nostro Offizio di Camerlengo rinovando,
confermando, et ampliando li bandi altre volte da Nostri Antecessori,
e da Noi publicati, e particolarmente quello in data delli 18 Luglio
1701, con cui si proibisce l’estrazione di statue, pitture, marmi,
metalli, figure, gemme, ed altre cose antiche, quale doverà
inviolabilmente osservarsi, dichiariamo, et ordiniamo…”271.

In effetti già dall’epoca rinascimentale i pontefici, consapevoli dei


tesori d’arte e antichità presenti nella città di Roma, paventandone il
saccheggio indiscriminato da parte di umanisti ed eruditi appassionati
di oggetti antichi, avevano provveduto ad emanare norme miranti ad
impedirne o almeno a limitarne il rischio di esportazione, tali norme
vennero a costituirsi in uno straordinario corpus denso di riferimenti
giuridico-culturali che saranno di stimolo alle future legislazioni sulla
tutela delle antichità e delle opere d’arte negli altri Stati pre-unitari e
finanche nello Stato italiano unitario; ma il valore di riferimento
dell’editto di cui si sta trattando non è dato solo dal suo porsi come
sintesi di tutta una serie precedente di norme simili, ma si fonda anche
sull’inserimento nel suo ambito squisitamente culturale di una serie di
oggetti finora esclusi da tale interesse in sede normativa, così, infatti,
prosegue l’editto:

“In oltre vedendosi trascurata l’osservanza degl’antichi bandi


emanati per la conservazione de libri manoscritti, et altre scritture
tanto pubbliche, quanto private, mentre varij artefici, o altre persone,
senza alcuna revisione, approvazione, o licenza si fanno lecito di
comprare indifferentemente ogni sorte di scritture manoscritte da
qualsivoglia persona, e convenendo con opportuno rimedio provedere
a si grave disordine, dichiariamo, e proibiamo, che nissuna persona
di qualunque grado, condizione, sesso, e qualità ardisca di vendere o
comprare sotto alcun pretesto qualsivoglia sorte di libri scritti a mano
tanto Volgari, e Latini, quanto Greci, Ebraici, e di qualunque altra

271
Enchiridion archivorum ecclesiasticorum, op. cit., pp. 65-66.
148
lingua così in carta pecora, come in carta bambacina, tanto intieri,
quanto divisi, rotti, e sciolti, come pure Instromenti, Processi,
Inventarij, Lettere, Bolle, Brevi, Diplomi, e qualunque altra sorte di
carte, overo pergamene manoscritte, sotto che nome, o titolo siano, se
non ne averà ottenuta particolar licenza in scritto dal Sig. Abbate
Domenico Riviera Prefetto dell’Archivio Apostolico di Castel S.
Angelo, overo dal Sig. Tomaso de Iulijs Custode dell’Archivio Segreto
Vaticano, quali la daranno gratis in nome nostro, prima che si
stabilisca la vendita, o almeno avanti che si consegnino al compratore
le scritture, e libri suddetti… Per l’istesse ragioni ordiniamo, e
commandiamo a tutti i Librari, Pizzicaroli, Battilori, Cartolari,
Dipintori, Cartonari, Tamburari, et altri Artegiani, che dentro il
termine di otto giorni prossimi doppo la pubblicazione del presente
Editto debbano aver notificato al suddetto Prefetto dell’Archivio di
Castel S. Angelo, overo al Custode dell’Archivio Segreto Vaticano
quei libri, e scritture di sopra descritte, che si troveranno di avere
nelle loro Botteghe, o altrove per uso, e servizio delle loro arti, e che
non ardischino, né presumano sotto qualsivoglia pretesto di
sciogliere, dividere, rompere, o guastare detti libri, e scritture, tanto
ad effetto di venderle, o valersene per legare altri libri, quanto per
adoperarle ad uso delle loro Arti, senza licenza di detto Prefetto
dell’Archivio di Castel S. Angelo, overo Custode dell’Archivio Segreto
Vaticano…”272.

Documenti d’archivio di vario genere, dunque, vennero a trovarsi


congiunti in una preoccupazione di tutela per fini culturali con altri
oggetti come opere d’arte e reperti archeologici dai quali, fino a quel
tempo, erano sempre stati distinti; se anche in precedenza non erano
mancati provvedimenti finalizzati al recupero di materiale
documentario di interesse ecclesiastico sottratto e disperso in vari
modi, tuttavia tali disposizioni erano sempre state inquadrate
nell’ottica dell’interesse della Santa Sede e di altre istituzioni
ecclesiastiche a preservare i loro patrimoni documentari per le
necessità di governo loro proprie, con questo editto, invece, si sanciva
la nuova percezione culturale degli archivi, imponendo un sistema di
controllo e valutazione dell’interesse culturale di documenti e scritture
poggiante sulle autorizzazioni rilasciate dalle maggiori autorità
archivistiche esitenti in Roma, il Prefetto dell’Archivio di Castel
Sant’Angelo ed il Custode dell’Archivio Segreto Vaticano.
Sistemi e forme che saranno ripresi anche nella più avanzata
normativa di tutela dei beni culturali emanata dallo Stato italiano,

272
Ivi, pp. 66-68.
149
anche se una norma organica comprendente anche gli archivi tra i beni
culturali si avrà solo con il recente Codice dei beni culturali del 2004.

Considerazioni finali

In questa trattazione si è tentato in sintesi di ricostruire l’evoluzione di


una cultura archivistica permeante le diverse componenti della Chiesa
cattolica, lo si è fatto indagando il rapporto sviluppatosi nelle varie
epoche tra le strutture ecclesiastiche e le modalità utilizzate nella
produzione, gestione e conservazione di complessi documentari, un
rapporto che, in alcune epoche soprattutto, si è potuto formalizzare in
norme che in via diretta o indiretta permettono di evidenziare
concezioni, mentalità, necessità materiali e linee di condotta che
hanno influito in varia dimensione sulle modalità e condizioni in cui
gli archivi ecclesiastici sono giunti fino a noi.
Questa dimensione conoscitiva naturalmente non esaurisce affatto lo
studio della storia degli archivi ecclesiastici e della cultura archivistica
risultante che necessitano di ricognizioni sistematiche per ciascun
archivio e di analisi complessive su larga scala possibili solo in
presenza di una ricca disponibilità di dati, ma si pone come
imprescindibile via preliminare allo studio di qualsivoglia fondo
archivistico ecclesiastico onde la necessità di possedere quel sistema
di coordinate particolari che aiuta ad inquadrare tali tipologie di
archivi nella loro corretta dimensione storico-culturale; una base di
partenza dunque che verrà di volta in volta adeguata all’incremento
delle conoscenze scaturenti dall’analisi effettiva dei complessi
archivistici.
Come si è visto nella prima parte della trattazione il rapporto tra la
Chiesa e la produzione documentaria si è sviluppato in tempi alquanto
rapidi, stante la natura comunitaria del cristianesimo e la sua tendenza
fin dai primi secoli a strutturarsi in istituzioni variamente organizzate
al fine di incidere con più efficacia sui modelli comportamentali, la
necessità di produrre e gestire documenti, quindi, è direttamente
proporzionale alla complessità organizzativa di ciascuna comunità, al
numero di fedeli che la compongono ed ai rapporti di comunione
sussistenti con altre comunità; dopo la legalizzazione del cristianesimo
da parte di Costantino comincia per la Chiesa un processo di lenta, ma
inarrestabile assimilazione di modelli culturali romani in vari ambiti,
compreso quello archivistico che si gioverà di strutture giuridiche,
tipologie documentarie e modalità gestionali quali la registrazione
150
palesemente desunte dalla prassi amministrativa ed archivistica
romana.
Nei secoli altomedioevali le comunità ecclesiali conservano in parte
tali tradizioni archivistiche di derivazione romana, di cui, comunque,
la massima erede è la Chiesa romana con la sua abitudine di
raccogliere e copiare i documenti dei papi in appositi registri, un
modello di condizionamento documentario che avrà un impatto assai
rilevante sull’intera organizzazione archivistica non solo delle Chiesa
di Roma, ma anche di altre chiese ed autorità laiche; fino al secolo
XII, però, sono gli enti ecclesiastici ad avere un monopolio quasi
assoluto sia nella produzione che, ancor più, nella conservazione di
materiale documentario tanto che tutte le tradizioni documentarie di
un qualche rilievo riconducono invariabilmente ad un qualche ente
religioso, tale monopolio si attenuerà e scomparirà con l’entrata in
scena di nuovi ceti e di nuove comunità ed istituzioni laiche quali
comuni e principati, necessitanti tutte di una ricca produzione
documentaria onde far fronte ad una società via via più complessa ed
articolata, ma le strutture ecclesiastiche sotto gli stimoli del processo
riformatore iniziato nel decimo secolo, della crescente autorità papale
e dello sviluppo del diritto canonico fortemente influenzato dal diritto
romano da poco riscoperto, si dotano di organizzazioni archivistiche
sempre più integrate tra loro, non vi è più, quindi, quella
autoreferenzialità dei depositi documentari conservati nelle chiese
particolari tipica del periodo altomedioevale, la loro dimensione
cellulare e ristretta viene progressivamente sostituita da reti
documentarie intercomunicanti ai diversi livelli di cui la società è
composta.
La Chiesa si fa sempre più organismo ed il suo vertice, il papato, pur
tra varie crisi, ne è considerato l’autorità indiscussa, la Curia romana
si sviluppa in un apparato complesso quanto lento e farraginoso e
ciascun ufficio dispone di archivi più o meno ricchi ed articolati, ma
sono soprattutto i papi a preoccuparsi della conservazione del
materiale archivistico di loro diretta competenza che tendono a
concentrare quanto più possibile presso le proprie sedi ubicate in
diversi palazzi a Roma, ma anche in altre città dello Stato della
Chiesa, intanto però anche altre strutture ecclesiali, soprattutto le
diocesi, cominciano a dotarsi di strutture amministrative più
complesse ed adeguate ai tempi, l’organizzazione archivistica,
tuttavia, stenta a trovare una sua collocazione autonoma in quanto
nell’ambito della produzione e della conservazione dei documenti è
onnipresente la figura del notaio, gli archivi diocesani, perciò, si
configurano in buona parte come archivi “thesaurus” formati da una
selezione di materiale considerato di particolare importanza, solo a
151
partire dal quattrocento ed in alcuni casi si produrrà una progressiva
assimilazione del personale notarile alle strutture funzionariali della
curia diocesana permettendo così lo sviluppo di veri e propri archivi di
sedimentazione.
Nel corso dell’età moderna si assiste ad un intenso processo di
accentramento e compattamento del corpo ecclesiale in sempre più
diretta dipendenza dall’autorità papale, è il tentativo di porre un argine
alle spinte disgregatrici delle confessioni riformate, uno sforzo che
impegnerà tutte le risorse umane, materiali e culturali della Chiesa e
che porrà in primo piano anche le problematiche amministrative ed
archivistiche, papi e vescovi, infatti, prendono coscienza della
necessità di archivi completi e ben organizzati al fine di esercitare
un’azione di governo coordinata ed efficace, è il periodo di massimo
sviluppo di una legislazione specificamente dedicata alle
problematiche archivistiche che troverà nell’arcivescovo di Milano,
Carlo Borromeo, il suo più autorevole ed avvertito produttore.
E’ anche il periodo in cui si istituiscono grandi archivi di
concentrazione per meglio controllare i depositi documentari necessari
alle attività di governo, i pontefici susseguentisi in quegli anni tentano
più volte di istituire un tale archivio riuscendo a creare e potenziare
due principali depositi archivistici nella città di Roma, l’Archivio di
Castel Sant’Angelo e l’Achivio Segreto Vaticano, quest’ultimo
destinato a divenire nel corso del settecento ed ancor più in seguito
l’archivio centrale della Chiesa, senza, tuttavia, riuscire ad assorbire
tutti i singoli archivi connessi ai diversi uffici della Curia, alcuni di
questi, infatti, permangono, autonomi e separati, nelle loro sedi
originarie ancora adesso.
Un fenomeno di grande importanza, infine, è dato dal progressivo
accrescimento dell’interesse culturale percepito dalle autorità
ecclesiastiche nei confronti dei loro ricchi patrimoni documentari, vari
sono i fattori che si combinano in tale percezione: influenza della
cultura umanistica con le relative passioni antiquariali, senso profondo
dell’attività pastorale da esplicarsi anche nella conservazione devota
delle testimonianze materiali prodotte dalla Chiesa nel corso dei
secoli, desiderio apologetico di esaltazione della propria fede
mediante ricostruzioni storiche impostate comunque su basi
controllabili come i documenti d’archivio; tutti questi fattori
contribuirono ad influenzare nel corso del seicento e del settecento la
produzione di norme e l’operato di grandi e piccoli prelati, tra cui
spicca per assoluta rilevanza l’attività di Vincenzo Maria Orsini, poi
papa Benedetto XIII, autore della Maxima Vigilantia, provvedimento
che riassume secoli di cultura e prassi archivistica nella Chiesa.
152
Il periodo tra la seconda metà del settecento e la prima metà di quello
successivo è segnato da profonde trasformazioni destinate a mutare in
maniera radicale i rapporti tra gli assetti ecclesiastici presenti nei
diversi territori e i moderni Stati nazionali, tali assetti vengono
ridisegnati sotto la spinta inarrestabile di culture e mentalità tendenti a
riformare le società in un senso più razionale, con maggiore apertura
verso il progresso scientifico ed economico e con insofferenza nei
confronti di quelle strutture ecclesiastiche generalmente ostili o
diffidenti nei confronti di tali strasformazioni, di conseguenza si
assiste ad un netto ridimensionamento in tutta l’Europa cattolica della
presenza di ordini, conventi e confraternite religiose, questi enti
vengono progressivamente soppressi in gran numero, i loro beni sono
requisiti dallo Stato ed anche i loro archivi sono staccati dai luoghi di
conservazione originari e concentrati in nuovi uffici appositamente
istituiti per gestire i beni requisiti.
Contemporaneamente l’accrescimento dell’interesse culturale nutrito
da studiosi ed eruditi nei confronti dei fondi archivistici appartenenti
ad uffici antichi ed ormai soppressi dopo l’ondata riformatrice del
periodo illuminista e Napoleonico, conduce allo sviluppo progressivo
di un’amministrazione archivistica autonoma composta da depositi di
concentrazione documentaria di funzione eminentemente culturale e
scientifica, ivi troveranno la loro sede definitiva molti fondi
documentari appartenenti alle corporazioni religiose soppresse.
La storia successiva vedrà come protagonisti il neonato Stato italiano
e il nuovo ordinamento ecclesiale, fortemente ridimensionato nelle sue
strutture istituzionali dopo l’unificazione, una storia assai complessa
ed ambigua nella specifica tematica archivistica, in cui le reciproche
interconnessioni ed influenze se ridotte al minimo sul piano della
formalizzazione normativa di respiro generale, hanno invece trovato
campo più aperto in un pulviscolo di iniziative su base locale di cui
dev’essere ancora ricostruita l’effettiva portata, solo negli ultimissimi
anni si è verificato un’intensificarsi della produzione normativa
sottoforma di intese bilaterali e di regolamenti generali di cui però è
ancora troppo prematuro azzardare un’analisi effettiva.
In ogni caso è sempre bene non dimenticare, quando si è di fronte ad
un fondo archivistico prodotto da un ente religioso, tutto il portato di
tradizioni, di mentalità e di prassi tecnico-amministrative derivanti da
una lunga evoluzione storica e che si pone come elemento intrinseco
di tutti i complessi archivistici prodotti e conservati nel vastissimo
apparato di enti e strutture costituenti la Chiesa cattolica nei secoli.

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